Il Sogno di Trappola

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I iL SOGNO DI TRAPPOLA PADPADREVOLUTION EL MASTABA ARCI TOSCANA FONDAZIONE IL CUORE SI SCIOGLIE UNICOOP FIRENZE

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Reportage corale da Trappola, minuscola frazione montana del comune di Loro Ciuffenna, nell'aretino.

Transcript of Il Sogno di Trappola

I

iL SOGNO DI TRAPPOLA

PADPADREVOLUTION EL MASTABA ARCI TOSCANA FONDAZIONE IL CUORE SI SCIOGLIE UNICOOP FIRENZE

FOTO COPERTINA DI SALVATORE LUCENTE

III

il racconto corale di un borgo che nel tempo si E’ spopola-to ma conserva la memoria dell’acqua.

tra boschi e storie di lotta, carbone e re-sistenza. le ultime solitudini, le fughe. i ritorni. e lo sguar-do di un gruppo di viandanti, narratori.

PROGETTO DI ANTONIO CIPRIANI REALIZZATO A TRAPPOLA DA PADPADREVOLUTION E EL MASTABA SU PROPOSTA DI ARCI TOSCANA E FONDAZIONE IL CUORE SI SCIO-GLIE UNICOOP FIRENZE

INDICEQui le curve girano

Dietro l’uscio

Fiori

Acquedotto

Acqua comune

Ultimi giovani

Il senso della comunità

Quando c’era la bottega

Il paesino dei 4 rioni

La pietra serena

Fessure di mondo

Pugno di case

Soria di mestieri e guerra

La fiducia e il Pepe condiviso

Dalla lana allo yen

Storie partigiane

L’isola sul monte

Spirito identitario

Merende di qui

Il marinaio poeta

Il volo di Bert

cosa è per noi Trappola

Giornalismo dal basso

Il primo passo

Credits

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Autori

Pancrazio ANFUSOChiara BALSAMO

Gianfranco BELGRANO Giulia BIAGETTI

Antonio CIPRIANI Giulia CIPRIANI

Daniele CIURCINAVito COGONI

Francesco GIANNONI Maria GIORGI

Salah IBRAHIMSalvatore LUCENTE

Francesca MATEROZZIValentina MONTISCI

qui le curve girano

qui le curve girano TESTO

DI SALVATORE LUCENTE

FOTO DI ANTONIO CIPRIANI

DA LORO CIUFFENNA I TORNANTI SALGONO

FINO A TRAPPOLA.GIRANO, COME SEMBRA

FARE IL TEMPO, RIAVVOLGENDOSI

ALLA MANIERA DI QUEI VECCHI

NASTRI PER ASCOLTARE LA MUSICA

A salire i tornanti acuti che da Loro Ciuffena portano su, fino al Pratomagno, la prima cosa che viene in mente è un detto di queste parti: “qui le curve gi-

rano”, a significare gli stretti passaggi attorno a cui la strada si avvolge nel suo cammino verso la montagna. Girano, come sembra fare il tem-po, riavvolgendosi alla maniera di quei vecchi nastri per ascoltare la musica, lungo un paesag-gio che gradualmente cambia, si fa meno dolce, mentre ai bordi della strada cominciano ad ap-parire sempre più numerosi gli abeti, i castagni, le case e i muri in pietra. L’aria si fa più chiara, il cammino ombroso, rinfrescato dagli alberi e dall’acqua che scorre abbondante, e mentre la valle dell’Arno è ancora avvolta nella nebbia, su a Trappola già splende il sole. Punto di sosta ideale, La Trappola, come la chia-mano in zona, nome che forse vuol dire borgo, forse fortificazione, appesa a un lembo di costa a 851 metri sul livello del mare, tra i tornanti e il bosco, si mostra come un raro presidio di quel senso di comunità che molti inseguono. Lasciata l’auto ai bordi della strada, ad accoglie-re il viandante c’è subito una locanda, con a lato un ostello. Appoggiata alla porta affianco, una lastra di pietra incisa con quella che sembra la

raffigurazione di un battesimo in Terra Santa, con tanto di palme e deserto, ed un’ancora mo-numentale. Ricordi di un uomo che decenni fa lasciò il monte per farsi marinaio e solcare le acque del Mediterraneo, prima di tornare a casa, come tutti fanno. Primo segno di un luogo pieno di aneddoti e piccole storie di vita che qui trovano la loro patria. Un reticolo di stradine ai due lati del piccolo spiazzo di fronte alla lo-canda, si divide le direzioni da percorrere. Una scende verso la terrazza che dà sull’ampio pa-norama della valle, prima di dividersi ancora tra scalinate che portano ancora più giù e vie che tagliano di lungo il paese, l’altra s’inerpica verso la chiesa e il suo campanile, e tutt’intor-no si assiepano case a uno e due piani, solide, rigorosamente in pietra, dal sapore semplice e antico. Tra le viuzze e i passaggi, i cortiletti delle abitazioni e le tante panchine disseminate lungo la via principale per dare a tutti un po-sto dove sedersi a chiacchierare quando d’estate tornano i figli ormai grandi e i nipoti, il silenzio regna sovrano. Mentre nei vicoli qualcuno de-gli abitanti si occupa di tenere pulita la strada, sistemare il legname, rassettare la casa prima dell’arrivo dell’inverno. Si resta stupefatti da tanta tranquillità: l’impressione è di un luogo di pace, di quelli dove si salva il mondo.

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Chi resta qui, lo fa soprattutto per le radici, per-chè ci è nato, e dopo l’ondata di emigrazione degli anni ‘60, è tornato a riprendere la casa dei padri. Come in tutte le frazioni d’intorno, non ci sono neanche più le scuole, d’altronde l’ulti-mo bambino qui è nato trent’anni fa. È ormai un paese di persone anziane, dove si vive in un’al-tra dimensione, lontani dallo stress, immersi nel verde. Dei venti abitanti che qui risiedono tutto l’anno, è facile incontrare Roberto, che ci vive sempre, anche quando la neve è alta e lui resta praticamente da solo. Se il paese più che una trappola è uno scrigno, è lui a possederne le chiavi, ed al sicuro dietro le sue sapienti parole si apre un po’ alla volta, mostrando aspetti che l’occhio da solo non potrebbe vedere, ripopo-landosi dei personaggi che lo hanno attraver-sato. Ma quale legame con la modernità è più forte del ricordo di ciò che è stato? Siamo pur sempre in Toscana, terra ricca di storia, ma qui a farsi presente è un passato prossimo, con tutti i suoi segni ben visibili ad ogni angolo del paese. Luogo che fu di preti e partigiani, e ne porta i segni tangibili, terra fie-ramente abituata al lavoro delle mani, terra di lupi. Anche Trappola ha pagato il suo prezzo alla Liberazione, quando in un rastrellamen-to sette ragazzi e due soldati furono uccisi qui,

come ricorda una lapide davanti alla chiesa, e i tedeschi furono aiutati dai fascisti. In quel sanguinoso ‘43 il paese si salvò dall’ec-cidio e dal rogo, dicono, per l’intervento di una giovane signora che grazie alla sua conoscen-za del tedesco aveva capito che c’era l’ordine di bruciare il paese, avvertendo donne e bambini di rifugiarsi nel bosco. Riuscendo poi ad impe-dire che fosse dato fuoco all’abitato. Poi la guer-ra finì e, come ricordano da queste parti, c’era la miseria, “nera, poi marrone, poi marronci-na” ma sempre miseria, e nonostante tutto una grande solidarietà: “nessuno qui è mai rimasto senza mangiare”. Si coltivava la terra per vivere, c’erano pascoli di passo per la transumanza, e dal bosco si prendeva tutto il resto. Solidarietà e cooperazione, cemento essenziale di una comunità dove si conoscono tutti, oggi che il paese si sta svuotando, come cinquant’an-ni fa, quando c’erano più di ottocento perso-ne. È questo il destino dei centri montani? La memoria la loro funzione? Eppure, in contesti così difficili, mantengono una presenza umana essenziale anche per proteggere le risorse natu-rali. ¶

dietro l’usci0

DOVE RIPOSA LA STORIAIN UNA GIORNATA AUTUNNALE CALDA E SOLARE UN GRUPPO DI PERSONE, GIOVANI E MENO GIOVANI, SI INCONTRANO A TRAPPOLA. VECCHI AMICI E VOL-TI NUOVI ARRIVANO A POCO A POCO AL PUNTO DI RITROVO, CHE È ANCHE L’UNICO BAR CHE TRAPPO-LA HA. LA “MISSIONE” È CONOSCERE E RACCONTARE IL BORGO.

TESTO DI SALAH IBRAHIMFOTO DI SALVATORE LUCENTE

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Come un vecchio capitano, appoggiato al timone con il cannoc-chiale nella mano sinistra, una penna sull’orecchio, e un bocca-le di birra artigianale nella mano destra, che guardandosi intor-no, con certa soddisfazione, ha lanciato la sirena annunciando la partenza del consumato vascello. E subito movimento, corsa,

ordini, contro ordini, abili marinai, avventurieri amanti delle scoperte.Così, ancora un altro viaggio, Isola dopo Isola navigando verso i tesori na-scosti, un’altra Isola lontana dalle vie conosciute, un grido “ Terra … Terra”… là … s’intravede un punto, in mezzo al verde fitto; a poco a poco si avvicina a Trappola.Una giornata autunnale calda e solare, si raduna nell’unico ingresso, che è anche uscita, della Trappola. Un arrivo timido, chi con un grande sorriso, chi con passo sicuro e consapevole, o ancora chi con il passo leggero, incredulo, ma tutti con occhio spalancato e curioso.

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È bastato poco per far nascere il gruppo, vecchi amici as-sieme a volti nuovi, uomini e donne, giovanissime ragazze affianco a dei giovani ragazzi un forte scambio di sorrisi e energie.Penne, taccuini, camere fotografiche, cineprese con vari obiettivi, occhi e orecchi e via… Tra le case in ordine sparso, nelle viuzze a serpentine qui e là, una salita e subito una dolce discesa, dietro quelle porte chiuse e silenziose, ma anche dietro a quelle accostate con le chiavi attaccate nelle serrature. Dietro quegli usci dove ri-posa la storia, anzi la Storia di un piccolo villaggio che ha sfidato ieri il vecchio nemico invasore, pagando, con un alto prezzo di vite umane, la difesa della sua terra come un bene prezioso, ha lottato per la sopravvivenza contro la fame e la povertà e contro l’emarginazione come tanti altri villaggi in lungo e largo nella penisola.

Oggi quel villaggio combatte un’altra battaglia contro un nuovo nemico per salvaguardare l’acqua come un bene co-mune autogestendo l’acquedotto, abbattendo il costo impo-sto dai gestori pubblici e privati, fissando un prezzo di 30 centesimi al metro cubo, meno del costo di un bicchiere di acqua consumata al bar del villaggio stesso. “In questa casa bassa alla tua destra con quelle finestre verdi vive il nipote di Giacinto, il più giovane partigiano caduto nel ‘44, è il quarto nome scritto slla nostra targa commemo-rativa davanti alla nostra chiesa lassù in cima”, me l’ha sus-surrato lentamente il vecchio uomo con bassa voce affaticata per la sua età, anche per la stanchezza dopo la scampagnata mattiniera per la raccolta delle castagne. Dopo soli due passi ha già raggiunto il punto di partenza, e là si accomoda su una delle sedie sparse davanti all’unico bar ristorante di Trappola, da dove si può controllare il piccolo parcheggio. E là nel parcheggio una Punto grigia metallizzata, tre donne vestite di tutto punto per affrontare una passeggiata nel bo-sco che prendono i cestini di vimini con la manualità dell’a-bitudine e via in missione castagne per la sagra in occasione della festa dei Santi e la chiusura della Trappola. Passeranno tanti mesi prima che i cittadini di Trappola ritornino dalla loro trasferta forzata altrove, per il lavoro e le scuole e du-rante tutti questi mesi, in attesa del ritorno dell’estate, il gran sogno di Trappola rimarrà nelle loro teste. Così il tempo è passato velocemente e, di nuovo la sirena tor-na a suonare. E’ il segno che dobbiamo tornare, e il pensiero va a un altro viaggio verso un’altra Isola. ¶

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Fiori

FOTO DI ANTONIO CIPRIANI

NEI SILENZI DELLA TRAPPOLA LA NATURA SI PRENDE LA SUA RIVINCITA.COL SUO GUIZZO ANARCHICO

RACCONTA LA SUA STORIACOLORA LA PIETRA, LA DECORA, LASCIA IL SEGNO

VISIBILE DEL PASSAREDELLE STAGIONI. UN MIRACOLO DI PERFEZIONE.

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LA PERFEZIONE ASSOLUTA DI UN ALBERO SULLO SFONDO

CHE SI STAGLIA CONTRO IL CIELO.I COLORI DELL’AUTUNNO LEVI-

GANO IL PAESAGGIO , RENDONO ATTONITI I VIANDANTI

CHE LO ATTRAVERSANO IN CER-CA DI UNA STORIA, DI PASSI CHE

RISUONANO, DI PIETRA CHE OSPI-TA LA NATURA CHE RICONQUI-

STA I SUOI SPAZI. I FIORI SULLA PIETRA SONO IL SEGNO DI UNA MEMORIA SOLIDA. DI UNA CO-

MUNITA’ CHE NON SI E’ ARRESA .

THE ANSWER, MY FRIEND, IS BLOWIN’ IN THE WIND

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THE ANSWER, MY FRIEND, IS BLOWIN’ IN THE WIND

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ACQUEDOTTOQUANDO NEL 1958 DON DARIO DRAGONI DIEDE INIZIO AI LAVORI PER COSTRUIRE L’ACQUE-DOTTO DI TRAPPOLA, FORSE NON PENSAVA DI COMPIERE UN ATTO RIVOLUZIONARIO. C’ERA SOLO LA NECESSITÀ DI PORTARE L’ACQUA IN CASA ALLE QUASI DUECENTO FAMIGLIE . CI SONO VOLUTE 3000 GIORNATE DI LAVORO VOLONTARIO, MA DOPO 1 ANNO E MEZZO TUT-TI HANNO AVUTO L’ACQUA IN CASA.

TESTO DI SALVATORE LUCENTE FOTO DI GIULIA CIPRIANI

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N el 1958, quando don Dario Dragoni diede inizio ai lavo-ri per costruire l’acquedotto di Trappola, forse non pensava di compiere un atto rivoluziona-

rio. C’era la necessità di portare l’acqua in casa alle quasi duecento famiglie che componevano la comunità, e dare un impulso alla già di per se difficile agricoltura di montagna. Grazie all’in-tervento del parroco, gli abitanti di questa pic-cola frazione di Loro Ciuffenna, alle pendici del Pratomagno, riuscirono ad ottenere l’uso della sorgente dal Barone Ricasoli che ne era proprie-tario, a raccogliere i fondi necessari all’opera e con il lavoro di almeno un componente per ogni famiglia, a costruire un acquedotto a ge-stione comunitaria. Ci sono volute 3000 gior-nate di lavoro volontario, ma dopo 1 anno e mezzo tutti hanno avuto l’acqua in casa. È nato così, senza troppi fronzoli o implicazioni ideo-logiche, quello che ad oggi costituisce un vero e proprio modello alternativo di sviluppo e di co-

munità, rivoluzionario per i tempi, ma ottimo esempio ancora oggi. Negli anni ‘60 il paese si è spopolato, ma l’ac-quedotto continua a essere gestito in maniera condivisa, anche dopo che la sorgente è passa-ta sotto il controllo della Provincia: ottenuta la concessione, gli abitanti gestiscono la risorsa tramite una Comunione di Godimento (una Onlus dal punto di vista giuridico, con un pre-sidente, Roberto Bartolini, ed un segretario, Sergio Baroni) composta da circa 200 soci, tutti alla pari, per un totale di 250 contatori. Ognu-no versa una quota di 50 euro annui, a cui si aggiunge un pagamento di 30 centesimi al me-tro cubo durante i mesi estivi in cui c’è più con-sumo, per un totale in media di circa 65 euro. Le quote consentono di coprire la concessione della sorgente alla Provincia (circa 1000 euro l’anno) e la manutenzione (circa 15mila euro l’anno), che si basa comunque prevalentemente sull’impegno volontario dei soci. Così regolato, oggi l’acquedotto serve 3 comunità: oltre Trap-

IN ITALIA LE SORGENTI MONTANE VANNO A RIFORNIRE GRANDI ACQUEDOTTI, O SONO AFFIDATE IN SFRUTTAMENTO A FINI COMMERCIALI A GRANDI MARCHI. TRASFORMANDO L’ACQUA IN BENE PRIVATO CHE VA SUL MERCATO

pola, ci sono le frazioni di Casale e La Casa. È stato di recente consolidato con nuove costru-zioni, sono state fatte ricerche nel sottosuolo per trovare nuove fonti di approvvigionamento, ed è stato ampliato il deposito. Di acqua, ades-so, ce n’è in abbondanza, al punto che potrebbe servire anche la vicina Loro Ciuffenna, dove però non arriva per oggettive difficoltà di col-legamento alla rete esistente. E nelle vicinanze sono presenti altre due realtà simili, anche se con statuti differenti, nelle comunità di Trevane e La Villa. Un modello di gestione partecipata, quello di Trappola, che precede di oltre cinquant’anni le lotte per l’acqua in Italia, dove l’onere è preso in-teramente a carico dalla comunità, che lo sud-divide tra i propri componenti e lo riduce all’os-so, per assicurare a tutti il pieno godimento di quel “diritto umano” che è l’accesso alla risorsa idrica. Un modello da imitare, che andrebbe a risol-vere problematiche presenti in molte comunità

montane e non solo, che parte dal principio di gratuità del bene e lo declina secondo quello del coinvolgimento della comunità. Ma in Italia normalmente le sorgenti montane vanno a rifornire grandi acquedotti, o peggio si preferisce dichiarare le fonti “minerali”, affidan-dole in sfruttamento a fini commerciali a gran-di marchi che banchettano con i lauti profitti dell’imbottigliamento. Trasformando l’acqua da bene comune a bene privato che va sul mercato. In ogni caso, la gestione della risorsa idrica è affidata a società (poco importa se pubbliche o miste o private) che seguono logiche di impre-sa continuando, tolti pochi casi, a fare profitto sull’acqua. Ovvero, monetizzano un bene funzionale al-l´esercizio di un diritto fondamentale che do-vrebbe essere invece tutelato e sottratto alla logica distruttiva del breve periodo. Sono le conseguenze estreme del modello neoliberista, che portano alla necessità di mettere a valoriz-zazione finanziaria l’intera vita delle persone,

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consegnando ai capitali finanziari la natura, i beni comuni e i servizi pubblici locali. È il pen-siero unico del mercato, che esclude, per inte-resse, ogni altra alternativa possibile.Un esempio come l’acquedotto di Trappola, anche se avvantaggiato dalle ridotte dimen-sioni, ci insegna due cose. Innanzitutto riporta nell’attualità tutta la discussione nata intorno ai quesiti referendari del 2011, e mostra nella pratica come, escludendo del tutto una gestione aziendale, si possa far funzionare il servizio ad altissimi livelli, coinvolgendo direttamente la comunità che beneficia della risorsa in questio-ne, ben oltre la tradizionale gestione pubblica dei beni comuni. Insomma, conferma che la via della gestione comunitaria dei beni comuni non è utopistica, anzi è già presente sul territorio. E ancora, rispondendo alla domanda “di chi è l’acqua? Appartiene a tutti, e quindi è di nessu-no?”, insegna che i beni comuni, come si dice da anni nel nostro paese, sono “a titolarità diffu-sa”, nel senso che tutti devono potervi accedere

e nessuno può vantare pretese esclusive. Fuo-ri dal mercato, sono uno strumento essenziale perché i diritti di cittadinanza possano essere effettivamente esercitati: tutto ruota intorno alla loro funzione, e la loro amministrazione deve coinvolgere i soggetti interessati. Una pro-spettiva che tra l’altro è già presente nella nostra Costituzione, quando all’art. 43 prevede la pos-sibilità di affidare a “comunità di lavoratori o di utenti” la gestione di servizi essenziali. Una comunione di godimento come questa comprende appieno tutti i fattori sopra elencati, distinguendosi proprio nello scopo che la con-traddistingue, ossia di consentire il godimento e la conservazione del bene. Il sogno di Trap-pola può essere una realtà per il nostro paese. ¶

acquacomuneROBERTO BARTOLINI

LA MEMORIA STORICA DEL BORGO, TESTIMONE DELLE BATTAGLIE DELL’ACQUA E DEL SENSO DELLA COMUNITÀ DEI TRAPPOLINI. CONOSCITORE DEL BOSCO E RESTAURATORE DI POR-TONI DI CHIESE RACCONTA L’EPOPEA DELL’ACQUE-DOTTO. E DI UN MONDO CHE RISCHIA DI SCOMPA-RIRE. “VOGLIONO FARE DI TRAPPOLA UN VILLAGGIO TURISTICO, NON VA BENE, NON E’ PER QUESTO CHE CI SIAMO BATTUTI E CI BATTIAMO”.IN COMPAGNIA DI LUNA GUIDA IL NOSTRO GRUPPO DI VIANDANTI NARRATORI NEI SEGRETI DEL LUOGO MAGICO.

FOTO DI ANTONIO CIPRIANI

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Roberto era andato via ma poi ha deciso di tornare a Trappola È uno dei pochi che ha deciso di farlo. Ora sta qua. Si occupa in prima persona dell’acquedotto. Ci può raccontare il perché di questa scelta?Sono tornato perché qui ho le radici. Qui ci sono nato, ci sono

cresciuto. Negli anni ’60 sono dovuto andare via, c’è stato un grande spopo-lamento delle montagne, non c’era lavoro, non si poteva vivere. Siamo dovuti emigrare, ma il cuore era qui. Intorno al Mille questo paesino esisteva, forse come una fortificazione, ci sono ancora le tracce, il borgo nel 1300 se lo con-tendevano un po’ tutti i paesi limitrofi.Io sono nato nel ‘45 ho dei ricordi abbastanza recenti, qui sappiamo che c’è stata la lotta partigiana. I partigiani si nascondevano nella montagna. qui arrivavano i tedeschi a fare i rastrellamenti. Durante uno di questi vennero presi sette ragazzi e furono fucilati, il più piccolo aveva 16 anni. E le voci che

parlavano con questi ragazzi erano italiane, non solo tedesche.

Nel ‘57-58 viene costruito l’acquedottoQui l’acqua è sempre stata un problema molto se-rio. Mi ricordo che nel 1914 abbiamo fatto un pri-mo acquedotto. Una cosa che nessun paese aveva, fu un lavoro molto bello. Presero una sorgente non lontana del paese, c’era un deposito per la ri-partizione delle case sottostanti e ancora un altro deposito per il deposito di Casale. Era una sorgente che portava poca acqua. Ma an-che le esigenze erano poche, serviva per bere, per cucinare, i bagni non esistevano e anche lavarsi non era una priorità. Questo fino agli anni ‘60. Poi ci fu il dopoguerra, negli anni ’50 le case comin-ciavano a essere affittate e mi ricordo delle scene con l’acqua che veniva chiusa la sera. Mancava qualcuno che coordinasse. Arrivò un pretino, ma giovane giovane, gli diedero questa parrocchia. Don Dario Dragoni capì immediatamente l’esi-genza e coordinò queste persone cominciando in qualche modo a coinvolgere la prefettura e l’ispet-torato forestale riuscendo a farsi dare un po’ di soldi. Riuscì a fare il progetto. All’inizio ci fu dato un operaio che si fermò a Trappola per un po’ di tempo ma piano piano le persone parteciparono alla costruzione dell’acquedotto in maniera natu-rale, scavavano, portavano secchi, materiali e non c’era neppure la strada, sicché somari, muli, per-sone anziane, ragazzini. Tutti. Non c’erano nep-pure mezzi meccanici, qua era tutta roccia quindi si andava avanti con esplosivi. I lavori sono durati un paio d’anni. Nello statuto c’è scritto che non c’è nessun utente. Solo soci. Noi siamo tutti soci alla pari. Anche se uno si fa una casa ora paga una quota limitata ai diritti di allacciamento e poi è socio come tutti gli altri.

Chi si occupa della pulizia del borgo?Per quanto riguarda la pulizia del paese ognu-no si occupa di pulire davanti a casa sua, anche qualche pezzettino in più. L’azienda che si occupa della nettezza urbana scarica i cassonetti e basta. Per il resto è la gente che la sente sua e la cura. Ma nessuno reclama per questa cosa, l’ha fatto sempre.

La canonica?Per la chiesa è identico, la canonica è stata restau-rata piano piano. Ora la si dà quando arrivano gruppi di persone di scout, di classi scolastiche. Si fanno pagare dieci euro e via. Piano piano si

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accumulano i soldi e se c’è bisogno di riparare il tetto si prende un operaio e lo si paga. Altrimenti volontariato. Per esempio il portone della chie-sa quello grande stava cascando a pezzi. Allora io, mio fratello, un altro signore ci siamo messi e l’abbiamo sistemato. Ci abbiamo impiegato un anno. Lo abbiamo preso, messo dentro una stan-za e ci siamo messi ogni giorno, o quasi, a lavo-rarci fino a quando è diventato più bello di prima.

Facciamo un altro piccolo salto temporale. ‘58 acquedotto, 4- 5 anni dopo la gente della Trap-pola ha cominciato ad andar via. Così il borgo si è ritrovato a passare da 500 abitanti a quanti?

Ma diciamo che ‘58, ‘59 hanno cominciato ad an-dar via… prima siamo rimasti in 50, poi in 40, poi in 20. Lo spopolamento cominciò quando ci fu il crack del barone Ricasoli. Fu un problema che riguardò tutto il Chianti perché lui era pro-prietario di tutto il Chianti. Quella zona fu presa da alcune multinazionali. Quassù il terreno era meno appetibile così fu preso dal demanio, dallo Stato. E ci fu un periodo di transizione prima che lo Stato investisse di nuovo in questi luoghi e ri-cominciasse a dare lavoro. Comunque nel perio-do di transizione, nei 4-5 anni che ci sono stati tra una proprietà e l’altra, qua si sopravviveva e basta, quindi le persone andavano via.

C’è una speranza di ripopolare questo posto? Se ci fossero giovani disponibili. È un bel posto, se si sviluppasse un turismo sostenibile di perso-ne che amano davvero la natura si potrebbe fare. La gente deve conoscere le cose perché se non le conosce non le può apprezzare. Io mi sto batten-do per far fare un censimento di tutte le piante considerate storiche. Ma spesso i dipendenti delle comunità montane non sanno nulla, forse sono diventati dipendenti ma non amano la natura. Non sanno che abbiamo delle faggete bellissi-me, dei castagneti secolari. Io sono convinto che come apprezzo io il bosco ci sono altre persone che lo possono apprezzare. Alcune volte vengono qua dalle città dei gruppi che si fermano anche per tre giorni. ¶

ultimigiovaniSERGIO BARONI E ROBERTO BARTOLI

PORTARE I GIOVANI ALLA TRAPPOLA E’ UNA SCOM-MESSA DIFFICILE, PORTARLI QUASSU’ SIGNIFICA PORTARLI LONTANO DALLE GRANDI CITTA’, ISOLARLI DAL MONDO. CHI C’È NATO A TRAPPOLA MAGARI LA SENTE ANCORA COME UN PUNTO DI ARRIVO, SEMPRE COME UN PUNTO DI RIFERIMENTO, MA VIA VIA CHE SI VA IN LÀ CON LE GENERAZIONI QUESTA SENSAZIONE VIENE SEMPRE MENO.

FOTO DI ANTONIO CIPRIANI

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Come vedete il futuro di Trappola? Credete che Trap-pola possa in qualche modo essere ripopolata? Che ri-chiami ci sono per i giovani? Quali strumenti possono essere messi in campo per far in modo che i giovani pos-sano decidere di trasferirsi nel piccolo borgo toscano?

BaroniIl futuro della Trappola? Noi cerchiamo solamente di mantenere quello che è stato fatto prima di noi e portare qualche miglioria a quello che abbiamo trovato. Il problema è che il borgo ormai vive solo d’estate, mentre purtroppo d’inverno si assiste all’abbandono da parte di tutti. I grandi personaggi che c’erano prima non ci sono più e piano piano si stanno modificando tutte le abitudini che caratterizzavano il paese. Ora purtroppo ci sono molte facce

nuove che sono arrivate alla Trappola ma non sono nate qua. Queste persone vivono la realtà del paese, ma non con l’attaccamento di prima.

BertoliQui richiami particolari non ce ne sono, c’è solo la natura e quello che è stato costruito negli anni precedenti. L’acqua è certamente l’elemento più importante, e per quello tutte le persone che sono qui, in qualità di volonta-ri, si dedicano a questo acquedotto. Per il fu-turo non credo che ci sia da fare tanti sogni, perché i sogni ormai non li fa più nessuno… Ma, come ha detto anche Baroni, vorremmo almeno riuscire a mantenere quello che esiste.

Come pensate di attrarre i giovani qua?

BertoliRiportare a Trappola i giovani è una scom-messa difficile. I giovani preferiscono le gran-di città; isolarsi quassù vuol dire isolarsi dal mondo. C’è ormai un allontanamento dalle

origini, il paese viene in secondo luogo. Chi c’è nato magari lo sente ancora come un punto di arrivo, sempre come un punto di riferimento, ma via via che si va in là con le generazioni i paesi come questo diventano solamente una meta per le vacanze estive, dove andare con la fidanzata, qualche settimana. Poi però si sce-glie sempre di vivere in città.

BaroniScommessa difficile quella di portare qui i gio-vani… I giovani stanno vicino alla città grossa e isolarsi quassù vuol dire isolarsi dal mondo. C’è sempre questo allontanamento dalle origini e poi dopo il paese viene in secondo luogo, capito? Chi c’è nato magari lo sente ancora come un punto di arrivo, sempre come un punto di riferimento, ma via via che si va in là con le generazioni poi dopo questi paesi qui diventa solamente motivo di andare d’estate, con la fidanzata, stare lì ma-gari, poi dopo andare a vivere in città, capito?

BertoliCi sono alcune famiglie che son tornate su. Per

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esempio delle coppie che hanno ripreso residen-za a Casale, cioè nella frazione qui sotto, sempre collegati al nostro acquedotto, però è palese che poi non ci sia un grande avvenire. Ci sono per-sone che hanno abitato qui per vent’anni, ma poi sono andate a lavorare a Firenze, o magari ad Arezzo, o a Figline, o ancora a San Giovan-ni… Insomma, dopo un po’ di tempo trovano un’altra soluzione, prendono una casa in affitto più vicino al luogo di lavoro, perché il problema non è tanto la mezzora che ci vuole di strada, perché mezzora non è un sacrificio, è il discor-so della continuità: chi torna qui a Trappola… lo fa solo per dormire. D’altronde non c’è ne-anche un punto di ritrovo dove scambiare una parola… Insomma, d’inverno diventa un paese dormitorio. Servirebbe qualcuno interessato a fare i mestieri che c’erano sessant’anni fa. Nel bosco ci si può occupare della legna, del carbo-ne, dei marroni, delle castagne. Basti pensare al perché siano andati via tutti. Perché sessant’an-ni fa hanno cominciato a scappare? Perché non è gratificante. Non è che uno dice: “Guarda, io faccio la legna tutti i giorni però poi vivo come Berlusconi”. La situazione è ben diversa: la sera

hai le mani nere perché hai levato il carbone e il vestito nuovo puoi andare a comprarlo una vol-ta all’anno, perché con quello che ti dà il carbo-ne i soldi sono sufficienti giusto per mangiare, se ti va bene… Questo è il discorso sostanziale.

Ma c’è possibilità di trovare lavoro nel borgo?

BaroniComunque lavoro da fare qua nel paese ce n’è sempre, perché le strutture che ci sono ven-gono sistemate da noi. Parlo della chiesa, par-lo dei pochi luoghi dove i bambini possono giocare. Queste cose non vengono trascura-te, perché l’amore per il paese si sente ancora, anche se non sempre viene vissuto. Io penso che quest’amore ci sarà sempre. Ripeto, tan-ta gente che c’è nata ora non c’è più, però chi frequenta Trappola cerca ancora di trasmet-tere tanti valori positivi ai propri figli. È un’i-dea, un’intenzione che è nella mente di tutti, anche se forse lentamente sta svanendo… ¶

TESTO DI GIULIA BIAGETTIFOTO DI GIULIA CIPRIANI

il senso della comunitA’

DOPPIA INTERVISTA SULLA TRAPPOLA CHE VUOL FESTEG-GIARE ANCORA LA SUA LIBERAZIONE, CON IL RITORNO DEI GIOVANI, CHE QUASSÙ CI VENGONO POCO ANCHE D’E-STATE. E PASSARE LE SERE A PARLARE SULLE PANCHINE, A CORRERE TRA I VICOLI, A SUONARE, A FARE LE PASSEGGIA-TE POMERIDIANE SUI SENTIERI DI MONTAGNA E MAGARI ANCHE LAVORARE SU QUELLE TERRE CHE PRIMA VENIVA-NO COLTIVATE A MANO SUI BALZI.

ELIO ROMOLI E QUINTO ROMOLI

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Se ne stava lì tranquillo, appoggiato alla ringhiera della terrazza vicino alle pan-chine di legno davanti alla fonte, a guar-dare il panorama dall’alto di quegli 851 metri. Non so a cosa pensasse, forse era

semplicemente preso da tutto quel verde, da tutti quei colori che dominano sulla strada e sulle case dei paesi. E gli bastava quel pezzo di mondo che si vedeva da quello scorcio, mentre se ne stava ar-roccato nei suoi ricordi. Ricordi di montagna e ricordi di valle in un presente di cielo limpido, perché la nebbia non sale mai su da Loro Ciuf-fenna. Elio Romoli si ricorda bene di quando era sfollato con la sua famiglia a Loro, mentre i tor-menti bellici offesero la fonte della Trappola per sei volte, come ricorda la targa che indica i segni delle cannonate sulla pietra (tormenti bellici ignis hanc fontem sexiens offendit). Mentre racconta si gira verso la fonte, guardando quel piccolo rubi-netto da dove sgorga acqua buona e sempre fre-sca. Quell’acqua da piccolo è andata a prenderla in cima alla montagna con “pala e picco”, come contributo della sua famiglia per la costruzione dell’acquedotto. Anche la famiglia di Quinto Ro-moli, come tutte le altre 60 famiglie, si è impegna-ta a far diventare quell’acqua un bene comune. Un bene comune che è il presente di Trappola, con il Consorzio per la gestione dell’acquedotto e per la sua manutenzione, con gli investimenti di 80mila euro per i nuovi depositi, con la spesa di 30 cent al metro quadro e solo d’estate. Un bene prezioso da tutelare assieme a quel senso di comunità, che è essenziale in questo piccolo paese montano. Un senso di comunità che tiene il paese pulito: ognuno pulisce davanti a casa sua, non c’è l’im-presa del comune (neanche il sindaco va spesso lassù). E così anche nel visitatore viene voglia di non sporcare o rovinare niente, di non disturbare quell’equilibrio.È un senso di comunità radicato nella terra, tra le rocce di pietra serena, nel cuore dei Trappolini, che è a fondamenta di Trappola stessa. Un senso di comunità verso il quale ci si rivolge con un reli-gioso rispetto, anche perché in questa comunità il dolore dei ricordi è indelebile. Non si cancellano gli anni del fascismo, i rastrellamenti dei milita-ri tedeschi del 13 luglio 1944, non si cancellano i bombardamenti, non si dimenticano i giovani partigiani torturati per due giorni ed impiccati il 14 luglio 1944 sul piazzale davanti la Chiesa, con le punte dei piedi che toccavano terra così da pro-curare loro una più lunga agonia. E alcune lacrime, durante il racconto, scendono

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sul viso di Elio, che pur nell’imbarazzo, non rie-sce a trattenersi. Ma quelle campane, alte sul campanile, sono pronte a cantare a festa, per smettere di risuona-re il dolore dei partigiani, di quei “compagni che segnarono con il sangue la fede che li animò nella lotta della liberazione”, delle madri che aspettano il ritorno dei figli. Trappola aspetta solo i 3 figli di Elio, quelli di Quinto che stanno a Genova, i loro nipoti. Trappola vuol festeggiare ancora la sua libera-zione, con il ritorno dei giovani, che purtroppo quassù ci vengono poco anche d’estate. E passare le sere a parlare sulle panchine, a correre tra i vi-coli, a suonare, a fare le passeggiate pomeridiane sui sentieri di montagna e magari anche lavora-re su quelle terre che prima venivano coltivate a mano sui balzi. “I gruppi di turisti che vengono d’inverno sono sempre troppo ristretti per riani-mare anche solo per qualche giorno il paese. Alla Trappola ci rimangono solo i vecchi. Ci vorreb-be un campino per far giocare i ragazzi”, ci dice Quinto. Forse però ci vorrebbe solo di ritrovare un po’ il senso di avventura, di semplicità: si può giocare per strada ed avere sempre le ginocchia sbucciate, come quando Elio e Quinto, tornavano da scuola (che era a La Casa, a casa della maestra) lungo il torrente per divertirsi un po’. E impara-re a fare di ogni piccola gioia un’assoluta felicità, credendo ancora nel futuro, anche per conto di chi dalla montagna non è più sceso.¶

IL RACCONTO DI VITTORIA CECCHERINI E DI OSVALDO. LA PIETRA DELLE CASE E LA PIEVE, IL TEMPO DELLE CA-STAGNE E IL COMITATO DEI CITTADINI

quandoc’era la bottega

TESTO DI MARIA GIORGI FOTO DI DANIELE CIURCINA

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Io non so niente, dovete chiedere ai veri trappolini anche se qui ce n’è rimasti più pochi”, sembra quasi scocciato il signor Osvaldo quando ci affacciamo sulle scalet-te che portano al cortiletto della sua casa

e lo interrompiamo dall’accurata potatura delle ortensie. “In inverno ormai ci rimangono solo quattro o cinque persone fisse, i proprietari delle altre case risalgono dalla piana nei fine settimana per go-dersi un po’ di tranquillità o in estate per stare all’aria fresca. Anch’io sono uno di questi.Intorno agli anni Settanta un mio parente alla lontana mi propose di investire in un vecchio ru-dere qui a Trappola, così accettai e ricostruimmo queste tre case assieme ad altre due famiglie”. Alla domanda su come abbiano fatto a far arrivare il materiale in quella stretta viuzza del paesino, Osvaldo sorride “Madonna di Dio te lo immagini quante pietre c’erano, un casino, abbiamo rifatto tutto con quelle dei vecchi muri a secco”. La casa di Osvaldo è molto simile a tutte le altre del paese: nuove costruzioni di sasso, ben tenute e ornate qua e là da vasi con fiori colorati; incredibile pen-sare che in un posto così curato, con stradine pu-lite e aiuole senza un filo d’erba fuori posto, non abitino più di cinque persone per circa nove mesi l’anno. “I trappolini se ne andarono verso la fine dell’Ottocento, alcuni non si spostarono molto trasferendosi a Roma e Firenze, ma altri raggiun-sero anche la Francia o la Svizzera. E da allora la popolazione è andata via via diminuendo: qua di lavoro non ce n’è se non quello nei campi, da cui puoi ottenere solo frutti per la sussistenza. Perciò i giovani sono scoraggiati a venire ad abi-tare quassù, l’inverno è piuttosto freddo, anche se qualche anno fa siamo riusciti ad avere l’allaccio del metano, così non bisogna più riscaldarsi solo col camino”. Il signor Osvaldo sembra aver su-perato il distacco iniziale e alla nostra domanda riguardo alla chiesa che si trova poco sopra casa sua ci dice: “Credo che sia una pieve romanica, stava andando in malora ma grazie ai trappolini è stata risistemata, i trappolini, quelli veri, ci ten-gono alle loro cose: nessuno si preoccupava della chiesa così in due o tre si sono messi a restaurare il portone. Dagli anni ottanta però non c’è più neanche il prete; uno degli ultimi ad esser mandato quassù fu un giovane pretino, don Dario Dragoni, se non mi sbaglio; questa persona fu molto importante per la Trappola, infatti siccome il vecchio acque-

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dotto che serviva il paese era diventato insuffi-ciente, negli anni dopo la guerra, trovò una bella vena molto in alto e mettendo a lavoro almeno un membro di ogni famiglia del paese, con carriole e piccone costruì l’acquedotto che ancora oggi ser-ve la frazione. Adesso la manutenzione è affidata a un comitato che fa le veci del comune stabilendo i costi che però sono davvero molto bassi rispetto a quelli normali”. Preso ormai dal racconto ci confida: “Per i trappolini è un dovere gestire l’acquedotto come era stato un dovere per i loro padri offrirsi come lavoratori per la sua realizzazione”. Detto questo Osvaldo viene assorbito di nuovo dal lavoro che stava facendo, così ci sembra op-portuno ringraziarlo e continuare il nostro attra-versamento. Passeggiando per il paese passiamo davanti a una fontanella con sopra una piccola targhetta in ottone che riporta il nome di don Dario Dragoni e gli anni in cui è stato costruito l’acquedotto (1957-58). Proseguiamo verso il bo-sco per una stradina che presto diventa sterrata. È lì che troviamo, seduta su delle scalette di pie-tra, la signora Vittoria Ceccherini col suo bel sac-chetto di castagne appena raccolte. Cerchiamo di farle qualche domanda, ma capiamo che bisogna alzare un pochino la voce per farci capire. “Sto alla Trappola dal ’61, perché la mi zia c’aveva la bottega, così io e il mi marito ci si trasferì qui e lui andava a lavorare nel bosco. Adesso però quassù non ci vuole stare più nessuno perché d’inverno non c’è niente da fare, è chiusa pure la bottega. Comunque nel ‘61 qui c’era già l’acqua in casa grazie a un pretino bravo che fece costruire l’ac-quedotto che serve a noi e ai paesi qui sotto, ma a Loro (Ciuffenna) non ce lo fanno arrivare. Per Loro è stato costruito un deposito a Casale”. Le domandiamo cosa può dirci sulla chiesa “E’ stata ristrutturata dai trappolini e la casa della chiesa viene usata come ostello. Si vede bene, è la più bella del paese, pensa un po’, c’è pure il riscalda-mento”. Cerchiamo di capire se c’è qualcuno che vive assieme a Vittoria ma lei ci spiega che i fi-gli si sono trasferiti uno a Firenze e l’altro a Loro per motivi di lavoro, ma lei non ci pensa neanche a lasciare la Trappola e così vive qua da sola per dodici mesi all’anno. Quando però le chiediamo incuriositi l’età lei ci sussurra a denti stretti “ot-tantacinque” e senza aggiungere altro si alza e ca-ricandosi le castagne sulle spalle si avvia lungo la salita che porta al paese.¶

LA TESTIMONIANZA DI PAOLO GIANNETTI CHE NEL BORGO CI VIVE TRE MESI L’ANNO.BELLEZZA, TRADIZIONI, SAPORI ANTICHI.

il paesinodei 4 rioni

TESTO DI VITO COGONI FOTO DI DANIELE CIURCINA E GIULIA CIPRIANI

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Lo incontriamo in una stretta stradina di Trappola mentre si gode l’aria pulita e l’ordine del borgo. Con la schiena appoggiata al muro di una casa osserva spensierato il lavoro

dei maestri muratori che, tra un piano e l’altro del ponteggio, lavorano alla facciata in pietra di un’altra abitazione. È una sorta di contemplazio-ne, della grazia e dell’eleganza trappolina, del suo lato artistico, del suo fascino surreale. Conobbe il paesino negli anni Ottanta e subito se ne inna-morò; non è stato l’unico, ma tra i tanti trappolini d’adozione, Paolo Giannetti è tra più incalliti, e nonostante vi soggiorni solo per 3 mesi l’anno, negli altri 9 fa la spola quasi quotidianamente dalla valle alla montagna. “È ormai 30 anni che sono qui – racconta -. È bello poter continuare a vivere certe situazioni che c’erano un tempo nei paesi. C’è quel tipo di collaborazione, quella disponibilità, quella voglia di condividere che al-trove è andata persa”. Anche se giovani se ne ve-dono pochi: “Generalmente si mettono d’accordo per ritrovarsi qui nella bella stagione, ma solo per una settimana”. In estate, quando le serate sono sempre una festa: “Ci si ritrova ogni notte, per stare insieme in alle-gria”. Fa ormai parte dell’identità di questo villag-gio nato nel periodo medievale e ancora vivo gra-zie a 7 intrepidi abitanti che temono di perdere la loro isola felice: “Hanno un carattere particolare, è come se non riuscissero a ‘digerire’ l’arrivo di nuove persone - spiega ancora Paolo -. Sembra persistere la Baronia. È una terra che ha sempre vissuto fuori da ogni contatto”. E dagli anni Sessanta lo spopolamento ha accentuato il loro isolamento. I 400 abitanti del borgo comin-ciarono a partire alla ricerca di realtà più proficue, perché la pastorizia e lo sfruttamento del legna-me, attività diffuse a Trappola, non garantivano né guadagni né soddisfazioni. “In quegli anni ci fu un interessante sviluppo del turismo, prove-niente soprattutto da Roma, ma fu un exploit di breve durata - rivela Paolo -. Per provare a rilan-ciarlo di recente è stata ristrutturata quella che prima della guerra era la casa del guardacaccia. Si vorrebbe fare un centro polifunzionale, per lavo-rare soprattutto col turismo scolastico. Intanto la canonica è stata aperta al turismo parrocchiale e ai seminaristi”. Niente di particolarmente redditi-zio, solo un punto d’appoggio per i (pochi) visita-tori di questo quieto angolo di Pratomagno. Che non si anima solo in estate ma anche a novembre, in occasione della sagra della castagna. “Non lon-

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tano dalla frazione vi sono tre castagneti secolari, col tronco di alcuni metri di diametro, e uno dei seccatoi originali è stato conservato, anche se non viene più utilizzato. I marroni vengono ancora sfruttati per la farina. E poi ovviamente per il Castagnaccio, che un tempo sostituiva il pane e oggi viene servito come dolce”. In tema di sapori, Paolo si entusiasma ancora ricor-dando i tempi che furono: “Vittoria faceva del pane davvero delizioso. Il suo pezzo forte era la schiaccia-ta. La si mangiava con il salame o con il prosciutto, ma con la mortadella era davvero perfetta”. Vittoria è una delle poche ostinate trappoline doc che ancora abita nel borgo. L’età avanzata magari le impedisce di preparare il pane per tutti, ma il sorriso e l’intrapren-denza dimostrano che l’aria pulita di montagna fa de-cisamente bene alla salute. D’altronde, sebbene isolati a 850 metri d’altitudine, i trappolini non hanno rinunciato alle comodità con-temporanee. “Già negli anni Cinquanta il contributo di tutti permise di costruire un acquedotto ancora pienamente funzionante – prosegue Paolo -. E nel 1995 la nuova urbanizzazione ha permesso di siste-mare le fognature e portare il gas nelle abitazioni. Con il contributo dell’Unione Europea nel 2002 si è poi passati al metano, con notevoli vantaggi dal pun-to di vista economico”. Anche il Comune in effetti si adopera per garantire ai cittadini della frazione i ne-cessari servizi pubblici: “Pure in inverno 2 volte a set-timana Trappola è collegata a Loro Ciuffenna da un servizio-bus e il costo del biglietto non è eccessivo. Inoltre le macchine spalatrici sono subito operative in caso di nevicate e si cerca sempre di evitare che le strade si ghiaccino buttando il sale sull’asfalto”. D’altronde le condizioni ambientali, secondo Paolo, a Trappola non sono un problema, anzi: “Mi piace venire spesso quassù anche perché il clima è secco e ventilato. Spira spesso il Grecale, che viene da Sud-Est, e la neve non è eccessiva, cade in maniera meno copiosa rispetto al Casentino”. Frequente invece, come è normale che sia, la nebbia, che fu probabilmente la causa della morte di Herbert John Louis Hinker, l’a-viatore scomparso nel 1933 sul Pratomagno. “Cadde sul pelo della montagna. Nel punto dello schianto c’è una lapide che lo ricorda. Per arrivarci a piedi ci vo-gliono circa 3 ore e mezzo”. Anni difficili quelli del Ventennio, che culminarono con l’eccidio del 1944, “quando una banda di partigiani si trovò all’improv-viso faccia a faccia con una squadra di nazi-fascisti in borghese. Tentarono di scappare ma non ci riusci-rono e furono trucidati. A Trappola in quello stesso anno si sfiorò anche un’altra tragedia. Le SS volevano bruciare il borgo, che si salvò solo grazie alla Signora

Tassi, moglie del più ricco possidente terriero del-la zona. Fu lei a convincere i tedeschi a non com-piere quell’orrore. Per inscenare l’adempimento della missione al posto del paese fu bruciata la pineta accanto. Non so come quella donna riuscì a convincerli, sta di fatto che dopo qualche anno si tolse la vita>. Fu il triste epilogo di un rapporto inevitabile: i tedeschi le avevano infatti occupato la casa, la più grande e lussuosa del villaggio, in quegli anni e ancora oggi: “Il Tassi l’aveva com-prata, assieme ai terreni, dai Ricasoli e la posse-dette fino agli anni Settanta. Poi passò in mano a un dentista e quindi a un tedesco dal 1993. Pochi anni fa, quasi per scherzo, questi decise di met-terla in vendita a un prezzo improponibile: oltre 3 milioni di euro! E invece un facoltoso cinese ha voluto realizzare il desiderio della figlia: l’avevano vista e scelta solo dalle foto sul web!”. La villa non è comunque l’unica bellezza artistica di Trappo-la: “Nel borgo si può ancora apprezzare la chie-setta del periodo medievale, edificata laddove ne esisteva, probabilmente in posizione trasversale, una ancora più antica. Accanto alla struttura ro-manica è stato infine costruito nel XIX secolo un nuovo edificio religioso”. Sorgono vicino al luogo in cui un tempo era collocato il Castello di Trap-pola, che infatti ancora dà il nome al rione, “uno dei 4 del villaggio. Gli altri 3 sono Borgo, la parte più antica in assoluto, Villa, che è situata a Nord e comprende le ultime costruzioni, Porta, dove si ricollegava la mulattiera che arrivava da Sud”. Era la strada che portava a valle, quella che Paolo in assenza di alternative sarebbe disposto a percor-rere anche oggi pur di continuare ad assaporare profumi ed emozioni d’altri tempi.¶

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la pietraserena

TESTO DI GIANFRANCO BELGRANO FOTO DI GIULIA CIPRIANI

LE CASE DEL BORGO SONO COSTRUITE CON LA PIETRA SERENA, TIPICA DI QUESTA ZONA. LE CAVE SONO MIMETIZZATE A POCHI METRI DALLE ABITAZIONI. ECCO DUE RESTAURATORI DI LORO CIUFFENNA: PARLANO DELLA TRAPPOLA CHE STANNO RIMETTENDO A POSTO.

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Un colpo di raschietta, un po’ di cemento, un lavoro certosino. Pian piano le case della Trappola tornano all’antica bellezza. Anzi, più belle e comode di quanto non

fossero mai state in precedenza. Lungo la piccola strada che dalla piazza della chiesa risale, costeg-gia la parte a occidente del piccolo abitato e quin-di accompagna fuori verso i viottoli che si inol-trano per gli antichi castagneti, Roberto Massini e Paolo Luti lavorano. Non è la prima casa che restaurano: “Sono tutte seconde case... qui si lavo-ra bene... la porta la puoi lasciare ancora aperta”. Cugini e colleghi di lavoro, da Loro Ciuffenna alla Trappola sono saliti più volte per più abitazioni. “Il borgo si accende d’estate, i giovani non ven-gono a viverci. Nonostante, in fin dei conti, ci sia tutto quello di cui si potrebbe avere bisogno. Ma l’inverno è duro, la strada che risale la montagna può essere scomoda e ormai a vivere qui sono in dieci”.Sono loro a farci scoprire le cave di pietra serena, la pietra tipica di questa zona. Le cave sono mi-metizzate dalla natura a pochi metri dalle abita-zioni. Pietra intagliata, lavorata a mano e traspor-tata per la costruzione delle case della Trappola. Pochi metri tra la piccola cava e la casa che da quella cava è nata. Roberto e Paolo mostrano il lavoro fatto, disegna-no con le mani cosa diventerà tra qualche mese questa casa di due piani con una mangiatoia per gli animali ancora visibile al piano terra, quadri di santi e madonne alle pareti scrostate, antichi mobili senza valore pronti per la discarica. Roberto chiude gli occhi. “Immagina - dice - que-ste strade 70 anni fa. Bambini che corrono, car-bonai che tornano neri dalla montagna, boschi e contadini segnati dalle rughe della fatica e del lavoro. Ora è molto diverso, tutto più silenzioso, anche se puoi sempre tenere le chiavi alla porta e se il tempo procede lento”. La musica di una radio locale torna a farsi sentire, Roberto apre gli occhi, Paolo ci accompagna fino alla cava.¶

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I FEEL LIKE I’M KNOCKIN’ ON HEAVEN’S DOOR

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fessuredi mondo

FOTO DI SALVATORE LUCENTE

I FEEL LIKE I’M KNOCKIN’ ON HEAVEN’S DOOR

OGNI PORTA È UN INGRESSO, OPPURE UN’USCITA O PUÒ ESSERE ENTRAM-BE. OGNI PORTA PUÒ CHIUDERE O APRIRE UN MONDO.

A TRAPPOLA NE ABBIAMO ATTRAVERSATE ALCUNE, ALTRE ERANO CHIUSE MA NON C’ERA BISOGNO DI ENTRARCI, BASTAVA LA MENTE.

ALTRE, SOCCHIUSE, PERMETTEVANO DI VEDERE DENTRO...

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pugnodi case ORGOGLIO E STORIA

CHI TORNA A TRAPPOLA SI È PRESO L’IMPEGNO DI TENERE BENE QUESTO PICCOLO GIOIELLO DI PAESE. CHE, INFATTI, NON MOSTRA I SEGNI DELLO SPOPO-LAMENTO. NIENTE DEGRADO, SOLO PORTE E FINE-STRE CHIUSE. LE CASE ABITATE HANNO LA CHIAVE NELLA TOPPA. SICURE DI SÉ. PERCHÉ NON C’È CHIU-SURA, MA CONDIVISIONE PER LA RESISTENZA.

TESTO DI PANCRAZIO ANFUSOFOTO DI ANTONIO CIPRIANI

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Camminando per le strade della Trappola si percepisce l’orgoglio della sua gente. Un sentimento montanaro che qualche volta vie-ne scambiato per chiusura, ma al-

tro non è che condivisione. Sentirsi parte di un tutto, ancorché piccolo e apparentemente insi-gnificante, come può essere un pugno di case accozzate strette strette, quasi a tenersi insieme, a farsi caldo e coraggio nell’enormità del mon-do, poggiate con garbo sui fianchi del Prato-magno che è montagna austera, fitta di selve e prodiga di frutti. La legna, i funghi, le castagne, il pascolo, il rac-colto. Seminare, raccogliere, fruttare. Difendersi dalla neve e dal vento. La Trappola racconta una storia fatta di contadini, taglialegna, carbonai, non di eroi e conquistatori. L’eroismo i trappo-lini hanno dovuto inventarselo, per resistere a un invasore alieno, portatore di morte assurda. I sette-otto tedeschi acquartierati in paese, ber-sagliati dal cannone degli alleati attestati a Loro Ciuffenna, i segni visibili dei colpi sul muro, con la lapide che ricorda l’accaduto, sei volte il fuoco tentò di distruggere questa fonte. I morti che si contano sulla stele davanti alla chiesa, sotto lo stemma di San Bernardino che adorna la chie-

sa piccola. Giovani appesi a una trave, in nove, locali, stranieri e sconosciuti. Colpevoli di resi-stere. Perché la storia della Trappola è una storia di resistenza. Lo testimonia il muro della torre che è rimasto in piedi, nella parte del paese che si chiama Castello. Le mura di una rocca messa sotto al crinale della montagna, a presidiare. Di-fendere un territorio. I documenti storici parlano di giuramenti di fe-deltà a Firenze e d’impegno alla difesa del confi-ne delle 47 famiglie della Trappola. Erano tante alla fine del ‘300, tante se ne ritrovano all’alba del ventesimo secolo. Nel mezzo, anni duri. Si racconta che scavando nel terreno si trovano fa-cilmente sassi bruciati. Sono i resti del castello, segnati dalla sorte che però ha preservato, nei secoli, questo grumo di case fatto di una rocca e del suo borgo. L’ultima volta fu quando la Tas-si, moglie del proprietario della Villa, convinse i tedeschi a non bruciare il paese, come fecero con quelli vicini. Non si sa quali argomenti ab-bia usato la donna, alcuni cercano di intuirli, sottovoce. Rispettosi. Non c’è un trappolino che si abbandoni al pettegolezzo, sono persone di valore. Gli uomini si somigliano tra loro, per-ché i posti di montagna sono impermeabili e preservano. Ci vogliono anni per entrarci e non

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basta. Lo sa il tedesco che comprò Villa Tassi e si stabilì nell’unica parte signorile del paese. Una bella villa di fine ‘800, nobilitata dal lavo-ro pagato, dice la leggenda, con l’oro rinvenu-to in una pentola sepolta nel cortile. Il tesoro della Trappola. I tedeschi della villa ci hanno messo vent’anni a farsi accettare. Oggi la villa è passata in mani cinesi e l’inte-grazione del nuovo compaesano è di là da ve-nire. Ma non si pensi alla xenofobia, sarebbe un errore. È solo che queste strade di pietra serena hanno bisogno di tempo per accettare chi vuole integrarsi. E accolgono con calore il visitatore, con le tante panchine semina-te in giro a offrire riposo, con gli occhi allo spettacolo di luci che salgono dal Valdarno. Fumano i camini di Cavriglia, splendono le luci di Montevarchi, di Loro Ciuffenna, di Terranuova Bracciolini. Destinazione prima del trappolino migrante, stanco degli stenti della montagna e attratto dal progresso. Dai mestieri del bosco al salario delle fabbriche il passo è breve, ed è un passo avanti. Lo sanno queste pietre che attendono chi torna. Anche solo d’estate, per riposarsi al fresco e ricorda-re i momenti belli. Chi torna si è preso l’im-pegno di tenere bene questo piccolo gioiello

di paese. Che, infatti, non mostra i segni dello spopolamento. Niente degrado, solo porte e finestre chiuse. Le case abitate hanno la chia-ve nella toppa. Sicure di sé. Perché non c’è chiusura, ma condivisione per la resistenza. Una condivisione che si racconta, anche, con l’acquedotto privato che i trappolini mettono in piedi negli anni ’50, quando lo spopola-mento sta per cominciare. Un’opera che resta, anche quando si va via. Per tornare quando sarà possibile, perché lo spopolamento dei paesi di montagna è definitivo, a meno che la storia non ci riservi sorprese amare. A por-tare a valle i trappolini è stata la ricerca di un premio più grande per la propria fatica quo-tidiana. A sentirli parlare si capisce che non è stato invano. Non si può sognare di tornare indietro. Il so-gno di Trappola è resistere, come luogo dell’a-nima, spazio dei ricordi belli, dove si torna nel bosco, stavolta per divertirsi. E riscoprirlo amico.¶

DONNA TASSI , UNA VITA DI CORAGGIO E EROISMO. AGLI ALBORI DELL’EMANCIPAZIONE LA TESTIMO-NIANZA NUDA E PURA DELL’AUDACIA FEMMINILE.

storia di mestieri e guerraTESTO DI VITO COGONI FOTO DI GIULIA CIPRIANI

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V iolenze, massacri, eccidi… Trage-die all’ordine del giorno negli anni difficili della guerra, in un’Italia torturata fisicamente e psicologi-camente. I nazisti avevano occu-

pato militarmente la penisola con l’appoggio dei fasci, convinti di poter rispedire al mittente Usa e alleati. Non fu così. Non solo grazie alle forze armate. E neanche soltanto grazie a quella mol-titudine di uomini di origini e ideologie diverse che accomunati dal rifiuto del regime avevano costituito il movimento partigiano. La fine del Fascismo e la liberazione dell’Italia avvenne anche grazie alla Resistenza civile. La guerra non si combatte solo con la politica e con le armi; anche tra la popolazione ci fu chi scelse di agire, sognando la fine del conflitto, il ritorno alla democrazia, la gioia di un sorriso sul volto di chi l’aveva perso o su quello di chi non l’aveva mai conosciuto. Uomini, ma anche donne. Il gen-til sesso, spesso discriminato dagli stessi partigia-ni, trovò proprio durante la guerra la scintilla per la rivoluzione sociale, lo scatto d’emancipazione, la fine della subalternità. E il suffragio femmini-le fu poi la conferma più concreta di un nuovo modo di vivere la famiglia, il quotidiano, il so-ciale. In quell’oceano di manierismo resistenziale la donna seppe dimostrare di avere diritto a un ruolo di rilievo nella vita economica e lavorati-va esattamente quanto gli uomini. Dalla stampa di testi e manifesti di propaganda alla raccolta di viveri, indumenti e medicinali, dalle funzioni in-fermieristiche al passaggio delle informazioni, il contributo femminile durante la guerra fu deci-sivo. Anche quando fu necessario vivere a stretto contatto coi nazifascisti per impedirne o limitar-ne l’azione.Come fece la giovane moglie di Paolo Tassi, im-portante proprietario terriero del Pratomagno. Se ancora oggi il borgo di Trappola splende con le sue case in pietra immerso tra i boschi toscani il merito è anche suo. Facoltosa ma altruista, affa-bile ma anche manipolatrice, donna determina-ta quanto e più di tanti uomini, la Signora Tassi, privata dell’intimità domestica quando i tedeschi s’impossessarono della sua villa, strinse con essi rapporti cordiali, tanto da alimentare ipotesi di adulterio. D’altronde la cultura ultramaschilista dell’Italia del Ventennio faceva della discrimina-zione di genere un cavallo di battaglia. I luoghi comuni legati alla subordinazione e all’inferiori-tà della donna erano frequenti e le stesse (poche)

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partigiane accettate nelle bande armate erano spesso denigrate per il solo fatto di dormire con gli uomini. Donna Tassi invece resta ancor oggi un’icona per i trappolini, per il suo coraggio, per la sua lucidità. Fu lei a scoprire il piano nazifascista per il Pratomagno: incendiare ogni possibile nascondiglio partigiano, ogni frazione, ogni borgo. La sua prima preoccupa-zione fu avvertire gli abitanti trappolini e convincerli ad abbandonare le case; ma per quelle umili genti di montagna guardare inermi la distruzione delle abi-tazioni sarebbe equivalso a morire. Fermare il pro-getto tedesco era un’utopia che bisognava provare a realizzare. Mise a rischio tutto quello che aveva; la sua scelta poteva tradursi in arresto, deportazione, fucilazione. Vinsero la spontaneità, il rifiuto del cal-colo, la pietà. Non era una lotta contro il fascismo ma bensì contro l’ingiustizia. Quale mezzo utilizzò, lecito o illegale, pudico o adultero che fosse, non è dato sapersi. Quel che è certo è che fu convincen-te e le SS non incendiarono Trappola. Il clamoro-so, inatteso rinsavimento dei nazifascisti trappolini trasformò la disciplina e il rispetto per l’autorità in perplessità, esitazione. E poi in collaborazione, sup-porto, finanche tradimento alla causa tedesca. Fu insomma organizzato un piano B: il rogo ci sareb-be stato e la nuvola di fumo sarebbe salita nel cielo toscano a testimoniare l’adempimento degli ordini, la positiva (?!) conclusione dell’ennesimo atto d’or-rore. Era sufficiente perché a valle, dov’era di stanza lo stato maggiore, archiviassero la missione. Si deci-se di sacrificare il bosco situato a poche centinaia di metri dal borgo. Era il luogo ideale per mandare in scena, come in un teatro del macabro o in un reality dell’orrore, la tragedia che i nazisti aspettavano. Tutto il paese si adoperò per raccogliere in breve tempo il legno necessario ad alimentare l’incendio; gli alberi sacrificati fecero il resto.Non serve sottolineare il sollievo trappolino, for-se neanche val la pena favorire la compassione per quell’ufficiale tedesco che contrattò chissà cosa o for-se davvero scovò in sé un ultimo briciolo di umanità. Ciò che merita di esser rimarcata è l’audacia, la teme-rarietà, l’incantevole incoscienza della Tassi, piccola rappresentazione della dignità di un intero popolo. In una società patriarcale come quella italiana del-la prima metà del Novecento, il suo eroismo è la te-stimonianza nuda e pura dell’audacia femminile. E Trappola, piccolo borgo medievale della Toscana, ci restituisce così uno splendido spaccato di emancipa-zione sociale e culturale.¶

LE CHIAVI DELLE CASE SONO TUTTE NEI PORTONI A INDICARE AI VIAGGIATORI CHE SONO BEN ACCETTI ANCHE SENZA BUSSARE

LA Fiduciae il pepecondiviso

TESTO DI GIULIA BIAGETTI FOTO DI ANTONIO CIPRIANI

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La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un mosco-ne, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” E “parteci-pazione certo è libertà ma è pure re-

sistenza”.

Il campanile svetta sui tetti di Trappola e do-vunque ci sono panchine di ogni genere. Pan-chine che ti fanno venir voglia di metterti a sedere per sentire le storie, i racconti di chi a Trappola c’è nato, e come nelle favole, sognare un po’. C’è un ristorante che è un bar, che è un negozio di generi alimentari, che è un ritrovo, che sono parole e sorrisi, oltre che buon cibo. E vicino un piccolo orto. Ad ogni casa cassette della posta pronte a ricevere lettere. Le chiavi delle case sono tutte nei portoni, per accogliere i viaggiatori anche senza che suonino il campa-nello.Tutto è curato, se c’è qualcosa da sistemare ci si

rimbocca le maniche, ci si aiuta, ci si sostiene: la croce qui si porta sempre in due, e se è troppo pesante, tutti aiutano. Trappola, nel preciso centro tra il cielo e la ter-ra. Ad un passo dalla valle e dalle nubi. Non c’è bisogno di arrampicarsi ulteriormente: basta alzare la mano e lo tocchi il cielo, mentre gli al-beri gli fanno il solletico. E sbirciare solo un po’ tra le fronde, tra gli in-trecci degli alberi, in piedi su una panchina, per provare a cogliere quel senso di resistente liber-tà, senza voler dar noia, senza rovinare niente, senza cambiare l’equilibrio. Un equilibrio resi-stente come la pietra, ma curato come i ricami delle tendine alla finestre o i fiori nei vasi. C’è poco che stona nel contesto. Anche il fumo che esce dai comignoli o l’abbaiare di Pepe, il cane di una signora del paese (ma il cane un po’ di tutti), è perfettamente in tono con l’ambiente. Anche il viaggiatore che passa per la Trappola può affacciarsi piano piano, con un po’ di sano

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rispetto, sulla vita di questo posto, radicato nel-la terra, e guardare su nel cielo tra le foglie degli alberi. È bello poi sporgersi più avanti, fare un passo in più con gli scarponi ai piedi, lasciare la propria orma ed ancorarsi su questa terra, dove ci si sente protetti e cullati dall’ aria calma e naturale. Sentirsi sospesi, come in trappola a Trappola, ma liberi e vivi, come equilibristi che hanno solo voglia di volare, senza paura di ca-dere. C’è solo da fare un tentativo, da fare solo un’av-ventura, da fidarsi, perché c’è qualcosa da sco-prire. C’è da fidarsi della vita della montagna e della salita, della forza di volontà, e del sudore, per annidarsi sui rami degli alberi e cercare di vedere tutto nell’insieme, senza perdere niente di quello spettacolo. C’è vita da scoprire, apren-do il cuore. Un’immensità meravigliosa. E ri-dere. Sembra di essere scollegati dal mondo, ma nel mondo ci siamo sempre, con i nostri telefoni,

il wi-fi, l’antenna satellitare e quant’altro: è solo che quassù si riesce ad essere collegati un po’ meglio con se stessi. Il segnale con il nostro cuore è buono: non c’è niente che ostacola la comunicazione. Può sembrare che Trappola stia “come d’autun-no sugli alberi le foglie”, ma gli alberi in prima-vera rifioriscono e le foglie che cadono a tappe-to servono solo a proteggere l’erba ancora verde splendente e quelle panchine che d’estate si po-polano di voci, di suoni e di sorrisi.I fiori qui, tutti sempre così curati e protetti, sono una bellissima composizione naturale e quelli che spuntano dal niente, tra le rocce, sono un bouquet nella terra. Nessuno vuol giudicare i fiori, ma sicuramente questi hanno tutto un altro aspetto rispetto a quelli nei vasi appesi o appoggiati davanti alla porta di casa, che pur danno decoro, colore e abbelliscono l’ambien-te: sono un bouquet di passione e di forza di volontà.

La porta storta del seccatoio delle castagne, ci ri-corda che il mondo non sempre va visto da dirit-to, ma che a volte la giusta direzione è quella un po’ di traverso: è importante guardare le cose da un’altra direzione. Forse quella non precisa, ma naturale, la più bella in tono con l’ambiente e con il contesto: perché cambiando il punto di vista si possono notare alcuni dettagli che prima non si riusciva a vedere. La completezza è nel dettaglio, la semplicità è nel dettaglio, la naturalezza è nel dettaglio, in quel tocco di colore in più che una rosa selvatica può dare. Basta fare un po’ di zoom, non farsi ingannare dall’apparenza delle cose, cer-care un’altra lente e superare gli ostacoli per vede-re il tutto con una luce diversa. Come con Roberto, che dopo anni di lontananza è tornato a vivere sul suo paesino di montagna per curare il suo “Mal di Trappola”; se lo si guar-da bene è come la pianta di Sundaville nei vasi appesi sulla ringhiera della terrazza: semprever-de, che conserva i suoi fiori estivi ed i suoi sorrisi anche in autunno. E Trappola è solo una pianta rampicante che si attacca sui muri e sul cuore, e lo scalda.¶

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DALLA FAMIGLIA TASSI LA VILLA CHE DOMINA LA TRAPPOLA E’ ORA DI UN MILIARDARIO CINESE

dalla lanaallo yen

TESTO DI GIANFRANCO BELGRANO FOTO DI GIULIA CIPRIANI

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Tutto avrebbe potuto pensare il si-gnor Paolo Tassi tranne, forse, che quella piccola casa ereditata dalla sua famiglia e da lui trasformata in una villa tra il 1927 e il 1934 sareb-

be finita a un miliardario cinese. La bandierina rossa attorcigliata attorno alla statua dal disegno rinascimentale che segna il passaggio dalla parte destinata alla servitù a quella padronale, racconta tutto. D’altronde, questa villa, di una bellezza che spicca tra le case in pietra serena della Trappola, doveva essere un simbolo già quando fu concepi-ta. La famiglia Tassi aveva il grosso dei suoi inte-ressi in Maremma, a Magliano. Alla Trappola si saliva in estate per sfuggire alla canicola. Paolo Tassi andava su con la moglie e i figli, e con la servitù. In Maremma restavano i suoi impiegati e uomini di fiducia. E le pecore: simbolo della ric-chezza dei Tassi tanto da entrare nello stemma di famiglia. Sulla lana di pecora i Tassi avevano costruito la loro ricchezza, e dopo la seconda guerra mon-diale, l’incapacità o l’impossibilità di stare al pas-so con i tempi, segnò la fine dei Tassi anche alla Trappola.L’introduzione delle fibre sintetiche e lo spopola-mento delle aree rurali a vantaggio delle industrie e delle città decretarono cambiamenti radicali e portarono lo stesso Paolo a togliersi la vita nel 1960.La villa rimase vuota per diversi anni, fino a quando una coppia di tedeschi innamorata della Toscana si decise a rilevarla, a restaurarla e ad an-darci a vivere per diverso tempo e stabilmente dal 2001.All’ultimo cambio di proprietà, dai tedeschi ai cinesi, contribuirà invece internet e, ancora una volta, la Toscana come status symbol. Sem-bra quasi un paradosso, ma questa parte poco conosciuta e comunque poco battuta se non da cercatori di funghi e raccoglitori di castagne, nel-la storia di villa Tassi ha interpretato a suo modo la storia recente di un mondo sempre più globale. Dai ricchi italiani ai solidi tedeschi, e da questi ai nuovi ricchi cinesi. Ricchi e assenti. Oggi la vil-la è gestita da un custode e da un giardiniere. A circa due anni dall’acquisto, i nuovi proprietari si sono fatti vedere due, tre volte. Una sola volta il vecchio patriarca, qualche volta di più la giovane figlia che vive negli Stati Uniti e che in Italia trova modo di fare shopping. La Toscana ancora affascina con i suoi panorami e il suo verde, ma pian piano pare destinata a per-dere angoli della sua storia per farsi vetrina del ricco di turno.¶

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IL MOMENTO PIÙ BUIO DELLA RESISTENZA TRAPPOLI-NA È DATATO 13 LUGLIO 1944.

storie partigiane

TESTO DI VITO COGONI FOTO DI MARIA GIORGI

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Lo avraicamerata Kesserlingil monumento che pretendi da noi italianima con che pietra si costruIRA’Àa deciderlo tocca a noi

Non con i sassi affumicati dei borghi inermi straziati dal tuo sterminionon con la terra dei cimiteridove i nostri compagni giovinettiriposano in serenita’ànon con la neve inviolata delle montagneche per due inverni ti sfIdarononon con la primavera di queste valliche ti videro fuggire.

Ma soltanto con il silenzio dei torturatipiu’ duro d’ogni macignosoltanto con la roccia di questo pattogiurato fra uomini liberi che volontari si adunaronoper dignita’à non per odiodecisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornareai nostri posti ci ritroveraimorti e vivi con lo stesso impegnopopolo serrato intorno al monumentoche si chiama ora e sempreResistenza.

Sono le intense, struggenti parole di Pie-ro Calamandrei in risposta ad Albert Kesselring, comandante in capo delle forze tedesche nella penisola, processa-to e condannato per crimini di guerra

ma pochi anni dopo estradato in Germania, dove affermò che l’Italia avrebbe dovuto erigergli un monumento per via del suo operato. Il compo-nimento racconta la sofferenza e il coraggio di una comunità non allineata, il risentimento e la tristezza di una terra violentata da anni di batta-glie, la tenacia e la dignità di una civiltà che si è ritrovata e compattata intorno all’ideale della Re-sistenza. Parole che trasudano lacrime, scritte per l’Italia intera ma capaci di rappresentare anche quelle realtà minori che hanno fatto la storia del conflitto. Tra queste anche il versante valdarnino del Pratomagno, con le sue pietre, la sua neve, le sue valli. La frazione di Trappola oggi sembra di-spensare serenità, ma nel 1944, quando contava circa 400 abitanti, compresi i pastori che faceva-no la spola con la Maremma, fu teatro di guerra e finanche luogo d’eccidio. È una quiete matura, una calma sofferta, conquistata smacchiando dal-le case il sangue dei caduti per difendere la patria. Con il fronte alle porte di Roma, i tedeschi in-tensificarono le loro attività in Valdarno. A mon-te della zona di Rocca Ricciarda, sotto l’egida del movimento rivoluzionario ‘Giustizia e Liber-tà’, fu organizzato un gruppo di un centinaio di partigiani, cui venne dato il nome di formazione ‘Mameli’, con il compito di effettuare azioni di di-sturbo al traffico militare tedesco. In particolare la banda doveva concentrarsi nel controllo del triangolo Trappola–Pratomagno–Cocollo, per difendere le derrate alimentari e il bestiame dal-le requisizioni delle SS. Nonostante la divisione fosse politicamente vicina al Partito d’Azione, la Mameli aveva una composizione eterogenea, in-cludente anche soggetti vicini al Partito Comuni-sta, oltre a liberalsocialisti e democratici repub-blicani. Diversi modi di intendere la Resistenza che infatti sfociarono in ripetute contrapposizio-ni sulla gestione degli uomini.Il momento più buio della Resistenza trappoli-na è datato 13 luglio 1944. Proprio dalla piccola frazione di montagna partì il rastrellamento della Wehrmacht, che proseguì sino a Rocca Ricciar-da per creare una via naturale di ripiegamento utile ai reparti tedeschi che si sarebbero attardati in azioni di disturbo all’avanzata alleata. Le sen-tinelle della Mameli intercettarono il piano dei tedeschi, che già nel borgo attaccarono con mi-

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tragliatrici e mortai, distruggendo alcune case. Gli abitanti riuscirono a mettersi al riparo gra-zie all’azione di alcuni partigiani che opposero un fuoco di sbarramento. Nello scontro a fuoco persero la vita due giovani antifascisti: Varo Fail-li, di 23 anni, e Giovanni Biscaro Parrini, appena maggiorenne. Il primo, di San Giovanni Valdar-no, venne impiccato; il secondo, di Loro Ciuf-fenna, venne colpito dai colpi d’arma da fuoco. Entrambi i nomi compaiono oggi sulla lapide po-sta davanti alla facciata della chiesa di Trappola in ricordo dei 10 caduti durante la guerra. Con loro ci sono i componenti del gruppo partigiano sorpreso dai tedeschi mentre di rientro dal borgo risaliva la montagna del Pratomagno. L’episodio è databile al 27 luglio, quando l’avanguardia del reparto britannico era ormai giunta nella zona e aveva ordinato alle pattuglie della Mameli di co-prire la zona compresa fra Trappola, Trevane, San Clemente e Poggio di Loro, mentre essi procede-vano nell’attacco a Modine, occupata dai tede-schi. Oppure al 10 agosto, quando la Wehrmacht aveva nuovamente assediato il borgo trappolino nel tentativo di riprendere il controllo della zona. Vestite in borghese, le SS, favorite dalle soffiate dei repubblichini, riuscirono ad evitare di farsi riconoscere fino a quando non furono faccia a faccia con i volontari italiani; poi un partigiano di origini siciliane, appena sedicenne, riconobbe gli scarponi tedeschi, ma era ormai troppo tardi: l’eccidio fu completo e, purtroppo, neanche breve. Prima di morire i volontari della Mameli furono infatti anche torturati con gli aghi sotto le unghie, gli elettrodi a spillo nelle tempie, la luce fissa dei riflettori sugli occhi. La morte fu consumata per impiccagione, facendo uso della trave centrale di una casa del borgo, con le punte dei piedi che toc-cavano in terra per accentuare l’agonia e la soffe-renza dei poveretti.La fine della guerra era però vicina: il 26 agosto 1944, dalla cima del Pratomagno, venne appura-ta la ritirata tedesca. Gli alleati di stanza a Loro Ciuffenna dichiararono terminate le operazioni, di fatto congedando i partigiani valdarnini. Il tri-buto di sangue pagato per la causa libertaria non fu cosa da poco e la lapide posta ancor oggi da-vanti alla chiesa della borgata sottolinea l’impor-tanza di non dimenticare. Né il sacrificio di quei giovanissimi eroi, né il dolore di chi ne pianse la scomparsa. E nemmeno l’importanza di poter godere della libertà.¶

I RACCONTI DEI PROTAGONISTI CI PORTANO PER MANO NELLA STORIA DELLA TRAPPOLA. COME PASSI SUI TORNANTI DEL TEMPO CHE NON TORNA

L’ISOLA SUL MONTE

TESTO DI MARIA GIORGI FOTO DI GIULIA CIPRIANI

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La Trappola è un’isola. Un’isola a 850 metri sopra il livello del mare, circon-data da monti e vallate. Come un’i-sola è difficile da raggiungere perché non ci si può capitare per caso, se uno

ci arriva vuol dire che era proprio quella la sua meta. Ma chi giunge quassù ci lascia un pezzetto di cuore. Sarà per la bellezza del paesaggio, per la tranquillità che vi regna, ma più di ogni altra cosa è sicuramente per i suoi abitanti. Loro stessi si definiscono isolani, perché sono abituati a vi-vere staccati dal mondo, custodendo questa terra che offre loro quel poco col quale si accontentano di vivere: castagne, funghi, piane per l’orticello e legna da ardere per riscaldarsi. Proprio per que-sto motivo oggi sono solo in cinque a viverci per dodici mesi l’anno; solo in estate e nei weekend il paese si rianima arrivando a contenere anche quattrocento persone, come ai vecchi tempi. Così, come spesso accade dove bisogna tirare a campare basando tutto sulle proprie forze, alla Trappola è sempre stata ben salda l’idea di appar-tenenza a un gruppo, alla comunità dove ognuno dà ciò che può e tutti usufruiscono dei beni condi-visi. Ed è proprio grazie a questo spirito di fratel-lanza che oggi la Trappola è ancora lì, pur avendo avuto tante occasioni per sparire. In particolare durante la seconda guerra mondiale, quando la signora Tassi, famiglia proprietaria della villa che ancora oggi sorge ai piedi del paese, venne a sa-pere che dal comando tedesco di stanza a Loro Ciuffenna era stato dato l’ordine di bruciare tutta Trappola. Senza pensare al rischio che stava cor-rendo, radunò gli uomini del paese e consigliò loro di dar fuoco alla faggeta che si trovava poco sopra le case. Convinti alcuni “amici” tedeschi a reggerle il gioco, mandò a dire che il fumo che si alzava dal bosco proveniva dall’incendio del-la Trappola che così si salvò. Grazie all’amore di questa donna quindi il paese non fu distrut-to e finita la guerra fu costruita l’opera per cui la Trappola è conosciuta ancora oggi: l’acquedotto. Questo è forse il simbolo per eccellenza che sin-tetizza lo spirito di collaborazione degli abitanti di questo posto. Dato che la richiesta d’acqua del paese era aumentata, un giovane prete, Don Da-rio Dragoni, trovò una nuova vena d’acqua e così, chiamando a raccolta almeno un rappresentante per ogni famiglia che viveva in paese, costruì l’ac-quedotto e affidò poi la gestione di questo bene comune al comitato dei cittadini che tutt’oggi se ne occupa e ne usufruisce. Ma ascoltando i rac-conti di chi alla Trappola ci ha vissuto per tutta

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la vita, di esempi di comunità e fratellanza se ne possono trovare tanti; come quella volta quan-do a una signora, che si era trasferita in paese da poco, si ruppero le acque in una notte d’inverno. La mattina dopo fu subito chiamata l’ostetrica che salì veloce dal paesino poco sotto, ma la strada era completamente innevata e non c’era modo di portar via la donna che doveva raggiungere al più presto l’ospedale. Fu così che i trappolini aguzza-rono l’ingegno e, dopo aver fatto salire la gestante su un carretto, iniziarono a buttare sulla strada qualsiasi cosa potesse far attrito fra le ruote e la neve, rendendola percorribile. Ascoltando queste testimonianze che gli abitanti raccontano con orgoglio si è spinti a riflettere sul fatto che queste sono tanto belle quanto d’antica data. Infatti anche quassù il tempo è trascorso ed è arrivato un momento in cui alle persone non è più bastato lavorare la terra per sussistenza, ma hanno sentito il bisogno di scoprire qualcosa di nuovo, scendere a valle per prendere parte a quel boom economico che stava avvenendo. Da allora tanti valori sono andati persi, e noi, per i quali il vicino di casa è il più lontano sconosciuto, non possiamo non apprezzare, e certamente rimpian-gere, quegli anni in cui forse anche la vita era più facile vivendo in comunità e non in quartieri alie-ni. ¶

ALCUNE VOLTE L’ISOLAMENTO È UN PREGIO, UN VAN-TAGGIO, PERSINO UN DESIDERIO. O ALMENO QUESTO È QUELLO CHE SEMBRA CONFERMARE TRAPPOLA

SPIRITOIDENTITARIO

TESTO DI VITO COGONI FOTO DI SALVATORE LUCENTE

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Come l’insularità non comporta au-tomaticamente l’isolamento, l’isola-mento non deriva soltanto dall’in-sularità. È un dato di fatto che vari studiosi hanno enunciato negli

anni, con tanto di tesi scientifiche a supporto. L’isola è certamente la condizione geografica ti-pica dell’insularità, ma le frontiere naturali di un territorio possono derivare anche da montagne o deserti, in grado, soprattutto in passato, di deter-minare la situazione economica e culturale delle popolazioni che ci abitano. Oggi i mezzi di tra-sporto sempre più dinamici e i mezzi di comu-nicazione ultraevoluti sono in grado di limitare fortemente i rischi di determinismo geografico e, conseguentemente, di emarginazione, ma viene da chiedersi: siamo sicuri che l’isolamento non sia anche un pregio, un vantaggio, persino un de-siderio? La frazione montana di Trappola, in To-scana, sembra confermare questa ipotesi. Il centro di Loro Ciuffenna, comune cui appartie-ne, dista solo 9 chilometri e 20 minuti di auto (in salita, in discesa molto meno), ma il borgo me-dievale sembra vivere in un mondo a sé. Immer-so tra castagneti secolari e cave di pietra, in esso si respira un’atmosfera speciale, quasi ancestrale, dove il tempo scorre lento e la pace regna sovrana. Un dislivello di 500 metri dalla valle che lo isola e lo conserva, lo estranea e lo protegge dal fluttuan-te mondo contemporaneo, dal moto continuo dell’uomo moderno, perennemente stressato, quasi insofferente, spesso insoddisfatto, incapace insomma di apprezzare le piccole cose della vita. Non c’è stress a Trappola, non c’è chiasso, non c’è, ovviamente, smog. Quei pochissimi, stoici abi-tanti che ancora popolano il borgo hanno scelto volontariamente di cancellare queste parole dal loro vocabolario. Sono rimasti in 7, cui si aggiun-gono coloro che, per un motivo o per l’altro, sono ancora bloccati a valle ma si materializzano ogni santo giorno, attirati, inconsciamente ma smisu-ratamente, dalla serenità di quella borgata antica. Che in estate cambia scenografia. Le finestre si spalancano, le panchine, rigorosamente spalle alla valle, si affollano, le viuzze si riempiono. Aumen-tano i rumori, crescono gli schiamazzi e trillano persino i telefoni cellulari. No, non è la Trappola reale, quotidiana, sincera. Eppure chi partecipa all’allegra vita agostana è spesso un trappolino decennale, a volte ventennale, persino trentenna-le. La loro visione del borgo è molto diversa dai 7 ‘montanari’. Il fine ultimo è sempre lo stesso: la pace dei sensi. Ma mentre per i trappolini doc è

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una costante che assume un sapore amarognolo durante l’interruzione estiva, per gli ‘stagionali’ è il momento di svago, ‘l’ora d’aria’, il lasso di tempo ideale per smaltire le tossine accumulate durante l’anno. E così si crea un civilissimo conflitto tra la genuinità degli abitanti e la scanzonata allegria dei villeggianti. Il paradosso è proprio che mentre questi ultimi vanno a Trappola per arraffare, esa-lare, conquistare un po’ di pace… la stessa beata tranquillità la tolgono ai pochi ostinati trappolini doc. Rattristati dallo spopolamento ma allo stes-so tempo fermamente contrari al turismo incon-dizionato, essi vorrebbero semplicemente mante-nere il vecchio spirito del borgo, la medesima e ineguagliabile quiete, il sempre più raro e brama-to silenzio. Vengono definiti conservatori, chiu-si, addirittura isolani. E probabilmente lo sono davvero: isolarsi lassù è come isolarsi dal mondo. Oggigiorno è un sogno che pochi condividono, e il rischio è che nell’arco di non tantissimi anni in inverno Trappola diventi un paese-fantasma. Ma esiste ancora qualche giovane temerario in grado di anteporre la pace alla frenesia contemporanea scegliendo questa felice isola nella montagna? ¶

MERENDEDI QUI GIULIA MARIA MONACI

GIULIA E’ LA CUOCA DEL VIN DE’ NUVOLI, L’UNICO RISTORANTE MERENDERIA DI TRAPPOLA, DALLO SCORSO ANNO HA COMINCIATO QUEST’AVVENTURA E ORA TUTTI I GIORNI ARRIVA NEL BORGO E PREPARA DELIZIOSE PIETANZE PER I SUOI OSPITI.

FOTO DI GIULIA CIPRIANI

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L avoro a Trappola dallo scorso anno. Faccio parte della coope-rativa che ha in gestione diverse strutture. In realtà io sono as-sunta come tutor in un’altra ma c’era bisogno e avevo piacere, soprattutto avevo già esperienza nel settore della ristorazione. Qui a Trappola è un lavoro estivo praticamente forse è an-

che per questo che non ho mai preso in considerazione un trasferimen-to qua. O forse perché vivo dall’altra parte della valle. E a Trappola vivi bene se ci lavori o se puoi lavorare da casa, perché in inverno fare avan-ti e indietro tutti i giorni è tosta, la strada è brutta e difficile. Io ho fatto queste cose, ma ero giovane. Fino a 20 anni ho vissuto a Firenze, poi ho cominciato ad andare a abitare in campagna, in posti un po’ difficili, fino a quando sono diventata mamma e ho scelto luoghi un po’ più semplici.¶

UN LIBRO, CUSTODITO NELLA LOCANDA DEL BOR-GO, RIPORTA I RICORDI DEGLI ABITANTI FRA QUESTI CI SONO ANCHE LE GESTA DI GIORGIO BARONI

Il marinaio poeta

TESTO DI FRANCESCA MATEROZZI FOTO DI GIULIA CIPRIANI E MARIA GIORGI

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Nei piccoli paesi i cognomi tendono a essere pochi e sempre gli stessi. I soprannomi diventano lo stru-mento necessario per riconoscersi tra gli abitanti del villaggio. Tra-

mite questo appellativo una persona verrà ricor-data senza il rischio di confusione alcuna. In un solo termine, un sostantivo, un aggettivo, sarà in qualche modo riassunta una vita che verrà tra-mandata non per quello che si crede di essere ma per quello che gli altri vedono come caratteriz-zante. Così può capitare che uno dei pochi artisti che hanno vissuto e lasciato un segno tangibile della loro opera nella frazione di Trappola venga chiamato il marinaio. Non ci è dato conoscere perché i suoi compaesa-ni abbiano preferito mettere in rilievo il fatto che Giorgino Baroni abbia fatto il marinaio piuttosto che chiamarlo il pittore o lo scultore, attività che poi ha caratterizzato tutta la sua vita. Magari il motivo potrebbe essere che fare il marinaio dove-va risultare curioso per chi viveva nelle montagne e probabilmente non aveva mai visto il mare. Di fatto è ricordato così, “quella è la casa del Marina-io” ci dicono in paese. Nell’unica locanda di Trappola è custodito un li-bro che riporta ricordi di molti abitanti del paese. In tanti raccontano la vita di alcuni loro cari. Un metodo tradizionale ma efficace per non perde-re memoria di una comunità che ormai non c’è più. Tra questi racconti troviamo anche quel-lo di Giorgino Baroni. Di lui si dice che fosse il quinto di sette fratelli. La madre ancora giovane si ammalò di spagnola, l’epidemia che tra il 1918 e il 1920 colpì quasi un miliardo di persone nel mondo e ne uccise 50 milioni; cinque volte di più di coloro che sono morti nel primo conflit-to mondiale. Non sappiamo se a quella tremenda pandemia la giovane donna sopravvisse, quindi non sappiamo se il nostro artista nacque duran-te la Prima Guerra Mondiale o durante i primi anni del fascismo. Sappiamo che il padre era co-nosciuto per essere una persona un po’ più colta della media del paese. Non solo sapeva leggere e scrivere ma oltretutto parlava e scriveva in latino, imparato durante un periodo passato in semina-rio. La storia del padre la racconta proprio il Ma-rinaio in quel libro trovato alla locanda. Quando Giorgino divenne adulto decise di parti-re volontario per la Seconda Guerra Mondiale. Si trovò, lui giovane uomo di montagna, imbarcato sul cacciatorpediniere R.C.T. Oriani della Regia Marina Militare Italiana. È facile reperire infor-

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mazioni su quella nave da guerra e scoprire che per tutto il conflitto si era continuamente trovata coinvolta in mille operazioni in tutti i porti italia-ni e delle varie sponde del Mediterraneo. Chissà che faccia e che impressioni avrà fatto il Marinaio quando si è trovato a contatto con persone di tan-te nazionalità e di tante lingue diverse, in un pe-riodo storico in cui era difficile capirsi anche tra italiani. Di lui si racconta che si trovò coinvolto in una battaglia al largo delle coste di Malta e si fece onore con azioni coraggiose. Per quella battaglia o forse per altri combattimenti, si trovo insignito di una medaglia, una Croce. Sembra che sia stato fatto anche Cavaliere. Anche se il suo nome non si legge nei libri di scuola contribuì comunque a farla.Tornato a casa non tornò ai lavori che abitual-mente si facevano in paese come il contadino, il carbonaio, l’operaio o altro ma decise di consa-crare la sua vita all’arte. Diventò pittore e scultore. Suo il crocifisso di bronzo che si vede in una delle viuzze del centro, come suo è il dipinto appeso in una delle chiesine di Trappola. Sembra che al Paese principale, Loro Ciuffenna, di cui Trappo-la è una delle frazioni, sia riuscito a fare almeno un paio di esposizioni. Ma i suoi compaesani non sono molto informati su questa parte della sua vita. Ancora si chiedono di che cosa vivesse, come si guadagnasse il pane per vivere. Forse i suoi conterranei hanno poco apprezzato la sua arte. Il fatto che guardino con una certa sufficienza al crocifisso in bronzo può far sorgere questo dubbio. Forse il fatto che uno dei paesani abbia tranquillamente dichiarato che il solo mo-tivo per cui il dipinto che si trova ancora in chie-sa è ancora lì è perché, essendo troppo grande, non sanno come farlo uscire per buttarlo via, leva ogni dubbio. Si sa che nessuno è profeta in patria, magari come tanti altri artisti ci sarà bisogno di tempo perché venga capito. Chissà. ¶

IL VOLODI BERTIL RICORDO DI HERBERT JOHN LOUIS HINKLER ALLA TRAPPOLA È QUASI SVANITO, MA PER GLI APPASSIO-NATI DELL’EPOCA PIONIERISTICA DEL VOLO AEREO, HINKLER NE È STATO UNO DEGLI EROI E LA SUA STO-RIA È OGGI PRESERVATA DA UN MUSEO E DA UN’ASSO-CIAZIONE A BUNDABERG, LA CITTADINA AUSTRALIA-NA DOVE ERA NATO NEL 1892.

TESTO DI GIANFRANCO BELGRANOFOTO DI GIULIA CIPRIANI

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Le leggende locali narrano che l’elica del suo aeroplano sia ancora custodita in qualche cantina della Trappola. Il ricordo di Herbert John Louis Hinkler, più noto semplicemente come Bert Hinkler, alla Trappola è quasi svanito, ma per gli appassionati dell’epoca pionieristica del volo aereo, Hinkler ne è stato uno degli eroi e la

sua storia è oggi preservata da un museo e da un’associazione a Bundaberg, la cittadina australiana dove era nato nel 1892. Asso della Prima guerra mondiale al servizio della Royal Naval Air Service, Hinkler è stato anche un inventore e un avventuriero dei cieli: una carriera segnata da due grandi trasvolate in solitaria, dall’Inghilterra all’Australia e dal Brasile all’Africa. Nel gennaio del 1933 era partito ancora una volta dalla sua base in Inghilterra per raggiungere l’Australia. Quella volta però l’impre-sa non gli riuscì. Sul Pratomagno un cippo ne ricorda la fine e le gesta, e le spoglie sono tutto-ra custodite nel Cimitero degli Allori di Firenze. La sua storia fu seguita anche dai giornali italiani, il regime gli concesse gli onori dei funerali di Stato, nessuno ha mai scoperto che fine abbia fatto l’elica del suo aereo. La carcassa fu trovata alcuni mesi dopo insieme al corpo senza vita di Hinkler. Ma dell’elica nessuna traccia. Il mistero resta, nonostante un appello fatto dal museo di Bundaberg nel 1998 e la pubblicazione di uno stu-dio sulle possibili aree in cui l’elica potrebbe essere caduta staccandosi. Resta la leggenda, quella che vuole l’elica in una cantina della Trappola. ¶

panchine

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FOTORACCONTO DI GIULIA CIPRIANI

SULLE STRADE DELLA QUIETEOGNI TANTO UNA PANCHINA

SI OFFRE PER IL RIPOSOPER GODERE

IL PANORAMA O PERMETTERE A CHI VIVE

NEL PAESINO DI SEDERSEFUORI DALLA PORTA

E CONVERSARE

panchine

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INTERVISTA COLLETTIVA DENTRO IL CIRCOLO ARCI PRATOMAGNO ALL’ ASSESSORE DEL COMUNE DI LORO CIUFFENNA, CON DELEGA SPECIFICA ALLE RELAZIONI CON LE FRAZIONI.

cosa e’per noitrappola

FOTO DI GIULIA CIPRIANI

RICCARDO GORI

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A Trappola da 50 anni c’è un ac-quedotto che viene gestito intera-mente dalla comunità del borgo che consente agli abitanti di que-sta frazione di Loro Ciuffenna di

avere a disposizione acqua buona a costi conte-nuti. Questa è un’esperienza che esiste soltanto a Trappola o no?

Per essere precisi l‘acquedotto consorziato com-prende tre frazioni: Trappola, La Casa e Casale. Nella montagna lorese sono presenti altri due consorzi Trevane la villa, Corgiti Modene, Pie-ravilla sono altre frazioni tra le 22 sparse nella montagna lorese che sono consorziate.Quindi abbiamo tre acquedotti privati all’interno del nostro comune, che non sono stati affidati aP-Publiacqua.

Trappola è un paese che si è spopolato dagli anni ’50 in poi passando da 300/400 abitanti a 10. A parte i pendolari, come comune avete delle politiche per ripopolare queste comunità montane?

È un discorso allargato un po’ a tutte le frazioni della montagna. Io ho una carta in cui era presen-te la popolosità montana al 1910. Solo alla Trap-pola c’erano 600 abitanti. Quello che poi è succes-so negli anni ‘60 è dovuto al boom economico, quando i residenti smettevano di fare i boscaioli, pastori e agricoltori per andare a svolgere lavori più redditizi. Noi siamo partiti da una riqualifica-zione del territorio. Il lasciare temporaneamente il luogo di origine ha sognificato per le frazioni le frazioni andare a finire nel dimenticatoio. I bor-ghi che una volta erano abitati si sono improvvi-samente ritrovati abbandonati, visto che ormai in pratica ci vivono solo 10 persone.La Trappola è una delle frazioni tenute meglio nella montagna, ma rimane un po’ fuori mano, quando nevica è la prima che i imbianca. Anche se abbiamo degli spalaneve coi fiocchi il borgo è molto difficile da raggiungere. Secondo il mio punto di vista fra dieci anni sarà più popolata… è una scommessa che mi sono posto come asses-sore. Anche se magari tra dieci anni l’assessore non sarò io. ¶

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L’IMPEGNO DELL’’ARCI TOSCANA SUL TEMA DELLA COMUNICAZIONE. NUOVE FORME DI NARRAZIONI IN CAMPO IN QUESTA COLLABORAZIONE.

GIORNALISMODAL BASSO

TESTO DI FRANCESCO GIANNONI FOTO DI ANTONIO CIPRIANI

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L ‘Arci Toscana da tempo ha iniziato ad impegnarsi sul tema della comunicazione. L’inizio è stato abbastanza “improprio” dato che la richiesta è venuta dai ragazzi impegnati nelle radio Arci, web ed f.m., che così sono diventate punti di aggregazione oltre che di informazione. Su questa sollecitazione è iniziata la collabora-

zione con l’associazione El Mastaba, con Antonio Cipriani e con il gruppo di lavoro che anima e dirige la rivista Globalist. Abbiamo organizzato se-minari e incontri con scrittori e artisti, prodotto materiali e trasmissioni. L’avventura di Trappola è scaturita da queste esperienze, dall’interesse di rac-contare una storia non comune di autogestione di un bene prezioso come l’acqua, e dalla voglia di lasciare qualcosa alle persone che questa esperienza la vivono. Ci è parso un buon modo di essere associazione, e un segnale di gratitudine per l’insegnamento che queste persone possono dare. Quale migliore scuola per ragazzi interessati a raccontare? E quali migliori mae-stri dei giornalisti che hanno condotto il laboratorio? Un ‘esperienza vera di giornalismo dal basso. Questa avventura si è resa possibile grazie alla colla-borazione di Coop Toscana, che ha capito l’importanza di valorizzare espe-rienze significative e produrre conoscenza vera. Al di là del lavoro desidero però ringraziare le persone, docenti e discenti, anche per il clima che hanno creato e per la piacevolezza delle relazioni stabilite. Un’esperienza non co-mune che, oltre al materiale, ha lasciato affetti, riconoscenza ed amicizia. ¶

il primo passo

DOPO LO SPAESAMENTO E IL POSIZIONAMENTO, AB-BIAMO DATO VITA ALL’INCONTRO E ALL’ASCOLTO. ABBIAMO ACCOMPAGNATO GLI EROI DI QUESTA EPO-PEA NEL LABIRINTO DELLA LORO CONSAPEVOLEZZA. E ANCHE DELLA FATICA, DEL FATTO CHE UN BORGO CON QUESTA PARTICOLARITÀ RISCHIA DI DIVENTARE UN VILLAGGIO TURISTICO, SENZA IDENTITÀ, SENZA ALCUN SENSO CIVILE SE NON UN PANORAMA E ARIA FRESCA.

TESTO DI ANTONIO CIPRIANIFOTO DI ANTONIO CIPRIANI E SALVATORE LUCENTE

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Pepe in cima alla salita abbaia al viandante che sale alla Trappola. Il comitato d’accoglienza, si scherza. Ma poi nel corso del tempo passato in questo borgo, ci si accorge che è di più. Questo picco-lo cane scorrazza per le viuzze, accompagna i camminatori che salgono verso il bosco, si incuriosisce di quelli che siedono sulle

panchine. Con spirito libero, dà l’esempio. Perché il primo passo è l’addio alle consuetudini, al modo di pensare un reportage, un servizio giornalistico, un’inchiesta. Quindi lo spaesamento, la perdita di sicurezza. Per riacquistare il passo incerto del viandante che percorre selciati ignoti, del barbaro che sbarca sulle rive di una terra straniera e lentamente la fa propria; traccia distanze, punti di riferimenti, costruisce sulla misura che occorre la mappa di quello che è e che per sempre sarà quella terra, paese, luogo, esperienza. Che poi è il secondo passo. Il primo perdersi; il secondo percorrere l’espe-rienza: a occhi spalancati, a cuore spavaldo e attenzione. Tracciare la rotta di narrazioni semplici, fatte di incontri, di storie che sembrano da poco e sono le storie del mondo. Sono la meraviglia delle esperienze comunitarie, della lotta di ogni giorno, della battaglia della vita e della morte. Poi comincia l’ascolto. Il mettersi nudi, tralasciare la propria realtà confor-

me (le esigenze, il filo conduttore delle certezze, tut-ti gli antidoti contro le paure del tempo), prendersi cura del fatto che un altro mondo è possibile. Anche e soprattutto laddove non batte mai il sole dei media, dove gli sconosciuti sono il sale di queste trame eroi-che quotidiane. E accade il miracolo. Le facce che hai davanti, rugose, diffidenti, sorridenti, antiche, stanche sfuggenti, sono le facce di una grandezza etica che si è fatta epos alla Trappola. Di una grandezza civile che ha scavato la sua traccia per sempre. Oltre a quella zappata a mano dai volontari, sul dal monte a scendere con le tuba-ture. Anche adesso che il luogo sacro della battaglia civile sembra dimenticato, preso da un abbandono che nel tempo è diventato consuetudine e parola che uccide i sogni: spopolamento. Noi, testimoni di quest’epoca, dopo il primo passo dello spaesamento e il secondo del posizionamento, abbiamo dato vita all’incontro e all’ascolto. Abbiamo accompagnato gli eroi di questa epopea nel labirinto della loro consapevolezza. Nel pensare identità, af-frontando con cuore puro il naufragio delle speran-ze. Con nuova forza e chiarezza per noi viandanti in cerca della via e per i protagonisti in cerca di risposte.Così, come tanti Pepe, ci siamo lasciati percorrere dal luogo e dagli incontri. Dall’emozione, dalle luci, dalla profondità e dal colore, dai fiori e dall’odore di castagne arrostite. Per la costruzione di un progetto di condivisione che potesse accogliere e dare misura alla grandezza dell’invenzione comunitaria dei trap-polini. Perché di questo siamo venuti a parlare, a scri-vere e testimoniare. Della memoria dell’acqua, bene comune, della resistenza. E anche della fatica, del fatto che un borgo con questa particolarità rischia di diventare un villaggio turistico, senza identità, senza alcun senso civile se non un panorama e aria fresca. Siamo venuti a raccontare la bellezza maestosa del passo nel bosco, della sorpresa, delle panchine per conversare e non per riposare. E poi la paura di Ro-berto, che tutto svanisca. Che la radice profonda, che va dal medioevo alla resistenza e poi alle lotte del bene comune, possa seccare nel gelo di un futuro senza il fuoco dell’identità e dell’orgoglio civile. Noi, giovani e giovanissimi, meno giovani, scrittori, stu-denti o fotografi, viandanti tutti, siamo qui a tracciare il solco della memoria che prosegue. Della resistenza e del coraggio. ¶

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Questo e-book è stato pensato, voluto e organizzatoda Padpadrevolution e El Mastaba su proposta di Arci Toscana e Fondazione il cuore si scioglie Unicoop Firenze..

Interviste, narrazioni, immagini sono state realizzate il 18, 19 e 20 ottobre 2013 a Trappola e Loro Ciuffen-na dal gruppo di lavoro di Trappola Lab

Creazione Grafica e impaginazione Valentina Montisci

Ringraziamo gli abitanti di Trappola che ci hanno accompagnato e guidato in questa storia. Francesco Giannoni, dell’Arci Toscana, Riccardo Gori, assessore del comune di Loro Ciuffen-na, l’Arci Valdarno, l’Arci Pratomagno, il ristorante merenderia Vin Dè Nuvoli