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Letteratura italiana Einaudi Il sole a picco di Vincenzo Cardarelli

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Letteratura italiana Einaudi

Il sole a picco

di Vincenzo Cardarelli

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Edizione di riferimento:in Opere, a cura di Clelia Martignoni, Mondadori, Milano 1981

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Il mio paese 2Fine d’una banda 14Elegia etrusca 20Villa Tarantola 22Il contadino 28Alessandrone 29Re Tarquinio 32Morte di Re Tarquinio 37La ferriera 42Memorie 50Il buffet della stazione 54Primi passi 60Anni di gioventù 68Soggiorno in Toscana 75Le campane di Firenze 77Capri 79Lago 83Interno 87La comacina 92La vita quotidiana 97Insonnia 105Astrid ovvero Temporale d’estate 108

Sommario

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Chi bello vuol comparìqualcbe cosa bisogna sofrì.

(detto popolare cornetano)

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Vincenzo Cardarelli - Il Sole a picco

IL MIO PAESE

Il paese dove nacqui, dove ho trascorso l’infanzia eparte della giovinezza, e conobbi il primo amore, si chia-mava una volta Corneto Tarquinia. Più comunementeCorneto. Adesso hanno avuto la bislacca idea di soppri-mere questa prima e legittima denominazione attenen-dosi alla seconda, che appartiene in verità a una collinapiù indietro, ma io seguiterò a chiamare il paese comel’ho sempre chiamato, giacché dimenticare un nome co-sì antico per me e così famigliare non mi sarebbe facile.Chi perciò intendesse «scherzarmi», come si dice inLombardia, potrei rispondere per aver un bel paio dicorna non è necessario essere di Corneto; che da noi lecorna fanno così poco paura che si tengono per orna-mento sui credenzoni; convenientemente vuotate e lavo-rate, il villano se ne giova ad uso di recipiente per por-tarsi l’olio in campagna, come si serve delle zucche permetterci il sale; e che, del resto, per chi non lo sapesse,Corneto non viene da corno ma da corniolo, che è ap-punto l’albero dipinto sullo stemma del Municipio. Unbel legno, in fede mia! Durissimo e irrosicchiabile, dalfusto esile e affilato come lama, dà bacche rosse easprette e se ne fanno, i butteri e i massari, le loro maz-zerelle acuminate, che io immagino debbano somigliareagli scettri dei primi pastori di popoli e alle terribili astedegli eroi omerici.

Pare che una volta, attorno al mio paese, per quanto èvasto il suo territorio, fosse tutta una macchia di cornio-li; selva riccia, ispida e fitta, popolata di cinghiali e bat-tuta da ladroni di strada, dove il pellegrino che andava aRoma si addentrava con paura. Albergo di fiere e di bri-ganti. Così Dante rappresentò questo paese o piuttostole sue incolte campagne. E mi figuro il suo aspetto nelMedioevo. Cinto da una difesa naturale così orrida e im-

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pervia, fieramente turrito e murato sull’alto d’una colli-na, spandeva intorno un tale spavento che ancora oggichi s’affacci alle sue mura, fin dove l’occhio arriva, nonscopre traccia d’abitato. Ben si comprende come potes-se spadroneggiare sopra un territorio tre volte superioreai bisogni della sua minuscola popolazione, cui fanno li-mite il monte e il mare; e come, primo tra i comunid’Italia, osasse proclamarsi libero dall’ingerenza papale.Nelle guerre il nemico, per giungere sotto le sue mura,doveva appiccar fuoco alle selve; e nascevano incendicolossali che affumicavano le torri e l’oro dei mosaicidelle facciate delle chiese.

L’impressione che fa Corneto a chi vi scende per laprima volta può variare, secondo la stagione. Ma la pol-vere e il vento sono d’ogni mese; e quell’inevitabile tri-stezza che gli deriva doppiamente dall’essere un paesedi maremma e così antico. Pieno di luoghi e di monu-menti abbandonati e sinistri, perfino di strade dove nonpassa più nessuno. Nel suolo cavernoso e sconquassato,tre civiltà, per lo meno, giacciono, l’una sopra l’altra,stratificate, e più l’uomo scava, più s’accorge che il tem-po da cui data la sua presenza in questi luoghi si confon-de con l’età della terra, è più antico assai della sua me-moria. Un vago senso e disgusto di tutto questo fa sì chei cornetani battezzino volentieri i loro tesori archeologi-ci con nomi dispregiativi. Basti dire ch’essi chiamano«palazzaccio» il palazzo Vitelleschi, uno dei più belliedifici del Rinascimento. Non è raro trovare in una vi-gna, in un orto, un sarcofago etrusco o romano ridottoad uso di vasca per lavare gli erbaggi. Quei famosi co-perchi sepolcrali su cui, scolpiti nel tufo, tipi di crapulo-ni enormi e discinti, matrone dalle grandi facce severe,piene di carne, stanno adagiati e sollevati sopra un go-mito, quasi in atto di alzarsi e disposti a favellare, comese ne avessero abbastanza d’esser morti, vi compaiono

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innanzi da per tutto, in città e fuori, riaffondati nella ter-ra e coperti di borraccina.

Qui la campagna coltivata, secondo l’uso maremma-no, a rotazione, è nuda, ondulata, sempre un po’ buia etetra e sparsa di melanconiche rovine. Le rive del maresono squallide e malariche. Per lunghissimo tratto, dallaLanterna di Civitavecchia fino al monte Argentato chesorge bianco e abbagliante sotto il sole come una monta-gna d’alluminio, non vi si vede altro edificio che il Ba-gno Penale del porto Clementino, vecchio di qualche se-colo. Dalla parte di monte, si scorgono di sera i lumi diMontefiascone, lontani lontani, e sul versante opposto,un poco più sotto, la montagna di Monteromano, la Co-rona, cinta di quercie alla cima. Poi un acquedotto sei-centesco che sparisce e riappare in mezzo a una fuga dicolli, l’immancabile cimitero alto sulla rupe, che pareuna scena di Boecklin, le tombe etrusche, i grottinidell’acqua, le mille fosse e burroni e grotte naturali e so-pra tutto, posata su due colline, la vecchia Tarquinia se-polta tra le ginestre, bianca e ventosa.

Ecco però che venendo su dalla stazione, via via checi si accosta all’abitato, si cominciano a vedere, sul decli-vio del colle, terreni chiusi, coltivati a vigna e frutteto,uliveti scuri e macri sulla roccia; e la campagna prendedi botto un aspetto ridente e nobile. Un fiume scorre daun lato, sotto le mura, tra pioppi e canneti, riempiendola valle operosa di canti d’usignoli. Lì è il punto buono esonoro, dove, nelle mattine di primavera, è un piacerestarsene affacciati alla ripa e ascoltare i rumori che giun-gono, portati dal vento, da tutta la gran vallata. Si odegiù sotto l’ortolano che parlotta placidamente attenden-do alla sua opera. Voci alte e smarrite, voci che chiama-no, sorgono di tanto in tanto dai campi e si confondonocol clamore della cascata. Le donne sbattono i panni allafontana e cantano, con voce che va lontano, la loro can-tilena consueta, mentre il sole bolle negli orecchi e l’aria

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è piena di rombi e di fruscii. Il carro, lanciato a rotta dicollo per la discesa, rotola e rimbalza con un fragore si-mile a quello del tuono. E qualche volta ci si aggiunge,dal sottostante mattatoio, il mugghio del bove recalci-trante, l’abbaiare furioso del cane che cerca di strasci-narlo azzannandolo per la lingua e il tonfo cupo dellamazzata.

Dice il proverbio:

Chi ha bevuto l’acqua di Fontana Novasempre a Corneto si ritrova.

Di quell’acqua, ahimè, quanta n’ho bevuta!

Sono tornato di recente al mio paese. L’ho riveduto.Erano le tepide giornate d’acqua e sole che il dicembreci regala qualche volta. Caccia aperta. La campagna ma-terna, già verde di grano, si mostrava in un aspetto nuo-vo, dolcissimo, con linee così tenere e ondulate verso ilmonte da far pensare a un paesaggio di sabbia fatto dalvento. Qualchecosa di desertico invero, e del fondod’un mare, è nella struttura della mia terra nuda, ampia-mente distesa e priva di ogni asperità, quasi lasciva; sene togli la dirupata collina sulla quale sta l’abitato. Es-sendo spiovuto da poco, i fossi scolavano, tutto goccio-lava. Le torri corsare, a contatto dell’aria dolce, pareva-no rinverdire e sorgevano isolate in mezzo ai prati lindi evellutati, come tronchi d’albero giganteschi e secolari,pieni di linfa. Giù verso il mare, la pianura, fin troppoverdeggiante e persino un po’ insipida, fuggiva comesempre a perdita d’occhio, col suo immancabile treninoche la percorre; come un bruco: paese anonimo di pa-stori e cacciatori. Ma dalla vista consueta della marina,con le sue Saline e il suo Bagno Penale, dalla maremmafortunosa, l’occhio si torceva e riposava contemplando,più sotto, il pensoso raccoglimento delle valli che cir-

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condano la morta Tarquinia: così immensamente remo-ta, con quell’ombra di vetustà che la intristisce in ogniora, in ogni stagione; acquattata dietro altissime rupi dacui, confuse con lo scoglio, si sporgono chiesuoledell’anno mille, e dove il silenzio e la solitudine hannodel sovrumano. Stavo sul ciglio d’un abisso. E di lì vede-vo la pericolante positura del mio protervo paese, tuttocostruito su precipizi, protetto da torri e da mura e dife-so naturalmente dall’impervia scogliera come un nido dipirati. Delle sue chiese più pregevoli, elevate sulle altureestreme, fuori della cinta e in vista del nemico, non sai seabbia voluto farsi una gloria insolente o un ultimo scher-mo. Come fiumi che rompono le dighe, le strade acci-dentate si rovesciano fuori delle porte, rovinando a valleper ogni verso. Stavo, direi quasi, ascoltando tutte que-ste cose che apparivano sotto i miei occhi, allorché unostormo di cornacchie che mi passò sopra il capo venne adarmi l’annunzio più certo che ero nel cuore della miaterra.

Così armato e guerriero, fu un paese gentilissimo, fat-to proprio con grazia, concepito per pochi abitanti, macon l’orgoglio della perfezione in tutto. Mai come que-sta volta me n’ero accorto. Minuscolo paese: un gingillo.Chiese, torri, campanili, case gentilizie, archi e logge,strade e piazze, ogni cosa corrisponde a un leggiadroprincipio d’armonia, di civiltà e d’utilità pubblica. Dallepreziose cappellette romaniche erette per quattro devo-ti, con spreco di colonne enormi all’interno, fino alleabitazioni barocche e alle viuzze che portano impresso,dolcemente ricurve, il gusto del Seicento e del Settecen-to, tutto par fatto in questo paese, di epoca in epoca,con l’amore del piccolo, al solo scopo di portarvi in pro-cessione il Santissimo; e perché non avesse, in così pocospazio e senza spingersi oltre il cerchio delle mura, amancare di nulla; neppure del senso e del decoro delledistanze, splendidamente create e conservate in virtù

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della varia fisionomia delle contrade e della distinzionenetta fra il sacro e il profano, il nobile e l’ignobile, ilpubblico e il privato.

Penso a quella mesta e tetra regione di Santa Croce odell’Ospedale, tutta circondata da fienaie, conventi, an-tiche e rovinate corti col pozzo di marmo in mezzo; laquale, non essendo lastricata, bensì massicciata con ter-ra gialla, per rendere meno grave ai malati il rumore deicarri e dei passi umani e spegnere la risonanza delle vo-ci, si dice anche «l’ammattonato», Chi la percorre dinotte, sente a un tratto il suo passo divenir sordo, cupo,e tutto, da quelle parti, sa di ospedale, di odori di farma-cia, di Fatebenefratelli e di cappella ardente.

È in una delle sacrestie di Santa Croce che s’apparec-chia, il Giovedì Santo, la cena degli Apostoli. Il paese in-tero sfila davanti a una lunga tavola imbandita e ricolmadi tutti i frutti della California. Dodici vecchi avanzi digalera, impaludati nel camice bianco, aspettano l’ora difarsi lavare e baciare i piedi dal Vescovo in pompa ma-gna, per poi mettersi a mangiare a quattro palmenti.

Da San Giuseppe si nomina un’altra parrocchia delmio paese. Questa è gloriosa per possedere la macchinadel Redentore, grande, roseo, bellissimo, con gli occhicelesti e un’incredibile ferita sul fianco, che si porta inprocessione la sera del Sabato Santo, prima che cali ilsole, correndo, con un seguito di tronchi enormi chefanno selva. Lungo il suo viaggio, dalle finestre, si spara-no fucilate in aria: le campane si sciolgono e suonanotutte a festa. Mentre questo accade, giunta la processio-ne in cima alla piazza, il Cristo risorto che molleggia,portato a spalla, sopra un mare di teste, come nave inmezzo alla burrasca, si volta e, col braccio alzato, posaun momento a benedire il popolo genuflesso, pieno difelicità e di benessere, già col sapore delle uova pasqualiin bocca.

Ma la più gaia parrocchia del mio paese è, senza para-

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gone, quella di Sant’Antonio, protettore delle bestie.Che Sant’Antonio ci aiuti!

Laggiù è tutt’aria di mare: son tutti mangiatori di pe-sce e bevitori. Chiamano la loro allegra contrada, conuna vaga intenzione d’autonomia, «il villaggio», Guai achi gliela tocca! La gran festa del villaggio ricorre il 17gennaio: procace esordio alla stagione dei fegatelli. È unsuccedersi di spettacoli grotteschi e morali che si svolgo-no sopra un bel prato, davanti all’antica cattedrale delsanto patrono, dove io feci molti sogni da bambino, dacui si scopre il mare e il sole già vicino al tramonto. Quae là le famiglie seggono a merenda; troneggiano sui car-retti montagne di fiaschetti di vino. Per non parlaredell’albero della cuccagna, così alto, liscio e insaponato,sul quale uno, vestito in maglia, cerca d’arrampicarsi perarrivare a cogliere le salsicce e tutto quel ben di Dio chesta penzoloni lassù, dirò del gioco della pignatta ovvero-sia dell’uomo messo nel sacco. Il più scemo del villaggio,chiuso nel sacco fin sulla testa, può metter fuori soltantole braccia. E con queste, armato d’una lunga pertica, in-ciampando spesso e andando a cadere a faccia avanti,stambura l’aria, nella speranza di cogliere in una fila dipignatte, appese al di sopra di lui; da una delle quali,colpita e rotta, piove sul capo del disgraziato giocatoreacqua, da un’altra cenere, da un’altra un topo, da un’al-tra un pipistrello esce a volo, impazzito, e finalmente daqualcuna possono anche piovere castagne secche e qual-che baiocco da due. Oh invidia!

Si costuma, pure, in quel giorno, far correre gli asini:strepitosa usanza, parodia, caricatura anticipata di quel-le corse dei barberi che si fanno in primavera o sul finirdell’estate, quando il sangue degli animali è più focoso eanche il vino. Questa dei somari, in pieno inverno, è unacorsa del tutto fuori stagione. Ha luogo su per un’ertastradetta, fuori dell’abitato, dove lo stradino non passamai e che scopre i ciottoli e le buche al vento di tramon-

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tana. Non essendo di maggio il ciuco è torpido e ha po-chissima voglia di fare il bravo. Sono sgropponate folli,sculettoni che volano, strattoni a dritta e a mancina, de-gl’incredibili corsieri infuriati e tartassati da comitive dimatti che fazionano lungo la pista, s’affollano alla par-tenza, li aizzano, li pungono, li trattengono per la coda,gliene fanno d’ogni colore. Come Dio vuole si riesce adar loro l’avvìo. Eccoli, tra le risate e gli urli che arriva-no al cielo, partire all’impazzata, in tutte le direzioni,sempre sgropponando, sculettando e, per così dire, svo-lazzando, come cicale a cui abbiano infilzata una pa-gliuzza nel culo. La gente savia assiste al burlesco spetta-colo a riparo d’un muricciolo di chiusa. È ildopopranzo. Il gennaio è chiaro e non fa molto freddo.Il sole dà sugli occhi a quell’ora. Le ragazze sono un po’scaldate dalla festa e guardano con amore.

Per passare a più degne usanze del mio paese, mirammento il lutto che riusciva a infondere nei nostri ani-mi la processione del Venerdì Santo. Cominciava sultardi, non prima delle nove di sera, era lunghissima e sisvolgeva con una lentezza così dolorante e funebre dacommuovere i muri. Alla luce di un’infinità di lampionid’ogni forma e grandezza, retti da noi ragazzi e da uomi-ni d’età, ciascuno nel saio della propria parrocchia e di-visi per gruppi di colore diverso, in un ondeggiare dicroci e tronchi che i più forzuti della città sostenevanosudando da ogni poro, si portavano a spalla la macchinadel Cristo morto e quella della Madonna dei Sette Dolo-ri, seguita dal coro delle marie litanianti. Vi partecipava-no, a gran distanza l’una dall’altra, le due bande nemi-che, alternando le loro marcie che singhiozzavano. Datutte le sue finestre il paese piangeva, al passaggio, conlacrime di fuoco che erano lampioncini di carta colorata.La dolente processione, sconfinando quasi nella campa-gna, s’arrestava ad una gran chiesa romita, sfarzosamen-te illuminata a candele, dove, con le due macchine e con

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quella selva di croci e di lumi, tutto il popolo irrompeva.Allora un frate, già ritto sul pergamo, pareva stesse lì adattenderci per rimproverarci la morte di Nostro Signore.Acceso in volto, gesticolando come un ossesso, scagliavasulla calca, in quella mesta luce dei ceri, una breve pre-dica veemente, piena d’invettive, di rampogne, di sin-gulti, come se il Signore fosse stato crocefisso dai Giudeiproprio in quella giornata. E tutti tornavano a casa con-triti.

Conosco solo un canto del mio paese. È lungo, ca-denzato, monotono, come la maremma sconfinata. Gre-ve e pigro, sorge in certe ore di ristagno dalla terra,riempie di botto la solitudine, rompe il silenzio asson-nante e lambisce lo spazio morendo. Quando il silenziomeridiano è più profondo e quasi terrificante, lo sentitenascere, scoppiare a due passi da voi, in campagna, die-tro il muro d’una vigna, portato su in alto e lontano dauno squillo di voce femminile. E subito estenuato rica-de. Nelle ore più afose d’estate è con questa nenia inter-minabile che i bifolchi, mezzo addormentati, guidano ibovi aggiogati al carro. E ci si sente tutta la malinconia eil tedio infinito di quel loro camminare a rilento e acci-dentato, per via dei tafani che tormentano le povere be-stie e le fanno sbandare fin sul ciglio della strada. È que-sta la cantilena che le donne del mio paese, al tempodella sviticchiatura, cantano tutto il giorno a gola aperta,a voce spiegata, come ubbriache, e paiono poi così rilas-sate, la sera, quando smettono. Ma nelle mattine di pri-mavera, badando alla pulizia della casa, ne fanno rintro-nare e, direi quasi, ne inondano, non soltanto le paretidomestiche, ma le vie e le piazze intorno. Dice così:

E lo mio damo fa lo massaro,la mazzarella gli diventi d’oro,d’oro e d’argento la spiga del grano.

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Ho rivisto gli Etruschi, che manipolarono la creta conricercata grossolanità e lesta bravura; e fecero della scul-tura casereccia, non altrimenti di come fa il panettiere ilpane e il pasticciere i dolci. Come quando questi vaspremendo il suo cartoccio di crema sulla nuda crostadel pasticcio e l’adorna in fretta d’ogni genere di dise-gni, allo stesso modo essi imitarono, con un gran sensodel rilievo, le pieghe e i ricami delle vesti. Buttarono là,sopra un dito, una pallottolina di creta ed ebberosenz’altro un anello. Seppellirono addirittura le figurenei loro manti. Quando vollero dare il senso d’un corpodi donna malato e disfatto, lo scolpirono tutto in cavità,lasciando affiorare appena, su tanto sfacelo, due piccoliseni macilenti e schiacciati come due frittelle. Mestie-ranti insigni e corrivi, carnali e sprezzanti, che alla fioritaeleganza inimitabile e allo smalto finissimo dei vasi grecicontrapposero, inaudita magìa, il crudo colore dell’ar-gilla e l’efficacia realistica dei loro tracotanti segnaccineri. Nelle sculture in terracotta, soprattutto, si vedonoancora, freschissime, le impronte impulsive e spicciativedelle loro mani da mattonai.

Io mi domando perché un fatto così semplice, comequello di tornare per un giorno al mio paese, debbasempre costituire per me un avvenimento straordinario,una data memorabile. Quando la finirò di cercare mez-zogiorno alle due e vivere di sogni e di pazzie! Da Roma,dove io risiedo, il mio paese non dista che cento chilo-metri in cifra tonda. Col diretto di Pisa, in due ore al piùci si arriva. Senza tante storie, potrei recarmici due voltela settimana, potrei starci di casa. E invece, nossignori,lascio passare gli anni prima di rimettere piede in questomio favoloso paese. E non faccio che sognarmelo e so-spirarlo come se fosse in capo al mondo; più soddisfat-to, si direbbe, della privazione che m’impongo standonelontano, più pago del ricordo e dell’immagine che ne

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porto con me, che non del piacere che proverei riveden-dolo. Sibarita della distanza, crapulone del desiderio.Intanto il tempo fa l’opera sua, la mala erba cresce, imiei amici e conoscenti d’una volta invecchiano emuoiono, e quando finalmente, una bella mattina, pren-do il coraggio a due mani e torno al benedetto paese del-la mia infanzia, è un affar serio. Vi sono appena giuntoche vorrei ripartire subito, partire di nuovo, col primotreno. Una volta là, non desidero altro. Che rigurgitod’impressioni e di memorie buone e cattive, liete e tristi;e come vorrei sorvolarle, quelle strade, non visto, quasiche mi vergogni, mi «ripalpi», come dice in buon lin-guaggio cornetano un mio amico sartore, di mostrarmial mio paese! Dai luoghi in fuori, non mi è famigliarequasi più nulla e nessuno. Ho perso il filo delle parente-le e delle discendenze. Si sono annebbiati nella mia me-moria i nomi delle casate; e delle loro vicende, morti, na-scite, matrimoni, non so più nulla da tanti anni. Miavviene di veder passare dei ragazzi che non conosco eche non mi conoscono e di sentirmi dire che sono delmio sangue. In uno di essi, più grande della sua età emagro, che pareva essersi dimenticata la via di casa, horivisto esattamente me stesso a tredici anni, Dio sa conquale apprensione. Costumi mutati, festività decadute.Sento discorrere della rovina e dell’esodo delle migliorifamiglie; dei loro palazzi acquistati da villani rifatti chene han ridotto i giardini a piantagioni di cipolle e d’insa-lata. Mi domando se ci saranno più le camelie a VillaFalgari. E il peggio è che in mezzo a tante trasformazio-ni, a tanto rigoglio di gioventù che rallegra e disorienta,a tante buone cose buttate all’aria, la vita è sempre allostesso punto, il nostro destino è sempre quello: il tempoe la lontananza non vi posero alcun rimedio. E chi s’illu-de d’aver fatto qualche conquista nel mondo, torni alsuo paese per constatare che non ha concluso un belnulla. Rancori, albagie, antipatie, di gente che già co-

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nobbi poco amichevole nei miei riguardi, durano infles-sibili, né c’è speranza che cessino per miracoli ch’io pos-sa operare. Basterebbe che rimanessi una settimana sol-tanto in mezzo a costoro perché vent’anni d’assenza ed’esperienza fossero annullati d’un tratto e tutto rico-minciasse da capo come prima. Ed ecco di nuovo le ra-gazze del mio paese, appo le quali non ebbi mai grazianessuna, che solo a vedermi si domandano: «chi èquell’antipaticone?»,

Con tutto ciò, lasciatemi rivedere la mia terra, lascia-temi andare una notte a dormire coi morti.

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FINE D’UNA BANDA

Nella vecchia banda comunale del mio paese si face-vano rispettare i valori. In un suonatore di cornetta odaino, si lodavano soprattutto certe qualità essenziali enative come, per esempio, la voce, il sentimento, la dol-cezza del labbro, che solo alcuni privilegiati potevanovantarsi di possedere. I virtuosi, gli «sminfaroli», eranotenuti in sottordine. A poco a poco molti di costoro, de-lusi e inviperiti, si allontanarono dal severo istituto, la-sciando credere d’aver sofferto chissà quali angherie, ecosì nacque non soltanto una nuova banda, ma addirit-tura un partito, che si chiamò «cittadino», il cui primoatto, una volta al potere, fu di sciogliere l’odiatissimocorpo musicale che era stato causa di tanta discordia. Diquest’ultimo io mi trovavo a far parte, in qualità di moc-cioso suonatore di genis. Da un giorno all’altro dovem-mo consegnare strumento e montura, lasciare il PalazzoVitelleschi, nostra magnifica sede, per ridurci più tardiquando la banda comunale fu ricostruita sotto altro tito-lo, col denaro dei privati, in un semplice magazzino. Al-lora il Municipio non ebbe più una banda, ma la città neaveva due, che s’azzuffavano financo nell’intonazionedegl’istrumenti, suonando l’una mezzo tono più sudell’altra, tanto per non correre il rischio di fare un con-certo insieme. E fu in questo secondo e agitato periododella vita musicale e pubblica del mio paese che io mi vi-di promosso alle superiori armonie del corno. Ma nullaormai avrebbe potuto consolarmi del convincimentoche m’ero fatto, d’esser nato sotto cattiva stella.

C’era davvero di che avvelenare l’esistenza d’un ra-gazzo a vedere come la lista dei candidati al Consigliocomunale, che noi appoggiavamo, uscisse, da ogni nuo-va elezione, regolarmente sconfitta. Alla fine di quellegiornate elettorali, cariche di passioni contenute e di

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speranze dissimulate, la dignità dei vinti era pari, se nonsuperiore, allo strepito dei vincitori, il giubilo si scontra-va col lutto, il silenzio contegnoso d’una parte della cit-tadinanza isolava le dimostrazioni, le fiaccolate dellaparte avversa, che, sebbene fatte a suon di pifferi, nonriuscivano ad essere allegre e non duravano più d’unosprazzo di bengala. Tutti poi andavano a letto con la co-scienza poco tranquilla, non potendosi immaginare unacondizione più iniqua di quella che s’era determinata almio paese con queste rivalità elettorali e bandistiche.

Iniqua, ma necessaria, poiché a tali avvenimenti noisiamo debitori dell’acqua potabile, che fu la grande im-presa del partito cittadino o, per meglio dire, l’operad’un potentissimo conte, capeggiatore della fazione.

Di quest’uomo benemerito, il cui nome è ormai scol-pito in una lapide, non potrei parlare se non con moltorispetto. Era cavaliere di cappa e spada in Vaticano, vi-veva abitualmente a Roma, e veniva a Tarquinia soltantoper qualche mese all’anno, in autunno o in primavera,offuscando col numero dei suoi servitori, coi suoi «at-tacchi» a quattro, a sei, tutti gli altri signori del mio pae-se, che magari vantavano tradizioni più illustri, ma nonpossedevano che una modesta carrozza a due cavalli,con cocchiere in livrea. Non si creda tuttavia ch’egli cer-casse, col suo splendore, di mettersi in mostra, essendoanzi un uomo alquanto evasivo e quasi irraggiungibile,un mito, una istituzione amministrativa più che una per-sona. Bensì quello era il tono della sua casa. Il conte ave-va un figlio, cerimoniere di Corte, e una giovane e bellanuora, dama d’onore della Regina. Dimodoché si po-trebbe dire che avesse anticipato di molti anni, per partesua, l’evento della Conciliazione; e contro una tale po-tenza c’era poco da fare. Sarebbero bastati i dipendentidel conte, o quelli che abitano all’ombra del suo palaz-zo, in una festosa parrocchia, detta scherzosamente «ilvillaggio», ad assicurare il trionfo di un’elezione. Ma il

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popolo parteggiava per lui. La dispettosa genìa dei cam-pagnoli idolatrava quest’uomo, questo malinconico feu-datario che, senza far discorsi in pubblico, senza dimo-strare ambizioni di sorta, prometteva al nostro paesel’acqua potabile e la spartizione delle terre (quelle delComune, beninteso), lasciando per di più aperti alla cit-tadinanza, per famigliare consuetudine, i cancelli d’unasua villa, dove noi andavamo da ragazzi ad ammirarel’albero del pepe, a mangiare le guainelle e le nespoledel Giappone. Il clero poi, sotto sotto, soffiava nel fuocodi quel partito che noi chiamavamo «nero» e lo era in-fatti in tutta l’estensione del termine. Fazione municipa-le e parrocchiana, politicamente agnostica, quindi ostilealle ideologie liberali dei signori del Circolo, i quali ave-vano amministrato il Comune per tanti anni, arrivando amangiarsi, come si diceva comunemente, anche le tavoledel teatro. Tale fama purtroppo gravava su coloro ches’erano tassati per mantenere la nostra banda e che noidisperatamente sostenevamo: quasi tutti buoni oratori,umanisti, compositori di acrostici e sonetti per nozze,spiriti faceti, che rappresentavano al mio paese quantopoteva esservi una volta di più colto, di più garbato, dipiù illuminato, ma a cui si faceva carico d’aver dato fon-do al denaro pubblico, oltre che al proprio, sotto la gui-da d’un uomo terribile, passato in proverbio per la suascaltrezza e voracità. Era costui l’antico e ormai detro-nizzato segretario comunale, di professione anche no-taio. Conosceva i segreti di tutto il paese e la gente loodiava forse per questo, attribuendogli un potere diabo-lico. Il piccolo e vecchio notaro, obeso, pallido, vestitocostantemente di nero, in palandrana, aveva una figuradi Don Abbondio, con folte sopracciglie irsute e canuteche sentivano il cattivo tempo. Non poteva dirsi, in ve-rità, un tipo accostante, né cercava d’esserlo. Viveva rin-tanato nel suo funebre archivio, in una bella e segretissi-ma casa, già convento di frati, posta all’ingresso della

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città, in fondo a una piazzetta alberata. A quella porta sibussava soltanto per ragioni testamentarie; e non si apri-va se non dopo che una delle sorelle del segretario, natu-ralmente zitellone, allo stesso modo che il nostro uomoera scapolo, aveva allungato il capo al davanzale comeuna tartaruga. Il popolo chiamava questo personaggio«il tarlo»; e l’amministrazione comunale impersonata dalui fu sempre detta «l’amministrazione del tarlo», È pro-babile che il povero segretario non meritasse il sopran-nome che gli si dava. Ma il fatto è che la fazione dove iomi trovai coinvolto all’alba della vita era simboleggiatada quel vorace insetto che, secondo una favoletta no-strana, rosicchiò il legno della santa croce e quando ar-rivò ai chiodi si fece scrupolo di continuare. Per la qualcosa noi diciamo anche, di certi atti di generosità ipocri-ta e tardiva, che sopravvengono quando il male è già fat-to e non è più possibile farne dell’altro: «Lo scrupolodel tarlo»,

Vi lascio giudicare se potevo essere più sfortunatonella scelta del mio primo partito. Immaginate l’impo-polarità della logora banda alla quale mi onoravo di ap-partenere, e tutte le sorprese, le riflessioni d’un ragazzoche entra, per così dire, nella vita in così poco allegrecontingenze. Invano il nostro impareggiabile trombonesi faceva tremare la bazza filando, nei concerti in piazza,le angeliche note dei duetti verdiani e donizettiani. Laseverità, la freddezza, la cattiva disposizione del pubbli-co nei nostri riguardi, avrebbero scoraggiato la banda diPianella. Perfino il «miserere» del Trovatore, cavallo dibattaglia della nostra cornetta, non otteneva che scarsis-simi applausi. Tutto l’entusiasmo del popolino era per lestrepitose marcette della «banda nova»; e di noi, cheavevamo un passo di marcia più cadenzato e lento, si di-ceva che su questo punto non potevamo competere coinostri rivali e che la nostra banda era buona per gli ac-compagnamenti funebri e per la processione del Ve-

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nerdì Santo. Si voleva insomma una banda allegra e nonmusona. Si desideravano suonatori di forze e non di gra-zia. E fu con questo gusto, di questo passo, che il partitocittadino, in coccarda bianca e azzurra, andò al potere,vi si consolidò, senza curarsi di ridare al Comune quellabanda che aveva sciolta; forse perché il problema nonera facile da risolvere, dato che i migliori musicanti ri-manevano sempre quelli della «banda vecchia», divenu-ti ormai veri banditi.

I due corpi musicali vissero così, finché poterono, conl’obolo dei privati. Finché un giorno, tanti anni dopo,davanti al prodigio di quell’acqua che veniva da moltolontano, traverso chilometri e chilometri di tubatura (etutto il paese in festa si mosse per andarle incontro comese si trattasse della venuta d’un Papa), le due parti si ri-conciliarono e con ciò fu segnata la sorte delle due ban-de nemiche. Queste infatti, destino un po’ ironico perdue sodalizi che dovevano essere la personificazionedell’armonia, cessati gli odii partigiani, si videro con-dannate a sparire, per mancanza di protettori. In tantauniversale concordia nessuno adesso pensava più alledue bande che, d’altra parte, non avrebbero potuto fon-dersi a causa di quella differenza di tono che le separavairreparabilmente. Eppoi l’esperienza dimostrava comeal mio paese la musica servisse piuttosto a inferocire glianimi che ad ammansirli. Cosicché in definitiva, chi ciandò di mezzo, in questa rivoluzione cittadina, fummonoi bandisti. Noi che c’entravamo come i cavoli a me-renda. Noi che, ignari del sacro mito d’Orfeo, avevamofatto della musica un detestabile uso. Noi fummo i verisconfitti. E cadde, con l’istituzione bandistica, tutto ciòchessa comporta e significa. Finirono, o divenneroun’ombra di quel che furono, le processioni della Setti-mana Santa, la Fiera di maggio, le feste in genere, i ve-glioni, le vignate, le ottobrate, le serenate. Una strana

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pace, più deleteria d’ogni guerra, s’accampò fra le no-stre mura, ormai disertate dal genio della musica.

Eppure, come ho detto, da queste comunali vicendescaturì al mio paese un bene incalcolabile. Se oggi chiedia uno di Tarquinia come mai le ragazze vengon su cosìcolorite, al contrario di quel che accadeva una volta, tirisponderà additandoti la fontana. È l’acqua, è il mira-colo dell’acqua che ha moltiplicato la popolazione e hafatto rifiorire le guance di quelle giovinette che a tempomio, in primavera, apparivano tutte un po’ estenuate edanemiche, e andavano a farsi le iniezioni in farmacia,quando non si limitassero, per pudore, a bere qualcheovetto, a mangiare qualche bistecchina e a trangugiarecon disgusto un mezzo bicchiere di vino rosso. Accostia-moci dunque alla nostra fontana materna; la quale non èdetto sia di ieri, perché l’acqua di fonte noi l’abbiamosempre avuta, sia pure non così eccellente e copiosa. Be-viamo un sorso di quel prezioso elemento che costò tan-ti sacrifici di cui nessuno più si ricorda. I vecchi sorrido-no con indulgenza di queste antiche discordie cittadinee ne parlano come d’un trascorso di gioventù.

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ELEGIA ETRUSCA

Che so io degli Etruschi? Quel tanto solo che m’è da-to immaginare, essendo nato, si può dire, in mezzo alleloro tombe. Pare che la pietà degli Etruschi verso i lorodefunti consistesse nell’andarli a seppellire il più lonta-no possibile dalle voci e dalla vista del mare, come se es-si, gl’impenitenti, che sopravvivevano nei loro sepolcri,potessero ancora porgere orecchio ai suoi potenti richia-mi sordi e non aver pace col mare accanto. Così parlanole loro necropoli nascoste. E ogni volta che mi tornano amente i miei luoghi d’origine, il mio pensiero fugge ilmare e si volge a quei prati più prossimi, raccolti verso ilmonte, macchiati di ginestre e d’asfodeli, dove la stessanatura del suolo, che si erge a picchi e precipita a burro-ni sulla verde pianura fuggente verso il fiume e il marelontano, sembra farsi schermo alla morte che vi abita in-disturbata e sovrana. Fosse millenarie, dove par di senti-re un lezzo di putrefazioni antiche e di terra marcita, bu-che, avvallamenti e tumuli innaturali, mostrano quel chelì sotto cova e come la mano del tempo l’abbia rifatta elavorata, a varie epoche, quella terra pastosa e dolce co-me carne, al modo che si lavora una statua. Le pioggetornano a impastarla ogni anno e la riducono un fangoindelebile. La secca e bruciante estate la spacca: allora letarantole vi fanno il nido. La tramontana la denuda e lascopre sepolcrale. E tutto quel che vi si vede, una tom-ba, un acquedotto medioevale, un vecchio muro sbrec-cato di conduttura, di qualsivoglia epoca, è antico e fu-nebre allo stesso modo. È antica l’aria ed è antica lapietra.

Una profonda inclinazione verso la terra genitrice esaturnia, non verso l’alma nutrix, è ciò che distingue gliEtruschi. Discendevano essi in lei volentieri per dipinge-re le loro tombe con le più fresche e verdi tinte, quali

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soltanto il gelido soffio di quell’aria veramente terrestre,suscitando una pungente nostalgia del sole e della vita,poteva inspirare all’artista; e che durano incorruttibili.La materia da cui più la loro cruda fantasia rimase toccae che lavorarono con miglior gusto fu l’argilla. E prati-cando, insieme, con la morte, una famigliarità del tuttoincompunta, immaginandosi l’Ade orgiasticamente co-me un perpetuo saturnale, questa razza di bonificatorima non georgici (cavatori, scultori, vasai) che prosperòun giorno, obliosa, sulle vulcaniche terre del centrod’Italia, portò a cottura il mito dell’inferno e creò forse,dei suoi giganteschi numi, i più infuocati e rossi.

Roma sorprese gli Etruschi mentre stavano lavorandosenza sospetto, come sempre; e ne andò lungo il lamen-to. Barbari del settentrione e del mezzogiorno rovistaro-no primi le loro preziosissime tombe alla rinfusa, la-sciandovi il segno della loro barbarie e della fretta. Oggi,di questo popolo misterioso e sopraffatto che siede alleorigini della nostra civiltà, venuto non si sa di dove, dalmare forse, ma rivolto a monte, non ci rimane che lostampo corrotto della sua immagine sulla terra, là doves’è coricato morendo.

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VILLA TARANTOLA

Fin da ragazzo ho amato le distanze e la solitudine.Uscire dalle porte del mio paese e guardarlo dal di fuori,come qualche cosa di perduto, era uno dei miei più abi-tuali diletti. Piacere e terrore mi portavano in certi luo-ghi romiti, sacri alla morte, a cui però non pensavo senon per quel tanto che m’impediva d’inoltrarmi troppoin un così pauroso reame. Uscito da Porta Clementina,dove comincia la via del cimitero e delle tombe etru-sche, la mia evasione, di solito, si arrestava pochi passipiù in là. Di rado mi spingevo fino a quella strana, disa-bitatissima villa, chiamata Villa Tarantola, che vede giàil camposanto ed era allora per me un sito misterioso,enigmatico, evocante, nel suo nome, i velenosi ragni chedanno il ballo di San Vito. Di là da una siepe di bosco sivedeva, attraverso il cancello, un corretto viale di elcibassi e ombrosi, e giù in fondo una casina moderna erossiccia, a terrazza, sovrastata dalla ruota metallicad’una pompa a vento. Il piccolo e ombreggiato edificio,somigliante più a un mulino che a una casa di abitazio-ne, copriva l’orizzonte, che in quel punto è vastissimo.Le sue persiane color cenere apparivano costantementechiuse come il cancello a cui m’affacciavo. Né mai miavvenne di udire voci o scorgere anima viva curiosandolà dentro. L’aspetto di questa solitaria villetta era irre-prensibile e il terrore o piuttosto stupore ch’essa m’in-spirava, tutte le volte che io ficcassi il naso fra quellesbarre, d’una qualità ben nota ai lettori d’Edgardo Poe.

Villa Tarantola non è che un nome al mio paese: il no-me d’una località sprovvista, per ragioni facili a capirsi,di qualsiasi attrattiva. Pochi sanno o si domandano a chiappartenne in origine e come costui poté avere l’idea dicostruirla in una regione così visibilmente riserbata allamorte. Perché si chiama villa, dato che non ci abita nes-

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suno. E come si potrebbe abitare da quelle parti? Per-ché quella siepe civettuola, quel viale, se non servonoprobabilmente che a mascherare un comune podere?

Questo familiare mistero sono arrivato a chiarirlo sol-tanto qualche anno addietro, ragionando con un vec-chio artigiano del mio paese, e ciò che ho saputo intornoalle origini di Villa Tarantola, mi ha fatto molto piacereperché dimostra, in fin dei conti, come i miei stupori difanciullo non fossero del tutto ingiustificati. Non c’è maistato a Tarquinia un pazzo a cui sorridesse la prospetti-va d’un soggiorno campestre in certi luoghi, a quell’epo-ca, e nessun àugure, certo, avrebbe autorizzato, in altritempi, una simile fantasia,

Villa Tarantola è la conseguenza di un’impresa ar-cheologica mal riuscita, il ripiego d’un deluso cercatored’oro etrusco, che aveva comprato quel campo nellasperanza di scoprirvi chissà quale tesoro. Se non che, digran lunga meno fortunato di altri miei concittadini aiquali avvenne, anche a caso, di fare incontri memorabilinel sottosuolo tarquiniese, imbattendosi, fra l’altro, piùd’una volta, in guerrieri armati e dormenti su letti di pie-tra, che, percossi dall’aria, si dissolvevano in pochi se-condi come se fossero offesi da quelle violazioni, pareche il brav’uomo, nel suo magro possedimento, non riu-scisse a trovare se non due o tre tombe saccheggiatissi-me, contenenti alcuni sarcofaghi vuoti, di nenfro, che sivedono ancora oggi allineati lungo il viale che ho detto esono per avventura quanto di più vivo e parlante si ri-scontri nell’inanimata villetta.

Da ultimo, perché non gli sarebbe stato facile disfarsid’una proprietà squalificata archeologicamente e di po-co pregio dal lato agricolo, decise di servirsene a scopivoluttuari ed estetici. Il cercatore di antichità etrusches’improvvisò giardiniere come s’era improvvisato ar-cheologo. Dove prima sorgevano tumuli sospetti quantoillusori, fiorivano la lenta ginestra e il tenace asfodelo, in

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quell’aspro e sassoso terreno ch’egli aveva manomesso,scassato e stravolto in lungo e in largo, fece nascere nonla vigna, che lì non potrebbe attecchire, bensì una villet-ta moderna, all’inglese, tutta pettinata e livellata comeun campo di tennis, quasi volesse nascondere le traccedelle sue infruttuose ricerche o vendicarsi della terra chelo aveva ingannato alterandone il profilo naturale e sto-rico. Ma era fatale che quella tragica terra dovesse rive-larsi, ad ogni modo, più forte di lui.

Il fondatore di Villa Tarantola s’illudeva forse di lega-re il suo nome a questo monumento di giardinaggio.Ahimè, il popolo non tardò a dargliene un altro, scrittonei luoghi, nella triste solennità del paesaggio che cir-conda l’amena villetta; giacché, a parte che su quelle nu-de alture non si può immaginare altro giardino se nonquello dei morti, i campi argillosi e cocenti della nostranecropoli sono famosi, oltre tutto, per la Taréntula Apu-liae la quale, nei mesi estivi, li predilige talmente da farpensare che porti nel suo grosso ventre il veleno delletombe etrusche.

Chiunque è nato in Maremma conosce vita, morte emiracoli della tarantola, ragno elegiaco e terraiolo, mol-to meno pericoloso di quel che la fantasia popolare fa-rebbe credere. La sua presenza è deplorevole soprattut-to perché accusa l’abbandono in cui sono lasciate certeterre. Nella ferace Tarquinia non può vivere che in unapiccolissima parte del suo territorio, fra le deserte rovinedella Civita, in mezzo ai sepolcri dei lucumoni, come al-trove bazzica le rovine greche, ricercando, in ogni caso,le terre aride e solari del Mezzogiorno, dove incombe ilsilenzio delle civiltà tramontate. E vive rintanata, duran-te il giorno, in un comodo nido tappezzato di seta e fa-cilmente riconoscibile, per via d’un intreccio di seta epagliuzze che ne protegge l’ingresso. Ma basta zufolareun poco e frugare con un filo di paglia nel suo profondorifugio perché la tarantola venga fuori. A quel doppio

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sollecito l’estuoso e musicale insetto non resiste. Il chefarebbe credere che vada a caccia di grilli. E morde l’uo-mo a caso, l’uomo che è costretto a dormire in campa-gna nella cruenta stagione della trebbiatura e della pres-sa del fieno, che da noi è una vera guerra. Allora iniettaun veleno leggero che non fa ballare affatto (questa su-perstizione ha origine dal fatto che una volta le vittimedella tarantola si curavano a suon di cembali, con unadanza sfrenata, che poi si chiamò tarantella) ma dà luo-go, in certi casi, a una sorta d’imbambolamento, quale iovidi tanti anni fa, proprio sulla stradetta di cui si discor-re, in una giovane campagnola aggredita dal malefico ra-gno. La portavano all’ospedale col carretto, e lei stava inpiedi là sopra, incantata, trasumanata, bellissima. La suabianca faccia splendeva come quella d’una santa in esta-si. Nella luce d’un tramonto d’estate, in quel paesaggio,non potevo fare un incontro più commovente e osereiaggiungere significativo, per quel che riguarda gli effettiche può produrre un ragno abitatore di terre così mace-rate e mortifere. Ma la scienza non crede ai misteriosimalori che si attribuiscono alla tarantola. E queste mienon sono che impressioni e fantasie di profano.

Comunque, posto che la tarantola non è una favola almio paese, nessuna forza umana poteva impedire che laborghese villetta, situata nei suoi regni, assumesse benpresto quel colore, quel nome sconcertante, per cui dabambino io non potevo guardarla, né sentirla nominare,senza immaginarmela come la casa delle tarantole. Ero,a dire il vero, alquanto diviso fra il gentile aspetto del si-to e l’orrido nome che gli si dava. Ma la sua solitudinequasi paurosa, il suo allarmante silenzio, erano propriotarantoleschi. Là dentro, secondo me, vivevano, senzafar rumore, miriadi di tarantole.

Da più di mezzo secolo, abbandonata al proprio de-stino, vale a dire alle cure d’un giardiniere laborioso efedele, che sembra custodirla come un monumento e

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forse abita in quella casina senza che nessuno se ne siamai accorto, Villa Tarantola vive la sua vita silenziosa edocculta, conservando inalterato il suo aspetto decorosoe impeccabile quantunque sia passata, in tutti questi an-ni, per le mani dei proprietari più diversi. La sua sortenon cambia. È una villa incantata, stregata, come quellafanciulla che incontrai nei suoi pressi. La fitta e sempre-verde siepe di bosso che la circonda ne accresce la soli-tudine, la rende, per così dire, tutta vegetale e perciò piùimpressionante. Bassa com’è, serve a proteggere e anchea nascondere il misterioso dominio assai più che se fossecinto da una muraglia. In un paese dove le terre sono li-mitate da fossi, stradelli, cippi marmorei, muri a secco,fratte spinose, oppure, trattandosi di vigna o di villa, daun alto e nobile muro, la gente non può che scostarsi daquesta insolita, educatissima siepe che non fiorisce eneppure appassisce, che ha l’aria di voler essere confi-denziale ed è tuttavia così arcigna, così puritana; verosimbolo della proprietà privata come la intendevano ipossidenti del secolo scorso, senza nessuna concessionealla fantasia. C’è chi, per renderla un po’ allegra e dome-stica, la chiama scherzosamente «il frattone», Ma nonv’illudete. Nessuno la frequenta, nemmeno i ramarri.Eppoi quella non è via da idillici indugi. Ben altro ritiroci aspetta sulla rotabile di Villa Tarantola.

È cosi che il solitario giardino, sopraffatto da troppealtre cose più grandi, viene ad essere perfettamenteescluso dalle nostre consuetudini e dai nostri affetti. Noinon lo nominiamo se non a motivo di riferimento topo-grafico. Nessuna leggenda s’è formata intorno ad un sitocosì perduto, nelle cui vicinanze accaddero, di tempo intempo, fatti meravigliosi e tremendi. L’enormità di VillaTarantola consiste appunto nell’essere totalmente privadi vita, di necessità, di ragione. Ma poiché in natura nonsi dà vacuo, come dice Leonardo, l’inesplicabile villa èdivenuta un luogo assai strano, quasi sacro. La fantasia

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popolare l’ha dedicata all’infernale Tarantola ed è fuoridubbio che nel disinteresse con cui la si guarda e se nediscorre si nasconde un vago senso d’orrore e di reve-renza. Soltanto i frati cappuccini, che hanno fatto di Vil-la Tarantola una meta delle loro passeggiate serali, pos-sono sorvolare su quel nome orripilante e credo sianoriusciti a famigliarizzarsi un po’ con questa singolare vil-letta.

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IL CONTADINO

Quei miti e laboriosi contadini marchigiani che han-no colonizzato le migliori terre del mio paese, scesi lag-giù con le loro famiglie numerose, i bianchi buoi da la-voro e i carri istoriati, trapiantatisi in Maremma coi loroagresti costumi, che gente tenace! Dormono in campa-gna, loro. E non si lasciano vedere in paese che nellemattine di festa, quando salgono su per la messa o a farela spesa. Portano gli orecchini, hanno volti scabri e ru-bizzi, sbarbati, e non so qual melanconica e dolce ca-denza nella voce. Radi i loro casolari sorgono, qua e là, agrandi distanze, sulla mia terra natale. Ivi è «il contadi-no», S’è fatto dei suoi campi di grano e di granturco, do-ve d’estate fanno il nido le calandre, un paradiso, questoinstancabile concimatore. Le stalle sono ampie e ricchedi molto bestiame. La vita scorre non senza le liete usan-ze contadinesche: le gite di notte da un casolare all’altro,le veglie, i canti, le danze sull’aia fin oltre la mezzanotte,nel tempo che si mondano i raccolti, agli amori propizio.L’ordine e l’allegria regnano in casa, sotto l’autoritàd’una massaia rispettata come una regina. Sui campi co-manda lui, il contadino. Tutto è a metà fra lui e il padro-ne, fuorché la terra che non è sua. Colono, egli è coluiche abita e lavora la terra, ma non la possiede. E questogli dà un gran senso di agio e di riposo, trattenendo lesue cupidigie. Gentilezza di costumi, religione, conten-tezza del proprio stato, sono le sue doviziose divinità fa-migliari.

È opportuno aggiungere che al mio paese quando sidice contadino si vuol dire, senz’altro, marchigiano.

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ALESSANDRONE

Non c’è in Maremma un mestiere che renda meglio ecosti meno fatica del mestiere di «caporale»,

La Maremma, si sa, è terra di ventura; troppo spropo-sitamente vasta per una popolazione così scarsa e pigra,che vive ai monti, murata nei suoi paesi lontani dalle re-gioni più fruttifere, talmente distanti l’uno dall’altro cheraramente si vedono; e preferisce ai lavori della campa-gna le arti urbane. Onde, chi se la gode, se proprio sipuò dire godere, sono i forestieri che vi ruzzolano giù daogni banda, in cerca di lavoro o d’altro, secondo le sta-gioni.

Sono, d’inverno, compagnie grame e sparute di don-ne e ragazzi, che scendono dai monti vicini; e facevanoun tempo la sarchiatura, da noi detta mondarella, permeno di venti soldi a giornata. Giungono insieme gli«aquilani», bella, umile e forte razza; chiusi nei loromantelli turchini come tanti carabinieri di cui hanno an-che il passo. Con la loro andatura e la pellegrina somi-gliano pure a San Rocco. E mangiano il polentone. Co-storo sono gl’iloti e gli schiavi della terra. Fanno loscasso della vigna, che non fanno che loro, lavorano dipiccone e di vanga, e vengono ricercati per tutto quantodi più faticoso c’è da operare in campagna e lungo laferrovia.

Col sol di luglio arrivano, al suono dell’organino, av-vinazzate e pidocchiose orde di mietitori, con la falce ar-rotata alla cintola e, sul cappello, mazzetti di prime spi-ghe.

Che rimescolìo! Che flagello!Ecco d’autunno quelli che bruciano le selve, i carbo-

nai, neri come spazzacamini, sopra lunghe teorie di muliche camminano legati l’uno all’altro in fila indiana. Lanostra meraviglia è sempre nuova quando, affacciandoci

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alle ripe, di notte, scopriamo ardere le macchie. Ci si do-manda chi può essere. Non si pensa che siamo in Ma-remma. Cioè, che il nemico è apparso e veglia alle porte.Sono dunque arrivati i carbonai.

Ultimi i pecorari vengono a svernare.Tutta questa umanità randagia è divisa generalmente

per compagnie, né più né meno che in ordine militare;ognuna delle quali viene arruolata e comandata di recar-si qua e là, secondo il bisogno, da un faccendiere che sela intende coi compratori di queste truppe mercenariedel lavoro, ne riceve il soldo e lo somministra insiemecol pane, il lardo e il vino di Barletta, settimana per setti-mana o a lavorazione finita, non senza spillare, su ognigiornata di lavoro che paga, una minuscola percentualeche gli permette di passarsela, sebben villanamente, dasignore. Qui si fa innanzi il «caporale», È un tipo costuiche in altri tempi si sarebbe buttato alla strada.

Fu al mio paese uno di questi vassalloni; e non lo apo-strofo così tanto per lui, che fece una brutta e pietosa fi-ne, quanto in odio al suo riprovevole mestiere.

Lo chiamavano Alessandrone per ironia, giacché ap-punto, essendo tutto il contrario d’un gigante, era peg-gio che se lo fosse stato; tanto si compiaceva, il merlo, diostentare la sua magra persona. Una faccia di monta-gnolo umbro spiccata, dura e solcata di forti rughe, maridente, di pel biondo slavato e capelli inanellati come sene vedono nelle antiche pitture. Benché avesse varcatala cinquantina era uno di quei fusti asciutti e poco linfa-tici che non invecchiano e non incanutiscono mai e si fa-ceva bello d’una «relazione»; il che vuol dire che vanta-va una ganza. Avendo la fortuna di possedere duegambe diritte e sottilissime, addirittura da correre il pa-lio, non gli mancavano, per metterle in evidenza, né glistivali a gambalino floscio e tacchi alti, né i pantaloni in-teramente attillati. Vanità delle vanità!

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Andava tutto glorioso, con brìo. Soltanto la giubba,per poter contenere il grosso portafoglio, sempre sottol’occhio di tutti o in discussione, aveva dovuto soffriredi essere un po’ più larga dei pantaloni e, camminando,il vento gliela gonfiava. In piedi non stava fermo un mi-nuto, pestando continuamente il suolo coi tacchi comeun corsiero che morde il freno. Frequentava con bal-danza caffè e osterie dove, tra un motteggio, una allusio-ne scherzosa, passava oltre, strillando da lontano il suointrepido intercalare: «l’oro ’n s’amacchia»,

Con questo dunque aveva molto del moscardino, etutto pareva andargli a gonfie vele. Se non che un gior-no, un brutto giorno, che neppure la sonnambula avreb-be potuto predirglielo se lui stesso non aveva mai riflet-tuto quanto fosse sciocca e temeraria quella sua manieradi vivere e di dar sull’occhio in un paese non suo, uditequel che gli accadde. Se ne andava solo solo alla mac-chia, con molti quattrini in tasca, che avrebbe dovutosomministrare ai suoi carbonai, quando alcuni individuimascherati gli sbarrarono il passo, sbucando non si sa didove, lo caricarono di legnate e alleggerirono di tutto ildenaro che aveva addosso. Il disgraziato tornò al suopaese impazzito. E in un accesso di follia, mentre parevaessere tornato in senno, uccise la propria moglie con lemolle del camino.

Tale fu la tragica sorte di Alessandrone, i cui aggres-sori ebbero la buona sorte di rimanere impuniti, giacchénessuno è mai riuscito a scoprirli. Ma il popolo, al solito,pretende riconoscerli in certi caporaletti nostrani, arruo-latori di donne e ragazzi per la «mondarella», di cuil’imprudente caporalone amava circondarsi e in compa-gnia dei quali soleva prendere il vermuttino tutte le mat-tine. Costoro ormai vecchi, arricchiti, podagrosi, nonaspettano che l’assoluzione in punto di morte.

Sono cose queste che possono succedere non in Ma-remma soltanto, ma in tutti i paesi.

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RE TARQUINIO

Non crediate che io voglia scrivere una favola su Tar-quinio Prisco o Tarquinio il Superbo. L’eroe di questocapitolo non fu mai re se non di Carnevale. È un perso-naggio vivente. E, quando sarà morto lui (il Cielo ce loconservi ancora per cent’anni) al mio paese sarà un luttomaggiore che se crollasse la torre di Castello o andassegiù il campanile del Municipio con tutto il campanone.Giacché il mio paese, senza re Tarquinio, lo si può appe-na concepire.

Chi sia re Tarquinio lo potrete desumere dal fisico. Vibasti sapere che il direttore d’un museo anatomico glivoleva comprare lo scheletro. Immaginate un pezzod’uomo alto quasi due metri, costretto in certi abiti lisi,corti, attillati, abbottonatissimi, in maniera da non po-terne più uscire, con tanto di stivali che gli arrivano finoal ginocchio e un cappelluzzo da cacciatore delle Alpi,posato con mirabile equilibrio sopra una testa che, daqualunque parte la si guardi, è un capolavoro di scrina-tura; una voce orrida; due piccoli mustacchi all’insù, in-cerettati e nerissimi, tinti al nerofumo, sopra una facciamartoriata da un rasoio che non rade, ma porta via lapelle e il pelo, di un’epidermide più dura del cuoio e ros-sa come una bistecca cruda, sempre con qualche om-breggiatura e ditata di nero alla radice dei baffi e dei ca-pelli; tutto un personale aitante e spavaldo da anticosergente di cavalleria abituato a pavoneggiarsi, da qua-rant’anni, agli occhi di tutte le belle del paese e luoghicirconvicini, munito d’un paio di mani grosse e tozze cheescono dai polsini male inamidati e dalle maniche sfuggi-te, come due pinne colossali. Questi è re Tarquinio: unmisto di soldataccio a riposo e di vecchio collegiale, lacui centauresca andatura (anche ora che ha sessant’annisuonati e un solo dente in bocca, enorme come il dente

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d’un ronzino di vent’anni, un vero dente del gigante) ècosi eretta e impettita quale potrebb’essere quella di unoa cui avessero applicato un bullone di fuoco nella schie-na. Egli cammina sempre col vento in poppa, servendosidelle braccia a guisa di remi, e quando è in vena dice checon una pettata butterebbe giù una casa.

Da giovane, patrizio e in possesso di beni di fortuna,lo chiamavano «sor Checchino», Allora s’invidiava lasua cavalcatura e la donna che ballava un valzer con lui.Poi, via via che il tempo passava e le disgrazie si accu-mulavano, diventò «il sor Checco», Più oltre ancora,«zi’ Checco», Da ultimo, ridottosi a fare il sensale inqualche acquisto di ciuchi da macello per le belve delGiardino Zoologico, lui vecchio scozzonatore di tori edi giovenche, si nomò da se stesso re Tarquinio. Così fubattuto il «sor Sante», altro famoso bazzicatore di mer-cati e compratore di rozze pei leoni, il quale, quando habevuto un bicchiere di vino, lo si capisce subito per ilfatto che comincia a chiamarsi «imperatore dei civita-vecchiesi»,

Credo che il sole non abbia mai visto un uomo piùbeato di re Tarquinio, quando, intascata una provvigio-ne di trenta soldi, se ne sta seduto davanti a qualche ne-gozio, con le gambe accavallate, lisciandosi una naticacon la mano e ammirando la punta dei suoi stivali da cuisi sprigiona un soave odore di vetriolo. Allora, a vederlocosì lindo e impomatato, con la giacca nera e lustra chespunta in verde e in oro, pronto a dar la stura alle sue fa-cezie, tutte le facce si spianano al riso e i cuori si ralle-grano.

Sotto a chi tocca. Sono frizzi e galanterie per le coma-ri che passano col boccalone dell’acqua in capo e spessogliene danno delle rispostacce; aneddoti grassi e pepatiche fanno sbellicare dal ridere la gente chiusa in circolointorno a lui, mentre c’è sempre qualcuno che fa l’incre-dulo per partito preso e lo tartassa di domande e di pun-

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zecchiature allo scopo di esasperare la sua sordità; storieinverosimili e avventure incredibili del tempo ch’egli erasergente a Roma e dove passava lui passavano il rapi-mento e l’adulterio. Racconta d’un certo prete greco chelo chiamava «Checu» e che lo indusse in peccato di so-domia; d’un leone che sgranocchiò la testa del domatoresotto i suoi occhi, in un baraccone fuori Porta del Popo-lo; dei tremendi effetti d’una formidabile indigestione disalsicce, da cui fu colto una notte a Viterbo, durante lafesta di Santa Rosa, proprio nel momento che stava pergodersi la figlia dell’ospite; a smaltire i quali non basta-rono tutti i recipienti della camera, compresa la concadove si lavava. E colei che avrebbe dovuto giacere nelletto della voluttà fu ridotta a vuotare il pitale di questodon Giovanni paesano.

A voler calcolare le donne di campagna prese e in-chiodate alle staccionate da re Tarquinio si perderebbeil tempo inutilmente. Metà della popolazione sono figlisuoi. Egli è lo stallone del Governo, non ha altra funzio-ne. I mariti ch’egli ha fatto becchi potrebbero costituirsiin arciconfraternita sotto lo stendardo di San Martino.Ben è vero che nessuno saprebbe indicare con certezzauna donna che sia rimasta turbata dalle comiche occhia-te di re Tarquinio, e molte, al contrario, lo detestano,giudicandolo, con la severità spicciativa delle nostredonne, la rovina delle famiglie e la perdizione del loromarito. Tuttavia giova credergli e ci si ride.

Egli ne ha sempre qualcuna da raccontare. Adesso è iltetto della cucina, che ci piove. Grazie a una latta da pe-trolio collocata sul pavimento per raccogliere l’acquache sgoccia dal soffitto, re Tarquinio, stando in letto,può sapere che tempo fa ogni mattina, senza bisogno discomodarsi ad aprire gli scuri della finestra. Se per caso,svegliandosi, ode qualche goccia risuonare di tanto intanto nel provvidenziale bidone, si contenta di osserva-re: «Toh, piove», Se le gocce si fanno più frequenti, ag-

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giunge: «Incalza», Se poi le sente far glu-glu senza inter-ruzione allora esclama: «È torrenziale!», E per quelgiorno potete star certi che zi’ Checco non si leva. Cosìre Tarquinio illustra i vantaggi di avere un buco nel tet-to.

Ora è la Perpetua che, in sottanino, aggirandosi lamattina per la camera, a lui che si sta crogiuolando sottole lenzuola risveglia brame inusitate e incredibili alla suaetà. Ora è la storia della dentiera che il primo giorno chese la mise gli s’incantò nella bocca, per cui la buttò viasubito e non volle più saperne di dentisti e di protesidentaria, contentandosi delle sue mirabolanti ganasce,con le quali giura di poter masticare anche gli ossi. Equel tiro fatto al «sor Sante», che si vantava, al solito,d’essere un gran conoscitore di bestie, appioppandogliun cavallo bolso a cui aveva somministrato un beverag-gio atto a mascherare, per qualche ora, l’asma e il fiato-ne. Passato l’effetto del quale beveraggio la bestia stra-mazzò e non volle più rizzarsi, tra le pedate e lemaledizioni dell’imperatore dei civitavecchiesi.

Non c’è lumacata o carciofolata, non c’è banchetto,dove tu non veda re Tarquinio, a capo tavola. Teatri del-la sua gloriosa esistenza furono e saranno mai sempre leFiere, le osterie affollate, i veglioni. Bazzica la gente dicampagna volentieri. Ma ha sempre sulle labbra questointercalare: Mettigli la forcetta (ossia nasiera) al villano!Che vuol dire, trattalo come un bue da lavoro.

È un uomo di terraferma, odia il mare, e mai comesulla sua bocca ho sentito suonare così famigliari i nomidelle campagne del mio paese: la Leona, la Bandita, laCivita, Zampa d’Orlando, la Roccaccia. Che nomi! Asentirli, chissà cosa ci si figura. Non sono che terre sas-sose, e nude e piene di vento, dove tutt’al più potrete in-contrare un casale sperso e disabitato o un informe ru-dero di torraccia corsara verso il mare. Per questodeserto paese, re Tarquinio va ancora a cavallo, di buon

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mattino, quando se la sente, non si sa a che fare. S’im-batte talvolta con dei ladroni o incettatori che vogliamodire, cui s’accompagna in piazza e in taverna, e tiene al-legri; poiché egli è il battistrada dei forastieri al mio pae-se. Così si guadagna la sua magra giornata. E nella suafantasia diventano gesta e trionfi tutte le più piccole co-se che gli succedono. E ride, da gran signore.

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MORTE DI RE TARQUINIO

Personaggio ormai lontano e favoloso, antico come lerupi del mio paese, re Tarquinio è morto. Ho il rimorsodi averne parlato, finché era vivo, un po’ leggermente; ildubbio di non riuscire, neppure adesso, a scansare il pe-ricolo di rappresentarlo come una macchietta paesana.Non fu una macchietta, fu un uomo grandiosamente co-mico, alla maniera spagnola. Il tratto signoriale e francocon cui avrebbe saputo parlare al Papa in persona eraproprio quello di don Chisciotte. Più precisamente diròche nel suo linguaggio c’era qualcosa di seicentesco, dilepido e aulico insieme. Usava spesso dei curiosi latini-smi, che non so di dove gli venissero e che non avevanosoltanto lo scopo di far ridere, ma sopratutto di rialzaree nobilitare la materia della sua povera esistenza. Eglinon diceva gallina, ma «ruspante», Chiamava il prete«sacerre», Se gli accadeva per caso, di ricavare, dal suoipotetico mestiere di mediatore, un guadagno di pochisoldi, lo definiva pomposamente «la mia propina», Con-vivendo con una donna d’infimo grado che lo comanda-va, a quanto pare, a bacchetta, non si lasciava mai vede-re con lei e non la nominava altrimenti che «laPerpetua», A questo modo tutto diventava eufemistico,metaforico, sulla bocca di re Tarquinio, tutto più bello,più grande del vero. Ed egli poteva raccontare e dire co-se di un’immoralità somma con l’ingenuità d’un poeta od’un avventuriero di razza. Con un cinismo innocente sigloriava, per esempio, dei tanti doni ricevuti in gioventùdalle donne (esagerandoli, è inutile dirlo) come delle piùonorevoli conquiste della sua vita. Le sue famosissimeganze erano passate nel suo linguaggio sotto il titolo di«colombe fruttifere», Sosteneva che col danaro si sanatutto, anche le offese mortali, e tale concetto assumevain lui questa forma: «basta che scorra il bronzo», Mi

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parlava una volta di un suo sfortunato matrimonio conuna vecchia strega danarosa, matrimonio fatto negli ulti-mi tempi della sua vita, a scopo di mero interesse, egiunto al punto più scabroso della faccenda ebbe unistante di esitazione, poi disse che si era sposato per«riallacciare», Riallacciare che cosa? Voleva alludere acerte sue vecchie imprese agricole scucitissime che siproponeva di «riallacciare» appunto, coi denari dellamoglie.

In tanti modi quest’uomo soleva nascondere le pro-prie miserie, abbellire e magnificare se stesso e tuttoquanto lo riguardava, che il lettore troverà naturalecom’egli, nato a Tarquinia, non potesse scegliersi un so-prannome diverso da quello di re Tarquinio, con riferi-mento, beninteso, a Tarquinio il Superbo, ma, più chealtro, alla sua veste regale. Il popolo però lo chiamava zi’Checco. E nel contrasto fra questi due appellativi consi-steva la sua quotidiana commedia.

Grande zi’ Checco. Grandissimo zio, circondato datanti nepoti indegni che lo punzecchiavano di continuoilludendosi di divertirsi alle sue spalle, mentre era luiche se la rideva di tutto e di tutti. Sotto le apparenze diuna personalità esuberante, sregolata e chiassona, reTarquinio conosceva l’arte di vivere, il segreto di spen-dersi con giudizio. Si potrebbe fare di lui, fra l’altro, unperfetto esemplare di uomo gaudente, ad attuare il qua-le occorre una facoltà di dominio su se stessi che non èda tutti. In fatto di pulizia, d’igiene, di cura del propriocorpo, non mancava di puntigli. Egli non beveva maifuori dei pasti ed era inutile tentare di farlo discorrerementre mangiava. Dei quattrinelli che aveva in tasca fa-ceva un uso persimonioso, quasi avaro.

E come giocavano nella sua vita, quale enorme im-portanza vi assumevano! Tolto il letto e la tavola, tuttele sue esigenze si limitavano al sigaro e al caffè. È perquesto che, non potendole soddisfare, diventava nerissi-

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mo. Erano le giornate tragiche di re Tarquinio, quelle incui l’abbattimento e la disperazione gli si leggevano sulviso e a chi gli si avvicinava cercando di svagarlo e sva-garsi a sua volta, diceva cupamente: lasciatemi negliabissi. Chiamava questi momentacci: il quarto d’ora delcarcerato. In tali occasioni, per rialzare il morale di reTarquinio, non c’era altro mezzo che regalargli qualcheliretta. L’effetto che produceva il denaro sul suo spiritonon era mai subitaneo, bensì lento, ma certo, comequello di una medicina.

Facile ad abbattersi, quanto ad esaltarsi. In una tristecircostanza della sua vita (quella del suo disgraziato ma-trimonio) trovandosi perduto e solo «come un verme»,in un paese non suo, senza consolazione d’alcun genere,se ne andava al cimitero e guardando i ritratti dei defun-ti invidiava la loro sorte. Quando poi decise di rimpa-triare, appena scoprì il mare da lontano proruppe inquesta esclamazione indimenticabile: «Mare, se t’abban-dono inondami»,

Le feste di Natale, Capodanno, Pasqua, la Fiera, nonc’era nessuno al mio paese che meglio di lui le sentisse ele onorasse. In quei giorni scoppiava di felicità e di salu-te. Aveva la faccia congestionata, era pieno di umori chedallo stomaco gli salivano al cervello, e vestiva come uncavallo bardato per un funerale di prima classe. Lo sitrovava disposto a tutto, anche a bere fuori dei pasti. Egli tornavano alla memoria specialmente i fatti della suavita militare, quando era un caporaletto in gamba, tantofuori d’ordinanza che un giorno il colonnello, incontra-tolo nel cortile (della caserma, non poté fare a meno discoppiare: Così è troppo. E lo rimandò al deposito perprovvedersi d’una divisa meno scandalosamente arran-giata.

Allora, nelle case dove si va a veglia, entrava questosacripante, come una macchina da processione entre-rebbe in una chiesa, un po’ per dritto, un po’ di traver-

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so, giacché tutti gli usci parevano troppo stretti e bassiper lui e bisognava pure che facesse attenzione agli scali-ni. Era il divertimento delle donne e dei ragazzi che gli siandavano a ficcare fra le ginocchia, mentre lui non li ve-deva neppure. Allora bisognava sentirlo discorrere delMacao, la famosa caserma romana di cavalleria, dove,diceva zi’ Checco, ci ho fatto tante prodezze che ci si ve-drà la mia ombra; del colonnello che alle riviste, giun-gendo il Re, comandava precipitosamente, con vocestrozzata: Avanti quei petti! guardate il superiore nel vi-so! fatevi belli!; del furier maggiore cavallerizzo Gulieri,piemontese, anzi svizzero, secondo re Tarquinio, alto emagro, con due baffoni cosi lunghi e orizzontali che,tanto per attingere ancora una volta all’incomparabilefantasia di re Tarquinio, pareva una croce. Nel bel mez-zo di queste formidabili esibizioni, per mortificare unpoco la sua vanagloria, non si mancava mai di ricordar-gli la morte. Ed egli pronto: «Io non sono di quelli chemuoiono. Con la morte ci ho il contratto fino a cent’an-ni. E quando sarò al termine, chiederò una proroga. Ah,con questo canterano!», E si batteva robustamente il to-race.

Che dovesse morire così presto, nessuno, in realtà, cipensava. Era giunto a settant’anni serbando intatte lesue forze prodigiose. Le «ruote», ossia le gambe, nonerano più quelle di una volta, allorché, durante i suoi gi-ri di polca, in qualche paesucolo del castrense, suscitavanei villani esplosioni ammirative di questo genere: Tipozzi piglià un colpo nelle gambe. Ma il «motore», cioèlo stomaco, funzionava sempre a meraviglia. E a buondiritto il longevo, a cui dare del vecchio sarebbe stataun’ingiuria gratuita, poteva rispondere, a coloro che gliparlavano di morte: «Andate avanti voi, io verrò appres-so. Quando nessuno di voialtri sarà più al mondo, io ri-marrò per seme, per razza. Rimarrò solo, con tutti bam-bini intorno. Adesso, si sa, sono un po’ tardoncello. Ma

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se mi aveste conosciuto da giovane… Ero un fulmine,un sole. Per guardarmi ci volevano gli occhiali verdi. Ledonne s’innamoravano di me soltanto a vedermi in foto-grafia. Io sono stato il damerino cornetano. Adesso sonocome il leone con la febbre terzana. Ma del resto, ben-ché vecchio e povero in canna, le donne ancora mi si liti-gano. E sarò sempre un cavallo da carrozza, non saròmai uno strappone»,

Ahimè, da qualche tempo, una voce sorda e sinistraaveva cominciato a circolare per il paese: È andato. Ed èincredibile come nei paesi la imbrocchino su questopunto. Là non si fa altro, dalla mattina alla sera, chespiare la salute del prossimo. Per difendersi dal maloc-chio bisogna munirsi di amuleti. Si vive, si direbbe, nonper altro che per far crepare d’invidia i nostri simili, cer-cando di nascondere i propri malanni coi più grotteschiespedienti. Ammalarsi, morire, in queste condizioni, èuna gran vergogna. Re Tarquinio cadde ammalato ed èmorto. Ha conosciuto la morte del commediante,all’ospedale. È morto prima di riuscire a invecchiare e apentirsi. L’ultimo fatto che si rammenti della sua vita fuuna indigestione di carciofi. Le sole parole ch’egli disse,poco prima di morire, sono le seguenti: «Tocca a lassà’ste picchiette», Bisogna lasciare queste ragazzette. Poisi voltò dall’altra parte. Non disse più nulla. Ed è proba-bile che la grande realtà, rivelandoglisi, lo abbia confusoe mortificato come un fanciullo a cui si somministra unalezione troppo forte.

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LA FERRIERA

Era il tempo di Dogali. Da per tutto non si vedevanoche le illustrazioni della «Rana» raffiguranti la guerrad’Africa. Ci si tappezzavano i muri delle botteghe e del-le osterie, si andavano ad ammirare per due soldi al «bu-co tondo», nei baracconi. Non si ragionava di altro chedi Crispi e del general Barattieri, di Menelicche e dellaregina Taitù, del maggiore Toselli, del forte di Macallè edegli Scioani. E il popolo italiano cantava:

O BaldisseraNon ti fidar di quella gente nera

quando già era accaduta Adua.

Chi si ricorda più di quell’epoca rovente come il de-serto che vedeva cadere all’assalto i nostri eroici ufficialidei bersaglieri in tenuta coloniale, con la sciabola in pu-gno, l’elmetto, il pennacchio al vento e il sottogola; e co-me i forni delle ferriere sparsi per ogni cascatella avantiche fallisse la siderurgia? Fu il tempo dei Vulcani.

Noi eravamo bambini allora. Della disfatta di Aduanon abbiamo alcun ricordo preciso. Di quel tempo leg-gendario ci rimane però nella memoria qualche cosa chelo simboleggia. È la presenza, al nostro paese, di una fer-riera che fumava laggiù, nella valle, a un tiro di schioppodall’abitato, tra la fabbrica del gesso e il vecchio mulinoidraulico, in un inferno di acque torrenziali e turbinosesorvolate da leggeri ponticelli di legno che solevamo at-traversare correndo. Lavoravano alla ferriera un centi-naio di operai, calati in gran parte dall’Alta Italia, spe-cialmente lombardi, che avevano le mani e il visotempestati di macchioline azzurre, tracce evidenti dei lo-ro contatti col fuoco. Gente fosca e irsuta, irascibile e

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brusca nei modi, bevitori di grappa, dalla voce caverno-sa, dal linguaggio aspro e incomprensibile, solevano diread ogni momento: «in gamba!», davano spaccio alleosterie e diffondevano le idee sovversive. Il nostro paesene pullulava. E molti di loro avevano finito per prendermoglie dalle nostre parti.

La ferriera ci piaceva e c’interessava, a noialtri ragaz-zi. Eravamo felici ogni volta che potevamo fare una cor-sa alla ferriera. Si ruzzolava fin laggiù per una scorcia-toia precipitosa. Appena arrivati il frastuono era tantoche le nostre voci vi si perdevano e si veniva colti da unasubita e lieta frenesia. In quel sito orrido e fresco il fiu-me fa cascata. Ai rumori del vento, al tumulto delle ac-que che scorrevano sotto, mettendo in moto le turbine,si mesceva il battere dei martelli sulle lamiere e il cigolìodi mille cinghie e ruote, che giravano senza tregua. Io mirammento come un sogno di una volta che mi condusse-ro a veder lavorare la ferriera di notte. Fu un vero so-gno, una di quelle avventure d’infanzia che non si di-menticano. Fu come se vedessi un meraviglioso,immenso museo meccanico. Ogni cosa che si riferisca aquesta prodigiosa officina è materia per me di ricordiparticolarmente cari, anche per motivi domestici che sa-rebbe un po’ lungo chiarire. Ma un brutto giorno fuchiusa. Non c’era più bisogno di ferro in Italia. Tuttiquegli aristocratici operai, abituati a un tenore di vitaeccellente, in ragione delle alte paghe che riscuotevano,buttati sul lastrico, dovettero far fagotto e, come abbia-mo saputo più tardi, la più parte di essi prese la viadell’America. Fu allora che fiorì quella canzone anarchi-ca che dice:

0 profughi d’Italia alla venturasi va senza sconforto né paura.

Canzoni di strada, politiche ed oscene, sommosse e

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attentati, rappresentarono per molto tempo la vita delpopolo italiano in mezzo alla disoccupazione e alla care-stia.

Il nostro paese si vuotò e riprese la sua fisionomia agri-cola e maremmana. Rimaneva però il ricordo pungente,inestinguibile, di quegli anni di fuoco. I ritratti di Ari-mondi e del maggiore Toselli erano in tutte le barbierie.

È così che ci sorprese il mondo: parlo della mia gene-razione. E abbiamo ricevuto le prime, forti impressionidella nostra patria in quegli anni veementi e appassiona-ti, quando essere mandati al domicilio coatto o avernecorso il rischio era un titolo di gloria.

Ascoltando i discorsi dei grandi, le cantilene del can-tastorie in piazza la domenica, gli strilli del giornalaioche ci ferivano sempre mentre andavamo a scuola, noisiamo stati spettatori e partecipi lontani d’una storiasempre più avventurosa, sbandata e canterina.

Al mio paese era nato il Fascio. E sedeva in perma-nenza in una taverna che aveva inalberato come insegnail giacobino emblema del gallo. Non essendosi vinta laguerra in Abissinia bisognava sconfiggere almeno l’am-ministrazione comunale che, in tanti anni di dominio,oltre all’essersi rosicato il «crògnolo», stemma del Muni-cipio, era riuscita a mangiarsi anche le tavole del teatro.Veniva detta perciò «l’amministrazione del tarlo», dalsoprannome dato al suo segretario. Il popolo chiedeva leterre e l’acqua potabile. Cosa, quest’ultima, non facileper un paese che ha la disgrazia di essere piantato in col-lina: occorreva mandar l’acqua per l’insù. Pro e controtali faccende si disputavano il campo due fazioni, ciascu-na delle quali si raccoglieva intorno a una sua banda, e sichiamavano la «banda vecchia» e la «banda nuova» o la«rossa» e la «nera» dal colore delle monture. E ci si era-no divise le famiglie e resa amara l’esistenza d’ognuno.

Mentre quest’ira di Dio imperversava sul mio paese,

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sentivamo buccinare d’una guerra tra la Grecia e la Tur-chia. Domokos! Si vedevano strane cose. La gioventù incamicia rossa. Garibaldini adolescenti, bramosi di versa-re il loro sangue per la libertà del sacro suolo ellenico.Ma il Governo reazionario proibiva l’imbarco ai volon-tari. Fu allora che si favoleggiò d’un bastimento miste-rioso il quale, approdato nottetempo a Pian di Spille,uno dei punti più sconosciuti e remoti della nostraspiaggia, rimasto poi leggendario, se li era portati via,quei valorosi, in barba ai reali carabinieri. Arrivaronotroppo tardi, si disse. Tornarono senza aver potuto spa-rare un colpo, soltanto con un po’ di malaria.

Una mattina d’inverno, con la neve sui tetti e sui cor-nicioni, ci svegliammo che per tutte le cantonate unamano ignota aveva scritto, a caratteri di stampiglia, conun vetriolo indelebile: «Viva Trento e Trieste!», Questascritta sediziosa, scolorita dalle piogge, ci ha accompa-gnati fino alla soglia della giovinezza. Occorrevano i re-stauri del Palazzo Vitelleschi per farla scomparire daquella facciata.

Ci colpì un giorno la brusca notizia che avevano as-sassinato Re Umberto, un altro giorno che Cavallotti erastato ucciso in duello. In quel tempo noi già cantavamola canzone di Sante Caserio e quella, sboccatissima, delgiovinotto che in via Toledo da una morina si sente chia-mare, avidamente apprese da un caporale d’artiglieria incongedo.

Scoppiavano, di lì a poco, la guerra in Manciuria, laguerra anglo-boera. Il pope Gaponi faceva la rivoluzio-ne in Russia. Noi eravamo già adolescenti.

Della ferriera della nostra infanzia non rimanevanoche pochi avanzi sparsi tra la rena del fiume, arrugginitial sole, laggiù dove pochi anni prima giocavamo a tirarcile sbavature della ghisa che non pesavano più d’un bioc-colo di lana.

Giorni passati in convento durante gli esercizi della

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prima comunione. Silvestre ritiro di passionisti a cui nongiungeva altro rumore che il ronzìo dei tafani a mezzo-giorno. Il mare lontano in vista, verso Orbetello. Bellez-za del cielo, degli alberi, della campagna contemplatadalla finestra della mia celletta dove io, in preda a unlanguore primaverile, trascorrevo le mezze giornatestandomene supino sul letto, immerso nella lettura dicerti opuscoletti che trattavano del Giudizio Finale, sul-la cui copertina si vedevano angeli soffianti in lunghissi-me trombe che mi riempivano di terrore. Mangiavo, conaltri compagni, in refettorio e ho ancora nella bocca ilsapore di quel vinello acidulo e di quella povera cucinafratesca. Ma nell’orto c’erano i fichi, i famosi fichi deifrati.

Quanto era dolce svegliarsi nel cuor della notte, star-sene sotto le lenzuola, e sentire le cadenzate voci dei pa-dri che a quell’ora pregavano, giù nella chiesa, in coro.Mi rammento di uno di essi che occupava la cella accan-to alla mia e che io guardavo con particolare ammirazio-ne perché, essendo molto dotto e intento sempre a stu-diare, veniva trattato da tutti con grande reverenza edera dispensato da ogni obbligo della regola, compresoquello di alzarsi per il mattutino. Rivedo padre Norber-to, frate magro e occhialuto già sentito predicare da meal tempo delle Missioni che tutte le mattine mi veniva atrovare in cella esortandomi a guardare il paesaggio chesi scopriva dalla mia finestra e lodando la beata vitaclaustrale. Ma intanto io avevo perso la tranquillità e ilsonno a cagione d’un altro libro che m’avevano dato daleggere e da meditare, dove si elencavano le infinite pro-babilità di morire che ha l’uomo in ogni momento. Unalettura da far rizzare i capelli. Alla vigilia della comunio-ne mi confessai di tutti i miei peccati, che in quel mede-simo istante, furono visti volar per il cielo, a quanto mifu assicurato, come uno stormo di cornacchie. E fu allo-ra che persi la mia ricca chioma e il primo colpo di for-

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bici me lo diè a tradimento, a guida di sfregio, un novi-zio, sghignazzando come un demonio e facendo ridere ifrati che assistevano alla mia umiliazione.

Uscii di convento stravolto, pallido, smagrato, comese uscissi da una malattia, pieno d’entusiasmo per la reli-gione e la vita di clausura. Come fu che diventai di bottosocialista, è un mistero. E quel ch’è peggio, tosato edemaciato qual ero, m’andai ad innamorare della più ri-gogliosa ragazza del mio paese che aveva più anni di mee neppure s’accorgeva della mia esistenza.

Il primo anarchico di cui abbia memoria lo conobbida fanciullo. Si chiamava Baciccia, arrotino di Genova.Sempre col fiato che gli puzzava di grappa e le taschetraboccanti di giornali sequestrati. Lo guardavo lavorareper ore e ore, davanti a qualche osteria, mentre provavail filo dei rasoi e dei trincetti sui suoi polpastrelli. La pie-tra scolava abbondantemente e mandava scintille a con-tatto della lama. Tutta la sua anarchia stava lì, inquell’attrito.

E fu, più tardi, un altro anarchico individualista, ro-mano questo e pontarolo, che mi fece conoscere e gusta-re per la prima volta, sotto un aspetto simbolico, il levar-si del sole; giacché, inebriato dai suoi discorsi, io nonandavo più a casa, ma, di caffè in caffè, trascorrevo lebrevi notti d’estate con questo ideal tipo di lavoratore.Ero dunque socialista io, pronunziavo discorsi alla folla,inviavo corrispondenze a tre o quattro giornali (tantagloria mi valse la pubblica presunzione ch’io sapessiadoperare la penna altrettanto bene che la parola!), baz-zicavo certi anarchici di Roma che lavoravano alla co-struzione d’un ponte lungo la ferrovia, tra i quali ho par-ticolare memoria d’un giovane alto e magro, di nomeRomeo, un santo circondato da una caterva di lazzaroni.Volentieri li seguivo anche sul lavoro, dormivo qualchevolta nella loro camerata, ascoltando cupidamente le lo-

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ro discussioni e ammirando le maniere autorevoli e vera-mente cristiane onde il migliore di tutti sapeva mettere aposto il riottoso, con le buone o con le cattive, e perdo-nare a colui che s’era bevuto il denaro d’una sottoscri-zione. Con tutto ciò, non soddisfatto, avrei voluto essereanche massone. Tanto che un giorno chiesi al Direttoredelle scuole elementari, che mi dava lezioni d’italiano edi francese, se l’esser socialista fosse qualcosa di più omeno che massone, perché a nessun costo intendevo ri-manere indietro. Avendomi risposto in maniera da tran-quillizzare il mio animo, quel caro maestro che sapevaleggere così bene la grammatica (era un fiorentino) eaveva il solo difetto di piacergli più Fucini che Manzoni,per via di quei panni mal risciacquati in Arno, fui con-tento del fatto mio e poco mi curai sempre dello scanda-lo e delle apprensioni che le mie tendenze suscitavanointorno. Con mio padre cercavo di cavarmela dandogliad intendere un socialismo infuso di cristianesimo; maera peggio che andar di notte. In nessun modo volevasentir parlare di giustizia sociale e di equa distribuzionedelle ricchezze, mio padre.

Avevo coltivato fin da bambino una ben singolareidea della mia dignità personale. Mi pareva, a dirvela inconfidenza, che l’aver rapporti, il mostrarmi in pubbli-co, con gente malvestita, irregolare, di bassa estrazione euniversalmente disprezzata, fosse il colmo della scicche-ria per un uomo indipendente e superiore ad ogni giudi-zio quale io mi presumevo. Ed era la mia vanità. Che lamia persona potesse venire diminuita da certi contatti,non mi passava neppure per il capo. Piuttosto mi sorri-deva il pensiero di creare agli occhi del mondo, con ilmio contegno umano e disinvolto verso gente visibil-mente inferiore o indegna, un contrasto piacevole e bril-lante: una cosa non da tutti. Ignoravo il proverbio:«dimmi con chi vai e ti dirò chi sei», e «chi va collo zop-po impara a zoppicare», E perciò non c’era vagabondo,

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pidocchioso, ciarlatano, commediante, conferenziere,briccone, il quale capitasse al mio paese, che io non rice-vessi con tutti gli onori. L’esperienza mi deluse più e piùvolte, ma sempre invano: il vizio delle matte compagnieio non me lo leverò mai. E l’errore mi trasportò tanto in-nanzi che mio padre morì, di breve male, giudicandomiun uomo perduto. Nel che certamente non s’ingannava.

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MEMORIE

Dal mio paese, di sera, come ho già detto, si vedono ilumi di Montefiascone, città particolarmente nota, dallenostre parti, per il suo seminario e per i suoi piccoli se-minaristi vestiti di viola. Molti miei amici d’infanzia,senz’alcuna vocazione per il sacerdozio, portarono quel-la veste paonazza, a cui però io preferivo la bersagliere-sca divisa del collegio di Spoleto. Ma il paterno scettici-smo didattico e culturale non mi concesse nemmeno lamodesta uniforme del convitto di Amelia, dove sospira-vo d’entrare, soprattutto in omaggio ai famosissimi fichidi questa città. Cosicché, se proprio ci tenete a saperlo,io appartengo a quella difficile, ombrosa e variamentestimata categoria di persone che hanno studiato e si so-no fatte da sé. Di padre in figlio i destini degli uomini siperpetuano. Anche mio padre veniva dal nulla, benchédi buona famiglia, finita in malora. Da bambino avevaconosciuto la dura poesia delle strade carreggiabili. E sene gloriava. Giunto a farsi una modesta posizione incommercio, prima da spedizioniere privato, poi da eser-cente, non mostrava nessun desiderio di migliorarla. Vi-veva chiuso nel suo ceto, nella sua condizione, come inuna casta. Tutto il suo orgoglio lo metteva nel venderemerce ottima a prezzo adeguato, senza curarsi dei con-correnti, nell’imballare i carciofi, gli abbacchi megliod’un altro, nel saper giudicare a colpo d’occhio quantepiante può contenere un carciofeto, quanto può valereuna vigna. Molte persone infatti, le quali non avevanoche soldi, si giovavano del suo ingegno ed egli era benlieto di porre in comune questo capitale che natura gliaveva dato e che gli permetteva di primeggiare, nelle va-rie piccole società commerciali di cui fece parte,senz’aver l’aria e senza correre troppi rischi. In quelleamicali unioni, pure portando il suo contributo di dena-

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ro, faceva tutto lui. Lavorava per sé e per gli altri. Eavrebbe potuto sembrare quasi un servo dei propri soci,mentre in realtà era il loro ispiratore, un uomo compe-tentissimo nel suo mestiere e quanto mai geloso dellasua indipendenza. Per farla corta, mio padre pretendevach’io diventassi niente altro che un buon commerciante,alla sua maniera. E non per nulla una delle massime chepiù frequentemente lo sentivo ripetermi era questa:«Tratta chi è più di te e fagli le spese», Non immaginavafino a qual punto gli somigliassi e come lo avrei purtrop-po imitato, ma in campi assai meno generosi di quelliche, con tanta sicurezza, egli sapeva stimare prima chefiorissero. Ecco la ragione vera per cui non volle che stu-diassi e fece, senz’accorgersene, la mia rovina. Giacchéio ero nato allo studio, avevo il bacillo della cultura edella letteratura nel sangue. Per conseguenza, quandonon trovai più scuole da frequentare fui un ragazzo per-duto, a cui veniva meno il suo naturale alimento. Cercaiallora la scuola nella vita, nel mondo. A sedici anni, cioèun anno avanti che mio padre morisse, ero già lontanoda lui e dal mio paese. E se ripenso a questi fatti e cercodi ricostruirne le date, mi pare impossibile che io abbiacominciato a vivere così presto. Il tempo che un ragazzoimpiega ordinariamente nell’apprendere un’arte o nellostudio del latino e del greco io lo trascorsi fra genteadulta, girovagando, impicciandomi di politica. Potreiparagonare la mia adolescenza a quella d’un mozzo, secedessi un poco alla fantasia.

A mio padre tornai soltanto per assisterlo negli ultimigiorni della sua vita, sostenendo senza batter ciglio il so-spetto, da parte sua, ch’io approfittassi della sua malat-tia per salvarmi dalla fame che mi era piaciuto affronta-re. La sua morte l’ho scontata prima che avvenisse.Tutte le lacrime di cui potevo disporre le ho versate ungiorno che, recatomi a visitarlo al Policlinico di Roma,dov’egli era stato sottoposto ad una inutile operazione,

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lo trovai come un albero secco, mangiato dalle formi-che. Appena mi vide gli occhi s’inumidirono, ma in quelmedesimo istante le sue lacrime tornarono indietro co-me succhiate da una immane forza interna. Mi guardò,al solito, burberamente, chiedendomi che venivo a fare.C’eran cose urgenti da sbrigare a Tarquinia. Cominciavala mietitura ed egli era fornitore di grascia. Volle che ri-partissi in giornata; non mancò di ripetermi più volte, aproposito di quei quintali di bianco lardo lucchese cheavrei dovuto somministrare, la sua consueta raccoman-dazione «fai perbenino», ed io sarei ripartito, probabil-mente, abbastanza tranquillo, se non avesse aggiuntoche di lì a una quindicina di giorni contava di essere aTarquinia anche lui. Sapevo, purtroppo, e vedevo chenon si sarebbe più alzato da quel letto. A questo contra-sto non potei reggere. Mi tenni appena quanto era ne-cessario per sottrarmi alla sua vista. Poi non saprei direquel che accadde in me. Uscii dall’ospedale piangendo esinghiozzando come un bambino smarrito, e in tale sta-to salii sul tranvai che portava a San Pietro. Per tutto iltragitto piansi disperatamente, pubblicamente, meravi-gliandomi, di tanto in tanto, che nessuno dei molti pas-seggeri che si avvicendavano sulla vettura me ne chie-desse la ragione. Forse, poiché mi trovavo sul tranve delPoliclinico, era facile capirla questa ragione e i buoni ro-mani lasciavano ch’io dessi sfogo al mio dolore. Se no cisarebbe da credere davvero che Roma sia una città cru-delissima, come sospettai allora vagamente.

Quando m’arrivò la notizia della morte di mio padreogni possibilità di soffrire era ormai esaurita. Presi la viadi casa, entrai in camera, e guardandomi un po’, nellospecchio mi dissi che da quel momento ero solo. Avevodiciassette anni.

Così mi staccai da quel tronco umano che è semprestato per me, più che un padre, un forte esempio mora-le, anche nei suoi non pochi e non lievi errori, nella tre-

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menda integrità del carattere. Dimenticato per qualchetempo, cominciò a ridestarsi, via via che la vita si com-plicava e ingrossava, prima di tutto nei sogni. Per lungotempo il sogno che facevo su lui fu sempre il medesimo.Tornavo nel luogo dove ho trascorso l’infanzia: il buffetdella Stazione, di cui si parla nel seguente capitolo. Miopadre, immoto, stava sempre allo stesso posto e mi guar-dava in silenzio, con una espressione indicibilmente do-lorosa. Ma io non potevo restare. Un treno giungeva.Dovevo ripartire subito. E nulla era più straziante diquesto distacco, di quest’incubo che m’ha perseguitatoper anni e anni. Finché ultimamente, qualche anno fa, lorividi in un sogno bizzarro che non so quanto valga lapena di raccontare. Credo che io fossi a Ventimiglia eincontravo mio padre come una persona che s’è persa divista, di cui non si ha più notizia da tanto tempo. Era an-cora vivo, anzi ringiovanito, in faccende, con una tristearia smemorata, e chiuso in se stesso più del solito. Ve-niva dalla Costa Azzurra, vestito abbastanza bene, maborghesemente, cioè in un modo che non gli si addicevaaffatto. A quel che potei capire s’era dato alla letteratu-ra, con molte pretese, ignorando che anch’io facevo lostesso mestiere. O forse lo sapeva, senonché fra noi duec’era non so quale contrasto. Egli scriveva per il pubbli-co e non dava nessun peso a quel che potevo scrivere io.Mi fece una compassione enorme, soprattutto perché lovedevo disorientato e novellino in quest’arte. Per la pri-ma volta mi sentivo superiore a mio padre e decisi, den-tro di me, di aiutarlo, con tutte le mie forze a non perde-re le sue illusioni.

Adesso la sua ombra non mi visita più, sembra essersiplacata, forse perché io non ho ormai che una memoria assai stanca di queste cose che vo raccontando.

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IL BUFFET DELLA STAZIONE

Una delle passioni più singolari di mio padre fu sem-pre la ferrovia. Per un curioso destino, qualunque cosasi buttasse a fare nella vita, alternando, come soleva, unmestiere all’altro o esercitandone in una volta più d’uno,il suo campo d’azione era sempre nei pressi della stradaferrata. Da giovane aveva guidato i cavalli della diligenzadella stazione che giace isolata, in campagna, a qualchechilometro dall’abitato, e fu allora che rischiò di prende-re un colpo di sole; poi tenuto un bettolino a poca di-stanza dal passaggio a livello; da ultimo s’era dato aesportare e importare, al mio paese, tutto quanto vi sitrova in abbondanza o di cui n’è penuria, secondo le sta-gioni; e in certi periodi dell’anno le sue ore di lavoroerano contate e regolate sopra l’orario delle ferrovie.Aveva finito così per farsi una competenza in materia.Ragionava dell’andamento ferroviario con la stessa pro-fusione e precisione di termini tecnici con cui avrebbepotuto discorrerne un ferroviere. Insieme con le storiedei briganti, da lui intravisti, al tempo della gioventù,per le macchie della campagna romana, non aveva per ilcapo se non treni in partenza e treni in arrivo, tariffe, bi-glietti circolari e cabale telegrafiche.

Per intendere una fatalità di questo genere bisogna ri-portarsi a molti anni addietro e pensare che siamo inmaremma. Occorre tener presente la condizione di miopadre, forestiero in questo paese di traffici e di fortuna;la sua solitudine, il suo carattere fantastico e nostalgico,e tante altre cose le quali fanno sì che tutto quello che sadi commercio, di fuorivia, lo attiri; in particolar modoquel tronco di linea e quella stazione dove non si senteparlare che pisano. Dinanzi agli uomini e alle cose chenon conosceva era sempre nelle disposizioni migliori epiù fiduciose: sistema eccellente per prepararsi delle de-

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lusioni e finire per essere disgustato del mondo intero.Ma la ferrovia è un luogo dove l’ignoto è, per così dire,all’ordine del giorno. Aver da fare coi treni e col perso-nale ferroviario, sempre nuovo e diverso per sua natura,non ci si stanca mai. Ecco perché la ferrovia gli piaceva.E i «buoni italiani» di cui andava in traccia, gli accadevad’incontrarli talvolta, di passaggio, soltanto lì attorno,fra gl’impiegati delle ferrovie. Sebbene tra lui e loro cifosse spesso poco buon sangue, a cagione dei tanti ritar-di, svii, smarrimenti, errori di computo nell’applicazionedelle tariffe, che egli non lasciava passare, è inutile dirlo,senza opporre i suoi pertinaci reclami erano, in fondo,quegl’impiegati, le sole persone che lo interessavano econ le quali, tempo permettendolo, si compiaceva diconversare. A contatto di essi l’orizzonte si allargava.Andare alla stazione, tanto valeva per lui quanto metter-si in viaggio e rivedere quelle città dell’Italia centrale,come Livorno, Lucca, Siena, Modena, Piacenza, cittàricche d’ogni ben di Dio, con le quali era in rapportid’affari e che conosceva e ammirava per averle viste nonso quante volte nei viaggetti circolari che faceva quasiogni anno, chiuse le sue stagioni di lavoro. La ferroviaera il suo reame. Sulla riva di quel torrente secco che è lastrada ferrata si sentiva a suo posto meglio che in qua-lunque altro luogo.

Fu dunque un giorno memorabile nella sua vita quel-lo in cui poté ottenere il permesso di fabbricare nell’in-terno della stazione un buffet che, a parer suo, mancava.Non si trattava questa volta di un misero bettolino gesti-to, per dir così, alla macchia, fuori del sacro recinto fer-roviario, ma di un buffet vero e proprio, col diritto divendere cestini e fiaschetti ai treni, buffet riconosciuto,autorizzato, con tanto di lista dei prezzi stabilitadall’Ispettorato Centrale di Pisa, posto sotto l’emblemadella ruota alata, qualche cosa come il Valiani del miopaese; dove si mescesse il Chianti nei bicchieri a calice,

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si cuocessero le uova al piatto, si mangiasse l’arrostofreddo lardellato, coi carciofini sott’olio. Idea ambizio-sa. Era per lui come entrare a far parte delle ferrovie.Quanto brigò e armeggiò per ottenere il desiderato nul-la osta!

Tra il fabbricato della stazione e il giardinetto adug-giato da melanconici eucaliptus, caratteristico esemplaredi giardinaggio ferroviario, dove non fioriscono che ge-rani, tirò su un casotto di legno, che esiste ancora, sul ti-po di quanti se ne vedono, adibiti allo stesso scopo, nel-le stazioncine d’infimo grado, perse, come la mia, inmezzo al deserto, di cui sembrano accrescere lo squallo-re. Ultimò la sua baracca in pochi giorni, servendosid’un certo legno chiamato pinotto americano e di tegoledi Marsiglia, spendendoci alcune migliaia di lire; ed èinutile aggiungere che non ebbe bisogno d’ingegnere nédi troppi operai. Fece tutto da sé come il baco che sichiude nel bozzolo. È il solo edificio d’utilità pubblica acui sia rimasto legato il suo nome, l’unico monumentoch’egli abbia lasciato.

Purtroppo per un buffet di lusso, come se l’era imma-ginato mio padre, al mio paese c’era poco da fare. Inol-tre, lanciandosi in quella nuova impresa, egli non s’eracurato di guardarsi le spalle; pigliando in affitto, quandopoteva, per servirsene magari ad uso di magazzino, labettola del passaggio a livello che minacciava di fargliuna pericolosa concorrenza, essendo un locale già notoe più democratico. Non lo fece perché non lo volle fare;per un sentimento d’orgoglio, di dignità, come se si fos-se trattato di commettere una vigliaccheria. Tanto è veroche ogni uomo ha il suo capriccio, come dice Pascal; enon sempre commerciante è sinonimo di uomo pratico.Avvenne dunque che il locale in questione fu aperto.C’era al banco una donna, sorella d’un ferroviere. Ci simesceva il vino a buon mercato. E gli operai del mante-nimento, il giorno della paga, andavano a far bisboccia

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nella taverna rivale, mentre mio padre, con le mani die-tro la schiena, s’avvicinava di tanto in tanto alla vetrinaper vedere che direzione prendevano uscendo dalla sta-zione; senza fare, beninteso, il più piccolo commento.Non per questo si lasciò convincere a diminuire i prezzie ad abbassare comunque il livello del suo locale. Sicomportò come se la bettola nemica non esistesse. Inconseguenza di ciò, il buffet era quasi sempre vuoto. Leore morte erano le più numerose. In quel tristissimosoggiorno, che si animava soltanto in talune circostanzeeccezionali, come il passaggio del treno reale o del trenomilitare, la costruzione di un ponte lì vicino, il rinnovodelle rotaie e delle traverse, cose tutte che richiamavanoalla stazione un pubblico inusitato, io ho trascorso glianni della mia adolescenza, non avendo attorno a me al-tro spettacolo che la campagna immensa e disabitata enegli orecchi il ronzio perpetuo dei fili telegrafici e il si-bilo delle tramontane inique. Le pietre dei binari di pri-ma e seconda linea, sporche d’olio, la ruggine e l’erbadei binari morti, i vagoni rossi della piccola velocità ingiacenza e in attesa di essere caricati, i capannoni pienidi balle di paglia, il bugigattolo oscuro e sudicio del lam-pista, il disco, lo scambio, i cancelli, le staccionate, laghiaia delle panchine, ecco tutto ciò che, per anni e an-ni, ha costituito il divertimento dei miei occhi e il tra-stullo delle mie mani. Per nove mesi dell’anno il fabbri-cato della stazione, dove pure abitavano alcune famigliedi ferrovieri che non si vedevano mai, era un’enormezanzariera da cui gli impiegati non uscivano che al pas-saggio dei treni, affrettandosi a rintanarsi, più possedutidall’impazienza di finire il turno che dal bisogno dicompiere il proprio dovere, e come terrorizzati dallamalaria. Illusione di quei brevi momenti di trambustoche si notavano all’arrivo d’un diretto sbuffante, sma-nioso di proseguire; dopo i quali, scambiate ad alta vocele solite frasi di rito fra il capostazione e il capotreno,

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uditosi il grido del frenatore: partenza!, il solito suonodi cornetta, il fischio lacerante della locomotiva, tutto ri-tornava più triste, più morto di prima. Vita da galeotti,giù alla stazione. Solitudine e tedio che, di domenica,non trovavano proprio alcun conforto, eccetto la visitadel sorvegliante della linea che compariva, verso sera,per fare con mio padre una partita a briscola scoperta.Solitudine e tedio che, al tramonto, si colorivano d’unvago terrore e s’addolcivano solo a notte, quando losquillo prolungato del campanello elettrico e la lanternarossa, posata sul piazzale della stazione, segnalavanol’arrivo sempre in ritardo, del 215: l’ultimo treno. Allo-ra, coi pochi soldi incassati durante la giornata e il fazzo-letto della spesa, mio padre ed io tornavamo a casa inomnibus. Vecchia, rumoreggiante diligenza a vetri al cuiricordo s’associano le mie più gradevoli sensazioni diquel tempo. Nelle sere d’inverno, quando fischia la tra-montana, il senso di felicità, di sicurezza, di sonno inci-piente, da cui si veniva subito colti lì dentro, era volut-tuosamente accresciuto dal pensiero del freddo chefaceva fuori e della paurosa notte incombente sulla de-serta via del ritorno,

I cavalli trottavano stancamente fino al primo indiziodi salita, poi si mettevano a passo di lumaca, mentre ipasseggeri, immersi nel buio, andavano chiacchierandosenza potersi vedere in faccia ed io mi divertivo a segui-re il filo discontinuo e vario dei loro discorsi.

Fu in tal modo che mio padre chiuse la sua esistenza,in dignitoso esilio; solo lagnandosi qualche volta di nonpoter più andare a caccia di storni come soleva ai tempidel bettolino; perché adesso era solo e non poteva tenerchiuso il buffet neppure un momento, stante i suoi ob-blighi con l’amministrazione ferroviaria. Del rimanente,non troppo scontento dell’opera sua; essendo riuscito afar diventare realtà una delle sue aspirazioni più profon-de e antiche; e guadagnando infine quel tanto che gli oc-

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correva. Senza contare che dalla considerazione del suostato lo distraevano abbastanza i grattacapi che gli davoio. Avendo bisogno d’un magazzino dove raccogliere i«vuoti», seguitò a piantare filagne e ad avvitare tavole diquel suo famoso pinotto americano; ed è certo che, sefosse dipeso da lui, avrebbe fabbricato lì attorno tuttoun villaggio di legno.

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PRIMI PASSI

Sono venuto a Roma a diciannove anni, con sette lirein tasca, e non avevo altre conoscenze che un avvocatosocialista, abruzzese, proprietario d’una casa in via Bo-nella e fratello d’un monsignore che ricopriva un’alta ca-rica in Vaticano. Per vivere, nei primi anni, dovetti fare imestieri più vari: addetto a vigilare l’andamento dellesveglie in un deposito d’orologi a via Tor de’ Specchi(occupazione non indegna di uno che, più tardi, si sa-rebbe presunto un discreto osservatore dei tempi); ama-nuense nello studio d’un bisbetico avvocato piemontesee socialista anche lui, che non riuscì mai ad entrare inParlamento, nonostante il denaro profuso per tenere inpiedi le leghe dei contadini del Tivolese e il mio appog-gio oratorio; impiegato nella segreteria della Federazio-ne metallurgica, la quale aveva sede in via Alessandrina,oggi scomparsa, come via Bonella e tante altre strade inquei pressi, nella sontuosa via dell’Impero; contabile, difatto se non di diritto, in una cooperativa repubblicanadi scalpellini o marmorari che si voglia dire, nei cui regi-stri figuravano soprattutto due grosse partite, il Monu-mento a Vittorio, e il Palazzo di Grazia e Giustizia; infi-ne, dopo un congruo periodo di disoccupazione e dimiseria inenarrabile, giornalista. Ero a cavallo. Potevocompiacermi del cammino percorso. A ventidue anniabitavo già in una pensione del più elegante quartiere diRoma, quello di Piazza di Spagna, avevo il mio sarto, ilmio barbiere, il mio lustrino preferito, frequentavo laTerza Saletta di Aragno e godevo, per di più, i favori diForina, Peppino, camerieri ben noti, figure ormai stori-che, tavoleggianti di prim’ordine che servivano due uo-va al piatto su grandi vassoi o guantiere, come si dice almio paese, d’argento massiccio. Che cosa desideravo dimeglio?

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Questi dunque furono i mestieri che io esercitai a Ro-ma, in una specie di vita anteriore, al tempo del tranve acavalli e dei lumi a gas, quando i romani si chiamavano«buoni Quiriti», i consiglieri del Campidoglio «padricoscritti», e don Prospero Colonna, magnifico sindacodi una modesta capitale di cinquecentomila abitanti, eradetto scherzosamente «don Cerino»,

Io venni a Roma col vento o, per meglio dire, con lanostalgia dei treni che andavano verso la Città Eterna one portavano l’odore. Nato nel Lazio, in un paese dovesi parla un linguaggio molto simile a quello romano, cre-sciuto per di più lungo la ferrovia, niente avrebbe potu-to impedirmi di correre la mia modesta avventura. LaValigia delle Indie, che io vedevo passare per la desertamaremma una volta la settimana, sfiorava appena la miafantasia. Questo treno fantasma, uso ad apparire e spari-re sul crepuscolo, più veloce d’un pipistrello, non fer-mava alla mia stazione. Se no, credo che sarei finito chisa dove. Ma tutti i diretti, gli omnibus, i misti, e perfino itreni merci che, sostando a Tarquinia più o meno lunga-mente, magari soltanto per rifornirsi di acqua, riprende-vano la loro corsa in direzione dell’Urbe, erano per meun invito a salire. Partiti, li accompagnavo con lo sguar-do per tutta la curva del litorale, fin dove scomparivano,lasciando sul loro cammino qualche nuvoletta di fumobianco, presto dissipata dal vento.

Negli anni della puerizia, sentendo ragionare di Ro-ma, dell’Osteria della Cuccagna, ritrovo in quell’epocadei tarquiniesi residenti nella Capitale, del mirabile pon-te apribile di San Paolo, che si chiudeva per lasciar pas-sare il treno, quindi si riapriva, fantasticavo di andarme-ne fra i Sette Colli, raccogliervi non so quali allori, pertornare poi al mio paese vestito da bersagliere, soprauna macchina volante. Non mi bastavano le piume, vo-levo anche tornare a volo, in un tempo in cui Délagran-

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ge era di là da venire. Che cosa accendeva in tal modo lamia immaginazione? Certo i calori primaverili e i ro-manzi di Giulio Verne.

Finalmente, a diciannove anni, «riche des mes seulsyeux tranquilles», eccomi nella città dei miei sogni, por-tatovi anche un po’, bisogna pur dirlo, dalle mie utopiesocialiste, da quel tanto di romantico e randagio che taliutopie contenevano. E ognuno può immaginare da qua-li gironi abbia avuto inizio il mio viaggio per l’Urbe.

Mi pare d’aver detto quel che desideravo. La via chemi condusse a Roma non è quella dell’Università,dell’impiego, degli affari, della fortuna. Io sono dellarazza dei piccoli migratori interni. Sto a Roma per fata-lità regionale come un lombardo può stare a Milano, unemiliano a Bologna, un toscano a Firenze, e così via. Sefossi nato altrove che nel Lazio la mia vita si sarebbesvolta certamente, con maggiore o minor successo nonso, in tutt’altro capoluogo. La mia residenza nell’Urbenon ha niente di ambizioso: è un fatto naturale e pacifi-co.

Una simile persuasione mi conforta quando penso diaver trascorso, starei per dire provvisoriamente, la mag-gior parte della mia esistenza in una città non mia, lungidal mio paese nativo, in una condizione che, per quantole mie parole possano sembrare esagerate, ha tutto il sa-pore di un esilio.

Ma torniamo alle memorie.

È duro il cammino d’un giovane che, oltre a farsi unacultura, deve provvedere, possibilmente, a non moriredi fame. In questa non comune situazione mi trovai aRoma nei primi anni. Stimerò sempre un miracolo esserriuscito a cavarmela. Ma la vita è piena di risorse e lafortuna assiste chi non è nato per lasciarli schiacciare.Per dare un’idea degli espedienti a cui talvolta è neces-sario appigliarsi, narrerò brevemente una felice avventu-

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ra capitatami in un periodo che, privo di lavoro, avevoperso da alcuni mesi la memoria del letto e della tavolaapparecchiata. Passando un giorno davanti a un’agenziadi collocamento mi fermai a leggere, più per curiositàche per altro, gli annunci contenuti in una tabella appe-sa fuori dell’uscio e vidi che si cercava un professore dipedagogia disposto a scrivere una tesi per una diplo-manda del Magistero femminile. Risoluto entrai nell’uf-ficio. Chiesi l’indirizzo della studentessa che aveva pub-blicato quell’annuncio e mi presentai a lei e a sua madrein un arnese indescrivibile, con una barba ispida e lungadi non so quanti giorni, spacciandomi, ahimè, per quelche non ero. Le due donne, senza far caso al mio aspet-to, che forse giudicarono conveniente a un povero dot-tore in pedagogia, certo laureato da poco, mi accolserocome un salvatore. Il tempo degli esami stringeva, l’ur-genza era grande da ambo le parti, e non ci fu difficileintenderci su tutto. La tesi aveva per tema «Il naturali-smo in pedagogia», doveva consistere in non meno diduecento pagine dattiloscritte ed essere consegnata en-tro quindici giorni al più tardi. Accettai con entusiasmoqueste condizioni. Infine si venne al compenso, e mi sioffrirono duecento lire, cifra sbalorditiva in quegli anni,per uno che si trovasse nelle mie condizioni. Un paio digiorni dopo consegnavo il primo capitolo, ricevendo unanticipo che mi servì a rivestirmi e a trasformarmi da ca-po a piedi. Quando tornai per consegnare il secondo ca-pitolo, a cui seguì un nuovo anticipo, mi vergognavo unpo’ di farmi vedere con la faccia rasata e quegli abiti lu-stri e fiammanti che erano un’aperta confessione dellamia miseria. Tuttavia né la madre né la figlia, due timideperugine, fecero il più piccolo rilievo sul prodigiosocambiamento del professore. Seguitarono insomma,senza dubbio per delicatezza, a fingere di non accorger-si delle mie apparenze. Se non che alla fine di quella spa-ventosa fatica, in virtù di quegli acconti che mi venivano

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benevolmente concessi, via via che la tesi usciva dal miocervello in tumulto, s’era operata in me una metamorfo-si faustiana. E niente di più naturale che fra il dottoreimprovvisato e l’impreparata discente sorgesse un amo-ruccio, presto interrotto dalla partenza di colei che ioavevo sospinta nella carriera dell’insegnamento, pre-standole il mio magistrale soccorso anche nelle tesineorali.

Almanaccai questa tesi nella sala di lettura della bi-blioteca Vittorio Emanuele, di cui ero a quei tempi ze-lante frequentatore, saccheggiando un famoso testofrancese di storia della pedagogia, ma traducendolo,sunteggiandolo e parafrasandolo ad ogni passo, ossiacercando di esprimere con parole mie quel che leggevoe venivo a conoscere per la prima volta, non senza me-scolarvi tutte le considerazioni e fantasie che la calda let-tura poteva suggerirmi, specie nel capitolo su Rousseau,scritto con la testa in fiamme. Non credo sia stato un la-voro inutile, neppure dal lato della mia formazione.

Un’altra fatica del genere, benché meno speculativa,avevo sostenuto pochi mesi prima, scrivendo, in brevis-simo tempo, quasi tutto un libro, di cui però fui l’esten-sore più che l’autore e che non porta naturalmente ilmio nome. Trattava di questioni economiche e sindacali,con uno spirito che allora si diceva riformista e collabo-razionista. Un autorevole professore di economia, leg-gendo questo libercolo, andò in brodo di giuggiole e glidedicò un lungo ed entusiastico articolo sopra un gran-de giornale. È l’unica recensione favorevole e senza ri-serve che io abbia ottenuto nella mia vita, per quel tantoche la detta opera può appartenermi.

Incredibile, strapazzosa, fu la mia fecondità giovanile.Tra i ventidue e i ventiquattro anni, redattore di un gior-nale quotidiano, mi feci conoscere come uno dei più fer-tili imbrattacarte che si siano mai scatenati in una reda-zione. In quel tempo avrei voluto vedere qualcuno che

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osasse rimproverarmi la mia pigrizia. Ero tipo da scrive-re due articoli in un giorno, sei colonne di cronaca sudue avvenimenti diversi, in uno stesso numero. Non micontentavo di eseguire con diligenza il lavoro che m’erastato assegnato. Facevo di tutto, strafacevo, suonandospesso come ebbe a dire giustamente Boutel criticodrammatico del quotidiano in questione, «Malbourougbs’en va-t-en guerre» con le trombe del Giudizio Univer-sale.

Il più umile fatto di cronaca nera diventava per me unottimo pretesto a divagazioni politiche, filosofiche, teo-logiche. E ricordo che, a proposito del delitto commessoda un cameriere d’un grande albergo, il quale aveva uc-ciso un suo compagno di lavoro per gelosia delle prefe-renze che il direttore gli dimostrava, scrissi uno dei mieisoliti pezzi, dove la narrazione del fatto era sommersa inun mare di considerazioni, e lo intitolai pacificamente:Caino e Abele.

Sotto il romantico titolo di Gocce di sangue avevo in-staurato in cronaca una fiorita rubrica per i ferimenti eperpetravo, di tanto in tanto, delle Malinconie romane,firmandole, a capriccio, con diversi pseudonimi, alcunidei quali, i più costanti, erano Simonetto, Calandrino,Caliban. Non so come mai non mi venne in mente di fir-marmi Ariele. Non mi sentivo un angelo, nemmeno aquell’età. Eppoi lavoravo per un giornale a fosche tinte.Ma il bello è che queste divagazioni, alquanto incorpo-ree, malinconiche soprattutto per il modo come eranoscritte, non passavano inosservate. C’era chi mi diceva:Ti leggo, ti seguo. Cominciavo a provare il perturbantepiacere delle congratulazioni. Un giorno il mio redattorecapo, con affettuoso compiacimento, mi riferì che l’ono-revole Fradeletto aveva molto apprezzato non so chefrase o immagine d’una mia cronaca e se l’era trascrittanel taccuino. Un altro giorno mi sentii lodare comescrittore aulico e latineggiante ed io pensai, molto seria-

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mente, che chi nasce a Tarquinia il latino ce lo deve ave-re nel sangue; giacché è inutile ripetere che inquell’acerba età non avrei potuto vantare altre cognizio-ni linguistiche se non quelle ricevute, per dirla con Dan-te, dalla poppa della balia, ossia dalla parlata del miopaese. Purtroppo non ne facevo alcun uso e il mio mo-dello di stile e di lingua era piuttosto Paolo Valera. Mo-tivo per cui, nonostante che un articolo su Ibsen, scrittonegli ultimi tempi del mio noviziato giornalistico, mi ab-bia valso l’attenzione di Emilio Cecchi e, questo memo-rabile complimento del mio direttore: «Bellissimo queltuo articolo. Non ci ho capito niente, ma è bellissimo»,mi affretto a concludere la mia poco pietosa esumazionedicendo che le sole cose possibili uscite dalla mia penna,in quello stravagante periodo di entusiastica attivitàpubblicistica e letteraria, furono forse i miei resocontiparlamentari o di comizi, banchetti e congressi di ognigenere; a cominciare da un congresso di filosofi che ten-ne occupate le cronache per qualche settimana e che,per il luogo in cui si svolse (una famosa biblioteca dedi-cata alle donne di servizio) mi aprì le porte d’un curiosomondo, filantropico, femministico, estetizzante, che me-riterebbe di essere descritto.

Avevo in quel tempo una straordinaria facoltà di rite-nere il pensiero altrui e di trascriverlo con la velocità el’esattezza d’uno stenografo. Come da bambino sapevoleggere meglio di qualunque altro della mia classe, cosìda giovane avrei potuto sostenere una gara col più pro-vetto resocontista d’Italia. Ero nato cancelliere o ama-nuense, come volete. Non si trattava, in sostanza, ched’una certa capacità di attenzione e di memoria e stimodi potermela attribuire senza offendere la modestia. È lasola virtù che io allora possedessi, in grado piuttostoeminente. Ma nessuno se ne accorse. L’avvenire che ilgiornalismo mi prometteva era quello dell’articolista:mestiere difficile, che non ho ancora appreso. E due an-

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ni e mezzo di quel lavoro dannato dovevano finalmentefiaccare la mia resistentissima fibra, già abbastanza pro-vata dalle sofferenze patite, riducendomi sopra una ta-vola operatoria, dalla quale mi alzai trasformato e impo-verito. Lasciando il Policlinico, dopo una degenza diquindici giorni, preceduta da una lunga malattia trascor-sa, in una primavera tormentosa, un po’ sul mio letto,un po’ in una casa di salute, ero un altro. Nella stessacorsia dove mio padre era morto, forse sulla stessa tavo-la dov’egli subì un’operazione inutilmente e da cui si ve-deva, giacendo, la cupola di San Pietro, avevo smarrito,rinnovandomi, gran parte del mio furore nativo. Conquesta non lieve, ma forse provvidenziale caduta, sichiudevano i miei primi quattro anni di vita romana eaddirittura la mia gioventù.

Sopraggiungeva il 1911. Anno fatidico, cinquantena-rio della nostra Unità nazionale. Molte cose accadderoin quell’anno che, inauguratosi con grandi squilli ditrombe celebrative, si concluse con la guerra di Libia, dacui ha principio, in realtà, il nuovo secolo. Fra l’altro,nell’estate del 1911, il mio giornale, che era, per chi nonl’avesse ancora capito, l’Avanti!, si trasferì a Milano. Ioavevo facoltà di seguirlo. Nel caso contrario mi sarei do-vuto contentare d’una modesta indennità limitata alle ri-sorse di un’amministrazione in rovina. Scelsi l’indennità.E ne approfittai per cambiare strada, per interrompereuna carriera intrapresa con troppo impeto. Fu allora chelasciai Roma una prima volta e me ne andai a Firenze, aricominciare la mia vita da capo, fra i pragmatisti,gl’idealisti, i socratici, i tomisti e i teosofi del caffè Pa-skowski.

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ANNI DI GIOVENTÙ

I primi quattro anni della mia residenza a Roma for-mano un cielo assai ben concluso e felice nella mia vita,nonostante le mie miserie economiche e le strane occu-pazioni a cui dovetti piegarmi. Furono anni di gioventù,incommensurabili e pieni di vicende. Posso dire di nonaverli sprecati. In quei quattro anni conobbi il mondo especialmente Roma in tutti i suoi aspetti, dai più bassi aipiù alti. Fui occupato e disoccupato, intento allo studioe dedito ai più sbrigliati divertimenti. Passavo da unacondizione all’altra sentendo che tutto era provvisorio eguardavo il mondo come si guarda il paesaggio in ferro-via. Non era possibile umiliarmi in quel tempo. Andavoper la mia strada e sarebbe stato difficile influire sul miodestino. Io fui la delusione di tutte le belle anime cheavrebbero voluto mettermi sulla buona via, non avendofretta di arrivare a niente, non sapendo neppure io a checosa mirassi. Ricordo un periodo lunghissimo trascorsointorno al Colosseo, senza mai uscire da quelle parti do-ve avevo ufficio, casa, trattoria e qualche vaga attrattivaamorosa. Fu allora che, sui prati dell’Orto Botanico, fecila mia prima lettura di Shakespeare nella traduzione delRusconi: una lettura che ripresi più tardi, in un’ottima escrupolosa traduzione francese, e tenne occupato il miospirito per un paio d’anni. Ragione per cui è probabileche io conosca Shakespeare abbastanza, per quel tantoche un poeta può essere conosciuto mediante una tradu-zione.

In quell’epoca scrissi anche una commedia intitolata:Per diverse vie. Riuscito a farla presentare ad un capoco-mico, l’uomo del mestiere capì a fiuto come non valessela pena di leggere quel copione. Si limitò dunque aprendere atto del titolo e restituì il lavoro spiritosamentedicendo: «Per diverse vie… Lui faccia la sua, io faccio la

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mia», Questa commedia l’ho smarrita, insieme con unalunga novella e un dialogo filosofico scritto in tempi or-mai più maturi, da cui scaturirono alcune pagine delmio primo libro. L’avevo intitolato L’ultima lezione del-lo scettico ed era forse niente altro che un risentimentodell’Apologia di Socrate e del Fedone. Di tutto ciò cheposso avere scritto in quel guazzabuglio lirico-filosoficorimangono le pagine che ho dette, alcuni versetti coiquali si apre il mio libro di poesie («La speranza ènell’opera ecc.») e una frase inedita che mi si vorrà per-mettere di salvare dal provvidenziale naufragio: «Lascia-te che venga l’ora della passione e vedrete come il genioè lucido e ragionativo»,

Io capitai a Roma troppo tardi, sulla fine di un’epoca.Il carnevale romano tramontava fra le scoppole che rice-vevano al Corso, il Giovedì grasso e Martedì grasso, tut-ti coloro che si lasciavano cogliere in bombetta. I nuovitempi urgevano. E fu un miracolo se potei conoscerecerti aspetti di questa città, destinata a sparire con le pri-me demolizioni, i primi slarghi, abbellimenti e sposta-menti del 1911. Ricordo via del Tritone strettissima etrafficatissima, il Traforo ancora sgocciolante, essendostato aperto al pubblico un anno avanti la mia venutanell’Urbe, e via Nazionale, dal Traforo in su, alberata,coi sedili fra un albero e l’altro.

Dove ora sorge la Galleria di Piazza Colonna c’era ungrande spiazzo ghiaioso, con una celebre osteria per fo-restieri, giù in fondo. E proprio in uno dei primi giorniche stavo a Roma, verso la mezzanotte, vidi uscire daquell’osteria uno strano personaggio con un cappellac-cio all’Ernani, inferraiolato come Amleto nella scena delcimitero. Alto, diritto, maestoso, percorreva, in direzio-ne di San Claudio, l’immenso sterrato solitario, in pe-nombra, ed io, dal marciapiedi del Corso, lo vedevo in-cedere come su un palcoscenico. A un tratto una donna

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elegantissima, di alta statura, uscita anch’essa dalla ta-verna, lo raggiunse e lo schiaffeggiò. Ma l’uomo dalmantello seguitò a camminare impassibile, senza neppu-re volgere lo sguardo alla sua schiaffeggiatrice. Il mioeroe cadde di colpo nella mia stima e non si è più rialza-to. Più tardi potei identificarlo. Era Gordon Craig, fa-moso scenografo inglese, di gusto preraffaellita. E coleiche l’aveva percosso, anzi demolito ai miei occhi di pro-vinciale appena inurbato, credo fosse Isadora Duncan,sua amante. Mi era toccato probabilmente di assisteread una scena di gelosia, dovuta al vino di Frascati, chegli stranieri usano bere senza prudenza come se fossebirra. Ma ne derivai un’impressione così sgradevole, pervia di quegli abiti onde lo schiaffeggiato s’ammantava,che non ho mai potuto prendere sul serio GordonCraig, né la sua scenografia, neppure quando ebbi fra lemani una raccolta dei suoi poco esemplari bozzetti. Hosempre visto in lui un uomo che portava un mantelloabusivamente.

Di tipi che vestivano come Gordon Craig ce n’erano abizzeffe nella Roma di quei tempi. S’incontravano spe-cialmente a Piazza di Spagna, via del Babuino, via Mar-gutta, Piazza del Popolo. E non stonavano affatto inquella cornice settecentesca e neoclassica, in quel quar-tiere già detto fiammingo, ben noto per i suoi «studi» diartista, le sue botteghe di antiquari, le fioraie ciociare, edue vecchie modelle incartapecorite, coi capelli di stop-pa, che lo hanno bazzicato e direi quasi caratterizzatoper lungo evo. Fra le pitture polverose del Caffè Grecoe i busti del Pincio si potevano vedere, negli anni dellamia giovinezza, le ultime basette, gli ultimi collettoni ecappelloni dell’Ottocento. Cominciarono a diradarsi al-la fine del 1911, mentre il loro secolo moriva, con un po’di ritardo, nelle esposizioni di Valle Giulia. Ma ora quivoglio ricordare, di quegli stessi anni, un personaggio

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più serio e tuttavia non meno colorito e caratteristico.Fu la mia prima guida per le vie di Roma, colui chem’insegnò a distinguere i diversi stili e le epoche dell’ar-chitettura dell’Urbe. A lui devo le mie prime cognizioniin materia.

Era uno dei più sollazzevoli frequentatori della TerzaSaletta di Aragno e i suoi amici lo dicevano scherzando«la foca sapiente», essendo egli di pelle olivastra, grasso,trasudante olio come una foca o un leone marino, e ca-pace di recitarvi a memoria interi canti dell’Eneide, disnocciolare per ordine cronologico i nomi di tutti i Papi.Soffriva d’insonnia. Motivo per cui lo s’incontrava nelleore migliori, nelle ore delle confidenze. Capitava in Ter-za Saletta, di sera, quando su quei divani di velluto gial-lo-oro non rimanevano che alcuni giovani un po’ lontanidalla sua cerchia, ed io lo accompagnavo qualche voltaall’«Umberto», celebre ristorante romano, oggi scom-parso, dov’egli cenava, per solito, dopo la mezzanotte.

Uomo di grandi amori e di grandi fobie. Bastava no-minargli Corrado Ricci per vederlo andare in bestia.Non so perché odiasse tanto Corrado Ricci. Era stato,anni prima, funzionario alle Belle Arti, quindi «epurato»per scarso rendimento, in seguito a una storica inchiestafatta sul personale della Minerva, e può darsi che attri-buisse al proprio ex-direttore quella piccola disgrazia overgogna che pesava sulla sua incolpevole vita di figliodi famiglia ormai quarantenne.

Abbastanza ricco, ma di figura tutt’altro che vantag-giosa, fuorché nelle proporzioni, trascurato nel vestire,precocemente calvo, con una gran barba corvina e fitta,che poi mi pare si togliesse, con gli occhi sempre un po’rossi, da fratacchione uso alle veglie, sentiva di non po-ter piacere alle bramatissime donne. Questo era, in so-stanza, il suo dramma, il motivo segreto di tutta la suainquietudine e della sua buffa e dolorosa esistenza, ciòche lo indusse infine a diventare, più che amico, protet-

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tore, paladino d’un altro frequentatore della Terza Sa-letta che poteva dirsi, per i suoi facili rapporti col belsesso, il contrario assoluto di lui: un uomo di mondo,elegantone, un po’ equivoco, e fortunato con le donne.Guai a chi gli toccasse questo amico del cuore che nonaveva alcun rapporto con la cultura e per il quale nonavrebbe esitato anche a battersi in duello.

Stimo questo esempio di amicizia bellissimo. Mi piacecreder vera la voce che si diffuse a suo tempo: cioè chela persona di cui ho parlato lasciasse, morendo, tutte lesue sostanze a questo suo diversissimo sozio. Ricorderòsempre con affetto il bizzarro erudito che coonestò conla sua dottrina la lunga esperienza che io avevo già fattadi Roma, negli anni in cui la mia sola casa era la cittàstessa, questa reggia favolosa che i Papi costruirono aconsolazione dei derelitti.

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SOGGIORNO IN TOSCANA

Ho abitato da un inverno a un’estate, molti anni fa, aSettignano, in una casa che rimarrà famosa per aver ac-colto prima di me, nella stessa camera, uno degli artistipiù seri, più eroici, più morali che io abbia conosciuti:Armando Spadini.

Dalla finestra della mia stanza si vedevano la valledell’Africo, il colle dell’Incisa, proprio davanti agli oc-chi, l’altura di Crocifissalto a sinistra, così scura e tetradi notte, coi suoi cipressi sbattuti e spelacchiati dal ven-to, come un Golgota famigliare; e a destra l’Arno, SanMiniato, Poggio Imperiale; insomma il più bel paesag-gio toscano. Era una casa fatta apposta per ricevere lucee aria. Situata in alto, quasi in cima al paese, dovunqueci si affacciasse si offriva allo sguardo, vicino e lontano,lo spettacolo sempre vario di Firenze e dei suoi dintorni;e l’intonaco dei muri interni pareva indorato e cotto daquel sole toscano che penetrava dovunque per le fine-stre sempre aperte.

Il mio vecchio padrone di casa, il sor Ettore, maritodella sora Nunziatina, era di professione scalpellino, e,naturalmente, uomo di poche lettere, ma parlava comeun dio. Toscano di buona razza, si rappresentava i fatti egli uomini della storia come se ci avesse vissuto in mez-zo, con uno spirito, cioè, al tutto confidenziale. E nientepiù lo dilettava quanto ragionare di arte e di storia. Ave-va letto Machiavelli, Guicciardini, il Vasari, il Varchi ele tragedie dell’Alfieri. Era naturalmente, come lo sonotutti i bravi popolani d’Italia, un classicista. Non pernulla si chiamava Ettore. In gioventù aveva girato ancheun po’ il mondo, a scopo di lavoro, spingendosi fino inOlanda: del quale paese ricordava costumi ed eccessimirabili, parlando degli olandesi, che quando sonoubriachi si divertono a far incendiare il loro fiato alla

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fiamma delle lucerne, a quella maniera che Marco Poloparla dei Tartari o dei Persiani. Giunto ormai all’età disessant’anni, con la papalina e lo scaldino in mano, con-servava una tranquillità d’animo e una chiarezza di me-moria e di osservazione addirittura olimpiche. In tuttoquel che diceva non c’era ombra d’ironia, di malignità,di passione, nessun sottinteso; quindi vorrei dire nessunsentimento. S’affacciava di sera alla finestra e sentendo,giù sotto, tra i pioppi dell’Africo, cantare l’usignolo, os-servava col tono più distaccato e freddo che si possa im-maginare: toh, l’usignolo.

I nostri discorsi cominciavano a tavola, dopo cena, efinivano su in salottino dove una vecchia spinetta, conuno spartito della Favorita aperto sul leggio, ricordava iltempo che un fratello del sor Ettore, ora orbo, studiavail canto e vagheggiava di darsi all’arte lirica. Adesso zap-pava l’orto, s’era ridotto nella condizione del servo dicasa, e guercio com’era, trascurato e invelenito, nonapriva bocca che per dire il contrario di quel che dicevail sor Ettore, mettendo spesso del gelo nelle nostre con-versazioni.

Imparai dal sor Ettore a conoscere il carattere tosca-no e quel modo di parlare lento, energico e proprio, ch’èdi certi vecchi toscani. S’impuntava spesso discorrendo,per cercare la parola meglio espressiva. Prendeva tempoinsomma. Pareva di assistere, mentr’egli ragionava, auna fatica immane, la quale, benché quasi sempre coro-nata da un esito imprevisto e felice, induceva, il più del-le volte, la sora Nunziatina a intervenire spazientita: «Tula fai torta e dimenata», Diceva per esempio: «Questavita la è troppo… arrotata», E quando la parola non losoccorreva la creava di sana pianta, oppure cadeva inqualche improprietà maccheronica e saporitissima, co-me il giorno che, avventatosi a dare una definizione deldente del giudizio, finì col dire: «gli è un dente…amorfo», Bisogna aggiungere che il sor Ettore soffriva di

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acidi urici e faceva la cura dello iodio. Sicché i suoi di-scorsi, specialmente dopo mangiato, erano anche inter-rotti da lunghi e frequenti sbadigli che gli arrossavanogli occhi e glieli inumidivano di abbondanti umori jodi-ci. Difficilmente si sarebbero viste altre lacrime scorreresu quella faccia robusta di toscano antico e freddo, noninsensibile, ma estraneo a qualsiasi commozione. Si po-teva arguire quanto fosse profondo il suo compatimentoper il fratello disgraziato soltanto dalla tolleranza concui lasciava cadere le sue rabbiose contraddizioni; e cosìpressappoco il suo amore per la sora Nunziatina. L’uni-ca volta che lo vidi un po’ riscaldato fu mentre si parlavadell’incorporamento della Banca toscana nella Bancad’Italia, avvenuto in seguito all’unità nazionale, con larovina del credito agricolo toscano. «Da allora» dissecon voce strozzata «in Toscana non si canta più.» Maquel che gli stava a cuore, sopra ogni altra cosa, era l’ar-te; e principalmente l’arte delle pietre ch’egli non potevaconcepire se non fiorentina, non amando altro sasso senon quello che si estrae dal Monte alle Cave o dai montidell’Appennino. A Roma non c’era mai stato e non desi-derava conoscere questa città, piuttosto Napoli o Vene-zia, per via del barocchetto che non gli andava. «Qui anoi qui’ barocchetto…» E diceva, per scusarsi di tuttoquello che non lo interessava, «qui a noi non s’usa» conlo stesso tono e spirito con cui i francesi dicono: cheznous. In lui erano sempre vive e scottanti le antiche que-stioni della perduta libertà fiorentina, della odiata tiran-nia di Cosimo I, «il Caligola toscano», della rivalità fraMichelangelo e Raffaello, al quale proposito si compia-ceva ricordare l’aneddoto secondo cui il primo avrebbedetto un giorno al suo competitore, mettendogli unamano sulla spalla: ringraziasse Dio che a Roma non eraconosciuto un certo pittore fiorentino che sapeva lui. Eaggiungeva, facendo l’occhiolino: «Sa chi era? O nonl’ha visto all’Annunziata? Gli era Andrea d’i’ Sarto»,

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Tale dunque il sor Ettore, mio vecchio padrone di ca-sa di Settignano.

D’inverno la sora Nunziatina mi metteva il trabiccolonel letto; e in quella casa conventuale si poteva dormiree svegliarsi presto e godere, attraverso i vetri della fine-stra, lo spettacolo della campagna all’alba, senza usciredalle lenzuola.

Sparse in mezzo agli ulivi, le case dei contadini, gialle,verdi, rosa, mi davano il buongiorno, fumanti e occhieg-gianti in una nebbiolina tenera tenera che s’impigliava airami degli alberi, sotto un cielo basso, di piombo. Erapure la sora Nunziatina, a cui piaceva un po’ il vino, ros-sa come un peperone ma, quanto al resto, dolce e affet-tuosa creatura, che mi portava il caffè e latte in camera;che all’arrivo della posta urlava dal fondo della scala conquanto fiato aveva in gola: «sor Vincenzio!»; e all’ora dicolazione mi faceva trovare pronti gli asparagi all’olio,nei giorni feriali, e di domenica l’immancabile stufatocoi maccheroni.

Rimasi in quella casa fino a che gli ulivi mignolarono.Vidi nascere la primavera a Settignano. E ciò che devo aquesto mio soggiorno settignanese non potrei dirlo sen-za entrare in particolari della mia vita, e cioè fare di que-ste pagine di ricordi un vero e proprio capitolo autobio-grafico. Certo è che ci sono, nell’esistenza d’un uomo,stagioni decisive, formative, durante le quali anche lepiù futili avventure acquistano un’importanza degna dirilievo, lasciano tracce che non si cancellano. Quella fuper me una di queste stagioni. Che cosa sia l’arte, checosa sia la natura, per quel tanto che ne so, credo averloappreso lassù, nella mia solitudine di Settignano, duran-te una primavera.

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LE CAMPANE DI FIRENZE

Chi vuol conoscere l’anima di Firenze ascolti il suonodelle sue campane. Non per niente Pier Capponi minac-ciò di suonarle. In ogni città le campane mandano unsuono particolare. A Roma rintoccano eccelse e solenniper la cristianità intera, s’intonano all’altezza delle cupo-le e all’universalità della Chiesa, e la loro voce non scen-de al basso, si propaga e disperde nell’aria.

In quelle di Milano riconoscerete già il carillon nordi-co, la squilla romantica, le umili campane dei borghi al-pestri che suonano, così dolci di sera, specialmente per ipoveri e i mendicanti: per tutti coloro che sono in cam-mino. Col loro impeto orgiastico e furioso le campanedel Mezzogiorno fanno pensare a danze selvagge e inSardegna servono pure per ballare il duruduru. Ma a Fi-renze sono ancora le vecchie campane italiane, faziose ecomunali, turbolente, festaiole e rimbombanti, chemuovono il Popolo come un sol uomo, lo sobillano aduscire di casa con degli umori da guerra civile e quandoproprio si fanno sentire pare sempre che stia per volareil pallone.

Fu così che le riudii qualche anno fa, in una domenicamattina di maggio. Ero giunto a Firenze nella nottata.La mattina dopo mi desto in una bella camera d’alber-go, che le campane della vicina chiesa di San Lorenzosuonavano per l’Elevazione. Di botto mi ricordai delcampanone del mio paese. Era quella stessa voce, bassa,cupa, imperiosa che un tempo suonava l’ora di andare ascuola e a due ore di notte ci mandava cheti cheti a dor-mire; voce materna, irresistibile, che pare non abbia maitempo da perdere e per qualunque motivo si faccia sen-tire, ci chiami al lavoro o a festa, dice sempre: spicciate-vi. Mi levai e apersi la finestra. Incontro a me si ergevauna gran cupola rivestita di mattoni rossi e splendenti

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sopra un mare di tetti e di tegoli del medesimo colore,cotto e arso. Laggiù, lontano, Monte Morello, affocato evelato da una nebbia rossastra che pareva fumo cheuscisse da una fornace. Non si vedeva una fronda, néspirava un alito di vento. Tutto ardeva in quel caldomezzogiorno. A guardarla dall’alto Firenze dava un sen-so di mattonaia in combustione e le campane stesse, colloro maschio e furibondo fragore, simili ad enormi cam-panacci, richiamavano l’idea del fuoco.

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CAPRI

Tutto torna e si ritrova a questo mondo, anche il soledei poemi erotici e pastorali che leggemmo da bambini.Ecco qua il sole di Capri. Questo è positivamente Febo,di cui si discorre nell’Adone del cavalier Marino. Tuttele mattine si leva, puntuale, e va ad assidersi tranquilla-mente sul suo trono di Monte Solaro, senza nulla di epi-co. Di lassù scocca le sue frecce sottilissime, disperden-do in un baleno le argentee nebbioline che, favoritedallo scirocco, tenterebbero, poverette, di opporsi alsorgere d’un tanto sole. Tiranno famigliare, vero Borbo-ne del cielo che non teme disordini né rivoluzioni neisuoi stati. Ma per noi è anche il sole dei lunari e delle lu-minarie di Piedigrotta, enormemente tondo, giallo, cri-nito di fiamme e regale come un’insegna da Albergo delSole. Dio popolare del Mezzogiorno a cui si sacrificanoin abbondanza cocomeri e poponi e sono anche dedicatinella stagione del solleone, che è «la stagione» per anto-nomasia, cioè l’estate, gli spari notturni e i fuochi d’arti-ficio. Grazie a lui ogni giorno è festa, ogni anno è l’AnnoSanto. Maturano il ficodindia e il pomodoro che è il ve-ro sugo di questa terra, molto più del vino di Capri, e sene fa un tale uso che dopo un po’ che vi cibate di questacucina potete star certi che, invece del sangue, avretenelle vene quel divino e salutifero elemento che serve acondire i maccheroni. Il vostro cervello medesimo se neimbeverà e ne usciranno pensieri scorrevoli, facili, ab-bondanti, come da un colabrodo. Odorerete di conservadi pomodoro. A Capri non è possibile sottrarsi al conta-gio di tanta bellezza e dell’universale salute. Fate contodi dovere star bene a qualunque costo. È necessario cheil vostro aspetto sia florido, sanguigno, o, per meglio di-re, sugoso. Non si scherza col sole di Capri.

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Cesto di dovizie, galleggiante e fiorente sul mare,l’Isola di Capri è un composto di cose preziosissime incui si armonizzano elementi moreschi, greci e romani,sopra un fondo roccioso e naturale del più squisito ba-rocco. Castelli corsari dominano il paese più gentile delmondo, dove tra il verde delle vigne alte e fitte, che sal-gono con lieve ondeggiamento imitato dal mare fin sottole grandi rocce ammantate di macchieti aromatici e mer-lettate d’alberi in cima, spiccano le casette dei contadinibianche di calcina e senza tetto, come dadi abbaglianti.

Corrono e s’affondano tortuose, in mezzo, le stradic-ciole di zucchero, in un nugolo di polvere al vento cheinfarina le viti e gli alberi sui bordi, tra vecchi muri scro-stati e scuri come il pane di casa, sui quali il sol d’agostomette splendidi riflessi d’un rosso vinoso.

L’odore di Capri è casalingo e mangereccio. La sogliaè sacra, l’abitazione ombrosa e gelosa, con piccole fine-stre che sembrano feritoie e danno su vicoli senza uscita,cinta da muri e giardini, con logge, terrazze e vaste corti;e il tralcio della vite che sale ad abbracciarla dal di fuoriè murato. Qui i piccioni stanno a casa loro come le ron-dini sui laghi. Con uno slancio di gioia e di leggerezzainfinita furono concepite le colonne che reggono i per-golati di cui s’adorna ogni viale, ogni terrazza. Talvoltas’adergono bianche, nude, inoperose, quasi a sostenerela volta del cielo.

Tutte le sere il sole, tramontando dietro lo scoglio diAnacapri, lascia cadere sulle vigne più vicine alla rivauna striscia di luce verde bottiglia, mentre in tutto il re-sto Capri bassa è già in ombra. Il mare prende il coloredelle nuvole. È l’ora in cui con più nostalgia si guardanole cime delle rocce dorate e solitarie, che sembrano rovi-ne di antichissime città diroccate, e si desidera vederci ilpastore con le capre.

Per aprire la strada che reca ad Anacapri (vogliono

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dire un nido di antichi fenici) la montagna è stata squar-ciata e porta ancora i segni e gli sfregi delle mine. Que-sta è la via preferita d’ogni romantica e turistica passeg-giata. Si cammina tra rocce altissime che cadono sulcapo e il mare giù in fondo, che attira; il mare del golfodi Napoli. È un continuo andare e venire. Passano, vo-lando per le curve, tra grandi schiocchi di frusta, nel sof-fio della grande festività campana, le carrozzelle minu-scole e leggere come conchiglie, tirate da cavallibaldanzosi e sani, con lunghe penne di tacchino e piumedi struzzo di vario colore, erette sulla cervice. Dannosempre l’idea della festa, della baldoria e del corteggionuziale.

Ma che dirò di quella statua della Madonna di Lour-des che sorge in vista del mare, a un certo punto dellastrada, nascosta nella nicchia naturale di una delle roccepiù perigliose, un vero duomo gotico, e più d’ogni altrarivestita di edera e di borraccina? La sua veste bianca eazzurra canta tutto il giorno nella luce. Se ci si volge aguardarla dal basso, andando a Capri, la si vede in Para-diso. Sul suo capo piovono le stalattiti. Con la sua rossacorona di candele accese, che non si spengono né al ven-to né all’acqua, Ella rende sicura la strada di notte, pre-serva dalle male azioni e dai cattivi pensieri, vigila il ma-re; e i pescatori possono vederla da lontano, nelle nottidi temporale, perché, oltre tutto, è anche un faro. Lì è iltermine del territorio di Anacapri. Di solito non si vapiù in là, passeggiando. C’è sempre qualche devota super la scaletta che porta fino a Lei e, vista da lontano,pare che danzi nell’aria. Le ragazze di Anacapri, quandone pensano una nuova, vanno giù alla marina ad accen-dere il focheraccio in onore della Madonna. E il mari-naio che di sera passa cantando e pensando all’innamo-rata, giunto davanti all’amorosa immagine, si soffermasilenzioso, lascia cadere due soldi nella cassetta di ferroche sta a piè della scala, molto bene assicurata, e tira viariprendendo a cantare a squarciagola.

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Quando noi eravamo ragazzi, ci ricordiamo quantaparte avesse l’appetito nelle nostre sensazioni e con qua-le primordiale e animalesco furore ci mangiavamo ilmondo cogli occhi. Da tale istinto ferino credo che na-sca il desiderio del bacio il quale non sarebbe altro cheun morso famelico che l’amore tiene a freno. Ma noiqualche volta brameremmo baciare e mordere la terra. Ilbambino raccatta le pietre e le scaglia, s’imbratta di pol-vere e di fango. Mescolando acqua e terra, gode unmondo a fingersi muratore o mattonaio. Così a noi pia-ce, d’estate, accostare le mani alle rocce soleggiate cheodorano di madia o di forno, e nutrirci di quell’aria sec-ca e ardente che emana da esse. Invidiamo la felicità del-la lucertola, allorché si bea al sole, dilatando il ventre,sui muri caldi, e per la stessa ragione la compiangiamoappena l’aria comincia a rinfrescarsi.

Sotto questo aspetto, Capri è un paese per fanciulli,che fa gola. Lo chiamerei un paese commestibile: tuttodi zucchero e di biscotto. Qui ho riconosciuto le pietredei vecchi Diluvi con le quali Rimbaud avrebbe volutosfamarsi. Ed è qui che mi sono ricordato d’una favola,che si racconta non so più in quale tribù di selvaggi, se-condo cui la Via Lattea sarebbe una lunga scia di farinache un mugnaio lasciò cadere dal carro, una sera, tor-nando a casa.

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LAGO

I festoni di foglie marcite persi per il lago son la bel-lezza di questa terra autunnale. E a giugno, sui piccolimoli, il fregio dei ragazzi nudi.

L’estate dorme sui monti e sulle sponde selvose, lun-ga distesa, avvolta in un fitto velo di luce e d’ombra chei frequenti temporali spazzano e la paziente estate ri-compone. Altrove i prati verdi ed i pioppi che tremola-no al vento suonano e scintillano sotto il sole come ve-tro.

Come volano i pomeriggi in questa terra fatata!Tra l’odor d’alloro, appena una breve passeggiata in

mezzo ad alte rocce di lavagna che sudano freschezza,tra muri anch’essi diacci d’umidità e vellutati, su cuispuntano, insistenti come un suggerimento di colore su-premo, cespugli fitti di margheritine tisiche e polverose,e cade la morente vitalba piena d’impalpabilità e di vo-lume. I rami elastici e soleggiati dell’ippocastano, cheescono di sopra i muri, galleggiando nell’aria, fannopensare ai lunghi ventagli ad asta che agitano le schiaveorientali.

Mi soffermo davanti alle ville severe e sole.Le belle facciate scurite e lavorate dagl’inverni, oggi,

dopo i lavacri della primavera, salutano il verde. Nelbuio di qualche finestra spalancata par che si raduni tut-to il fosco d’ombre e di vaporosità vegetali rimasto suimonti. E dai poggetti cerimonialmente inflorati s’aspettadi vedere scendere il minuetto verso le vasche dove leincredibili ninfee sono fiorite e le fontane asciutte messeda un lato. E i tempietti neoclassici e le Veneri di pietrafungose che guardano il lago.

È già sera. Ecco il gruppetto bruno delle setaiole chetornano da lavorare. Ecco le leste, vereconde e inzocco-late Lucie. Il fiocco dei lumi lattei si stempera nelle pri-me nebbioline, laggiù, verso Como.

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Tra poco accenderanno quel grosso fanale verde chesplende la notte in mezzo al lago quale un ricordo, unanostalgia estrema di tutta la verde giornata.

Ho passato sui laghi lombardi stagioni così lunghe,così felici, che non le dimenticherò finché io viva. Mainon mi scorderò di quei monti d’oro massiccio, di quel-le blande luci estive, di quelle stradette celesti lastricatecome letti di torrentelli disseccati, che s’inerpicano altis-sime in vista del lago, aperte su panorami di acque e dimontagne sempre più lontani.

Salivamo ogni sera, per una di queste argentee strade,io e tre sorelle, non più tanto giovani, ma gaie come siconviene, verso un paesino romito, a prendere il caffè dauna loro vecchia zia, stata fidanzata ai suoi tempi con unufficiale austriaco. E spesso al ritorno, quando c’era laluna, una di esse, la più lunatica, dava in piccole escan-descenze e follie.

Chi ha vissuto una sera d’estate in riva a un lago sache cosa sia la beatitudine. Un calore fermo, avvolgente,sale in quell’ora dalle acque che sembrano lasciate lì, im-mobili e qua e là increspate, dall’ultimo fiato di ventoche il giorno andandosene ha esalato e il loro aspetto èmorto e grigio. Si prova allora, più che in qualunque al-tro istante della giornata, quella dolce infinita sensazio-ne di riposo auditivo che danno le lagune, dove i rumorinon giungono che ovattati. Come sanno d’acqua le pa-role che dicono i barcaioli che a quell’ora stanno achiacchierare sulla caletta! Come rimbalzano chioccenell’aria! I rintocchi delle squille lontane arrivanoall’orecchio a grado a grado e rotondi, scivolandodall’alto del cielo pianamente a guisa di lentissimi bolidi.La sera scorre placida, è tutta un estatico bambolarsi, unfluire di cose silenziose a fior d’acqua. Naufraga d’untratto in un chiacchiericcio alto, intenso, diffuso, simile

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al clamore d’una festa lontana, appena s’accendono i lu-mi, tra le risate e le voci varie e gaie che escono dagli al-berghi dopo cena e il fragore allegro e plebeo d’un pia-noforte meccanico che giunge dall’altra riva.

Poi tutto sfuma e rientra ben presto nel gran silenziolacustre, dove più non si ode che il battere degli orologiche suonano ogni quarto d’ora, a poca distanza l’unodall’altro, da tutti i punti della sponda, e quel soave, as-siduo scampanio delle reti che i pescatori lasciano anda-re di sera alla deriva, che fa pensare insistentemente a uninvisibile gregge in cammino.

Nelle notti di luna piena i monti che non la ricevonosono cento volte più neri e le vie e i viottoli della campa-gna paiono tante scie di lumaca.

Nasce il vento d’autunno sui monti, gravido di me-morie. E cala giù furioso, funebre, inebriante, conl’umore della morte e della strage; e fa venir voglia dicantare. Spoglia le vigne rosseggianti dopo la vendem-mia e le selve ingiallite. Così potess’io squassare i ricordiche ingombrano la mia mente come sotto l’impeto diquel vento esaltato si spiccano le foglie degli alberi, sischiantano i rami, e tutta in terra va a giacere l’innume-revole e folta corona che fu la gloria dell’estate. C’è ungiorno che tutte le formiche escono al bosco a fare il fa-scio per l’invernata. Sopraggiungono, di lì a poco, lelunghe piogge autunnali, simili a un gran pianto dirotto,interminabile, in cui par proprio che la natura si dolga esi lamenti di passare. È un pianto che sgorga a fiumi, atorrenti, fa crescere il lago, solca le strade, rovina i pontie le prode e dilaga pei campi ostinatamente verdi. I mu-ri si ricoprono di vellutina, escono i rospi e le salaman-dre; uomini e donne galleggiano su questo guazzo comeranocchi. Quando più nessuno se l’aspetta, un sole fred-doloso e mendico, più prezioso dell’oro vecchio e del vi-no stagionato, più smemorante del più fino liquore, tor-

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na poi, ogni mattina, a trovare le foglie gialle d’acaciache piovono ancora sui davanzali, le foglie secche deiplatani che il vento trascina lungo i viali come degli spet-tri, e pare non se ne voglia più andare. Così pallido, cosìantico, continua talvolta fino a Natale a risplendere suimonti che sono tutto un seccume e sui giardini sontuosie disfatti come cimiteri.

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INTERNO

Penso talvolta a tutte le famiglie di cui sono stato in-quilino, io che non ho famiglia. È una materia scottan-tissima. Ci sarebbe da scrivere un romanzo. Va beneche, in fondo, io non ho conosciuto se non famiglie d’af-fittacamere, oppure talmente disordinate ed incaute daammettere con facilità persone estranee nel loro seno.Ma non è detto che siano le meno cristiane e neppure lemeno interessanti per quel che concerne la vita domesti-ca. Fatto sta che a questo proposito credo di saperne piùio che molti padri di famiglia. E mi sono scoperto straneattitudini alla vita casalinga. Ho gustato per lunghi pe-riodi, specie in paesi lontani, in luoghi di villeggiatura,tutti i piaceri e gli svantaggi d’una tale vita, pur essendoil perfetto contrario di quel che si dice un amico di casa.Sono passato in mezzo a una quantità di famiglie comeuno straniero, un pellegrino o, se volete, un vagabondo,lasciando però sui miei passi, se l’amor proprio nonm’inganna, quasi sempre dei buoni ricordi.

Le mie padrone di casa, quando io sarò morto, po-tranno testimoniare della mia discrezione e delle mie fa-tiche. E qualcuna vi dirà che nel momento in cui mi li-cenziavo da lei scoppiò in lacrime, dopo avermi trattatomalissimo, per tutto il tempo della mia dimora. Un’altrapotrebbe parlarvi del mio disgraziato amore verso unadelle sue giovanissime figlie; e la più antica di tutte,quella che rammento come un sogno, nella luce conven-tuale d’una vecchia casa di Roma, delle legnate che lesomministrava suo padre, per essersi, come dire?, inva-ghita del suo imberbe inquilino ch’era lontanissimo dalsospettarlo e dal rendersi ragione, per conseguenza, diquelle botte così frequenti.

Una sola delle mie tante padrone di casa potrebberaccontarvi, se fosse ancora al mondo, un doloroso epi-

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sodio che non torna a mio onore. Ero allora molto gio-vane, stavo a Roma da poco tempo, e abitavo nelle vici-nanze della stazione, presso una signora calabrese, vedo-va e con un solo figlio, impiegato e poeta. Dormivo inun camerino che riceveva luce e fumo dalla cucina. Ilgiovane poeta, uso a rincasare molto tardi, si trattenevaspesso in cucina, prima d’andare a letto, per farsi la bar-ba. Girando la chiavetta della luce elettrica illuminava dinecessità la mia stanza. Onde io, non ancora addormen-tato, aprivo gli occhi, e mentre lui si radeva, davanti auno specchietto appeso alla zappa del camino, mi per-devo a immaginare le sue serate, le sue splendide seratenella Roma di quegli anni, tutta risonante di successi let-terati e teatrali. Perché questo poeta io lo conoscevo giàdi nome, anzi di pseudonimo, e potete figurarvi la miameraviglia nel trovarmi sotto il suo tetto, la considera-zione e il rispetto che avevo per lui. Eppure, se fossi sta-to un po’ meno sulle nuvole, avrei dovuto capire che lasua vita non era così felice come io fantasticavo. Fra l’al-tro mi sarei accorto, dalla sua faccia scavata e terrea,ch’egli era condannato da un male che non perdona. In-fatti, due o tre settimane dopo il mio ingresso in casasua, col sopraggiungere dell’autunno, l’idoleggiato poe-ta, a cui non mi legavano che le mie ingenue fantastiche-rie, si allettò per non più rialzarsi.

Io lo sentivo tossire di là dalla fragile parete che sepa-rava le nostre due camere. E quei colpi di tosse, a poco apoco, invece di muovermi a compassione o, per megliodire, insieme con la compassione che non potevo nonavere per quel giovane sventurato, fecero nascere in meun sentimento di rancore profondo verso la casa che miospitava. Pensavo con terrore e ribrezzo all’eventualitàche la madre dell’infelice mettesse nel mio letto i lenzuo-li del figlio. L’aria del mio camerino, già così poco sana,la sentivo ormai infetta, irrespirabile. Mi consideravotradito. E tutto il mio segreto malanimo si riversava su

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quella povera donna che m’aveva ricevuto nel propriodomicilio, ben conoscendo le condizioni del suo figliolo.Ma se lasciassi credere ch’io fossi dominato da una sem-plice e fredda preoccupazione d’ordine igienico dareiun’idea molto piatta e meschina del mio stato d’animo.Davanti a quella brutta avventura che m’era capitata siridestava in me un antico, infantile orrore verso certeforme di malattia. Ero ancora fresco di campagna. Cre-do che io debba essere perdonato per quel che ho dettoe dirò in seguito. La gioventù è spesso egoista e crudelesenza saperlo. Io non avevo allora altro bene che la salu-te e lo difendevo oscuramente, irrigidendomi di fronteal male, con l’incoscienza propria di quell’età. Nondi-meno mai mi passò per la testa di cambiar casa.

E questa è una contraddizione che non saprei spiega-re neppure con la povertà; giacché, volendo, avrei potu-to procacciarmi le poche lire che mi occorrevano per la-sciare il mio non raccomandabile alloggio e cercarmeneun altro. Perché rimasi? Forse per pigrizia, imbarazzo,rassegnazione? Oppure fu un motivo più nobile, comechi dicesse delicatezza, che mi vietò di sottolineare trop-po apertamente, con la mia diserzione improvvisa, lasciagura di quella casa? Certo è che rimasi; e niente la-sciai trapelare dei miei sentimenti che soltanto una ma-dre meridionale poteva intuire. Un odio silenzioso e tre-mendo si stabilì fra me e lei, specialmente da parte sua.Evitavamo di vederci, di parlarci. E in queste condizio-ni, ahimè, il tempo seguitò a correre senza che io trovas-si la forza e il momento di bussare alla camera dell’infer-mo per fargli una visita. Non per timore di avvicinarmi alui (l’aria sua la respiravo già abbastanza) ma perquell’oscuro stato di disgrazia in cui ero caduto. Di gior-no in giorno i rapporti tra me e sua madre si facevanopiù cupi. E con quale animo sarei andato al suo capezza-le? Inoltre, bisogna pur dirlo, io non ero e non mi senti-vo là dentro che un misero e passeggero inquilino. Ve-

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devo, assistevo, soffrivo quella tragedia da estraneo, frale pareti del mio stambugio che non mi avrebbe permes-so di trastullarmi in casa durante il giorno, quand’anchelo avessi potuto e desiderato. Passavo perciò le mie gior-nate fra il lavoro, la biblioteca, i caffè, i teatri, affrettan-domi, la mattina, ad abbandonare il mio triste covo pre-stissimo, per non tornarvi che a sera tarda, soltanto percoricarmi. Questa era, del resto, la vita doverosa d’unsubinquilino a Roma, in quegli anni. Vita furtiva, evasi-va, e un po’ maledetta, che pareva esente da ogni obbli-go di carità e di religione. Stare in casa il meno possibileera il primo dovere d’un poveraccio che abitasse una ca-mera in subaffitto. Spesso fra lui e i suoi appigionantinon esisteva nemmeno la consuetudine del saluto. Eccodunque in che modo, poco più che ventenne, sbalestra-to, ignaro delle convenzioni sociali, non supponendo diavere verso chi mi alloggiava altri impegni fuorché dipagare la pigione, potei commettere il grave errore dicui mi accuso e che, d’altra parte, scontai caramente.Giacché una mattina la mia piccola e scarna padrona dicasa, vedendomi sbucare dal camerino e avviarmi, comeun ladro, verso l’uscita, mi fermò sul corridoio coi piùacerbi rimproveri. Stava ritta in mezzo alla cucina e, sen-za fare un passo per avvicinarmi, deplorava ad alta vocela mia mancata visita al figlio, ma con un tono che dice-va come quel rimprovero, così giustificato, non fosse, inrealtà, che un pretesto. Non di una semplice infrazionealle buone e caritatevoli usanze quella madre si doleva,ma di tutto ciò che le nascondevo e che lei aveva benissi-mo indovinato e lungamente sofferto in silenzio. Le sueveementi parole erano un’appassionata reazione al miotacito cruccio, alle mie ragioni inammissibili, all’incon-cepibile idea che io potessi non curarmi che della miasalute e avere qualche obbiezione da fare mentre suo fi-glio moriva. Un’immensa pietà inteneriva la sua voce,nominando la sua creatura. Ergendosi di fronte a me

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con tutta la forza e la maestà del suo dolore materno, ladisgraziata vedova, costretta ad affittare un piccolo vanodel suo modestissimo appartamento, sembrava, direiquasi, reclamare il diritto di avere un figlio malato e ildovere da parte mia di una solidarietà che in quell’etàselvaggia non potevo concederle. Le nostre due posizio-ni erano orribilmente scoperte. E mentre questa inde-scrivibile scena accadeva, il giovane tossiva nella suastanza ed io lo sentivo ormai così lontano, così poco esi-gente, così estraneo a quel dibattito orrendo, che mi sa-rei messo a piangere se mai avessi avuto, in vita mia, lelacrime facili.

Non ricordo come finì questo scontro inatteso. Credoperò che lo sopportassi in silenzio. E di lì a poco me neandai da quella casa; non prima tuttavia d’aver ricono-sciuto il mio torto, chiesto perdono all’affranta donna, efatta la mia triste visita al figlio. Me ne andai. Ma nonper le ragioni che si potrebbero immaginare. La verità èche, rimasto a un tratto disoccupato, fosse provvidenzao castigo, non ero più in condizione da permettermi illusso d’un camerino. S’iniziò allora un periodo che, percirca un’annata, non sapendo come sfamarmi, dove dor-mire, potei respirare, sia di giorno che di notte, un’ariafin troppo libera e pura.

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LA COMACINA

Ho avuto padrone di casa un po’ dappertutto: a Ro-ma, a Milano, a Venezia, a San Remo, sul lago di Como,a Lugano. Senza contare le proprietarie di trattoria o dipensione con le quali sono stato a contatto. Soggiorni,per lo più, brevi ma intensi, confidenziali, e qualche vol-ta assai felici come quell’estate che trascorsi in un paesu-colo sopra Cernobbio, presso una famiglia il cui capoera a Londra a fare il cuoco. Intorno a me non c’eranoche donne e bambini, tutti affezionati e servizievoli, sal-vo il più piccino che non voleva riconoscermi della ni-diata e col quale ebbi subito uno scontro fierissimo. Ilpaese dove abitavo non è un paese ma un gruppo di caseposto sulla via del Bisbino. Vede il lago dall’alto, fron-teggia una montagna: nuda e orrida, detta l’Inferno, esovrasta quell’albergo per miliardari che è Villa d’Este.Come io capitassi a Cernobbio sarebbe un po’ difficiledire. Ci andai sulle tracce di una bellissima ragazza stra-niera, conosciuta a San Remo l’inverno precedente masoltanto di vista, la quale, all’inizio della primavera, ave-va lasciato il suo lussuoso albergo sanremese, per trasfe-rirsi a Villa d’Este. Non avendo nessuna speranza e qua-si direi nessun desiderio di avvicinare questa creaturastraordinaria, usa a trascorrere la sua splendida e malin-conica esistenza in luoghi come quelli che ho nominati,mi contentai di seguirla con tutta la discrezione che ilcaso richiedeva e fissai la mia dimora in un sito da cuipotessi vederla almeno col cannocchiale.

Sono cose che si leggono, senza buttar via il libro, neiromanzi. Non capisco perché non dovrebbero succede-re nella realtà. Questa fanciulla stupenda che mi videper due intere stagioni sui suoi passi, da una stazione cli-matica all’altra e che poi tornò a incontrarmi a San Re-mo, senza mai fare una mossa villana, una risata, un ge-

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sto d’impazienza, è uno dei più squisiti ricordi della miavita, un ricordo consegnato alla poesia, giacché uno sfo-go poetico, in tali circostanze, non poteva mancare, equalcuno forse conosce un mio componimento in prosaritmata, che s’intitola Polacca dove appunto, con la vagaintenzione d’ispirarmi alle polonaises di Chopin cercaidi dipingere la figura, il passo e il trasparente caratteredi questa indimenticabile sconosciuta. Ma il bello è cheuna volta a Cernobbio la persi quasi di vista. Nel grandealbergo del lago di Como ella si era sepolta ormai comein un chiostro. Poi andò a San Pellegrino, a Salsomag-giore, ed io fui talmente distanziato dalle sue abitudiniche se penso a quell’estate le prime cose che mi vengonoalla mente non riguardano lei, bensì il paesaggio, le per-sone in mezzo alle quali vissi per alcuni mesi, come in fa-miglia, e soprattutto la mia padrona di casa, creatura dinessuna avvenenza. Anche di costei ho già parlato, inuna lirica paginetta che ho perfino esclusa dalla ristam-pa d’un mio vecchio libro, e ora vorrei tornare a discor-rerne un po’ più distesamente e alla buona.

Era una donna di media statura ed età, magrissima,brutta, sdentata, ma singolarmente estrosa e vispa. Noncredo che prima di me avesse ospitato altre persone inquella sua bianca villetta nuova nuova e sonora, che for-se era il frutto dei guadagni di suo marito e che, occul-tando la vista del panorama ad un suo vicino, avevacreato fra lei e quest’ultimo una situazione abbastanzafastidiosa. Tanto che anch’io, innocentissimo, fui perse-guitato dall’astio di quel possidente a cui avevano toltoil diletto di poter guardare non so che punto del paesag-gio dalla sua finestra. Ma tralasciamo certi particolari.Atteniamoci alla mia piacevole appigionante, la qualeera degna di considerazione per diversi motivi. Donnadi casa perfetta, moglie d’un cuoco, sapeva improvvisaresu due piedi una piccola cena gustosissima, facendo bal-lare le patate sulla padella con un’arte incomparabile, e

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lavorava dalla mattina alla sera come un’ape operaia.Con tutto ciò le rimaneva tempo a sufficienza per osser-vare quel che si dice il creato, le vicende meteorologichee stagionali, alla maniera contadinesca, e non gettavamai gli occhi sul lago, sui monti, senza dirne qualcunadelle sue. L’estate procedeva spietata, senza il confortodi un po’ di pioggia. Schiudendo un tantino la porta sul-la terrazza, a mezzogiorno, si vedeva il lago, giù sotto,bollire in un’aria fumida e rossa come la pegola dante-sca. La notte, in camera, non si riusciva a tirare il fiato. Eper tutta quella stagione la mia fantastica padrona di ca-sa non fece che vagheggiare temporali e piovaschi. Sen-tiva la pioggia nel vento che passava, la vedeva nelle ac-que del lago che, secondo lei, erano cresciute (né socome facesse a percepirlo a tanta distanza) in una nuvo-la nera che si posasse sulla luna. Certe sere, illusa da unodi questi segni, si metteva ad aspettare lo scroscio alla fi-nestra come un’innamorata. Eccola a un tratto serrareporte e vetri quasi che da un momento all’altro la tem-pesta dovesse scardinare la casa. Poi di lì a poco sospira-va: «È passata», Oppure, in tono rassegnato e nostalgi-co: «Vuol dire che va a piovere su in Val d’Intelvi. Deveaver piovuto su in Val d’Intelvi», Questo nome beato ri-suonava spesso al mio orecchio e a poco a poco io finiiper immaginarmi Val d’Intelvi come un luogo idealeperpetuamente rugiadoso e fiorito. I miraggi e le nostal-gie della brava massaia perseguitata dall’afa mi si comu-nicavano. Ma una notte si scatenò finalmente dalle no-stre parti un vero diluvio. Alla mattina l’aria eraventilata e freschissima, il cielo netto, squillante, e udiila mia donna, che venuta alla finestra, per non so qualefaccenda, notava allegramente: «I monti si sono avvici-nati»,

Si arrivò così ai primi di agosto, quando l’estate spe-cie in Lombardia accenna a declinare. Allora, una sera,inginocchiandosi davanti al fuoco per prepararmi la so-

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lita cena, se ne uscì in questa bellissima osservazione:«Ma dio, già si conosce che le giornate si cominciano ascorciare»,

Aveva il dono di esprimersi questa donna. Parlava ascatti, a sussulti, con una invidiabile proprietà di lin-guaggio e una fantasia che non saprei definire altrimentise non settentrionale e romantica. Degna di una ballatadi Bürger è questa immagine che le scappò un giorno dibocca, sentendo correre, su e giù per le scale, il suo irre-quieto bambino, calzato di zoccoli: «Quando si muovelui pare l’Anticristo a cavallo», In genere però non siesprimeva per immagini, ma con parole semplicissimeche ricevevano tono e valore dal grande impeto con cuile pronunciava. Quelle parole, senza che lei se ne avve-desse, le costavano molto. Il suo fragile corpo apparivatutto squassato dal suo tempenoso discorrere. Era diffi-cile competere con lei nel litigio. Poteva diventare facil-mente una furia. Allora i gesti più strambi e demoniacigareggiavano con le parole.

Credo che avesse pure qualche facoltà medianica,perché un giorno, mentre me ne stavo in camera, occu-pato a buttar giù alcune annotazioni sopra di lei, ronza-va fuori dell’uscio, avendo intuito, non so come, l’ogget-to del mio lavoro. Né è a credere che fra me e leipotessero correre dei sensi amorosi. Almeno io non mene accorsi. Ma il fatto è che, a poco a poco, aveva finitoper interessarsi del proprio inquilino ed io non mi stan-cavo di studiarla come un entomologo può studiare unafarfalla. La curiosità che destava in me era del tutto let-teraria, etnica, filologica. E fu così che, osservando il suocarattere, mi parve di capire meglio Manzoni, i suoi per-sonaggi e le sommosse ch’egli descrive. Era insomma unbuon campione della razza lombarda, anzi comacina:razza ch’io non m’attenterò di definire, ma che è certoassai vivace, risentita e perfino talvolta, specialmentenelle campagne, un po’ spiritata.

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Certe sere splendeva sul lago una luna da Sabba clas-sico. Allora, con una mezza bottiglia di Barbera in cor-po, io mi divertivo a crudire la mia rozza e insonne ospi-te intorno ad alcune diaboliche facezie del Faust. Ebisognava sentirla e vederla ridere. Con quell’unico den-te in bocca, pareva proprio una Forcide, una delle tre fi-glie di Forco, rimaste a guardia della reggia degli Atridi,dopo il compimento dei fati; le quali possedevano, fratutte, un solo dente e se lo scambiavano a vicenda. Ep-pure quest’amabile strega, di grembo angusto e appa-rentemente infecondo, si ornava, come ho detto, di unaquantità di figli, e se il suo uomo non fosse stato a Lon-dra avrebbe continuato ad essere non meno prolificache laboriosa e intenta a seguire il tempo, i fenomeni co-smici, umani e sociali, tale essendo la sua prodiga e ope-rosa natura.

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LA VITA QUOTIDIANA

Da una quindicina d’anni ormai, stanco di vagabon-daggi e di nuove esperienze domestiche, abito in unquartiere moderno di Roma, poco lontano dal centro. IlTevere separa il mio domicilio dai luoghi che sono solitofrequentare di giorno e segna, per così dire, il limite frame e il mondo. Una distanza minima in apparenza, main realtà incalcolabile. Coloro che abitano ai confiniestremi dell’Urbe, in vista dei Colli albani o del Soratte,i nababbi dei Quartieri Alti, non avranno mai quel sensodi allontanamento e distacco dagli affari cittadini che,per il fatto di dover attraversare un fiume, posso avere ioogni sera, tornando a casa.

Tutti sanno che cosa vuol dire un fiume, specialmentein città: le distanze che crea, le differenze che serve a sta-bilire fra un luogo e l’altro. Ogni sera, tornando a casa,io ho il senso di varcare una frontiera, di rientrare quasinei miei domini. Credo che niente s’accordi meglio coipensieri e con lo stato d’animo d’un uomo che torna, unpo’ stanco, al suo domicilio o ne esce agguerrito quantoil dover passare un corso d’acqua. Lo dice anche lo stor-nello romano: «Ve dò la bona sera e passo ponte», Que-sto è uno dei principali motivi per cui a me piace e midiverte abitare in Prati.

Il ponte che percorro abitualmente è quello che hasostituito l’antico traghetto di via Ripetta, da cui si scor-ge di notte, in tempi normali, il faro dai tre colori chesplende sulla vetta del Gianicolo: bellissimo salutoall’inizio del più pittoresco, del più trafficato fra i pontiromani moderni.

Tale passaggio è dilettevole appunto perché traffica-to. La gente che vi s’incrocia sui marciapiedi va lesta,senza tuttavia rimaner sorda alla preghiera del mendi-cante che proprio a questo varco ti aspetta per farti pa-

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gare il pedaggio; poiché, a parte che a Roma ben di radosi nega un obolo a chi lo chiede, le persone che attraver-sano un ponte sono singolarmente disposte alla carità.Su questo ch’io dico, in certi giorni d’inverno, con tra-montane fortissime, si possono vedere eleganti signorefrettolose arrestarsi, togliersi il guanto con cura e cerca-re a lungo nella borsetta una sperduta monetina da rega-lare a un cieco, a una mano implorante. Sono spettacoliche non disdicono alla caritatevole Roma, avventure checapitano sui ponti. Quel senso di vuoto, da cui siamocolti là sopra, ci richiama, si direbbe, alla precarietà del-la vita. La vista del fiume ci dismemora, ci alleggerisce.E guai a noi se cedessimo alla tentazione di affacciarci suquelle acque che gorgogliano contro i piloni, s’inabissa-no sotto i nostri piedi, per tornare, di là dal ponte, a flui-re tranquille, ineluttabili. A forza di guardare l’abisso,dice Nietzsche, finirai per cadere nell’abisso. Ah, come èincredibilmente attirante seguire il corso d’un fiume,sdraiarsi con la fantasia nel suo letto! Forse per questole persone che rimangono troppo a lungo affacciate adun ponte destano sospetti. Occorre andar lesti nella di-vertente e vertiginosa atmosfera fluviale.

Poco più giù, verso San Pietro, le sensazioni che dà ilTevere sono indubbiamente più ricche, le sue spondepiù ridenti, il paesaggio più illustre. Ma lì la natura è so-praffatta dal costume, dalla storia. Passando di notte perPonte Sant’Angelo non puoi far a meno di pensare aMarozia, ai Crescenzi, a Ottone III, al Giubileo dante-sco, a Cesare Borgia, e magari a quel povero babbeo delcardinal Vitelleschi, mio celebre concittadino, il quale,da vicario del Papa, capitano della Chiesa, terrore delpopolaccio romano e dei baroni laziali e marchigiani,finì a un tratto prigioniero in Castello, per un ingannotesogli dal castellano sul ponte levatoio, mentre marcia-va alla testa d’un esercito di quattromila fanti e duemilacavalli. Vedete quanti ricordi, quali pensieri, può susci-

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tare, nel fuggevole transito, uno di quei ponti religiosi emonumentali della vecchia Roma, che fanno di tutto pernascondere la loro essenza e l’infido elemento che scor-re là sotto.

In Prati invece il Tevere non ha storia. È un fiume co-me tutti gli altri, un fiume da canottieri, scortato dagrandi alberi frondosi e queruli, sorvolato spesso, in pie-no inverno, da nuvoli altissimi di stornelli, e non portase non messaggi del tempo che fa sui monti. Guardan-dolo di sfuggita non nel senso della deriva, ma contro-corrente, io penso alla valle tiberina, alle belle campagneumbre, ai pascoli che l’almo fiume lambisce nel suo per-corso. E a quel modo che le sue acque argillose, ombra-te di verde, mi ricordano costantemente la terra etrusca,le sue catastrofiche piene mi rallegrano come la visita diqualche mio compaesano. Quel po’ di contatto che, vi-vendo in città, riesco a mantenere con la natura, con lestagioni, con le mie proprie origini, lo devo insomma aquesto modestissimo ponte che sono costretto ad attra-versare due volte al giorno. In esso è per me il simbolodel passaggio e della distanza. Tanto che, a volte, indi-pendentemente dal sole e dai venti che lo flagellano, misembra che tutta la fatica del mio cammino consista nelsorpassare quel breve tratto e prendo un autobus o unacarrozzella soltanto per andare da un capo all’altro.

Quando io esco di casa e vado verso la società, versoil mondo, il Tevere è, ai miei occhi, una specie d’Ache-ronte, da pensarci due volte prima d’attraversarlo, ma alritorno, di notte, è un vero Lete. Giunto all’altra rivanon ho più memoria di quel che mi sono lasciato allespalle e niente di spiacevole potrebbe più capitarmi, senon fosse uno strano incontro, che faccio regolarmente,col guardiano d’un gran negozio di mercerie situato sulmio cammino. Ci vediamo da anni e anni e costui nons’è ancora convinto, si direbbe, che io non sono un la-

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dro, anche se ho l’abitudine di rincasare ad ore piccole.Lo trovo quasi sempre seduto e sonnecchiante nel vanod’un ingresso del negozio: quello d’angolo, che dà suuna via trasversale, poco illuminata. Ma basta che mi ve-da o senta i miei passi perché si alzi, battendo i piedi sulselciato come un cavallo che aombra, e faccia la sua bra-va ispezione alle numerose vetrine del popolare magaz-zino e anche alle saracinesche di qualche bottega più su;la qual cosa gli permette di pedinarmi per un buon trat-to senza che io abbia motivo di risentirmi o di protesta-re. Il buon guardiano fa il suo dovere. Chi potrebbe im-pedirglielo? Ma per quale singolare associazione d’ideesi rammenti del suo dovere quando passo io, è un miste-ro che vorrei chiarire.

Intanto è chiaro che egli si giova di me come d’unasveglia. Il brav’uomo approfitta del mio passaggio percontrollare le sue vetrine, allo stesso modo che le mas-saie di Königsberg, scusate il richiamo forse un po’ or-goglioso e non del tutto appropriato, aspettavano il ri-torno di Kant dalla sua passeggiata mattinale per buttargiù la minestra. E questo accade immancabilmente. Èuna persecuzione, un incubo notturno a cui potrei sfug-gire soltanto sobbarcandomi a sacrifici maggiori, cioè acondizione di cambiar itinerario, passando per un ponteche non mi garba affatto, oppure per una triste via albe-rata e sbagliatissima, dove non si vede mai nessuno e cheio evito di notte come di giorno. Inutile dire che preferi-sco l’incontro col povero guardiano occhialuto, che nonriesco a odiare, nonostante me ne dia, da tanto tempo,così fondato argomento.

Sul portone di casa m’imbatto, di solito, in un altropersonaggio che s’interessa di me senza darlo a vedere esta in agguato del mio ritorno per motivi assai più fami-liari e comprensibili. Questo personaggio non possiedele chiavi del suo paradiso. È il gatto del mio cortile, unvecchio gatto forastico e ciondolone, con una grossa fac-

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cia baffuta da Gatto Mammone. Venne tempo fa dallaToscana, col nuovo portiere, e si è subito meravigliosa-mente acclimatato attorno a quella aiuola che fiorisce inmezzo al cortile, della quale ha fatto la sua giungla. Nonho intenzione d’indugiarmi a lungo sopra le sue malefat-te notturne e diurne. Mi limiterò a dire che tutti i disor-dini, tutti i rumori sospetti che, trascorsa una certa ora,possono allarmare la quiete di questo decoroso e vigila-tissimo fabbricato, dandovi la sensazione più certa chela notte, qua dentro, è cominciata, sono da attribuire al-la sua irrequieta e demoniaca presenza. È lui che funestale mie lunghe veglie d’inverno coi suoi amori dannati,che mi fa trovare, al mio ritorno in casa, il secchio delleimmondezze scoperchiato e rovesciato sulla soglia, chetresca fra i vasi allineati su un muro, sotto la mia fine-stra, facendone cadere sempre qualcuno e fuggendo, inquell’atto, spaventato. Spesso, purtroppo, mentre sonogià nel cortile e sto per raggiungere un porto sicuro, ilcolpevole e diffidente animale, sbucando non si sa didove, mi taglia la strada alla voltata, o si fa cogliere a fru-gare in qualche secchio, su un pianerottolo, la qual cosalo induce a svignarsela catastroficamente, saettando frale mie gambe, giù per le scale, con una di quelle formi-dabili fughe che fanno venire la pelle d’oca a chi ha ladisgrazia di suscitarle.

Con tutto ciò io e lui siamo amici, senza dimostrarce-lo troppo, alla maniera gattesca. Abbiamo, com’è facileintendere, alcune cose in comune. Entrambi abituati avegliare di notte e a dormire il giorno, ci si scontra inquelle ore quando l’addormentato e spettrale edificiosembra non avere altri abitatori che noi due. Comeavremmo potuto, alla lunga, rimanere indifferenti l’unoall’altro, non venire, diciamo così, a un compromesso?E una sera che pioveva e io rincasavo più tardi del solitocapii chiaramente come questo gattaccio, apparso dapoco nel mio cortile, m’avesse già fiutato, si fosse reso

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conto appieno del ritmo della mia esistenza e nutrissenei miei riguardi persino un certo affetto, forse in omag-gio alla regolarità delle mie abitudini e al mio felino at-taccamento ai luoghi. Se ne stava al riparo, accucciato,sulla soglia d’una bottega, a un passo da casa mia. Lì perlì non lo riconobbi e m’avvicinai per accarezzarlo. Allo-ra egli aprì la bocca, e fu con un senso di piacevole sor-presa e ribrezzo che io vidi rilucere, nell’oscurità e nellapioggia, due bellissime fauci color rosa. M’affrettai a ri-tirar la mano temendo che volesse mordermi. Invece sene uscì in uno gnaulìo inatteso, indefinibile, che era unvero e proprio rimprovero. Non so se mi sbaglio, ma eb-bi l’impressione che mi rimproverasse d’esser tornatocosì tardi, come se fra me e lui esistesse non so che tacitaintesa. Rimasto chiuso fuori, esposto all’acqua, elementoodiosissimo per un gatto, a quanto si può giudicare, sta-va lì ad aspettarmi. Infatti, appena mi mossi verso il por-tone, saltò giù dalla soglia, mi seguì come un cagnolino eapprofittò del mio ingresso per rientrare nei suoi posse-dimenti.

Quasi ogni notte accadono cose del genere. Sia che lotormenti il desiderio d’entrare o d’uscire, spesso e vo-lentieri, tornando a casa, lo trovo sul portone o dietro.Io gli dò il passo naturalmente. Come uno che capisce afondo i motivi di queste sue capricciose e polemiche vo-glie, cerco di venirgli in aiuto con la massima discrezio-ne, con tutta l’accortezza che è necessaria per non inso-spettirlo, essendo assai difficile, come sapete, rendereun servizio a una bestia e in particolar modo a un gatto.Ed egli mi ripaga qualche volta, nell’atto in cui, ricon-quistato il suo caro cortile, s’avvia, con dissimulata im-pazienza, verso l’arboreo nascondiglio, rispondendo almio richiamo con una regale alzatina di coda.

Qui è tutto. Eccovi presentato l’unico inquilino diquesto gran casamento col quale sia riuscito a fare ami-cizia.

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L’immenso edificio dove abito è conosciuto da tutti ivetturini romani col nome di «palazzo delle colonne» o«palazzo dell’Avvocatura Erariale»,

È incredibile come questa seconda prerogativa s’im-ponga ai botticellari dell’Urbe e come la mia importan-za, la mia autorità siano assicurate dal momento che sal-go in carrozza e dò l’indirizzo del mio domicilio.L’Avvocatura Erariale s’è trasferita altrove da un pezzo,lasciando il posto a un centinaio circa di famiglie chehanno cominciato a farsi notare soltanto da quando s’èdiffusa la radio. Del resto, devo riconoscere che gli at-tacchi della radio alla mia solitudine sono tanto insolentiquanto svogliati, fuggevoli e poco persuasi; e non si puòimmaginare, in complesso, un cortile più taciturno, piùordinato, più inanimato di questo. Poco discosto dalcentro d’una grande e rumorosa metropoli, in uno deiquartieri più popolari di Roma, il cortile in questione,forse a motivo delle sue austere tradizioni giuridiche, èl’albergo del sonno, un luogo incantato o, se volete, lareggia del cattivo umore. Di quando in quando, perqualche notte, si ode il frignare d’un neonato, ma loscandalo è subito soffocato, prima che io faccia in tem-po a preoccuparmene. Il nastro bianco alla maniglia delportone; il portone chiuso a metà, sono i soli avveni-menti che mi ricordano la vita e la morte qui dentro. Emi domando come sia possibile nascere e morire senzaemettere un grido. Inutilmente ho cercato di spiare gliamori, le gioie, le tragedie dei miei coinquilini. In tantianni di dimora in questo cortile non sono riuscito a sco-prire un segreto. I miei stessi padroni di casa, che dor-mono muro a muro con la mia camera, dànno provad’una discrezione disumana. Non solo non russano, maevitano, direi quasi, di respirare. La loro discrezione ètale che, data la mia condizione di subinquilino, io vivoin mezzo a loro in una solitudine irrimediabile, circon-dato da un vuoto pneumatico. Il mio ritorno in famiglia,

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una qualunque sortita dalla mia stanza, sono sottolineatida luci che si spengono, da porte che sbattono, da vociche s’abbassano, da conversazioni che s’interrompono.E il bello è che tutte queste cose mi piacciono, mi con-vengono, corrispondono esattamente, oltre che alla miastessa maniera di comportarmi verso i miei ospiti,all’idea niente affatto edonistica, anzi un po’ penitenzia-le e fratesca, che io ho del domicilio. Non per nienteabito qui da tanto tempo. Vuol dire che mi ci trovo be-ne. E la mia sola preoccupazione è di non morirci, ossiadi non dare alle persone che hanno la bontà di ospitarmil’estremo disturbo.

Anni addietro colei che una strana deficienza dellanostra lingua mi costringe a chiamare la mia padrona, ri-mase incinta. Durante questo periodo, a un certo punto,per non so quale orgoglioso pudore, cominciò a farsi ve-dere sempre meno, finché scomparve addirittura. Dellasua presenza nell’appartamento non avevo più ormaiche percezioni auditive. E fu così che in una mattinad’inverno, mentre i minuti passavano senza che io avver-tissi i soliti rumori della sua levata, in un silenzio graveed enorme, venne al mondo una bambina, che ha trova-to nel suo regno una porta chiusa, una regione inviolabi-le e uno strano personaggio di cui credo non si sia resaancora ben conto. Questa bambina è spuntata come ilgrano sotto la neve ed io la sentii nascere, in quel silen-zio straordinario, in quell’altissimo e muto stupore ches’era impossessato di tutta la casa.

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INSONNIA

Alla fine d’ogni sua giornata l’insonne torna a sentirsideluso, insoddisfatto, come se aspettasse ancora qual-checosa che doveva accadere e non è accaduto, qualche-cosa ch’egli sa benissimo che non avverrà mai perchénon esiste. Purtuttavia l’aspetta. Aspetta il sole di mez-zanotte. Una vaga scontentezza lo assale sul punto di co-ricarsi. E si meraviglia della docilità e della fretta con cuigli uomini, in genere, ubbidiscono alla necessità del ri-poso. Vede le persone, di sera, salutarsi da lontano, bru-scamente e senza nessuna pietà, come chi desideri ta-gliar corto; le compagnie disgregarsi; tutti imitare eseguire l’esempio dell’uomo casalingo, che diviene con-tagioso a una certa ora. È incredibile il nessun timore,anzi l’impazienza che gli uomini dimostrano, a questopunto, di ritrovarsi a tu per tu con se stessi, la loro im-perturbabile disposizione a dormire quel che si dice ilsonno del giusto, come se il giorno fosse stato abbastan-za lungo e pieno di opere e di compensi degni. È una fu-ga precipitosa verso il domicilio, una diserzione in mas-sa. Buona sera, buona notte. Parole che significano: «èfinita non c’è altro da aggiungere», Parole che suonanocome «va’ in malora», il più delle volte; intendendo lequali l’insonne prova un’impressione di solitudine enor-me, si sente abbandonato e tradito da tutti.

Gli è che per lui il passaggio dalla veglia al sonno edal sonno alla veglia non è facile. Per nessuno meglioche per l’insonne è vero il detto che la notte porta consi-glio. Ma guai allo sconsigliato il quale, tornando la seranella propria camera, si trova a un tratto faccia a facciacon la sua dimenticata solitudine che lo respinge come ilfiato d’una caverna. Quanto è difficile per uno stomacodelicato digerire un cibo pesante, altrettanto a lui è gra-ve la vita. Le impressioni del giorno, di qualunque natu-

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ra esse siano, gli si ripresentano, appena chiude gli oc-chi, sotto specie di nausee, di rimorsi o di cattivi sogni.È un grido, una rivolta implacabile della carne per tuttoquanto egli ha sopportato vilmente, per la nessuna curache s’è data di difendersi da un’infinità di cose che, du-rante il giorno, rappresentano per lui un pericolo assi-duo e la notte un’ossessione. Così tutte le volte ch’egli èlì per varcare il fiume del sonno, la memoria e la co-scienza gli ostacolano il passo.

In questo terriccio d’indisposizioni e insoddisfazioniassurde ha radice la sua insonnia. Per combattere laquale ci vuol altro che gli alcaloidi! Sperimentò tutti inarcotici, per anni e anni. E ha finito col rassegnarsi alproprio destino che, per esser tale, deve avere le suebuone ragioni.

L’insonnia chiama l’insonnia. Quello che gl’impedi-sce d’addormentarsi, è allora la prevenzione, il terrorecon cui si mette a spiare il sonno che non viene, chesempre più intanto si allontana da lui, fino ad apparirgliinconcepibile e paurosissimo, né più né meno che lamorte. In verità egli ha paura di morire in quel punto. Ese si è liberato da quest’angoscia non è per altro che peraverla scacciata insieme col sonno.

Ci si mettono le stagioni coi loro mutamenti e i ca-pricci del tempo: la natura che è tutta folle in ogni suamanifestazione e momento. La fastidiosa primavera nongli concede se non sonni agitati, a fior d’acqua. Il tempoche muta in meglio lo desta sempre troppo presto, piùcrudele della sveglia delle caserme. E specialmente ne-mica del suo dormire è la felicità quando viene a turbar-lo. Soltanto l’ebbrezza, la crapula, la disperazione, leperdite al gioco, costituiscono per lui un riposo certo,infallibile, sono il suo vero narcotico. E quando saràgiunto all’inferno la prima cosa che domanderà sarà unletto.

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In un mondo senza più memoria né speranza, dormi-rebbe profondissimamente. Ma non gli parlate, per ca-rità, d’un sonno che sia compatibile con l’esistenza. Noncrediate ch’egli possa dormire con la mente rivolta aqualche desiderabile oggetto, con l’idea del domani, conuna speranza nel cuore, col pensiero d’un appuntamen-to. Egli ha bisogno, per prender sonno, di dimettersiogni sera, di sdraiarsi come se non si dovesse più rialzarein quell’odiata tomba che è ormai divenuto il suo letto;vigilato da un cattivo angelo, unico testimone ch’eglipuò tollerare al suo sonno.

Rispettate l’insonne il quale veglia mentre voi dormi-te, sentinella perduta in una tenebra senza fondo. Egli èil custode, il guardiano del vostro sonno, colui che lo vi-gila come qualcosa d’inquietante. L’alta notte l’opprimesimile a una lunga sincope, a uno straordinario incantodel tempo. E solo allorché, all’alba, le ore cominciano dinuovo a correre, si decide a smontare la guardia. Nelmondo ridesto, dorme allora, così bene e tranquillamen-te che nemmeno le cannonate, i fulmini, gioverebbero asvegliarlo. Dorme come un morto. Intere stagioni passa-no fuori della sua finestra mentr’egli sta dormendo. Sidesta sul crepuscolo, esce di casa incalzato dalla furia dirincorrere quell’ultima ora che gli sfugge. Abbiate pietàdell’insonne. La sua disgrazia è di non poter dormirementre tutti dormono e di aver bisogno, per prendersonno, di essere cullato dal suono delle campane e dailieti rumori del giorno che nasce. Vorrebbe che la vitanon s’interrompesse mai e finisce per esserne così an-noiato che una delle ragioni per cui torna, a periodi, afare della notte giorno è appunto il desiderio di sottrarsialla faticosa monotonia di quest’ultimo.

Perde in tal modo tutto il suo tempo. E dorme, quan-do dorme, sopra un cumulo di cose lasciate a metà, im-perfette, di questioni che rimarranno insolute in eterno.

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ASTRIDovvero

TEMPORALE D’ESTATE

In una malinconica estate dell’altro dopoguerra, men-tre l’Italia era afflitta da molti guai e incombeva su di es-sa perfino un sospetto di colera, partii da Milano, unamattina, per recarmi in un paesino del lago di Como,dove mi proponevo di passare alcuni mesi in operosoraccoglimento. Avevo rimandato quella partenza all’infi-nito, secondo il mio solito, e adesso che mi ci ero decisocapitai proprio manco a dirlo, in un giorno di sciopero.Sicché, alla stazione Nord, mi toccò di salire su un trenopilotato da studenti, dove tutti viaggiavano senza bi-glietto. A Como una più ingrata sorpresa mi aspettava:lo sciopero si estendeva ai battelli. Non era del tutto na-turale quel senso di infinito riposo auditivo da cui fuisubito colto arrivando in vista delle verdi e tranquillissi-me acque del Lario, nelle prime ore del pomeriggio. Visi aggiungeva qualche cosa d’insolito, vorrei dire unamorte apparente, che non tardai a spiegarmi vedendo illago nettamente sgombro d’imbarcazioni. Come prose-guire il cammino che ora mi premeva di portare a termi-ne al più presto? Per il paese a cui ero diretto, situato aun dipresso nei luoghi dei Promessi Sposi, un autobuspartiva alle otto di sera. Non ebbi pazienza di aspettarlo.Noleggiai un motoscafo che qualcuno venne ad offrirmi,e filai per via d’acqua. In piedi col vento in faccia,nell’ora più dorata del giorno estivo, filai davanti allestatue della Villa Carlotta e ad altre innumerevoli ville infiore e paesaggi assolati e bellissimi, che si succedevanovelocissimamente.

Alle otto di sera, mentre avrei dovuto partire da Co-mo io mi compiacevo d’essere già a cena, sulla terrazzadi quell’albergo che avevo scelto a caso, ma non potevo

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non scegliere, perché, oltre ad essere d’aspetto modesto,quale a me conveniva, sta a due passi dalla caletta e fu ilprimo a venirmi incontro. È bene chiarire che il destinomi condusse in quell’albergo. Se no la mia storia nonavrebbe più senso.

Ora il lettore ascolti e si meravigli. Su quel disprezza-to autobus viaggiava colei che sarebbe stata, di lì a poco,la mia perdizione, Astrid, l’insospettatissima Astrid, cor-reva sulle mie orme. Già insediata nel mio albergo, in ungiorno così poco propizio, coi battellieri in vacanza, ave-va fatto una gita a Como, quasi per darmi il benvenuto;e adesso tornava sui suoi passi con l’unico mezzo di cuipotesse disporre. Se io avessi seguito le vie ordinarie, misarei imbattuto con lei sulla corriera, l’avrei conosciutasubito, appena messo il piede su quella riva, tanto al de-stino urgeva metterci a fronte. Ma la mirabile occasionevenne a mancare. La divina occasione che forse avrebbepotuto far prendere alla nostra avventura tutt’altra piegae magari impedire che accadesse, fu evitata. Io vidiAstrid, con una sua amica (è inutile dire che il miosguardo cadde immediatamente su lei) irrompere sullaterrazza mentre stavo per alzarmi da cena. Tornavanotardi e piene d’appetito, festosamente accolte da altredonne che, sedute ad un tavolo proprio di contro almio, le aspettavano mangiucchiando. E questo piccoloepisodio mi sorprese stranamente. Io ebbi allora unaspecie di presentimento, una rivelazione confusa, a cuinon badai. Né so in che modo potei stabilire con tantafulminea certezza che le due ragazze venivano da Comoe ricostruire il mancato incontro, dato che Astrid e lesue amiche parlavano una lingua che non conosco. Soche questo è uno dei ricordi più vivi, più folgoranti, delmio romanzetto con Astrid, il qual romanzetto, iniziato-si, non senza mia riluttanza, qualche settimana dopo ilmio arrivo, parrebbe non avere alcun rapporto conl’episodio in questione. Ma chi può dire quando, comenasce un amore?

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L’eroe di questo racconto non è, ad ogni modo, uomoda ammettere con facilità l’intervento del fato nella suacomune esistenza. Eroe di sfortuna, cattivissimo gioca-tore, egli sarà il primo a non dare alcun peso alla miste-riosa circostanza che ho cercato di fissare, a stimarla unasemplice coincidenza, una combinazione insignificante,e lotterà accanitamente contro il palese avvertimentod’amore, sebbene poi l’inutile tenzone dovrà conchiu-dersi, come le battaglie descritte da Omero, secondo ilpreordinato volere degli Dei.

Il modesto albergo dove io m’ero affrettato a deporrele mie pesanti valige (pesanti soprattutto perché conte-nevano molti libri), non ha altro pregio se non di essereil più antico del luogo e ricorda veramente, col suoaspetto scalcinato e romantico, i tempi del Fra Diavolo.Di simili vecchi alberghi da cospiratori e da amanti cele-bri ne ho visti a Lugano. Quello di cui parlo, chiamato«Hotel de Genève», non merita forse neppure così illu-stri raffronti. Situato, come ho detto, a poca distanzadall’imbarcadero, nel punto d’arrivo e di partenza dellacorriera di Como, si offre piuttosto al commesso viag-giatore che al villeggiante ed è una specie d’osteria dellaposta. Un caffè aperto al pubblico, sotto un portichettoinfestato dalle tremende mosche lacustri, svela il caratte-re promiscuo del locale, rispondente ai gusti e alle con-suetudini del piccolo commercio lombardo. Caffè e al-bergo sono però nettamente distinti. E a sommo delportichetto, in comunicazione con la sala da pranzo, sieleva una terrazza, grazie alla quale i felici pensionantidell’«Hotel de Genève» possono cenare all’aperto,guardando il lago e starei per dire il mondo dall’alto.Particolarità preziosissima, che occorre tener presenteper spiegarsi le cifre inverosimili a cui arrivava il contodella settimana.

Il proprietario di questa locanda era un terribile uo-

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mo inquartato e sanguigno, uso ad esercitare la sua pro-fessione in modo assolutamente perentorio. Sia che imagri affari dell’annata l’avessero inasprito o che eglimanifestasse, nel suo comportamento, la propria indole,il fatto è che trattava i clienti come ostaggi, sottoponen-doli a vere taglie di guerra. Avido, industrioso, attivissi-mo, faceva tutto lui. Cominciava con l’andare alla pescadelle trote, per procacciarsi gratuitamente quel cibo chebisognava pagar caro in ragione delle sue fatiche e dellagloria stessa che vantava nel porgerlo, come frutto dellasua valentia di tiratore di fiocina, che a sentir lui nonc’era l’eguale in tutto il paese, ed esigeva, per conse-guenza, un soprappiù di riconoscimento. Eccolo in cuci-na, portate in tavola, sorvegliar l’andamento delle came-re. Quasi quasi avrebbe rifatto anche i letti, se la dignitàe la decenza non lo avessero costretto, per quest’ufficio,a servirsi d’una cameriera nostalgica, la quale veniva daMilano ogni anno a far la stagione e voleva esser coman-data con cautela, potendosi ferire facilmente. Un picco-lo aiuto il laborioso esercente lo riceveva pure, o almenoavrebbe dovuto riceverlo, da una sua figliola giovanissi-ma: un pezzo di ragazza tarchiata e maschia, ma con latesta piccola in proporzione del corpo, e la frangetta deicapelli sulla fronte, come una donna di Renoir; che cam-minava buttando i piedi molto avanti e mettendo in mo-stra, a cagione della corta gonnella, in grande uso a queitempi, due polpacci mirabili. Non priva, per dirla conManzoni, «di quella grazia un po’ guerriera delle nostrecontadine», Ma solo in rapporto al fisico; giacché, inquanto al carattere, la bella comacina era assai più sgar-bata che forastica. Si capiva che il servire a tavola non leandava a genio. Aveva malinconie da signorina borghe-se, in aperto contrasto col suo aspetto robusto e villerec-cio, e appena sbrigate, in fretta e di malavoglia, le suefaccende, correva a rincantucciarsi in sala da pranzo osulla terrazza, col romanzo in mano. La chiamerò Ange-

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lina. Il romanzo ch’ella divorava in quei giorni era Mitìdi Virgilio Brocchi.

Angelina aveva poca simpatia per me, che usava qua-lificare, in mia assenza, genericamente e con poco ri-guardo, «il giornalista», Me ne accorsi fin dalla primasera, durante la cena, grazie alla sua dispettosa e sfug-gente maniera di servirmi. Tutte le sue garbatezze, le suenostalgie, andavano a quel tavolo dirimpetto, gaiamenteornato da ben quattro ragazze forestiere, vivacissime,vestite coi colori più festosi che l’estate può suggerire; lequali ridevano, si alzavano ad ogni momento, sotto l’oc-chio indulgente d’una donnetta, apparentemente fattadi miele e di giulebbe, molto meticolosa e lenta nel man-giare, che poi seppi essere la madre di due di quelle fan-ciulle e moglie d’un console norvegese residente a Pari-gi.

Il rimanente della clientela consisteva in due coniugiinglesi di mezza età, seduti ad un tavolo alla mia destra.Persone abbastanza fini, a giudicare dall’aspetto; chetuttavia se non fossero esistite sarebbe stato lo stesso,tanto poco si poteva supporre di entrare in dimestichez-za con questi due commensali. Nelle mie vicende amo-rose non ebbero alcuna parte e se li ricordo è soltantoper dare un’idea dell’ambiente in cui queste vicende fio-rirono. L’uomo appariva giovane ancora, benché delica-to, logoro, la donna un po’ più anziana, al tramonto del-la sua bellezza, di un’eleganza preziosa. Entrambiappartati, riservati. Non si curavano di altro che d’unravviatissimo can barbone color cioccolata, oggetto su-premo di interessamento e forse unico punto di contattodi quella coppia taciturna e dignitosamente triste.

Tale dunque l’albergo dov’io conobbi Astrid, in quel-le singolari circostanze che ho accennate in principio,col terrore del colera in giro e tanti altri assai più realimalanni che funestavano il nostro paese. Quasi nessunoquell’anno andò in villeggiatura e i pochi forestieri va-

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ganti per la penisola potevano usufruire, negli alberghisemivuoti, di una comodità eccezionale. Mentre le città,strabocchevoli di popolazione, piene di truppa smobili-tata, ma non svestita, di reduci disoccupati, che affolla-vano i comizi e si colluttavano per le vie in grigioverde,erano in preda ai peggiori disordini, le nostre stazioniclimatiche più lussuose, i monti, i laghi, le spiagge, offri-vano al raro e sperduto villeggiante uno spettacolosquallidissimo.

In quell’alberguccio, uno dei più affollati di tutto ilpaese, le sette persone che ci avevo incontrate non ebbe-ro ad aumentare, né diminuirono, fino a tanto che io virimasi. E si aveva l’impressione di essere in un rifugio al-pestre, bloccati dalla tormenta.

Ognuno, al mio posto, trovandosi prigioniero diquattro giovani donne, si sarebbe affrettato ad uscire dalproprio riservo, se non altro per obbligo di galanteria odi solidarietà nella disgrazia. Eppure (chi lo credereb-be?) nonostante il fatidico inizio io lasciai passare quin-dici giorni senza cercar di conoscere le mie piacevolicoinquiline e compagne di solitudine, ponendo anziogni mia cura a tenermene lontano, quantunque le intra-prendenti fanciulle, che si dovevano molto annoiare inquel deserto ritiro, mi facessero l’onore di manifestarmiogni sorta di curiosità e di attenzioni. Per circa due setti-mane, sordo a ogni invito, a ogni lusinga, io gareggiai coidue inglesi nel difendere il mio splendido isolamento.Né questo è il solo particolare ridicolo d’una storia che apiù d’un lettore parrà forse troppo semplice.

Quando si arriva in un paese per la prima volta si èsempre un po’ astratti e disorientati. Soltanto i commes-si viaggiatori non patiscono di questo male. Per me ilviaggiare è sempre stato una catastrofe. E tutto l’incantod’essere in un paese che non conosco dura quanto puòdurare il mio sogno. Una volta che mi sono reso conto didove sto e delle persone che mi circondano, addio, rico-

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mincia la noia di esistere. Ciò spiega la mia difficoltà afar conoscenze di ferrovia o d’albergo, la mia nessunatendenza a viaggiare in carovana, e via discorrendo. So-no un viaggiatore insocievole.

Mi rammento d’una curiosa avventura capitatami intreno, una notte, fra Milano e Roma. Viaggiavo in se-conda. Il mio scompartimento era pieno zeppo e un bel-lo spirito, di quelli che si incontrano appunto in ferro-via, pareva essersi proposto di passar la nottata in allegraveglia, approfittando largamente della presenza di unasignora sola per dirne e farne intendere d’ogni colore. Inpochi minuti ciascun viaggiatore stimò doveroso cavaredal portafoglio il proprio biglietto da visita e far com-butta con quel faceto individuo, la signora compresa.Così venne a formarsi la più chiassosa combriccola dibuontemponi che si sia mai vista in uno scompartimentoferroviario. Non c’ero che io che mi ostinassi a rimaneretaciturno in un angolo, col naso al finestrino, mostrandochiaramente di non voler essere della partita. Una cosìstrepitosa allegria, una tale programmatica ilarità, miavevano messo di malumore. A lungo andare il mio po-co solidale contegno finì per essere notato e per imba-razzare alquanto, specie nei momenti in cui, come acca-de, l’ilarità illanguidiva. In quei penosi intervalli mi sigettavano di traverso certe occhiatacce, piene di livore,di odio, che avrebbero disarmato chiunque. Nonostanteciò, io persistei nel mio atteggiamento per quanto fulungo il viaggio, più irrigidito del giacobino nella carroz-za di Boule de suif, ma senza fischiettare la Marsigliese.La mia protesta era tremendamente silenziosa.

Venne il mattino che tutti apparivano disfatti per ilsonno perso e abbrutiti dal ridere. Allora qualcuno, apochi chilometri da Roma, tirò fuori una bottiglietta dinon so che liquore e servendosi di un bicchierino d’allu-minio (uno di quei bicchierini che si svitano dalla botti-glia stessa, cui fanno da tappo) ne offrì un sorso ad ogni

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persona presente, quasi a suggello dell’indimenticabilenotte. Io fui escluso, beninteso, ostentatamente escluso.E questa punizione me la tenni come ben meritata.

Nel caso particolare, oltre alla naturale pigrizia e timi-dezza, io avevo le mie buone ragioni, per condurmi co-me ho detto. Il lettore mi ha già capito. Contavo di lavo-rare, in quell’estivo ritiro, e non mi sorrideva troppol’idea di perdermi in avventure sentimentali. Infine po-teva anche darsi che quelle sbrigliatissime ragazze si vo-lessero prender gioco di me. Anzi era più che probabile.Io ne ero certo senz’altro. Giunsi così al punto che in-contrandole di sera a passeggio, lungo riva, e sentendoleridere da lontano senza dubbio al mio indirizzo, fuggivoa nascondermi tra gli alberi. Non parlo di ciò che mi ac-cadeva in albergo, all’ora dei pasti, bersagliato com’eroda una quantità di commenti chiarissimi, sebbeneespressi in una lingua incomprensibile, da occhiate im-pertinenti, da risatine continue, cui non si peritava di as-sociarsi quella donnina morbida e anzianotta, seduta acapo tavola, che avrebbe dovuto dare il buon esempio eche, al contrario, pareva approfittare della distrazionedelle ragazze per abbandonarsi inosservata alla sua golo-sa lentezza manducatoria. Non potevo fare una mossache non suscitasse uno schiamazzo in tutto quel galli-naio. Durante il giorno, mentre me ne stavo chiuso incamera, cercando di spremere un po’ di sugo dal mio fa-ticoso cervello, mi si ricordavano al pianoforte, dalla sa-la da pranzo, a suon di Tipperary (era quel tempo) e val-zer di Miaskowski. La sera poi, sul punto di coricarmi,due di esse venivano ad una finestra superiore alla mia elì rimanevano lungamente a bisbigliare e ridacchiareogni volta che vedessero passar la mia ombra sul murodi faccia. Proprio s’erano messe in testa di non darmipace. La mia resistenza le esasperava. Combattevamoormai una tacita guerra da cui m’illudevo di uscir vinci-tore, senza pensare che, a poco a poco, ci avevo preso

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gusto ed ero quindi già debellato. Notai che la più im-pertinente di tutte, la più sfacciata, in siffatte imprese,era anche la più goffa, cioè la figlia minore del console,che poi finì per accettare la corte del medico del paese.Mentre la più sorniona e costante, la più traditora, coisuoi sguardi lunghi e fatali di sotto le ciglia, era per l’ap-punto Astrid. Ohimè, in questa forma il gioco cominciòa piacermi. E presto il guardarci così fissi e di nascosto,da un tavolo all’altro, diventò una dolcissima consuetu-dine.

Meraviglia dell’amore con gli occhi. Voluttà infinita,privilegio della timida e ardente gioventù, piacere per-fetto che sparisce nel momento in cui fra due esseri chesi sono così naturalmente scrutati e comunicati non c’èpiù quella magica e ignota distanza. Piacere felino, gat-tesco.

Amai in tal guisa donne che neppure conobbi, se-guendole da un paese all’altro, camminando sulla lorotraccia fuggitiva come Apollo dietro Dafne, come Teseoguidato dal filo d’Arianna, ma senza fare un passo di piùper raggiungerle. Esse si dileguarono e a me non rimaseche il ricordo di una stagione felice.

Con Astrid purtroppo le cose andarono altrimenti.Con lei fui condotto ad allungare il passo. Un bel giornomi trovai di là da quella soglia che avevo tanto esitato avarcare. Ed eccomi in mezzo ai guai.

Dal seguito di questo racconto si vedrà chi era Astrid.Io non intendo far psicologia, né scandagliare gli abissidel cuore femminile. Narrerò i fatti come «realmente sisvolsero», senza curarmi di nascondere l’ingenuità equasi ridicola inesperienza con cui furono da me vissutie sofferti. Dirò solo che, a giudicarla dal di fuori, non sisarebbe potuto immaginare nulla di più pacificamenteborghese di questa ragazza, figlia di un legatore di libridi Cristiania, impiegata nel negozio paterno e non certo

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superiore, quanto a levatura mentale, ad una delle no-stre signorine di studio. Parlava l’inglese come la pro-pria lingua, cosa non rara tra gli scandinavi, e un pocoanche il francese, ma con una pronuncia tedesca, che miricordava spesso il banchiere alsaziano di Père Goriot.Non conosceva una parola della nostra lingua. IgnoravaIbsen. La sua voce strascicata e nasale poteva esserequella d’una vecchia o d’una bambina lunatica.

Di aspetto grande e formoso, con la fronte alta, i ca-pelli biondi e sciolti, la pelle finissima, rosea, sotto laquale si vedeva scorrere il sangue, le spalle ampie, soste-nute e ben arcuate, i larghi occhi umidi, cupamente az-zurri, sarebbe stata fisicamente perfetta se alla fioritaopulenza dei fianchi e delle braccia divinamente tornite,degne di Nausicaa, avesse fatto riscontro un seno un po’più rilevato e, per meglio dire, meno avaro. Così ella in-carnava una figura di Vestale o di atleta femmina, masenza nulla di acerbo né di aggressivo nei modi, anzi pi-gra sedentaria e taciturna per natura, benché allenata adogni genere di sports, a cominciate dal flirt. Viaggiandosola tra la Norvegia e l’Italia ne aveva filato uno in ferro-via, con un signore attempato, e un altro in Inghilterrapresso la famiglia che l’ospitava, con un giovinetto di se-dici anni. Per conto suo non poteva essere più che ven-tenne ed era tanto sviluppata nelle membra quanto spi-ritualmente immatura.

Uscivamo ogni giorno soli dopo colazione, cioè nelleore più roventi del pomeriggio, incuranti della canicola,per lunghe passeggiate a piedi o in barca, giovandoci ta-citamente il pretesto delle lezioni d’italiano e d’ingleseche avremmo dovuto scambiarci ma di cui regolarmenteci dimenticavamo. Le prime volte, camminando a fiancodi lei, che mi sorpassava in altezza di quasi tutta la testa,mi pareva di camminare sul vento. Ero così felice, misentivo soffocare dalla grazia di quelle prime confidenze

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a cui temevo di non poter corrispondere in maniera ab-bastanza degna. Io ero trascinato, vicino a lei, come inuna nuvola odorosa, e quando la vedevo sdraiata in bar-ca non mi saziavo di contemplare quel suo corpo giova-ne e ricco di leonessa. Avrei voluto baciarla mentre dor-miva, prenderla di soppiatto e di furto. Portava persolito un abito di seta celeste, a fiori, entro cui le sue for-me giocavano liberamente, e uno scialle mezzo spagno-lo, bianco avorio, sulle spalle. Era l’abito che più le do-nava, l’abito della nostra prima passeggiata di seraquando lei, bisticciatasi con le sue compagne che già co-minciavano a tormentarla, corse da me, ed io, innamora-to pazzo, inebriato da quella piccola fuga notturna, riu-scii ad esprimermi e comportarmi in maniera daconvincerla di avere incontrato «un poeta», Così vestivaanche il giorno che un mio gesto bastò a far crollare ilsuo radioso castello d’illusioni. Quel giorno, alla solitaora, il barcaiolo ci aveva lasciati in un giardino di ma-gnolie, a cui si poteva accedere dal lago, quanto per viadi terra. In piedi, fra quelle piante odorose e frondose,Astrid mi mostrava la schiena e teneva un braccio sospe-so al ramo d’un albero. A un tratto mi avvicinai e le posiuna mano sulla spalla. Si voltò di scatto, con una facciaavvampata e serissima. «Vous étes fou» disse a bassa vo-ce, come se temesse che qualcuno, all’infuori di me, po-tesse udirla. E questa sua femminile prudenza accrebbeenormemente la gravità del mio gesto. Né io seppi ca-varmela con uno scherzo. Quindi un imbarazzante silen-zio si stabilì fra noi due. Uscimmo da quel giardino qua-si subito. Varcando strade e campi, ciascuno immersonei propri pensieri, ci trovammo, senz’accorgercene, aprendere il tè in un paesino di pescatori alquanto lonta-no dal nostro. Qui non si poté più continuare a tacere ela parola «amore» fu pronunciata per la prima volta.

Ora Astrid appariva del tutto rasserenata. Quel tacitocamminare le aveva giovato evidentemente a riprender-

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si, a riordinare le proprie idee. L’occasione di definire inostri rapporti non poteva giungere per lei più opportu-na. Con incredibile tranquillità e freddezza, con la sicu-mera d’una bambina che s’accinge a recitare una parte oa sostenere un esame a cui s’è preparata da lungo tem-po, ella mi dichiarò che non mi amava, che nonm’avrebbe mai amato, insistendo crudelmente su questopunto: che io lasciassi ogni speranza. Ammetteva, benin-teso, che avremmo potuto rimanere buoni amici lo stes-so. Ma quanto all’amore non voleva sentirne parlare, loescludeva nel modo più assoluto, per il momento e persempre, giacché lei, concluse dopo un attimo di esitazio-ne, abbassando gli occhi (e credo che dicesse il vero eche avesse ragioni da vendere) lei non poteva amare cheuno sportsman. Per convincermi che le sue parole eranosincere occorreva quest’ultimo argomento; e mi miseun’allegra disperazione nel cuore. Ah dunque non miamava! M’ero ingannato. Tanto meglio.

Chiamai con insistenza il cameriere, pagai, e proposidi tornare all’albergo. Non potevo rimanere un minutodi più con una donna che mi aveva fatto simili dichiara-zioni. Ero pieno di uno strano cruccio, col sangue rime-scolato, come se avessi patito chissà quale affronto. Unfurore pazzo mi aveva messo le ali ai piedi, sicché la po-verina, quantunque sportiva e di gamba lunga, faceva fa-tica a seguirmi e, spaventata forse dalle conseguenze delsuo discorso, tirava a rallentare la marcia. Non le dissi,lungo la strada, una sola parola, né credo che la mia fac-cia fosse tale da incoraggiarla ad affrontare il mio silen-zio. Sulla soglia dell’albergo la salutai seccamente, deci-so a non guardarla mai più.

Come io passassi la serata il lettore se lo può immagi-nare. C’era da quelle parti, ospite onorario di un albergodi gran lusso, un mio amico pittore (pittore di genere ealla moda) che in quei tempi di inflazione, a Milano,guadagnava fior di quattrini e, per di più, approfittando

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elegantemente delle sue relazioni col mondo milanese,riusciva a procurarsi delle magnifiche villeggiature gra-tuite. Non ci vedevamo quasi mai. Quella sera però do-vetti riconoscermi troppo solo e infelice per poter di-sprezzare quel piccolo conforto che la sua costanteamabilità mi assicurava. Andai dunque a trovarlo e fucon questo provvidenziale compagno che mi recai a ce-na il più lontano possibile dalla mia pensione e dal paesestesso, in una taverna del lago di Lecco, dove mangiam-mo del pesce fritto, innaffiato da alcune bottiglie dibuon vino bianco. La mia lirica esaltazione era parago-nabile a quella che può suscitare una grossa perdita algioco. Ciò che io provavo in tale circostanza era il piace-re di sentirmi puro e a posto nella disgrazia, la voluttàdel supplizio. Lontano dalla donna amata e che non miamava, orgogliosamente e volontariamente lontano, ioandavo centellinando la mia tortura minuto per minuto,me ne ero ubbriacato, e per prolungarla oltre il limite,allo scopo di non rimetter piede in albergo prima cheAstrid fosse andata a dormire, la volgevo in riso, intrat-tenendo il mio saggio amico, presunto uomo di mondo,con la descrizione delle mie pene d’amore che lo sollaz-zavano anche troppo. Tornammo verso le nostre abita-zioni a notte inoltrata. Tutto il paese dormiva, a finestrechiuse o spente. Nel grande silenzio lacustre non si udi-va che la solita ninna nanna dei campanelli delle reti chei pescatori, di sera, lasciano andare sul lago alla deriva.Giunti che fummo sulla deserta piazzetta, in vista delmio albergo, io guardo automaticamente da quella par-te. E che vedo?

Che cosa vedo, mio Dio?Astrid era là, nel buio della terrazza, contro ogni sua

consuetudine, seduta e avvolta in uno scialle nero, in at-teggiamento fermissimo, quasi statuario, da far pensarealla moglie d’un pescatore che stia scrutando in una not-te burrascosa il ritorno d’una barca che forse ha fatto

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naufragio. La mia sorpresa non fu così viva come si po-trebbe credere. Era troppo profonda per venire subitoalla superficie. Forsanche io avevo inconsciamente desi-derato e previsto ciò che i miei occhi scoprivano adessosenza apparente stupore. Fatto sta che seguitai a cammi-nare col mio lento passo, a discorrere come se nulla fos-se, tanto che la persona che mi accompagnava, nonavendo motivo di guardare sulla terrazza, non ebbe al-cun sospetto dell’accaduto, che io tenni per me, o me-glio, elusi, allontanai, fino all’ultimo, rimanendo ancoraa lungo, sulla piazzetta, con quella straordinaria felicitàche occupava il mio animo, a ragionare e perfino ad ac-calorarmi di cose che non m’interessavano minimamen-te. Passati alcuni istanti Astrid si alzò e scomparve. Larividi la mattina dopo e, senza che io le chiedessi nulla,cadendo quasi tra le mie braccia, non ebbe difficoltà aconfessare che per tutta quella tremenda serata non ave-va fatto che aspettarmi e desiderarmi.

Le nostre passeggiate continuarono. Ma ormai nonc’era giorno che qualche nuovo accidente non interve-nisse a turbare la nostra amicizia. Io mi comportavo, adire il vero, con disperata leggerezza. In preda a un con-tinuo delirio, non riuscendo a trovar riposo in quell’av-ventura così inevitabilmente fuggevole, avrei volutoconvincere Astrid che l’amore è un gioco, una burla,una pazzia. Invece lei aveva ben altre opinioni in materiae si crucciava di tutto e di nulla, secondo il momento.«Vous me traitez comme une cocotte», era il suo ritornel-lo. Ogni giorno doveva essere l’ultimo delle nostre amo-rose peregrinazioni, non ci saremmo più guardati. Eogni sera, prima di coricarci, veniva alla finestra a sus-surrarmi che mi perdonava. Qualche altra volta, poi,sempre di sera, accadeva a lei di lasciarsi andare a mani-festazioni di tenerezza un po’ soverchie, dandone la col-pa alla luna.

Sulla via delle tante piccole concessioni a cui s’era la-

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sciata condurre avevo trovato un punto interdetto, unaproibizione assoluta: quella di baciarla in bocca. Il gior-no in cui accadde il gran fatto, ella non si ribellò. E fulungo. Ma poi sbottò a piangere, mi scagliò tra le lacri-me uno sguardo d’ira infantile, e se ne uscì in quest’apo-strofe. «Vous n’avez, rien de sacré», Capii allora, matroppo tardi, ch’ella aveva sacrificato la sua bocca, la suabocca che sapeva di rosa, allo sportsman che dovevasposarla. Ebbi anche quella sera bisogno del suo perdo-no. Me lo fece sospirare un po’ più del solito, poi me loconcesse. Ed ecco in che modo finì l’avventurosa gior-nata.

Mi aveva sussurrato il suo «je vous pardonne» e indu-giavamo a chiacchierare sommessamente, nel silenziodella notte, da una finestra all’altra. La sua era al pianodi sopra, ma di fianco alla mia, e poiché le nostre due ca-mere davano sul lago non si può immaginare un paesag-gio più incantato e sognante di quello che avevamo da-vanti agli occhi. Io ero felicissimo, fuori di me dalla gioiache anche quella sera fosse scesa sul mio capo la sua be-nedizione. Se no, come avrei potuto dormire? Eccoadesso che il gatto dell’albergo, visitatore assiduo dellamia camera, salta sul davanzale e mi si va strofinando aipanni irrequieto. Più lo scacciavo, più lui tornava a far lefusa addosso a me. Col dorso inarcato, la coda ritta, ron-fava e brontolava, strusciandomisi al gomito, come unapila bollente. Quel gatto sentiva il temporale che sareb-be scoppiato la notte stessa. Quel gatto sentiva l’amoredi cui vibrava il mio essere. A un certo punto, per libe-rarmene, mi viene in mente di collocarlo sul cornicioneche passava sotto la mia finestra, non proprio a portatadi mano, ma quasi. Concepire una simile balordaggineed eseguirla fu cosa d’un attimo. Una volta gettato lì so-speso nel vuoto, nell’impossibilità di saltare in istrada,per la troppa altezza, quanto di risalire, l’animale sitrovò smarrito e si accovacciò cheto cheto, quasi avesse

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coscienza di essersi meritato quel piccolo castigo. Oraperò si trattava di riprenderlo, cosa difficile a cui nonavevo pensato: difficile appunto per quella piccola di-stanza che intercorreva fra il cornicione e la mia mano.Cominciavo a rendermi conto delle conseguenze dellamia prodezza. Già immaginavo i lagni del gatto durantela notte, le proteste del vicinato e lo scandalo che ne sa-rebbe seguito il giorno dopo in albergo e per tutto ilpaese, ma pensavo soprattutto ai due inglesi. Che stupi-do scherzo! E Astrid che me lo aveva lasciato compieresenza fiatare, quasi ad incoraggiarmi col suo silenzio,Astrid che aveva assistito tranquillamente a tutti i mieivani tentativi di salvataggio, si decide infine ad interve-nire per chiedermi con una punta di malignità infantilenella voce assonnata, come avrei fatto adesso a toglierela bestia da quella singolare situazione. Io ero deciso atutto, pur di evitare lo scandalo che temevo, e non c’erache scendere sul cornicione, alto quanto basta per rom-persi il collo cadendo, ma risposi che mi sarei accintoall’impresa, come infatti desideravo, non avendo nessu-na voglia di esibirmi in un esercizio a cui mi sentivo cosìpoco portato, quando lei si fosse ritirata.

«Faites-le maintenant», implorò la crudele, con vocepiangente addirittura.

Sfido chiunque a resistere a una simile preghiera. E inquell’occasione specialmente. Né io attesi che la pre-ghiera si rinnovasse. Conoscevo troppo Astrid per nonsapere a quali conseguenze sarei andato incontro esitan-do. Mi calai fuori dalla finestra, posi i piedi sul cornicio-ne e, aggrappandomi con una mano al davanzale, rac-colsi con l’altra il micio, sotto gli occhi della mia bellache, forte del suo buon diritto, non aveva rinunciato adimpormi quell’atto di coraggio disperato e buffissimo. Sitrattava di una altezza non inverosimile, per di più ilcornicione era abbastanza sporgente e comodo. Ma iosoffrivo di capogiro, sono il contrario assoluto d’uno

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sportsman, e si dovrà convenire che una tale provad’amore, data in presenza d’una spettatrice così esigen-te, non è poi del tutto ordinaria.

Quanta pericolosa felicità, quanti affanni, quante fol-lie, in meno di un mese. Addio lavoro, addio amici, ad-dio a tutto. Nella mia mano si leggono i segni di tre oquattro tempeste amorose che avrebbero devastato lamia esistenza. Sono tracce di antichi rivolgimenti e dilu-vi, non meno remote, rispetto al breve corso della vitad’un uomo, di quelle che il geologo discopre nelle pie-ghe della terra. Uno di questi cataclismi fu certo il mioincontro con Astrid. Quando accadde io avevo trentaanni ed ero in un punto assai delicato della mia paraboladi scrittore. Tutte le altre storie o mattane d’amore cheposso aver avuto prima e in seguito non furono cheun’inezia in confronto a questa. Contro le rive di quel la-go propizio ai dolci riposi, quanto alle più funeste perdi-zioni, la navicella del mio ingegno non dirò che facessenaufragio, ma certo si arenò per un tempo incalcolabile.E trovo fra le mie pagine più ingiallite un pensiero diquei giorni, che mi sembra opportuno trascrivere: «Lavita di un uomo non è fatta, in sostanza, che d’una serieinterminabile d’accidenti. L’avventura, l’imprevisto, so-no, più spesso che non si creda, i veri fili conduttori del-la nostra quotidiana esistenza. Guidati in gran parte dalcaso, noi intrecciamo amori, amicizie, facciamo i nostriaffari o il nostro danno, secondo il carattere. Che è poil’unico dato sicuro e permanente in questo caos di com-binazioni.

«Io fui sempre sorpreso dall’amore in momenti neiquali mi proponevo di raccogliermi e di lavorare. Tuttele volte che mi prefissi di fuggirlo. Quando meno me losarei aspettato. Allora un’occasione di perdermi, sullamia strada, non mancò mai.«

C’imbattemmo, per nostra disgrazia, in un’estate pio-vosa. Quasi ogni giorno, uscendo, ci pigliava l’acqua, ma

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faceva così caldo che la polvere delle strade, percossadai goccioloni, mandava odore di cartucce appena spa-rate. E queste acquate ci costringevano a lunghe soste,in luoghi fuori mano, dove si aspettava invano che spio-vesse, con gran dispetto di lei che non riusciva mai a tro-varsi puntuale in albergo all’ora del tè e pregiudizio deinostri rapporti. Tornavamo ad ore impossibili, inzuppa-ti fradici, accolti da un silenzio glaciale. Se ci ripenso, mipare che quella mia con Astrid, più che una storiad’amore, sia stata una storia d’acquazzoni.

La famiglia del console, presso la quale Astrid tra-scorreva le sue vacanze in viaggio, aspettava di giorno ingiorno i passaporti per raggiungere a Parigi il rispettivomarito e padre. Non è dunque da credere che Astrid e lesue amiche fossero in Italia per rimanervi, né molto, népoco. La loro meta era un’altra. In tempi come quelli acui mi riferisco soltanto il caso, un disguido, potevanoaverle condotte su quella riva, dove stavano sempre sulpiede di partenza, in una specie di quarantena che, peressersi prolungata oltre il previsto, si trasformò a poco apoco in un soggiorno vero e proprio, in una villeggiaturaquasi normale. Ma tutto poteva finire da un momentoall’altro. Quei passaporti erano la mia spada di Damo-cle. E chi s’è trovato qualche volta nella sala d’aspettod’una stazione, in compagnia di una persona amata,pronta a spiccare il volo per un lungo viaggio, può avereun’idea, benché vaga, delle circostanze estremamenteangosciose e precarie in cui questa mia storia si trascinòper circa due mesi e del mio stato d’animo.

La diplomatica famiglia si componeva, come ho det-to, di una minuscola signora garbatissima, furbissima e,come tutte le persone tenere di corteccia, abbastanzadura di cuore, e delle sue due figlie. C’era con loro, nellastessa condizione di Astrid, un’altra ragazza, anche lei diNorvegia, bionda e piccola come una bambola. Non

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parlava l’italiano, né il francese. Ella dunque per me erasordomuta. Si faceva sentire però al piano abbastanza.In tutta questa lacrimosa storia fu certo la più innocen-te, ad ogni modo la più discreta, e la ricordo con gratitu-dine. Ma il mio racconto volge ormai rapidamente allafine. Lascio di conseguenza la piccola norvegese al suotranquillo destino, per occuparmi un poco della figliamaggiore del console, personaggio assai meno innocen-te; la quale, da parte sua, non aveva nulla che potesse in-teressare la mia fantasia, se non forse il fatto di esseremaritata con un ufficiale della marina inglese, sbalzatoin India all’indomani del matrimonio: maritata per unanotte. Questo particolare venne riferito da lei, dalla so-rella e dalla madre, con goffa compiacenza, come qual-che cosa di romanzesco, che rialzava le sorti dell’interafamiglia e conferiva alla detta signora, agli occhi dellesue più giovani amiche, un fascino indiscutibile. Si pre-parava adesso a raggiungere il legittimo consorte, pas-sando per Parigi. Ma pare che una volta là trovasse digran lunga più divertenti le boîtes di Montmartre eMontparnasse che tutte le vagheggiate meravigliedell’India lontanissima, di cui aveva tanto vanamente di-scorso, in previsione del suo viaggio, da essersene stan-cata prima di vederle. Per la qual cosa il marito, esatta-mente informato sui gusti eccentrici della poco delibatamoglie, si affrettò a chiedere il divorzio e l’ottenne. E ilcurioso è che l’epilogo di questo matrimonio duratoventiquattr’ore io venni a conoscerlo, alcuni mesi dopo,da una di quelle incredibili notiziole del «Corriere dellaSera», che si stimano generalmente inventate e sono in-vece, a giudicare da questo caso, verissime. Il mondo èpiccolo e l’Europa è pettegola.

Costei era l’amica migliore di Astrid. Natura ama icontrasti. Avanti ch’io capitassi in quell’albergo stavanosempre insieme, inseparabili. Fu con lei ch’io vidiAstrid, la prima sera, tornare da Como. Erano loro che

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venivano a cinguettare sopra la mia finestra, ricordando-mi, scusate il paragone, il cinguettìo di Sonia e Natasciala sera che il principe Andrea viene ricoverato nella lorocasa. È Astrid che nei propri confronti non ammettevagelosia, sostenendo il principio ben noto e femminilissi-mo che quando un uomo ama una donna deve farglipiacere tutto quel che la rende felice, mi aveva formal-mente vietato d’interessarmi di questa sua amica e sol-tanto di lei.

Certo un’amicizia assai stretta legava le due giovanidonne, così profondamente diverse. Giacché non era ilcaso d’illudersi sul significato di quella proibizione, conla quale Astrid, anche a voler supporre in lei un’ombradi gelosia, un po’ di ruzzo amicale e femminile, non mi-rava ad altro che a non guastarsi con la cara compagna ea conciliarla al suo amore. Impresa difficile, come vedre-mo. Piccolo dramma segreto, che io sfiorai direttamen-te, senza badare ad approfondirlo, e spiega molte coseche allora m’apparvero incomprensibili.

Al contrario della sua nobile amica la figlia maggioredel console era una comune borghesuccia aggressiva epungente. Rammento le arie di superiorità che si dava infamiglia, da brava ragazza appena maritata, per la qualeil matrimonio non era stato forse altro che un mezzo diemanciparsi dalla tutela domestica. Non bionda, mascura di capelli e di carnagione, com’ella sosteneva deb-ba essere il vero tipo della norvegese (allusione diretta epoco benevola ad Astrid, che infatti aveva sangue svede-se dal lato materno) la sua figura di falsa magra potevadirsi elegante; sebbene avesse, nonostante l’altezza,qualche cosa di troppo minuto e compresso che facevapensare ad una gemella. Un intenditore nostrano, affe-zionato ai diminutivi, l’avrebbe definita «un bel corpici-no», E un uomo un po’ più accorto di quel che io nonfossi si sarebbe senza dubbio orientato verso di lei, pergiunta maritata, situazione classica. Invece io, non sol-

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tanto avevo commesso l’errore di non notarla, ma, percolmo d’inopportunità, mi ero innamorato proprio dellasua amica più intima. Niente di più naturale che la spo-sina di una notte potesse vedermi come il fumo agli oc-chi, pur senza lasciarmelo trapelare in alcun modo, senon da qualche involontaria ironia, da qualche inespli-cabile tono di rimprovero, che le sfuggivano di tanto intanto; anzi facendomi il miglior viso del mondo, discor-rendo, passeggiando con me. E pressappoco alla stessamaniera, ipocritamente amichevole e irreprensibile, so-levano comportarsi nei miei riguardi la madre e la sorel-la di lei, che erano, per chi non l’avesse ancora capito,una famiglia di brutte.

Così il mio amore procedeva tempestoso, in mezzo adostilità d’ogni genere e, quel ch’è peggio, segrete ostilitàdi donne.

«Elles disent que vous me tuerez.» Quando la carafanciulla mi rivelò questo timore grottesco, probabil-mente simulato per spaventarla o insinuatosi in quelledeboli menti per il fatto di vedermi dimagrito come ungatto randagio, annerito dal sole come un beduino, ionon ebbi neppure la forza di sorridere, tanto ero ormaidivenuto insensibile e sordo a tutto ciò che non riguar-dasse la mia felicità più immediata. Ma quelle nordichedonne, e soprattutto, io credo, la più ambigua fra di es-se, l’amica prediletta, operavano indefessamente per in-durre Astrid ad allontanarsi da me; e le loro occulte op-posizioni se non riuscivano ad ottenere l’effettodesiderato, erano però sufficienti a tormentare la miaesistenza. Ogni giorno trovavo Astrid, senza un motivoplausibile in apparenza, eroicamente decisa ad abban-donarmi, a rientrare nell’ordine, salvo ad uscirne pocheore dopo. Disperata, sempre in lacrime, in guerra conme e col piccolo mondo che la circondava, chiese consi-glio, per lettera, a sua madre, non so poi a quale scopo.

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Il responso materno fu, com’era da prevedersi, negativo.Ah tutto mi veniva contro!

Tornando la sera dalle nostre passeggiate io leggevoqualche cosa di ostile perfino negli occhi degli abitantidel luogo, che son gente dura e cruda; e particolarmentedi quelli che stavano ad osservarci sulla soglia delle bot-teghe.

A metà luglio si respirava in quel paese, in quell’al-bergo, un’aria afosa e sinistra, resa più esasperante dallavista dell’indaffarato e apoplettico albergatore, che ir-rompeva glorioso in sala da pranzo tenendo alto sulledue mani il piatto delle sue trote fumanti, pescate da lui,come se portasse in tavola il ciborio, per mostrare poi,all’ora del conto, la sua vera faccia di autentico discen-dente di qualche stirpe di contrabbandieri o briganti delluogo. Il contegno di Angelina si faceva sempre più iste-rico. La cameriera guai a domandarle un servizio. Inquesto venale soggiorno, privo di ogni umana consola-zione, dove tutto adesso, a cominciare dalla cornice pit-toresca, mi appariva ordinato allo scopo di persuadereal suicidio, Astrid era un angelo cattivo, che lasciavapassare le giornate intere senza guardarmi e mi facevasoffrire per dei nonnulla pene indescrivibili. Pericolosaragazza, la cui naturale inclinazione a tormentarsi e atormentare non aveva certo bisogno di essere incorag-giata. Nordica fino ai capelli, piena di una preconcettasfiducia verso l’oggetto dei suoi sogni, sentiva l’amorecome una specie di boxe, una colluttazione, un castigo,una perpetua punizione da infliggere all’indegno. Il chenon le impediva di essere fondamentalmente una crea-tura tenerissima. E forse mai era tanto occupata adamarmi, a volermi bene, come quando mi negava tuttodi lei, perfino lo sguardo. Per tutte queste ragioni, pur-troppo, io avrei commesso qualunque pazzia pur di pro-lungare all’infinito quella sciagurata esistenza. Mi sareiarrampicato sui tetti, avrei fatto l’uomo mosca, per quei

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rari istanti di felicità che la volubile e lunatica Astrid miconcedeva.

Veniva spesso, dopo cena, sotto la nostra terrazza, unconcertino di mandolini, e lei, sempre amorosa aquell’ora, col capo appoggiato ad un’antenna della ten-da, mormorava guardandomi languidamente: «C’est ro-mantique!», Poi le ragazze uscivano a passeggio ed io leseguivo a distanza. La sera era calda e piena di fumi.Tornate all’albergo si trattenevano alquanto nella salada pranzo, gaiamente illuminata, a fare il chiasso, a suo-nare e ballare fra di loro. Presto si ritiravano e il solerteproprietario s’affrettava a spegnere i lumi. SoltantoAstrid rimaneva su, qualche volta, per lunghe ore, in sa-la o in terrazza, lontana da ogni compagnia, a ruminare isuoi sogni, le sue fantasie impossibili. Reduce dalle miepasseggiate solitarie, io tornavo, certe sere, verso la mez-zanotte, che magari aveva piovuto, con la faccia lavatadal vento. La trovavo ancora in piedi. Rimanevamo unpo’ a chiacchierare. Ella mi metteva un dito sul mento:«je ne vous ai jamais vu aussi beau que ce soir»,

E nel dir questo c’era nel suo sorriso la crudele sme-moratezza del cielo rasserenato.

L’assurda avventura durava da un pezzo ed io nonpensavo quasi più al brusco risveglio che stava, ahimè,per sorprendermi, allorché una mattina la moglie delconsole, spalmando al solito, in terrazza, il suo burro ela sua marmellata sui panini del caffè e latte, mi annun-ciò, come la cosa più naturale del mondo, che partivanotra una settimana. Partivano per un motivo sia pure ap-parente, lontanissimo da quello che ero abituato a teme-re. Non si trattava dell’arrivo dei passaporti, bensì d’unavvenimento inatteso e imprevedibile, che, sorgeva a untratto a scompigliare la mia esistenza. Un’ordinanza delmunicipio proibiva i bagni lungo la passeggiata. Oraproprio quello era il punto preferito delle ragazze, per ilsol fatto, forse, di essere inconsueto, e anche perché a

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due passi dall’albergo. Lì usavano tuffarsi ogni mattina,sotto gli occhi di tutti, le superbe nuotatrici, mettendoin mostra, con perfetta innocenza, le loro fiorenti nuditàsportive. L’ordinanza del municipio (pudori del dopo-guerra) colpiva proprio loro.

Fare il bagno nel vecchio porto abbandonato, comevoleva la consuetudine locale, sarebbe stato assai sco-modo, oltreché poco igienico. D’altro canto, non si po-teva pretendere che le ragazze rinunciassero a quellosport, che costituiva la loro grande occupazione quoti-diana, il loro diletto maggiore, la ragione precipua dellaloro permanenza su quella riva; dove il caldo, fra l’altro,cominciava ad essere insopportabile. Insomma, per unaquantità di motivi, il lago non aveva più attrattive ai loroocchi. A sentire la mia informatrice, nessuna di esse,nemmeno Astrid, ci stava di buona voglia. Il mare inve-ce le attirava. E appunto per questo avevano deciso ditrasferirsi in un paese della riviera ligure, molto vicinoalla frontiera francese, a Ospedaletti. «Connaissez-vousce pays?»,

Così pressappoco si esprimeva la melliflua signora,con abbondanza d’argomenti e impagabile bonomia, co-me se volesse scusarsi di quella tanto giustificata parten-za, la cui ragione vera e nascosta era naturalmente benaltra.

Corsi da Astrid. Ebbi conferma della fatale notizia,contro la quale non c’era nulla da obbiettare; giacché lalibertà di Astrid non poteva influire su quella delle sueamiche, smaniose di misurarsi, dopo tanto sguazzarenell’acqua dolce coi cavalloni marini. E alla nostra sepa-razione si doveva pur giungere, per quanto allora mi ap-parisse incredibile, se non fra una settimana, fra due.

Di ciò che avvenne da quel momento non ho che unamemoria confusa. Mi sembra che cominciai a contare igiorni che mi separavano dalla sua partenza come se sitrattasse della mia morte. Io me la figuravo già partita.

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Un minuto dopo ella non era più che un ricordo: il tri-ste, incenerito ricordo che l’amore lascia dovunque pas-sa e ci sorprende ogni volta che una persona amata si as-senta, sia pure per poche ore, dai luoghi in cui siamoabituati a incontrarla. Quale tremendo silenzio suben-trava in quel tetro albergo, dove io rimanevo solo, coidue melanconici inglesi, circondato da fantasmi e da so-pravvissuti, sempre con la sua larva davanti a me. Comesostenere le ore che più vivamente me l’avrebbero evo-cata, le gaie ore della colazione, della cena e degli spassiserali divenute ormai così funebri? Non avrei potutogettare gli occhi su quella finestra, guardate quel tavolo,ripassare per quella strada, senza che le molte cose acca-dute fra me e lei si mutassero in altrettante sensazioni dimorte e l’immagine sua in uno spettro fluttuante.L’avrei vista anche sui monti e sulle acque. Tutto il pae-se sarebbe stato posseduto e stregato dalla sua assenza.Questo era ciò che di lei sarebbe rimasto, il retaggioespiatorio di poche settimane d’amore.

Inorridito, è la parola, da una visione così lugubre, ionon dormivo più, non pensavo più ad altro, e ogni sera,chiuso nella mia stanza, cercavo di esprimere alla par-tente i miei lugubri sentimenti, con certe lettere, scrittein francese, che la tenera Astrid non leggeva mai senzapiangere.

«Vous me faites pleurer.«Allorché, di li a poco, tutto finì fra noi, il dispiacere

più grosso che le diedi fu di pretendere la restituzione diquelle barbare lettere che m’affrettai a bruciare. Avreb-be voluto tenersele come un ricordo, se non addiritturaun trofeo, del suo viaggio in Italia. Ma era in gioco lamia reputazione letteraria e non potevo transigere.

Venne finalmente il giorno del distacco. E qui devoriconoscere che mai si cercò di concludere con tanta ci-viltà e buona grazia una storia così fastidiosa, dalle per-sone stesse che la giudicavano tale. Rendo volentieri

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omaggio alla correttezza di quella gente che, rispettosadelle convenienze, abituata a non lasciar conti aperti,neppure nel campo delle passioni, mi risparmiò almenoquel che poteva esservi di umiliante in una tale separa-zione.

Era stabilito che la loro partenza avvenisse di mattina,all’alba. La sera avanti, per la prima volta, mi vidi am-messo alla tavola delle ragazze. Cenai a fianco di Astrid,in mezzo a un nugolo di donne che mi colmavano di ca-rezze, specie la moglie del console e le sue due figlie,non so se per un estremo riguardo all’amica o considera-zione di me e del mio stato oppure, molto più semplice-mente, per il piacere di essersela cavata a buon prezzo,senza spargimento di sangue. Forse per tutte queste co-se insieme. Una separazione è sempre un fatto commo-vente, in cui si mescolano sentimenti vari e opposti, ed èprobabile che le mie graziose nemiche, dopo aver tantobrigato per liberarsi della mia presenza, adesso che si ve-devano soddisfatte, provassero un certo rimorso di aver-mi giudicato così male e desiderassero lasciarmi un nontroppo cattivo ricordo. La funebre cena di commiatopareva una cerimonia di fidanzamento. A un certo pun-to Astrid, orgogliosa e lieta degli onori che mi si rende-vano, volle anche laurearmi, ponendomi sul capo, inmancanza di alloro o di quercia, una ghirlandetta di er-be rampicanti. Ed io fui l’eroe del sentimentale convito:un eroe confuso e mortalmente triste, malgrado i fumidello spumante che mi salivano alla testa.

Tutto mi sarebbe stato concesso quella sera, né più némeno che s’io fossi un malato senza speranza o un con-dannato a morte. Sparecchiata la mensa e alzatasi da ta-vola perfino la ghiotta mammina, le altre ragazze, condelicata attenzione, se ne andarono a passeggio per con-to proprio. Io e Astrid, lasciati soli, ci avviammo, che giàcominciava a imbrunire, verso il piccolo porto solitario,dove non so come, perdutamente avvinghiati sopra un

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ponticello di legno senza riparo e largo appena quantoera necessario per reggersi in equilibrio, non finimmo acadere nell’acqua. Così, nel pensiero di Astrid e di tutti,la nostra avventura poteva dirsi chiusa, anzi coronatadegnamente, secondo una tecnica amorosa che io speri-mentavo, a dire il vero, per la prima volta; e con questoreciproco riconoscimento, con la promessa, dal cantomio, di non mostrarmi all’atto della partenza, io e lei,entrambi un po’ ebbri, ci eravamo detto addio, addiolungamente. E certo avrei fatto bene a tener fede allamia promessa, perché, dopo tutto, principalmente permerito della valorosa fanciulla che bevve con me il vinodell’addio fino all’ultimo sorso, il nostro amore non po-teva avere un epilogo più commovente. Pensate che iovidi la gloriosa fanciulla barcollare lievissimamentementre si avviava al gabinetto. Ah perché non mi limitaia conservare di lei quell’eroico ricordo!

Senonché, la mattina dopo, il terrore che ho cercatodi descrivere fu più forte della parola data e di ogni altrosentimento. Non solo volli assistere alla partenza diAstrid, ma saltai sulla corriera che la conduceva a Co-mo; e a Como saltai sul diretto di Milano. Poco mi im-portava adesso di quel che gli altri potessero pensare dime. Non era più il caso di curarsi delle amiche di Astrid,le quali, del resto, non parvero soverchiamente meravi-gliate che io le accompagnassi per un certo tratto. Il miobene mi lasciava e non ero più in condizione di ragiona-re. Quei due ultimi passi strappati alla sorte furono tuttoun delirio.

L’ora del distacco suonò purtroppo a Milano, quan-do le solerti viaggiatrici, sostato che ebbero per un paiod’ore nei pressi della stazione, si rimisero di nuovo incammino verso la loro meta. Soltanto allora trovai final-mente la forza, che avrebbe sradicato una quercia e nonriuscì a far sgorgare una lacrima dai miei occhi, di stac-carmi dall’amata, ma per tornare indietro a prendere le

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valigie, non per altro. E non certo solo (come l’avrei po-tuto?) bensì in compagnia di due amici, due dei più fa-mosi ironisti della nostra letteratura, coi quali vegliai,nella camera di Astrid, come attorno a un cadavere, tut-ta una notte straordinaria, facendo discorsi da mentecat-to, uscendo di tanto in tanto su un terrazzino annesso al-la stanza per guardare le stelle che io mi figuravo elladovesse contemplare ogni sera, da quel medesimo luo-go; e cercando invano dovunque, nei più segreti riposti-gli, qualche reliquia del suo passaggio. Non trovai cheuna spilla, che raccolsi con religione.

Tre giorni dopo ero a San Remo, a poco più d’un chi-lometro da Ospedaletti, e per tutto il viaggio, in quelgran mare dell’estate, affacciato al finestrino, non avevofatto che ricalcare con la fantasia le sue orme e dirmi adogni momento: questo lo ha visto anche lei, di qui è pas-sata lei.

Stranezze dell’amore! Nel tempo stesso ch’ero in viadi raggiungerla pensavo a lei e l’avrei pianta come se fos-se morta. In realtà io avevo sofferto la sua partenza co-me si soffre e si sconta in anticipo il trapasso di una per-sona cara. Con quello strappo dolorosissimo,quell’inopinato esulare da un paese all’altro, qualcheco-sa era veramente finito. Mai più avrei potuto risuscitarealtrove l’illusione vissuta in quel piccolo albergo. Comenon capire che il mio amore, simile a una gran febbre, auna malattia di stagione, si sarebbe dileguato assai pre-sto in circostanze diverse da quelle che l’avevano vistosorgere e in cui s’era svolto? Ma la vita è assai più riccadi sorprese che non noi di saggezza. Correrle dietro, di-sertare quel luogo così pieno di lei, di cui avevo bevutoil filtro, per così dire, era per me la sola maniera di allon-tanarmi da Astrid, di fuggirla, benché naturalmente, se-guendola, io non pensassi che a commettere la mia ulti-ma follia.

Un paese m’incantò, un altro mi tolse l’incanto. Due

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settimane dopo che ero in Riviera la mia caldana siquietò.

È inutile aggiungere che il coraggio di troncare quellaconsuetudine amorosa, ormai spaesata e agonizzante,non potevo averlo che io. L’adorabile Astrid avrebbecontinuato a farmi soffrire senza fine. La vedo ancoraspiare i miei passi, mentre mi allontanavo per sempre, inseguito ad una delle sue più esasperanti crisi di coscien-za, stando un po’ nascosta, col fazzoletto agli occhi, frale persiane socchiuse della sua finestra di Ospedaletti.Questo è l’ultimo ricordo che serbo di lei.

Ecco dunque in che modo si perse, sfumò in viaggio,come in viaggio era nata, la mia indimenticabile avven-tura con la scandinava. Ma non bisogna credere che aquesta conclusione si potesse pervenire per solo effettod’un mutamento d’ambiente. Occorreva pure la mia vo-lontà e infine un terzo elemento, quasi immancabile inqueste congiunture e facile a immaginarsi. A San Remola stagione balneare, per quanto limitata alle famigliedella città e a una piccola colonia di villeggianti, in mas-sima parte piemontesi, era al culmine. Io passavo le miegiornate, ogni volta che Astrid non mi permetteva di an-dare a Ospedaletti, fra la rotonda e il «Petit Casino»,dove si ballava dalla mattina alla sera. I primi giorni lospettacolo, per me nuovissimo, dei due sessi che contanta leggerezza si mescolavano al suono di quelle musi-che americane, mi era motivo d’infinita malinconia. Ve-devo in ogni fanciulla Astrid e mi doleva di tutte. Mapoi mi ci abituai e finii per trovarci il mio divertimentoanch’io. E fu così che una ragazzina dagli occhi verdi miaiutò non poco a liberarmi da quelli di Astrid, che eranosoltanto turchini. Chiodo scaccia chiodo, dice il prover-bio. Sebbene certi rimedi non facciano che sprofondarcisempre più in quell’inferno da cui è impossibile ascen-dere alla beatitudine, che si trova descritto nell’Etica diSpinoza: capitolo «affezioni»,

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