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© Mondadori Education 1 Seneca Il suicidio, via per raggiungere la libertà (Epistulae ad Lucilium, 70,14-19) L’occasione di questa epistola è offerta da una visita fatta da Seneca a Pompei, che, avendo richiamato alla mente del filosofo i ricordi della giovinezza, gli ricorda al tempo stesso quanto per lui sia vicina la morte. La riflessione sulla morte scivola lentamente sulla questione del suicidio e sull’opportunità, per il saggio e per l’uomo in generale, di ricorrervi quando è schiac- ciato dalla fortuna. Andando oltre la posizione dello stoicismo tradizionale, che ammetteva il suicidio solo se guidato da un’intenzione razionale, come atto di libera scelta di un uomo libero per definizione, Seneca lo esalta invece come gesto estremo di libertà: se l’esistenza umana è costrizione, se il corpo è il ‘carcere’ dell’anima, ognuno di noi, per sottrarsi all’oppressione della vita, può, anzi deve scegliere la morte. Riportiamo la parte centrale della lettera, più diretta- mente dedicata al tema del suicidio. [14] Invenies etiam professos sapientiam qui vim adferendam vitae suae negent et nefas iudicent ipsum interemptorem sui fieri: expectandum esse exitum quem natura decrevit. Hoc qui dicit non videt se libertatis viam cludere: nihil melius aeterna lex fecit quam quod unum introitum nobis ad vitam dedit, exitus multos. 14 Invenies … multos: Invenies … fieri: «Troverai anche dei sapienti che affermano che non deve essere fatta violenza contro la propria vita, e che giudicano un atto di empietà farsi uccisore di se stesso»; professi sapientiam (lett.: «coloro che hanno fatto professione di saggezza») sono i filosofi come Socrate, gli accade- mici e i peripatetici, che rifiutano il suicidio; la perifrasi ha in Sene- ca sempre un significato negativo, indicando una filosofia ‘falsa’ o erronea rispetto alla ‘vera’ sapien- za praticata dagli stoici; qui negent e (qui) iudicent sono frasi relative con valore consecutivo; adferen- dam (sott. esse) è un’infinitiva retta da negent (che in latino ha sempre il significato di «dire che non»); in- teremptorem è nomen agentis dal verbo interimo, qui in unione col ge- nitivo del pronome riflessivo. • ex- pectandum esse: l’infinitiva dipende da un sottinteso verbum dicendi che si deduce dal precedente iudicent. • nihil … multos: l’aeterna lex è la leg- ge universale di natura, il principio divino che regola l’universo; melius … quam introduce una comparazio- ne, nella quale il secondo termine è costituito dalla frase dichiarativa quod … dedit.

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Seneca

Il suicidio, via per raggiungere la libertà(Epistulae ad Lucilium, 70,14-19)

L’occasione di questa epistola è offerta da una visita fatta da Seneca a Pompei, che, avendo richiamato alla mente del filosofo i ricordi della giovinezza, gli ricorda al tempo stesso quanto per lui sia vicina la morte. La riflessione sulla morte scivola lentamente sulla questione del suicidio e sull’opportunità, per il saggio e per l’uomo in generale, di ricorrervi quando è schiac-ciato dalla fortuna. Andando oltre la posizione dello stoicismo tradizionale, che ammetteva il suicidio solo se guidato da un’intenzione razionale, come atto di libera scelta di un uomo libero per definizione, Seneca lo esalta invece come gesto estremo di libertà: se l’esistenza umana è costrizione, se il corpo è il ‘carcere’ dell’anima, ognuno di noi, per sottrarsi all’oppressione della vita, può, anzi deve scegliere la morte. Riportiamo la parte centrale della lettera, più diretta-mente dedicata al tema del suicidio.

[14] Invenies etiam professos sapientiam qui vim adferendam vitae suae negent et nefas iudicent ipsum interemptorem sui fieri: expectandum esse exitum quem natura decrevit. Hoc qui dicit non videt se libertatis viam cludere: nihil melius aeterna lex fecit quam quod unum introitum nobis ad vitam dedit, exitus multos.

14 Invenies … multos: Invenies … fieri: «Troverai anche dei sapienti che affermano che non deve essere fatta violenza contro la propria vita, e che giudicano un atto di empietà farsi uccisore di se stesso»; professi sapientiam (lett.: «coloro che hanno fatto professione di saggezza») sono i filosofi come Socrate, gli accade-mici e i peripatetici, che rifiutano il suicidio; la perifrasi ha in Sene-

ca sempre un significato negativo, indicando una filosofia ‘falsa’ o erronea rispetto alla ‘vera’ sapien-za praticata dagli stoici; qui negent e (qui) iudicent sono frasi relative con valore consecutivo; adferen-dam (sott. esse) è un’infinitiva retta da negent (che in latino ha sempre il significato di «dire che non»); in-teremptorem è nomen agentis dal verbo interimo, qui in unione col ge-

nitivo del pronome riflessivo. • ex-pectandum esse: l’infinitiva dipende da un sottinteso verbum dicendi che si deduce dal precedente iudicent. • nihil … multos: l’aeterna lex è la leg-ge universale di natura, il principio divino che regola l’universo; melius … quam introduce una comparazio-ne, nella quale il secondo termine è costituito dalla frase dichiarativa quod … dedit.

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[15] Ego expectem vel morbi crudelitatem vel hominis, cum possim per media exire tormenta et adversa discutere? Hoc est unum cur de vita non possimus queri: neminem tenet. Bono loco res humanae sunt, quod nemo nisi vitio suo miser est. Placet? Vive. Non placet? Licet eo reverti unde venisti. [16] Ut dolorem capitis levares, sanguinem saepe misisti; ad extenuandum corpus vena percutitur. Non opus est vasto vulnere dividere praecordia: scalpello aperitur ad illam magnam libertatem via et puncto securitas constat.Quid ergo est quod nos facit pigros inertesque? Nemo nostrum cogitat quandoque sibi ex hoc domicilio exeundum; sic veteres inquilinos indulgentia loci et consuetudo etiam inter iniurias detinet. [17] Vis adversus hoc corpus liber esse? Tamquam migraturus habita. Propone tibi quandoque hoc contubernio carendum: fortior eris ad necessitatem exeundi. Sed quemadmodum suus finis veniet in mentem omnia sine fine concupiscentibus? [18] Nullius rei meditatio tam necessaria est; alia enim fortasse exercentur in supervacuum. Adversus paupertatem praeparatus est animus: permansere divitiae. Ad contemptum nos doloris armavimus: numquam a nobis exegit huius virtutis experimentum integri ac sani felicitas corporis. Ut fortiter amissorum desideria pateremur praecepimus nobis: omnis quos amabamus superstites fortuna servavit. [19] Huius unius rei usum qui exigat dies veniet. Non est quod existimes magnis tantum viris hoc robur fuisse quo servitutis humanae claustra perrumperent; non est

15 Ego … venisti: Ego … discutere?: expectem è congiuntivo dubitativo e cum possim ha valore concessi-vo («pur potendo io…»); adversa è neutro plurale sostantivato. • Hoc est … tenet: hoc è prolettico e ripre-so dall’interrogativa indiretta cur … non possimus; tenet è usato qui nel senso di «trattiene». • bono loco: «in una buona posizione». • Placet? … venisti: placet («Ti piace?») sot-tintende come soggetto vita; eo è avverbio di moto a luogo («là»), in correlazione con unde.16 Ut … detinet: Ut … percutitur: allusione alla pratica del salasso, comunemente usato come rimedio terapeutico contro le più varie ma-lattie (qui il mal di testa), e anche come cura per l’obesità (extenuo qui vale «snellire, dimagrire»). • Non opus … constat: praecordia («il petto») è propriamente la parte dell’addome inferiore al diafram-ma, ma indica in senso lato la parte vitale del corpo umano; scalpellum («bisturi») è il ferro del chirur-go; puncto sottintende temporis. • quandoque … exeundum: quan-doque è avverbio («prima o poi»); exeundum sottintende esse e regge

il dativo d’agente sibi. • sic … deti-net: «così la familiarità del luogo e l’abitudine trattengono anche in mezzo ai disagi i vecchi inquilini».17 Vis … concupiscentibus?: tamquam migraturus: «come se do-vessi andartene»; tamquam + parti-cipio futuro introduce una compa-rativa ipotetica rivolta al futuro. • Propone … carendum: tibi dipende apò koinù sia da propone («poniti di fronte», quindi «mettiti in mente») sia, come dativo d’agente, da caren-dum (sott. esse); hoc contubernio è ablativo di privazione. • fortior … exeundi: «sarai più forte di fronte alla necessità di andartene». • Sed … concupiscentibus?: ordina Sed quemadmodum suus finis veniet in mentem concupiscentibus (= iis qui concupiscunt) omnia sine fine?; concupiscentibus regge l’accusativo neutro sostantivato omnia.18 Nullius … servavit: Nullius … in supervacuum: «La meditazione di nessun’altra cosa è così necessaria; per le altre cose ci esercitiamo inva-no (lett.: le altre cose si esercitano, si preparano invano)». • permanse-re = permanserunt. • numquam … corporis: «la salute (felicitas) di un

corpo sano e vigoroso non ha mai richiesto da noi la prova di questa virtù». • Ut … nobis: ut … pateremur è una completiva retta da praecepi-mus; amissorum è genitivo maschi-le plurale del participio sostanti-vato amissus; desideria indica pro-priamente la «mancanza» di qual-cosa o qualcuno che non c’è più. 19 Huius … fecerunt: Huius … ve-niet: «Di questa sola virtù verrà il giorno che richieda la messa in pratica»; huius unius rei si riferisce a nullius rei meditatio (cioè la me-ditatio mortis) all’inizio del para-grafo 18; qui exigat è una relativa con valore consecutivo. • Non est … perrumperent: «Non c’è ragione che tu pensi che soltanto i grandi uomini abbiano avuto questa forza di infrangere le catene della servi-tù umana»; quod existimes è una dichiarativa in dipendenza da non est, e regge a sua volta l’infinitiva magnis … viris hoc robur fuisse (co-struzione del dativo di possesso); hoc robur è prolettico ed è specifi-cato dalla proposizione relativa fi-nale quo … perrumperent. • non est … extraxit: ordina non est quod iu-dices hoc non posse fieri nisi a Cato-

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quod iudices hoc fieri nisi a Catone non posse, qui quam ferro non emiserat animam manu extraxit: vilissimae sortis homines ingenti impetu in tutum evaserunt, cumque e commodo mori non licuisset nec ad arbitrium suum instrumenta mortis eligere, obvia quaeque rapuerunt et quae natura non erant noxia vi sua tela fecerunt.

ne, qui extraxit manu animam quam ferro non emiserat. • vilissimae … rapuerunt: ordina homines vilissi-mae sortis ingenti impetu in tutum evaserunt, cumque non licuisset e

commodo mori nec eligere instru-menta mortis ad arbitrium suum, rapuerunt («afferrarono») quaeque obvia; vilissimae sortis è genitivo di qualità. • et quae … fecerunt: «e og-

getti che per natura erano inoffen-sivi, li trasformarono in armi con la loro forza».

Guida alla lettura

LINGUA E STILELa morte come exitus Il discorso di Sene-ca si organizza in questi paragrafi attorno a una serie di metafore, la principale delle quali è quella della morte come exitus (par. 14: expectandum esse exitum quem natura de-crevit, e poco più sotto unum introitum nobis ad vitam dedit, exitus multos, che ‘attrae’ l’im-magine parallela della vita come «ingresso», introitum). Lo dimostrano anche le numero-se ricorrenze del verbo exeo (exire, par. 15; exeundum, par. 16; exeundi, par. 17). Si tratta di una metafora diffusa, ma che riceve una particolare pregnanza qui, in un contesto che ‘sdrammatizza’ la morte per vedere in essa semplicemente un’‘uscita’ dalla vita (un even-to quindi per niente traumatico). Il corpo come dimora dell’anima La meta-fora si precisa, al paragrafo 16, nell’imma-gine del corpo come domicilium dell’anima, un’idea di origine platonica, assai frequente anche in Seneca, come per es. in Epistulae ad Lucilium, 65,17: «così l’animo, rinchiuso in questa triste e oscura dimora (in hoc tristi et obscuro domicilio clusus), ogni volta che può esce all’aperto e contemplando la natura tro-va riposo». L’uomo, dunque, «abita» il corpo come una sorta di «inquilino», destinato pri-ma o poi a «trasferirsi» (tamquam migraturus

habita, par. 17).Il suicidio come via libertatis Legata a que-sta è la metafora del suicidio come via liber-tatis (parr. 14 e 16), che ha il suo corrispetti-vo al paragrafo 19, nell’altra immagine del-la morte come «rottura dei catenacci» della servitù umana, come evasione dal «carcere» della vita (servitutis humanae claustra per-rumperent). Questa metafora dei «catenacci infranti», anch’essa piuttosto comune, in ul-tima analisi rielabora e modifica una celebre immagine di Lucrezio, che nel suo elogio di Epicuro lo presenta come colui che osò «for-zare» i claustra della natura per scoprirne i segreti (De rerum natura, 1, v. 70 s.: effringe-re ut arta / naturae primus portarum claustra cupiret, «sì che desiderò per primo forzare le chiuse sbarre delle porte della natura»).

TEMI E MOTIVISuicidio e libertà La metafora della via li-bertatis esprime quella che è l’idea concet-tualmente centrale del nostro passo, il sui-cidio come affermazione suprema di libertà: un’opzione sempre praticabile per l’uomo, che in ogni momento può così facilmente sottrarsi allo strapotere della sorte e alle av-versità della fortuna. Il motivo ricorre spesso in Seneca; oltre a Epistulae ad Lucilium, 12,10,

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possiamo citare il discorso che il filosofo fa pronunciare dal dio agli uomini in De provi-dentia, 6,7: «Ma soprattutto mi sono preoccu-pato che nessuno potesse trattenervi contro voglia: la via d’uscita è sempre aperta. Se non volete battervi potete fuggire. Per questo, di tutte le cose che ho voluto vi fossero neces-sarie, la morte è quella che ho reso più facile. Ho messo la vostra vita su un piano inclinato, dal quale si scivola via in un attimo. Riflette-te solo un poco e vedete come breve e facile è il cammino verso la libertà (quam brevis ad libertatem et quam expedita ducat via)». Il di-scorso prosegue con l’idea che è stato con-cesso all’uomo un solo «ingresso» alla vita, ma molte vie d’uscita (qui al par. 14): «Non ho messo all’uscita tutti gli ostacoli posti all’en-trata (non tam longas in exitu vobis quam in-trantibus moras posui); la sorte avrebbe avu-to su di voi troppo potere se l’uomo dovesse impiegare tanto a morire quanto a nascere». I mezzi con cui darsi la morte Un elenco dei mezzi che l’uomo ha sempre a portata di mano per porre fine alla sua schiavitù è of-ferto in De ira, 3,15,4, dove si insiste analoga-mente sulla loro facile disponibilità (come qui nel par. 16): «Dovunque tu volga lo sguardo, puoi trovare una fine ai tuoi mali. Vedi quel precipizio? Per di là si scende verso la libertà. Vedi quel mare, quel fiume, quel pozzo? Là in fondo c’è la libertà. Vedi quell’albero basso, secco, disgraziato? La libertà pende di lì. Vedi il tuo collo, la tua pelle, il tuo cuore? Sono tutti mezzi per evitare la schiavitù. Ti indico forse dei mezzi, per liberarti, troppo faticosi, o che esigono troppo coraggio e troppa forza? Mi chiedi la via per la libertà? Qualunque vena del tuo corpo può diventarlo!».La meditatio mortis come pratica quotidia-na A partire dal paragrafo 16 Seneca introdu-ce il concetto che, se la morte è a portata di mano, la riluttanza degli uomini a ricorrervi è data dal fatto che essi non sono abituati a im-maginarla, non hanno meditato a sufficienza

su di essa: è l’idea della meditatio mortis (par. 18), un tema caro alla filosofia di Seneca e de-gli stoici in generale. Esso rientra nel motivo più generale della praemeditatio futurorum malorum, la meditazione sui mali futuri che possono colpire l’uomo (la povertà, il dolore, la perdita dei propri cari), intesa come ‘eser-cizio’ che aiuta a prevenire e meglio soppor-tare ogni eventuale sventura. Soltanto che, come Seneca afferma qui esplicitamente (par. 18), mentre l’esercizio di meditazione su tutte le altre disgrazie può risultare inutile, poiché queste, alla prova dei fatti, possono non verificarsi, solo la meditatio mortis, vista l’ineluttabilità di questo evento, è assoluta-mente necessaria.Il concetto della meditatio mortis, che appar-teneva già al pensiero di Platone (Fedone, 80a), diventa in Seneca esercizio quotidiano, pratica assidua finalizzata a valorizzare la vita, oltre che a preparare alla morte (per es. De brevitate vitae, 7,3: «ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che forse ti stupi-rà di più, ci vuole tutta una vita per imparare a morire»; inoltre l’epistola 61). L’applicazio-ne di questa ‘terapia’ avrà come risultato una vita serena, libera da ogni timore. Meditazione sulla morte come meditazio-ne sulla libertà I due motivi della meditatio mortis e del suicidio come scelta di libertà si trovano riuniti in Epistulae ad Lucilium, 26,10, dove la meditazione sulla morte viene ap-punto a coincidere con la meditazione sulla libertà: «“Medita sulla morte”: chi parla così ci esorta a meditare sulla libertà. Chi ha impara-to a morire ha disimparato a servire: è supe-riore, certamente non è soggetto, a qualsiasi potere. Che cosa importano a lui le carceri, le guardie, i catenacci? Egli ha una porta aper-ta. Una sola è la catena che ci tiene avvinti, l’amore per la vita; e noi non dobbiamo di-struggerlo, ma diminuirlo questo amore, di modo che, se le circostanze lo esigeranno, niente ci trattenga o ci impedisca di essere

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preparati a compiere subito ciò che una volta o l’altra si deve compiere».

MODELLI E TRADIZIONEIl suicidio di Catone Campione della liber-tà stoica è per Seneca Catone Uticense (par. 19), che di fronte al soccombere della repub-blica si dette la morte, rivendicando così, attraverso il suicidio, l’ideale supremo della libertà. L’accenno alla morte di Catone, avve-nuta, per così dire, in due tempi (qui quam ferro non emiserat animam manu extraxit), trova riscontro nella tradizione storiografica, e in particolare in Plutarco (Vita di Catone 70): «Catone sguainò la spada e se la conficcò sotto il petto; non morì subito, perché, per la ferita della mano, aveva potuto spingere con minor forza. […] Poiché le interiora non era-no rimaste lese, il medico si avvicinò, cercò di rimetterle al loro posto e di ricucire la ferità. Ma appena Catone si riebbe e capì, mandò via il medico, riaprì la ferita, si strappò le vi-

scere con le mani e morì». Lo stesso Seneca descrive il medesimo episodio in vari punti delle sue opere, soprattutto in Epistulae ad Lucilium, 24,8: «Indi aprì nel suo corpo una ferita mortale, che i medici subito fasciaro-no; e poi, venendogli meno via via il sangue e le forze, ma non il coraggio, ormai adirato non solo contro Cesare, ma anche contro se stesso, introdusse la mano inerme nella feri-ta; e quella sua anima nobile, che disdegna-va ogni forma di prepotenza, non la esalò, la cacciò fuori (et generosum illum contempto-remque omnis potentiae spiritum non emisit sed eiecit)».Un doppio suicidio Quello di Catone è dun-que un esempio eccezionale ed estremo di un uomo che quasi si suicida due volte, strap-pandosi letteralmente con le sue stesse mani la vita; ma Seneca tiene a puntualizzare che non è necessario essere all’altezza di Catone per scegliere il suicidio, che è comunque un gesto alla portata di tutti.