Il segreto di Ascanio

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Alessandro Prandini, giallo. Quale segreto si nasconde tra le pagine di un'agenda che Ascanio ha lasciato in eredità al nipote Lorenzo? E cosa nasconde la vita di Lucrezia, una bella gallerista di Bologna che viene trovata morta nella sua suite all'hotel Exodus durante i lavori di un'importante conferenza di architettura? Sono le domande a cui dovranno rispondere il commissario Scozia e la sua vice Sara Fiorentino per dipanare un'intricata e bizzarra matassa. Una vicenda che si svolge tra i portici di una Bologna autunnale "più ingannatrice di Dorotea, più sfuggente di Zaira, più misteriosa di Tamara".

Transcript of Il segreto di Ascanio

In uscita il 30/10/2015 (15,70 euro)

Versione ebook in uscita tra fine novembre e inizio dicembre 2015

(5,99 euro)

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ALESSANDRO PRANDINI

IL SEGRETO DI ASCANIO

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IL SEGRETO DI ASCANIO Copyright © 2015 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-925-8 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Ottobre 2015

Stampato da Logo srl

Borgoricco – Padova Questo libro è un’opera di fantasia. Qualunque riferimento a fatti, persone o luoghi è del tutto casuale.

L'odio è cieco, la collera sorda, e colui che vi mesce la vendetta, corre pericolo

di bere una bevanda amara.

Alexandre Dumas

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PARTE I

CAPITOLO I Credo che le parole siano importanti, mai sottovalutarne la forza. E non lo sono per loro stesse, ma per ciò che riescono a determinare nella vita delle persone. Sono come pietre preziose: serve la maestria di un artista per combinarle assieme, in modo che la creazione ultima, il gioiello, abbia in sé, moltiplicata all’infinito, la bellezza di ciascun elemento. Ma ancora non basta. È necessario che qualcun altro apprezzi il monile, riconoscendo nel suo splendore il sangue e la carne delle sue stesse emozioni. Così sono le parole. Non c’è eternità in loro se non gettano un ponte tra i cuori degli uomini. Bologna, un giovedì di fine settembre Scozia è in salotto seduto sulla sua poltrona di cuoio. Nonostante la temperatura esterna sia gradevole l’uomo è infastidito da un’antipatica sensazione di calura. Il commissario sa di non avere un motivo razionale per farlo, ma lui detesta il mese di settembre. C’è chi non ama l’uggia brumosa di novembre, chi, non reggendo il caldo, farebbe volentieri a meno dei mesi estivi, chi non sopporta le rifioriture primaverili. Scozia invece detesta settembre, quando il sole proietta ombre troppo lunghe, ombre che poi lasciano nei pensieri dei nodi difficili da sciogliere. «Non vorrai venire con quella», gli sta dicendo Daniela, la sua ex-moglie, che è davanti a lui, in piedi, e lo guarda dall’alto in basso. Le braccia sono piegate, puntate sui fianchi, le gambe appena discoste. Pieno assetto da guerriglia coniugale. Il quella è riferito a Sara Fiorentino, la vice di Scozia al commissariato Due Torri. Lui e Sara da qualche tempo hanno iniziato a frequentarsi. La loro relazione non è stata ancora ufficializzata, anche se, come spesso succede, c’è chi mostra di saperla piuttosto lunga sull’argomento, alimentando continui spifferi di voci che si rincorrono nei corridoi del commissariato. «Perché?» risponde l’uomo, più seccato dal tono della voce, che dal contenuto della discussione. La domenica successiva Marco, il figlio della coppia, dovrà disputare la finale

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di un torneo regionale di tennis. È la sua prima finale di una certa importanza. L’incontro si svolgerà al circolo dove Marco e il padre sono soci. Si gioca in casa, insomma. L’eccitazione del ragazzo per l’avvenimento è alta e, manco a dirlo, ha finito per contagiare anche i genitori che si preparano a presenziare alla partita pieni di orgoglio. «Come perché?» sbuffa la donna. «Non ho intenzione di spiegarti quello che a cinquant’anni suonati dovresti riuscire a capire da solo.» «A parte che non ho mai detto che sarebbe venuta anche Sara…» «Non voglio interferire nella tua vita, ma in questo caso si tratta di Marco. A vedere la partita domenica al circolo ci saremo tu e io. La discussione è chiusa.» Dopo aver atteso in silenzio un breve istante, la donna si dirige verso la porta dell’appartamento. «Ora vado», esclama senza girarsi. «Ci vediamo domenica.» Mentre il commissario considera il da farsi, il cellulare squilla. «Pronto!?» ruggisce l’uomo. Dall’altro capo una voce intimorita replica: «Sono Tranasi… disturbo?» Tranasi è uno degli ispettori della squadra del commissario. «È urgente?» prosegue Scozia ancor più infastidito dal fatto che Daniela è ormai uscita e con lei se ne è andata ogni possibilità di replicare. «No, ma…» «Allora me lo racconti lunedì.» «D’accordo capo.» Scozia getta con stizza il cellulare sul tavolino. Si dirige verso la credenza dove custodisce la scorta del suo brandy preferito, Lepanto Solera Gran Riserva. Ne versa un po’ in un bicchiere, poi torna a sedersi. Senza dimenticare la bottiglia. Il profumo del liquore e il calore dell’alcol gli distendono i nervi. Chiude gli occhi cercando di rilassarsi. Daniela magâra l'à la sô raṡån, mo quand l'adrôva quel môd1… Lasciamo stare, pensa. Guarda l’orologio. Dovrebbe essere a casa di Sara di lì a mezz’ora. Nonostante si renda conto di essere in ritardo, fatica a prendere la decisione di alzarsi. Porta nuovamente il bicchiere alle labbra, rimandando ogni altro impegno di qualche ulteriore istante. Lidi Ferraresi, giovedì verso sera La linea dell’orizzonte è indistinguibile, così confusa nell’abbraccio tra il grigio del cielo e la bruma ombrosa del mare. Lo stretto viale che costeggia il canale è deserto. Le luci dei lampioni sono ancora spente nonostante il giorno si stia ormai inaridendo. La Bonneville avanza leggera, colmando l’aria col sordo ansimo del motore.

1 Daniela magari ha anche ragione, ma quando usa quei modi

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Lorenzo, appena prima che la strada pieghi a sinistra per ritornare verso il paese, agisce con delicatezza sulla leva del freno sino a fermarsi. Si toglie il casco, gira la chiave dell’accensione. Assapora per qualche istante il silenzio assordante di quella periferia del creato, poi spinge la moto sul marciapiede di mattoncini rossi. Con gesto rapido, apre il cavalletto, su cui la Bonnie si appoggia mollemente. Classic T100, verde, cromata. Lorenzo l’ha acquistata usata tre anni fa. È l’unico vezzo a cui non vuole rinunciare in quel periodo confuso della sua vita. Lorenzo fa un passo, colmando così la distanza che lo separa dal bordo del naviglio. La superficie dell’acqua, screziata da un alito di brezza, lo confonde, quasi volesse nascondergli l’esistenza di un’insidia più profonda. Che ci faccio qui? si domanda. Avrebbe potuto essere in uno qualunque dei lidi che costellano quella parte di mondo in bilico tra terra e mare. In realtà non gli importa dove quel viaggio lo ha condotto, ciò che gli sta a cuore è la sensazione di libertà che prova quando è sulla moto, quasi che la velocità lo aiuti a tenere a distanza l’angustia che lo tormenta. L’uomo avanza fino a quando la punta dei piedi rimane sospesa nel vuoto, sopra all’acqua. Subisce senza opporvisi l’attrazione di quell’equilibrio precario. Basterebbe così poco: l’inclinarsi sconnesso del busto, il breve annaspare, il tonfo, il buio. Sì, ma poco per cosa? Il suo sguardo si solleva, consegnandosi all’irraggiungibile lontananza del mare. La mattina, partendo da Rovigo, si è riproposto di trascorrere la notte fuori casa, visto che Giorgia, la sua compagna, non vi rientrerà. Ha pensato che avrebbe potuto trovare una stanza in affitto per pochi euro, dove poter consumare un sonno profondo, senza sogni. Almeno quella fortuna non lo ha mai abbandonato: riesce a dormire otto ore e più senza inciampi o incubi. In base ai suoi progetti, l’indomani si sarebbe svegliato in un luogo senza memoria, sarebbe salito di nuovo in sella alla sua Bonnie e avrebbe raggiunto il mare. Mare che invece è già lì, a un passo, e ora ne sostiene lo sguardo. Lorenzo guarda l’orologio: manca una manciata di minuti alle otto, meglio affrettarsi. Prima però vuole sentire Giorgia. L’uomo seleziona il tasto di chiamata rapida dal cellulare. «Amore. Tutto bene?» gli chiede lei con una lieve sfumatura di apprensione. «Sì, piccola.» «Dove sei?» «Ho fatto un bel giro in moto. Ora sono al mare, ai lidi.» «Ma ormai è notte!» «Sì, lo so. Pensavo di fermarmi qui, trovare una camera…» «Amore, stai bene? Hai una voce strana.» «Sì, sto bene. Avevo solo voglia di sentirti.»

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Giorgia gli racconta della sua giornata, poi i due si salutano. Lorenzo, riaccesa la moto, raggiunge il lungomare. Percorre alcune strade scelte a caso, finché trova ciò che sta cercando: al termine di un viale contornato da alberi, nascosta tra le fronde di un pino marittimo, ecco l’insegna un po’ scalcinata di un albergo a due stelle. L’ingresso è illuminato, segno che l’hotel non ha ancora chiuso i battenti nonostante sia settembre inoltrato. L’uomo parcheggia, estrae da una delle bisacce di pelle lo zainetto in cui ha sistemato lo stretto necessario per la notte, quindi si avvia verso l’entrata. La stanza centodue è angusta: lo spazio è occupato da un letto solitario e da uno stretto armadio che porta evidenti i segni dell’età. Lorenzo appoggia lo scarno bagaglio a terra. Si distende sulla coperta azzurra, chiude gli occhi. Il silenzio è irreale. Con tutta probabilità sono l’unico cliente dell’albergo. Forse l’ultimo di questa stagione, dice tra sé. Pensa alla donna che poco prima lo ha accolto all’ingresso. La si potrebbe ritrovare senza sorprendersene in una pellicola di Fellini: grandi occhi dal colore indecifrabile, labbra vermiglie piegate in un sorriso sornione, seno prosperoso. «Buonasera. C’è una stanza singola disponibile?» aveva chiesto Lorenzo avanzando attraverso la luce ambrata dell’ingresso. La donna lo aveva guardato senza rispondere, ravvivandosi i capelli biondo cenere con un gesto da attrice navigata. Lui era rimasto in attesa, ricambiando il sorriso. Se non fosse stato per il movimento della mano che aveva sospinto all’indietro una ciocca fintamente ribelle, Lorenzo avrebbe potuto dubitare di trovarsi di fronte a un essere vivente. L’aria era rimasta immobile per alcuni lunghi istanti, poi, all’improvviso, la donna si era girata su se stessa e aveva afferrato una chiave consegnandola all’ospite. «Centodue. Rimane per molto?» gli aveva sussurrato. A Lorenzo era venuto da ridere pensando che, forse, ne aveva disturbato il letargo. «Solo stanotte», aveva replicato, abbassando anche lui il tono. La donna aveva annuito, null’altro da dire o da chiedere, neppure i documenti. L’uomo, per non recare ulteriore disturbo, si era guardato intorno in cerca di un indizio che gli potesse suggerire la direzione da prendere. Si era avvicinato all’ascensore, sulla cui porta era però appeso un cartello con la scritta “ROTTO”. Aveva allora imboccato le scale. Lungo le pareti erano appese vecchie stampe ingiallite, non era chiaro se dall’arte del fotografo o come conseguenza dello scorrere del tempo. Lorenzo, ascoltando il riverbero dei suoi passi, non aveva potuto evitare di pensare come in quell’albergo ogni cosa rimandasse un perenne riflesso di fine stagione. Una sensazione simile l’aveva provata più di vent’anni prima, durante la sua

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prima vacanza senza genitori. In una misera pensione di Riccione, tra le pareti segnate da una quotidiana caccia alle zanzare, Lorenzo aveva smarrito l’illusione che il mondo possa essere perfetto, che gli amici non debbano mai deluderti, e anche la sua verginità. Giacomo, detto il Ragno, anche se nessuno conosceva il perché di quel ridicolo nomignolo, li aveva convinti di avere gli agganci giusti per trovare una buona sistemazione a poco prezzo: cinque amici, la metà più affiatata della squadra di calcio del paese, erano così partiti alla volta della Riviera sotto l’occhio vigile di un sole infuocato. Come prevedibile, le millantate conoscenze del Ragno si erano rivelate una bufala solenne. La pensione si era dimostrata una frode all’ospitalità, tanta era la tristezza che emanava, la scarsa cura dell’igiene, l’ambigua frequentazione. In fondo, però, ai cinque ragazzi assetati di vita la cosa non era importata granché, e neppure a Lorenzo che, unico tra tutti, era riuscito a portarsi in camera una donna conosciuta una sera alticcia di birra. Il nome, a dispetto dell’alcol, se lo era impresso bene nella mente: Claudia. Nei giorni successivi al loro unico incontro, Lorenzo aveva pensato spesso alla ragazza, al suo corpo sodo e abbronzato, al suo fare esperto, e più avanti negli anni si era persino chiesto dove fosse, cosa fosse diventata, pur sapendo con certezza che non avrebbe potuto trovare alcuna risposta alle sue stupide domande. Lorenzo riapre gli occhi, rendendosi conto di essersi assopito. Rimane per qualche minuto a osservare le ombre proiettate sul soffitto dal lampadario, poi cerca di sollevarsi, senza tuttavia riuscire nel suo intento. Gli ordini che il suo cervello impartisce al corpo paiono perdere autorità ben prima di raggiungere la periferia cui sono destinati. Quel senso di costrizione, però, piuttosto che sconfortarlo o, peggio, preoccuparlo, gli infonde un bizzarro senso di sicurezza. Seppur vagamente, gli ricorda quando, da piccolo, il padre lo circondava con le sue braccia possenti stringendolo a tal punto da impedirgli ogni movimento. E dentro quell’abbraccio lui si abbandonava ridendo. La suoneria del cellulare che lo avverte di un messaggio in entrata riporta l’uomo alla realtà: è Giorgia che gli augura la buonanotte. Lorenzo risponde, poi si alza, prende una busta dallo zaino, ne estrae il contenuto: una serie di fogli piegati a metà e un’agenda con la copertina in similpelle nera. Circa un mese prima Lorenzo aveva ricevuto la telefonata di un avvocato di Bologna, il quale lo aveva informato di essere in possesso di alcuni documenti appartenuti a uno zio morto da alcune settimane. «Per lui ho seguito alcune pratiche tempo fa», gli aveva raccontato l’avvocato con voce arrochita dagli eccessi di sigarette. Ascanio, quello era il nome dello zio, si era presentato nel suo studio tre mesi avanti chiedendogli di conservare per qualche tempo una busta. Una richiesta forse un po’ insolita, ma così erano andate le cose e comunque, ora, a seguito del decesso, quei documenti appartenevano a lui, visto che era il parente più prossimo.

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Lorenzo fruga con avidità nella memoria alla ricerca di un ricordo di Ascanio. Non si può dire che lo conoscesse bene, anzi, tutto ciò che riesce a mettere a fuoco risale a quando era bambino. A quel tempo lo zio frequentava la casa dei suoi genitori con una certa assiduità, di questo è certo. Poi, d’un tratto, era come svanito. «È partito», rispondeva la madre alle domande di Lorenzo, e lo faceva col fastidio astioso di chi non voleva essere disturbato oltremisura da questioni che considerava chiuse. Quell’assenza si era così andata affermando come lo stato di normalità, come se di quell’uomo tutti avessero perso le tracce tacendosi l’un l’altro i motivi per cui avevano voluto farlo. Dopo alcuni anni di vuoto, Ascanio aveva fatto di nuovo capolino nella sua esistenza in quel modo bizzarro: l’annuncio della morte, le scartoffie da firmare per sbrigare le formalità di un’eredità tanto inaspettata quanto indesiderata, la busta gialla e, al suo interno, l’agenda. All’inizio Lorenzo non le aveva dato che una rapida occhiata, poi intendendo prendere una decisione su cosa farsene le aveva dedicato maggiore attenzione. Su quelle poche pagine, con uno stile a tratti essenziale, Ascanio aveva redatto una sorta di resoconto di un viaggio fatto a Bologna all’inizio di quello stesso anno. Dopo aver letto la prima parte dello scritto, Lorenzo aveva pensato che suo zio avesse voluto intraprendere una sorta di pellegrinaggio della memoria nei luoghi della gioventù, poi però si era reso conto di come tra quelle righe si celasse qualcosa di più profondo: vi aveva colto l’intima necessità di Ascanio di ritrovare le fila di un passato ormai sepolto, l’ansia di riuscire a far chiarezza su un evento legato alla sua giovinezza. Aveva quindi deciso di rileggere tutto con più calma. Già nella prima pagina dell’agenda, sembrava che Ascanio volesse affermare qualcosa di decisivo. Già, ma cosa? (Dall’agenda di Ascanio) Le parole contano. Partendo da quella breve frase Lorenzo si era posto subito una domanda: chi era il destinatario ultimo di quelle parole di cui veniva sottolineata l’importanza? Certo non lui: quell’agenda gli era stata recapitata solo in seguito a un evento impossibile da prevedere, considerando che lo zio era morto di morte naturale. Lorenzo prende il libretto, lo trattiene chiuso nelle sue mani, soppesandolo, quasi intenda stabilire il valore di ciò che vi è contenuto misurandone il peso. Che sia una specie messaggio nella bottiglia che ha navigato nell’oceano del mondo sino a me? si chiede. Dopo aver indugiato ancora qualche istante, apre l’agenda concentrandosi nella lettura. Quando, il giorno seguente, Lorenzo apre gli occhi, il mattino si sta già

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esaurendo. La stanza è inondata da una ruvida luce dorata proveniente dall’esterno. L’uomo, prima di risolversi ad affrontare la giornata, trattiene a lungo il proprio sguardo al di là della finestra: una cornice imbronciata che imprigiona con naturalezza l’azzurro di un cielo solo a tratti distratto dal chiarore di una nuvola. Al banco del piano terra, il donnone che lo ha accolto la sera innanzi non c’è più. Al suo posto, una ragazza dall’aspetto emaciato lo guarda avanzare con espressione corrucciata. «Ero nella centodue», dice Lorenzo. La ragazza annuisce, poi, con un filo di voce, gli comunica qual è il prezzo della stanza. Lorenzo, dopo aver appoggiato il denaro sul banco, esce. Salta sulla Bonnie, si incammina alla ricerca di un bar. Procede con andatura quieta. Si sorprende nel vedere ancora qualche turista camminare spedito in direzione del mare. Suppongo che il prossimo sarà l’ultimo week end dell’estate, considera tra sé. Un’Ape lo supera barcollando. Lorenzo arresta la moto sotto l’insegna bianca e verde del bar Jenny. Fuori dal locale, al riparo di un pergolato malconcio, pochi tavolini ospitano alcune persone anziane intente alla lettura dei quotidiani. Dopo aver ordinato un cappuccino, Lorenzo si sistema nell’ultimo tavolo rimasto libero. Da quella posizione, appena rialzata rispetto al piano della strada, si possono osservare gli stabilimenti balneari chiazzati di colori. Lorenzo vorrebbe telefonare a Giorgia, ma sa che a quell’ora lei è già al lavoro, e certo la disturberebbe. Estrae il cellulare dalla sacca, indeciso sul da farsi. Nota sul display l’icona che indica l’arrivo di nuove email. In effetti, ci sono due messaggi non letti. Il primo è quello di un editore che gli comunica il suo disinteresse per il manoscritto ricevuto. Buonasera, le scriviamo per comunicarle che il testo inviato non rientra nei nostri piani editoriali. Un saluto Lorenzo confronta mentalmente il testo della missiva con quello degli altri tre rifiuti ricevuti nei mesi precedenti: sono fin troppo simili, una sorta di litania. Lui ama scrivere. È stato così sin dai tempi della scuola, tanto che dopo la maturità ha preso in seria considerazione la possibilità di iscriversi alla facoltà di Lettere, anche se poi ha deciso di percorrere una strada differente. Si è sempre cimentato con racconti brevi ottenendo in genere ottimi apprezzamenti. Negli ultimi due anni, spinto da quella che considera soprattutto una sfida con se

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stesso, ha scritto un romanzo, un romanzo breve in realtà, che poi ha inviato ad alcune case editrici per una valutazione. Non che si aspettasse granché, visto che il manoscritto non tratta argomenti, per così dire, alla moda, ma a ogni risposta negativa il suo cuore subisce un sussulto di delusione. Pazienza, si dice. Il secondo messaggio contiene invece una buona notizia. Sei mesi fa, quando il suo contratto a termine è scaduto e non è stato rinnovato, Lorenzo ha inviato il suo curriculum ad alcuni nominativi. Lui è un restauratore, specializzato nell’attività di recupero e conservazione degli affreschi, ed è anche piuttosto quotato nel suo lavoro. È un mestiere che adora, anche se si rende sempre più conto di come sia una professione messa in disparte dai venti della crisi economica. Durante i sei mesi d’inattività si è chiesto spesso se non avesse sbagliato tutto, sbagliato a scegliere una professione certo piena di attrattive, ma anche in perenne ostaggio dell’incertezza. L’email è la prima risposta che riceve: una fondazione lo invita a mettersi in contatto con la segreteria per concordare un incontro. Nel messaggio si fa riferimento a una campagna di restauro conservativo del patrimonio artistico di alcune chiese rurali della provincia bolognese finanziata per intero da capitali privati. L’inizio dei lavori è previsto per il tardo autunno. Certo non sarò l’unico candidato, pensa, ma la proposta è interessante. Mentre un ragazzo vestito con un’uniforme sgualcita gli serve il cappuccino, Lorenzo compone il numero indicato nell’email. Dopo alcuni squilli, una voce registrata lo avverte che la segreteria è aperta solo di pomeriggio. Chiamerò più tardi, decide. «Mi scusi…» dice poi, cercando di richiamare l’attenzione del cameriere che indugia all’esterno. «Dove posso trovare un distributore di carburante?» Lorenzo annota mentalmente le indicazioni che gli vengono date, quindi paga la consumazione. Ora è meglio sbrigarsi: alle quattro inizia il turno alla birreria in cui tre giorni la settimana presta servizio come barman. Quell’impegno, oltre che a costituire il suo unico introito, lo aiuta a evadere dallo stato di apatia in cui è precipitato negli ultimi tempi. È stata Giorgia a convincerlo a chiamare il numero apparso su un annuncio trovato per caso leggendo un giornale. «È solo un lavoretto provvisorio», gli ha detto lei, guardandolo con quei suoi occhi neri e profondi. Lui, dopo alcune ritrosie, ha ceduto. A seguito del primo contatto telefonico, lui e Giorgia sono andati a parlare con il proprietario dell’esercizio, Carlo. Sono bastati pochi minuti per raggiungere un accordo: Lorenzo avrebbe lavorato nella birreria come barman, tre giorni alla settimana, dalle sedici a mezzanotte. Tutto in nero. Carlo, detto Bisso, è un uomo schietto, sempre pronto alla battuta nonostante la

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vita gli abbia mostrato il suo lato peggiore. Il suo primo figlio e sua moglie sono morti in un incidente stradale: una sera qualsiasi di un rigido inverno qualsiasi, avvolta dal manto melmoso di una nebbia inestricabile, l’auto guidata dalla donna ha terminato la sua corsa contro un albero. A partire da quel tragico momento, la vita di Carlo si è svolta senza eccezioni all’interno del locale, quasi che tra quelle mura lui abbia trovato un’illusione di sicurezza a cui aggrapparsi per mettersi al riparo dagli inganni della vita. Rovigo, venerdì sera Sono quasi le otto quando la chioma ribelle di Giorgia fluttua decisa attraversando la porta d’ingresso della birreria. Gli occhi scuri della donna scrutano con attenzione i pochi avventori, tutti concentrati a guardare la tv satellitare e a godersi il fresco asilo che solo un boccale di birra spillato con cura può concedere. Quando infine si soffermano sull’uomo in piedi dietro il bancone che con aria trasognata agita uno strofinaccio nell’improbabile intento di asciugare un paio di bicchieri, in quell’istante, quegli occhi s’illuminano. Giorgia avanza col suo passo cadenzato inducendo un fremito d’attenzione nei presenti. «Ciao amore», dice appena è abbastanza vicina a Lorenzo. L’uomo le sorride, ricambiando il saluto. Giorgia si siede su uno degli sgabelli, appoggia la borsa di pelle sulla superficie screziata del banco. Tra i frangenti capricciosi della capigliatura corvina si intravedono due pendenti ornati di pietre multicolori. «Ho fame», afferma, appoggiando gli avambracci sul legno. «Che propone la cucina?» «Le solite schifezze», risponde Lorenzo strizzando l’occhio. «Vuoi una birra?» «Scura», conferma la donna. L’uomo inclina con dolcezza un bicchiere facendo scivolare al suo interno il rivolo caliginoso che fuoriesce dalla spina. «Se avessi venti anni di meno che ti farei…» esclama una voce dal timbro profondo proveniente dalle spalle di Lorenzo. È Bisso che esce dalla cucina. Tra lui, Lorenzo e Giorgia si è in breve tempo instaurato un rapporto di grande confidenza, tanto che ormai l’oste li definisce i miei ragazzi. «Ciao Bisso. Come stai?» risponde Giorgia tutt’altro che imbarazzata dalla battuta. «Ma scolta», prosegue Bisso ignorando la domanda, «come ti è venuto in mente di metterti con ‘sto mona. Con tutti gli uomini che ci sono in giro.» «Lo so Bisso, ma al cuor non si comanda.» «Ma ti sei fatta almeno un amante?» «Mi sto guardando attorno. Sai, è complicato…» «Mi raccomando», conclude l’uomo, dando poi una sonora pacca sulla spalla a

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Lorenzo e facendo così vacillare il bicchiere ormai pieno. Poi, considerando chiusa la chiacchierata, o forse ricordandosi di avere altro da fare, gira le spalle per rientrare in cucina. Lorenzo, ormai abituato a quegli scambi di battute, non commenta, limitandosi a piegare la bocca in una smorfia di insofferenza. «Ho un paio di novità da raccontarti», dice consegnando a Giorgia il boccale da cui tracima un invitante rivolo di schiuma. Lei beve un sorso del liquido fresco, incitando il compagno a parlare con un gesto della mano. Lorenzo esce dal banco, prende un altro sgabello, si siede. «Un colloquio di lavoro», dice mostrandole il messaggio ricevuto. Giorgia, dopo aver letto con attenzione, esclama: «Bisogna brindare!» «Calma, meglio non farsi troppe illusioni. Però una birra la bevo volentieri», replica l’uomo allungando il braccio per prendere un bicchiere. «Ma che illusioni. Affascinerai tutti col tuo entusiasmo e il lavoro sarà tuo. Lo sento.» «Salute», esclamano le due voci all’unisono. «Hai già provato a chiamare?» domanda Giorgia. Lorenzo ha telefonato poco prima di arrivare al lavoro. L’appuntamento è stato fissato: martedì 11 ottobre, alle tre del pomeriggio, presso la sede della fondazione che si trova in centro a Bologna. Giorgia è contenta di avvertire che il suo uomo ha finalmente ritrovato il piacere di assaporare quell’energia positiva che solo la prospettiva di un nuovo progetto può trasmettere. Forse quell’occasione può rappresentare per Lorenzo il pretesto per ritrovare un po’ di fiducia in se stesso. «Molto bene», dice lei, «però mi avevi parlato di un paio di notizie.» «Sì, in realtà non so ancora…» «Forza!» Lorenzo le racconta di aver riletto con attenzione l’agenda di Ascanio e non nasconde la curiosità che quella storia ha suscitato in lui. Le racconta della sensazione che ha provato leggendo quelle pagine, del piccolo mistero che crede vi si possa nascondere. Lui potrebbe cercare di svelare l’arcano, magari traendone l’ispirazione per la trama di un nuovo romanzo. «Un libro?» «Dici che sogno a occhi aperti eh?» «No, anzi. Potrebbe essere un’idea…» Lorenzo varca la porta del piccolo appartamento che condivide con Giorgia, cercando di non fare rumore. Dalla sala da pranzo gli giunge nitido il brusio della televisione accesa. Anche la luce lo è. Con gesto istintivo guarda l’orologio: l’una e quaranta. È strano che Giorgia sia ancora sveglia. «Lorenzo?» sussurra una voce assonnata dal fondo del corridoio.

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«Sì, sono io.» L’uomo raggiunge la stanza dove la compagna lo attende sfregandosi gli occhi con le mani serrate a pugno. Sembra una ragazzina imbronciata. «Che fai ancora in piedi?» le chiede. «Ti aspettavo. In verità mi ero addormentata…» Lorenzo le prende una mano: «Andiamo a dormire.» «Aspetta. Ho una cosa da dirti.» L’uomo si siede sul divano in attesa che lei termini di stiracchiarsi. «Riguarda il tuo appuntamento per il colloquio.» «Dimmi», la incita l’uomo incuriosito. «Visto che mi avevi detto di voler approfittare del viaggio a Bologna per fare qualche ricerca a proposito di tuo zio, ho telefonato a un amico. Vive in città. Mi ha detto che non ha problemi a ospitarti per un paio di giorni. Inoltre, essendo giornalista, potrebbe esserti d’aiuto.» Il cellulare aveva squillato a lungo. Andrea aveva continuato a guardarlo con sospetto senza tuttavia decidersi a rispondere, quasi si trattasse di un ordigno sul punto di detonare. Il display indicava che il numero del chiamante non era tra quelli compresi nella rubrica e Andrea non gradiva ricevere telefonate da sconosciuti. Per principio, o solo per indolenza. Al terzo tentativo aveva però ceduto all’insistenza. «Pronto?» aveva detto cercando di assumere un tono professionale che, però, si era dissolto non appena Giorgia si era fatta riconoscere. «Ma come? Non hai più il mio numero?» lo aveva rimproverato lei. «Veramente il tuo numero ce l’ho, e non è questo.» «Hai ragione, ti sto telefonando dal fisso di casa», aveva detto lei ridendo. I due si erano conosciuti anni prima durante una conferenza. Da allora si erano rivisti solo poche volte, anche se a cadenze più o meno regolari. Di solito in corrispondenza di un compleanno o di un’altra ricorrenza si scambiavano una telefonata. «Sono mesi che non ci sentiamo.» «È vero», aveva convenuto Andrea, «ma ultimamente ho avuto qualche problema.» Il ragazzo le aveva raccontato di ciò che gli era capitato durante un’inchiesta giornalistica, di come fosse rimasto in coma parecchi giorni, ma anche di come si fosse ristabilito alla perfezione. «Ora sono quasi una celebrità a Bologna e comunque troverai tutte le notizie sulla mia pagina Facebook», aveva concluso ben conoscendo l’avversione di Giorgia per qualsiasi social. «Quindi ora stai bene?» aveva domandato lei sorvolando sulla provocazione. «Sì… E dal fatto che siamo ancora piuttosto lontani da Natale, deduco che tu mi abbia telefonato per un motivo specifico. O morivi solo dalla voglia di sentire la mia voce?»

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Giorgia gli aveva allora raccontato del progetto di Lorenzo. «Certo che lo posso ospitare», aveva concluso Andrea. «Digli di chiamarmi quando arriva in città.» Lorenzo, seppur infastidito da un accenno di gelosia causata dalla confidenza mostrata da Giorgia con un altro uomo (peraltro fino a quel momento a lui sconosciuto), ascolta con attenzione la descrizione della telefonata, poi aggiunge il numero del giornalista alla rubrica del suo cellulare. Notando che sul piccolo tavolino posto a lato del divano è appoggiata, aperta, l’agenda di Ascanio, chiede: «L’hai riletta anche tu?» Giorgia annuisce: «Mi hai messo talmente tanta curiosità addosso che non ne ho potuto fare a meno.» «Che ne dici?» «In realtà ne ho lette solo cinque, sei pagine prima di crollare.» Fa una breve pausa in cui sembra inseguire il filo di qualche pensiero, poi prosegue: «Ma devo ammettere che la cosa è piuttosto bizzarra.»

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CAPITOLO II Bologna è una città che ama se stessa più d’ogni altra. Negli spigoli chiazzati dei corrimano nodosi, lungo i budelli contorti delle sue viscere anguste, sotto gli archi molli delle sue membra laide. Più ingannatrice di Dorotea, più sfuggente di Zaira, più misteriosa di Tamara. Se tu ne volessi afferrare l’essenza, non nel senso delle parole dovresti cercare, né nei segni, né nei suoni. Libero da ogni maschera, calpesta il ciottolo delle sue strade: lì s’annida il suo senno, memoria degli uomini che quei varchi hanno percorso. Poi lasciati le sue mura alle spalle. Vattene, senza volgere il capo. Bologna, sabato pomeriggio Lucrezia ne ha abbastanza. Fa le ultime raccomandazioni a Bea, la sua fidata collaboratrice, poi esce dalla galleria d’arte. Alla donna piace il suo lavoro, a volte carico di difficoltà, ma anche così affascinante nel suo essere sempre in bilico tra passato e presente, tra cultura e affari. Negli anni si è costruita una solida reputazione di esperta d’arte, tanto che l’attività della galleria ha risentito in modo trascurabile del periodo di crisi economica. I progetti aperti sono molti e tutti impegnativi. Il più imminente è l’inaugurazione di una mostra organizzata per il lancio di un giovane artista ferrarese, un pittore di buon talento, e anche ben sponsorizzato. L’aria del centro di Bologna profuma di fine estate. Il rumore delle auto a tratti è assordante, ma Lucrezia non ci fa caso. È piuttosto la luce ad attrarla, come se il suo aspetto decadente fungesse da catalizzatore per quella sensazione di vuoto interiore che lei ha cercato di controllare per tutto il giorno. La donna ormai conosce alla perfezione il modo con cui quel vuoto si manifesta: all’inizio non è che una sensazione di fastidio, come se il mondo le stesse troppo appresso. Poi pian piano quegli spiccioli d’ansia si trasferiscono dentro di lei, addensandosi in un vortice che finisce per monopolizzare ogni altra emozione. Non saprebbe dare un nome a quella cosa. Nulla a che vedere con la malinconia o con la tristezza, piuttosto una sorta di frustrazione, così ampia da non avere direzione, e quindi soluzione, così rarefatta da rimanere inafferrabile, seppur reale e percepibile con esattezza. Lucrezia si dirige verso il posteggio dov’è solita lasciare l’auto. Mentre cammina scorge gli sguardi degli uomini posarsi su di lei, ne percepisce la

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consistenza. Elude con destrezza le attenzioni di un uomo che, mentre attendono il verde a un passaggio pedonale, cerca di attaccare bottone. Raggiunta la macchina, la donna si immette nel traffico non ancora congestionato. Pur guidando senza fretta, raggiunge in breve tempo la casa dove abita col marito Bramante. La villa è situata fuori città, in direzione della collina. La grande tenuta è lambita dalle prime propaggini di un folto bosco. Bramante, architetto di fama, l’ha acquistata una ventina di anni fa e ne ha organizzato personalmente i lavori di restauro, fino a restituirle il sopito splendore. Dietro il cancello elettrico che si apre con pigrizia, Mercurio, il cane di casa, abbaia e scodinzola per festeggiare il rientro della padrona. Lucrezia lo guarda con occhio amorevole. Continua poi a osservarlo attraverso gli specchietti, mentre il Labrador insegue l’auto che avanza lungo il viale d’ingresso. Nell’abitazione regna un silenzio assordante. Gli operai che da una settimana stanno sconquassando la quiete di casa con il loro andirivieni, con i loro dialoghi urlati in lingue quasi straniere a loro stesse, sono assenti. Bramante è a Roma per un viaggio di lavoro. Non c’è nessuno. Nessuno da salutare o da baciare. Nessuno con cui scambiare due parole. Solo lei a sostenere il peso di quell’ombra che le monta dentro. Lucrezia percorre l’ampio scalone che dà accesso al piano superiore. Sotto i tacchi sente stridere i residui polverosi prodotti dai lavori di ristrutturazione. Sa con precisione cosa farà da quel momento in avanti. Non può esimersi dal recitare quella parte: il copione è scritto e lei ripete i suoi gesti con incrollabile sicumera. Una sessione di corsa di un’ora, seguita dai consueti esercizi in palestra. Da anni allena il suo corpo a combattere le fiacchezze della maturità. Poi dedicherà a quel corpo le sue attenzioni: un lungo bagno ristoratore, un massaggio sulla panca a rulli. Si strofinerà la pelle abbronzata con un olio dall’aroma speziato. Infine, trasformerà la Lucrezia che tutti conoscono nella tenebrosa copia di se stessa. Dissimulerà la lunga chioma rossa sotto un caschetto di capelli finti, neri e lisci. Modificherà la forma degli occhi attraverso l’uso sapiente di un trucco rigoroso. Impreziosirà le labbra con un tocco di rossetto scarlatto. Indosserà l’abito scuro con la fascia incrociata sul collo a sostenere le coppe dei seni. Sa quanto l’ampio decolté e la schiena nuda sino ai margini dell’ignoto ne sottolineeranno il fascino misterioso. Finalmente, giunta la notte, salirà su un taxi per raggiungere la sua meta: un locale del centro città in cui, tra i fumi dell’alcol, tra gli echi di desideri svelati, compirà il suo rito sacrificale, sciogliendo quel suo gorgo interiore nelle spire di

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un amplesso liberatorio. Là dentro, in quel buio complice, lei non sarà altro che Siria. Senza storia, senza futuro. Creazione nata per recitare dentro pochi istanti appena imbrattati di presente. Fuori, Mercurio guaisce in solitudine. Bologna, sabato notte Il locale è pieno. Un’umanità tanto varia quanto possono esserlo le sfumature del desiderio. Sul palco, un quartetto jazz esibisce uno swing scivoloso, tenuto a distanza con consumato mestiere. Lucrezia è seduta a un tavolo, sola. Ha già dovuto scansare le attenzioni di tre diversi cacciatori: evidentemente il suo corpo, quella sera, profuma di sesso con innegabile risolutezza. Ma non è ancora il momento. Il tempo è essenziale. Cadenza con precisione il carosello delle nostre azioni. È inutile cercare di sopraffarlo. Lucrezia lo sa, e per questo sottostà alle sue regole. Un drink, poi un altro ancora, sola. Sguardi gettati con noncuranza a evitare altri sguardi ingordi di un cenno d’intesa. È consapevole, tutti lo sono, che alla fine lei non uscirà sola dal locale, ma il tempo della scelta non è ancora giunto. La solitudine che sarà ammessa al cospetto della sua, colui che cercherà di annullare la tenebra che le è cresciuta dentro, devono avere pazienza, cogliere l’istante con intuito o fortuna. Gli strumenti hanno smesso di suonare. Solo la batteria è rimasta a ritmare una soffice cadenza che pur va smorzandosi, finché anche lei ammutolisce dietro un ultimo palpito. I musicisti si alzano, compunti dentro le loro uniformi gessate. Fa caldo in quella grotta celata tra le cosce sornione di Bologna. Lucrezia fa un cenno a un cameriere che si avvicina lesto e sorridente. «Un altro, per favore», mormora la donna. Poi si alza per dirigersi con passo misurato verso la toilette. Non ne sente un reale bisogno, neppure deve sistemarsi il trucco ancora perfetto, ma piuttosto sa che lo spettacolo ha le sue regole e quel momento, orfano della musica, esige che lei reciti la sua parte. Lucrezia attraversa la sala. Due ragazzi giovani in cerca di emozioni si danno di gomito. Altri uomini la osservano, infrangendo lo sguardo tra le volute della scollatura. Il cameriere, ormai sordo a qualsiasi suggestione, scivolando negli interstizi che si aprono tra i tavoli, sostituisce il bicchiere vuoto con un altro colmo di una bevanda color amaranto. Quando Lucrezia ritorna al suo posto la musica ha ripreso a fluire. La donna controlla l’ora: l’una. Sorseggia con indolenza il drink. E, finalmente, si guarda attorno.

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Sfiora le esistenze altrui con sapiente destrezza. Senza urgenza. Qualcuno, avvertendo che il segnale è stato dato, cerca di incrociarne gli occhi. Lucrezia intravede una sagoma al margine estremo del banco del bar. Porta il bicchiere alle labbra in modo da dissimulare la curiosità che l’ha indotta a soffermarsi su quella figura. Si nota appena la barba incolta su un volto ancora giovane. L’uomo sembra assorto. Davanti a lui langue un bicchiere vuoto. Lucrezia prova a pensare ai tormenti che l’uomo ha appena cercato di diluire nell’alcol. Li immagina simili ai suoi. La donna attende qualche istante, poi lo sconosciuto la guarda, chissà, forse richiamato da una sottile voce inafferrabile. Lei gli sorride. Quasi albeggia quando Lucrezia si decide ad alzarsi. Al suo fianco respira profondamente l’uomo con cui ha condiviso quella notte di sesso in un albergo a ore. La donna si riveste in silenzio. Nulla sa di quell’ombra sdraiata sul letto, che è stata a lungo dentro di lei pur nella consapevolezza di non poterne neppure sfiorare l’esistenza. Quella notte è stata diversa dalle altre e quel pensiero la infastidisce. È rimasta inappagata, non nelle esultanze del corpo, ma piuttosto in quell’agognato senso di liberazione che invece non si è manifestato. La donna rimane un istante a osservare il fisico prestante dell’uomo. Prende il cellulare dalla borsetta per scattare la solita foto. Poi dà il profilo a se stessa e, con gesto altezzoso, esce dalla stanza. Alla reception, l’addetto la osserva attraverso uno sguardo viscido, a cui fa compagnia un sorriso obliquo. «Mi chiami un taxi. Lo aspetto fuori», dice la donna scivolando oltre quell’attenzione molliccia. L’aria è fresca, umida. Alcuni passanti osservano Lucrezia sottecchi, malignando tra loro. La donna cerca di concentrarsi sul presente. Non è mai stata in quell’albergo, è stato l’uomo a proporlo. La strada in cui si trova è stretta, orlata di negozi. Proprio di fronte a lei c’è un bar. L’aspetto è scalcinato, ma a lei poco importa: ha voglia di un caffè. La donna si toglie la parrucca. In genere se ne libera solo rientrando casa, ma ora quel peso la disturba. Il locale è abbastanza frequentato, il cicaleccio quasi allegro: inimmaginabile giudicando quel posto dall’esterno. Lucrezia deve apparire stramba allo sguardo degli avventori, con il vestito elegante, la parrucca sotto il braccio e l’aria stropicciata e malinconica. Anche il barista la guarda incuriosito, forse aspettandosi di sentirla ordinare un bicchierino. «Un caffè. Ristretto», dice invece Lucrezia. Mentre il macinacaffè ronza, la donna ripensa a quella notte, alla sua ansia

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ancora intatta. «Il suo caffè, signora», esclama il barista, posando la tazzina sul banco. Lucrezia deve concentrarsi per comprenderne le parole. Il caffè, però, ha un aspetto invitante. La donna porta la tazza alle labbra, che incontrano un nuovo tipo di calore e di sapore. Frattanto un taxi si è fermato davanti all’ingresso dell’albergo. Il conducente è sceso alla ricerca di chi lo ha chiamato. Lucrezia se ne accorge. Consegna al barista una moneta da due euro. Esce. Fa un cenno al tassista cercando di attirarne l’attenzione. In quell’istante il suo cellulare prende a vibrare: è Giacomo. Mentre indica al tassista l’indirizzo di casa, Lucrezia zittisce la suoneria e, con quella, altri grevi pensieri. Flushing Meadows Le ombre sul campo azzurro sono sempre più lunghe anche se meno nette. Quando la sfera gialla batte sul terreno si sente urlare qualcosa di incomprensibile. Un istante dopo una voce esce dagli altoparlanti: «Mr. Landi leads seven to six.» Match point. Marco ha inseguito la pallina con affanno, senza tuttavia riuscire a raggiungerla. Il colpo precedente dell’avversario lo ha sospinto a sinistra, là dove la linea di fondo incontra quella laterale. Le gambe, ormai vuote di ogni energia, lo hanno sostenuto a malapena in quell’inseguimento, ma non nel successivo: il ragazzo ha proteso ogni sua risorsa, ogni briciolo di residua volontà, verso l’altro lato del campo, ma la pallina ha viaggiato più veloce dei suoi desideri. Marco richiede il challenge, anche se dentro di sé sa che il colpo era dentro. Dopo qualche secondo sul maxischermo si materializza l’impronta virtuale lasciata dalla palla nell’ultimo suo rimbalzo. L’ombra lambisce appena la riga bianca. Si alza un brusio tra il pubblico. Applausi. Fischi. Marco si asciuga il volto madido di sudore con il telo che uno dei raccattapalle gli ha porto. Cerca di non pensare a tutte le ore di gioco che si stanno comprimendo in quell’ultimo punto. Un unico scambio in cui giocarsi un sogno. La voce del giudice di sedia si leva di nuovo, cercando di riportare un po’ di ordine tra il pubblico: «Quiet please.» Sugli spalti si fa silenzio. Marco esegue qualche saltello, cercando di riattivare le ultime scorte di energia. Un po’ come faceva con lo scooter quando, dopo aver esaurito la riserva, lo squassava alla ricerca delle residue gocce di carburante.

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Infine, si mette in posizione per ricevere la battuta. Il suo avversario fa rimbalzare la palla a terra. Per un istante gli sguardi dei due avversari si incrociarono. Una racchetta annaspa nell’aria. Bologna, domenica verso mezzogiorno Sul campo principale del circolo di tennis uno scarno gruppo di persone sta assistendo alla finale del torneo tra Marco Scozia e il suo avversario Manuel Landi. Le sorti dell’incontro sono state piuttosto altalenanti, volgendo a favore prima di uno poi dell’altro dei due contendenti. Si sta giocando il tie-break del terzo e ultimo set. Marco durante tutto il secondo set e nella prima parte del terzo ha espresso un ottimo gioco. Nell’ultima mezz’ora, però, sembra essere entrato in crisi atletica e fatica a portare a termine gli scambi più lunghi. Quando la palla scagliata da Manuel con un rovescio perfetto colpisce la riga di fondo senza che Marco riesca a raggiungerla, al ragazzo ritorna alla mente il sogno che ha fatto quella notte. Certo la finale immaginaria si svolgeva a New York ed era l’epilogo di un torneo dello Slam, ma, a parte quello, al ragazzo pare che ciò che la sua mente ha partorito nottetempo, si stia trasformando nella realtà: nel tie-break del set decisivo il suo avversario ha spedito la palla sulla riga, ottenendo così il match-point. Si gioca quello che potrebbe essere l’ultimo punto. Marco si prepara a ricevere. La battuta dell’avversario lo spinge all’estrema destra del campo. Marco riesce a ribattere, senza tuttavia poter dar forza al suo colpo. La volée successiva di Manuel schizza verso sinistra sfiorando la riga di fondo. Ha perso. Quel pensiero disegna sul volto di Marco una smorfia di delusione. Il giudice di sedia invece, con sua estrema sorpresa, assegna il punto a lui. Il ragazzo si blocca indeciso sul da farsi. La posizione da cui il commissario Scozia sta assistendo alla partita, un po’ in disparte rispetto al resto degli spettatori, gli ha consentito di valutare con esattezza come l’ultimo colpo di Manuel abbia toccato la riga. Vede suo figlio girare il capo in direzione del giudice di sedia. Dal modo in cui lo ha fatto, l’uomo intuisce che anche il ragazzo ha giudicato la palla dentro. Come si comporterà ora Marco? Farà finta di nulla confermando l’errore di valutazione del giudice, oppure dichiarerà che la palla ha toccato la riga? Scelta difficile. Il commissario, non volendo interferire sulle decisioni del ragazzo, cerca di non guardarlo. Per un istante, però, gli sguardi dei due si incrociano: Scozia scorge nel fondo degli occhi del figlio una sorta di inerzia, che può rappresentare una rassegnata accettazione delle regole dello sport dove è prevista anche la sconfitta, o invece la necessità di dover assecondare la propria indole.

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Qualsiasi sia la motivazione, dopo un istante Marco fa un segno all’arbitro indicando con la racchetta il punto in cui la pallina era atterrata. La premiazione si svolge in modo piuttosto affrettato, dato che l’incontro è durato più del previsto e il pranzo incombe. Scozia osserva il suo ragazzo esaminare con espressione delusa la medaglia del secondo posto. Quella vista gli procura un’emozione intensa. È orgoglioso di lui, per come ha deciso di affrontare la situazione. Il suo ragazzo sta maturando. Certo, tutto questo ha una conseguenza antipatica: lui sta invecchiando, ma a quella riflessione dedicherà altri momenti. Quello è il giorno di Marco. Al termine del convito, il presidente del club si inerpica per la china di un interminabile discorso. Scozia, insofferente alle formalità, sta per proporre a Daniela di andarsene, quando al loro tavolo si avvicina una donna. Scozia ricorda di averla già intravista al circolo, ma non ne rammenta il nome. «Scusate se vi disturbo durante un’occasione mondana», esordisce Lucrezia sorridendo. Il commissario si alza: «Buongiorno.» «Lei è il commissario Scozia, se non sbaglio.» L’uomo annuisce. «Mi fermo solo un istante», continua la donna sedendosi, pur non essendo stata invitata a farlo. «Due giorni fa, io e mio marito eravamo a cena dal questore che è nostro buon amico. Sa, una di quelle serate di beneficienza un po’ noiose…» A quel punto Daniela interviene: «Ci potete scusare?» Poi rivolgendosi al figlio: «Vieni Marco, andiamo a salutare il presidente, così poi ce ne andiamo.» Appena i due si sono alzati, Lucrezia riprende la parola: «Dopo la cena, in un colloquio privato, ho messo al corrente il questore di un mio, come dire, problema.» Il commissario, non arrivando a capire cosa lui c’entri in quel discorso, rimane in silenzio. Osserva gli occhi azzurri della donna fissarlo senza cambiare direzione, la mano impreziosita da uno grosso bracciale scostare in continuazione una ciocca di capelli. Non è chiaro se quello sia un segno di nervosismo, o piuttosto un modo artefatto di atteggiarsi. «Ecco, è stato lui stesso a consigliarmi di rivolgermi a lei, e guarda caso oggi la incontro qui.» Guarda caso… La donna sposta appena la sedia, avvicinandola a quella dell’uomo, quasi voglia affermare che tra loro esiste già un certo grado di confidenza, se non di affinità. Scozia fa un tentativo di defilarsi: «Potrebbe venire in commissariato domani e…» «Come raccontavo al questore è… una cosa delicata», lo interrompe la donna.

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«Senta, facciamo così», prosegue il commissario, che inizia a spazientirsi, anche solo per il fatto che la parola questore è stata pronunciata un numero eccessivo di volte, e se la donna pensa che così facendo otterrà la sua attenzione si sbaglia di grosso. «Domani ci sentiamo al telefono e vediamo di affrontare il suo problema.» Lucrezia arretra dalle sue posizioni. Dopo aver annuito, porge un biglietto da visita a Scozia che lo infila in tasca senza neppure guardarlo: «Lì c’è il mio numero», gli dice. «D’accordo. Signora?» La donna gli porge la mano: «Lucrezia Bacchi.» Bologna, lunedì nel tardo pomeriggio. Sara si concentra sulle indicazioni del navigatore, che con la sua voce dalle sfumature artificiali la sta guidando verso l’indirizzo di destinazione. Pochi minuti fa è uscita dal commissariato, dove Scozia, dopo averle riassunto per sommi capi quanto gli ha riferito il questore, le ha detto di telefonare alla Bacchi e poi di recarsi presso la sua abitazione. Se mi ha chiesto di farlo avrà valide motivazioni, aveva pensato l’ispettrice, in verità un po’ indispettita dall’aver dovuto sospendere la redazione del rapporto su cui aveva lavorato gran parte del pomeriggio. Un’autoambulanza la supera a sirene spiegate, per poi svoltare alla prima traversa a sinistra. A Sara piace la collina. Un giorno ci andrà ad abitare, soldi permettendo. Giunta davanti all’imponente cancello della villa, scende dall’auto, suona il campanello. I battenti iniziano a ruotare sui cardini cigolando senza che nessuna voce fuoriesca dal citofono per chiedere chi sia il visitatore. Sara si avvia lungo il viale imponente, a cui due file di cipressi fanno da sentinelle. Ferme nel cortile prospicente la facciata principale della casa ci sono due auto contrassegnate dall’insegna di una ditta di costruzioni. Materiale di varia natura è stipato un po’ ovunque. Sulla soglia del portone d’ingresso servito da tre scalini di marmo la Bacchi è ferma in attesa. Sara scende dall’auto. Appena chiude la portiera, un Labrador le si avvicina, iniziando a perlustrarle le scarpe e i pantaloni col suo naso scuro. «Mercurio giù!» urla la donna dalla porta. Il cane ubbidisce, allontanandosi. Sara, dopo essersi presentata, viene condotta all’interno di un ampio salotto. La padrona di casa le fa cenno di accomodarsi. «Veniamo subito al dunque: mi diceva al telefono di aver ricevuto una lettera di minacce», dice l’ispettrice facendo vagare lo sguardo tutt’intorno.

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«È vero», conferma Lucrezia. «Potrei vederla?» «Certo. Ora la prendo.» La sala è arredata con gusto. È facile avendo un architetto in casa, pensa l’ispettrice. Sulle pareti del vasto ambiente, tra cornici di stucco dorato, spiccano affreschi dai paesaggi romantici. Rovine classiche in penombra intrappolate d’edera e pallidi soli sfumati all’orizzonte sembrano soccombere all’irriverente azzurro del soffitto. Non un quadro a completare il perimetro negli ampi intervalli liberi, ma panneggi di tessuto corposo vestono porte e finestre. Un divano, lunghissimo, a guisa di spina dorsale in diagonale nel mezzo, più una costellazione di poltroncine color pesca e tavolini eterei in cristallo, occupano di fatto la mistica ed elegante atmosfera. Quando Lucrezia ritorna, ha tra le mani una busta di medie dimensioni. Sara la esamina: nessuna scritta o francobollo, quindi è stata recapitata a mano. All’interno, un foglio piegato in due. L’ispettrice lo estrae prendendolo con delicatezza da uno degli angoli: con caratteri troppo grandi, come se l’autore non si fosse troppo preoccupato della forma, c’è scritto: Stai attenta. So tutto dei tuoi traffici. È in gioco la tua vita. Sara ripone il foglio nella busta. In quell’istante entrano nella stanza due giovani tenendosi per mano. La padrona di casa fa cenno alla ragazza di avvicinarsi: «Camila eccoti», dice. «Ho chiamato la polizia per quella lettera anonima…» In risposta allo sguardo interrogativo della giovane, Lucrezia prosegue: «Non ti avevo detto nulla?» «Non mi sembra.» «Scusami tesoro. Forse mi è passato di mente, o forse l’ho fatto inconsciamente per non darti una preoccupazione.» Il volto di Camila si è fatto teso, le pupille sono due spilli puntati sulla donna: «Non mi chiamare tesoro.» Sara osserva incuriosita la reazione del ragazzo: è rimasto un passo indietro, ha la fronte imperlata di sudore e guarda con insistenza la busta che lei tiene tra le mani. «Lei è Camila, mia figlia», dice Lucrezia rivolgendosi a Sara, «e lui è Armando il suo fidanzato.» A quelle parole segue un breve silenzio imbarazzato durante il quale Camila non distoglie lo sguardo dalla madre neppure per un attimo. Il suo volto ha assunto un’espressione dura, spazzando via l’allegria che vi dimorava poco prima. «Ora noi ce ne andiamo», dice infine la giovane. «Non dovevate rimanere a cena?»

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«Me ne è passata la voglia», decreta la ragazza voltandosi. Poi guarda Armando che la segue senza salutare. Lucrezia non sembra essersela presa in modo particolare per l’atteggiamento dei due. Con noncuranza si sistema i capelli. «Di cosa stavamo parlando?» dice, nell’intento di riprendere il discorso interrotto poco prima. «La lettera a quando risale?» chiede Sara. L’aveva trovata due settimane prima sotto il tergicristallo della sua auto, una sera, uscendo dalla galleria. No, non sa a cosa si possa riferire chi l’ha scritta parlando dei suoi loschi affari. La sua è un’attività alla luce del sole, non ha nulla da nascondere. «Quindi non ha idea di chi possa essere l’autore?» domanda l’ispettrice. «No, in effetti.» La risposta è stata sin troppo immediata. «Quindi le sue intenzioni quali sono? Vuole sporgere denuncia?» Lucrezia sorride. Il suo sguardo si stacca da Sara posandosi sul muro alle sue spalle. «In realtà non so di preciso», risponde. «Sono stata molto sorpresa quando l’ho trovata. Io conduco una vita piuttosto ordinaria per pensare di essere la destinataria di una lettera di quel tipo. Ho anche ipotizzato che la busta fosse destinata ad altri. Magari la mia macchina è stata scambiata con quella del vero destinatario. È stato mio marito a insistere perché avvertissi la polizia.» «Senza la formalizzazione di un denuncia però, non possiamo fare molto», aggiunge Sara. «Capisco…» L’ispettrice si alza con l’intenzione di accomiatarsi: «Se la cosa dovesse ripetersi, o se dovesse ricevere minacce di altro tipo, ci avverta subito.» «D’accordo. Grazie per essere venuta.» Mezz’ora dopo Sara apre la porta dell’appartamento di Scozia con le chiavi che lui le ha dato. Il piccolo ingresso è immerso nel buio. «Quando hai finito con la Bacchi passa da casa mia», le aveva detto il commissario quel pomeriggio. Eppure sembra non esserci nessuno. La donna prova a chiamarlo: «Giorgio?» Dalla sala da pranzo giunge una voce: «Sono qui.» La ragazza si chiude la porta alle spalle, accende la luce. «Che fai al buio?» chiede lei dopo averlo raggiunto. Il commissario ha un’espressione affaticata, gli occhi appena arrossati: «Rifletto», risponde. «Su cosa?» continua Sara divertita da quella situazione bizzarra. «In generale… Su di me.» «E in particolare?»

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L’uomo fa una pausa: «Sul fatto che assecondando la mia indole, sempre, senza eccezioni, mi ritrovo a chiedermi il perché delle cose. Anche di quelle che sembrano insignificanti. Non riesco a farmi scivolare nulla addosso senza esaminarne i dettagli o fare ipotesi sulle possibili cause che l’hanno generata. A lungo andare tutto questo logora e, a dirla tutta, a volte, irrita.» L’uomo ha in mano un bicchiere pieno a metà di brandy. «Magari è anche questo che fa di te un bravo poliziotto.» «Probabile, però… A volte, questa mia inclinazione all'analisi… ecco, vorrei essere in grado di smorzarla.» «C’è qualcosa che ti preoccupa?» «No, non esattamente.» Lo sguardo dell’uomo si focalizza su Sara, quasi sia rientrato solo in quel momento da un’altra dimensione. «Ho una proposta da farti», prosegue. «Ti ascolto.» «Potresti accompagnare il resoconto della tua visita a casa della Bacchi con un massaggio sulle mie spalle affaticate. Giusto per vedere se la cosa mi rilassa.» Sara ride: «Tutto questo lamentarsi era solo un modo subdolo per intenerirmi e ottenere che ti facessi un massaggio?» L’uomo fa un cenno di diniego. «Va bene», continua la ragazza, «lo faccio, ma a una condizione.» «Che sarebbe?» «Che tu smorzi un’altra tua inclinazione evidente: quella di considerare il mondo dal tuo punto di vista uomo-centrico, e mi prometta di restituirmi il favore subito dopo.» «Uomo-centrico? Come cazzo parli?» «Io? Veramente sei tu che sei seminascosto nel tuo soggiorno, al buio, come un eremita, per non dire qualcosa di più sgradevole. Quindi togliti quel ghigno dalla bocca e dimmi se accetti la mia condizione.» «Va bene, cedo alla prepotenza.» Mentre Sara gira attorno alla sedia su cui è seduto, Scozia le domanda: «Allora cos’è questa storia della lettera minatoria?» Sara gli riferisce quanto è avvenuto durante la sua visita a casa della Bacchi. «Vuoi la mia impressione?» conclude. L’uomo annuisce. «Una rappresentazione teatrale.» «Cioè?» «Non so se le minacce siano vere oppure false, ma là dentro si è svolta una recita ideata dalla Bacchi a uso e consumo di uno dei due spettatori che sono intervenuti, o di tutti e due. Chissà, forse per mandare un messaggio. Non so di che si tratta, ma la lettera era solo un pretesto.» «Mi fido del tuo intuito.» «Rispondi tu allora a una domanda. Perché mi hai chiesto di andarci?» chiede Sara.

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«Ritorniamo alle mie riflessioni precedenti. Quando la Bacchi si è fermata al nostro tavolo ieri, al circolo, me ne sono chiesto il motivo. Ho avuto la netta sensazione che dietro le sue parole ci fosse qualcosa che andava oltre il semplice fatto di avermi visto lì per caso, qualcosa di non detto. Quindi, assecondando quella che è solo una sensazione, ti ho chiesto di andare.» L’uomo fa una pausa, poi dice: «Sì però non ti fermare…»

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CAPITOLO III C’è nell’aritmetica del tempo qualcosa di angosciante. Spronati senza sosta dalla nostra attitudine innata a contare, ci sentiamo in diritto di specularne l’intimo, che è continuo, con argomenti discreti. Ne cerchiamo una misura laddove neppure dovremmo avventurarci. Eppure io ne sento il peso, che è forse la gravità dei ricordi. Ma se qualcuno me ne chiedesse il valore, non saprei darne conto, perché non conosco espressione che vi si adatti. Bologna, 11 ottobre 2011 La giornata è iniziata nel peggiore dei modi. Durante la notte Andrea non ha chiuso occhio. Si è rigirato nel letto cercando di convincere il suo stomaco a digerire quanto la moglie di Serri, il suo caporedattore, gli ha propinato la sera precedente spacciandolo per una leccornia culinaria. Al culmine di quel lungo tormento, a un’ora mattutina che neppure nei primi mesi da studente ha mai frequentato, Andrea si è arreso e si è alzato. Occhi cerchiati, capello arruffato, colorito cereo: tutto sommato non un bello spettacolo. Certo che anche il mestiere di specchio non è facile, pensa guardando la sua immagine riflessa. Sotto casa, la sua Vespa sta ancora sonnecchiando. Il ragazzo deve usare qualche accortezza in più del solito per convincerla a mettersi in moto. L’estate è ormai un ricordo: refoli di aria umida penetrano da ogni pertugio del suo abbigliamento troppo leggero. La sera precedente, terminata la cena, Serri lo aveva preso in disparte: «Domani alle nove nel mio ufficio, intesi?» Andrea aveva annuito, considerando con curiosità l’espressione del caporedattore che lo guardava con un misto di commiserazione e divertimento. Il ragazzo se ne era chiesto il perché. La notte gli avrebbe fornito la risposta. Forse mi ha convocato per vedere se sarei sopravvissuto, dice tra sé, ricordandosi dell’episodio. ‘fanculo… Prima di andare al giornale è necessario imbottirsi di caffè, decide. Il ragazzo ferma la Vespa davanti al bar di riserva, come lo chiama lui, quello che frequenta quando ha voglia di sfuggire alle sue abitudini. «Un espresso», ordina, dopo essersi chiuso alle spalle la porta scalcinata. Anche se negli ultimi tempi la sua posizione al giornale è divenuta meno

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incerta, le sue condizioni economiche non hanno subito miglioramenti evidenti, tanto che le sue riserve stanno virando al rosso porpora. Il ragazzo si siede, estrae il tablet dalla bisaccia, si collega alla posta elettronica: nessuna notizia interessante. Dopo aver sorseggiato il caffè caldo, invia due messaggi ad altrettante case editrici, chiedendo se ci siano in vista eventi di cui affidargli la conduzione. Attraverso quelle collaborazioni saltuarie, per lo più si tratta di interviste all’autore durante le presentazioni di libri, Andrea cerca di integrare le sue entrate sempre troppo scarse. Per pura necessità, nel tempo, è riuscito a cucirsi addosso una sorta di personaggio che, con l’aria da giornalista colto, il look alternativo un po’ retrò, calca quei piccoli palcoscenici con un certo successo. Speriamo mi rispondano in fretta, pensa valutando la leggerezza del suo portafogli. Dopo aver posato una moneta da un euro sul banco, esce dal locale, salta sulla Vespa dirigendosi verso la sede del giornale. Quando Andrea abbandona l’ufficio di Serri, ognuno dei presenti, formalmente un suo collega, gli getta un’occhiata interessata. Forse pensavano mi volesse far fuori, riflette. O ci speravano… Il ragazzo attraversa la redazione con calma, l’aria di chi è sicuro di sé. La faccia tosta certo non gli manca. Saluta qualcuno con un cenno del mento, a qualcun altro fa l’occhiolino. In capo a un minuto, la scena cessa di interessare e il solito brusio riprende il sopravvento. Poco prima, appena Andrea era entrato nel suo ufficio, Serri aveva esordito: «Allora ce l’hai fatta a digerire, cazzo!» L’uomo gli aveva anche allungato una pacca sulla spalla sghignazzando. Poi aveva aggiunto: «Complimenti», quasi a sottolineare che sulla sua presenza quella mattina non avrebbe scommesso neppure un centesimo. Lo aveva sempre sottovalutato. Il vero motivo della convocazione aveva poi preso il sopravvento: una sonora lavata di capo motivata, secondo Serri, dallo scarso rendimento dimostrato dal giornalista sul lavoro. «Mica vorrai farmi pentire di averti preso dentro, vero?», aveva concluso il caporedattore, intendendo con ciò che sua era stata la spinta decisiva per la carriera di Andrea all’interno del giornale, quando da giovane precario senza speranze era stato promosso a precario semplice. Un notevole salto di qualità. «Tu hai stoffa ragazzo. Sogno per te il Pulitzer, e per me un po’ di tregua da questa cazzo di ulcera», gli aveva gridato dietro congedandolo. Andrea guarda l’orologio. Farà appena in tempo a raggiungere il suo appartamento prima dell’arrivo di Lorenzo. La sera precedente gli aveva inviato il suo indirizzo con una email, dandogli appuntamento per l’una.

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Il ragazzo sale in sella al suo bolide, che poco dopo affronta cauto le vie della città. Quando arriva sotto casa, Lorenzo lo sta già aspettando a fianco della sua Bonnie. «Bella roba», gli dice Andrea indicando la moto, prima ancora di salutare. Lorenzo annuisce sorridendo. «Il tuo bagaglio è tutto lì?» chiede poi indicando una borsa da viaggio dalle dimensioni ridotte. Lorenzo annuisce di nuovo. Un chiacchierone non c’è che dire, pensa Andrea, facendogli segno di seguirlo. L’appartamento in cui il giornalista vive è un piccolo bilocale: zona giorno completa di angolo cottura, una camera, il bagno. Di dividere il letto neppure a parlarne, naturalmente. «Se rimani a dormire puoi sistemarti sul divano», dice Andrea sedendosi su una poltrona di stoffa rossa dall’aspetto sgualcito. «Grazie», risponde Lorenzo. «Ancora non so quanto mi fermerò.» «Devi sostenere un colloquio di lavoro, vero?» Lorenzo gli spiega nel dettaglio di cosa si tratta. Quel ragazzo, un po’ allampanato, gli ha suscitato un’immediata simpatia, lo fa sentire a suo agio. Nonostante i suoi rapporti di amicizia con la sua donna. Che poi, comunque, non mancherà di approfondire. «Mi accennava Giorgia», prosegue Andrea, «che stai anche facendo alcune ricerche su un tuo parente.» «È una storia un po’ strana in effetti. Mio zio Ascanio è morto qualche mese fa e mi ha lasciato alcune cose in eredità, roba di poco valore. Anche se non avevo contatti con lui da anni, pare che io fossi il suo parente più prossimo.» «Abitava qui in città?» «È nato qui e ci ha vissuto da giovane. Da molti anni però si era trasferito in un piccolo paese sulle Alpi.» Andrea osserva il suo ospite allungare lo sguardo fuori dalla finestra, quasi volesse inseguire un ricordo lontano. Lorenzo prosegue: «Il buffo è che tra le sue cose c’era un’agenda in cui lui ha descritto un viaggio fatto qui in città all’inizio dell’anno.» «E…?» «Ed è leggendo quel diario che mi è venuta la curiosità di capire qualcosa in più su di lui, su ciò che ha scritto. Sembra, almeno a me ha fatto questa impressione, che ci sia sotto qualcosa di strano, qualcosa che lo ha spinto tanti anni fa ad andarsene da Bologna, e che poi lo ha indotto a ritornare.» «Giorgia mi ha raccontato che vorresti scrivere un libro su questa storia.» Sentendo quella frase l’umore di Lorenzo vira all’uggioso. Sono in confidenza i due! Andrea, notando il cambiamento di espressione, si affretta a cambiare discorso: «Non ti ho ancora offerto nulla. Ti va una birra?»

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Lorenzo annuisce. «Guarda, là in fondo c’è il frigo. Serviti pure e prendine una anche per me.» Lorenzo si alza. «Giorgia ti avrà senz’altro detto che sono giornalista. Precario per l’esattezza: giusto per non enfatizzare. Comunque, se pensi che io ti possa aiutare nelle tue ricerche non hai che da dirmelo», prosegue Andrea. Il frigorifero è pericolosamente vuoto, se si eccettuano quattro lattine di birra di una marca dal nome impronunciabile. «Ok», risponde Lorenzo. «Facciamo così: ora io mi cambio e vado all’appuntamento. Ti lascio però l’agenda di Ascanio, se intanto avessi voglia di darle una occhiata.» «Perfetto», concorda Andrea allungando la mano che regge il barattolo per proporre un brindisi. Lorenzo beve un lungo sorso, prende la borsa, si dirige verso il bagno. Sono le quattro passate quando il cellulare di Giorgia inizia a vibrare. «Pronto?» bisbiglia la donna. «Ciao amore!» La voce di Lorenzo ne rivela l’euforia. «So che sei al lavoro, ma volevo dirtelo: l’incontro è andato bene, anzi più che bene. Vogliono che mi fermi anche domani per parlare col responsabile del progetto.» «Te lo avevo detto.» «Adesso ti saluto. Stasera ti racconto.» «Hai già incontrato Andrea?» «Sì, tutto bene. È simpatico…» «Ci sentiamo più tardi allora», lo congeda la donna. Mezz’ora dopo Lorenzo parcheggia la Bonnie davanti al condominio di Andrea. Suona il campanello, senza però ottenere risposta. E ora che faccio? si chiede. Fa un secondo tentativo senza troppa convinzione. Quando già ha mosso il primo passo in direzione della moto, il portone si apre con uno schiocco. «Scusami, ma ero in bagno», gli dice Andrea poco dopo vedendolo entrare nell’appartamento. «Anzi, a questo proposito…» Il ragazzo apre un piccolo contenitore di vimini, raccoglie un mazzo di chiavi, che poi consegna al suo ospite. «Prendi queste. Così non rischi di dover rimanere fuori se io non sono in casa. Me le restituisci quando parti.» «Grazie.» «Che hai lì?» chiede Andrea indicando una borsa di plastica che Lorenzo regge infilata nell’avambraccio. «Birra. Ho fatto rifornimento.» «Questa sì che è una bella notizia. E il colloquio? Com’è andato?» Lorenzo solleva il pollice della mano destra, mentre con l’altra offre una bottiglietta al nuovo amico: «Hai qualcosa per stappare?» domanda, sfoderando un sorriso che non ha bisogno di ulteriori commenti.

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Dopo pochi istanti i primi due vuoti giacciono a terra. «Mentre eri fuori ho letto l’agenda di quel tuo zio», dice Andrea prendendo un’altra bottiglia. «Che ne dici?» «In fondo, non sono che poche pagine. Ho però avuto l’impressione che ci sia qualcosa di incompiuto, come se non avesse terminato ciò che aveva in mente.» «In effetti, è una delle cose che mi hanno incuriosito», concorda Andrea. «Mi sono fatto questa idea: Ascanio rimane qualche giorno a Bologna, ma poi per qualche motivo è costretto a ripartire. Lascia l’agenda, assieme ad altri documenti, in custodia al suo avvocato (e non mi immagino perché lo faccia e non li tenga con sé), probabilmente con l’intenzione di ritornare di nuovo in città a breve. Però non fa in tempo.» «Quindi la tua intenzione sarebbe quella di prendere spunto dalla sua storia per scriverci sopra un romanzo?» Lorenzo fa una pausa. «In realtà quella del libro è solo un’ipotesi un po’ campata in aria.» «Chissà, magari si scopre che Ascanio aveva veramente un segreto, qualcosa di inconfessabile, e ci scappa un best-seller.» «Sì, come no», ribatte Lorenzo ridendo. «Da dove si comincia in queste cose? Dal titolo», prosegue Andrea. Poi, dopo una pausa a effetto, conclude: «Lo potresti intitolare: il segreto di Ascanio.» «Sì, è buono», conferma l’altro. «Scegliere bene il titolo è importante, anzi fondamentale. Rimane però da fare tutto il resto.» Lorenzo ride di nuovo: «Già…» «Ora devo uscire per tornare al giornale», dice Andrea alzandosi, «però stasera, se ti va, ordiniamo una pizza e facciamo un piano di battaglia per il segreto di Ascanio.» Lorenzo dà la sua adesione con un cenno del capo. Non si può sostenere che Andrea non sia un entusiasta. Armando è appena uscito dallo spogliatoio degli istruttori. Guarda l’orologio: quasi le dieci. Al termine della lezione si è preso un po’ di tempo per rilassarsi sotto la doccia. È stata una giornata strana: una sensazione di pesantezza l’ha accompagnato sin dalla mattina. Nulla di preciso. Un disagio indistinto, fastidioso, che neppure l’attività fisica è riuscita a cauterizzare. «Ciao Armando», dicono quasi all’unisono due ragazze che lo sopravanzano mentre lui è intento a fissare il cellulare. Sono due delle allieve al corso di Body Sculptor che il ragazzo tiene da anni in quella palestra di periferia. Armando restituisce il saluto. Mentre si allontanano, rimane a osservarne la figura snella, tonica, le gambe sottili che risaltano sotto i leggins scuri.

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Uno scenario niente male. La ragazza di destra, ne conosce il nome, Vittoria, come conosce quello di tutti i frequentatori abituali del suo corso, si volta e gli fa l’occhiolino. Lui le sorride. Meglio andare a casa. Camila lo starà certo aspettando. Venti minuti dopo è sotto la sua abitazione. Deve fare il giro dell’isolato tre volte prima di trovare un pertugio dove infilare l’utilitaria. «Camila?» chiama a voce alta, entrando nell’appartamento. Lui e Camila abitano lì da un anno, da quando hanno deciso di andare a convivere. Terzo piano senza ascensore, ma almeno non si possono lamentare per l’affitto eccessivo. «Ciao», risponde la ragazza con tono asciutto. La voce proviene dalla stanza da letto, in fondo al breve corridoio. Armando appoggia la borsa, sistema le chiavi sulla mensola. «Tutto bene?» chiede avvicinandosi alla porta. Camila è seduta sul letto, le gambe incrociate, il viso imbronciato. Ahia, pensa il ragazzo, che sa come quelli siano indici inequivocabili dell’esistenza di una qualche rottura di palle. Mentre aspetta la risposta, cerca di fare mente locale. Si è scordato qualcosa? Ha fatto, o non fatto, qualcos’altro? Non gli viene in mente nulla. «Sono arrabbiata», esclama lei senza distogliere lo sguardo dal piccolo televisore acceso, ma con il volume azzerato. Armando si accomoda sul bordo del letto. «Con me?» domanda con una punta di riluttanza. «Ma no. Che c’entri tu?» Il ragazzo non replica. Meglio tacere. Camila infine lo squadra: «Sei in ritardo.» «Dopo la lezione ho dovuto fare una scheda», mente lui per evitare di dare spiegazioni dettagliate. Poi, prendendole una mano tra le sue, domanda: «Mi dici che hai?» È gelida. Non che di solito le mani della ragazza raggiungano temperature accettabili. I piedi poi… «Ho litigato con mia madre», risponde lei guardandolo negli occhi. Lucrezia non è certo una donna dalla personalità accomodante, non è facile averci a che fare, e i suoi diverbi con la figlia sono all’ordine del giorno. Strano però che la ragazza se la sia presa a quel modo. Camila ha un carattere fiero, indipendente, tanto che la promessa che si è fatta di uscire di casa appena avesse compiuto i diciotto anni, l’ha mantenuta con appena tre giorni di ritardo. «Per cosa?»

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«È una stronza», esclama lei di rimando. Poi allunga le gambe, prende il telecomando per spegnere il televisore. «Non è una novità.» «Sì, lo so ma… ma a volte è capace di farmi proprio incazzare. Una testa di cazzo dalla nascita!» «Calma.» «Non mi dire di rimanere calma.» Anche in questo caso, meglio non ribattere. «Prima mi ha telefonato per raccontarmi che deve andare due giorni a Cannes per uno dei suoi stramaledetti affari. Ma era un pretesto.» La ragazza fa una pausa. Davanti ai suoi occhi scuri si è formato un velo di umore acquoso che toglie loro ogni slancio espressivo. Il vero motivo era un altro. Lucrezia le aveva detto, o meglio consigliato, di desistere dal suo proposito di sposare Armando. ”Quello spostato”, aveva detto per la precisione. All’inizio della telefonata Camila aveva cercato di non esprimere i cattivi pensieri che però, in breve, si erano trasformati in parole, trattenute a stento dalle labbra serrate. Non voleva bisticciare. Era passato solo un istante, però. Al successivo: «Te lo proibisco. Sono sempre tua madre», la ragazza aveva finito per sbottare. Armando si immagina le frasi pesanti che sono volate. Anche lui inizia a innervosirsi. «Tanto noi ci sposiamo lo stesso», dice. «Al diavolo tutti!» «Sì, ma…» «Non ti è mai importato nulla dei tuoi. Hai passato mesi senza neppure rivolgere loro la parola», la interrompe il ragazzo alzandosi. «Non ti farai problemi ora.» «Non è quello.» «E allora cosa?» «È che è una stronza, e non la sopporto. Non capisco perché voglia litigare a tutti i costi. Come se non mi conoscesse, come se non sapesse che tanto non riuscirà a convincermi.» La ragazza accompagna l’affermazione con un gesto di stizza. Poi si alza, si avvicina al compagno che frattanto ha raggiunto la finestra, gli cinge il petto con le braccia, gli appoggia la testa sulla schiena. Sulle gote di Armando compare un inequivocabile rossore: gli succede sempre quando l’irritazione si tramuta in rabbia. Perché deve rompere così il cazzo, dice tra sé. La cosa che lo stizzisce di più è che quel motivo lui lo conosce. Domani andrò a parlare con la troia, conclude. Fuori, le luci che penetrano dalle finestre dei palazzi dirimpetto sembrano raffigurare una scacchiera.

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Bianchi, neri. È ora di dare una svolta alla partita, muovere qualche pezzo importante, la regina magari. «Usciamo», dice Camila con ritrovata allegria. «Ho voglia di bere qualcosa.» Bologna, 12 ottobre 2011 Lucrezia ha appena concluso una telefonata piuttosto concitata con il responsabile dell’azienda incaricata di gestire tutti i servizi accessori della mostra di pittura che sta organizzando. Esce dal piccolo ufficio proprio nell’istante in cui Armando varca l’ingresso della galleria. Il ragazzo avanza deciso verso di lei, che nel frattempo si è fermata a osservarlo incuriosita. «Ho bisogno di parlarti», le dice quando è abbastanza vicino. Il tono è sommesso, ma grintoso. Senza aspettare che la donna risponda, Armando la oltrepassa dirigendosi verso la porta dell’ufficio situato sul fondo della sala mostra. «Cosa vuoi?» domanda lei dopo averlo raggiunto. Il ragazzo è su di giri. Lucrezia, quando lui le è passato accanto, ha percepito un leggero aroma di alcol. «Non lo immagini?» La donna non replica. «Voglio che lasci in pace Camila, che lasci in pace entrambi.» Sul volto della donna si disegna un ghigno: «Mia figlia ha bisogno di un portavoce?» «Non farmi incazzare.» «Se no?» Armando si avvicina alzando l’indice della mano destra con fare che vuole essere minaccioso, anche se Lucrezia non pare preoccuparsi granché. «Se no potresti pentirtene», conclude il ragazzo. Lucrezia gira attorno alla scrivania, si siede. «Dì mo’, cosa vorresti fare?» chiede, quasi ridendo. Quell’atteggiamento canzonatorio non fa altro che accrescere l’irritazione del ragazzo. Armando appoggia entrambe le braccia tese sulla scrivania di vetro serrando i pugni. Dopo una breve pausa sentenzia: «Potrei sempre svelare al mondo chi sei veramente.» Lucrezia spinge il busto sullo schienale della poltrona inclinandolo di qualche grado all’indietro, porta una mano a puntellare il mento: «Interessante…» «Certo che se si sapesse in giro che la proprietaria di una nota galleria d’arte, frequentata dal bel mondo, di notte si traveste da puttana e frequenta locali equivoci per cercare qualcuno da scoparsi, non sarebbe una bella pubblicità.

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Magari potrei dare la notizia alla stampa.» «Vai avanti.» «Non credi che gli affari ne risentirebbero? E poi, che ne direbbe il tuo maritino? Il famoso architetto…» Nell’ufficio cala il silenzio. Si possono percepire in lontananza i suoni attutiti provenienti dalla scuola di musica situata al piano superiore. Nessuno dei due vuole concedere all’altro un appiglio che testimoni la sua irresolutezza. Entrambi mantengono lo sguardo conficcato negli occhi dell’altro. Poi la stanza viene invasa dalla sottile risata di Lucrezia. Armando, sbalordito, aggrotta la fronte. Questa non è normale, mormora tra sé. La donna si alza, portando il proprio volto vicino a quello del ragazzo. «Senti», dice, «è una vita che ho a che fare con cialtroni della tua risma. Non mi impressioni. Ti ho osservato bene il giorno in cui ho fatto vedere la tua lettera anonima alla polizia. Avevi paura. Sei solo un patetico ragazzino.» «Non so di cosa parli», risponde Armando oscillando il capo. «Come no… Ora ti dirò io come stanno le cose», continua la donna indifferente all’interruzione. Il telefono squilla. Lucrezia alza e subito abbassa la cornetta con stizza. «Tu puoi raccontare in giro quello che ti pare e ti spiego il perché. Innanzitutto sono certa che nessuno presterebbe fede ai tuoi vaneggiamenti dato che non hai nessun riscontro a supporto di quello che dici. Poi, anche nel malaugurato caso che ci fosse qualcuno disposto ad ascoltarti, l’unico che ne pagherebbe le conseguenze saresti proprio tu. È vero, gli affari potrebbero risentirne, ma io sono abbastanza ricca da potermi permettere di vivere anche senza lavorare. A riguardo di mio marito, lasciamo stare…» Lucrezia si siede di nuovo. Armando rimane immobile. «E tu invece?» La donna sorride. «Tu perderesti Camila: non credo che lei gradirebbe venire in possesso della foto che ti ho fatto la notte che sei venuto con me, con la puttana, come mi hai chiamato. Conosci bene mia figlia: l’istante in cui lei vedesse quell’immagine sarebbe l’ultimo del vostro grande amore.» La donna accompagna le ultime parole con un ampio gesto della mano inteso a sottolineare l’ironia con cui le ha pronunciate. Sulla fronte di Armando iniziano a condensarsi rare goccioline di sudore. Sulle gote il rossore si fa più intenso. «Ti dico io come andranno le cose», prosegue la donna. «Che tu frequenti Camila mi lascia del tutto indifferente. Non capisco come lei faccia a stare con te, ma in fondo sono affari suoi. Il matrimonio però è un’altra cosa e tu non la sposerai.» Il non viene scandito lentamente, modulando con accuratezza il suono di ogni lettera in modo da non lasciare dubbi nell’interlocutore. «Ti godrai la tua posizione di fidanzatino premuroso ancora per un po’. Passeranno ancora alcuni mesi, magari un intero anno, ma poi lei si accorgerà del coglione che sei, e voilà, c’est fait! Al momento, come prendere tempo a riguardo delle

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nozze è un problema tuo… E ora vattene che ho da fare.» Armando cerca di trattenere l’impeto che lo spingerebbe a metterle le mani addosso. Attende qualche istante in silenzio, poi gira i tacchi ed esce sbattendo la porta. Lucrezia rimane immobile, lo sguardo fisso sulla cornice dell’uscio. Poi solleva una mano, la osserva con attenzione quasi fosse indispettita dalla certezza di scorgervi un tremolio, una traccia della collera che ha dentro. La stanza che funge da ufficio è piccola. È stata ricavata da quello che prima è stato un magazzino di servizio. Lucrezia l’ha però sistemata con stile. I pochi accessori d’arredamento danno all’ambiente un aspetto minimalista seppur ricercato. Alle pareti sono appesi quadri sempre diversi: la donna li sceglie dalla sala mostra ogni due settimane. Lucrezia, che nel basso armadio metallico tiene sempre una scorta di liquore da offrire ai suoi clienti, oltre che a se stessa, prende la bottiglia del gin, ne versa una dose piuttosto generosa dentro uno dei bicchieri multicolori. Al primo sorso, l’alcol le procura una piacevole sensazione di calore che dal petto si propaga a tutto il corpo. Ne aveva bisogno. La donna cerca di controllare il respiro, trattenendolo, e poi espirando con lentezza. Chiude gli occhi. Scorie di luce si svelano nel buio, affievolendosi con rapidità e ravvivandosi appena gli occhi si muovono sotto le palpebre. Una domanda le attraversa la mente: ma cosa sono diventata? E già quello sarebbe un sollievo: diventata… Potrebbe motivare a se stessa quel divenire attraverso mille giustificazioni. La sua in fondo è stata una vita complicata, dolorosa anche. Ma se invece così non fosse? Se quella donna che scorge senza guardarla, intuisce piuttosto, e che non le piace affatto, fosse la vera Lucrezia? Da sempre? Nessun mutamento, solo estrema essenza. Nessun divenire, puro essere. La donna allunga le braccia, appoggia il palmo di entrambe la mani sulla fresca superficie del tavolo. Vede per un istante l’immagine di sé, come se il suo spirito stesse sorvolando quel piccolo ambiente e la guardasse dall’alto. Ne scavasse l’intimo, la giudicasse. Ha bisogno di bere ancora. La bottiglia tintinna a contatto col bicchiere. Il gin scivola rude attraverso la gola. In realtà è una sensazione gradevole. Poi qualcuno bussa alla porta. Lucrezia ripone la bottiglia e il bicchiere nell’armadio. «Avanti», dice passandosi una mano tra i capelli. Lorenzo parcheggia la sua Bonnie a fianco della Vespa dell’amico. «La galleria non è molto lontana», dice Andrea togliendosi il casco.

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La sera precedente, esaminando il contenuto dell’agenda avevano deciso di iniziare le loro indagini cercando di scoprire l’identità della donna con cui Ascanio aveva avuto un incontro durante il suo soggiorno bolognese. Due le informazioni certe desunte dallo scritto: il nome della donna, Lucrezia, e il fatto che Ascanio per ritrovarla si fosse recato in un club di tennis di cui non era però riportato il nome. Andrea, a seguito di alcune telefonate fatte durante la mattinata, si era convinto di aver capito di quale circolo si trattasse. I due ragazzi si erano quindi dati appuntamento ai giardini Margherita per le tre del pomeriggio. «Sei sicuro che sia questo?» aveva chiesto Lorenzo varcando l’ingresso del circolo. «Da qualche parte bisogna pure cominciare no? E se siamo fortunati…» I due si erano diretti al banco della segreteria. «Ciao Lina», aveva detto Andrea ancor prima che la ragazza seminascosta dal monitor del computer concedesse loro un po’ di attenzione. Sentendo quelle parole Lina aveva spostato lo sguardo su di loro: «Ciao Andrea. Che fai da queste parti? C’è qualche evento in programma?» Andrea le aveva allora spiegato per sommi capi il motivo della loro visita. «Che strano…», aveva detto la donna dopo aver ascoltato le parole del giornalista. «Cosa è strano?» «Effettivamente è stato qui un uomo… non ricordo con precisione quanto tempo fa, qualche mese, direi… che mi ha chiesto… anzi no, ora ricordo meglio: quell’uomo mi ha dato un biglietto da consegnare a uno dei soci.» Andrea e Lorenzo si erano guardati senza poter nascondere un sorriso di soddisfazione. «Se ti dico che il socio in questione di nome fa Lucrezia», aveva proseguito Andrea, «tu sapresti suggerirmi il cognome?» «Sai che non potrei…», aveva risposto Lina mostrando ritrosia. «Perché me lo chiedi? Quell’uomo ha combinato qualcosa?» «No, non ha fatto nulla», era intervenuto Lorenzo. «Quell’uomo era mio zio. Si chiamava Ascanio. Purtroppo qualche mese fa è morto. Tra i suoi averi ho trovato qualcosa che credo appartenga a questa Lucrezia e vorrei restituirlo», aveva detto mentendo per non dover addentrarsi in spiegazioni che non intendeva fornire. Lo sguardo di Lina non aveva però perso del tutto l’inziale sfumatura di incertezza: «Sai che se scoprono che do informazioni sui soci…», aveva detto guardando negli occhi Andrea. Il tono della voce era però titubante, come se sapesse che alla fine avrebbe ceduto alle richieste del ragazzo. Probabilmente non è la prima volta che Andrea ottiene informazioni su qualcuno, aveva concluso tra sé Lorenzo. «Sì lo so, ma con me sai che puoi stare tranquilla. Ti ho mai fatto passare qualche guaio?» Lina aveva quindi sussurrato: «Bacchi, Lucrezia Bacchi.» Per poi aggiungere a

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voce più sostenuta: «E ora andatevene.» Andrea le fece l’occhiolino: «Sei un tesoro. Ricordami di invitarti a cena una sera.» «Per carità! Non hai mai il becco di un quattrino. Poi mi tocca pure pagare…» I due ragazzi, salutata la segretaria, si erano allontanati. «Vieni andiamo al bar», aveva detto Andrea prendendo l’amico per un braccio. «Mangiamo qualcosa. Io non ho pranzato e tu?» «No, ma magari ci fermiamo in qualche bar fuori di qui», aveva risposto Lorenzo, intendendo che in quel modo avrebbero di sicuro risparmiato. «Non ti preoccupare. È gratis.» Il barista, in effetti, dopo aver consegnato a ciascuno un panino e una birra, aveva fatto un cenno di intesa ad Andrea. I due amici presero posto a uno dei tavoli. «Com’è ‘sta roba? Si mangia gratis qui?» aveva chiesto Lorenzo sottolineando la domanda con una risatina complice. «Lascia perdere. È una storia complicata. Mangia.» Andrea, dopo un generoso morso al panino e con la bocca ancora piena, aveva quindi detto: «C’è una buona notizia.» «E sarebbe?» «Conosco Lucrezia Bacchi.» «Ah sì?» «Sì. Ho seguito per lei un paio di presentazioni di libri d’arte. Ha una galleria in centro. Finiamo di mangiare e andiamo subito da lei.» Il negozio si apre sulla strada attraverso due intere vetrine sovrastate da tendoni bianchi sul cui margine verticale è stampato a caratteri corsivi il nome della galleria. Una delle vetrate è occupata per intero da grandi cartelloni che pubblicizzano vecchie rassegne di pittura. Nell’altra, alcune mensole ospitano libri a tema. Sul fianco si intravedono due piccole litografie. Quando Andrea giunge nei pressi della porta di ingresso, Lorenzo lo prende per un braccio, trattenendolo. «Aspetta», gli dice. «Come ci comportiamo?» Andrea, dopo aver riflettuto un istante risponde: «Penso che la cosa migliore sia entrare in argomento per via diretta. Io ti presento a Lucrezia, sempre che sia in sede e non in giro. Tu le racconti di Ascanio, dell’agenda, del fatto che stai raccogliendo informazioni sulla sua storia, sul suo passato. Forse è meglio non dire nulla a proposito del progetto del libro. La informi che è menzionata nell’agenda. Poi vediamo se ci racconta qualcosa di interessante o come reagisce.» Lorenzo annuisce. «D’accordo, andiamo.» In quell’istante la porta si spalanca. Ne esce un ragazzo paonazzo in volto che urta Andrea con violenza. Senza pronunciare alcuna parola di scusa, anzi rincarando la dose con un ‘fanculo bello tondo, scosta il giornalista con un gesto brusco e si allontana. Andrea guarda l’amico con fare interrogativo, scuote il capo, poi dice: «Forza

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entriamo.» All’interno la luce è intensa, i pavimenti lucidati a specchio ne moltiplicano i riflessi dorati. L’ampio ingresso dà inizio a due corridoi lungo i quali sono appese file di quadri dalle dimensioni simili. Una donna vestita con eleganza si alza da uno dei divani foderati in pelle color mattone. «Ciao Andrea», esclama stupita di vederselo davanti. Andrea ricambia il saluto. Il ragazzo, senza dilungarsi in spiegazioni, chiede di poter parlare con Lucrezia. Beatrice prega i due di aspettare, quindi si incammina lungo uno dei passaggi. Lorenzo la segue con lo sguardo, ammirandone la figura elegante, fino a che la donna scompare dietro un muro. Beatrice appoggia l’orecchio alla porta dell’ufficio di Lucrezia. Non percependo alcun rumore, con delicatezza percuote il legno con le nocche. Dopo un istante di attesa sente la voce di Lucrezia: «Avanti.» «Scusa se ti disturbo, c’è Andrea di là. Secchi, il giornalista. È accompagnato da un’altra persona che non si è presentata. Vorrebbe vederti.» Andrea? dice tra sé la donna. Che vorrà? «Falli accomodare», conclude. «Ciao Lucrezia», la saluta Andrea entrando nell’ufficio. «Sei in splendida forma. Sempre più bella.» La donna risponde con un gesto della mano: «Che ci fai da queste parti?» «Lui è Lorenzo, un amico», prosegue Andrea ignorando la domanda. Lorenzo, mentre la donna si alza dalla poltrona per stringergli la mano, non può fare a meno di ammirarla. I lunghi capelli rossi, gli occhi azzurri messi in risalto dalle sopracciglia sottili, le labbra carnose prive di rossetto, il fisico asciutto. L’amico, descrivendola, ne aveva parlato come di una bella donna. Lorenzo considera che in lei c’è qualcosa di più attraente della semplice avvenenza: ha fascino. «Prego sedetevi», dice la donna accomodandosi a sua volta. «A cosa devo la visita?» Andrea assume un’aria seria, del tutto inadeguata alla sua rappresentazione esteriore. «Non ti faccio perdere tempo, vengo subito al dunque. In questi giorni Lorenzo è a Bologna per lavoro. Tra parentesi lui si occupa di restauri: magari potrebbe interessarti, anche se non siamo qui per questo. Anzi, forse è meglio che lasci la parola a lui.» Lorenzo si schiarisce la voce: «Innanzitutto signora vorrei ringraziarla per il tempo che ci dedica…» «Ci possiamo dare del tu?» lo interrompe Lucrezia. Lorenzo annuisce: «Certo.» Fa una breve pausa per raccogliere le idee, poi prosegue: «Qualche mese fa sono entrato in possesso di un’agenda appartenuta a un mio zio che non vedevo da anni. Leggendola, mi sono, come dire, interessato alla storia che vi è narrata, e ho pensato di approfittare di questo viaggio a Bologna per soddisfare qualche curiosità.»

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Lucrezia spinge il corpo contro lo schienale, inclinando appena il capo da un lato. Alcune increspature sulla fronte ne testimoniano l’attenzione per le parole del ragazzo. «Nell’agenda, mio zio racconta di un viaggio che ha fatto all’inizio di quest’anno qui in città. Durante quel soggiorno pare che abbia avuto un incontro con te, e…» «Ascanio?» domanda Lucrezia sgranando gli occhi. «Ascanio è tuo zio?» Lorenzo annuisce: «Era, per la precisione. È morto da qualche mese…» La voce della donna assume una sfumatura stridula del tutto inattesa. «Morto?» «S…sì. Non lo sapevi?» conferma Lorenzo. Il suo sguardo incrocia quello di Andrea, entrambi un po’ sorpresi dalla reazione della donna. «No», è la risposta secca. La stanza si riempie di un silenzio imbarazzato. Lo sguardo di Lucrezia si smarrisce nel vuoto. La donna, senza proferire parola, apre l’anta dell’armadio, prende la bottiglia del gin, ne versa un po’ in un bicchiere. Osservandone le movenze, sembra che abbia perso parte della sua risolutezza. Mentre beve stringe gli occhi, quasi volesse trattenere l’emozione che quella notizia le ha provocato. Infine, rivolgendosi a Lorenzo chiede: «Come è successo?» Il ragazzo le racconta come sono andate le cose, o almeno ciò che gli è stato riferito. «Quindi lo conoscevi…» interviene Andrea. La donna annuisce: «Sì. Eravamo amici.» «Era da molto tempo che non lo vedevi? A parte l’ultima visita, intendo.» «Sì. Era passato molto tempo.» «E non potresti dirci qualcosa di lui?» A quella richiesta Lucrezia si alza. «Sentite», disse. «Non ho nulla in contrario a rispondere alle vostre domande, ma purtroppo ora ho un impegno. Se volete possiamo vederci in un altro momento.» I due ragazzi si mostrano d’accordo. Prima di accomiatarsi prendono accordi per sentirsi al telefono nei giorni a venire. «Una cosa però puoi dircela», conclude Andrea. «Tra le cose di Ascanio, Lorenzo ha trovato una busta su cui sta scritto “Per Fabio”. Sai chi potrebbe essere?» Lucrezia riflette un istante: «L’unico che mi viene in mente è Fabio Keller, però non so…» Appena sono soli, Andrea dice all’amico: «Mi sa che i due si conoscevano bene. Ti sei accorto del modo in cui ha pronunciato la parola amici?» «Certo che l’ho notato», risponde Lorenzo ammiccando. «E la storia di Fabio che significa? Non esiste nessuna busta.» «Lo so, ma nell’agenda quel nome viene fatto più di una volta. Era solo un tentativo.» Lorenzo fa un cenno col capo con cui conferma di aver capito «Ora che facciamo?» domanda.

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«Vediamo se riusciamo a trovare questo Fabio Keller.» Lucrezia rimane qualche secondo a fissare la porta della stanza. Il ricordo di Ascanio che, fermo sulla soglia, la scruta con espressione malinconica nella sua mente si fa immagine: i capelli sono più radi, il viso meno aggraziato, il mento più affilato, ma quell’uomo in piedi a pochi passi da lei è proprio Ascanio; ciò che più di tutto però la colpisce è la mancanza di vitalità che avverte nel suo sguardo; si rende conto che quegli occhi esprimono la misura della fiacchezza di una vita ormai vissuta. Fine anteprima.Continua...