Anonimo - Il segreto è dirlo

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IL SEGRETO È DIRLO

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IL SEGRETO È DIRLO

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Prima edizione: SCRIBLERUS CLUB, Verona, dicembre 1983

Seconda edizione: EL PASO - PORFIDO, Torino, aprile 2010

NO COPYRIGHT

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Anonimo

IL SEGRETO È DIRLO

Vita e avventure di Salvatore Messana.

Con il racconto di come sia stato ladro,

pescatore, adultero, marinaio, rapina-

tore, militante dell’estrema sinistra,

truffatore, e infine licenziato di me-

stiere accumulando grande fortuna.

TORINO 2010

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INTRODUZIONE

a Bengi

[Angelo Morabito 1973-2008]

per sempre, col dente avvelenato…

Salvatore Messana è una truffa. Ovviamente.È uno pseudonimo, dietro cui si cela l’identità di

qualcuno che ha praticato, con metodo e dedizione,l’arte di sottrarsi allo sfruttamento e di riservargliin più qualche dispetto di ritorno.

O forse no. Forse Salvatore Messana non esiste.È solo un nome di fantasia, nella cui storia si raccol-gono e si intrecciano le avventure di tante vite, espe-rienze sovrapposte di una generazione impertinentee refrattaria.

O forse nemmeno. Forse non è vero niente, è tuttaun’invenzione.

Non lo sappiamo. Oppure non ve lo vogliamo dire.Del resto non è importante: tutte queste ipotesi possonoessere vere, e in un certo senso lo sono…

Tra assegni a vuoto e pianificate vendette, occu-pazioni di condomini e truffe memorabili, SalvatoreMessana, con ironia fulminante, fa scempio di ognipretesa serietà residua di questa società decrepita.

È una fucilazione, irresistibile e implacabile, diogni senso del dovere, sia esso nei riguardi di impro-ponibili esigenze produttive, che di presunte respon-sabilità sociali di seriosi militanti.

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È la voce degli scansafatiche fieri di esserlo.È una voce limpida e irriverente, non perché privadi contraddizioni, ma, anzi, proprio perché capacedi assumersele senza falsi pudori, e di giocarci acarte scoperte.

Contro chi ci ruba il tempo della nostra unicavita, ci ricorda Salvatore Messana, ogni resistenza,ogni slealtà, ogni vendetta, è non solo lecita, madoverosa. E, quando riesce, sublime.

È un sonoro ceffone alla lamentela, anche aquella – oggi così diffusa – sulla precarietà del postodi lavoro, essendo proprio “la certezza del postofisso” quell’incubo che Salvatore Messana ha fuggitocome la peste. Riuscendo anche, in questa fuga dive-nuta una vita, a spassarsela con allegri complici e ainfliggere ai suoi inseguitori pesanti dispiaceri.

Non è un’ideologia o un progetto politico a gui-dare le scelte o a disegnare i percorsi dell’avventuradi Salvatore Messana, ma un istintivo, viscerale“schieramento di campo”: quello degli sfruttaticontro quello degli sfruttatori. Ed è proprio controdi loro, contro i potenti e gli aguzzini di ogni tempo,che Salvatore Messana ha deciso di rivelare, a noi ea chi verrà, il suo semplice “segreto”: non esitaremai a scagliare la prima pietra; mirando, se possibile,alla testa.

Noi, ripubblicandolo, ci siamo fatti soltanto umilitestimoni di tale imperituro verbo. Nei secoli dei secoli.Così sia.

Torino, 2010

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PREMESSA BREVE

a Gianfranco,

Caterina e Bruno

[dedica alla prima edizione]

Voglio innanzitutto ringraziare il professor Lapo

Meneghetti per aver avuto la pazienza di correggere il

mio diario disordinatamente scritto, rispettandone lo spi-

rito e limitandosi a tradurlo in lingua italiana: il lettore

noterà infatti una prosa che non è certo tutta farina del

mio sacco.

Ho deciso di pubblicare questo libro dopo una violen-

ta litigata con un avvocato coglione il quale (spalleggiato

da tre sindacalisti più coglioni di lui) insisteva nel consi-

gliarmi di non divulgare i miei sistemi di incremento del

reddito ai danni del padrone.

Le mie beffe non vogliono essere in alcun modo una

“linea politica”, né io ho la pretesa di essere un “militante”.

Ma non ho affatto vergogna della mia esistenza e ritengo

vi sia più criminalità nella fondazione di una società per

azioni di quanta non se ne possa scorgere in queste poche

pagine. Hanno anzi il solo pregio di essere vere. Ai pru-

denti calabrache sempre pronti a sussurrare appelli al si-

lenzio, ai miserabili arruffoni che si attaccano alle briciole

mormorando che il segreto è non dirlo, voglio fare questo

torto. Non mi interessa se il giuoco si chiude; un’anima

ribelle è capace di trovarne un altro.

Amici lettori, il segreto è dirlo!

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PARTE PRIMA

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I

Sono nato il 6 febbraio 1937 a ***, una piccolacittadina delle Puglie, poco più di un borgo, mise-rabile e perennemente invasa dalla polvere. Dabuoni cristiani quali erano sempre stati, i miei ge-nitori avevano subito provveduto al Battesimo,iscrivendo nel registro della Parrocchia il nome verodi Salvatore Messana: le circostanze mi avrebberospinto a mutarlo sovente e anche ora sto utilizzan-do uno pseudonimo (me ne scuso con i lettori) pro-prio perché ho ritenuto bene riacquistare l’esattaidentità. Conservo ancora una sbiadita fotografiadi quella cerimonia: un fascista con la camicia nerasorrideva impettito al mio fianco, dopo aver con-segnato una piccola somma alla famiglia. Lo Statoregalava infatti del danaro a fronte di ogni lietoevento così da meglio popolare l’impero e aumen-tare il numero delle future baionette. Fu per il regi-me un cattivo investimento, riflettendo su ciò chedi là a poco sarebbe accaduto; a me piace tuttaviaconsiderare quel contributo come la mia prima truf-fa ai danni del governo, una sorta di involontariaprova del fuoco.

Noi si viveva tutti insieme e in una sola stanza,con il pavimento di pietra grezza sempre sul puntodi essere sopraffatta dal secco terriccio sottostante.Al calar della notte ci addormentavamo in dodici,sparsi secondo una precisa gerarchia fra letti e gia-cigli; durante il giorno la luce entrava per una fine-stra dalle dimensioni volutamente ridotte così daimpedire (o meglio: arginare) i guai delle gelate in-vernali e della canicola.

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Sotto il grande scalone, non lontano dalla portad’ingresso della nostra abitazione, si apriva una sortadi cunicolo buio che conteneva i recipienti di ter-racotta. Si entrava a turno e aiutati, per lo più, daun lume di candela li si riempiva con i nostri escre-menti. Mia madre aveva poi il gravoso incarico diaccorrere al suono della trombetta che annuncia-va il passaggio di un carro a botte e di svuotarli.La pubblica autorità aveva infatti creato quello stra-no servizio affinché la mancanza di fogne non riu-scisse insopportabile, dimostrandosi già allora di-sponibile a raccogliere tutta la merda della piccolacomunità.

Mio padre – un bracciante a giornata che non sistupiva di doversi spaccare la schiena a vantaggioesclusivo di pochi proprietari terrieri – partì benpresto, chiamato al servizio militare di leva, nono-stante i carichi di famiglia. E, soprattutto, nonostan-te avesse ingenuamente consegnato i suoi peraltroesigui risparmi a un maresciallo furbacchione che gliaveva promesso il congedo senza avere la minimapossibilità di ottenerlo davvero.

Fu tra i primi a essere spedito verso le zone dicombattimento. Io lo rividi (ma forse sarebbe esattoscrivere “mi fu presentato”) nel 1942.

Indossava l’uniforme dei poveracci, il grigioverdedel fante; puzzava di grasso e di caserma, facevaancora più schifo di quando tornava dai campi su-dato come un cavallo da tiro. Non appena varcatol’ingresso, mi suggerì subito una sensazione di mor-te, chiara e profonda anche se non razionalmentespiegabile. A distanza di anni io ricordo ancor oggiperfettamente di essere stato certo che quello era ilsuo ultimo ritorno a casa.

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Tutti la pensavano come me e del resto sembravarendersene conto lui stesso. Se ne stava silenzioso,disabituato ormai alla quiete domestica, fumandouna sigaretta dopo l’altra, senza curarsi di violare lareligione del risparmio cui pure aveva dedicatol’esistenza. Osservava gli oggetti e le persone conquei suoi occhi da arabo, neri, incavati oltre misura;osservava attento ma infinitamente triste. Rassegna-to alla condanna, al termine della licenza, ci ab-bracciò senza eccessiva foga e andò a farsi uccide-re in Russia, evitando accuratamente di chiedersi ilperché.

Noi eravamo poveri, ma il cibo non ci mancava.Non ho, alla fin fine, un cattivo ricordo di quei pri-mi rapporti con il mondo. Mi è rimasta anzi unaqualche tenera nostalgia per le bande di bimbi chias-sosi e per i disperati affetti di quella promiscuitàche pur oggi trovo intollerabile, squallida.

Arrivò la guerra. Dapprima sotto l’aspetto delcomunicato governativo che mi rendeva ufficial-mente orfano, poi in tutta la sua violenza. Ci si tra-sferì a Lecce in una stanza ancor più angusta e conla quotidiana angoscia della fame, in eterna attesadi qualche guaio. L’unico svago, in quella noia mistaa terrore, era rappresentato dalle corse improvviseverso i rifugi antiaerei ove sostavamo poi per oreinterminabili prima del segnale che annunciava ilcessato pericolo. Troppo piccolo e troppo inco-sciente per avere davvero paura, mi preoccupavoprincipalmente di non rimanere escluso ogni-qualvolta veniva distribuito un po’ di cibo. Avevoanche maturato una certa indifferenza nei confrontidei cadaveri, non di rado depredati dai cosiddettisciacalli.

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Furono quelli i primi malviventi che mi capitòdi vedere. Penetravano nelle abitazioni bastonandoo forse uccidendo eventuali feriti, si appropriavanodegli oggetti più incredibili, immagazzinavano senzaalcuno scrupolo le merci che avrebbero poi rivendutoguadagnando stima e rispetto dei benpensanti. Laborsa nera frattanto imperava: anche i generi ra-zionati finivano come per incanto nelle mani deglispeculatori senza raggiungere quasi mai (grazie allacomplicità di funzionari corrotti) i destinatari inmodo diretto. I gatti non potevano più definirsi ani-mali domestici, ma erano divenuti selvaggina ri-cercata tanto che tendevano a estinguersi. Qualcu-no affermava di aver già cominciato a cuocere i topianche se io, in tutta sincerità, non ho mai avutooccasione di mangiarli.

I fondatori dell’Impero avevano dichiarato laguerra ma non si erano minimamente preoccupatidi spiegare alla popolazione come comportarsi du-rante i bombardamenti o, più genericamente, in casodi difficoltà. Così, in breve, il trovare una coperta,un pezzo di sapone, un medicinale divenne quasiimpossibile; ognuno peggiorava la situazione cer-cando di arrangiarsi alla meglio in mezzo alla con-fusione. Una volta una donna impazzita – convin-ta che io fossi suo figlio morto pochi giorni prima –mi trascinò a viva forza in casa, incurante delle mieproteste, e mi cosparse la testa di petrolio per di-struggere i pidocchi in effetti numerosi sul capo.Questa operazione, sgradevole ma assai utile, furipetuta in seguito anche dalla mia vera famiglia,sempre più spesso. Non serviva però a frenare lepulci, attirate dal sangue di bimbo e davvero sca-tenate. Mi abituavo ai loro morsi mentre osservavo

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la particolare arroganza dei mosconi che la face-vano ovunque da padroni, alacri nel trasmetteremalattie.

Gli attacchi aerei mi fecero conoscere Saverio,un coetaneo assai intraprendente, con i capelli aspazzola e la pelle nerissima. Suo nonno – un cini-co ubriacone che riusciva inspiegabilmente a colti-vare il suo vizio nonostante quella buriana – lomandava a rubare le candele in una grande chiesadi cui non ricordo il nome, ma che mi suggestiona-va per gli immensi dipinti alle pareti e per la ric-chezza delle decorazioni. Io lo accompagnavo. Men-tre fingevo di pregare assistevo incredulo alla facili-tà con la quale faceva scivolare, insieme a quantogli era stato ordinato, anche qualche moneta chesubito utilizzava dividendo con me. Non so se es-sergli grato della sua indubbia generosità o se male-dirlo per i rimorsi che invariabilmente mi coglieva-no l’indomani; certo è che, pur essendo un mangia-preti, non ho mai avuto il coraggio di prendere da-naro nelle basiliche! Saverio invece non se ne davaper inteso, non c’era azione davanti alla quale sisentisse intimidito. Io lo ammiravo e questa ammi-razione non fu l’ultimo motivo dei guai cui sareiandato incontro insieme al mio compare.

Misteriosamente come era cominciata, la guerrafinì, ma ci volle molto tempo prima di tornare allanormalità. Un ritorno non ci fu anzi mai più, per-ché tutto era definitivamente mutato. Le comunitàagricole che mi avevano visto nascere non avevanofuturo e sarebbero state spazzate via dagli eventi.Noi non tornammo più a ***, ma ci stabilimmo aLecce, dove mio zio e mio cugino avevano trovatolavoro.

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Per la città si aggiravano gli americani con letasche piene di quattrini, vincitori e colonizzatori,ingenui forse, ma di certo irritanti. Poche persone,fra quelle che avevano conservato rispetto di sestesse, li amavano e li sopportavano. I più miravanoal loro denaro recitando sorrisi da prostituta; i pa-droni li usavano senza scrupoli per scoraggiare gliagitatori socialisti e comunisti e per evitare som-mosse; i sottoproletari riottosi li derubavanoogniqualvolta se ne presentava l’occasione. Saveriomi condusse subito, con mano decisa, fra questiultimi.

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II

Bianchi, gialli o neri i militari degli Stati Unitid’America chiedevano a noi bambini, gesticolandoed esprimendosi in uno stentato italiano, reso per noiancor più difficile dall’abitudine a parlare soltanto ildialetto. Ci chiedevano di tutto, dal prezzo dei risto-ranti ai nomi delle vie. Ma soprattutto chiedevano“quella cosa” agitando i biglietti da un dollaro e gra-tificandoci di un sorriso complice. Io e Saverio ci guar-davamo perplessi e dapprima non riuscivamo a capi-re. Per non sbagliare, tuttavia, intascavamo quantoci veniva offerto e cominciavamo a trottare – senzaun senso preciso – per i vicoli della città, con ariasicura, sperando di essere aiutati dal caso. Alla primadistrazione di coloro che ci seguivano, ce la filavamoa gambe levate rifugiandoci in una casa di amici elasciandoli di stucco. Un giorno però un ragazzonemagro, rossiccio, pieno di foruncoli, con i denti gua-sti, ci riconobbe, prese per un braccio il mio compa-gno e cominciò a tirargli le orecchie gridando in in-glese delle parole probabilmente offensive.

Intervennero alcuni sfaccendati che bivaccavanoai tavolini di un bar intimandogli di smettere subi-to. Dopo un concitato scambio di opinioni (parte inlingua pugliese e parte in lingua estera, senza chenessuno capisse un bel nulla) passarono tutti con-temporaneamente alle vie di fatto e si scatenò unarissa furibonda, come del resto frequentemente ac-cadeva in quel periodo.

Ci stavamo leccando le ferite e rievocavamo levarie fasi della lotta già esagerandone i particolari,quando gli uomini ci spiegarono che “quella cosa”

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erano le puttane e che i soldati vagavano sempre allaricerca di ruffiani o fratelli minori per raggiungerle.I bordelli erano per la verità liberi e permessi, sipotevano perfino riconoscere per via di un segnalein vernice posto all’inizio e alla fine della strada.Molte donne non ne volevano sapere di farsi mar-chiare sperando di abbandonare al più presto la pro-fessione momentaneamente intrapresa per fame ed’altra parte la polizia militare, là, poteva colpiresicura con le retate. La solitudine dei clienti e lamiseria delle fornitrici si concretavano in una verae propria folla che caratterizzava il settore; ma ilgenere non era di nostro gradimento. Prima di trala-sciare la piccola iniziativa trasportammo però an-cora qualche gruppo di marines a spasso, mollan-doli (questa volta a ragion veduta) nei vicoli piùmalfamati: in fondo potevano trovare ciò che desi-deravano senza soverchie difficoltà ed esportare ma-lattie veneree originali italiane.

Gli anni passavano e i notabili avevano già ri-preso interamente il controllo della situazione. IlFronte Popolare era stato travolto, i comunistiemarginati, i vecchi fascisti tornati ai loro posti fral’indifferenza di una popolazione abituata a esserepresa in giro. Nel 1949 io e Saverio eravamo ormaiuomini fatti nonostante avessimo solo dodici anni.Cresciuti dalle circostanze, sapevamo smontare sen-za difficoltà le ruote di ogni autovettura, portar viaqualche piccola valigia dalla stazione centrale e per-fino (ma con il fiato in gola) sfilare l’orologio dalpolso di una persona distratta. Avevamo maturatouna profonda avversione al lavoro, osteggiata dallenostre famiglie che non intendevano sfamare dueperdigiorno e che non esitarono quindi ad affidarci

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– dopo breve trattativa sul compenso incameratodirettamente da loro – al nostro primo padrone perun impiego saltuario.

Si trattava di un individuo assai grasso (seppurnon obeso) che ci utilizzava come facchini cavan-dosela con pochi centesimi. Dovevamo caricare dimaglie, magliette e camicie un furgone di mediaportata, sudando senza un attimo di tregua. Allaprima sosta, infatti, quel bastardo si affrettava adallungare pesanti calcioni (per raddrizzarci la schie-na, diceva) così da accelerare di nuovo il ritmo. Incapo a due o tre mesi se non avevamo accumulatorisparmi, avevamo però immagazzinato tanta rab-bia in corpo e tanto odio da desiderar la morte diquell’aguzzino in un qualche incidente stradale pro-vocato dalla Divina Provvidenza. Tornava invece,e puntualissimo. Tendeva anzi a incrementare ilnumero dei suoi viaggi (e di conseguenza della no-stra fatica), agitandosi sempre più man mano chegli affari prosperavano. Ci mandava a comprar dabere, ma non ci offriva nulla; poi sputava per terra erideva delle sue stesse battute cretine, ripetendoleall’infinito fino a quando non dimostravamo di ap-prezzarle. Non ne potevamo più e si decise di porrefinalmente rimedio alla nostra situazione.

Dopo aver preparato un piano e studiato atten-tamente lo svolgimento dei fatti, una volta saltaidentro il camioncino mentre stava per partire. But-tai giù subito un paio di scatoloni scelti a casaccionel mucchio, poi scesi anch’io approfittando delprimo semaforo e raggiunsi Saverio che mi aspetta-va di guardia alla refurtiva. L’aguzzino non si ac-corse di nulla fino alla consegna della merce; si li-mitò quindi a sospettare della nostra onestà e a non

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chiamarci più. Avevamo preso i due classici piccio-ni con una fava: da un lato eravamo esentati daquell’increscioso servizio, d’altro lato avevamo pureguadagnato qualche lira dalla nostra impresa.

Il timore di qualche nuova “sistemazione” mispingeva a fughe sempre più frequenti da una casain cui ero sempre meno desiderato. Dormivo allastazione ferroviaria e non era difficile accomodarsiin maniera conveniente; là però mi acchiappavanoe, con le buone o con le cattive, mi riconducevano«al luogo di residenza» ove prendevo regolarmenteuna sonora dose di legnate ad opera dell’adultomaschio di turno. Durante i vagabondaggi ebbimodo di conoscere le solite persone abituate a vi-vere di loschi affari o di espedienti; Saverio se neentusiasmò in maniera incontrollabile e riuscì a con-vincermi che era giunta l’ora di mettere in atto quan-to avevamo appreso di male. Su ordini e indicazio-ni assai precisi ci dedicammo pertanto a rubare inuna lavanderia le divise dei soldati, ricevendo trelire per ciascun capo. Naturalmente ci scoprironoquasi subito, ma, poiché eravamo ragazzini, i pro-prietari si accontentarono di schiaffeggiarci per dueo tre ore senza dar seguito all’episodio.

Nel nostro quartiere ci tenevano tutti d’occhio efu necessario mutare la zona operativa; ci trasfe-rimmo così in una grande piazza di intenso traffico,un vero e proprio punto strategico. Sei strade sfo-ciavano là, creando facilmente l’ingorgo di mezziintorno all’obelisco innalzato nel centro. Per i vei-coli in transito (e fra questi i camion che riforniva-no la caserma americana di vettovaglie) eragiocoforza fermarsi. Al segnale di Saverio ci avven-tavamo sul carico come falchi sulla preda, depre-

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dando quanto era possibile in pochissimi minuti.Prima ancora che gli autisti accennassero a una rea-zione, noi eravamo già scomparsi, correndo, in unamiriade di viuzze intricate e apparentemente ugua-li. Si trattava quasi sempre di riso o di scatolame;ma di tanto in tanto finiva nelle nostre mani il pez-zo pregiato ed era festa. La nostra piccola econo-mia prosperava e noi eravamo ben consapevoli diessere diventati fior di mascalzoni. Saverio era de-cisamente un fanatico troppo spericolato, ma sape-va vincere ogni critica con il sorriso e la istintivasimpatia che ispirava. Così il senso del limite fu per-duto da tutti quanti e ci si vantava in pubblico, adalta voce, delle nostre imprese illecite. La banda siera stabilizzata in sei membri effettivi e un paio disimpatizzanti arruolati solo per occasioni partico-lari; alla sera ci si riuniva insieme fra i colonnatidella Chiesa di Santa Croce. Di rado qualcuno man-cava all’appello e piaceva a tutti passeggiare o gio-care nei giardini, rubando la frutta dagli alberi. Poici si comprava il gelato, si fumavano le Kent o lePall Mall di nascosto, ci si raccontava delle primescopate con le solite vecchie zoccole mammone.Di lavorare non si parlava neppure più se non perandare in gruppo a sfottere qualche nostro amicofinito a fare il garzone di bottega.

Non poteva durare, anche perché altri gruppi dipiccoli teppisti avevano seguito l’esempio, così chei furtarelli erano aumentati oltre il limite di guardiafissato dalle autorità. La gente aveva dimenticato infretta fascismo e guerra, stenti e miseria. Nelle cam-pagne ricominciavano i disordini, nel mondo c’erala guerra fredda, nelle fabbriche si scioperava a gettocontinuo. I democristiani pensarono bene di dare una

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strigliata e fornirono istruzioni alla polizia; que-sta, non potendosela certo prendere con i mafiosidel posto, trovò un assai comodo obiettivo nei ra-gazzini ladruncoli: “lo scandalo” sarebbe cessato!Un brutto giorno circondarono mezza città e co-minciarono con delle retate a colpo sicuro. Ci pre-sero naturalmente con la refurtiva e la nostra car-riera di scugnizzi terminò bruscamente. Fummo rin-chiusi senza tanti complimenti in un campo di con-centramento e alloggiati, di notte, in grandi capan-noni con robusti chiavistelli alla porta d’ingresso.Superavamo i cento ragazzi e i giornali si prodiga-rono in grandi elogi alla pubblica sicurezza e al mi-nistero per aver così brillantemente risolto un serioproblema cittadino.

Saverio – nel frattempo rimasto solo al mondoper una catena di disgrazie – riuscì a vendere beneil suo volto simpatico tanto da riuscire spregiudi-catamente a conquistarsi l’adozione presso una ric-ca famiglia italo-americana. Se ne andò all’estero,non lo rividi più e non seppi neppure, mai, nulla dilui: è tuttavia probabile che abbia trovato altri guai.Noi, i “responsabili”, cominciammo a essere lenta-mente registrati e poi, altrettanto lentamente, sche-dati. Dopo quindici giorni presero a dividerci ingruppi, a lavarci, a tosarci, a disinfettarci. Final-mente giunsero all’obiettivo che riassumeva in séla punizione e la redenzione: ci costrinsero al lavo-ro coatto e chi non si mostrava contento buscavasberloni. Di mattina o di pomeriggio ci radunavanoe ci facevano delle ramanzine sul nostro futuro esulla necessità di cambiare vita, ma anche gli orato-ri erano ben consapevoli di spendere parole inutili.In me, oltretutto, si agitava un desiderio di avven-

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tura troppo prepotente per essere spento da un fun-zionario ottuso, preoccupato soltanto di arrivare allapensione.

Mia madre e tutti i parenti erano felici del miosequestro, non so neppure come giuridicamente giu-stificato. Avevano una bocca in meno a tavola esperavano che così mi si calmassero in poco tempoi bollori. Io invece non ne potevo più di essere rin-chiuso e di pulire i pavimenti nel comando di unapiccola caserma situata vicino al porto; ero decisoanzi a cogliere al volo la prima occasione per cam-biare ambiente, a qualunque costo. Non esitai cosìad accettare una collocazione a tutti invisa e diven-ni inserviente generico (o ultima ruota del carro)presso l’ospedale psichiatrico. Quel compito dav-vero ingrato fu una indimenticabile esperienza enessun luogo di lavoro mi è sembrato, in seguito,peggiore di quella fortezza adibita a inferno. Nonappena ebbi confermato l’intenzione di accettare,mi fecero subito firmare dichiarazioni già preparateche non mi preoccupai di leggere anche perché erosemianalfabeta: per larghe linee si diceva che eroun volontario, che mi impegnavo per un periodo,che ero consapevole del fatto mio e che conoscevotutti i regolamenti. Poi mi consegnarono – una vol-ta a destinazione – la vestaglia di servizio, forsebianca in un lontano passato, ma divenuta certo in-dumento lurido e puzzolente.

Le cure erano molto moderne. Come in guerrasi usava il petrolio per combattere le prosperosecolonie di pidocchi (animali su cui potrei scrivere untrattato concernente abitudini e comportamenti);i malati di mente o anche semplici epilettici sfortu-nati venivano legati per un nonnulla con delle ca-

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tene ad appositi anelli fissati sul pavimento. Se ciònon bastava (e in effetti poteva accadere) gli inser-vienti anziani, ormai abbrutiti dal loro stesso me-stiere, li bastonavano senza pietà: né quelli, inde-boliti dalla mancanza di cibo e disgraziati, poteva-no certo pensare alla vendetta. Il cibo superava qua-lunque fantasia di sadico; basterà dire che io stessomi trovai a essere il macellaio di cavalli morti quasiper la vecchiaia e che non si buttava via neppure latesta. Funzionari di specchiata onestà, cittadinimodello e sicuramente incensurati, intascavano ladifferenza fra speso e dichiarato e si arricchivanosotto gli occhi di quegli stessi poveracci che oggi siscappellavano per timore e domani magari sareb-bero finiti piangendo fra le loro grinfie.

Dalla padella alla brace, dunque. Dopo tre mesine avevo abbastanza di quell’orrendo manicomio,del tanfo di urina e di escrementi, dell’incontrollatacattiveria dei miei colleghi, ma soprattutto dei la-menti continui che percepivo, addormentandomi,provenienti dalle camerate, e che mi risuonavanonelle orecchie, subito appena sveglio, nel chiusodella mia stanzetta. Chi ha parlato delle fosse diserpenti non mi par proprio sia stato eccessivo. Perfortuna avevo subito fornito un nome falso, similesì a quello reale, ma inesistente e inventato. La pre-cauzione si rivelò utile permettendo la mia improv-visa fuga strategica, senza che ne venissi a subire leconseguenze. Prima di andarmene decisi di com-piere un gesto folle forse, ma necessario per potervivere senza la sgradevole compagnia di un rancorerimasto invendicato. Non mi vergogno ad affermaredi essermi tolto una soddisfazione capricciosa, e perògrande. Provocai con diligenza un incendio che di-

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strusse, fra l’altro e non a caso, l’autovettura nuovafiammante di quel vigliacco del vicedirettore, manon una vittima (se si esclude un albero secolarequasi umano). In mezzo a quel trambusto guadagnaielegantemente l’uscita e me la filai senza dar piùnotizia di me. Era il mese di settembre dell’anno 1954e io ero tornato finalmente libero.

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III

L’esperienza mi aveva insegnato che, per vi-vere dignitosamente, non si può elemosinare l’al-trui favore, ma bisogna invece utilizzare astuzia eingegno, senza chinare la testa come le pecore delgregge. Invece di tornare fra i vecchi amici dellamalavita leccese (ed essere subito arrestato per l’in-crociarsi cartesiano di fatti delinquenziali eastrazioni giuridiche) incominciai a percorrere lacosta, diretto verso il nord, a piedi, vestito comeuno straccione. Portavo pochissime cose e scarseprovviste (pane nero e riso bollito). Dopo due gior-ni di cammino forzato e non so quanti chilometri,arrivai, completamente sfinito, a un piccolo paeseportuale, abitato da pescatori, caratterizzato danumerose barche ormeggiate e da un certo movi-mento.

Per tutto il giorno, dall’alba fino alla sera, rimasisdraiato accanto a un gigantesco e inutile blocco dipietra granitica, quasi fossi un fantasma, senza piùl’energia per proseguire oltre. L’umanità mi sfilavadavanti senza chiedere nulla, né io ero ormai in gra-do di rivolgere la parola a nessuno. Credendo di nonessere visto, durante la notte, mi azzardai a mangiarequalche frutto rubato in un giardino di abitazioneche dava sulla strada; poi mi accomodai a dormiresul ponte di un motore in riparazione, tirato a riva eincustodito. Le luci dell’alba mi sorpresero ancoracon le ossa bisognose di riposo, ma preferii cercaredi rimettermi un po’ in sesto con l’acqua del pub-blico lavatoio, gradito dono alla popolazione di nonricordo quale famiglia nobile.

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Nettai tutti gli abiti, e in particolare la camicia;poi tornai al mio masso, senza più muovermi pertutto il secondo giorno, deciso a sostenere una verae propria prova di forza con l’altrui diffidenza. Il mioatteggiamento, davvero inusitato, aveva ormai in-curiosito tutti quanti, ma né io ritenevo opportunofarmi avanti per primo (perché così mi suggerival’istinto) né alcuno si decideva a smettere di igno-rarmi. Di aiuto a sopravvivere furono i soliti frutti,arricchiti da un pesce dimenticato (forse voluta-mente) nella cesta di una barca e clandestinamentebollito con il favore delle tenebre.

Le novità – è cosa risaputa – cadono sempre ilterzo giorno. Finalmente mi si fece vicino unbrav’uomo, di nome Ferdinando Cavaliere, affer-mando di aver capito quale era la mia situazione echiedendo, per rompere il ghiaccio, se avessi biso-gno di qualche cosa.

«Mica sono nato qui, io. Ci siamo arrivati venti-due anni fa e ti posso dire che ci si trova bene».

«Vorrei lavorare. È possibile? Non mi piace es-sere così».

«Chi ne ha voglia, trova sempre da fare, ragazzo.Tu sei giovane e sei solo. Non hai famiglia?».

«Sono morti tutti in guerra, non so dove sbatterela testa. Voglio diventare un marinaio, in città nonresisto. Volete aiutarmi?».

«Sei troppo magro per questo, sei un chiodo. Vie-ni a mangiare in casa mia e ne parleremo. Sei sano?Sei capace di nuotare? Sai muovere i remi?».

«Certamente… e da un pezzo».Con una sola risposta riuscii a dire ben due bu-

gie, ma anche a cambiare una parte della mia vita.Quando – di lì a poco – capirono che di mare non

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sapevo un bel nulla già facevo parte della comu-nità e non se ne ebbero a male. Passai cinque annimolto sereni e credevo di aver per sempre sepoltoin me il giovane brigante, la vocazione di avventu-riero. Sgobbavo senza che mi pesasse, mi voleva-no bene e imparavo un po’ alla volta i trucchi delmestiere. Dapprima ricevevo come paga solo ilcibo e il letto; in seguito anche un piccolo stipendiotanto da riuscire ad acquistare una vecchia Vespa.Ero felice.

Il peschereccio di Cavaliere conteneva dodiciuomini e gli rendeva. C’era una specie di cella fri-gorifera raffreddata come si poteva con dei blocchidi ghiaccio, ma puzzava peggio di un mercato. Usci-vamo con le lampare, accompagnati dalle barchebattitore che attiravano la preda con luci raccoltema potenti. Da come ero salito la prima volta a bor-do già i miei compagni si erano resi conto – senzaombra di dubbio – che io non ero mai andato a pe-sca neppure con la canna e lo spago; tuttavia nondissero nulla e si fecero in quattro per farmi diven-tare come loro, ottenendo molto di più in quel modosilenzioso che con cento urli offensivi. Cavaliere –patriarca e padrone – mi disse anzi che la mia ine-sperienza risvegliava in lui lontani ricordi e riaccen-deva la nostalgia per il suo paese d’origine.

L’inverno era assai lungo, interminabile quasi.Si usciva di rado e anch’io passavo serate ascol-tando nell’unica bettola i racconti dei marinai che,prima di fermarsi, avevano viaggiato per il mondo.La verità e l’invenzione si intrecciavano continua-mente, né era possibile distinguere l’una dall’altra:il tempo aveva creato una strana fusione, forse, nellastessa mente dei narratori.

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Ai giudici piace (per loro sciocca deformazione)controllare l’esatto sviluppo di frammenti inutili del-la realtà e ciò ho notato nel corso dei miei successi-vamente frequenti rapporti con loro; perdono cosìil senso delle vicende. A me piaceva invece sentiredi navi affondate, di terre lontanissime e diverse, dipiovre immense, di balene e – perché no? – di mostrialati, di draghi, di sirene. Né la mia concreta astuziadi lestofante, addestrato nei vicoli della città, costi-tuiva un freno alla ingenua passione per simili sto-rie. Mi rattristava soltanto non averle udite ancheda bambino.

Si faceva un gran parlare del governo di centrosinistra quando l’incantesimo si ruppe; ma non fucerto per quello. Più modestamente un certo Giu-seppe, ubriacone violento e sgradevole, pretese sen-za ammettere repliche di portarmi a casa sua e nonne voleva sapere di togliersi di torno, se non accet-tavo. Lo seguii di malavoglia, trascinato per un brac-cio da quell’essere malfermo sulle gambe; ebbi cosìil modo di conoscere sua moglie Maria. Fui subitocolpito dalla bellezza di questa giovane donna, ob-bligata a essere la serva di un marito rospo senzaavere in cambio né agiatezza né affetto. Appena en-trati Giuseppe rotolò sul pavimento sghignazzandoe provocando il risveglio dei suoi due figli di primoletto. Quando la sposa bambina ritornò dopo averriaddormentato quelle creature non sue, il bestionestava già ronfando ma io esitavo ad andarmene. Erogiovane e solo; lei non poteva certo essere soddi-sfatta di un matrimonio imposto. Così fu quasi na-turale per noi divenire amanti e la mia moto si rive-lò assai utile per proteggere la nostra relazione daocchi indiscreti. Nonostante l’agitazione (non era

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difficile, in quel tempo, beccare un proiettile o unacoltellata per le corna) ci divertivamo molto insie-me e scopavamo come i conigli; per ore e ore ciarrovellavamo a studiare come incontrarci pochiminuti e ogni scusa era buona a giustificare lo sfogodei nostri sensi.

Sentendosi desiderata Maria diventava ancor piùdesiderabile e la sua disponibilità fu la levatrice dellamia natura che riprendeva il sopravvento. Comin-ciai ben presto a fingermi malato per essere prontoa stare con lei ogniqualvolta se ne presentava l’oc-casione e riuscii a superare con pieni voti le prime“visite fiscali” di Ferdinando Cavaliere, uomo assaiprofondo nell’esame dell’animo umano.

Lavoravo sempre meno e sempre con minor vo-glia, specie dopo aver ottenuto la complicità di unacerta comare Rosa, prestatasi ad aiutare la tresca nonsolo grazie alle piccole somme che periodicamentele regalavo, ma anche per odio antico nei confrontidi Giuseppe. Le sensazioni precedono gli occhi nondi rado e, se pur nessuno poteva dire di avermi vi-sto, tutti avevano la certezza che io nascondevoqualche cosa: un equilibrio saggio si andava alteran-do e la comunità reagiva con l’indagine. La corda,troppo tesa, rischiava di spezzarsi da un momentoall’altro; mi sentivo pedinato in ogni istante ed en-trambi avevamo capito che di lì a poco ci avrebberoscoperti con tutte le conseguenze del caso.

La forza di ribellarci mancava e stabilimmo dilasciarci, di non vederci mai più. Una simile deci-sione costò assai a entrambi; ci pareva però di nonavere altra scelta e forse era davvero così. Il taglionetto parve la cosa preferibile e mi trovai coinvoltoin una volontaria condanna all’esilio al seguito di

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un marinaio che aveva combinato per me l’imbarcosu una grandissima nave, chiamata Mar della Platae diretta verso un Oriente a me non meglio specifi-cato, con partenza dal porto di Genova. In oltrevent’anni avevo percorso poche decine di chilome-tri e d’improvviso si parlava di nuove distanze chela mia mente neppure riusciva a catalogare fra i con-cetti comprensibili.

Davanti alla corriera, a mezzo mattino, aspetta-va Ferdinando Cavaliere che mi abbracciò con l’af-fetto di chi pensava fossi caduto in un errore umanoe che la mia partenza fosse giusta decisione di unuomo a cui voleva bene. «Mi dispiace», disse sem-plicemente e io ne fui commosso. Quando – moltianni dopo – ebbi a chiedere di lui, seppi che era mortodi un dolorosissimo tumore e ne soffrii. Di tutte lefinzioni, l’assenteismo ai suoi danni è stata quellache mi è costata maggior fatica, la più difficile.

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IV

Mar della Plata levò le ancore dal porto di Ge-nova, puntualissima, ma senza Salvatore Messanaa bordo. Il vostro amico se l’era filata proprio al-l’ultimo momento e aveva preferito rimanere conMarcella sulla terra ferma, trascorrendo giornateoziose, affascinato dalle novità che gli sfilavanodavanti agli occhi. Privo di mezze misure comesono sempre stato, mi ero subito convinto di nonpoter vivere senza quella brunetta timida e minuta,capace di travolgere nell’intimità. Ero innamoratocome uno zucchino lessato nel brodo e trovai na-turale chiederla in sposa dopo solo venti giorni.Fu un disastro; non si parli mai più con ironia dellamentalità meridionale. Mi trovavo nella capitaledella nordica Liguria, ma la reazione alla mia pre-tesa non aveva nulla da invidiare a quella presumi-bile della natia ***. Innanzitutto non fu ben vistoil fatto che – per continuare a esser vicino a quelfiore – mi fossi dimenticato e disinteressato del li-bretto di navigazione e avessi quindi perduto l’im-barco, il lavoro, lo stipendio; colpì poi sfavorevol-mente l’evidente tranquillità con cui accettavo unostato assolutamente precario, senza garanzie per ilfuturo.

Deciso tuttavia a superare ogni ostacolo perconvolare a giuste nozze, parlai con la madre diMarcella, arbitra unica da quando il padre, tempoaddietro, aveva raggiunto il Creatore. L’anziana si-gnora mi fece accomodare su una poltrona di legnoricoperta di velluto damascato, improntata a un cer-to qual pessimo gusto come del resto l’intero salotto.

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Mi sentivo oppresso, circondato com’ero da Loretiimpagliati e Venezie a mosaici, da mobili mai usati,dall’insieme di cianfrusaglie di scarso valore acqui-state ad alto prezzo presso un abile commerciante.Il mio sguardo non riusciva a distaccarsi da un vo-luminoso porro che adornava la parte superiore dellabbro della signora e che rendeva ancor più sgra-devole il sorriso di circostanza un po’ imbarazzatoe un po’ bugiardo. Il bitorzoletto tondeggiante, ru-vido, duro come un callo, si agitava seguendo i mo-vimenti determinati dall’uscita della voce chioccia(invano tentava invero di nascondere la forte ca-denza ligure) che mi proponeva del nocino. Senzaattendere il mio cortese rifiuto, la madre di Marcellane versò una dose nel bicchierino decorato di ver-nice argentea; subito il sapore dolciastro e nausean-te mi consigliò un consumo lento, per evitare la se-conda razione, probabilmente fatale a chiunque nonfosse cronico etilista.

«Ti stimo, – disse, – e capisco che sei un ragazzoin gamba; potrei anche volerti bene perché sei sim-patico. Ma mia figlia te la scordi, non la sposi. Hocapito subito che non ti piace lavorare e non seineppure delle nostre parti».

Circa la voglia di lavorare pensai si trattasse diuna fattucchiera o di una indovina, ma negai ugual-mente tentando di convincerla con una appassio-nante recitazione nella parte del fannullone redentoper amore. Quella era però irremovibile e conclusesul patetico: «Io e Marcella abbiamo sofferto trop-po. Tu non devi vederla più e anzi le ho già trovatoun buon marito, adatto al suo carattere, tranquillo.Per aiutarti, tuttavia, mi sono permessa di fartifare il libretto di navigazione… eccolo qua, tieni!

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Se vuoi, rivolgiti a questo indirizzo e fra tre giornipuoi imbarcarti sulla nave chiamata Sultana e partire.Contento, Salvatore?».

Aveva davvero pensato a tutto, quella megera.Con l’aiuto del mio concorrente (ufficiale di marinamercantile) era riuscita a togliermi di mezzo. Rice-vevo una pugnalata al costato e stavo anche ringra-ziando! Capii subito che Marcella non si sarebbemai ribellata a una simile genitrice e così me ne an-dai senz’altro presso la compagnia di navigazione afirmare il contratto d’imbarco su quelle dodicimilatonnellate dirette in America. Mi guardavo allo spec-chio mentre mi radevo la barba e mi piaceva pensaredi essere un eroe che si sacrificava per il bene altrui;ma intuivo che non ci sarebbe stato il lieto fine concui si concludono i fumetti. Lei era destinata a di-ventare una casalinga nevrotica; io a sgobbare comeun somaro.

Bando alle malinconie! Avevo realizzato un so-gno per lungo tempo covato e potevo finalmenteconsiderarmi un marittimo. Raggiunsi l’imbarcazio-ne a Marsiglia, provando così l’emozione del pas-saggio di frontiera: a sentir tutti parlare in francesemi veniva da ridere. Quanto alla nave, mi sembrò lacosa più bella che avessi mai visto. Non mi stanca-vo di osservare e toccare la cabina, la doccia, i ser-vizi, il letto comodo, le rifiniture curate, la pulizia,la tappezzeria applicata da mani esperte. Nei localicomuni intere pareti erano ricoperte di fotografie;si trattava di volti di donna con il nome, la datadell’incontro e il luogo. Nei primi giorni mi teneva-no compagnia con i loro eterni sorrisi ammiccanti,così diversi da quelli dei ritratti che troneggianonelle case contadine.

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Non voglio annoiare i miei lettori con un reso-conto troppo particolareggiato; avendo io trascorsoben otto anni esercitando questo mestiere, non ba-sterebbero cento romanzi a descrivere tutte le miesensazioni e tutte le mie piccole avventure. Mi an-davo impadronendo di una certa professionalità e ilvagabondare per il mondo rendeva meno pesante lafatica.

Diventavo a poco a poco un operaio del mare,sempre un po’ ribelle, ma non insoddisfatto. Lo sti-pendio non è favoloso come molti potrebbero cre-dere, ma si può considerare buono. Non avendo fa-miglia, disponevo di qualche piccola somma; in partedilapidavo e in parte depositavo i risparmi nel con-to corrente aperto presso la banca di La Spezia con-venzionata con l’armatore. La conoscenza del si-stema di deposito e credito mi sarebbe poi tornata,come vedremo, assai utile.

La navigazione ci rendeva desiderosi di rappor-ti sessuali non frettolosi, ma le sirene che aspetta-vano in terraferma costavano una cifra. Ci tengo afar osservare come – per essere davvero un buon-gustaio dell’amore – sia necessario avere la borsapiena di quattrini e una naturale propensione a spen-derli. Per chi non si voleva abbrutire in infimibordelli o rinchiudere in squallide camere di pen-sione con l’intonaco cadente, non c’era scelta. Pran-zi, taxi, alberghi, balli, così da trascorrere, da veroRomeo, ore felici con una Giulietta disponibile; einfine un regalo capace di lasciare un ricordo nontroppo fuggevole. Eravamo tutti consapevoli diessere dei randagi e ci era indispensabile rimanereancorati almeno alla memoria delle persone cono-sciute: non a caso marittimi e camionisti sono i pro-

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letari con le mani bucate e, quando si fermano, malsopportano l’onesta parsimonia del metalmeccanicoo il gradualismo innato dell’operaio della grandefabbrica.

Il danaro speso per agganciare le donne conduce-va alla bella vita durante le soste e la bella vita ri-chiedeva sempre più danaro. Un circolo vizioso, dun-que, come il giuoco o la droga. Subito scartata l’ideadi limitarmi, capii che dovevo darmi da fare nei modipiù svariati. Ricordo di aver creato – con due com-pagni di lavoro – una vera e propria distilleria clan-destina a bordo della Sultana; dopo numerosi ten-tativi falliti eravamo anzi riusciti ad approntare unaricetta gradita ai nostri clienti. Raccoglievamo tuttigli avanzi di frutta e verdura, le bucce, i rifiuti eriempivamo di quell’intruglio una serie di piccolebottiglie. Quando la parte superiore incominciava acolmarsi di muffa, si mescolava tutto in un diabolicoimpasto, aggiungendo farina, zucchero e ancora ciòche la fantasia suggeriva fra lo svariato materiale adisposizione. Si passava l’intruglio un paio di voltenella serpentina (per ridurre l’alcool metilico) e na-sceva il liquore. Totò (uno dei soci) aveva acquistatoin Spagna delle etichette e c’era scritto «Aguardientede Torre Vega» o qualche cosa del genere. Ricordavaun po’ alla lontana la grappa e aveva un gusto ama-rognolo; in Finlandia, comunque, non si riusciva maia soddisfare la richiesta mentre in Sud America tut-ti i ristoranti si servivano da noi spacciando a caroprezzo il prodotto straniero. Le somme incassate –con l’inevitabile arrotondamento del più multiformecontrabbando – venivano tutte, per accordo preciso,destinate ai bagordi, così da non generare sospetticon una eccessiva mole di risparmi. Tale argomento,

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da me personalmente escogitato e imposto senzafatica ai compagni, serviva più che altro a far tacerela coscienza, giustificando di fronte a noi stessi lespese più pazze e a divertirci senza inutili rimorsi.La mia formidabile capacità di trovare valide scusea ogni mascalzonata ha sempre determinato una fa-vorevole accoglienza al vostro Salvatore Messanapresso tutti coloro che amano ingaglioffarsi senzaritegno.

Un bel giorno facemmo rotta verso il Mar Nero,con molte soste, ogni volta caricando e scaricando;il ritorno doveva invece essere diretto e con mercerumena a bordo. Passato lo stretto attraccammo aCostantinopoli, in Turchia, ultimo scalo prima dellameta.

Istanbul… ci sono tornato di recente ed è ormaidiventata una metropoli spersonalizzata, con tantecase a schiera e tanti turisti. Solo pochi anni addie-tro non aveva subìto l’aggressione violenta del pro-gresso che rende tutto uguale; possedeva una sortadi fascino difficile da spiegare, dava una sensazionedi paura e bellezza insieme. Se i vicoli e i numerosidelinquenti in circolazione intimidivano anche genteabituata a viaggiare, nessuno poteva evitare ammi-razione per il paesaggio da cartolina costituito damoschee e case basse e mare e cielo.

La porta dell’Oriente era poi aperta a tutti i pia-cevoli vizi che la mente umana può concepire; e perconsentire di pagarli era aperta, spalancata anzi, atutte le attività illegali. Ogni moneta veniva accet-tata e cambiata dal più miserabile commerciante; ognioggetto veniva contrattato e venduto (volevano ac-quistare un panino mangiato a metà, per strada, ri-cordo); non c’era merce introvabile fra quella marea

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umana in perenne movimento e naturalmente la dro-ga poteva essere reperita già allora con la stessa fa-cilità di un pacchetto di sigarette. Poiché i rari stu-denti fumavano sul posto e non pensavano – comepiù tardi avrebbero fatto – a speculare sul paradisoe a trasformarsi in trafficanti, i marinai rimanevanoi maggiori sospettati di piccolo spaccio.

Tutte le navi provenienti dalla zona venivano per-ciò – a seguito di un accordo internazionale nonscritto, ma funzionante – minuziosamente perqui-site. Non appena la Sultana giunse in Romania, nelporto di Costanta, se non erro, l’equipaggio fu scos-so da micidiali burocrati. Tutti erano ancora abitua-ti all’ambiente del bordello (con sole venti lire tur-che giovanissime donne erano disponibili per l’in-tera notte e non passivamente) così che l’impattorisultò disastroso: a nulla portarono le immediateofferte di dollari, di vestiario, di liquori. I militaripresero subito a guardarci con occhio fanatico némi sono mai imbattuto in servitori dello Stato (comesi usa chiamarli oggi) tanto meticolosi e scorbutici.Si comportavano con noi assai duramente, quasiavessero trovato la direzione strategica del complot-to antisocialista; frugavano nervosamente nelle ca-bine e nei bagagli, confabulando fra di loro, senzacedere per un solo istante alla simpatia umana. Nontrovarono questa dannata droga, nonostante il gra-duato che li comandava si dichiarasse a più ripreseconvinto del contrario, invitando a confessare e pro-mettendo clemenza a chiunque collaborasse. Io ri-tengo che su quel punto sbagliassero, anche perchéle spie non sarebbero certo mancate (la solidarietàè un mito, se riferita all’ambiente marinaro). Nonsbagliavano affatto, invece, nel definirci fuorilegge

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e briganti. Durante la perquisizione fu requisito ditutto: dal mio liquore alle riviste pornografiche, dallecasse di sigarette ai tappeti delle moschee. C’eranoanche (e qui scoppiò il casino) quarantacinque fu-cili automatici Remington, con binocolo di preci-sione, destinati (secondo voce attendibile) a unmercante dell’Africa del Nord disposto a pagarli unacifra astronomica. Sequestrarono ogni oggetto chenon era stato preventivamente dichiarato, perfinopepe e caffè sui quali di solito le dogane del mondointero chiudono un occhio. Il capitano spiegò cheera una ripicca dovuta a beghe politiche; comun-que finirono con l’arrestare tutti quanti e iniziò latrattativa con la Compagnia, conclusasi presto conil nostro rilascio e una salatissima multa.

Seguirono venti giorni di sosta: l’armatore pa-drone brigava da lontano per non pagare e cavarse-la senza troppi danni. A noi non ce ne fregava nien-te, una volta avuta la libertà e la garanzia dello sti-pendio: ci lanciammo alla caccia di fate slave e sco-primmo subito che il popolo era più disponibile delgoverno alle nostre lusinghe. Erano anzi poco abi-tuate alla presenza di occidentali le ragazze del po-sto e ci saltavano quasi addosso: coinvolto in variestorie finii con lo spendere tutto il contante, venderegli abiti di ricambio e anche le penne a biro, non soper quale misteriosa ragione particolarmente ricer-cate in quei luoghi.

Il console italiano (nazionalità dell’equipaggio)e quello liberiano (nazionalità della nave) si miseroin mezzo alla faccenda e trovarono una soluzione,ponendo fine a una presenza che infastidiva le auto-rità socialiste e provocava decadimento di sani co-stumi. Ripartimmo con la stiva piena e con il diverso

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nome di «Kirta»: quel figlio di puttana del proprie-tario doveva aver trovato il sistema di fregare legal-mente anche i coriacei rumeni! Non so, infatti, se lamulta sia stata pagata, ma, per quel che mi risulta,mai.

Se gli azionisti potevano tirare un sospiro di sol-lievo e ricominciare a contare gli utili, SalvatoreMessana era invece in crisi economica. Lo stipendionon mi era sufficiente (a causa dei numerosi vizi ac-quisiti) e non potevo neppure disporre della distille-ria clandestina o di altri proventi illegali. Cominciaicosì, per la disperazione, a vendere pezzi della nave.Dapprima mi limitavo ad appendere qualche guar-nizione al collo e, una volta uscito, a cercare l’inte-ressato fra i probabili acquirenti. Poi (al solito senzalimite) cominciai a portare loschi figuri a bordo,spacciandoli per compaesani o per parenti emigrati:mostravo loro la mercanzia e raccoglievo gli ordini.Gli affari andarono subito a gonfie vele e disponevoormai di una piccola rete commerciale in ogni porto.Non potendo, anzi, provvedere di persona al trasportodegli oggetti (o perché numerosi o perché volumi-nosi) avevo organizzato prelievi notturni con l’aiutoesterno; nonostante si trattasse di un sistema com-plicato e rischioso, nessuno si accorse mai di nulladurante le azioni. La canzone poteva essere suonataancora molto a lungo, vuoi perché a demolire unanave del genere non basta un’esistenza, vuoi perchéle assicurazioni pagavano oltre il valore effettivo e iltempo per una seria inchiesta – durante lo scalo –non era mai sufficiente.

Facevo tutto da solo per timore di bocche scucitee per non dover dividere il ricavato con nessuno.Ero stato sempre ben attento a non far intendere

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nulla ai compagni di lavoro e simulare anzi un certostupore per le misteriose sparizioni. Ma se avevoingannato i colleghi, non ero riuscito a sfuggire agliocchi attenti, sottili e porcini, del nostro coman-dante, il quale aveva una percentuale precisa su ogniillegalità consumata nel suo territorio e intendevaconservarla. La sera prima di sbarcare a BuenosAires, mi chiamò, dopo cena, nella sua cabina e mifece accomodare di fronte a lui, con un tono sor-nione che non prometteva nulla di buono. Aprì ilsuo armadietto, posò due bicchieri sulla scrivania eli riempì senza parsimonia di Calvados, la mia be-vanda preferita.

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V

«Upim», mi disse quasi d’improvviso dimostran-do di conoscere benissimo il mio soprannome.«Upim, io avanzo da te la mia parte… e gli interessianche. Quando pensi di darmela? Subito è già trop-po tardi, non credi?». Il suo tono non ammettevarepliche. Non scherzava affatto, era sicuro di se stes-so, perfettamente a suo agio nel minacciare educa-tamente, abituato al terrore che esercita lo spaven-toso potere di un comandante. Mi fissava con il suosguardo duro, ma quasi paziente, masticando unasigaretta con filtro; la divisa era impeccabile, in or-dine come sempre, indossata da uomo capace diessere uguale nell’onestà e nella prepotente illegali-tà. Mi sentivo tremare, piangevo ormai dalla rabbiae intanto annaspavo nel disperato tentativo di sal-vare almeno la faccia. Lui godeva del mio imbaraz-zo e del mio malessere; mi scrutava sogghignandoe attendeva una risposta mentre tentavo di ucci-derlo con la forza del pensiero alla maniera degliindigeni di Haiti. Niente da fare… a noi pugliesi lacosa non riesce!

«Ho i soldi in ballo, signore. Non appena sbarcatitroverò la maniera di pagare…».

«Ne sei sicuro? È bene, per te, che tu ne sia dav-vero sicuro, giovanotto… noi dobbiamo passaremolto tempo insieme».

«È certo, signore. L’ultima… come chiamarla?…l’ultima fornitura non mi è stata saldata. Troverò unaccredito a Buenos Aires e tale somma è Vostra».

Era una trovata un po’ stupida, tanto per guada-gnar tempo. Ma mi ripugnava proprio cedere senza

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lottare, senza provare a farla franca. Tanti sforzi etanti rischi a vantaggio di quel bestione: non riuscivoa digerire il colpo inferto da un destino malvagio eostile. Quella esperta carogna mi congedò dicendo:«Non cercar di fare il furbo, rispetta l’impegno ericorda che io detesto essere preso in giro». Nonappena terminate le operazioni di sbarco e le for-malità di polizia, volai con un taxi nel quartiere diBaires chiamato Boga, una specie di Spaccanapolidove si ritrovava tutta la gente più losca dell’Ar-gentina. Non feci fatica a pescare i miei soci e rac-contai loro che il nostro traffico era finito metten-doli al corrente di come erano andate le cose. Quel-li guadagnavano bene con me e andarono su tuttele furie, bestemmiando e maledicendo il mio per-secutore. Volevo consigliarmi sulla via migliore persuperare l’inghippo, ma un ragazzo moro e smilzomi assicurò che ci avrebbe pensato lui. Aveva duebaffetti alla nobile siciliano, si puliva le unghie conun coltello a scatto e si aggiustava ogni trenta se-condi uno strano vestito a righe (doppio petto e cal-zoni alla zompafuossi). «Non ti preoccupare», dice-va e intanto mi chiamava “amigo”, mi dava manatesulle spalle e rideva di un riso proveniente dal petto,tipico del pazzo lucido.

Ci pensò lui, infatti, e alla sua maniera. Quellasera stessa il comandante fu aggredito mentre usci-va dal ristorante. In due lo tenevano fermo e il terzogli spezzò prima una gamba, poi un braccio. Tantoper non lasciargli dubbi o incertezza sul significatoda attribuire a una simile operazione, il moro smilzolo avvertì che quella era la sua parte con gli interessi.E aggiunse: «Se ne vuoi ancora, porco figlio di put-tana, basta che me lo domandi e sarai subito accon-

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tentato… non hai neppure idea di quante ossa ècapace di rompere un chirurgo come me… adios».Lo fecero caricare da una macchina pubblica e tra-scinare in un buon ospedale, ove diagnosticaronodue mesi di degenza e cure.

Sarà stato il desiderio di vendetta o l’aiuto diqualche Dio (se mai esiste un Dio dei bastardi) maquel dannato si rimise in sesto prima del previsto e ciraggiunse per via aerea a Santos nel Brasile, ove lanave nel frattempo si era spostata. Io, al solito per-fetto incosciente, avevo in pochi giorni cancellatotutto dalla mente e badavo solo a spassarmela conuna compagnia particolarmente piacevole. Facevoil turista e galoppavo con vetture a nolo per chilo-metri a vedere un Cristo enorme proteso sulla cittào magari alla ricerca dei ristoranti per ricchi con iltavolo illuminato dalla candela (una mia piccola ma-nia). Mi ero fidanzato con la figlia di un commer-ciante di origine tedesca (un ex nazista? chi lo sa?) e– fra una promessa di matrimonio e l’altra – mi ap-partavo con lei nella stanza con balcone di un al-bergo arredato in stile coloniale. Passai l’ultima nottebrasiliana guardando il mare dal balcone, felice,spensierato, senza neppure essere sfiorato dal so-spetto di quanto mi sarebbe accaduto l’indomani.Ma ciò caratterizza le disgrazie.

Quando vidi in coperta colui che avevo troppofacilmente dimenticato, mi riuscì di non mostrarerigidità. «Chi non muore si rivede», dissi con grandecordialità, come se nulla fosse accaduto. La bile sem-brò accecare un istante quell’uomo poco avvezzoalle altrui battute di spirito e ad atteggiamenti ingenere non improntati a timoroso rispetto. Ripreseperò il controllo di sé e proprio quella calma mi fece

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presagire la tempesta. «Upim, – sussurrò prima diritirarsi, – chiedi in giro qual è il piatto che si servefreddo. Oppure lo sai?».

Ora mi era ben chiaro di esser rovinato, attende-vo la punizione e la consideravo ineluttabile. Pensaicon malinconia che probabilmente non avrei più ri-visto l’allegra compagnia di Santos e che mi avrebbe-ro atteso invano, di lì a quattro mesi, in occasionedel ritorno della Kirta. L’imbarcazione si stava d’al-tra parte muovendo e la fuga era preclusa.

Ero certo di non avere scampo, ma decisi di ca-dere con dignità, per il gusto di rendere ben recitatala tragedia. Non ebbi bisogno di aspettare a lungo:dopo neppure due ore già mi era stata comunicatala convocazione “urgente” in cabina. Niente Calvadosquesta volta! Il molosso pretese senza tanti compli-menti il “suo” danaro e annunciò la restituzione diquello che beffardamente chiamava l’anticipo rice-vuto. «Ho 1437 dollari, – replicai umile, – e li vadoa prendere subito». I ruffiani si erano disposti in modotale da guastarmi lo spettacolo e ci fu un mormorioquando mi videro tornare con la mazzetta in bellavista. «Non ho mai pensato di non mantenere il no-stro patto, signore. Come potete vedere, ho conser-vato per Voi il dovuto. Anche se non ha valore da-vanti ai Tribunali un patto è un patto: deve esseresempre rispettato». A questa mia ultima afferma-zione, si mise a ridere fragorosamente, dandomi delvigliacco. Voleva ristabilire il suo potere e nel modopiù crudele. «Ti eri messo in testa di essere il piùfurbo, mezza sega! Ma ti ho gabbato io. Caro il miovecchio Upim, adesso che hai saldato il conto ti spet-tano gli interessi e li avrai: l’ho giurato in ospedale».I ruffiani appostati fuori non perdevano una sola vir-

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gola guardando attraverso la porta aperta; si dichia-ravano l’un l’altro soddisfatti e la mia umiliazioneera il premio della loro ignavia. «Coglione, – com-mentavano, – la finirai di passare per una volpe! Orapagherai un prezzo salato e imparerai a rispettarechi è più grande di te».

Nel trovarmi vicino quel cumulo di espressionivigliacche, vennero a cadere gli ultimi dubbi. Fu unattimo. Cavai fuori dalla manica della giubba unbastone di legno scuro e robusto che avevo nasco-sto; poi cominciai con una lucida inconsulta calmaa picchiare – usando tutta la mia forza – sulla testae sulla schiena del comandante, trasformandomi inanimale furioso, incontrollabile; fino a quando nonsentii decine di mani, piedi, oggetti calare insiemesul corpo e il buio: non vidi più nulla.

Al risveglio provai una sgradevole sensazione alleossa. Ma ogni tentativo di toccare con le mani i pun-ti di più intenso dolore fu inutile perché ero incate-nato. Mi trovavo nel buco di lamiera tristemente noto,appunto, come “pozzo catene” e là ero destinato arimanere fino a Dackar, nel Senegal. Per una stranaironia della sorte, io, operaio bianco, percorrevo, aritroso e nelle stesse condizioni, la medesima rottadegli schiavi. Il sole equatoriale arroventava il me-tallo facendomi soffrire pene d’inferno per tutto ilgiorno; di notte mi faceva compagnia la febbre pro-vocando incubi e batter di denti quasi senza sosta.La tortura – perfezionata nel corso dei secoli – pre-vedeva che mi si passasse quel tanto di acqua e cibonecessario a una incerta sopravvivenza; ma chi prov-vedeva all’incombenza aveva soffocato ogni cedi-mento all’umanità e non osava – per timore del ti-ranno – scambiare una sola parola con me. Perfetto

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esecutore di una collaudata formula, il comandanteaveva deciso di presentarmi come un pazzo furiosoe mi stava preparando a recitare nel migliore dei modila parte che il suo copione prevedeva. La solitudineera terribile tanto che di lì a un paio di giorni spro-fondai in una specie di angoscioso dormiveglia, dacui mi sollevavo soltanto quando mi liberavano unamano per consentirmi il nutrimento: era quello il miounico rapporto con la realtà esterna. Nel corso dellemie allucinazioni rivedevo sovente i fotogrammi diuna pellicola ambientata nei tempi antichi, Barabbami pare. Mi identificavo nel protagonista che esce,miracolosamente salvo, dalla miniera nella quale tuttii compagni erano morti. Purtroppo non era un so-gno; io avevo perso ormai la sensazione del tempo eogni ironia era venuta meno.

Se non morii credo sia stato solo per ripicca omagari per istinto di conservazione; certo mi fu diaiuto la debolezza che impediva di ragionare sullasorte toccata al povero Salvatore Messana. L’odoreripugnante dei bisogni corporali, depositati attornoal mio involucro umano fin dalla partenza, si facevasempre più forte; né era gradevole il continuo con-tatto con il ferro che causava ampie vesciche allapelle, in svariati punti. Sapevo bene, inoltre, chenel non improbabile caso di collasso, sarei statobuttato senza complimenti in pasto ai pescecani enon si sarebbe saputo mai nulla di me.

Secondo successive ricostruzioni il calvario durò– pare – diciassette giorni e sedici notti. Non appenala nave consentì la vista del porto africano, con ap-posite bandierine, fu segnalata la presenza a bordodi un pazzo pericoloso, con la implicita richiesta dipronto intervento sanitario e di ricovero d’urgenza.

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Quanto a me, riuscii a comprendere (senza conosce-re il futuro) l’arrivo e la sosta dal rumore atroce delleancore calate che rimbombavano nel pozzo catene.Fu agonia nell’agonia, lunga serie di attimi intermi-nabili fra un suono e quello successivo: io non riu-scivo tuttavia a distinguere e ordinare con il pensieroalcunché. Il dubbio di essere irreversibilmente dive-nuto un malato di mente si era impadronito di me eancor oggi mentirei se mi dicessi certo di aver supe-rato la sconvolgente esperienza.

Quando mi tirarono fuori dalla penombra incan-descente gli occhi bruciavano a causa della luce di-retta che mi mancava da tempo; se la memoria nonmi inganna (e la guida turistica non ha mentito) untale morì per una cosa simile, uscendo dalla prigionedi un castello della Loira ove mi aveva trascinato invisita – molti anni dopo – certa Marinella, studen-tessa fuori corso di Lotta Continua. A me andò me-glio: con uno sforzo immenso riuscii anzi a intrave-dere tre giganti negri, con la testa pelata e il camicebianco, avvicinarsi a me. Mi afferrarono con vio-lenza, ma mi sembrarono ugualmente liberatori ve-nuti da una lontana galassia: il loro arrivo coincide-va con la fine dell’incubo. Dopo un mesto sorriso dicircostanza (non so se apprezzato o meno) persi co-noscenza e mi svegliai, legato sul letto dell’ospeda-le psichiatrico di Dackar. La Kirta sarebbe di lì apoco ripartita senza di me e non ne avrei saputonotizie fino al mio ritorno in Europa.

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VI

Mi avevano disinfettato a dovere e io non riu-scivo a resistere più di un paio di minuti senza la-mentarmi sonoramente a causa delle piaghe che bru-ciavano rimarginandosi. Tuttavia capivo di ripren-dermi e nonostante fossi ancora ben legato al miolettino mi sentivo ogni giorno meglio. Non mi di-spiaceva neppure il continuo via vai di sanitari ecuriosi al mio capezzale; l’isolamento riservatomicome pericoloso si concretava, in fondo, nel van-taggio di essere esentato dal quotidiano del mani-comio e mi consentiva un graduale contatto con larealtà. Gli inservienti avevano poi un certo rispettoper l’unico internato occidentale. Debbo anzi pre-cisare che mi era sembrato assai più terrificante laprecedente esperienza italiana e che i pazzi delSenegal godono certo di maggior rispetto e di mag-giori cure rispetto a quanto avviene nel nostrocivilissimo Paese.

Una volta ripulito e parzialmente restaurato (rin-grazio Dio o chi per Lui di avermi concesso unarobusta fibra) medici, inservienti, autorità varie siresero conto di come il mostro venuto dal mare nonera brutto come lo avevano descritto. Così fui final-mente slegato e, camminando, le ferite presero a gua-rire celermente. Con gesti e parole si creava il rap-porto umano fra me e quelle genti diverse, riavvi-cinandomi alla vita. Dovete sapere, inoltre, che aDackar tutti si stringono la mano per un nonnulla ela cosa mi divertiva non poco: quella sorta di giuocopenetra nello spirito e contribuisce all’ottimismo,magari irrazionale ma ugualmente profondo. I negri

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della costa atlantica saranno anche primitivi o sel-vaggi, ma con me furono proprio adorabili e gli abi-tanti delle periferie industriali (luoghi certo menopraticabili, per le persone indifese, dell’Africa diNord-Ovest) dovrebbero impararne alcuni lati ca-ratteriali per elevare la qualità – se non della vita –almeno della convivenza. Io confesso di aver avutofino a quel periodo radicati pregiudizi razziali (peresempio rifiutavo categoricamente di fottere le don-ne di colore e sostenevo puzzassero) ma la vicendafinì con il guarirmi da una simile sciocchezza, dicui, oggi, mi vergogno.

Nonostante il clima gradevole, la gioia delle pri-me passeggiate fra i giardini e il calore umano nonmi si scrollava di dosso l’apatia e il professor XavierBonghor non se ne faceva una ragione. Il clinico –cinquantenne, ironico, smaliziato figlio delle colo-nie e scettico sostenitore del socialismo nazionale– mi aveva in simpatia, mi interrogava a lungo, vo-leva vedermi dimenticare le atrocità subite. Io glispiegavo di avere il terrore del ritorno a casa; néaveva un senso il recupero per trovarsi poi in galera,a scontare, come minimo, diversi anni dopo, un pro-cesso per tentato omicidio. E quand’anche non miavessero processato, mi attendeva certo la vendettadi un altro marinaio, alla mercè di aguzzini con ilcamice bianco.

La pazienza pervicace del mio protettore portòalla scoperta che avevo invece avuto fortuna (tuttoè relativo, naturalmente!). Il guaio era infatti acca-duto in acque internazionali, a bordo di una naveliberiana. Il governo di quella parodia degli StatiUniti non aveva alcun interesse a perseguitare unpoveraccio come me, rischiando fra l’altro di tro-

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varsi una bocca in più da sfamare nelle poche cellea disposizione; né rientrava fra i miei progetti futurirecarmi in quello Stato lontano e privo di lusinghe.Tutti pensavano poi di avermi inflitto una punizio-ne sufficiente (e non lo pensavano a torto!): mi tro-vai così, inaspettatamente, libero da carichi ulteriorie padrone del mio destino. Accettai pertanto di es-sere dimesso e rimpatriato, con il morale alto e grandisperanze; per la prima volta nella mia esistenza miapprestavo, fra l’altro, a salire su di un aeroplano,pagato dalla diplomazia italiana presente in quellasgangherata rappresentanza estera.

L’addio fu una piccola cerimonia. Salutai moltepersone care e in particolare il medico dalla pellenera che mi aveva salvato due volte. Credo di do-vergli tantissimo né ho mai dimenticato il suo sguar-do buffo che sfociava in una aperta risata ogniqual-volta gli raccontavo l’episodio della bastonatura delcomandante, da lui accompagnato puntualmente connon equivoco gesto delle mani.

Tornai in Liguria alla ricerca di un nuovo imbar-co e rividi Marcella – la sposa mancata – con suomarito e con una bambina. Scappai a gambe leva-te, prima di commettere un adulterio, tanto mi erasembrata bella e disponibile: a un ulteriore garbugliopreferii il lavoro! Dopo undici mesi trascorsi sullagigantesca Butterfly (un equipaggio pugliese im-piantato all’ombra della bandiera panamense) ilVostro non più giovane narratore si recò a Napoliallettato dall’alto stipendio offerto per il lavoro suun cargo greco. Non appena salito sul ponte, miresi subito conto che quello era la Cayenna, un luo-go adatto solo ai deportati (che ci erano peraltrocostretti). Non c’era un solo marinaio a cui non man-

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casse qualche cosa: o un dito o un orecchio o i den-ti o i capelli.

Pochi secondi di riflessione e accusai subito i sin-tomi degli orecchioni (che, toccando le palle, su-scitavano malcelato terrore) riuscendo a ottenere,fortunatamente, il congedo con una piccola som-ma di consolazione. Avevo ormai capito come lamia carriera di marittimo fosse giunta al termine,non tollerando più né il corpo né la mente quellavita stravagante.

Il diavolo della vendetta era in agguato. Con imiei risparmi commisi perciò l’imprudenza di tra-sferirmi a Stoccolma per quello che mi sembraval’ultimo doveroso atto, prima del ritiro definitivodal mare. Non fu difficile reclutare tre complici perrealizzare un piano ai danni degli aguzzini della vec-chia Kirta: noleggiata una macchina raggiungem-mo perciò la base nemica, in Finlandia, provocan-do cospicui danni con un meticoloso incendio del-le merci. Purtroppo fui denunciato la notte stessa,mentre festeggiavo in una taverna, da uno dei par-tecipanti vendutosi al comandante e l’arresto fu ine-vitabile.

Al processo tutti i giudici si convinsero di averedi fronte un pazzo né il mio comportamento in aulaservì a far mutare loro opinione. Non ho idea di ciòche disse il difensore, ignorando io la lingua di quellaregione; non conoscendo neppure il codice penalelà in vigore sarà il lettore curioso a stabilire se lapena di sette mesi sia stata mite o no. Li scontaicomunque tutti senza esserne troppo molestato enon rimpiango quel gesto.

Forse sono davvero impazzito in quel pozzo ca-tene, ma potevo rinunciare a una qualsivoglia rea-

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zione, dopo aver subìto la tortura? Potevo rispettarme stesso senza aver dimostrato ai persecutori cheero ancora capace di lottare?

Mi risultava incomprensibile la politica, ma ciòche mi fece male fu soprattutto il tradimento di unmarinaio come me e che pure, prima, si era dimo-strato felice di colpire l’armatore. Per quanto la miamente possa vacillare, sono certo che non sarò maicapace di vendere un amico, qualunque cosa costuiabbia fatto. E se scoprirete il contrario, tiratemi ilcollo: me lo sarò meritato!

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PARTE SECONDA

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ABITARE A MILANO

Rimasi parecchi mesi inattivo, dopo il carcere.Mi divertivo a vagabondare nella zona del lungo-mare, in Nervi, spesso insieme a una compagniaraccogliticcia, ma non di rado da solo. Come i si-gnori dei tempi antichi dedicavo anche un certo tem-po a visitare – in varie città italiane – amici o cono-scenti di cui avevo diligentemente annotato l’indi-rizzo. I miei risparmi andavano però rapidamenteesaurendo e presi allora la decisione, sempre respin-ta, di trasferirmi a Milano cercando lavoro e av-ventura. In Liguria avevo conseguito la patente diguida e il mio disprezzo per la cautela aveva per-messo che in breve diventassi un pilota abile espericolato. Mi sentivo anzi una specie di cavalieredel teatro dei pupi, con qualche macchia ma senzapaura, quando mi mettevo al volante sfruttando almassimo la potenza di una vecchia BMW (in perfet-te condizioni di motore) che avevo acquistato daun contrabbandiere svizzero ritiratosi in pensioneper limiti di età.

Si avvicinava l’inverno; era già il mese di ottobre.Da buon disperato meridionale con precedenti pe-nali, non trovai di meglio che un posto letto nellavia Gaudenzio Ferrari e a caro prezzo. Si trattavadella solita camera ammobiliata che una donnettaaffittava abusivamente, senza far domande a chipagava anticipato, disposta a tutti gli inquilini purdi arrotondare la pensione e sopravvivere. Il tempouggioso e il cielo sempre coperto mi colpivano sfa-vorevolmente né la metropoli mi pareva – a primavista – quella Mecca dorata di cui fantasticava l’am-

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biente dell’emigrazione. Era anzi la città dei cada-veri viventi! Tutti si aggiravano indaffarati per quellabolgia grigiastra segnata dallo smog e si autocondi-zionavano a lavorare freneticamente, per non esse-re sopraffatti dalla solitudine, per giustificare le pro-prie infinite sofferenze di condannati a vendere iltempo al padrone.

Milano non è un posto facile, non ammette mez-ze misure. O la si ama o la si detesta con forza.Ancora oggi che ho qui la gran parte delle amiciziee degli affetti, che ho imparato a goderne gli angolie lo spirito al punto di non voler più mutare la miaradice ormai stabile, ancora oggi capisco come alnuovo arrivato possa apparire fredda, oppressiva,compartimentata e implacabile nella sua peraltroapparente efficienza.

In quei primi giorni percorrevo avanti e indietroil corso Buenos Aires senza riuscire ad afferrare gliambienti; né la sorte migliorava se mi infilavo nellacontrastante ragnatela di strade con le case fatiscentiche si dipartivano dalla grande arteria: non servivainfatti a nulla la superficiale, distratta cordialità deibottegai o la conversazione appicicaticcia dei vec-chi che stazionavano negli ultimi trani, sotto le casea ringhiera. Le giornate vuote ma sfiancanti termi-navano in trattoria. Mi ricordo il prezzo dell’abbo-namento: dodici pasti, diecimila lire, quartino com-preso, bevanda esclusa. In quel club degli aspirantisuicidi (ma erano rari anche i suicidi) pareva il pa-radiso quando potevi scambiare due parole in piùcon chi divideva occasionalmente il tuo tavolo e sene usciva una risata piena era il tredici al totocalcio!E il lavoro? Ah… già… il lavoro… Lo cercavo, manonostante bugie abili e ragionate non mi si offriva

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niente di meglio che scaricare casse con le carovane,cosa che mi guardavo bene dall’accettare. Parlavopoco, ascoltavo molto, sguazzavo come un porcel-lino nella melma senza guadagnare l’uscita dal por-cile e mi ritiravo, invariabilmente incazzato, nellamia cella.

Una notte fui svegliato dalle sirene della poliziache stava circondando la casa (si fa per dire: a Mila-no si blocca l’uscita e non c’è bisogno di circondare).Mi affacciai comunque alla finestra giusto in tempoper vedere un numero eccessivo di piedipiatti pre-cipitarsi con la loro consueta inutile spavalderia den-tro il portone (aperto: la serratura era rotta da setteanni). Alcuni agitavano la pistola, altri imbracciavanoil mitra MAB. Stavo ancora sbadigliando perplessoed eccoli picchiare come forsennati all’uscio del-l’appartamento, mentre si udiva dalle scale dei pia-ni sottostanti il vociare dei rastrellati. Si comporta-no così solo con i poveri e gli sprovveduti; avetemai sentito di un casino simile davanti all’abitazio-ne di Calogero Vizzini? Quando dormo mi si seccail palato e il mio problema era quello di produrresaliva per far cessare il fastidio; mi sforzavo in quelparticolare compito quando, aperta la porta, mi tro-vai spinto in malo modo, vestito del solo pigiama,nell’atrio d’ingresso.

Avevano avuto una soffiata da qualche balordoin difficoltà finanziarie e cercavano della refurtiva:fino a quando non l’ebbero trovata (e la trovarono)tutti i sospetti, ovvero tutti i maschi sani fra i quin-dici e i sessanta, rimasero faccia al muro, con le maniben alzate. Un agente con il naso lungo come Pinoc-chio – e povera la mamma quando l’ha visto dopoaver partorito – mi teneva la canna sulla spina dor-

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sale provocando la giusta umidificazione in boccaed evitando che io fossi assalito dal mal di testa.Evitai di esprimergli, tuttavia, la mia gratitudine.Di lì a quindici minuti fecero per andarsene trasci-nando un paio di disgraziati cui avevano messo lemanette. Io rimasi assolutamente esterrefatto nelconstatare che tutti cominciavano a sfollare connaturalezza, come al termine della festa dell’Unità.Mi venne spontaneo commentare:

«Potreste almeno chiedere scusa di aver distur-bato a quest’ora quelli che non c’entrano, i cosid-detti innocenti».

«Qui non esistono innocenti», affermò sarcasti-co un commissario in borghese, alto, grosso, con labarba folta, che seppi poi chiamarsi Voltolin.

«Non mi sembra una battuta divertente e mi pareche le scuse siano d’obbligo», replicai, guardandoloin viso.

Ci fu il gelo, anche perché quel Voltolin era assainoto nella malavita come carogna poco legata alregolamento e in compenso facile alla cattiverialucida. Domandò a sua volta:

«Dici a me, pezzente?».«E a chi, se no?», azzardai, deciso ma ormai im-

paurito.La montagna di grasso e muscoli manteneva un

ghigno strafottente e non sembrò considerarmi. Siaccese soltanto una sigaretta e aggiunse: «Mettetele manette anche a lui e portatelo via… per accer-tamenti… non ha la carta d’identità e sicuramentenon risiede a Milano… domani lo rispediamo al suopaese».

Mi aveva fottuto, il bastardo. Il foglio di via erasicuro dato che non avevo il lavoro. Mi trovavo già

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dentro una specie di furgone cellulare quando siintromise un bel tipo, con la faccia aperta e simpa-tica, sulla quarantina abbondante; il fisico robustoe tarchiato stonava tuttavia all’altezza dello sto-maco che tradiva una troppo lunga consuetudinecon il barbera. Si esprimeva in schietto linguaggiomeneghino e bloccò confidenzialmente il barbutosentenziando:

«Dai… a bott lì… ghe se soffega la vos a quelpirla d’un teron… sciori, non mettimel denter, nonrompetegli le balle o muore, l’è on salamon malinsacca…».

«Didì, sei di buon umore? Non dovresti… se nonci vai stanotte a San Vittore, sarà la prossima volta,canaglia di un ladro!».

Il mio improvviso difensore non si offese mini-mamente.

«Mi caschino le mani, illustrissimo, se ho mairubato cinque lire», e dicendo ciò nascose ridendole mani dentro la manica della giacca come per rea-lizzare la maledizione invocata. Proseguì:

«Bott lì… respettor compii… scolta… se lo por-tate via in pigiama l’Unità scrive che fate i ballettiverdi in Questura».

Io seguivo la strana conversazione sempre rin-chiuso, muto e infreddolito. Finalmente mi feceroscendere fra un insulto e l’altro e se ne andaronosalutando: «Ciao, fogna».

Erano le tre del mattino. Didì si rivolse a uno deirimasti (padrone della bettola) e gli ingiunse di tirarefuori subito una bottiglia, precisando che toccava ame pagare (o meglio: «a quel baravar d’un barlafusd’un bicciolan d’un teron»). Fra un ringraziamento el’altro si accumulavano le bottiglie vuote e l’alba ci

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sorprese ubriachi fradici, dopo aver chiacchierato alungo e in buona parte a vanvera. Verso mezzogior-no lo accompagnai alla Bersagliera di Piazza Tiranae mi presentò a un suo amico, chiamato Tarzan, chedirigeva l’ufficio di collocamento dei balordi. Mi feceprima l’esame orale, poi una prova pratica e fui infi-ne assunto come autista di una casa di giuoco d’az-zardo clandestina. Le mie mansioni erano in fondoassai semplici. Dovevo rimanere parcheggiato nelleimmediate vicinanze e – se arrivavano le pantere –caricavo i clienti di rispetto scappando a tutta velo-cità e seminando la madama.

Finalmente avevo un lavoro e mi si apriva unaMilano diversa, più umana, quella di una tranquillamalavita d’epoca, insediata nei quartieri popolari delTicinese, del Giambellino, della Barona. Strana gen-te: legata alla famiglia da un lato, ma incapace diaccettare le regole e dunque pronta a trascinarsizingarando per un’intiera settimana, sostenuta dallacocaina. Altre droghe non ce n’erano e nessuno lecercava o le spacciava. Un mondo parallelo a quellodei picciotti un po’ fanatici di corso Buenos Aires,meno disponibile ad ammazzare, più disposto a pas-sare sopra gli sgarri e perfino sopra i tradimenti…forse più specializzato nel piccolo reato di destrezzae sicuramente meno attento ad accumulare profitti.Si guadagnava poco, infatti; ma in compenso ci sidivertiva spesso, spaziando dalle osterie miserabilidel Naviglio ai locali di Brera, dove non era impossi-bile caricare qualche riccastra in calore. Magari neveniva fuori un casino, come quando Didì diede uncartone con le nocche della mano destra sulla spinadorsale di una marchesa (che gli aveva gridato: «pic-chiami!») e poi si era stupito di vederla scappare dal-

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la macchina, senza mutande, a metà scopata. Tarzanaveva invece una simpatia speciale per le risse: nonappena il vino superava il livello di guardia attacca-va briga con chiunque e ci coinvolgeva, da quel mo-mento, in una continua altalena di legnate e di fu-ghe da un capo all’altro della città.

Alla bisca me la cavavo benino e mi ero fattoanche una certa fama. La piesse cominciò pertantoa tenermi d’occhio fino a quando – depositati i pas-seggeri al sicuro – riuscirono a incastrarmi; ci si eramessa di mezzo una seconda volante e io rimasibloccato dentro via Colletta, nelle vicinanze di PortaRomana, una strada all’epoca buia, isolata. Da unaGiulia scese il commissario Voltolin, che mi rico-nobbe subito.

«Ecco il nostro innocente», ironizzò.«Non mi pare sia vietato guidare l’automobile»,

replicai spavaldo come al solito. E aggiunsi: «Se avetequalche cosa contro di me, denunciatemi. Ma io vo-glio avvertire, subito, il mio avvocato».

Io non avevo affatto, naturalmente, un legale difiducia e non so neppure come mi possa essere ve-nuta in mente una trovata del genere. Certo è chel’effetto fu micidiale, gettando gli agenti in un buconero di profonda costernazione. Il capo dei piedipiattiaveva però sempre una soluzione per i problemi im-provvisi e una certa qual competenza in materia disuperamento dei cavilli delle canaglie. Si lisciò la bar-ba, si grattò la pancia e mi allungò un poderoso cef-fone a mano rovesciata.

«Così abbiamo l’avvocato, – sibilò. – Credi chenon lo sappia di non poter provare nulla? Lo so,caro Messana, lo so… e me ne fotto». Mi diede un’al-tra sberla e continuò:

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«Io il processo a te l’ho già fatto e sei risultatocolpevole, anzi colpevolissimo. Così, per evitare diprendere per il culo la gente in Tribunale, invece didenunciarti provvediamo subito alla condanna».

Cominciarono a picchiare, a un cenno di Voltolin,tutti e sei insieme e fu un castigo di Dio. Prima usa-vano lo straccio bagnato, per farmi del male senzalasciare segni, poi, ormai eccitati, senza più alcunaprecauzione. Durò dieci minuti buoni: a sentirlo direnon sembra molto, ma ad esser sotto pare un’eter-nità. Gridavano di difendermi, di mostrarmi uomo,di provare a scappare. Ma io non ci cascai, sapevoche era tutta una scusa per arrestarmi o magari perspararmi; capii che era inutile e preferii buttarmiper terra, a corpo morto, fingendomi svenuto e resi-stendo alla tentazione di lamentarmi mentre piove-vano gli ultimi calci. Li sentii andarsene sgommandoe in quell’istante maturai l’idea di cambiar mestie-re: il piccolo balordo raccoglie poche briciole e moltiguai.

La mattina dopo incontrai – al Bar Wanda – il“professor Timbrini”, un ometto sulla cinquanti-na, rubicondo e con i baffi bianchi, specializzatonella produzione di dollari e documenti falsi (diqui il nomignolo). Si rivolgevano a lui i malviventiperfezionisti ed era fiero di essere considerato ilmigliore, raccontando sempre di quando la que-stura aveva trovato per terra una sua patente el’aveva restituita all’interessato, senza accorgersidi nulla.

«Sono meglio le mie di quelle della Prefettura»,amava commentare. Il professore ci teneva all’edu-cazione propria (conosceva centinaia di poesie mi-lanesi del famoso Carlo Porta a memoria) e a quella

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di suo figlio, costretto a frequentare la Statale edentrato nel Movimento Studentesco. Era presenteanche il ragazzo e fu l’occasione per mollare il vec-chio ambiente, cambiando ancora una volta gene-ralità e aggregandomi d’istinto a quel carro di pazzisenza alcun mezzo, ma con infiniti progetti.

Eccomi allora partecipare a una serie di cinqueo sei riunioni durante le quali si parlava della rivo-luzione in Cina o di Mao Tse Tung (a me sembravaarabo, però erano simpatici) per finire poi a bere daStrippoli il vino pugliese. Ben presto fu decisa l’oc-cupazione di un grande albergo abbandonato nelpieno centro della città, il celebre Hotel Commer-cio. Sono ancora oggi sbalordito dalla semplicità direalizzazione di un piano a tavolino complicatissimo;ci si limitò – alla fin fine – a far saltare la serraturadi una porta e si entrò in banda, sotto gli occhi dellapolizia, incerta, perplessa. Il costosissimo stabile fusenza troppe formalità requisito in nome e per con-to delle masse popolari, di cui facevo parte io stes-so con pieno titolo. Ero felice di abbandonare lasquallida stanza ammobiliata di Porta Genova e lasolitudine angosciosa di quel campo di concentra-mento; mi attendeva una meravigliosa e nuova av-ventura fra il popolo dei politici, gente che all’epo-ca nulla chiedeva del tuo passato né pensava in ter-mini di grigia tranquillità.

Mi ero conquistato una singola al terzo piano,l’avevo arredata del mobilio essenziale, ma secondoquanto il gusto suggeriva; sembrava quasi la cabinadella Kirta! Affacciandomi alla finestra vedevo ilcentro di Milano, lo stomaco si chiudeva per la gioiadi trovarmi ad abitare gratis nel tempio della bor-ghesia più importante d’Italia.

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C’era un via vai incredibile lungo le scale e den-tro le stanze del Commercio: ragazze fuggite di casa,studenti fuori sede, rampolli di illustre casata,sottoproletari, né mancavano, naturalmente, glispioni e i ladri senza scrupoli che non esitavano arubare quel poco che c’era, intrufolandosi in ogniangolo del palazzo. Si sprecavano i ritratti di CheGuevara con il sigaro e con il basco o di zio Ho ChiMin con il pizzetto: la libreria Feltrinelli non ne avevamai abbastanza per soddisfare l’improvvisa esplo-sione di richieste. Io non andavo alle manifestazioniperché mi annoiavo terribilmente e si doveva cam-minare per ore fino ad essere sfiniti; spesso aiutavoa ciclostilare i volantini o collaboravo alla distri-buzione dei fogli di propaganda alle varie facoltà:mi è rimasta anzi una malcelata passione per i me-gafoni e per tutti gli strumenti di stampa! L’indivi-dualità sfrenata del mio carattere cozzava tuttaviacon la mania del collettivismo diffusosi nella tribù,specie considerando che diffidavo per abitudine del-l’altruismo apparentemente sincero dei caporioni delmovimento.

Nelle assemblee degli occupanti (la partecipazio-ne era obbligatoria e potevano intervenire gli esterni)si parlava spesso di Cavallero e Notarnicola, speciedel secondo, un vero e proprio idolo delle folle cheaveva anche scritto un libro. A me piaceva invece ilprimo, per la genialità nell’organizzare le rapine, spe-cie la doppietta, ovvero il secondo colpo a ridossodel primo senza lasciar tempo alle forze dell’ordineper organizzare la difesa: avessero dato retta a lui,non li avrebbero mai catturati, o almeno credo.Cavallero (a differenza dei complici) disprezzavala malavita e si spostava di continuo per non farsi

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notare, studiando con pazienza l’obiettivo come ungiocatore di borsa studia l’economia; al processotenne banco con più forza di un Curcio o di unMoretti, impose ai giudici un teatro di tutto rispettoe si dimostrò generoso perfino con quel coglione delLopez che pure lo aveva rovinato con la sua scioccainesperienza. Cavallero mi fece riflettere e decisi diutilizzare le sue intuizioni tecniche; portando peròl’attacco a luoghi di scarsa importanza per il poteresotto il profilo del simbolo, ma ugualmente fornitidi contante: parlo dei piccoli uffici postali, dei fatto-rini nel giorno di paga, delle cooperative facchini,dei supermercati o dei caselli autostradali isolati. Lamia borsa era vuota e io affrettai la ricerca delle per-sone adatte alla realizzazione dei miei malvagi pro-getti. Mettere insieme il pranzo con la cena senzapiegarsi a un lavoro fisso non è facile; data la scarsapropensione alla fatica di tutto l’ambiente che micircondava non ci volle molto a mettere d’accordoun efficace terzetto. Gli altri due erano Antonio, unmio paesano conosciuto da Strippoli (ove non paga-va mai, con una scusa o con l’altra, suscitando l’iradel proprietario), e Roberto, un anarchico matto comei cavalli, sempre in tenuta da sovversivo con barba,sciarpa rossa lunga fino ai piedi, mantello nero, scar-poni militari. Fu quest’ultimo a decidere che un quar-to del ricavato bisognava destinarlo, in forma ano-nima e in gran segreto, all’attività politica. «Siamo inquattro, – disse, – noi tre e la rivoluzione. Quindi ègiusto che quattro siano le parti». Nessuno sollevòobiezioni, anche perché ci pareva stupido risparmiaresul danaro altrui, non ancora rubato. Io mi occupaidi trovare due pistole; Antonio della macchina e nonprocurò di meglio che una vecchia fottutissima cin-

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quecento. Dopo aver litigato per un’ora sul pocopotente mezzo in dotazione alla nostra strapelatabanda, raggiungemmo finalmente l’ufficio postale vi-cino a Piazza Frattini: duemilionitrecentomilalire.Non avrei mai creduto fosse tanto facile. Robertoaspettava al volante; noi entrammo tranquilli, inmezzo a una coda di pensionati e d’improvviso tuo-nai: «Il primo a muoversi sarà quello che ricava unapalla nel cervello e se non state tranquilli vi massa-creremo senza pietà». Lo stomaco su e giù per l’agi-tazione, ma il terrorizzato stupore della gente mi ras-sicurava. Vidi Antonio ritirare il sacchetto di plasti-ca contenente i quattrini come in un sogno, tanto dasoffermarmi un attimo in più, con la rivoltella spia-nata, come inebetito davanti all’impiegato che noncapiva quale altra cosa potessi mai volere. Il miosocio strillò e scappammo via con la nostra lentissi-ma vettura, guidata da un eccitatissimo Roberto: fuun miracolo arrivare a casa senza provocare inci-denti con un simile timoniere.

In quaranta minuti avevo in tasca tre mesi di sti-pendio di un operaio Pirelli e in più avevo finanzia-to il movimento politico, contribuendo, se non acambiare la società, sicuramente ad aumentare ilcasino. Andammo a festeggiare in una trattoria tipi-ca spagnola di Porta Garibaldi, il Toro Bravo, ordi-nando senza ritegno tutte le specialità più costosecon la stessa gioia di un bambino che ruba le pru-gne. Il vino freddo, spinato da una botte, andavagiù come acqua; né ci parve opportuno smettere ditrangugiare la tequila con il limone fino a quando labottiglia non fu vuota. All’uscita eravamo pertantocompletamente ubriachi e intonammo a squarcia-gola – per ordine di Roberto – la canzone «Figli del-

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l’officina» fra gli sguardi divertiti dei tiratardi dellabrigata Moscatelli (nulla a che vedere con il parti-giano: erano i frequentatori dell’omonima osteriaaperta fino a notte fonda).

L’estrema sinistra si ingrossava ogni giorno di più,diventava una presenza che era impossibile non ri-levare anche per l’osservatore distratto: gli scontricon la polizia, i picchetti alle fabbriche, le occupa-zioni di case e scuole facevano ormai parte della vitaquotidiana. Io e Antonio vivevamo ai margini del-l’esperienza, diffidenti come tutti i meridionali delNord; Roberto ci si era invece buttato dentro animae corpo, cercando anche di convincerci che era vici-na l’ora di una sommossa generalizzata. Sull’onda diquesta fissazione, quasi d’improvviso, ci comunicòche era indispensabile costituire un partito marxista-leninista (l’anarchismo lo considerava ormai supe-rato); per dimostrare la serietà delle sue intenzioni,si tagliò barba e capelli. Come Roberto ragionavanoin parecchi nella variopinta comunità del Commer-cio, ma prima che ci fossero veri litigi le autoritàsgomberarono l’edificio con la forza, né le protesteservirono a molto. Nonostante indignati e sangui-nolenti proclami, ci trovammo tutti sulla strada.

Dopo cinque rapine andate a buon segno, ilterzetto si andava sfasciando sotto il peso degli av-venimenti e delle scelte individuali. Roberto si eramesso nei guai a causa di una carogna che lo avevatirato in mezzo a una storia di esplosivi cui pure eraestraneo. Il suo arresto mise la parola fine alla nostracollaborazione e lui si fece un anno di galera primadi risultare innocente. Antonio non si accontentavapiù degli uffici postali e cercava di trascinarmi sulgiro grosso; io rifiutai di seguirlo e si andò a litigare.

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Pochi mesi dopo fu catturato dentro una banca diVarese, insieme a un veneto, tutti e due armati dimitra e bombe. Ero di nuovo solo, con gli occhi dellapolizia addosso. Sapevo che gli sbirri sapevano e cheaspettavano solo una mossa falsa; in più volevo spo-sarmi con una siciliana che mi sembrava adatta atrascorrere la vita con me. Non avevo altre possibi-lità: presi il coraggio a piene mani, saltai il fosso emi feci assumere come stagionale alla Motta, per tremesi, così da essere dimenticato.

Milano cambiava sotto i miei occhi, giorno dopogiorno, ma io non me ne rendevo conto. Avevo vissu-to da emarginato ribelle l’autunno caldo e non intui-vo neppure di aver partecipato – attivamente – allatrasformazione profonda non solo della società ci-vile, ma di me stesso. Non avevo realizzato quantoincisivo fosse stato l’allegro carnevale dell’HotelCommercio e quanto era rimasto nel mio caratteredello stile imposto da Roberto. Incrinare i meccani-smi del potere ha un fascino discreto e io ne erostato conquistato; non sarei mai riuscito a tornareun semplice piccolo brigante come la rottura conAntonio stava a dimostrare.

Mentre mi dirigevo per la prima volta nella miavita verso la fabbrica, stava esplodendo la primave-ra. L’odore intenso dei tigli invadeva tutta la città,specie alle prime ore del mattino, quando l’aria è piùsottile. Poiché era di pessimo gusto raggiungere lostabilimento con una sia pur vecchia BMW, mi stavoservendo dei mezzi pubblici per il tragitto da Bag-gio (dormivo a casa di amici) a viale Corsica. I trevagoni che cambiai (una specie di tram) erano stracol-mi; io non conoscevo ancora la folla dei lavoratoriné capivo dove trovassero tutta l’energia necessaria

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per colpirsi a vicenda con violente gomitate. Mi sen-tivo oppresso fino alla nausea da tutta quella carneumana raccolta in poco spazio e un prepotente biso-gno di gridare che eravamo tutti degli schiavi.

Cercai rifugio appoggiando il naso vicino al collodi un impiegato intento a leggere la pagina sportivadel “Corriere” e respirando il suo abbondante dopo-barba; per quanto infastidito l’uomo non osò repli-care. Scesi con un paio di fermate d’anticipo, nonsolo per recuperare energia, ma per avere la sensa-zione di poter disporre ancora di me, per non esserecompletamente automatizzato. Proseguii così cion-dolando fino alla poco agognata meta.

Una piccola folla sostava davanti all’ingresso; aglioperai si mescolavano venditori di sigarette, di oro-logi e perfino di enciclopedie a rate. Può sembrareincredibile, ma c’era chi riusciva a far acquistare operemonumentali, strappando con faccia tosta e sorrisoaccattivante la firma in calce al contratto capestroche avrebbe decurtato il salario per mesi e mesi. Alsegnale acustico ci scagliavamo tutti con impeto con-tro l’ingresso; la massa si assottigliava attraversandola porta e riprendeva consistenza subito dopo. Sem-bravamo i fanti della prima guerra mondiale alla con-quista della trincea, né l’obbiettivo era più sensato.I cartellini venivano timbrati con velocità impressio-nante tanto da rendere impossibile qualunque richie-sta di indicazioni. Arrivai ultimo e mi trovai asse-gnato alla mansione più sgradevole, proprio accantoai forni, sotto l’occhio del capo. Non era difficile:si ripetevano gli stessi gesti per otto ore, miglioran-do in rapidità per raggiungere la cosiddetta “media”:se non ce la facevi, ti sbattevano fuori. O almenocosì mi avevano raccontato. Qualcuno se la prende-

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va un po’ più comoda mostrandosi tonto o sempli-cemente con strafottenza: ma la sostanza di una sor-te infelice non cambiava. Non era la fatica che op-primeva o, meglio, non solo quella. Io, poi, avevofatto ben di peggio in passato. La sofferenza quoti-diana erano quei ruffiani pagati solo per guardartisudare e riferire come spie, quegli ambienti sudici,quei proletari di cinquant’anni con il destino segna-to, quelle sigarette fumate nei cessi con l’illusione dirubare due minuti a chi ti rubava la vita. Pensavo aidiscorsi orecchiati durante le riunioni dell’Hotel Com-mercio e non mi riusciva di capire come tanti stu-denti che gridavano in piazza “potere operaio”, sene stessero zitti a lavorare quando era il caso di pian-tar casino e dimostrare vere le teorie. Erano almenocinquanta fra gli stagionali che sgobbavano con ladivisa da compagno (eskimo e sciarpone), senzafiatare, magari dopo esser stati a distribuire qualchefregnaccia sul “Terzo mondo”.

Passai sette-otto giorni infornando colombe comeun coglione. Non ne sopportavo più neppure l’odo-re, mi veniva in mente di cuocerle rotonde, quadra-te, a falcemartello, a pitrentotto, a cazzinculo; ridevoda solo pensando alla faccia di qualche vecchiaalto-borghese dopo aver aperto il pacco, festeggian-do in famiglia la Santa Pasqua. Intanto aspettavo,come manna dal cielo, la lotta sindacale, la fratturadella monotonia assurda, la ribellione insomma a quel-l’insieme di gesti ordinati che assumevano un sensocompiuto solo per il padrone (porco). Quando seialla stazione e aspetti il treno previsto dall’orario,dopo un po’ che non arriva ti scocci e cominci a chie-dere, per sbloccare la situazione, pur sapendo l’inu-tilità di una simile azione. Così io mi decisi a parlare

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della mia noia a Maurizio, un tale del movimentostudentesco che conoscevo di vista e che era amicodel vecchio Roberto (avevano entrambi il pallino delpartito). Lo avvicinai in mensa e non pareva affattocontento di vedermi, mi scrutava anzi con aria so-spettosa e interrogativa. Non appena, per rinfrescar-gli la memoria, citai il nostro comune amico, replicòsenza mezzi termini che si trattava di un “provoca-tore”. Io mangiai il rospo e soffocai la voglia di dargliuno sberlone: i figli di puttana li avevano presi i quat-trini e ora spandevano merda impauriti senza nean-che l’intelligenza di capire che era innocente. Perandare in fondo al personaggio proposi uno scioperoclassico, ma lui niente, duro come il marmo.

«Questo non è un giuoco, amico mio, – senten-ziò, – la lotta non deve cadere dall’alto, ci vuole l’ap-poggio della base, ci vuole l’organizzazione».

«Va bene, – aggiunsi, – ma se alla base, alla gen-te diamo solo della muffa e ci vedono in compensolavorare come ciuchi, come cazzo possono capire?Ci vuole un esempio, mostriamo che non ci caghiamosotto…».

«Senti, – interruppe lui, – io ho avuto questo po-sto da un amico di mio padre, i soldi mi servono perandare in vacanza e non ho nessuna intenzione dirinunciarci per dar soddisfazione a un sottoproletariosenza un briciolo di coscienza politica. Quindi mol-lami!».

«Pezzo di stronzo, – gli gridai, – vuoi fare la rivo-luzione in Corea e in Uganda, dappertutto, ma nonnella casa di tuo padre. In più te la prendi con i tuoiamici in galera. Io sarò un sottoproletario, tu invecefai schifo e ti spaccherò il muso anima sporca di cru-miro spione».

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Ne venne fuori una bella discussione, con tuttigli elementi della rissa. Un certo Pietro – pure stu-dente – mi diede ragione in pieno e, poiché aveva laparlata chiara, convinse una ventina delle teste piùcalde a non riprendere il lavoro. Tirò fuori un pen-narello di tasca e si mise a scrivere sul retro di unmanifesto ENAL che proponeva la visita di Veneziaper quattro soldi:

«Lavoratori, da perdere abbiamo solo un posto

del cazzo, da guadagnare il mondo. Fuori a calci i

capi dai reparti, blocco della produzione, pisciamo

sui dolci. Facciamoci rispettare: il panettone in testa

al padrone! Subito 50.000 di aumento e non si tratta.

Lotta dura, senza paura. Un gruppo di operai».

Salì su un tavolo, mentre io appendevo il procla-ma, e tenne un discorso da arresto immediato. I sin-dacalisti si precipitarono e volevano tirarlo giù; luistrillava come un’aquila e difendeva la posizione apedate. Un putiferio: il più delle persone era ester-refatto, con gli occhi bassi, ma gruppi di stagionalicorrevano per la fabbrica gridando. Io seguii Pietronel reparto aiutandolo a fermare qualche macchina-rio, fino a quando (dopo due ore) non tornò la calma.Ci licenziarono entrambi senza pietà per «insubor-dinazione» e fummo espulsi subito dai gironi dell’in-ferno. Sulla strada mi sorrise: «Siamo andati forte,vero?». «Ci voleva, ci voleva, – risposi, – ma adessoho il culo per terra, anche se molti erano con noi».Restammo a chiacchierare un pezzo e mi spiegò cheil suo gruppo aveva organizzato per l’indomani l’oc-cupazione delle case popolari appena costruite. Gliassicurai, d’istinto, la mia presenza: ero proprio con-tento di essere uscito dalla Motta sbattendo la porta.

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Finì in allegria, mangiando e bevendo nell’abitazionedel mio nuovo amico e non ci si stancava mai diridere di tutte quelle persone agitate che ci giravanoappresso per rimettere in funzione la macchina.

La mattina successiva eravamo oltre duecentodavanti agli edifici di via Lope de Vega, uno strado-ne prossimo alla Milano-Genova, progettato appo-sta per consentire ad automobilisti frettolosi di in-vestire gli incauti che attraversavano la doppia cor-sia. Il traffico viaggiava infatti a una velocità mediadi 90-100 km/h, incurante delle strisce pedonali edegli uomini. Per nostra fortuna i progettisti delloIACP avevano lasciato uno spazio verde sufficienteall’assembramento e non lasciammo la pelle in modocosì inglorioso; non ci fu bisogno nemmeno dei ra-gazzi con le molotov appostati negli angoli strategi-ci per bloccare polizie pubbliche e private. Le fami-glie – esasperate dalle eterne code per ottenere lacasa – non vedevano l’ora di entrare e molti si eranogià organizzati con furgoni carichi di materassi, let-ti, cucine, televisori, armadi. Non appena la serratu-ra del portone principale crollò sotto i colpi di mar-tello e scalpello, partì la corsa all’oro e ci si superavaa vicenda lungo le scale nel tentativo di occupare ilocali più grandi o meglio disposti. Il cosiddetto“gruppo dirigente” si rese subito conto di non poterdirigere nulla e si ritirò compatto nel bar vicino, aspet-tando di censire la situazione così come si sarebbedeterminata dopo il consueto teatro di litigi, urlamimate, petizioni commoventi, minacce che il po-polo usa in queste occasioni.

Grazie alla mia falcata di alto-magro, mi toccòun trilocale decente, al terzo piano, e presi posto nel-l’alveare. Sopra di me si erano piazzati i fratelli Salemi

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(Giovanni, Giuseppe, Vito, Michele, Rocco) con duemogli, nove figli, un padre patriarca: appena dentrosventrarono due pareti per rendere comunicanti i treappartamenti conquistati e appesero il nome all’uscio.Io avevo notato che disponevano del camioncino emi recai a chiedere aiuto per arredare la nuova abita-zione. Aprì Giovanni, uomo assai buffo e goffamen-te claudicante, parlando una sorta di italo-sicilianoreso ancor più incomprensibile dalla leggera balbuzie.Si intromise subito Giuseppe che con aria guappa ecomplice mi accompagnò dal rigattiere: con pochemigliaia di lire, grazie alla disinteressata gentilezza,avevo ottenuto l’indispensabile per vivere. Quellasera stessa, alla prima assemblea, ricambiai il favorealla famiglia. Due politicanti se l’erano infatti presacon i Salemi perché li avevano visti caricare materia-le dell’impresa di costruzione (rotoloni di metallo euna piccola betoniera) sul loro mezzo e partire perandarlo a vendere. Giuseppe si sbracciava a soste-nere di non saperne nulla, ma non era capace dimentire e si trovava in evidente difficoltà. I suoi ac-cusatori parlavano di buttarli fuori perché “scredita-vano l’occupazione” e altre balle del genere. Io lidifesi. «Nessuno di noi, – dissi, – ha la fedina pulitaed è inutile passare per quelli che non siamo e chenon potremo mai essere. L’importante è non fregar-ci a vicenda, rispettarci fra di noi. Quel materiale,compagni, se l’è fregato l’impresa – lo abbiamo vi-sto tutti – per farsi rimborsare dall’assicurazione sen-za perdere nulla!». Si andava sul sicuro: chi ha gliappalti non è mai un cherubino, trucchi del genere limette in pratica di continuo e non può reggere ilconfronto con cento testimoni! Era un compromessoe fu accettato anche dai politicanti (evidentemente

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non troppo fanatici); la faccenda fu chiusa con unatirata d’orecchi e il clan siciliano mi espresse, congrida primitive, gratitudine.

Il giorno dopo andammo in delegazione a fare icontratti della luce e l’ENEL, spaventata dalle bruttefacce che avevamo, concesse gli allacciamenti an-che se mancava il contratto d’affitto. Mi presentaipoi da Rosaria – la mia ragazza – e le dissi che avevotrovato la casa, mostrandole un finto modulo firma-to da un padrone di casa inesistente, tanto per tran-quillizzarla. Ci sposammo di lì a poco e rimase subi-to gravida: mio figlio doveva avere un’esistenza mi-gliore della mia, senza la continua preoccupazionedella sopravvivenza!

Il condominio di Lope de Vega era comunqueun luogo assai divertente e strampalato. Se tutti icertificati medici che provenivano da quell’agglo-merato fossero stati veri, sarebbe stato opportunometter fuori, in grande, la scritta «cronicario». Gliabitanti si scambiavano freneticamente – come inborsa – informazioni sui pallini dei vari dottori perottenere giorni di ozio retribuito e i sanitari che rila-sciavano pigramente i preziosi foglietti venivanoconsiderati manna dal cielo. I Salemi accettavano,in particolare, tutti i lavori stagionali e, terminata laprova, accusavano subito cefalee acute, sindromidepressive, mal di denti. L’azienda non li vedevapiù fino al termine. Arrotondavano poi con qual-che ora in carovana o la vendita abusiva dei pallon-cini in piazza Duomo. Mi trovavo proprio bene inquel piccolo mondo moderno dove ci si prestava ildanaro senza mai restituirlo e ci si buggerava l’unl’altro con affetto. Chi truffa chi?

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A CACCIA DI SOLDI

Mutua te centum sestertia, Phoebe, rogavi,

cum mihi dixisses «Exigis ergo nihil?»

inquiris, dubitas, cunctaris meque diebus

teque decem crucias: iam rogo, Phoebe, nega.

VALERIO MARZIALE, VI, XX

Mancavano ancora una volta i quattrini, i ma-ledetti quattrini necessari alla sopravvivenza. Manon avevo nessuna voglia di tornare in fabbrica, inquel luogo assurdo tanto simile a una prigione. Giàpassiamo le nostre giornate in un ghetto che non hanulla da invidiare alle case di pena e non c’è nientedi strano nel mio deciso rifiuto di andar giustificandol’esistenza con la quotidiana vendita delle bracciain cambio di uno stipendio da fame. Non me la sen-tivo di recarmi ai cancelli, giorno dopo giorno, sot-toposto al controllo e al ricatto di una società, senzaneppure conoscere il volto del padrone da odiare.Neppure avevo però la forza di riprendere la teoriainfinita di piccole rapine, specie in un momento ca-ratterizzato da aumentate difficoltà e dalla diffusadisperazione che spingeva a sparare con impressio-nante frequenza. In fondo trentaquattro anni pesa-no, si fanno i primi bilanci e non sempre c’è energiasufficiente per abbracciare il rischio.

Trascorrevo così molte ore riflettendo inoperoso,incurante delle proteste di mia moglie, cui avevoincautamente promesso, fra le coperte, una peraltroimprecisata vita “normale”. Ascoltavo molto gli altriper capire come sbarcavano il lunario e meditavo su

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cento soluzioni possibili alla crisi economica che ave-va investito il buon Salvatore Messana, senza vied’uscita immediatamente percorribili. Una sera miaccodai, senza un perché, a Giuseppe Salemi e Pie-tro (lo studente della Motta); chiacchierando del piùe del meno si decise di cenare insieme e la sceltacadde su “Prospero”, ristorante di Porta Vittoria forseun po’ pretenzioso, ma non sgradevole. Pietro simuoveva a suo agio compensando l’aria da mafiosiche noi due avevamo assunto per darci un tono: ciboe vino ci misero comunque di buon umore. Al mo-mento del conto (salato per le nostre tasche) ci fuun attimo di imbarazzo ma, con indifferenza consu-mata, il nostro giovane amico cavò di tasca il libret-to degli assegni e pagò, lasciando anche una banco-nota da mille per mancia ai camerieri. Non appenaci trovammo lontani, spiegò che si trattava di effettirubati, garantiti da un documento falso, e che, dun-que, avevamo mangiato gratis.

Fu una folgorazione come quella di San Paolocaduto da cavallo, la luce del faro per la nave in dif-ficoltà: l’idea! Ero talmente felice che pretesi di of-frire torta e spumante, non stavo più nella pelle dal-la voglia di mettere in esecuzione il mio piano. Tor-nato a casa non riuscii a prendere sonno e passail’intera notte, eccitato, a perfezionare la trappola. Ionon avevo nessuna intenzione di copiare il piccoloraggiro di Pietro in quanto il giuoco non valeva certola candela: per guadagnare poche lire rischiavo unapesante condanna per ricettazione, documenti falsi,truffa e Dio sa quant’altro ancora la fantasia deigiuristi avrebbe elaborato. Volevo invece sfruttare laconoscenza del sistema di credito e la mia indiscutibilegenialità di attore. Con gli ultimi due milioni rimasti

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(uno era per la verità di mia moglie che non misi alcorrente perché maniacalmente onesta) aprii benquattro conti correnti, dopo esser riuscito a superarecon astuzia lo scoglio delle referenze, all’epoca nonapprofondite, grazie anche alla credibilità acquisitapresso la vecchia e mai abbandonata Cassa di Ri-sparmio di La Spezia. Per un mese tranquillizzai tuttiprendendo danaro da uno sportello e depositandoliin un altro; consumai così i primi dieci assegni diogni istituto mantenendo in media lo stesso capita-le, ma lasciando intuire una operosa circolazione deldanaro.

Tutto era pronto. Dopo aver assunto informazio-ni, mi recai presso una fabbrica di calzoni e camicieordinando ben dodici milioni di merce a pronta con-segna. Il proprietario – uomo orribile e butterato inmodo variopinto – si dichiarò subito perfettamented’accordo con me circa le pesanti responsabilità delsindacato nel disastro generale che aveva colpito ilPaese; condivise la mia tesi relativa alla improrogabilenecessità di un uomo forte capace di mettere ordine;approvò entusiasta il mio odio per tutti gli uominicon i capelli troppo lunghi e per gli omosessuali inparticolare. Ne seguì poi una discussione animata suquali potessero definirsi le migliori puttane della Lom-bardia con accurato esame delle relative tariffe; e nonappena il discorso scivolò sulla moneta, la lira italia-na si trovò oggetto di comune, spietata critica: cartastraccia non desiderata da nessun individuo di buonsenso. Mi fu facile, a quel punto, proporre il paga-mento in dollari USA in cambio, naturalmente, di unosconto che venne individuato, dopo aspra discussio-ne, nel 10%. Pagai con una mazzetta di verdoni falsiavuti in prestito dal Professor Timbrini e veramente

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ben fatti: solo un grande intenditore sarebbe statocapace di smascherare quel piccolo capolavoro d’ar-tigianato. Mi feci rilasciare una ricevuta contro lire,caricai tutta la merce su di un camion e volai imme-diatamente a venderla presso un grossista preceden-temente contattato al prezzo – per entrambi conve-niente – di sette milioni. Tutto regolare, tutto fattu-rato, tutto nel formale rispetto della legge. Mancavasolo un tassello all’incastro perfetto.

«Pronto? Sono il Signor Salvatore Messana, diMilano, vorrei parlare con il principale. Dica che èuna questione urgente, urgentissima».

«Un attimo, – disse una telefonista, cortese masti-catrice di parole, – resti in linea… le passo la segre-taria personale».

«Pronto? Sono il Signor Salvatore Messana, diMilano. Dovrei parlare con il suo principale, ci sia-mo visti proprio questa mattina. Dica che è un pro-blema della massima importanza».

«Resti in linea, prego, provvedo subito», disse laschiava, certamente amante del padrone.

«Carissimo, – si inserì il butterato, sempre con lacoscienza sporca, pensando mi lamentassi del prez-zo o della qualità, – c’è qualche cosa che non va?Sono a sua disposizione…».

«No, no. Io debbo scusarmi, sono costernato, nonso neppure da quale parte incominciare. Amico mio,sono stato truffato, mi hanno venduto una partitadi dollari falsi, e l’ho saputo adesso adesso. Una ro-vina! Li ha ancora?».

«Sì, sì, certo, – replicò il pollo agitato, – è un belguaio».

«Vengo subito da lei, ad Arcisate. Metteremo tut-to a posto. L’importante per ora è non far circolare

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la moneta, c’è da finire in galera dritti filati. Mi scusil’agitazione: ma io ho perso trenta milioni! Lei perònon avrà danni, parola mia…».

«La aspetto», concluse quasi rassicurato.Mi rivedo salire tranquillo sulla BMW, accendere

la radio-registratore, infilare una vecchia cassetta diCelentano e dirigermi da quello sporco pirata perl’ultimo atto. Bravi tedeschi: centosessanta orari equasi non si avverte. Dopo un attimo di coda al ca-sello autostradale e qualche chilometro lento sullastatale, eccomi di nuovo al parcheggio della villetta-lager. «Arbeit macht frei»: lì quell’onest’uomo suc-chiava il sangue a quarantacinque uomini liberi, dicui però solo ventiquattro immatricolati (me lo ave-va confidato proprio lui con malcelato entusiasmo,senza vergognarsi di definir coglioni le sue vittime).Ero atteso, mi fecero passare immediatamente.Guardai in faccia quel bruco e lo vidi sudato, cottoal punto giusto. Annaspava cercando un’ancora disalvataggio, il tirchio, terrorizzato dalla sola idea didover partecipare alla perdita.

«Buon giorno… mi scuso ancora. Sono invecchia-to di cinque anni in queste poche ore. Presto, mifaccia vedere i dollari». «Eccoli, Signor Messana, sonofalsi?», domandò ormai succube. Persi il tempo diqualche gesto, poi mostrai la sottilissima, impensa-bile differenza fra la banconota vera e quella falsa.

«Non ci sono dubbi!», esclamò e acconsentì poi alfatto che era stata una fortuna l’essercene accorti.

«Lei non deve avere timori, amico mio. La situa-zione è sotto controllo e ho già parlato con chi didovere. Quanto a me, ci tengo a saldare subito il miodebito». Dopo una pausa studiata, lo fucilai:

«Le faccio un assegno».

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L’imbecille sospirò di sollievo e tornò a sorridere.Con tocco d’artista lo pregai perfino d’aspettare unpaio di giorni prima di incassare: per la fretta avevosolo il libretto d’assegni personale e il conto nonsuperava i dieci milioni. Rifiutò la mia proposta distaccarne due, ritardando solo il secondo: «Ma sifiguri, non c’è problema. Mi dispiace per lei, chebrutta storia! Lo sconto rimane naturalmente e ri-marrà al prossimo acquisto».

Io me ne andai lasciandogli il cabriolet, con settemilioni all’attivo. Restituii i dollari al professorTimbrini, felice della perfezione della sua opera.Tutto calcolato: la denuncia per assegno a vuoto, lamulta che non pagherò perché chi nulla ha, nulladà. Inoltre una piccola amnistia mi appariva inevi-tabile (e ci fu in effetti) mentre lo scemo di Arcisatenon poteva certo andare a raccontare la vicenda deidollari che non aveva più, rischiando guai ulterioriper violazione delle disposizioni valutarie e facen-do oltretutto una magra figura.

Il primo bersaglio della mia solitaria battaglia na-vale era stato colpito, se non affondato. Non solonon avevo il minimo rimorso, ma sentivo anzi unprepotente desiderio di far conoscere a tutti i lavo-ranti quanto fesso era il preteso furbo che li sfrut-tava. L’estate intanto si avvicinava e la secondabanca fu utilizzata per saldare (si fa per dire) il mi-glior albergo di Camogli, che aveva generosamenteospitato dal 3 al 28 luglio la mia famigliola. Rosariariuscì a essere felice – nonostante il dissenso sulmetodo – perché finalmente esentata dai compitiingrati della vita domestica. L’accortezza di lascia-re una mancia al personale creò un’ottima opinionesul mio conto e, al congedo, ci pregarono di tornare

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l’anno successivo. Avevo prudentemente agito inquesta maniera:

a) mi ero lamentato del rumore eccessivo e ave-vo accettato le scuse della direzione;

b) avevo respinto una bottiglia di vino, facendolasostituire con altra di marca più pregiata;

c) avevo prenotato per due giorni, pagando conassegno coperto dai sette milioni precedentementeincamerati;

d) mi ero fatto convincere a prolungare il miosoggiorno dal direttore, un personaggio viscido chemi auguro licenziato senza pietà dopo l’infortuniodella mia insolvenza;

e) avuta la garanzia dell’arrivo di buone referenzebancarie, avevo svuotato il conto, lasciando trenta-mila lire;

f) non avevo fatto mancar più nulla, da quel-l’istante, a nessuno di noi tre.

Il terzo e il quarto colpo furono effettuati ai dannidi un calzaturificio della Toscana, specializzato nel-l’avvelenare le maestranze (cinque milioni) e ai dannidi un grossista ben introdotto nel settore dei liquoripregiati (seimilionitrecentomilalire). La campagnapoteva a quel punto dirsi conclusa, anche perchénessuna banca era ormai disposta a darmi fiducia o atrattare in qualsivoglia modo con me; né mi riuscì disuperare l’ostacolo nonostante disperati tentativi.

In Lope de Vega arrivarono ingiunzioni e precettiche destavano scalpore per l’entità delle somme ecreavano attivo fermento fra i membri della cana-glieria. Cercai varie volte di illustrare la tecnica albuon Giuseppe Salemi, ma non c’era verso di fargliintendere il funzionamento della truffa; fra l’altro nonappena qualcuno ne vedeva la mutria appoggiava

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prudentemente la mano sul portafoglio tanto appa-riva raccomandabile! Almeno una trentina di occu-panti si erano comunque messi a firmare assegnirifilandoli a destra e a manca, spesso accontentan-dosi di somme modeste: ben presto nessuno fu ac-cettato come cliente dagli istituti di credito e bastavaanzi che leggessero l’indirizzo perché sì creasse unimmediato irrigidimento sospettoso dei funzionari.L’ufficiale giudiziario era nel frattempo divenuto unafigura familiare all’intero condominio.

Le denunce penali (occupazioni, mancata assi-curazione dell’autovettura, furti al supermercato, ef-fetti a vuoto e altro) non ebbero naturalmente unseguito concreto, in quanto nessuno ignorava il si-stema di opporsi ai decreti penali e di appellare lesentenze di condanna, in attesa dell’amnistia, rite-nuta comunemente inevitabile e per mancanza diposto nei carceri e per la necessità di togliere daiguai gli uomini del potere colti con le mani nel saccoin numero sempre crescente. In fondo lo Stato assi-stenziale esisteva e la passività poteva esser consi-derata anomalo intervento a favore dei diseredati;le lamentele degli extraparlamentari erano dunqueun po’ infondate su questo punto (per nulla essen-ziale) né ci si poteva stupire della perplessità deiloro militanti a fronte della tranquilla, seppur dila-gante, illegalità del nostro agglomerato proletario.Non sempre d’altra parte quei bravi giovani vede-vano premiato lo sforzo compiuto: mi ricordo diquando venne a trovarci uno di loro – consiglierenon so se in Comune o in Provincia – e ci comunicòentusiasta che avevamo vinto. L’Istituto AutonomoCase Popolari aveva infatti acconsentito a firmare icontratti e non c’era più problema di essere sloggiati.

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Naturalmente accettammo per diventare inquilini atutti gli effetti, ma quando pretesero gli arretrati peri due anni di permanenza gratuita, scoppiò il casinoe nessuno si sognava di cacciare una lira. Per quanterateazioni pluriennali quel poveraccio riuscisse astrappare con duro sforzo, gli interessati si defilavanoal momento del versamento e tendevano anzi ad ag-giungere debito a debito. Il nostro tutore finì poi conlo stancarsi dell’atteggiamento dei suoi protetti e sidedicò probabilmente ad accudire una plebe menodifficile e ingrata.

Durante le trattative con lo IACP si era inoltresparsa la voce che bisognava avere un posto fisso edimostrare di essere un lavoratore, perché altrimentisi poteva esser sgomberati. Io avevo appena realiz-zato il capitale degli assegni e non mi rassegnavo aquella condanna. Feci, con difficoltà, buon viso acattiva sorte, e mi accodai ai fratelli Salemi diven-tando stagionale, adibito alla confezione dei panet-toni Alemagna, per due mesi. Il destino era contrarioa quella sorte e dopo tre giorni mi ammalai (per dav-vero: epatite virale) passando tutto il periodo a letto:fu una lieta sorpresa scoprire che mi avrebberougualmente pagato. Non era finita. Una quarantinadi giorni dopo la scadenza, quando già ero guarito,suonò alla porta Giuseppe ordinandomi di seguirlodall’avvocato e sostenendo che bisognava fare unacausa per ottenere tutti il posto fisso. Io mi ribellaie protestai vivacemente; affermai con vigore cheero disposto a versare una somma se mi evitava unasorte così sciagurata. Il siciliano fu irremovibile emi trascinò contro ogni mio ragionevole desiderionei pressi del Palazzo di giustizia, fin dentro lo stu-dio di un professionista specializzato in materia di

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lavoro. C’erano almeno cinquanta persone, lo spazioera ristretto, tutti fumavano come turchi, l’aria eraconseguentemente irrespirabile. Dopo circa mez-z’ora si fece avanti un ometto scorbutico, ma di pi-glio deciso, spiegandoci che i contratti a termineerano tutti illegali e che dunque avevamo diritto al-l’ingresso in pianta stabile nell’azienda dolciaria.Chiese le lettere di assunzione e non appena precisaiche non mi era stata consegnata i suoi occhi brillaro-no d’entusiasmo: affermò anzi, senza mezzi termini,essere il mio caso fra i più semplici e di più sicurobuon esito.

Non ebbi cuore di spiegargli come la mia presen-za fosse dovuta a pura cortesia, all’incapacità di fartorto a un amico quando non mi costava nulla. Evi-tai soltanto di farmi inserire nella lista di coloro iquali ritenevano di aver “urgenza” di riprendere unacosì mostruosa attività. Mi colpì anche la parteci-pazione – attiva – di un vecchio brigante come ilsardo Giuseppe Piras che sapevo esser da anni de-dito ad attività poco pulite. Per mia curiosità scam-biai quattro parole e lui tentò di travolgermi con ilsuo entusiasmo: mi diceva, gesticolando, di volerrientrare in fabbrica per farla pagar salata ai padronie che far l’operaio in quel modo era sostanzialmen-te un piacere. Io lo ascoltavo senza credere a unasola parola, ma altri la pensavano come lui e mi pa-revano – sotto questo aspetto – più convincenti.Firmai la delega all’avvocato con la certezza chenon ne sarebbe venuto fuori nulla; e tale certezza fuulteriormente rafforzata dalla comunicazione ai pre-senti circa le spese del giudizio: nulla! Ma che razzadi avvocato avevamo scelto, se lavorava gratis? Miavvicinai al nostro difensore mentre se ne stava ner-

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vosamente riordinando le sue carte insieme a duegiovani collaboratori barbuti e malvestiti. Gli do-mandai, quasi a bruciapelo, perché facesse tutto ciò.Sollevò gli occhi e mi osservò per un istante conquel suo sguardo sempre affaticato.

«Non lo so, – ammise sorridendo, – francamentenon lo so. Le domande più semplici, a volte, esigonorisposte difficili». Poi alzò gli occhiali fin sopra la frontee aggiunse: «L’importante è vincere. Poi avremo tem-po per meglio riflettere sui motivi. E vincere questabattaglia, amico mio, non sarà agevole. Dobbiamoprovarci con l’energia necessaria». Traspariva dallesue parole una grande ambizione, sostenuta da tem-pra robusta di lottatore, con equilibrio forse fragilema certo caparbio come un ebreo abituato a superardeserti per raggiungere mete del tutto sconosciute.Il presente non doveva essergli gradito.

Mi ero dimenticato ormai di quell’episodio e an-che di aver affidato l’incarico di chiamare in Pretural’Alemagna per ottenere un posto che non destavain me interesse, bensì repulsione. Erano passati altridue mesi e Giuseppe Salemi mi fece sapere che do-vevamo andare in Pretura per assistere alla primacausa, quella pilota: protagonista Piras insieme aquattro soci. Lo spettacolo era meno cinematografi-co di quanto non mi aspettassi e nessuno portava ilmantello nero nella stanza angusta dove si svolgevala discussione; poiché il Ministero di grazia e giusti-zia non aveva previsto pubblico numeroso per simi-li accadimenti, ci fecero aspettare nel corridoio.Bivaccammo un paio d’ore buone, avanti e indietroda lì al bar, sbocconcellando panini o bevendo birra,senza riuscire assolutamente a capire che diavolostesse succedendo. Si fermò a farci compagnia uno

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strano avvocato calabrese, sulla quarantina, elegan-te e di buona famiglia, prendendoci in giro con pe-santezza cordiale e ragionando a ruota libera su unasua idea di trasformare il Palazzo di giustizia inortomercato per via dei grandi corridoi (ove la frut-ta andava esposta) e dei piccoli uffici (ove i mercantidovevano tenere la contabilità). A un certo puntouscirono tutti, padroni, operai, legali, tesi e sudati,annunciando che di lì a poco sarebbe stata letta lasentenza: era come azzardar previsioni su un incon-tro di pugilato senza averlo visto.

Fu una vittoria completa. Il potente capo del per-sonale si allontanò scornato, mentre noi applaudiva-mo felici. Gli stagionali venivano riammessi al lavo-ro e in più (la cosa mi fece riflettere un poco) si bec-cavano cinque mesi di stipendio. Quella sera stessami feci spiegare da Salemi come stavano le cose e gliprestai maggiore attenzione, valutando la vicendasotto un diverso e più allettante aspetto e cioè che,se mi andava bene, ventiquattro ore mi avrebberoreso un pacchetto di danaro e una soddisfazione nuo-va. Per saperne di più – dopo un mese – andai a tro-vare Piras alla casa occupata di viale Fulvio Testi.Era in partenza per la Sardegna, dopo aver rinuncia-to al posto in cambio del raddoppio della vincita: siera comprato un micropodere con qualche pecora.«Non ce la faccio più, Salvatore, – mi disse. – Midispiace per i compagni, ma spero capiranno. Eraforse la mia ultima occasione. Sai quando l’ho capi-to? Ieri. Mi sono piombati i poliziotti in casa, con lascusa di schedare gli abusivi. Cercavano vittime.Hanno guardato in giro, hanno buttato all’aria tutto,hanno trovato i soldi dell’Alemagna nascosti sotto ilmaterasso. Si sono messi a chiedere da quale rapina

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venivano… io a dirgli che li avevo vinti e loro giù aschiaffoni, senza pietà. E poi in caserma la secondarazione, per farmi confessare. Io sono stato a ripete-re per ore la stessa musica, ma quelli strillavano dinon prenderli per fessi, che mi conoscevano bene.Un casino! Finalmente arriva mio fratello Gavino conla fotocopia della sentenza e mi mollano. Malvolen-tieri, ma mi mollano. Salvatore, quanto sarebberodurati quei soldi a un balordo come me? Quanto po-tevo resistere in fabbrica, con la divisa, sempre a rom-pere i coglioni? Sono andato dal direttore e ho fir-mato, d’istinto. A fare il pastore nel nuorese mi civedo anche se è più faticoso, ma in quella trappolasarei morto di malinconia».

Lo capivo come non lo avevo capito mai; non mipareva più neppure un figlio di puttana. Non erava-mo degli “operai”, ma soltanto degli sradicati cui laciviltà aveva portato via tutto. Mica eravamo andativia di nostra volontà dal paese, c’eravamo stati co-stretti. Adesso eravamo troppo vecchi per diventarecittadini (non si dimenticano i vagabondaggi, l’ozio,il rapporto con la terra) e troppo giovani per viveredel passato. Piras era solo un ingenuo che voleva fer-mare il tempo, tornare indietro, nascondersi in un bucofetido e sporco nel tentativo impossibile di evitare igrandi magazzini o i fumi tossici. Coglione! Si sentivacome gli indiani d’America e non capiva di trovarsi inlibertà provvisoria, con il collo sotto la spada del pri-mo piano regolatore o di una bella centrale elettricadavanti a casa. Coglione! Ma quante volte avevo so-gnato anch’io di tornare vicino a Lecce, in un campomio, con le comodità, ma anche con la vigna e lo spa-zio a perdita d’occhio? Si finì con il rimanere a lungoin silenzio, presi entrambi dai propri pensieri.

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«Lo hai raccontato agli altri? All’avvocato? A quellidel tuo gruppo?», domandai.

«No. Avevo paura mi convincessero a restare.Così, ora, sono certo di non poter tornare indietro».

«Hai fatto male. Ma c’è tutto il tempo per rime-diare. Non è da te scappare di nascosto e permettereal padrone di usare la storia contro gli amici. Sarebbeuna vigliaccata e lo sai, quindi… se ti spieghi, lo ca-piranno, perché è un’esigenza di tanta gente e va but-tata sulla faccia dei vampiri».

«Non credo capiranno», affermò Piras, pessimistacome tutti i sardi. Ma proseguì: «Proviamo lo stesso.Non ha senso la vergogna dopo le rapine, la galera,il sangue sputato qua e là per il gusto di non chinarela testa. Andiamo a trovare i ragazzi. Se la capiscono,bene; altrimenti amen. Così parto più tranquillo esenza il culo per terra. Vamos!».

Girammo per tre o quattro localacci e finalmen-te trovammo il grosso dei compagni in una bettolachiamata Morimondo. Bivaccavano davanti ai bot-tiglioni di presunto barbera e ingoiavano a ripeti-zione panini di salame cotto, commentando l’enne-sima riunione appena terminata. I progetti si spre-cavano nelle discussioni incrociate e la tavolata mipareva un’abile ricostruzione in cera – a uso di qual-che museo specializzato – di un raduno socialistadel milleottocento.

Non capirono affatto le spiegazioni di Piras, né sirendevano in alcun modo conto di come – fra tradi-mento e rispetto di ferree regole autoimposte – cipotesse essere la scelta, banale ma irremovibile, ditornare alle origini. Non tolleravano soprattutto ciòche invece doveva farli riflettere: la lotta aveva pa-gato, il padrone aveva dovuto cacciare i quattrini per

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le manie di un poveraccio solo perché aveva rotto lescatole. Quando si comportava così lo zio ruffiano,stavano zitti invece! L’ambiente si era fatto pesante.Il sardo viaggiava veloce e si accalorava; quelli in-calzavano senza tregua accusandolo di aver vendu-to la “rabbia operaia”, ma non riuscivano a convin-cere neppure se stessi. Preferivano (avrebbero prefe-rito) l’ipocrisia di scuse avvilenti giocate sul privato,tali da non scuotere l’universo piccino e ordinato daifautori del disordine. Io ero sicuro che le migliaia didipendenti Alemagna potevano comprendere di piùdei cosiddetti rivoluzionari perché questa era la di-mostrazione di come i padroni siano generosi solocon chi punta lunghe corna, solo con chi temono.Feci anzi notare che con dieci mensilità a cranio sipoteva svuotare lo stabilimento e che toccava dun-que al padrone spiegare l’ingente somma. «Gridia-molo ai quattro venti, – proposi, – diciamo di avervinto!». Si finì con il litigare e ce ne andammo via.Tornando a casa Piras si mise a piangere, un po’ peril troppo vino trangugiato nell’eccitazione, un po’ peril congedo da un periodo dell’esistenza. Con la boc-ca impastata continuava a sragionare di formaggi ge-nuini, di cavalli, di montagne e intervallava (con tonoassai più sincero) qualche sacramento contro la fab-brica, contro il lavoro: era questo che sfuggiva, allafine. Non mi fu facile, ma riuscii a depositarlo sulletto di casa, sotto gli occhi della moglie, pieni dirancore apprensivo. Non si decideva a lasciarmi an-dare, tormentandomi con rievocazioni a raffica: con-trabbando, scarico sulle ribalte, furti e sprechi, senzadecidersi a dormire. Finalmente crollò ronfando comeun orso e mi diressi verso Lope de Vega, senza riu-scire a metter bene nella chiarezza esatta dove stava

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l’abisso che divideva gente come me e Piras dai mi-litanti dell’estrema sinistra con cui pure in mille oc-casioni ci si trovava fianco a fianco. Se non mi erainfatti piaciuta la ritirata del sardo (ma dovevamoesser ben cretini a non averla prevista!) ancor più miurtava il moralismo degli altri, la spocchiosa sicurez-za che non spiegava nulla e tanto meno perché biso-gnasse restare alla catena di montaggio, quando lepersone normali se ne allontanavano.

Passò un altro mese e mi arrivò la lettera dell’av-vocato. Avevano concluso un accordo, accettato datutti, che mi sembrava pura follia. Non prendevamoil risarcimento dei danni, ma solo i danni, ovvero illavoro. Mi venne da ridere. Non avevo fatto nulla enon mi sentivo di accampare diritti; accettai pertan-to, sia pur di malanimo, quella decisione poco adattaalla mia persona. I fratelli Salemi erano invece entu-siasti e vedevano l’assunzione come malattia per-manente; il padre a sua volta esultava affermandoche i figli erano “sistemati” e sperava in realtà che ifigli avrebbero “sistemato” lui. Mi costrinsero (pernon sputtanare la lotta, naturalmente) a rientrare nellostabilimento e ricevetti due mesi per il periodo diinattività. Il cedimento padronale era sospetto: cer-cavano infatti dei colpevoli per giustificare i lorocasini e noi eravamo capitati a fagiolo. La torta deifondi statali era bella grossa! Se la mangiarono tuttae lasciarono a noi operai le briciole, accusandoci suigiornali di aver provocato quello sconquasso:spudorati! Volevo farmi licenziare subito e appenavarcata la soglia del reparto mi dedicai con diligenzaa litigare, per futili motivi, gridando al capo di volerparlare con il direttore generale. La risposta fu nega-tiva e io minacciai lo sciopero della fame se non mi

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assegnavano a mansioni compatibili con il mio statodi salute. Come Dio volle fui portato in ufficio e undirigente mi consegnò un assegno di due milioni.«Ho capito, ho capito… firmi questa lettera di di-missioni e siamo a posto», bofonchiò.

«Veramente vorrei esser licenziato, per motivimiei», replicai perplesso, preso in contropiede. Maquello: «Non faccia il furbo, amico. Conosciamo iltrucco e non ci caschiamo». Ero confuso: dov’era iltrucco che mi attribuivano? Due milioni facevanogola, ma non volevo diventare Piras II. Suggerii lavia d’uscita: loro mi licenziarono e io firmai le di-missioni, così da esser garantiti entrambi. Filò tuttoliscio e non ebbi rotture di coglioni dal comitato. Sobene di essermi perso una bella esperienza; non sipuò però chiedere alla gente di rinnegare se stessi eio non lo vedevo proprio Salvatore Messana in quelpantano ad aspettare la Cassa integrazione. Era robaadatta ai giovincelli, a quelli del doppio lavoro, aivecchi; io avevo troppa fretta e la tranquillità delposto fisso non mi interessava.

Cominciai a esercitare infatti il commercio ambu-lante, vendendo giocattoli, collanine e merce varianelle piazze della Lombardia e della Liguria, senzaparticolari avventure per ben quattro anni.

Per farti sorridere, amico lettore, ti confesseròche avevo tuttavia escogitato un personale sistemaper la totale cancellazione della burocrazia, con lesue lunghe code insopportabili; mi facevo cioè dasolo le autorizzazioni, incoraggiato dal gusto per l’il-legalità e mai me ne vennero guai, attento come eroa non tirare troppo la corda quando annusavo fun-zionari di tipo petulante: concedevo infatti loro lagioia di una multa, senza discussioni.

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Se io svivacchiavo pigramente, Milano cambiavainvece, ancora una volta con celerità. Erano spariti,d’incanto, i grandi cortei, l’allegro disordine, i pub-blici contestatori dell’autorità. I più avevano rinun-ciato alla terra promessa accontentandosi di minu-scoli miglioramenti ed erano tornati a operosa pro-duttività, lontani dalle catene, ma rinchiusi nelle pic-cole miniere dei laboratori casalinghi, delle cantineadattate, delle fabbrichette nascoste. Molti come mese ne erano tornati al sud oppure campavano allameglio confinati ai bordi della metropoli oppure ave-vano inseguito il proprio destino fin dentro la gatta-buia. Incontravo, di tanto in tanto, i militanti di sini-stra e stavano peggio di me: chi si era rammollitonell’impiego statale, chi fingeva di esser dirigente,chi aveva ripiegato, non sapendo far altro, all’inter-no dei partiti e dei sindacati, chi si bucava senzaritegno. Vidi anzi il Pietro della Motta, ridotto uncencio, magro e sbattuto, con la sua brava siringa,seduto su di una panchina. Non mi diede neppure iltempo di un saluto che già stava chiedendo, con oc-chi disperati, un diecimila. Si era preparato la recitaa memoria dello «sto per smettere», ma preferii pa-gare subito senza ascoltare fesserie; mi prendevaoltretutto allo stomaco guardarlo mentre si sforzavadi sorridere, tutto consumato e stanco, deluso, giàmorto. Morì infatti, di lì a poco, guadagnandosi untitolo a quattro colonne sul “Corriere”.

Non mancavano infine i brigatisti, o terroristi, ocome diavolo li volete chiamare. Proseguivano dirittiper la loro strada e, se non spaventavano con il nu-mero, ci riuscivano con il metodo. Si aggiravano clan-destini convinti di andare a caccia dei padroni e nonsi rendevano conto che il bersaglio erano loro: ogni

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tanto ne buttavano giù qualcuno come un birillo enessuno protestava, nessuno li conosceva, sembra-vano arrivati dalla Persia. Era una specie di suicidioa rate, una roulette russa, con i superstiti sempre piùincattiviti, isolati, pronti alle liti intestine. Non eragente capace di vere precauzioni, tanto che io stessoebbi modo di incontrarne tre o quattro, tutti convintidi farcela a battere militarmente l’esercito con queiquattro ferrivecchi che si ritrovavano. E come siincazzavano se mettevi in dubbio le loro ipotesi! Tiguardavano con una specie di compatimento e giù aspiegare, meticolosi, come l’aumento dei prezzi avreb-be determinato sommosse generali ecc. ecc.

Un tale per farla corta, disse che avevano ragioneda vendere e se ne andò al cinema, ben felice di ave-re evitato una noia pericolosa. Ma tre notti dopo siritrovò l’interlocutore nell’abitazione, senza riuscirea dir di no a una richiesta di ospitalità per due o tregiorni. L’indesiderato ospite prese subito a farglidissennate rivelazioni e, trascorse due settimane, nonsolo aveva messo radici, ma gli portava altri militantidello stesso gruppo (una banda armata minore) perriunioni, cene e trame varie. Coinvolto suo malgra-do, il malcapitato non sapeva più come districarsi,fino a quando non gli venne un’idea geniale e finsedi subire lo sfratto: assoldò una dozzina di amici,ognuno con la sua parte (ufficiale giudiziario, facchi-no, avvocato) e solo così poté avere un po’ di pace.

Quanto a me non avevo dubbi circa il loro desti-no nelle galere della Repubblica.

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RITORNO IN FABBRICA

Con quanto incassavo nella mia veste di ambu-lante, si campava; con gli extra mi ero comperato,incurante delle proteste dei familiari, un piccolo ter-reno vicino al mare, non lontano da Otranto. A mez-zo di rovi e campicelli senza cura da anni, rimaneval’avanzo di un cascinale, con il tetto crollato macon i muri di pietra viva ancora ben solidi. Con granfatica e modeste corruzioni ero riuscito a ottenerel’acqua; raddoppiando gli sforzi la luce. Poi, com-pletamente da solo e servendomi, ove proprio ne-cessario, dei manovali a ore, mi ero adattato asoste di dieci giorni per riadattarlo così che in treanni lo avevo reso abitabile.

Debbo chiarire al mio sorpreso lettore che io tra-scinavo dentro di me una mai sepolta nostalgia percerte dormite pomeridiane di bambino, fuori dal-l’abitazione, sulla paglia, al riparo dai raggi del sole,ma non così all’ombra da evitarne il calore intenso.Mi intorpidivo inseguendo sogni infantili né i tafaniimpedivano al sonno di conquistarmi. Nel corso deilunghi viaggi da un capo all’altro del mondo mi co-glievo a rievocare un frammento assai secondariodella mia vita, senza comprendere perché nessun’al-tra chiave del ricordo fosse così dolce e così poten-te insieme. Facevo allora ciondolare il mento ap-poggiato sulle palme della mano e mi accovacciavoin qualche angolo, senza più interesse per nulla, aocchi perduti, pagando il tributo per aver troppofrettolosamente estirpato le radici. Né erano di fre-no immagini di strade polverose, di parentistraccioni, dell’intonaco sgretolato. Se qualcuno do-

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mandava a che cosa stessi pensando, replicavo conuno «sto dormendo» e mi gustavo il divertito stupo-re provocato dalla mia frase misteriosa. Insomma…in quel luogo abbandonato da qualche SalvatoreMessana stanco di miseria, potevo riconciliare le miediverse anime, pigrire tranquillo senza dover fornirespiegazioni a moglie e figlio, guardare il meriggio chetrascorreva.

La mia graziosa compagna (pur essendo la pa-drona del fondo a evitare l’intervento di creditorisempre all’erta) si guardava bene dal seguirmi e anzinon perdeva occasione per proporre, petulante, ra-pida vendita, sostituendo il rudere con qualchemoderna villetta a schiera. Anche senza motivi dinon accettare tanto buon senso, mi sono sempreguardato bene dall’accontentarla né mi sono maiavventurato a decifrare come mai tanta tranquillitàavesse scelto uno sciagurato per consorte.

Mi ero sistemato e non avevo ragioni di mutarele mie giornate; ma doveva esserci ancora moltabrace sotto la cenere se non mancavo mai di inte-ressarmi di come andavano le cose nell’arcipelagodei briganti, approfittando di continui contatti connumerosi amici abitanti in Lope de Vega. Infatti…ma andiamo con ordine.

Erano circa le 23 e 30 di una serata qualunque.Io tornavo, stanco morto, dal mercato di Pizzighet-tone con il furgone dei giocattoli. Dopo aver par-cheggiato e sistemato a dovere i vari catenacci anti-furto, mi incamminavo verso il portone quando vidiGiuseppe Salemi seduto a prendere il fresco, insie-me ai fratelli Vito e Giovanni. Bevevano spumantee sprizzavano buon umore per aver vinto una causa,tutti e tre contro la stessa azienda. Ero stanco di

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solitudine e aiutai volentieri Giuseppe a finire labottiglia anche dopo che gli altri due si erano ritira-ti; da un pezzo non ci si raccontava e la notte spin-ge, è noto, a maggiore confidenza. Mi narrò la sto-ria di sua moglie, con la quale non viveva più esulla quale le battute pesanti si sprecavano: davve-ro non si finisce mai di conoscere la gente! Lei,Rosaria, era stata violentata dallo zio, a sedici anni,rimanendo naturalmente incinta. Giuseppe l’avevasposata e, per evitare scandalo, erano stati trasferi-ti a Milano senza possibilità di replica. Lui era in-namorato pazzo e voleva tenerla con sé ad ognicosto, ma più alzava la voce più si scavava la fossa:quella non aveva certo l’anima della casalinga e siconsiderava in colpa per sempre. Finì con lo scap-pare insieme a un pappone e a battere sui viali vici-no a Porta Venezia. Scemo di rabbia il nostro corsea denunciarla per abbandono del tetto coniugale,ma l’esperto magnaccia, ben più astuto, parò il col-po con l’accusa della donna: il protettore era Salemi,lei era fuggita per questo! Finì naturalmente in ga-lera e ci rimase per sei mesi, prima di riuscire a di-mostrare la sua estraneità. Nel frattempo nacqueun secondo figlio d’incerta attribuzione e, per nonsbagliare, il Tribunale dei minori ficcò tutti e due inqualche istituto. Ecco la giustizia per i poveracci:se dici la verità non vieni creduto e si punisconotutti i litiganti.

Ci bevemmo un altro bicchiere; poi per cambia-re argomento e per tirarlo su gli chiesi di parlarmidella sua causa. Subito cambiò umore narrando dicome in venti fossero stati chiamati a imbottigliarele bibite per la stagione estiva e avessero piantatosubito un casino dell’ostia, istigati dai giovani di

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Quarto Oggiaro che si divertivano a spaccare lemacchine per il gusto di farlo. E lui subito mise inmezzo i soliti avvocati, dopo aver convinto tuttiche bisognava chiedere il posto fisso per aver laborsa: tale piano, per quanto apparentemente pri-mitivo, ebbe successo. Il padrone ci cascò come unapera e pagò tre milioni ciascuno. Festa grande!

Ormai si rideva di gusto e Giuseppe, lanciatocome una slitta in discesa, cominciò a dire di quan-do lui e Vito dovevano montar la guardia a Gio-vanni che voleva scappare dalla fabbrica perché gligirava la testa a guardar le bottiglie: affermava diandare al cesso e invece tentava di raggiungere lastrada della finestra per paura dei fratelli, incuran-te del danaro, di cui non capiva il valore, e dei de-biti. Poi fra vigilanza, malattie, scioperi e malefatteera arrivato al traguardo anche lui… più lo ascol-tavo e più mi veniva voglia di trovarmi in mezzo astorie siffatte, di piantar grane; gli stabilimenti in-dustriali avevano finalmente un lato positivo e po-tevano nausearmi di meno. Giuseppe e i suoi fra-telli sbarcavano del resto il lunario facendosi deli-beratamente licenziare perché questa dannata so-cietà moderna era capace di dar salario anche aireietti, con le opportune mediazioni; decisi che eratempo di togliere la ruggine e divenire un operaiogaglioffo.

Soddisfatto del partito preso mi diressi verso illetto mentre lo scatenato Salemi continuava gesti-colando le sue facezie e ci salutammo con la rievo-cazione dello svanito Giovanni che si era dimessodalla Rinascente, trascorse quattro ore di servizio,lasciando, per motivi diversi, e i parenti e l’ufficiopersonale di stucco. Mandare quell’ometto al lavoro

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non doveva essere davvero impresa di poco conto!Circa trenta ore dopo già ero in coda presso gli uf-fici di via Duccio da Boninsegna, non lontano dal-la Fiera.

Consegnai il libretto e tutta la cartaccia richie-sta dalla burocrazia; nonostante ogni passaggio fos-se reso assai lento dalle assurdità dei ministeri, mela sbrigai in mattinata. Potevo partecipare all’astadella mattina successiva, perché davvero eranocambiate alcune cose e le imprese (spaventate daiPretori d’assalto e costrette dalla penuria di ma-nodopera adattabile ai compiti umili) si limitava-no a specificare l’esigenza numerica, accettando iprimi in lista. I posti migliori (tipo IBM o assicura-zioni) venivano coperti con il trucco dei passag-gi diretti o delle chiamate nominative per presta-zioni qualificate; ma ce n’era per tutti e in quellabolgia si distribuivano senza avarizia contratti a ter-mine, pulizie di cessi, lavature di piatti, manovalanzabruta o simili castighi biblici. Quel giovedì mi sipresentò davanti una corte dei miracoli, un radunodella disperazione: drogati, studentelli, alcolizzati,fricchettoni, donne sformate dalle gravidanze op-pure gravide, agitatori sociali, svitati, sempliciotti.Si erano dati convegno a centinaia in quello squal-lido seminterrato e avrebbero reso felice ogni gior-nalista con la mania dell’emarginazione nella me-tropoli. Tolta qualche dozzina di volti normali, ilgrosso era in grado di terrorizzare il più democra-tico dei capi del personale; mi veniva da ridere pen-sando al disgusto rassegnato di quei coglioni conla cravatta all’arrivo di costoro negli uffici. Il pa-drone è proprio Re Mida – pensavo – se riesce atrasformare in oro questi tipi vampirizzandoli; e si

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stupirà anche lui di vedere quanti cascano nellarete con un richiamo così poco allettante.

Mi intruppai, aiutato da Giuseppe, in un plo-toncino di persone da deportare verso Segrate, inun’azienda dal nome tedesco (“Kitzchemie”, mipare, ma non son certo) che ci voleva per ventigiorni. Era lontanissima, ma qualche santo ci soc-corse e arrivammo. L’addetto ci osservò subito giu-dicandoci pezzenti, poi ci fece firmare condizionicapestro curando con diligenza le firme: prova diun mese (oltre il contratto!), livello infimo, inizioalle sei del mattino. Quel cane da guardia ci fecepoi presente che vi erano centoventi minuti di stra-ordinario obbligatorio e che dovevamo inscatolaredetersivo con la massima velocità. Si abbandonòinfine a un sorriso chiarendo qual era il destino dichi avesse battuto la fiacca o si fosse ammalato:non usò parole ma si limitò ad agitare su e giù lamano destra, con palmo aperto, in oscillazione per-pendicolare al pavimento. Dopo il bastone vennela carota: chi si fosse dimostrato “capace” potevaaspirare alla stabilità. Io non capivo come ci si po-tesse augurare una simile iattura e intanto consi-deravo come il nostro interlocutore si attagliasseperfettamente alla mia immagine di un sottufficialenazista per via dello spirito da caserma, della for-male cortesia, della disumanità. Nell’intervallodedicato al pasto (ahimé… il cibo era orrendo)Salemi telefonò all’avvocato e tornò sollevato: ilcontratto era illegittimo, si poteva far causa.Ciononostante fu assai duro il sopportare ordini,sacrificare il sabato, trottare come i somari dietroalla verdura; l’ultimo giorno fu davvero la fine del-la quaresima.

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Il nostro hitleriano venne a salutarci gongolante,contento di averne spremuti a dovere una nidiata esi complimentò (intendeva darci dei cretini) speci-ficando che non appena possibile ci avrebbe chia-mato di nuovo. Io mi ricordai della promessa inizia-le di un posto fisso e rallentai quasi d’istinto il rit-mo per evitare che venissero in mente al nemicostrane idee, rovinando l’impresa proprio al traguar-do. Per tagliar la testa al toro confidai tuttavia almagazziniere ruffiano di essere un comunistamarxista-leninista e gli offrii in gran segreto di en-trare nel mio partito: quello ammiccò per sapernedi più e corse sicuramente a riferire in direzione.Non c’era più pericolo di conferma e mi gustavo larivincita mentre inserivo negli scatoloni gli ultimipacchi di detersivo. La vendetta è buona servita fred-da, come è risaputo, e io mi limitai a salutare l’esseessecon un arrivederci ambiguo, denso di presagi per luicattivi; né volli dare giustificazioni alla firma «conriserva» se non quella che così mi aveva insegnatomio padre e che non intendevo offenderne la me-moria a costo di far cosa poco gradita all’azienda.Fu un colpetto semplice semplice, pulito pulito, con-clusosi in dieci settimane con quattro milioni perciascuno: mentre il nazista schiumava per la bile, cilasciammo infatti convincere a rinunciare a quelposto di merda, dopo un certo tentennamento attri-buito alla paura della disoccupazione e volto sol-tanto ad alzare il prezzo. Giuseppe Salemi, la cicala,consumò la sua parte in un batter d’occhio; Salva-tore Messana, la formica, pensava al futuro non soloaffidando parte dell’introito alla moglie ammini-stratrice, ma soprattutto cominciando a rifletteresu come le operazioni potessero essere migliorate.

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Se con minimo sforzo si potevano infatti guadagna-re ben cinque mensilità, quali brillanti mete pote-vano raggiungere una volonterosa intelligenza e unacanagliesca fantasia? In fondo al padrone costavadiversi milioni una sola giornata di produzione e nonaveva prezzo la tranquillità nello sfruttamento: que-st’ultima andava sagacemente disturbata per con-trattare in posizione di forza.

Mi dedicai, con folle geometria, a svolgere unameticolosa inchiesta sulla cosiddetta “monetiz-zazione” cercando (e non è facile) di separare il verodal falso, la leggenda dalla realtà. L’incentivo a di-mettersi risultò, di norma, apparire nei rapporti as-sai prolungati, mentre la somma variava notevol-mente. Si offriva il minimo alle persone semplice-mente antipatiche, l’importo medio agli assenteistiincalliti e alle donne molto fertili, il massimo aidisturbatori veri e propri. Chi concentrava su di sépiù di un neo riusciva a raggiungere anche cifre rag-guardevoli, quindici o venti milioni. Curiosamentepoi le aziende superavano ogni limite in caso di so-spetti terroristi perché, pur non avendo prove ido-nee a giustificare il licenziamento, temevano la serpein seno, il basista che prendeva le misure della baraai dirigenti o che annotava le informazioni necessa-rie a un buon incendio. Accadeva, conseguentemen-te, che fosse proprio lo Stato italiano (sotto le spo-glie di Breda, Marelli, Unidal, Ansaldo ecc. ecc.) afinanziare futuri guerriglieri spingendo, con il dana-ro, alla macchia persone incerte se saltare il fossoproprio per mancanza di mezzi di sostentamento oper timore di cambiare il quotidiano.

Il difficile, in buona sostanza, era rendersi invisio, meglio, temuti in tempo breve (mica potevo aspet-

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tare dieci anni per aumentare il malloppo), senza nellostesso tempo varcare il cancello del carcere; se fossiriuscito a classificarmi fra gli ultimi, sarei stato, comenel Vangelo, fra i primi a essere chiamato.

Come un generale incominciai a preparare le miecampagne (che chiamerò “operazioni”, secondo ilgergo in voga fra gli addetti) arruolando di volta involta l’esercito adatto a sfondare la piazzaforte ne-mica, senza dimenticare gran cura all’aspetto diplo-matico: gli avvocati dovevano essere capaci, benvo-luti nel loro ambiente, all’oscuro delle nostre tramema anche sufficientemente elastici da non indignarsioltremisura se le intuivano. Tecnicamente essi do-vevano essere l’immagine speculare, uguale e op-posta, dei professionisti cui gli imprenditori si ri-volgevano e che da sempre erano abituati a rende-re eleganti ben altre porcherie. Il ruolo degli avvo-cati (specie per i consigli preziosi forniti a chi li sachiedere con gusto) è importante: ciò è intuitivo.Ma io sono un sovvertitore tradizionalista, come giàavrete capito dagli scarsi accenni ai miei affetti dioggi e così rispetterò il costume di non far parola diquesto aspetto: nobili, gangsters, uomini politici ed’affari, che pur si erano avvalsi di studi ben piùfamosi, ignorano infatti la questione e io mi adeguo.Lascio dunque al lettore la facoltà di riempire questovuoto come più gli aggrada, augurandogli che l’eser-cizio torni utile alla fantasia e all’intelletto.

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OPERAZIONE SUPERPULIZIA

Quando fermai Cosimo, davanti alla Sala Corsedi via Fiamma, e gli proposi di andare a lavorare,mi guardò stupefatto e pensò a uno scherzo. E nonappena chiarii che si trattava anche di assumerci icompiti più miserabili e peggio pagati, preseun’espressione sgomenta ripetendo meccanicamente:«Ma proprio io… fra milioni di persone…». Solo lagrande fiducia che riponeva in me convinse questorapinatore, appena uscito dal carcere di Novara, adaccettare, dopo aver manifestato perplessità, il miopiano. Continuando per la sua strada, del resto, nonaveva altro destino se non quello di tornare in galera,specie considerando la sua testa calda e la facilitàcon cui andava in bestia.

«Ho studiato il sistema di star finalmente dallaparte della legge, – sghignazzai ironico, – e di punirei padroni ricavandoci anche tornaconto».

Con Rocco fu invece tutto facile e afferrò al volola situazione; era molto sveglio e se non avesse avu-to la mania (più che il vizio) del gioco d’azzardo,oltre a risparmiarsi guai continui, avrebbe fatto stra-da nella vita. Eravamo un terzetto che poteva scala-re le montagne. Il Cosimo assicurava piena copertu-ra in caso di rissa e già preveniva aggressioni con ilsuo aspetto da vero delinquente. Portava le scarpecon il tacchetto nascosto, per elevare la statura troppobassa, e incredibili giacche a righe; a volte sprizzavasimpatia e altre urtava il suo esser sempre teso comeuna corda di violino. Il Rocco invece mostrava unaperenne aria rassicurante, con il suo borsello, e nes-suno poteva immaginare la sua determinazione di

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arraffare tutto il contante che gli capitava sotto tiroe di correre a puntarlo su di un cavallo. Imperturba-bile, come ogni dedito all’azzardo, accettò senzabatter ciglio l’ennesima avventura, dignitoso comeun conte in procinto di qualche matrimonio impostodall’interesse, sempre cortese e mai entusiasta.

Dopo la trafila al collocamento, ci trovammo “av-viati” verso una temuta Cajenna, la SRL Superpulizia(mi scuserà l’acquirente del volumetto se mi sonopermesso di mutare la denominazione, sostituendo-la secondo estro, ma posso garantire la assoluta ri-spondenza al vero di quanto leggerà). Dovevamolavorare alla notte, dalle 20 in poi, in un grande piaz-zale dell’azienda tramviaria municipalizzata. Si trat-tava di scopare, lavare e lucidare, dentro e fuori, finoa render brillante il colore, una infinita teoria di mezzipubblici, quelli semplicemente grandi e quelli enor-mi. Ci dichiarammo, naturalmente, soddisfatti dellostipendio e avanzammo anzi la richiesta di essereutilizzati per ore straordinarie, anche la domenica.La trovata era di sicuro effetto. Dipendevamo da unuomo straordinariamente brutto, con molta barba macon pochi capelli, claudicante fino ai limiti dello stor-pio, trasandato, con una qual aggressiva stupidità chetraspariva dai denti giallognoli impegnati nel sorriso.«Se quello è il capo, – sussurrai ai miei amici, – figu-riamoci il resto!». Infatti lo spogliatoio era un boxsufficiente forse a contenere vetture di cilindrata me-dia, pieno di chiodi cui venivano appesi gli abiti e, altermine, le tute grigie. Rocco fu subito tentato, mariuscì a vincersi evitando di allungare le mani versoinvitanti tasche. Ci guardavamo a vicenda, così con-ciati, e si rideva dell’adesivo di plastica che identifi-cava goffamente gli operai della Superpulizia: la

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giubba larga consentiva di tenere il maglione per fre-nare il freddo pungente delle notti invernali. Pren-demmo la nostra dotazione di acidi e solventi (noci-vi in spregio a una legislazione già permissiva) e ci simise all’opera. Le squadre di fantasmi robot entrava-no nei mezzi vuoti e lustravano senza posa i rifiuti;provate a pensare quante cose un tram ingoia in ven-tiquattro ore, dal piscio dei bimbi al vomito degliubriachi, dallo sputo dei vecchi alle caccole di naso…senza contare le atroci gomme americane incollatenegli angoli più impensati.

L’umanità è sporca, affermano i pessimisti. Maquella fetta di umanità che si serve dei mezzi pubbli-ci ritengo abbia deciso, per vendetta, di lasciare de-triti maggiori rispetto a una media ipotetica, con punteche rasentano il triplo nelle prime e ultime corse.

Il capo squadra (tale Ottavio, senza cognome,perso otto anni prima, la notte dell’assunzione) ciindicò una fila di autobus e, con fine umorismo, dissedi volerli vedere nuovi. Noi a recitare dei bellissimi«sì», chiamandolo «signore», perché avevamo nota-to che ci godeva e che il suo lato debole erano lelusinghe; eravamo sordi e muti pur di superare ilfatidico periodo di prova. Ci gettammo in mezzoalla nebbia e ci si salutava quando uno intravedevala sagoma dell’altro, per farci coraggio.

Sette fatiche come quelle di Ercole, e non menoterribili, dovemmo superare, tanti erano gli ostacolidisseminati lungo quei quindici giorni sperimentali.Il padrone si serviva di piccole carogne pronte a farla spia sui tuoi comportamenti o i tuoi pensieri, digente che insisteva per conoscere dove avevi lavo-rato prima per i controlli. Li tranquillizzammo pre-cisando di essere appena rientrati dalla Francia, chi

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addetto all’industria vinicola, chi allo scarico delgrano dai silos. Bisognava riuscire nell’operazionedi freno della curiosità interessata del ficcanaso diturno, senza però dare appiglio a nuove imbaraz-zanti domande. Un paio di volte fummo sul puntodi cedere per via delle mani gelate, delle ossa rotte,della testa pesante; ma l’uno faceva forza all’altro ecosì si tirava avanti odiando sempre maggiormenteil nostro nemico, lo sconosciuto proprietario chemagari si stava giocando al casinò i soldi guadagna-ti sulla pelle dei dipendenti (il paragone era stato dame escogitato per eccitare Rocco, come si fa con itori, in apertura di corrida).

Volgeva al termine, ormai, la nostra tortura, quan-do arrivò un cosiddetto “ispettore”, ben vestito, conil cappotto color cammello, un colbacco degno delministro sovietico per gli affari esteri e una sciarpa dilana pregiata. Ottavio, il mostro, gli trotterellava dietrocome poteva, con il suo arto anormale, e lo informa-va delle nostre capacità. Poi il nuovo arrivato afferròuno straccio e con fare militaresco controllò i mezzilavati dai sette assunti di recente. Si complimentòcon noi tre esprimendo felicità per l’ingresso nellasocietà di “persone valide”, trovò sufficienti due di-sperati veneti che lo osservavano intimoriti, ma siincazzò con la rimanente coppia agitando il pannoche aveva dimostrato la imperfezione nel loro lavoro.Lo sciancato esibì, a un cenno, i cartellini dai qualiemersero ben tre ritardi in quelle due settimane. Ilcammellato non ebbe dubbio alcuno.

«Qui di mangiapane non ne vogliamo, non siamoun ente di beneficenza. Insomma domani ritirate lapaga, la lettera di licenziamento e ve ne andate fuoridai coglioni, sperando che la lezione vi insegni a stare

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al mondo!». Io mi aspettavo una reazione dei sin-dacalisti, e invece niente. Lì non c’erano neppureCGIL-CISL-UIL, eravamo ancora ai tempi delle filandenel secolo scorso. Ci si accontentò di mettere anchequesta nel conto da presentare a quei bastardi, setutto fosse andato bene.

Il turno successivo il coltello potevamo finalmen-te tenerlo dalla parte del manico. Non potevano piùbuttarci fuori senza “giusta causa” e gli agnelli, per-tanto, assumevano senza ritegno il loro aspetto dilupi feroci. Era notte di paga per le maestranze, macome al solito la direzione ritardava, un paio di gior-ni, tanto per il gusto di fottere qualche spicciolocon gli interessi bancari.

«Caro Ottavio, – gli dico, – niente soldi, nientelavoro. Io ho sgobbato e voglio sentire il grano intasca: è un diritto». La commedia prevedeva adesio-ni frazionate, prima da parte di Rocco e poi di Cosimo,che intervenne quasi per caso, sbraitando il suo pro-blema dei debiti. Incuteva rispetto. Con quel suo vo-cione da “mani in alto” intimidì la platea, mentre noidue logoravamo ai fianchi. Grazie all’appoggio diVerter (proprio così, non Werter) Mola, uno dei fissi,metà scioperarono essendo la paga un problema mol-to sentito. Davanti allo spogliatoio, prima di andar-cene, dissi: «Caro Ottavio, da buon maggiordomo ri-ferisci al padrone che d’ora in poi dovrà essere sem-pre puntuale e che inoltre dovrà venire sul piazzale aportarci le sue scuse personali, altrimenti andremo acasa sua per ottenerle». Lo zoppo mi osservò scon-volto, non gli era mai capitato, spalancava gli occhitristi come se gli avessimo picchiato la mamma.

La notte dopo c’era tensione. Arrivò subito l’ispet-tore cammellato e ci portò il danaro, ma fece una

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ramanzina. Io, per innervosirlo, lo chiamavo «signorVerde» invece di Bianco (il suo vero cognome) e luimi correggeva seccato. Sul più bello della discussio-ne, Rocco se ne uscì con una trovata da nottambulo.«Ehi, dottore, non fare troppo l’indiano. Qui c’è ilgrano, ma non c’è la busta! È un obbligo preciso e iola voglio subito; perciò sali in macchina, vai dal ta-baccaio o dove ti pare, torna con il documento con-tabile e dammelo, così lo controllo voce per voce,riga per riga. Quanto ai sorrisi, risparmiali per il pa-drone». Fu una scudisciata sul volto. Replicò cheeravamo pazzi e che a quell’ora tutto era chiuso.Promise infine di farcela avere per l’indomani e sene andò, incazzato come una pantera selvaggia allozoo, con bruschi movimenti di nevrotico. Nessunosi era mai permesso di trattarlo così e meditava lasua vendetta, senza neppure il tentativo di celare leintenzioni. Noi incominciammo a rallentare i ritmie invece di cinquanta autobus ne furono puliti soloventicinque, la metà esatta. Avevamo la certezzache al secondo giorno di un servizio fatto malel’appaltante ATM avrebbe tirato le orecchie al prin-cipale, facendo il nostro gioco. Spiegammo poi a tuttile ragioni del poco consueto atteggiamento, appog-giati da Verter e da un relitto napoletano terremo-tato, adattatosi a dormire in una scuola, chiamatoPasquale Forcella. Insieme attaccammo un cartelloveramente gigantesco ove stava scritto:

«Lavoratori, ci pagano 250 lire per ogni tram oltre

il cinquantesimo e bisogna farci il mazzo per riusci-

re a conquistare il cottimo. L’azienda ne prende in-

vece 25.000, sempre. Di questo passo il padrone

sarà sempre più ricco, mentre noi saremo sempre

più stronzi. E allora noi vogliamo almeno 5000 lire

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per ogni catafalco ATM extra oppure mandino a la-

vare l’ispettore. Intanto, per gradire, torniamo uo-

mini e muoviamoci con il ritmo giusto di venticin-

que: vedremo chi calerà le braghe per primo!»

Ai cinque ribelli fu lestamente spedita una rac-comandata lunga quasi un chilometro, con l’accusadi scarso rendimento e la perentoria richiesta di giu-stificazioni scritte. Quello stesso pomeriggio ci in-contrammo e, prendendoli in contropiede, ci recam-mo alla sede amministrativa e dichiarammo all’im-piegata che il padrone ci aspettava. Il trucco riuscìe ci trovammo, per la prima volta, faccia a facciacon il misterioso nemico, quello che i colleghi ave-vano visto soltanto in cartolina. «Le nostre giustifi-cazioni sono queste!», sibilai militaresco e insiemeconsegnai il seguente testo:

«Abbiamo il diritto di non crepare su un tram e i

tempi di lavoro sono assurdi. Vogliamo inoltre il lat-

te disintossicante come prescrive la legge, uno spo-

gliatoio vero lontano dai bidoni della spazzatura.

Prenda, signor padrone, appuntamento con il fale-

gname perché presto dovrà ordinare una bacheca

per i comunicati del sindacato che stiamo formando.

Distinti saluti.»

Quello era furbo. Si vedeva benissimo che dallarabbia aveva la milza in bocca, ma continuava asorridere lisciandosi i baffetti grigio argento con ilpollice e l’indice della mano sinistra, mentre prose-guiva a masturbare senza posa, su e giù, una provo-cante penna preziosa con la destra. «Se avete finito,potete andare… e la prossima volta chiedete unappuntamento. Riceverete notizie nel termine pre-visto… arrivederci signori miei».

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Aveva uno spiccato accento lombardo, pareval’immagine televisiva del buon padre di famiglia, masi intuiva il pugnale pronto a colpirti nella schiena.

E infatti, già quella stessa sera, Verter Mola erascomparso. Non era stato licenziato; era stato pro-mosso. Si era venduto per il solito piatto di lentic-chie e non rispondeva neppure al telefono se lo sichiamava a casa. Un colpo ben assestato: con 20.000lire mensili sotto forma di passaggio di qualifica losciopero del cottimo era sconfitto. A noi toccavanoinvece tre giorni di sospensione.

Dovete ora sapere che se uno ricorre all’arbitratopresso l’Ufficio del Lavoro, la punizione rimane so-spesa fino alla decisione, e passano come minimoquattro mesi. Così facemmo e fu un rigore paratoinaspettatamente che rialzò il nostro prestigio e ciconsentì di riprendere la lotta senza sputtanarci. Co-minciavamo a costare e avevano dovuto mandaredue rimpiazzi per finire quanto noi evitavamo di fare.Provammo allora a richiamare Mola nella sua nuovasede di lavoro e ce lo passarono. Io registravo conun portatile mentre quello piagnucolava di aver fa-miglia e implorava di esser lasciato in pace, perchél’aumento gli era stato concesso proprio a patto dilasciarci perdere. Feci ascoltare a tutti gli operai latelefonata. «Visto? Il padrone ha paura. Voi non avetemai visto un aumento e a lui, subito, per evitare guai.Quindi a ribellarsi si ottiene e a chinare il capo siresta ciuchi». La manovra si ritorceva contro il ne-mico; noi acquistavamo strafottenza inaudita e sen-za ritegno andavamo incitando tutti al casino, cre-ando scompiglio. Ottavio e l’ispettore cammellatosubivano la vergogna di non esser riusciti a fermarcie intimorivano assai di meno.

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In un mese avevamo collezionato quattro san-zioni, tutte inviate all’arbitrato. E avevamo un assonella manica. La direzione non affiggeva il contrattocollettivo nel deposito e violava la legge che lo im-pone; secondo i giudici le punizioni erano dunquenulle, ma noi eravamo stati zitti per farlo sbagliarepiù a lungo e per dargli il cazzotto nello stomaco almomento giusto. Per stuzzicare l’avversario restam-mo tutti e quattro a casa malati qualche giorno enon fu difficile trovare il medico per “sindromedepressiva”: tra l’altro un po’ di riposo ci voleva dopole notti al freddo. Recuperate con il sonno le ener-gie, passammo le ultime ventiquattro ore libere aCamogli, in gita, per goderci il sole invernale dellariviera. Con la barca ci si recò a Punta Chiappa e simangiò al Drin, cucina ligure verace con terrazza sulmare. Pasquale era affascinato e stava quasi dimen-ticando la sua miseria. Beveva il vermentino fresco(nostro ospite, è ovvio) e benediceva quella rovinache l’aveva espulso dai vicoli del suo quartiere. Gra-zie al vino il piano fu elaborato con allegria e poi funecessario stenderci al sole… con il sonno arrivò unapennellata di colore che ci dimostrava in salute e davail tocco dell’arroganza alla provocazione!

Alla ripresa il povero Ottavio tentò di corrom-permi con l’offerta di essere capo squadra alla me-tropolitana. Gli risi in faccia spiegandogli che nonme ne fregava niente e provai una strana gioia nel-l’infliggere la tortura indiretta al padrone. Di lì amezz’ora si fece vivo il cammellato, curioso di sa-pere se ero cascato nella rete o se stavamo combi-nando casino come al solito. Cosimo si lanciò versodi lui, lo tirò a sé per la sciarpa di lana e lo affrontò:«Sei un verme e ti vuoi comprare la gente con un

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piatto di minestra. Ma noi siamo generi di lusso ecostiamo cari! Gira al largo, perciò, o ti rompo ilmuso». Sembrava proprio incazzato nel profondo eci fu il gelo: ma ognuno era ben felice di veder trat-tato finalmente l’aguzzino come si meritava e gli uo-mini con la tuta lo osservarono a lungo mentre se neandava a testa bassa, impaurito. A quel punto cisiamo schierati in quattro, diritti sull’attenti, comeil picchetto d’onore al milite ignoto. Rocco lo chia-mò con voce gentile e suadente: «Signor Bianco…».Fece appena in tempo a voltarsi che già ci vide agi-tare in perfetta sincronia l’avambraccio, un gestonon equivocabile accompagnato da una sonorapernacchia corale.

La lettera, uguale per tutti, non giunse inattesa:«Egregio Signor Messana, con la presente Le conte-stiamo il comportamento irriguardoso tenuto da Leie da altri tre dipendenti, alle ore 22 del 12 febbraiou.s., nei confronti del nostro ispettore, Sig. Bianco.Senza nessun motivo il suddetto è stato insultatoalla presenza delle maestranze, con parole irripetibili,e gravemente minacciato.

Ai sensi dell’art. 7, l. 20/5/70, n. 300, e del vi-gente CCNL per le imprese di pulizia, La invitiamo apresentare eventuali giustificazioni, avvertendolache, decorso detto termine, potranno essere adot-tate nei Suoi confronti le sanzioni del caso.

Distinti saluti».Dopo neppure ventiquattr’ore l’agenzia Rinaldi

recapitava quattro espressi di replica:«Egregio signor imprenditore, l’art. 7 da Lei ci-

tato impone di affiggere in luogo accessibile a tuttil’elenco delle infrazioni e delle sanzioni. Poiché Leiè abituato a fare il tempo bello e quello cattivo, non

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se ne è preoccupato minimamente. È inutile quindiprendere un provvedimento che sarebbe comunquenullo. Ad ogni buon conto non è vero nulla di quantoafferma: noi siamo lavoratori rispettosi della leggee ci limitiamo a non farci mettere i piedi sulla testa.Cogliamo l’occasione per farLe notare la mancanzadi estintori nel box da Lei chiamato spogliatoio eLa preghiamo di provvedere, altrimenti saremo co-stretti ad avvertire i Vigili del Fuoco».

Il campo avversario aveva subìto un colpo duris-simo: in sessanta secondi avevamo distrutto un mesedi preparazione del nostro licenziamento. Giravanocon il muso lungo, tutti i cani da guardia, riflettendol’umore del loro re-imperatore. Mentre ancora si lec-cavano la ferita cosparsa di sale, provocammo un’al-tra novità: l’assemblea. Il sindacato ha diritto di fardiscorsi agli operai per dieci ore ogni anno, mandan-do (se vuole) un funzionario. L’azienda deve pagarele ore. Così dice lo Statuto, perché il governo prefe-risce rinforzare le tre confederazioni piuttosto di ve-der nascere gruppi spontanei. Fra due mali sceglieil minore. Quando arrivano la prima volta, i sinda-calisti promettono sempre mari e monti per far col-po sulle maestranze e tesserarne una bella fetta; lebraghe le calano dopo, quando hanno le deleghe epossono avere qualche cosa in cambio. Ma questol’inesperta Superpulizia non lo sapeva. Noi erava-mo andati in quattro alla sede CISL di via Tadino eavevamo spiegato di essere dei pirla con tanti pro-blemi. Avevamo pagato il nostro cartoncino e ciavevano garantito l’arrivo di qualcuno. Un tizio in-fatti telefonò a Rocco, volle sapere un sacco dinotiziole e poi spedì una lettera in direzione perconvocarci in assemblea.

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In una sala dell’azienda ATM (eccezionalmente adisposizione) c’erano quasi tutti e non mancava na-turalmente l’ispettore Bianco, senza cappotto cam-mello, per sembrare un proletario. Subito noi comin-ciammo a gridare: «Fuori, fuori», e quello risponde-va imbarazzato: «Sono un dipendente pure io», sen-za rendersi conto di abolire la barriera gerarchica, diessersi sputtanato. Rocco domandò al funzionariose i licenziatori possono partecipare alle riunioni sin-dacali e tutti risero. Il cislino fece segno di non rom-pere le scatole e cominciò a spiegare quanti aumentici spettavano, quanti soldi dovuti non ci erano stativersati: indennità di sopra, terzi elementi di sotto…nessuno capiva molto ma facendo i conti erano dueanni che si trattenevano trentamila lire al mese perciascuno. Non se ne sa mai abbastanza: ecco per-ché non davano le buste paga! Si rimase d’accordo(e la votazione fu un plebiscito) di iniziare lavertenza. Prima una lettera di avviso; poi scioperooppure azione legale perché il credito era così sicu-ro che non c’era quasi bisogno di pressioni come ilblocco del lavoro. Tirai fuori la calcolatrice: £ 30.000x 47 dipendenti in quelle condizioni nei vari depo-siti = £ 1.410.000 x 12 mesi = £ 16.920.000 an-nuali + quote contributi: £ 24.000.000. «Un bel tris»,commentò Rocco, sempre con la testa alle corse dicui aveva una terribile nostalgia. Eravamo arrivatialla settantaduesima giornata di campagna militare;un colpo d’ariete aveva aperto il portone principaledella città nemica.

Il padrone ci fece chiamare nel suo ufficio. Ci chie-se con fare annoiato quanto volevamo per andarce-ne “fuori dai coglioni”. Cosimo disse dieci milioniprecedendo me che volevo sparare venti: lui faceva

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il conto sul rendimento medio della rapina e avevachiesto una cifra equivalente. Pasquale era sul puntodi svenire, non ci credeva e si sarebbe accontentatodi novecentomilalire. Il lombardo lasciò cadere lamano dai suoi baffi argentati e sbottò: «Questa èun’estorsione».

«Guardi che ci ha chiamati Lei, dottore», sogghi-gnò il Rocco, con lo sguardo gelido, come al tavolodi poker. Io rilanciai: «Oggi sono dieci, dottore. Lasettimana prossima dodici. Si sale sempre di duemilioni ogni sette giorni, perché a lucidare tram ac-cumuliamo troppa rabbia… se non la sfoghiamo civiene l’esaurimento nervoso».

Andò a telefonare in un’altra stanza, poi tornò eoffrì cinque milioni. Noi duri, per una ventina diminuti, conquistati da quell’allucinante discussione.Di solito l’operaio tenta di convincere il padrone aconsiderarlo una brava persona; noi invece usava-mo argomenti per indurlo a pensare esattamente ilcontrario, che eravamo cioè più cattivi dell’appa-renza. Insomma era un rovescio esilarante della lo-gica, ci si divertiva, specie alle battute partenopeedel nostro terremotato ormai entrato nella giustadimensione. Si concluse a quota otto, oltre liquida-zione e stipendio naturalmente.

A quel punto gli diedi il numero di telefono delnostro avvocato, per concretizzare l’accordo. Il ne-mico trasalì di rabbia:

«Che c’entra l’avvocato, adesso?».«C’entra, – replicai, – perché ha seguito il proble-

ma dei provvedimenti disciplinari e poi perché vo-gliamo fare tutto in Tribunale, regolarmente, non dinascosto per essere magari denunciati un domani».Non poteva tirarsi indietro e pagò lui, naturalmente,

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tutte le spese. Si organizzò un finto licenziamento,una causa pro forma e si mise il compromesso nerosu bianco: nel corridoio ci diedero un bel circolaredi ottomilionisettecentotrentaduemilaquattro-centoquindici. Vittoria!

Non era finito ancora il calvario di quel vampiro.Gli assegni, uno accanto all’altro, con i nostri nomi,furono fotocopiati alla macchinetta della stazionecentrale, per cinquanta volte, insieme alla scrittafinale:

«Svegliatevi! La lotta paga, PAGA!».Andammo a distribuirli ai nostri colleghi (invece

di scappare come un tempo il vecchio Piras) e cia-scuno si sbalordiva, dicendo di aver capito in unattimo più che in tutta la vita. Naturalmente tanti sisaranno tirati indietro, ma certo la Superpulizia nonè più tornata tranquilla come prima. Quanto a VerterMola – vendutosi per un miserabile aumento – simangiava i gomiti e ci implorava di prenderlo connoi nella prossima spedizione.

L’invenzione degli assegni fece traboccare il vaso.Quando andammo a ritirare i nostri libretti, il lom-bardo cominciò a insultarci e voleva provocare adogni costo. Fatica sprecata con me, ma Cosimo gliallungò subito un ceffone così potente da farlo tra-ballare per un istante. Scappammo e avevamo pau-ra di una denuncia, ma questa per fortuna non arri-vò mai: un po’ forse per evitare che anche noi la-mentassimo le male parole ricevute e un po’ (e credosoprattutto) per non fare la figura del coglione rac-contando l’intera vicenda.

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OPERAZIONE SPLENDOR S.p.A.

«L’appetito vien mangiando», diceva sempre miamadre rievocando come una preghiera l’antico ada-gio. Dopo il successo ottenuto, non avevo infattinessuna intenzione di fermarmi e decisi di organiz-zare subito una seconda e più audace operazione,sempre nel fertile settore delle imprese di pulizia,ove era molto facile trovare lavoro. Rocco, animapigra, fu convinto a partecipare con gran fatica per-ché viveva beatamente con la sua borsa piena, edera propenso piuttosto a spendere che ad accumu-lare. Per evitargli tentazioni, da buon generale, peril suo bene, lo obbligai ad acquistare BOT trimestrali(due pezzature da cinque milioni) creando così arti-ficiale carenza di contante e incentivandolo all’azio-ne nell’unico modo possibile. Verter, il disertoredella campagna precedente, fu ammesso a una pro-va d’appello, ma gli furono imposte dimissioni gra-tuite dal posto occupato presso la Superpulizia comeprova tangibile della serietà delle sue intenzioni.Cosimo, partito per un viaggio in Calabria, fu invecesostituito da Angelo, un giovane elettricista dellaBarona sui vent’anni con due lunghi baffi neri e labattuta pronta; la recluta gravitava attorno alle casedi Lope de Vega ed era giurato avversario di qua-lunque forma di attività subordinata.

Con sostanziosa mancia a un disponibile impie-gato del collocamento (trecentomilalire) non fu dif-ficile ottenere che tutti e quattro fossimo assegnatialla stessa azienda; erano, ripeto, posti per nullaambiti, e a nessuno veniva certo in mente di prote-stare per l’alterazione, in pratica irrilevante, della

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graduatoria. La vittima designata, ovvero la S.p.A.Splendor, prosperava grazie all’appalto delle pulizie(con straccio e macchinari) dei locali di alcune ban-che; qualche ufficio serviva ad arrotondare. Il pa-drone ci mandò dapprima presso una piccolametalmeccanica e noi ci comportammo da bravi fessi,lustrando e facendo brillare pavimenti, porte e ma-niglie. Superata la prova con pieno merito, riuscim-mo a diventare amici del solito capetto, il quale, perpremiare la nostra buona volontà, ci mandò alla fi-liale della Banca *** situata in pieno centro storico,raccomandandosi mille volte di renderla uno spec-chio, poiché era il miglior cliente della società.

Con minor fatica del previsto il grosso era com-piuto. Il lavoro (pur se noioso) non presentava par-ticolari asperità, essendo gli istituti di credito luoghiquasi asettici dove gli impiegati camminano per abi-tudine in punta di piedi, senza mangiare panini, esoffrono in silenzio la loro infelicità. Dopo la chiu-sura degli sportelli entravamo noi cinque coatti e cidavamo dentro, sotto l’occhio vigile di guardiani indivisa, comunemente denominati sceriffi. Si face-vano solo quattro ore per turno; le altre quattro era-no precedenti come orario, presso dei condomini, maisolati, ognuno con una scala assegnata da lavare.Per quanto si studiasse la situazione non ci venivain mente niente e ogni mossa possibile aveva unafacile contromossa. Bisognava infatti colpire laSplendor nei suoi rapporti con la banca, ma, se in-tuivano le nostre intenzioni, ci avrebbero dispersoe isolato immediatamente.

A forza di malvagie riflessioni uscì l’idea e deci-demmo di provocare un gigantesco puttanaio, diquelli che fanno epoca. Appena entrati al lavoro,

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l’impresa di pulizia si trasformò in una squadra diguastatori, approfittando dell’assenza improvvisa,per malattia, del quinto, di cui non ci fidavamo no-nostante all’apparenza sembrasse un buon diavolo(ovvero un mascalzone come noi).

Cominciammo a ficcare dentro i cessi, con deter-minazione priva di scrupolo, una buona dose di as-sorbenti per signore mescolati a gesso, provocandol’intasamento di tutta la batteria dei contenitori dimerda. Verter – non del tutto digiuno di idraulica –si occupò poi di guastare due sciacquoni, in misuraminima ma sufficiente a determinare lo scorrere con-tinuo di un rivolo d’acqua.

Con tocco da artista, per fortunata contingenza,aggiunsi la guarnizione finale: una gigantesca cacatain una delle tazze sabotate. Angelo nel frattempo siera dedicato all’impianto elettrico e fu veramentebravo a scoprire due fili in un punto assolutamentedifficile da trovare con rapidità. Il contatto era mo-mentaneamente impedito da uno spessore di legnoe lo spessore si reggeva in equilibrio grazie a unblocchetto di ghiaccio. Quest’ultimo fu aggiunto unattimo prima della nostra uscita. Ci venne anzi daridere quando il Rocco perse più di venti minutiper trovare la pezzatura adatta in un bar notturnoe, tornando, trovò che anche le maniglie erano co-lorate di sterco.

La mattina successiva mandammo un osserva-tore. Il risultato fu superiore a ogni più losca aspet-tativa, si era davvero andati oltre il più ottimisticodei risultati prevedibili: la banca aveva aperto conoltre un’ora di ritardo! L’acqua aveva invaso tutti ipavimenti e guastato la moquette; i guardiani ave-vano avvertito subito ma non c’era la luce per far

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funzionare la macchina aspiratrice e ogni tentativodi far scattare la valvola risultava vanificato dai filiin contatto fra di loro. Una squadra di operai chia-mata appositamente, con urgenza, aveva finalmenterimesso a posto le cose, ma quelli della banca eranofuribondi e non si spiegavano come tutto ciò fossepotuto accadere.

A quel punto noi preparammo una lettera anoni-ma, con ritagli di giornali (tipo rapimento sardo),diretta alla società Superpulizia (quella precedente),con scritto:

«Caro signore, Messana e gli altri lavorano pres-so la Splendor e stanno facendo carriera. Non li co-noscono, sono ancora agnelli. Passo l’informazioneperché li odio. Un amico».

Come era prevedibile il lombardo telefonò subi-to al suo collega aguzzino, che non ebbe più dubbisulle ragioni del disastro accaduto: eravamo riuscitia mandargli il messaggio senza esporci in alcunmodo e loro dovevano stare zitti in quanto è vieta-to passare le informazioni negative sugli ex dipen-denti. Naturalmente fummo trasferiti e il clima cam-biò radicalmente. Ci confinarono alla pulizia di unacaldaia, all’estrema periferia, di mattino presto, alloscopo di logorarci. La nostra reazione abbracciò unventaglio assai ampio: da un lato ci rivolgemmo alPretore per ottenere la revoca del trasferimento, in-dicando quelli della banca come testimoni; d’altrolato andammo a distribuire volantini di protesta aiclienti che si recavano agli sportelli. L’istituto dicredito non doveva apprezzare affatto i guai origi-nati dagli operai matti dell’impresa, specie dopoaverci visto addobbati da uomini sandwich, con ilmotto: «Senza motivo ci hanno cacciato dal nostro

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posto di lavoro». Alla caldaia non durammo più disette giorni e noi sapevamo che non poteva essereuna cosa lunga, tanto da starcene buoni, salvo infa-stidire con ritardi, atteggiamento strafottente, richie-ste di strumenti e di intervento delle autorità perverificare la regolarità dell’impianto (fra l’altro ilcommittente si buscò una multa non mi ricordo piùper qual motivo).

Il padrone ci pareva vicino alla cottura completa,assillato dalla banca che pretendeva la nostra testa ecircondato dai lamenti dei capetti che non manca-vamo di mettere alla berlina davanti ai colleghi. Tentòil tutto per tutto, mandandoci nell’ultimo girone del-l’inferno a sua disposizione, una fabbrichetta chimi-ca di Rozzano, dove le materie inquinanti abbonda-vano ed era tossica anche l’aria degli uffici. Non ca-piva di fare il nostro gioco, permettendoci di agire.Appena visitati i luoghi mi accorsi subito che deiquattro estintori tre erano scaduti e uno addiritturavuoto. «Ragazzi, – dissi, – è l’ora di un’altra recita».Gridai, a freddo, che mi rifiutavo di lavorare, cheeravamo di fronte a un tentato omicidio. Il custodeaggrottò molto stupito le sopracciglia e replicò cheil direttore se n’era già andato. Ordinai di chiamarloal telefono e lui lo fece, anche perché noi appariva-mo molto decisi. Il piccolo tiranno, dall’altro capodel filo, comandò di buttarci fuori e il nostrointerlocutore riferì, allargando le braccia.

Afferrai la cornetta, ricomposi il numero (che miero segnato mentalmente) e senza esitare un attimo:

«Caro il mio signor direttore, sono l’operaio Sal-vatore Messana della Splendor, regolarmente inviatoqui. Se mi vuol mandare via Lei deve chiamare lapolizia, perché non mi muovo».

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«Lei è pazzo, – replicò concitato. – Se vuol fer-marsi, lavori, altrimenti se ne vada e domani ci pen-so io».

«Lei deve pensare oggi, subito, a rimettere a po-sto gli estintori. Io voglio lavorare, ma mi rifiuto difarlo in condizioni di pericolo».

«Adesso la sistemo come si merita… se non sene va subito arrivo con la forza pubblica».

«Bravo, – dissi, – la aspetto. Io intanto chiamo ipompieri».

Il guardiano era stupefatto; in tanti anni non gliera mai accaduta una cosa simile. Quando chiamai ipompieri non ne volevano sapere, suggerivano viliche era competenza di altri enti, che loro spegneva-no gli incendi e basta. Poi, per non sbagliare, un ti-zio promise che avrebbe mandato il funzionario ad-detto. Ma questo lo fece quando io specificai: «Guar-di che qui è un casino… siamo tutti in sciopero… cisono anche gli studenti con i bastoni e sta arrivandola polizia!». Aveva paura di trovarsi al centro di unagrana e per evitarla arrivò, dopo venti minuti, untale, furibondo di esser stato scomodato.

Si era creato un interessante concentramento, unospaccato di quest’Italia malcresciuta. Il brigadiereentrò – insieme al direttore – e senza saper nulla ciintimò di smammare. Rocco replicò: «Scusi, io sonol’operaio addetto, insieme ai tre colleghi. Chi è quelsignore, il proprietario?». «Io sono il direttore»,bofonchiò quello, tipico giovinastro con la giaccaspinata, sul genere moderno-sportivo, in piena asce-sa. «Sarà anche il direttore, – continuò sadico il mioamico, – ma, purtroppo per Lei, non è il padrone.Quindi non ha il potere di bloccare gli appalti». «Sìche ce l’ho», protestò quello avventatamente, punto

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sul vivo com’era. «E allora mi faccia vedere dovesta scritto oppure si metta la coda fra le gambe etorni da sua moglie a guardare la televisione». «Leise ne deve andare e basta», sibilò il declassato.Intervenne in appoggio il brigadiere: «Vi ordino diseguirmi in caserma… oppure di togliervi dai pie-di, a scelta». Verter Mola aveva già paura, ma An-gelo tenne botta. «D’accordo, ci porti in caserma, laseguiamo, mogi mogi. Poi facciamo un bel verbale.Obbediamo, come Garibaldi, ma deve essere chia-ra una cosa e cioè che ci ha buttato fuori l’azien-da… mica ci dobbiamo smenare la giornata. Siamodisposti a pulire con gli estintori in regola!… e Leideve fare rapporto su questo punto. Andiamo, allo-ra, brigadiere?». Nel frattempo io e Rocco stavamofotografando, con la mia microcamera, gli estintorivicino al giornale, per via di garantirci una data cer-ta, incuranti delle proteste lamentose del povero cu-stode, sempre più allucinato.

Ci si muoveva verso il commissariato di zona,quando arrivò il pompiere chiedendo di che cosa sitrattava e si ricominciò da zero. Non appena il nuo-vo venuto si rese conto di essere stato gabbato, pre-se a odiarci; il suo sguardo era proprio l’odio mate-rializzato. Sparavamo a caso sul problema degli estin-tori e pretendevamo prendesse anche campioni del-le sostanze usate nel ciclo produttivo per via del-l’aria che bruciava gli occhi. Ci mandò a quel paeseabbaiando che non era compito suo, che non erava-mo in America. Acconsentì però a scrivere sul suoverbale la faccenda della data scaduta e dell’estinto-re vuoto (dopo suggerimenti dell’astuto Rocco), pergiustificare la chiamata e farsi pagare il disturbo.

Pagano gli interventi, non le cazzate!

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Al commissariato era presente il direttore e civolle un’ora buona per scrivere il rapporto. Mette-vamo sempre i puntini sulle «i», la nostra disponibi-lità a pulire doveva risultare chiara. Quando uscim-mo, dopo aver firmato le rispettive dichiarazioni,l’uomo dalla giacca spinata schiumava. Per darglil’ultima stoccata, provocai: «Ci vediamo domani sera,sperando di poter serenamente svolgere la nostramodesta attività. Ma Lei si ricordi di dire al padroneche vogliamo parlare con lui, per sapere il limite esat-to dei suoi poteri… per me Lei esagera…». Non milasciò finire, se ne andò sbattendo la portiera del-l’automobile. Le gomme squittirono e, per la troppaaccelerazione della vettura, lasciarono il segno sul-l’asfalto.

L’indomani stesso l’agenzia espressi Rinaldi re-capitò alla Splendor una lettera di questo tenore:

«I sottoscritti ecc. ecc. non hanno potuto ese-guire i necessari lavaggi per fatto e colpa del clienteche pretendeva operassimo senza efficiente dispo-sitivo contro gli incendi. Preghiamo intervenire atutela dei nostri interessi. Saremo presenti regolar-mente con spirito di sacrificio sul posto assegnato.Distinti saluti e baciamo le mani».

All’ora prefissata, ci aspettava un individuo,mandato dal padrone. Ci invitò a seguirlo in dire-zione, incapace di ulteriori chiarimenti per paura disbagliare. Lo costringemmo a rilasciarci una di-chiarazione scritta che ci esentava dal servizio e cigarantiva la paga, minacciando altrimenti di entrareper mancanza di ordini contrari. Lo fece dopo as-senso telefonico. La mossa ci consentì di arrivare inritardo e innervosire a nostro vantaggio un nemicogià reso fragile.

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«Dove vogliamo arrivare? – esordì polemicamen-te il principale. – Qui si sgobba seriamente; non c’èposto per chi vuol rompere le scatole e basta. O laguerra o dobbiamo risolvere, ma in fretta, questaincresciosa situazione. Ditemi che cosa volete pertogliervi dai piedi».

«Lei dovrebbe essere più educato, caro signore,rendersi conto di come certi termini non le stianobene in bocca. Noi stiamo benissimo alle sue di-pendenze, ci divertiamo molto e vorremmo restarefino alla pensione… o per lo meno fino a quandoesiste la società». A questa mia affermazione, il vam-piro sibilò: «Questa è una minaccia!». E io, placido:«Niente è eterno, commendatore, tantomeno unaimpresa di pulizia. Ma se ci tiene, diciamo fino allapensione… non volevo minacciare nessuno. Certo,se dobbiamo andarcene per scelta spontanea, pro-prio in considerazione del fatto che il posto sembrasicuro, ci servono almeno venti milioni, per metterein piedi un’attività in proprio… non è per cattiveria,ma l’inflazione galoppa».

Ringhiava passeggiando. Sembrava uno di queicani lupo che vanno e vengono davanti ai cancellidelle abitazioni residenziali, quando i bambini fin-gono ripetutamente di voler entrare o li sbeffeg-giano agitando il bastone. «Non se ne parla nean-che. Venti milioni ve li dovrete guadagnare con ilsudore della fronte e state certi che vi spezzerò laschiena». Angelo fu sincero: «Vi siete già succhiatiil sangue di mio nonno e poi quello di mio padre.Io ho vent’anni e da sei faccio lavori che neancheconcepisce. Pulire un cesso potrà spaventare lesue mani ma a me è come se dicessero di bere uncaffé. Vuol dire che questi venti milioni ce li do-

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vremo guadagnare… andiamo ragazzi, si torna asgobbare!».

Non ci lasciò oltrepassare la porta; troppi dannie troppo in fretta avevamo causato. Cominciò a trat-tare e si parlava di milioni come se fosseronoccioline, sembravano i numeri di una tombola:quattro… diciannove… sette… diciotto… dodici…sedici. Ci attestammo su due posizioni non lontane,ma a lungo: lui a quota quattordici, noi su quindici.Non trattabili. Dopo dieci minuti buoni di recipro-che argomentazioni, Rocco se ne uscì con una tro-vata tutta sua, che denotava crisi d’astinenza dalvizio preferito. «Commendatore… c’è un modo, unosolo, per uscirne, con vantaggio per ciascuno. Que-sto milione che balla lo puntiamo su Cornish Cris,il vincente sicuro (secondo le mie informazioni) delpremio Arona… non ci si può sbagliare… lo montaquel diavolo di Canzi e sui 1800 metri nessuno lobatterà. Lo pagano tre a uno e ci si divide la vinci-ta. Non mi fermo! Aggiungiamo Brio di Valle piaz-zato al premio Pero e un bel tris al Trebbia conTirnovo, Quattrino e Alkan». Ci guardammo tuttiesterrefatti, compreso il padrone, che ebbe una pau-sa di esitazione e tradiva vago interesse. Si riprese:«Ma quali giocate e giocate… con gente come voinon giocherei neppure a briscola… 14.500.000 echiuso… se volete, puntate per conto vostro…».Non gli riuscì di non commentare: «Alkan oltretuttoè un brocco…».

Il resto è scontato. Si telefonarono gli avvocatie andammo “spontaneamente” (si dice così nellalingua del Palazzo di giustizia) davanti al Pretorecui era stata assegnata la causa sul trasferimento.L’accordo fu sottoscritto, nero su bianco. Era lu-

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nedì. All’uscita ci sedemmo in un bar vicino alTribunale per festeggiare, con spumante e tartine.Sul più bello Rocco si alzò, con gli occhi sul gior-nale del tavolino a fianco, attaccando a sacramen-tare mentre le mani volgevano al cielo: «Il tris erabuono… Tirnovo, Quattrino, Alkan… abbiamoperso una fortuna… meno male che ho puntato suCornish Cris un cinquantamila. Ma vi rendete con-to? … Alkan un brocco! Mai dar retta ai padroni,neppure sui cavalli… ho perso una fortuna… hoperso una fortuna».

Era bello starcene lì, come signori. Ci rimanevaancora una faccenda da sbrigare: la rituale distribu-zione delle fotocopie dei circolari agli altri dipen-denti della Splendor.

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BLITZEN E OPERAZIONE SALVE

Si era sparsa la voce dei successi raggiunti con inuovi metodi di guerra e tutto il caseggiato di Lopede Vega ne parlava; persino Ignazio, il barista, erarimasto colpito dalle cifre che l’ottimismo proleta-rio aveva ulteriormente gonfiato durante il tragittodelle informazioni da bocca a bocca. La prima con-seguenza fu un drastico calo dell’assenteismo e inpercentuale nessun governo al mondo può vantarsidi averne strappato uno simile; tutti volevano in-fatti tentare la sorte con il nuovo sistema, anche sei risultati erano alterni e non sempre ci furono.

Un personaggio, in particolare, si impose all’at-tenzione come eroe negativo, oggetto di punzec-chiature e ironie: il povero Mimmo Capobianco.Sempre vestito da spaventapasseri, con i pantaloni“a zompafuossi”, tartagliava tentando di trasformarein italiano il suo dialetto di immigrato e non si ver-gognava mai di dichiarare il suo essere analfabeta.Sgobbava, timido al punto di non riuscire a prote-stare con nessuno; poi d’improvviso s’inalberava echiedeva venti milioni quale compenso della suacacciata dall’azienda. E quelli a spiegare che nonc’era motivo, che erano contenti di lui!

Lo stesso Giuseppe Salemi aveva rinunziato: nonera il suo genere ed era troppo per lui lavorare duemesi di fila. Non ne aveva la pazienza e non gli in-teressava averla.

Nelle discussioni al collocamento fu poi studiatauna tecnica nuova, di grande rapidità e discreta resa,su misura per le imprese individuali. Non sempre erainfatti possibile costituire gli eserciti e ormai ci cura-

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vano questurini sempre all’erta per cogliere un passofalso. Nei giornali si parlava parecchio del “blitz” eMichele (il quale aveva passato quasi vent’anni aMannheim) ci spiegò che voleva dire “lampo”; persfida si usò quel termine perché non ci pareva giu-sto essere meno veloci noi nel rubare di un poli-ziotto a mettere le manette!

Il gioco si basava, alla fine, sulla fesseria degliuffici personale e dei loro impiegati, carognette bravea strillare con i più deboli, ma ignoranti come so-mari. Cercavamo l’inghippo nella legge e ve lo spie-gherò con un semplice esempio. Il codice prevedeche il patto di prova ha un valore solo se viene sot-toscritto prima di prendere servizio, altrimenti nonesiste proprio, è merda. Bisognava evitare con de-strezza la firma lanciandosi al lavoro senza accetta-re domande e senza farne, con naturalezza; questoatteggiamento piace peraltro ai padroni, e lo favori-scono senza rendersene conto.

Quante risate… ricordo di essere fuggito, a gam-be levate, lasciando tutti di stucco, da un albergo dilusso, dopo sole cinque ore, mentre mi facevanostrada verso l’ufficio del direttore. Ero tornato lamattina successiva farfugliando scuse patetiche, madopo centodieci minuti ero fuggito di nuovo: spediiuna raccomandata con il certificato medico che migarantiva sette giorni di assenza. Quegli zoticonireagirono con un licenziamento che mi fruttò tremilioni e mezzo! Né posso dimenticare di quandocapitai in una mensa come aiuto cuoco e per dueturni non si vide ombra di contratto: una manna delcielo. Mi divertii a zuccherare il lesso per settantatrépersone. Insistevo serafico di aver ragione, che ame piaceva in quella maniera, che era la miglior ri-

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cetta del mondo… così buona che mi ripugnavacambiarla… fu un’espulsione militare, non un licen-ziamento! E mi rese quattro milioni.

C’erano diversi artisti del blitz e per lo più ama-vano la propria recita; erano dei caratteristi, per usareun linguaggio cinematografico. Giuseppe Salemiusava nascondersi nei luoghi più impensati di unmagazzino e sbucare fuori inatteso ad aiutare qual-che operaio poco diligente (che riconosceva con fiu-to degno del bracco); prendeva nome e cognome,lo scriveva sulla sua unta agendina e si procuravaanche il testimone per la causa. La sua faccia dimanovale sempliciotto fugava i sospetti circa la suainteressata malafede; sfruttava l’esperienza di sta-gionale imboscato e facile alla malattia.

Rocco ne aveva eseguito, insieme a Cosimo, unoassai pericoloso, di irresistibile comicità, una verabeffa ai limiti dell’arresto. Con il nulla osta del collo-camento si era portato presso la sede centrale di unagrande catena di supermercati e là aveva firmato uncontratto perfetto, elaborato dall’ufficio legale: si trat-tava di scaricare casse e viveri in un punto di vendi-ta periferico, senza apparente possibilità di trucchi.Il nostro giocatore non si era perso d’animo e subitoaveva provveduto a scrivere: «Spett.le ***, ho cam-biato idea e rinunzio al posto con la speranza di po-ter trovare di meglio. Vi ritorno la lettera d’assun-zione con i più distinti saluti e vi prego di recapitar-mi a casa, con cortese sollecitudine, il mio libretto».La posta pubblica – è noto – ci mette tre giorni al-meno, se si tratta di raccomandata ordinaria. Nelfrattempo Cosimo andò (con il nome di Rocco) dalcapo filiale: lo aspettavano, ogni formalità era stataassolta, non c’era ragione per non utilizzarlo subito.

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La coscienza dei padroni non è mai completamentepulita; e se anche lo fosse, non impedisce loro dievadere le tasse con il lavoro nero. Nello scantinatosgobbavano infatti tre facchini irregolari grazie allamediazione del solito parente di un alto funzionario.Né si usa chiedere la carta d’identità agli operai diultimo livello. Il market era convinto allora di averealle dipendenze Rocco e invece si ritrovò il quartouomo non registrato nel libro matricola. Natural-mente quel filibustiere si presentò con il suo veronome ai colleghi e trovava anzi modo di farsi no-tare… Cosimo qui… Cosimo là… un manovale diqualità! Quando, dopo un po’, giunse la lettera,nessuno capì più nulla. Il direttore fu costretto adandare al deposito merci per chiarire la faccenda ecercare l’operaio con i dati anagrafici di Rocco, su-scitando perplessità fra le maestranze che non ave-vano mai udito quel nome.

Con l’intervento del capo filiale la sua attenzio-ne si concentrò su Cosimo, che freddamente negò diconoscere il tale di cui parlavano e di aver ricevutosolo l’ordine di lavorare senza far domande.Esterrefatto e incredulo, il direttore intimò un sec-co: «Se ne vada». «Caro signore, – rispose il comme-diante, – io resto dove sono e Lei non faccia l’india-no. Se vuole mi licenzi… mi rilasci qualche cosa discritto… oppure chiami la polizia e ci facciamo duerisate sugli estranei che scaricano casse». La minac-cia ebbe effetto: il nemico fu colto da pallore poichécapiva di non poter giustificare l’organico irregola-re. L’ira e l’agitazione sono cattive consigliere e iltirapiedi del padrone aggiunse danno a danno, rila-sciando, al nominativo reale di Cosimo, questo scrittoavventato: «Non intendiamo più avvalerci delle sue

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prestazioni, non avendo noi mai provveduto ad as-sumerla ecc. ecc.». Una catena di supermercati nonpuò esser creduta se grida “al lupo” e le due canagliericavarono una bella sommetta.

Con il blitz il rischio era di solito minimo; avevainoltre il vantaggio di far perdere poco tempo e avolte mi divertivo davvero. In uno dei migliori hotelsdi Milano mi ero perfino dedicato alla lettura del“Manifesto”, con i piedi sul tavolino e il culo sullapoltrona, nella sala di rappresentanza e pochi attimiprima della visita di un ministro. Avevo accanto unpiccolo cartello, con scritto in rudimentale stampa-tello: «Si prega di non disturbare. Salvatore Messanasta riposando e non riceve per trenta minuti». Si pre-cipitarono in cinque a cacciarmi via e mi allontana-rono in malo modo aiutati da funzionari dei servizidi scorta, mentre io li ringraziavo e loro mi conside-ravano matto senza capire di esser stati fregati.

Il blitz non concede però le stesse soddisfazioniche si possono ricavare da un’operazione ben ar-chitettata; non mette in crisi l’intera struttura diun’impresa come si riesce a fare con l’attaccodispiegato. E così, spinto dalla nostalgia dei prece-denti successi o, forse, da semplice spirito d’avven-tura, non rifiutai l’occasione che il caso mi presentòdavanti il giorno in cui il ristorante «Salve» aprì ibattenti in città su iniziativa di un vero colosso delsettore della ristorazione collettiva. Il lettore dovràancora una volta perdonare il mutamento dei nomi,ma temo di non avere altra scelta e certo non è pru-dente una confessione troppo palese.

Io, Verter e Angelo accettammo comunque, alvolo, l’assunzione come sguatteri, per sole quattroore quotidiane, ben sapendo (per aver raccolto meti-

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colose informazioni) come funzionasse lo sfrutta-mento dei lavoratori in quel posto.

Il Salve aveva speso una fortuna nella campagnapubblicitaria e nel lancio di un’immagine nuova inItalia: si trattava di un self-service, con pretese dibuon gusto ai confini del lusso, aperto dalla mattinafino a notte fonda, arredato secondo criteri america-ni di colorata moderna pulizia, caratterizzato dall’of-ferta di servizio rapido e di cibi (a parole) ben curati.Tanta modernità conviveva insieme ad antiquata ge-stione del personale: chi si comportava “bene”, ov-vero sgobbava in silenzio con la testa china, potevalavorare otto ore e ottenere lo stipendio pieno; chi sicomportava male, si ammalava o pretendeva il ri-spetto dei diritti, non superava mai il limite del tem-po parziale d’impiego e finiva con l’andarsene perimpossibilità di sopravvivenza fisica conseguente alsalario ridotto. Una truffa bella e buona!

Durante il periodo di prova ci comportammo contutta l’umiltà dei servi felici della propria condizio-ne, correndo dove ci comandavano e giungendo, unadomenica, a ben sedici ore consecutive: altro che part-time… era peggio di una trireme romana. Sopporta-vamo in silenzio e in silenzio tramavamo per la ri-vincita: un vero teatro stavamo approntando grazieall’insperato soccorso di uno strano personaggio cheaveva fatto del casino la sua filosofia di vita e che cidiede utili consigli oltre al testo di un volantino.

L’ora X era il sabato sera. Il momento, cioè, dellamassima affluenza, quando il caos è tale che nessu-no può capire nulla, in caso di intoppo dell’ingra-naggio. Avevamo invitato a una cena gratuita, perle 20 e 30, tutti i briganti di Lope de Vega, con amicie parenti calati, per la recita, dalla Barona, dal

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Gratosoglio e dalle case nuove di Rozzano. Si eranoaggregati anche una decina di vecchi estremisti no-stalgici, mediante reclutamento nel giro delle occu-pazioni di case e, fra questi, un giornalista francesecon la macchina da ripresa per le cassette televisive.Complessivamente una quarantina di persone, con-fuse fra i normali clienti, pronte ad aggregarsi. Io miero portato il megafono dentro la borsa: era una spe-cie di tromba della carica che i miei commilitoni at-tendevano per aprire le ostilità; era il segnale dellabattaglia.

Solo apparentemente in numero ridotto, rappre-sentavamo in realtà una quota percentualmente ri-levante degli addetti alla sala pasti; dovevamo certocontare sull’effetto moltiplicatore sempre possibilein ogni anche minuscolo sommovimento, ma il dis-servizio era assicurato. Non appena la sveglia inse-rita nell’orologio da polso emise il suo stupido suonoelettronico, agguantai l’amplificatore nello spoglia-toio e, subito ricomparso, gridai il testo dell’irrive-rente volantino, che di seguito ricopio:

SALVE, quelli che ti parlano sono dipendenti di

questa mensa; ciò di cui ti stiamo per parlare sono i

tuoi interessi e i nostri.

Ti sei mai chiesto che cosa ci costringono a darti

da mangiare? Guarda bene nel tuo piatto e se non ti

basta chiedi di visitare la cucina. L’azienda infanghi

pure il proprio nome, ma non il nostro: bastano po-

chi giorni per vedere cose che il tacere è bello quan-

to è orrendo l’annusare.

Ci hanno assunto per quattro ore e ne facciamo

dodici e a volte sedici con la solita promessa che

avremo un orario normale solo se faremo i “bravi”.

L’azienda ricerca la nostra complicità contro di voi.

Noi non siamo bravi: SCIOPERO!

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Verter e Angelo, senza dir nulla, appesero al muro,con chiodi e martello, un gigantesco striscionegiallorosso; recava la scritta «SCIOPERO!». Intantocinquecento copie del volantino finivano nelle manidegli incuriositi avventori e dei camerieri troppospaventati da una lotta così inusitata per avere ilcoraggio dell’adesione.

Fu il finimondo. I finti clienti non esitarono a darciragione e a proclamare, vociando, ampia solidarietà;ognuno creava anzi piccoli capannelli e contribuivaad aumentare la confusione, tanto che in molti pre-tesero di vedere effettivamente cucine e frigoriferinonostante ricevessero recisi rifiuti da parte del po-vero direttore di sala. L’indiscriminata e clandestinasurgelazione dei cibi suscitava malcontento anchenelle persone più pacifiche e in breve non si capì piùnulla: incuranti degli inutili saltelli dei cassieri, i piùturbolenti avevano cominciato a bere vino, birra, li-quori in gran quantità e gratis. Il giornalista francesesi aggirava tra i tavoli cineriprendendo la sceneg-giata nei minimi particolari, raccogliendo intervistee commenti; perfino un turista austriaco sentì il biso-gno di intervenire, con voce impastata dall’alcool,in difesa della nostra iniziativa. Fu proprio quest’ul-timo a scatenare una lite con il capo sala che rifiu-tava la restituzione della somma pagata. «Io pagatocarne fresca… voi dato surgelazione… essere truf-fa… io volere mio ambasciatore», strillava il man-giacrauti dentro il microfono; poi cacciò in malomodo il funzionario del Salve con un inequivocabile:«Tu avvelenatore, tu in galera!».

Noi si rideva a crepapelle quando arrivò la poli-zia e fu accolta dall’austriaco ubriaco che ordinaval’arresto dei padroni del ristorante. Il maresciallo, non

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riuscendo a venire a capo della vicenda, utilizzò ilsempre efficace ordine di «sgomberare senza discu-tere», non dimenticando neppure di aggiungere «al-trimenti vi schiaffo dentro». Con molta pazienza imiliti svuotarono l’intera sala (e causarono la perdi-ta dell’incasso) dei cittadini onesti e dei briganti: allachetichella guadagnò l’uscita anche la macchina dapresa con i sessanta minuti di nastro!

L’improvvisa ribellione suscitò grande interessedegli organi di stampa e l’indomani i giornali ripor-tavano titoli di tre o quattro colonne, narrando delcurioso comitato dei cattivi operai e delle vivandecontestate. Il Salve non poteva né tacere, né affron-tare il merito della polemica, poiché il profitto sibasava proprio sulla fornitura di merda su piatti ele-ganti. Colpito in contropiede ci sospese subito dalservizio, si assicurò l’appoggio dei sindacalisti sem-pre pronti a sputtanare “l’anarchia”, fece un generi-co comunicato a garanzia della buona cucina: nonpoteva più sopportare la nostra presenza, ma nep-pure darci del danaro senza perdere la faccia. Noi,già la mattina successiva, sostammo davanti all’in-gresso, senza entrare, con un banchetto e il megafo-no, rompendo le balle con un po’ di propaganda ne-gativa. Avevamo anche un avviso con il pennarello:«Attenzione! I cibi sono radioattivi». Riapparve lavolante e ci fece sloggiare con mala grazia; mentrestavamo andando via ci raggiunse, trafelato, il diret-tore con le lettere di licenziamento appena sfornate,calde calde, piene di fandonie che dovevano giusti-ficare la nostra espulsione ma evitare anche una spia-cevole indagine sulle nostre affermazioni. Ci trova-vamo finalmente in guerra giudiziaria, con prospet-tive di vittoria anche perché il troppo frettoloso

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nemico aveva commesso un errore: non aveva ri-spettato la legge che impone di lasciarci cinque gior-ni per le difese e ora rischiava di vedere annullatotutto.

Come finirà non lo so, ed è probabile che ci dianotorto non potendo lo Stato tollerare il premio finalea dei piantagrane come noi: quel povero Pretore cheaveva accolto le nostre argomentazioni dopo l’ap-pello del Salve, finirà ad amministrare la giustizia inqualche luogo senza importanza, o si troverà almenoin dissidio con i suoi superiori. Comunque vada, saràperò uno scorno per quei fetenti che hanno subìtodanni incalcolabili e che si sono bruciati l’immagineper la quale avevano speso una fortuna. Il potereeconomico è obbligato a uno scontro con personaggidisposti solo a prendere in giro, è costretto a violarecon prepotenza la legge per punirci, a rinnegarel’equilibrio della bilancia: davanti al Pretore l’imba-razzo si tagliava con il coltello e quando il Salvecapì di aver perso il primo atto, non ci furono sorrisidi circostanza ma rabbiose minacce.

I padroni si mettono in tasca la giustizia, se lodesiderano. Lo so benissimo e ci rido sopra. Con-sentitemi dunque di essere felice nel prevedere laconferma del nostro licenziamento a opera dei giu-dici d’appello, quando questo libro sarà già termi-nato; felice di aver concretamente dimostrato la re-latività e la vanità del diritto. Senza aver subìto al-tro danno che quello di un mancato guadagno e conla certezza di potermi rifare.

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CONCLUSIONE

Termina la storia senza un vero finale e ognu-no ne ricerchi la ragione come meglio gli aggrada.Io posso solo dirvi questo: quando mi si offre di ti-rare ai potenti la prima pietra, non ho alcun ritegnoad accettare l’invito. Mirando, magari, alla testa.

Ma è tempo di smettere, per evitare ulteriori in-dagini sulla vera identità del vostro allegro amico.

SALVATORE MESSANA

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INDICE

INTRODUZIONE 5

PREMESSA BREVE 7

PARTE PRIMA 9

- CAPITOLO I 11

- CAPITOLO II 17

- CAPITOLO III 26

- CAPITOLO IV 32

- CAPITOLO V 42

- CAPITOLO VI 49

PARTE SECONDA 55

- ABITARE A MILANO 57

- A CACCIA DI SOLDI 78

- RITORNO IN FABBRICA 97

- OPERAZIONE SUPERPULIZIA 106

- OPERAZIONE SPLENDOR S.P.A. 120

- BLITZEN E OPERAZIONE SALVE 131

- CONCLUSIONE 141

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Centro di documentazione «PORFIDO»

via Tarino 12/c, 10124 Torino

[email protected]

«EL PASO OCCUPATO»

via Passo Buole 47, 10127 Torino

[email protected] - www.elpaso.ecn.org

Finito di stampare nel mese di aprile 2010

Tipografia «Nonchalance» - 3, rue Saint Pétrin, Paris