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39 Il ruolo dell’Islàm nello sviluppo delle scienze Luca Nicotra Sunto: All'Islàm si deve la conservazione dell'antica scienza e filosofia greca - attraverso traduzioni in arabo dal greco, dal siriaco e dal persiano - e successivamente la sua trasmissione all'Occidente tramite le traduzioni dall'arabo in latino dei grandi tra- duttori dei secoli XII e XIII. Ma il ruolo degli arabi non fu soltanto quello di traduttori, perché dopo un periodo iniziale di assimilazione della scienza greca e indiana essi stessi dettero apporti originali, in particolare alla matematica, all'astronomia e alla medicina. A loro si deve sostanzialmente la creazione della trigonometria, dell'algebra e della mo- derna medicina. È pure da ricordare il loro impegno nella fisica, dove applicarono un approccio empirico alla conoscenza che preludeva al moderno metodo sperimentale. Parole Chiave: Islàm, trigonometria, algebra, medicina, mosaici girih. Abstract: We owe it to Islàm the preservation of ancient Greek science and philosophy - through Arabic translations from Greek, Syriac and Persian versions - and then its transmission to the West through translations from Arabic into Latin by the great translators of the XII and XIII centuries. But the Arabs were not only translators, be- cause after an initial period of assimilation of Greek and Indian science themselves gave original contributions to science and, in particular, to mathematics, astronomy and medicine. They are mainly the creation of trigonometry, algebra and modern medicine. It is well to remember their commitment to physics, where they applied an empirical ap- proach to knowledge that was a prelude to the modern experimental method. Keyword: Islam , trigonometry , algebra , medicine, mosaics girih. Citazione: Nicotra L., Il ruolo dell’Islàm nello sviluppo delle scienze, «ArteScienza», Anno II, N. 4, pp. 39-124. Direttore responsabile di «ArteScienza», ingegnere, giornalista e Presidente dell'Asso- ciazione culturale "Arte e Scienza"; [email protected]. ArteScienza N. 4 dicembre 2015

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Il ruolo dell’Islàm nello sviluppo delle scienze

Luca Nicotra∗

Sunto: All'Islàm si deve la conservazione dell'antica scienza e filosofia greca -attraverso traduzioni in arabo dal greco, dal siriaco e dal persiano - e successivamente la sua trasmissione all'Occidente tramite le traduzioni dall'arabo in latino dei grandi tra-duttori dei secoli XII e XIII. Ma il ruolo degli arabi non fu soltanto quello di traduttori, perché dopo un periodo iniziale di assimilazione della scienza greca e indiana essi stessi dettero apporti originali, in particolare alla matematica, all'astronomia e alla medicina. A loro si deve sostanzialmente la creazione della trigonometria, dell'algebra e della mo-derna medicina. È pure da ricordare il loro impegno nella fisica, dove applicarono un approccio empirico alla conoscenza che preludeva al moderno metodo sperimentale. Parole Chiave: Islàm, trigonometria, algebra, medicina, mosaici girih. Abstract: We owe it to Islàm the preservation of ancient Greek science and philosophy - through Arabic translations from Greek, Syriac and Persian versions - and then its transmission to the West through translations from Arabic into Latin by the great translators of the XII and XIII centuries. But the Arabs were not only translators, be-cause after an initial period of assimilation of Greek and Indian science themselves gave original contributions to science and, in particular, to mathematics, astronomy and medicine. They are mainly the creation of trigonometry, algebra and modern medicine. It is well to remember their commitment to physics, where they applied an empirical ap-proach to knowledge that was a prelude to the modern experimental method. Keyword: Islam , trigonometry , algebra , medicine, mosaics girih. Citazione: Nicotra L., Il ruolo dell’Islàm nello sviluppo delle scienze, «ArteScienza», Anno II, N. 4, pp. 39-124.

∗ Direttore responsabile di «ArteScienza», ingegnere, giornalista e Presidente dell'Asso-ciazione culturale "Arte e Scienza"; [email protected].

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1. Il debito culturale dell'Occidente verso l'Islàm Accennare ad alcuni aspetti della nostra cultura occidentale

che sono eredità della civiltà islamica, dei secoli VIII-XIII, è parti-colarmente doveroso in questo periodo, in cui è molto facile cede-

re alla tentazione di una caccia indiscriminata alle streghe, emotivamente comprensibile alla luce dei fatti di sangue con-sumati da chi agisce in nome di un Islàm non ri-conoscibile con il suo glorioso passato, ma in-giustificabile per chi sa che la cultura non ha confini né spaziali né temporali.

Le conquiste islami-che che portarono all'im-pero arabo, all'inizio del IX secolo, comprendeva-no tutti i territori dell'A-frica settentrionale, la Spagna, la Sicilia e l'Asia sud occidentale fino alla regione del Sind conqui-stata all'India, ingloban-do popolazioni di diver-se etnie: siciliani, spagno-li, magrebini, egiziani, arabi, siriani, persiani, ebrei, greci, turchi. Fra di esse è sempre stato pre-sente un forte spirito set-

Fig. 1 - Particolare della 3a pagina del mano-scritto del Corano della Biblioteca di Berli-no, Ms. orient. fol. 36. (Da Gustavo Carpeles, Storia universale della letteratura, vol. 1, Mi-lano, Società Editrice Libraia, 1903, di pro-prietà dell'Autore).

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tario, che ha portato fin dall'inizio a lotte interne e poi, alla fine dell'XI secolo, alla frammentazione dell'impero in numerosi stati.1 Gli elementi di unificazione erano soprattutto economici e religio-si. La religione islamica era l'elemento più unificatore ma, soprat-tutto sotto il primo califfato degli Omayyadi, che regnò fino al 750, erano tollerate anche le religioni cristiana ed ebraica. Inoltre la lin-gua araba, pur essendo la più diffusa, non era l'unica, essendo par-lati anche il greco e l'ebraico dai popoli assoggettati, ma divenne un forte elemento di unificazione, poiché il Corano poteva essere letto soltanto in arabo, essendone proibita la traduzione in altre lingue. Gli arabi, però, non imponevano ai popoli assoggettati la conversione all'islàmismo ma soltanto il versamento di tributi.

Per tutti questi motivi sarebbe più corretto parlare di cultura islamica piuttosto che araba. Tuttavia, nel seguito, ci atterremo all'uso comune di usare indifferentemente i due termini e con il termine "arabi" ci riferiremo a tutte le suddette popolazioni di cul-tura islamica che scrivevano e parlavano in arabo, di cui gli arabi propriamente detti furono soltanto quella parte originaria della penisola arabica.

Per dare un'idea di quanto Islàm sia presente nel patrimonio culturale dell'Occidente, ricordiamo qui, brevemente, alcuni prin-cipali risultati della civiltà islamica connessi allo sviluppo delle scienze, che sono stati poi acquisiti e sviluppati in Europa. Ci sof-fermeremo invece in maniera più dettagliata su alcuni contributi, particolarmente significativi, nel campo delle matematiche, dell'a-stronomia, della fisica, della medicina e su alcuni recenti studi sull'applicazione di concetti matematici moderni all'arte decorati-va islamica dei secoli XIII-XV.

1 Gli eccessi di questo settarismo politico-religioso, che si manifestarono anche in manie-ra violenta, furono probabilmente la causa del declino della civiltà islamica. È curioso come l'origine della parola italiana assassino sia proprio legata a questo fenomeno. Essa, infatti, deriva dal nome di un'antica tribù della zona tra Damasco e Antiochia, hascia-scin, i cui membri erano dediti a crimini efferati. Il nome della tribù era dovuto all'usan-za dei suoi adepti di drogarsi, prima di compiere i loro delitti, con una bevanda estratta dalla canapa indiana, detta in arabo hascisc = erba secca, da cui hasciascin italianizzato suc-cessivamente in assassino.

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Occorre evitare due estreme posizioni che qualche volta si prendono nei riguardi del contributo islamico alla cultura: da una parte il suo confinamento al ruolo di semplice custode e trasmetti-tore al mondo occidentale dell'antica scienza e filosofia apprese dai popoli confinanti, soprattutto greci e indiani; dall'altra l'attri-buzione tout court all'Islàm di primati storicamente dimostrati falsi o quanto meno discutibili, come, per esempio, la creazione dell'al-gebra e della trigonometria e, in altro campo, l'invenzione della bussola.

Alcuni aspetti peculiari della cultura i-slamica devono, invece, essere riconosciuti: il grande interesse per la scienza e la filoso-fia greca; un marcato spirito pratico che gli arabi mostrarono in tutte le scienze e che ha anticipato quello che sarà poi il metodo spe-rimentale propriamente detto; le tendenze mistico-allegoriche che indirizzarono for-temente la loro attenzione verso l'astrologia e l'alchimia; la straordinaria assenza di qua-lunque forma di sciovinismo degli arabi di quel tempo, che consentì una grande capa-cità di assimilazione delle culture dei popoli

assoggettati al loro dominio e di quelli con-finanti - come l'India - di cui è sicura testi-monianza la mole di opere antiche, greche e anche indiane, tradotte e spesso arricchite di commentari.

Generalmente, con qualche esagerazio-ne, sono riconosciute agli arabi più spiccate doti di trattatisti e di commentatori che di autori di opere originali. È da tutti ricono-sciuto che proprio il loro lavoro di traduzio-ne delle antiche opere dei filosofi e scienziati

Fig. 2 - Hasan Ibn al-Haitham (965-1040), più noto con il nome la-tino Alhazen.

Fig. 3 - Al Biruni (973-1048).

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greci ha permesso di conservare2 e poi tramandare gran parte del sapere dell'antichità classica nel mondo occidentale cristiano, in particolare attraverso le appendici europee del dominio islamico: la Spagna, conquistata nel 711-712, e la Sicilia, conquistata nell'827.3

L'eclettismo è un altro elemento che caratterizza la cultura i-slamica ed è legato a una concezione unitaria della cultura. Secon-do quanto afferma Seyyed Hossein Nasr, lo studioso islamico «ha sempre inculcato l'unità delle scienze nella mente degli studenti già grazie al semplice fatto di insegnare tutte le scienze e tante di-

verse applicazioni dei medesimi principi fondamentali».4

Lo spirito unitario della cultura era for-temente diffuso fra i dotti islamici e molti grandi scienziati furono in pari tempo ma-tematici, fisici, astronomi, filosofi, medici, poeti e anche teologi. A tal proposito basti ricordare la triade dei grandi scienziati per-siani vissuti nell'età d'oro della cultura isla-mica, tra l'ultimo quarto del X secolo e la prima metà del secolo XI: Alhazen, nato a Bassora in Iraq, al-Biruni, nato a Khwarizm, e Avicenna, nato a Balkh (secondo altri ad Afshanah vicino Bukhara) nell'attuale Af-

ghanistan. Un altro nome autorevole, del secolo XII, è Omar Khayyam, che in Occidente è noto come uno dei più grandi poeti persiani essendo stato, invece, anche uno dei più grandi matema-tici islamici.

2 Molte opere greche antiche sono andate perdute nelle loro versioni originali ma ci sono rimaste le loro traduzioni arabe. 3 Per comprendere l'importanza del lavoro di conservazione e trasmissione all'Occidente cristiano dell'antico sapere greco basti ricordare l'opera di Averroè, i cui commentari (divisi in grandi, medi, piccoli) alle opere di Aristotele, tradotti in latino, hanno contri-buito enormemente al recupero del pensiero aristotelico in Europa, dove, prima del 1150, solo pochissime opere aristoteliche erano accessibili. 4 Seyyed Hossein Nasr, Scienza e civiltà nell'Islàm, Milano, Feltrinelli, 1937, p.35.

Fig. 4 - Ibn Sinā (980-1037), più noto con il nome latino Avicenna.

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Dopo il primo secolo del loro dominio, ovvero dopo il 750 cir-ca, gli arabi hanno dimostrato una grande curiosità nei confronti della cultura dei popoli vicini e di quelli assoggettati, nonché una straordinaria capacità di assimilarne rapidamente idee e risultati. In questo, più che nelle loro rapide conquiste territoriali, consiste il cosiddetto «miracolo arabo» di cui parlava il grande storico della matematica Gino Loria.5

In una prima fase, dalla metà dell'VIII secolo al IX secolo, essi certamente vestirono più semplicemente le vesti di traduttori delle antiche opere greche. Soltanto dopo il IX secolo si può parlare di una scienza araba originale che ebbe il suo culmine nel XII secolo, continuando però a dare contributi fino al XV secolo.6 Ma una vol-ta assimilata la scienza antica indiana, greca e mesopotamica, gli arabi furono capaci di arricchirla con contributi originali, come dimostra il fatto che «almeno nel caso della matematica, la tradi-zione tramandata al mondo latino nel XII e XIII secolo era più ric-ca di quella con la quale erano venuti in contatto nel VII secolo gli incolti conquistatori arabi».7 E anche nei casi in cui, come in astro-nomia, aggiunsero risultati errati, la loro opera non fu inutile o dannosa, perché sollecitò lo spirito critico degli scienziati europei del tardo Medioevo e del Rinascimento, aprendo le vie alle verità della scienza moderna.8

Anche nella letteratura l'Occidente trasse elementi nuovi dagli arabi. Questi dividono la loro storia in due grandi periodi, divisi dall'avvento di Maometto e dell'islamismo nel VII secolo: il perio-do preislamitico è considerato il periodo dell'ignoranza, mentre il periodo postislamitico è qualificato come il periodo della scienza. La vita degli arabi prima di Maometto era troppo nomade e sel-vaggia per poter fiorire una vera e propria letteratura che, invece, 5 Gino Loria, Storia delle matematiche, Milano, Hoepli, 1929, vol. I, cap. XI Il miracolo arabo, pp. 139-156. 6 Cfr. Pierre Brunet, Le scienze nell'Antichità e nel Medioevo, pp. 105-106, in Storia della Scienza, vol. I, a cura di Maurice Daumas, Bari, Laterza, 1976. 7 Carl B. Boyer, Storia della matematica, Milano, Mondadori-Oscar saggi, 1990, p. 286. 8 Sulla scienza islamica e la sua influenza sul pensiero scientifico mondiale cfr. A. Mieli, La science arabe et son rôle dans l'èvolution scientifique mondiale, Leyde, 1938.

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si sviluppò successivamente, dal VII secolo in avanti, nelle corti dei califfi. Ma la poesia, intesa come espressione più spontanea e libera da vincolanti regole, potette sgorgare già prima, dall'innato spirito poetico degli arabi delle tribù nomadi. Si organizzavano gare di poesia alla Mecca e a Okadh, le poesie migliori venivano premiate ed era un vanto per le tribù avere il miglior poeta. Tale era la considerazione delle poesie vincenti da essere chiamate Mo-allakât, che significa "poesie uguali in valore a un gioiello". In tali poesie dei beduini è possibile ravvisare i primi germi della poesia cavalleresca del medioevo occidentale:

Essa si limitò a cantare la vita del deserto e le vicende della vi-

ta nomade e pastorale, l'indole selvaggia del Beduino, la bellezza del paesaggio, l'orgoglio della propria origine, la tristezza della so-litudine, le scorrerie nel deserto, l'amore della libertà, la sete irre-quieta delle avventure, le lodi del coraggio e dell'ospitalità, il di-leggio della vigliaccheria e della pigrizia e finalmente l'amore nelle sue più vive manifestazioni. Tutti questi elementi riscontransi nell'antica poesia araba del deserto, nella quale abbondano tratti straordinari di valore, scene cavalleresche ed esempi sublimi di amicizia.9

Il poeta più celebre delle Moallakât è Amrulkais che così dipin-

ge con le parole, come fossero un pennello, l'eroina di una delle sue avventure amorose, anticipando tratti dell'amor cortese, che poi ebbe tanta fortuna nella letteratura provenzale del XII secolo:

Ella è bianca, delicata, gentile, affascinante in ogni sua parte; il

suo petto è uno specchio, un liscio metallo. In lei, come nella perla, il bianco si mesce col fulvo; l'acqua, che la rinfresca non fu tocca da verun piede. Ella si curvò e lasciò vedere due guance e due occhi, simili a quelli di una cerva, che ha vicino il suo nato, e un collo di capriuola, cui non manca nessuna bellezza. Quando lo solleva cin-to di aureo monile, i bruni capelli, che pendono intorno ad esso, sembrano grappoli di datteri intorno al tronco di una palma. Essi scherzano indocili nell'aria, perché qui un riccio svolazza, là scap-

9 Gustavo Karpeles, Storia universale della letteratura, Milano, Società Editrice Libraria, 1903, pp. 122, 123.

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pa una treccia. Sul mattino l'orlo del suo giaciglio odora di mu-schio; più tardi ella si alza e si accinge ai lavori domestici. Nel buio della notte ella risplende, come se fosse la lampada notturna del monaco del deserto. I più saggi la vagheggiano vestita in modo che sembra donna e donzella ad un tempo. Ma essi sono liberi dalle pene d'amore, mentre il mio cuore ne è schiavo.10

Un'altra invenzione di cui la letteratura occidentale è debitrice

verso gli arabi è la "narrazione dentro la narrazione", di cui Gio-vanni Boccaccio con il suo Decameron è stato il primo esempio, se-guito da William Shakespeare e da Luigi Pirandello nella forma del "teatro dentro il teatro". L'archetipo di questo espediente nar-rativo è la raccolta di novelle orientali - molto probabilmente di o-rigine persiana e indiana - intitolata Alif laila wa laila, letteralmente traducibile in Mille e una notti e non, come generalmente si legge, "Mille e una notte". Infatti in arabo "mille e una" sta per "molte", per cui la traduzione corretta del titolo sarebbe "Molte notti". Il filo conduttore di tali novelle è noto: il re Shâhzamân (identificabile nel califfo Hârûn al-Rashid), per vendicarsi del tradimento di una delle sue mogli, uccide tutte le successive spose dopo la prima not-te di nozze. La figlia del Gran Visir, Shahrazād, escogita un astuto piano per porre fine all'odio misogino del suo sovrano: si offre in sposa, ma per evitare di essere anche lei uccisa gli racconta ogni sera una storia, rimandando il finale al giorno successivo. Infine, dopo "molte notti" (non mille e una!), il sovrano finisce con l'in-namorarsi di Shahrazād, rendendole quindi salva la vita. Questa raccolta di novelle nacque probabilmente già prima del XII seco-lo11 per opera di un solo autore12 che elaborò in maniera originale racconti magici più antichi, di origine persiana e indiana, traman-dati oralmente negli intrattenimenti serali, come era abitudine de- 10 Gustavo Karpeles, Op. cit., p. 125. 11 Mille e una notte è citata come raccolta di novelle molto popolare dallo storico Al-Qurti, che visse sotto il califfato fatimide di al-'Adid (1160-1171). Cfr. Le mille e una notte (trad. di Gioia Angiolillo Zannino e Basilio Luoni), Milano, Fabbri editori, 2001, Vol. I, p. 45 (e-dizione critica condotta dall'orientalista Renè R. Khawam sul manoscritto originario 3609-10-1, conservato nella Bibliothèque Nationale, fondo arabo,). 12 Questa la tesi di Renè R. Khawam (cfr. Le mille e una notte, Op. cit., p. 44).

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gli arabi. In Occidente, successivamente, si sono avute raccolte del-lo stesso genere, per esempio le Fiabe del focolare dei fratelli Grimm nel 1812.

2. Nascita ed espansione dell'Islàm Malgrado l'avvento dell'Islàm sia considerato l'evento mon-

diale più importante che ha riempito l'intero medioevo, i nostri li-bri di storia non vi dedicano un'attenzione commisurata. Nell'imponente opera La Sto-ria, edita da Mondadori nel 2007 in 16 volumi, all'Islàm vengono dedicate soltanto quattro pagine nel quarto vo-lume e due nel sesto.

Nel VI secolo la penisola Arabica, delimitata a nord dal Golfo Persico, a sud dal Mar Rosso, a est dall'Oceano Indiano e a ovest dal deserto siriaco, era abitata dagli ara-bi, divisi in tribù nomadi,

delle quali quelle dei beduini ("uomini del deserto") erano le più primitive, dedite alla razzia del commercio carovaniero. Le tribù arabe professavano forme diverse di politeismo pagano, che però avevano in comune alcune usanze ed erano controllate da una ca-sta sacerdotale che aveva nella città santa della Mecca il suo cen-tro, dove, in un edificio detto la Kaaba, si venerava la Pietra Nera, che si crede tutt'oggi portata dal cielo dall'arcangelo Gabriele. Una parte della popolazione, soprattutto costiera, abbracciava però le religioni cristiana e giudaica. Maometto, nato alla Mecca nel 570 da una famiglia di piccoli commercianti, ebbe contatti sia con il cristianesimo costiero sia con il giudaismo, subendone il fascino

Fig. 5 - La Mecca. La Kaaba con la Pietra Nera.

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mistico a tal punto da affermare di avere avuto rivelazioni so-prannaturali da Dio e di essere stato da Lui chiamato a svolgere una missione profetica, che lo condurrà a fondare una nuova reli-gione monoteistica che riconosceva lo stesso Dio del cristianesimo e del giudaismo. Tuttavia, la nuova religione si distaccava da que-ste per un'assoluta intransigenza, che si esprimeva nel completo "abbandono alla volontà di Dio", detta in arabo Islàm, espressione che sarà il nome della religione creata da Maometto. Muslim, da cui la parola "mussulmano", è il fedele che pratica l'Islàm.

Nel 630 Maometto riesce con la sua predicazione ad abbattere

il politeismo arabo, a unificare sotto la religione da lui creata tutte le tribù arabe, conquistando la Mecca. Quando nel 632 muore, tut-ta l'Arabia è convertita all'Islàm in uno stato teocratico militare di cui Maometto è il capo politico, militare e religioso. Dopo la sua morte il posto del Profeta viene assunto dai suoi successori, in a-rabo detti "califfi", che vengono eletti fra i parenti e amici di Mao-metto: Abu Bekr (632-634), Omar (634-644), Othman (644-656), Alì (656-661). Al-Moawia (661-680) della famiglia degli Omayyadi ini-

Fig. 6 - L'impero arabo dal 632 al 750 (da Le Garzantine- Vol. 10, Atlante Storico, Milano, Garzanti, 2005).

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zia l'omonimo califfato ereditario con capitale a Damasco. Gli suc-cedono Yazid I (680-683), Abd al-Malik ( 685-705), Walid I (705-715) il cui califfato raggiunse la massima espansione dei domini i-slamici: tutto l'arco mediterraneo dell'Africa settentrionale, la Spa-gna conquistata nel 711-712, l'Arabia, la Siria, i territori dell'antico impero persiano fino a Samarcanda, Buchara, Cabul e Multan, il territorio indiano del Sind conquistato nel 711-713 (figura 6).

L'impero arabo aveva tentato di espandersi ulteriormente a occidente - conquistando nel 721 parte della Francia poi persa nel-la battaglia del 732 presso Poitiers, dove le armate islamiche furo-no sconfitte da Carlo Martello - e ad oriente, assediando invano per ben due volte Costantinopoli, dal 674 al 678 e dal 717 al 718, anno in cui l'imperatore bizantino Leone l'Isaurico sconfisse defi-nitivamente gli arabi (figura 6). L'ultimo califfo degli Omayyadi, Marwan II (744-750) fu sconfitto e ucciso nel 750 da Abdul Abbas nella battaglia sul fiume Zab, dando inizio alla dinastia del califfa-to degli Abbasidi che, almeno nominalmente, regnerà fino alla fine dell'impero arabo. L'unico superstite della famiglia degli Omay-yadi, Abd ar- Rahman fuggì in Spagna, dove fondò l'Emirato degli Omayyadi di Cordova nel 756 che regnerà fino al 1031. Il secondo

Fig. 7 - L'impero arabo dall'VIII al X secolo (da Le Garzantine- Vol. 10, Atlante Storico, Milano, Garzanti, 2005).

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califfo degli Abbasidi, al-Mansur (il Vittorioso) (754-775), nel 762 spostò la capitale del califfato da Damasco a Baghdād segnando la fine del predominio arabo e l'inizio di quello persiano (figura 7).

Sotto Harun al-Rashid (il Giusto) (786-809) il califfato raggiun-se il massimo splendore ma iniziò anche il processo di disgrega-zione. Si crearono varie dinastie minori (Idrisidi, Rostamidi, A-ghlabiti) riunite sotto la dinastia dei Fatimidi (909-972) così chia-mati dal nome della figlia di Maometto, Fatima (figura 7). I Fati-midi conquistarono l'Egitto nel 969 fondando il califfato del Cairo (figura 8).

Fig. 8 - L'impero arabo intorno all'anno 1000 (da Le Garzantine- Vol. 10, Atlante Storico, Milano, Garzanti, 2005).

Fig. 9 - L'impero arabo intorno all'anno 1180 (da Le Garzantine- Vol. 10, Atlante Storico, Milano, Garzanti, 2005) .

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Nel 1000 circa, quindi, l'impero arabo risultava suddiviso in tre grandi parti: i califfati degli Abbasidi, dei Fatimidi e di Cordo-va (figura 8). Ma successivamente nacquero e morirono molti altri regni indipendenti (figura 9), fino al crollo dell'impero ad opera della invasione dei mongoli, che nel 1256 conquistarono la Persia e due anni dopo distrussero Baghdād.

3. Una nuova civiltà Le invasioni barbariche del V e VI secolo avevano infranto l'u-

nità politica e militare dell'impero romano in tutte le regioni del bacino mediterraneo, ma non l'unità culturale. I "barbari", dopo un periodo iniziale "distruttivo", si romanizzarono nei costumi, nella lingua e nella religione, pur conservando talune caratteristiche della propria cultura. Per essi accadde qualcosa di simile a quanto era accaduto ai romani dopo la conquista della Grecia.

In quei secoli, in tutto il Mediterraneo, si parlava ancora il la-tino e si professava la religione cristiana. Anche l'ordinamento so-ciale, economico e le istituzioni rimasero sostanzialmente quelli del mondo romano,13 ma si interruppero i contatti fra le parti o-rientale e occidentale del continente euroasiatico.

Nel VII secolo e principio dell'VIII, invece, le conquiste islami-che - estese all'intero arco settentrionale dell'Africa, fino al Medio Oriente e alla Spagna - ebbero l'effetto duale delle invasioni barba-riche: infransero definitivamente l'unità culturale, linguistica e re-ligiosa del bacino mediterraneo ma ristabilirono i contatti com-merciali e culturali fra Oriente e Occidente, creando una nuova ci-viltà con caratteristiche sincretiche, che fondeva elementi di cultu-re diverse. E nei secoli in cui l'Occidente cristiano conosceva la de-cadenza civile, culturale e politica, e le sue città si spopolavano, i

13 Un'analisi critica dell'integrazione fra romani e barbari dopo la caduta dell'impero ro-mano d'occidente è contenuta nelle pagine 80-104 del recente libro La caduta di Roma e la fine della civiltà (Bari, Laterza, 2010) di Bryan Ward-Perkins, archeologo classico e profes-sore di storia all'Università di Oxford.

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territori conquistati dall'Islàm prosperavano grazie alla fervida at-tività delle industrie e dei commerci e le sue città crebbero enor-memente.

Baghdād nell'814 contava forse 250000 abitanti ed era in quel tempo, per estensione, probabilmente la città più grande del mon-do. All' estremo occidentale dell'impero arabo c'era Cordova con i suoi 500000 abitanti, 471 moschee, 213077 case per operai e mer-canti, 60000 case per funzionari e cortigiani e una prestigiosa uni-versità.14 Altre città come Damasco, Il Cairo, Kairouan, Fez e Gra-nada divennero centri culturali di primo ordine, dotate di univer-sità e biblioteche, che offuscarono le antiche glorie delle città dell'ex impero romano. Gli arabi introdussero anche nuove piante nei Paesi mediterranei: l'arancio, la palma, l'albicocco, l'asparago, il carciofo, il cotone.

4. Il metodo sperimentale Il problema della conoscenza del mondo può essere affrontato

secondo tre direttive fondamentali. Da una parte il realismo plato-nico con la sua teoria delle idee, che però ha costituito un ostacolo all'affermazione del metodo sperimentale. Al polo opposto l'empi-rismo "bruto", che fa affidamento unicamente sull'esperienza pas-sivamente e acriticamente accettata senza alcun intervento della mente. Chiameremo questa forma di empirismo "scuola empiristi-ca" per distinguerla da un'altra forma di empirismo che sta in mezzo tra quei due approcci estremi: la "scuola empirica", diffe-renziata da quella empiristica in quanto basata anch'essa sull'espe-

14 Qui e nel seguito verrà utilizzato impropriamente il termine "università" per indicare centri di studi superiori. L'università in senso proprio nasce in Italia a Salerno intorno al 1050 e a Bologna nel 1088 come istituzione che conferisce un riconoscimento giuridico a chi in essa ha completato un ciclo di studi, conseguendo un titolo accademico (baccalau-reato, licenza, dottorato).

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rienza, interpretata però dall'intelletto nella formazione del sape-re.15

Si ritiene generalmente che sir Francis Bacon (1561-1626) sia l'antesignano della necessità del metodo induttivo che è alla base di quello sperimentale, anteponendo alla autorità del maestro il responso dell'esperienza come punto di partenza per qualunque ragionamento.

In realtà, già i chimici-alchimisti musulmani ottennero scoper-te importantissime utilizzando molto tempo prima proprio l'espe-rienza intesa come condizione necessaria ma non sufficiente, per ogni interpretazione della natura, in linea quindi con la visione positiva della scienza tipica della scuola empirica. L'averroismo e la scuola di Chartres, fiorita nei secoli XI e XII sotto l'influenza a-raba, professavano i principi della scuola empirica, subordinando la conoscenza del mondo ai dati sperimentali ordinati e interpreta-ti dalla mente. Tuttavia, ancora non si può parlare di un vero e proprio metodo sperimentale, in quanto l'approccio sperimentale della maggior parte degli scienziati islamici alla conoscenza aveva più preoccupazioni utilitaristiche di dominio sulla natura che fina-lità puramente scientifiche e non aveva quella dichiarata imposta-zione fisico-matematica che sarà stigmatizzata da Galileo Galilei nel XVII secolo e vigorosamente affermata nel secolo successivo da Isaac Newton.

Alhazen (965-1040) - in arabo Hasan Ibn al-Haitham - Abū al-Rayḥān Muḥammad ibn Aḥmad al-Biruni (973-1048) e Avicenna (980-1037) - in arabo Abū Alï al-Husayn ibn 'Abd Allāh ibn Sinā - sono i più grandi scienziati islamici, tutti dell'XI secolo, che fecero sistematico uso, nelle loro ricerche, di questa prima forma del me-todo sperimentale.

Alhazen è considerato uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi e il primo fisico teorico. La sua fama era tale da meritargli i soprannomi di "Tolomeo secondo" e "Il fisico". È stato, come Ar-chimede, un precursore del metodo scientifico, scoprendo che nel-

15 Cfr. Pierre Brunet, Op. cit., pp. 127-130.

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la ricerca è necessario validare le ipotesi con prove e test speri-mentali ripetibili oppure con l'evidenza matematica. Matematico, astronomo, fisico e filosofo, diede contributi originali alla teoria dei numeri, alla geometria, all'astronomia e all'ottica. Scrisse circa 200 libri, dei quali soltanto 55 sono giunti fino a noi. La sua opera più famosa è un trattato in sette volumi intitolato Kitab al-Manazir (Libro sull'Ottica).16 Fece esperimenti per determinare la legge della rifrazione della luce, variando l'angolo di incidenza del raggio lu-minoso e misurando i corrispondenti angoli di rifrazione. Non giunse a scoprire la legge17 ma ebbe il merito di concludere, pro-babilmente proprio su base sperimentale, che il rapporto fra ango-lo di incidenza e angolo di rifrazione è costante. Alhazen scoprì pure che la luce "bianca" è in realtà formata dal miscuglio di raggi luminosi di diverso colore, anticipando di 700 anni la celebre sco-perta di Newton.

Il Libro sull'Ottica contiene un'originale teoria che tratta in ma-niera interdisciplinare il fe-nomeno della visione: dal punto di vista geometrico, rifacendosi agli argomenti di Euclide sui raggi lumi-nosi; medico, utilizzando la descrizione di Galeno dell'anatomia e fisiologia dell'occhio; fisico, ripren-dendo vigorosamente la teoria dell'intromissione di Aristotele.

16 Tradotto in latino e pubblicato da Enrico Narducci (cfr. Baldassarre Boncompagni, Bol-lettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche e fisiche, 4, 1871, p. 1). 17 Non vi riuscì nemmeno Newton, bensì il sommo matematico-magistrato Pierre de Fermat (1601-1665) partendo da considerazioni finalistiche della fisica. Cfr. Luca Nicotra, L'ideale estetico nell'opera dello scienziato, in Nello specchio dell'altro, riflessi della bellezza tra arte e scienza (a cura di Luca Nicotra e Rosalma Salina Borello), Roma, UniversItalia, 2011, p. 40.

Fig. 10 - Una pagina dell'Ottica di Al-hazen (Kitab al-Manazir).

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Seguendo il grande Stagirita, contestò l'antica teoria della e-missione, affermata nelle opere - intitolate entrambe Ottica - di Eu-clide e di Tolomeo, secondo la quale la visione sarebbe dovuta a raggi luminosi emessi dall'occhio verso gli oggetti. Alhazen affer-mò e provò con argomentazioni logiche che, al contrario, l'occhio riceve la luce dagli oggetti (teoria dell'intromissione). Molto acu-tamente fece osservare che, se la visione fosse dovuta a raggi e-messi dall'occhio, non potremmo vedere immediatamente le stelle appena apriamo gli occhi, perché i raggi dovrebbero impiegare un certo tempo per raggiungere le stelle. Mentre, al contrario, pos-siamo immediatamente riceverli appena apriamo gli occhi essendo i raggi già stati emessi dalle stelle. Inoltre - sostiene Alhazen - se i raggi fossero emessi dall'occhio, non sarebbe possibile il fenomeno dell'abbagliamento quando guardiamo una sorgente luminosa.

Provò con esperimenti che la luce si propaga in linea retta e per primo costruì una camera oscura dimostrando come l'imma-gine di un oggetto esterno si proietta capovolta su uno schermo al suo interno. Fu anche uno dei primi scienziati ad applicare la ma-tematica alle sue teorie e ai suoi esperimenti, avvicinandosi quindi molto al moderno metodo sperimentale fisico-matematico.

Al-Biruni scrisse circa 146 opere di cui 95 dedicate all'astro-nomia, alla matematica e alla geografia matematica. Era poliglotta, conoscendo il persiano, l'arabo, il sanscrito, il greco e discretamen-te anche il siriaco, l'ebraico e il latino. Al-Biruni fece esperimenti con uno "strumento conico", per determinare i pesi specifici relati-vi, riferiti all'acqua, ispirandosi agli studi di Archimede.

Avicenna, medico, filosofo, matematico e fisico, si dedicò in particolare allo studio dell'acustica, dove elaborò una teoria musi-cale, e allo studio della dinamica, contribuendo a diffondere la teoria medievale della vis impressa o impetus, che spiegava come è possibile che un proiettile continui a muoversi nell'aria dopo esse-re stato lanciato.

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Averroè (1126-1198) - in arabo Abū l-Walīd Muhammad ibn Ahmad ibn Rushd - è più noto come filosofo, giurista e medico, ma si dedicò pure allo studio della fisica e dell'astronomia.18

Ci sono pervenute soltanto una parte delle sue circa 70 opere su diritto, astronomia, medicina, filosofia e teologia. Molte di que-ste, inoltre, ci sono pervenute non nel testo arabo originale bensì in traduzioni ebraiche e latine. Diede un notevole contributo allo svi-luppo della meccanica. Definì la misurazione della forza come «il valore del lavoro necessario per cambiare lo stato di un materiale solido»19 e intuì per primo che l'ef-fetto e il valore della forza applica-ta variano a seconda dell'attrito presente.20 A lui si deve, inoltre, una nozione anticipatrice di quella che Keplero poi denominò "iner-zia".

La chimica antica si confonde-va con l'alchimia. I musulmani e-rano molto affascinati dall'alchi-mia per le loro tendenze mistico-allegoriche. Anche in questo cam-po fecero uso di esperimenti che li portarono alla scoperta dell’alcool, dell’acido solforico, dell’acquaragia, dell’acido nitrico. Il chimico-alchimista più famo-

18 Cfr. voce Averroè di Carlo Alfonso Nallino e Alberto Pincherle, in "Enciclopedia Italia-na", Treccani, 1930. (http://www.treccani.it/enciclopedia/averroe_(Enciclopedia-Italiana/) 19 Ernest A. Moody (June 1951). Galileo and Avempace: The Dynamics of the Leaning Tower Experiment (II), in «Journal of the History of Ideas» 12 (3), p. 375. 20 Ibidem, p. 380.

Fig. 11 - Adamo ed Eva rappre-sentati in una pagina del Codex

Vigilanus (976).

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so fu Abū Mūsā Jābir ibn Ḥayyān al-Azdī latinizzato in Geber, morto nell'815. La chimica islamica conosceva molti processi uti-lizzati anche nella chimica moderna: la distillazione, la sublima-zione, la cristallizzazione, la soluzione.

5. Alcune invenzioni e scoperte attribuite all'Islàm Carta e stampa Le fonti storiche finora disponibili attribuiscono l'invenzione

della carta ai cinesi della dinastia degli Han Occidentali agli inizi del II secolo a. C.

Ts'ai Lun , nel 105 a. C., comunicò all'imperatore cinese di ave-re scoperto il modo di fabbricare «con vecchi stracci, reti da pesca e scorza d'albero» un nuovo materiale su cui scrivere. Nel 751 gli arabi sconfissero i cinesi sul fiume Thalas, nel cuore dell’Asia Cen-trale vicino Ferghana, decretando l'inizio del crollo del dominio cinese su quella parte dell'Asia.21 In quell'occasione gli arabi fecero bottino della carta, che i cinesi producevano dalla seta, e da un prigioniero impararono l'arte di fabbricarla. In seguito utilizzaro-no per la sua produzione il cotone, al posto della seta, e introdus-sero nel mondo islamico oltre la carta anche la stampa, inventata anch'essa dai cinesi presumibilmente agli inizi dell'VIII secolo,22 impiantando a Samarcanda e a Baghdād le prime cartiere sotto il califfato di Harun al-Rashid. I più antichi frammenti del Corano risalgono al X secolo, stampati da blocchi di legno con la tecnica che era già stata usata dai cinesi. Nell'Europa islamica, la diffusio-ne della carta inizia nel XII secolo in Spagna (Andalus) e nel XIII secolo in Italia, dove nel 1264, sotto l'insegnamento di maestri car-tai musulmani, ebbe inizio a Fabriano la sua produzione.

21 John. A. G. Roberts, Storia della Cina, Roma, Newton Compton, 2009, p. 133. 22 «Il più antico testo cinese stampato (con caratteri fissi) è un documento buddista da-tabile fra il 704 e il 751, realizzato da una matrice di legno di pero incisa». Cfr. Luca Nico-tra, L'impresa scientifica nella nuova Cina, in Il drago e la farfalla, a cura di Luca Nicotra e Rosalma Salina Borello, Roma, UniversItalia, 2010, p.21.

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Le prime librerie per la vendita dei libri furono aperte nei pa-esi islamici poco prima dell’890, mentre in Europa apparvero sol-tanto sul finire del XVIII secolo. Fin dall’850 c’erano nel mondo i-slamico biblioteche pubbliche.

Le crociate fecero conoscere all'Europa la stampa xilografica, già utilizzata nel mondo islamico con un buon livello di perfezio-ne.

Le cifre indo-arabiche Notevoli sono i contributi dell'Islàm alle matematiche23 e di

essi ci occuperemo più in dettaglio in un paragrafo dedicato. Qui accenniamo soltanto alle cosiddette "cifre arabiche" o, più

propriamente, "indo-arabiche", e alla loro diffusione in Europa dal mondo islamico.

23 Per gli approfondimenti sul contributo islamico allo sviluppo delle matematiche cfr. Gino Loria, Op. cit.; Ettore Bortolotti, Storia della matematica elementare, pp. 639-645, in En-ciclopedia delle matematiche elementari e complementi (a cura di Luigi Berzolari), vol. III, parte 2°, Milano, Hoepli, 1949; Amir-Moez A. R., A Paper of Ornar Khayyam , in «Scripta Mathematica», 26, 1963, pp. 323-337; Cajori F., History of Mathematics, 2a ed., New York, Macmillan, 1919; Gandz S., The Sources of al-Khowarizmi's Algebra, in «Osiris», l , 1936, pp. 263-277; Hill G. F., The Development of Arabic Numerals in Europe, Oxford, Clarendon, 1915; Kakhel Abdul-Kader, Al-Kashi on Root Extraction, Libano, 1960; Kasir D. S. (a cura di), The Algebra of Ornar Khayyam, New York, Columbia Teachers College, 1931; Karpins-ki L. C., The Algebra of Abu Kamil, in «American Mathematical Monthly», 21, 1914, pp. 37-48; Kennedy E.S., Overview on Trigonometry, in «Yearbook on History of Mathemathics», The National Council of Teachers of Mathematics, Washington, D.C.; Levey M. (a cura di), The Algebra of Abu Kamil, Madison, Wis., University of Wisconsin Press, 1966; Saidan A.S., The Earliest Extant Arabic Arithmetic, in «Isis», 57, 1966, pp. 475-490; Sànchez Pérez J., La aritmética en Roma, en India y en Arabia, Madrid, Instituto Miguel Asin, 1949; Sarton G., Introduction to the History of Science, Baltimora, Carnegie Institution of Washington, 1927-1948, 3 voll. in 5; Sayilj A., Thabit ibn Qurra's Generalization of the Pythagorean Theorem, in «Isis», 51, 1960, pp. 35-37; Smith D. E., History of Mathematics, Boston, Ginn, 1923-1925, 2 voll., ristampa in paperback, Dover, New York, 1958; Smith D. E. e Karpinskj L. C., The Hindu-Arabic Numerals, Boston, 19 l l; Struik D.J., Omar K.hayyam, Mathematician, in «The Mathematics Teacher», 51, 1958, pp. 280-285; Suter H., Die Mathematiker und Astronomer der Araber und ihre Werke, Lipsia, 1900; Vogel K. (a cura di), Mohammed ibn Musa Alchwa-rizmis Algorismus, O. Zeller, Aa1en, 1963; Wjnter H. J .J., Formative Influences in Is1amic Science, in «Archives Internationales d'Histoire des Sciences», 6, 1953, pp. 171-192; Georges Ifrah, Storia universale dei numeri, Farigliano (CN), Mondadori, 1989; B. Boncom-pagni, Bollettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche, 10 anno 1877, 14 anno 1881.

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Il sistema di numerazione decimale posizionale con le dieci ci-fre, oggi usato in tutto il mondo, non fu inventato dagli arabi ma nell'India settentrionale, presumibilmente già nel V secolo, anche se il documento più antico in nostro possesso che ne dimostra l'e-sistenza24 è del 595 mentre il più antico riferimento "esplicito" si trova in uno scritto del 662 del vescovo siriano Severo Sebokt, che a sostegno delle abilità matematiche degli indiani aggiunge: «Vo-glio soltanto dirvi che questi calcoli vengono effettuati per mezzo di nove segni».25

La prima forma grafica delle nove cifre indiane era, a diffe-renza dei precedenti sistemi di numerazione a cifre (egiziano, ba-bilonese, cretese, romano, cinese) totalmente priva di qualsiasi ri-ferimento evocativo del numero che rappresentavano:

24 Cfr. Luca Nicotra, L'impresa scientifica nella Nuova Cina, Op. cit., p. 29: «A noi sembra uno strumento quasi banale, ma in realtà l’umanità ha impiegato oltre tremila anni per giungere all’attuale sistema di scrittura numerica. Furono, infatti, i babilonesi, nel XX-XIX sec. a.C. circa, i primi a concepire una notazione numerica posizionale, la cui base era sessanta e la grafia cuneiforme. A metà circa del III sec. a.C. introdussero per primi la cifra dello zero − costituita da due aste cuneiformi inclinate − dando a questa il significa-to sia di mancanza di unità di un certo ordine sia di operatore aritmetico (alla fine della rappresentazione in cifre di un numero, ne indica la moltiplicazione per la base del si-stema di numerazione), ma non quello di quantità nulla, cioè i babilonesi non concepi-vano lo zero come numero. Fu questo l’anello mancante per fare un uso pienamente cor-retto, anche nel calcolo, del sistema numerico posizionale. Soltanto nel 595 d.C., in India, in un atto di donazione su rame, risulta utilizzato un sistema di numerazione decimale e posizionale avente la medesima struttura di quello attuale.» Tale atto era scritto su un piatto di rame recante la data 346 scritta in notazione indiana decimale posizionale. 25 Non era ancora utilizzato lo zero. Citazione tratta da D.E. Smith, History of Mathema-tics, Vol. I, Boston, Ginn, 1923-1925, ristampa: New York, Dover, 1958, p. 167 e riportata in Carl B. Boyer, Op. cit., p. 250.

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La grafia, tuttavia, subì in India stessa molte alterazioni da re-gione a regione, da scriba a scriba e nel tempo. Per cui poteva ac-cadere che, per esempio, lo stesso simbolo per alcuni significava 2 mentre per altri indicava 3. Per tali ragioni gli astronomi indiani

hanno a lungo considerato inaffidabile la scrittura in cifre dei nu-meri preferendo ad essa la tecnica poetica delle parole-simbolo legate al metro dei versi.

Il ricorso alla poesia per rappresentare i numeri non deve me-ravigliare, in quanto presso gli indiani era prassi diffusa scrivere in versi qualunque trattato scientifico. Gli astronomi indiani rite-nevano più affidabile tale tecnica perché il ritmo dei versi poteva essere spezzato da un minimo errore che in tal modo risultava su-bito evidente. Non è possibile addentrarci nei particolari di tale tecnica, ma basti citare queste parole di Roger Billard tratte dalla sua opera L'astronomie indienne:

Il testo astronomico indiano essendo in versi, contemporane-

amente alla possibilità di scegliere un sinonimo di una determina-

Fig. 12 - Varianti delle nove cifre del sistema di numerazione decimale posi-zionale oggi in vigore in India. (Da Georges Ifrah, Op. cit., p. 252).

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ta scansione, la parola simbolica si inseriva nel metro, e il numero in essa contenuto si imprimeva sia nel testo che nella memoria, co-sicché il contabile recitava i versi per situare le cifre nel corso delle operazioni. 26

Tutt'oggi in India sono utilizzate varie forme delle nove cifre

(figura 12). In un primo tempo gli arabi utilizzarono un sistema di numerazione alfabetico adattando alle loro ventotto lettere le nu-merazioni alfabetiche greca ed ebraica. Greci ed ebrei, infatti, era-no parte della popolazione dei territori conquistati dall'Islàm. Poi adottarono pure il sistema sessagesimale posizionale e lo zero dei babilonesi, essendo stata da loro conquistata la Mesopotamia.

Gli arabi appresero le nove cifre indiane e il loro uso proba-bilmente con l'introduzione a Baghdād nel 766 (secondo altri nel 773) di un'opera indiana di contenuto astronomico e matematico, Sindhind,27 poi tradotta in arabo nel 775.

Fin verso la metà del IX secolo le cifre utilizzate dagli arabi rimasero sostanzialmente quelle apprese dagli indiani (figura 13).

26 Vol. LXXXVIII, Parigi, Publ. de l' l'École français d'Estrême-Orient, 1971; citazione ri-presa da Georges Ifrah, Op. cit., p. 251. 27 Probabilmente doveva trattarsi dell'opera Brahmasphuta Siddhanta (L'inizio dell'Univer-so) del matematico indiano Brahmagupta (598-668) o dell'opera Sūrya Siddhanta. Con il nome di Siddhanta (Universo) gli indiani titolavano in generale i trattati sui sistemi a-stronomici scritti nei secoli IV e V: Paulisha Siddhānta, Sūrya Siddhānta, Vasisishta Siddhān-ta, Paitamaha Siddhānta, Romanka Siddhānta. Soltanto il Sūrya Siddhanta (Sistema del Sole) scritto verso il 400 ci è giunto integro.

Fig. 13 - Cifre arabiche verso la metà del IX secolo. (Da Georges Ifrah, Op. cit., p. 273).

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Successivamente la grafia delle cifre subì modifiche per opera dei copisti e degli scriba arabo-persiani, anche per motivi legati al fatto che questi trovavano più comodo scrivere le cifre, sui rotoli di pergamena, verticalmente dall'alto verso il basso anziché oriz-zontalmente da destra a sinistra secondo l'uso arabo. Pertanto, quelle che erano righe divennero colonne. Per tornare quindi alla normale disposizione di lettura per riga da destra verso sinistra, si dovevano ruotare in senso orario di 90° i rotoli. Ciò spiega in parte alcune modifiche che subirono le originarie cifre indiane, che as-sunsero presso gli arabi orientali la forma tutt'oggi in uso in Tur-chia, Siria, Afghanistan, Iran, Pakistan, Egitto e in alcune regioni dell'India musulmana. Ad esse gli stessi arabi diedero il nome hin-di, per indicarne l'origine indiana (figura 14).

Anche nella parte occidentale dell'impero arabo le cifre india-ne all'inizio conservarono sostanzialmente la loro forma origina-

Fig. 14 - Cifre arabiche orientali dette hindi.

Fig. 15 - Cifre arabiche occidentali dette ghobar.

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ria. Ma successivamente gli arabi del Maghreb e della Spagna svi-lupparono una particolare scrittura, detta magrebina, alla quale adattarono le grafie delle originarie cifre indiane.

Questa forma occidentale delle cifre arabiche fu detta ghobar, parola che in arabo significa "polvere" (figura 15). Tale denomina-zione deriva dall'uso di tavolette ricoperte di sottile sabbia sulle quali, con una punta, gli arabi occidentali tracciavano le cifre. Queste sono le cifre che sono poi penetrate nell'Europa cristiana attraverso la Spagna.

I contatti commerciali con la Spagna, conquistata nel 711 dai musulmani, furono il veicolo di trasmissione in Europa delle cifre ghobar, del nuovo sistema di numerazione decimale posizionale e del conseguente nuovo modo di calcolare, detto "all'indiana". In-fatti, tale sistema fu utilizzato prima di tutti dai mercanti, per la maggiore facilità che permetteva nei calcoli.28 Anche in Europa le cifre indo-arabiche hanno subito nel tempo delle modifiche nella grafia, così come era successo in India e nei Paesi arabi, fino ad ar-rivare alla attuale forma (figura 16). 28 Cfr. Keith Devlin, I numeri magici di Fibonacci, Milano, BUR Rizzoli, 2013, titolo origina-le: The Man of Numbers, p. 66.

Fig. 16 - Varianti delle cifre arabiche diffuse nell'Europa cristiana. (Da Georges Ifrah, Op. cit., p. 283).

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Nel monastero di Albeda de Iregua, in Spagna, è stato ritrova-to il primo documento latino contenente le nove cifre indiane, il Codex Vigilanus (figura 17), così detto dal nome del monaco Vigila che lo scrisse nel 976 come copia di un'opera precedente, le Etimo-logie di Isidoro di Siviglia.29 Anche in un altro manoscritto delle Origini, forse del 992, di Isidoro compaiono le nove cifre senza lo zero. Invece la più antica opera araba sull'aritmetica indiana è Ki-tab al-fusul fi'l-hisab al-hindi (Libro di capitoli sull'aritmetica indiana) di Abu'l-Hasan Ahmad ibn Ibrahim al-Uqlidisi del 952-953, di cui però ci è rimasta soltanto una copia del 1186.30

Probabilmente, Vigila aveva appreso il sistema decimale po-sizionale indiano da alcuni cri-stiani dell'Andalusia, emigrati nella Spagna settentrionale, op-pure dall'abaco del francese Gerberto d'Aurillac (940 circa-1003), che salirà al soglio ponti-ficio con il nome di Silvestro II nell'anno 999. Sono dubbi sia la fonte da cui Gerberto apprese le nove cifre indiane sia il fatto che sia stato veramente il primo a introdurle nell'Europa cristia-na,31 mentre è certo che si ado-però con ogni mezzo per cercare di diffonderle, come risulta da

29 Non conteneva, però, le regole del loro uso. Cfr. Keith Devlin, Op. cit., p. 34. 30 Cfr. Carl B. Boyer, Op. cit., p. 292. 31 Ivi: «In certi manoscritti contenenti le opere di Boezio, tuttavia, cifre di forma simile (dette "apici") compaiono come contrassegni usati per far di conto su una tavoletta o a-baco; e fu forse da questi che Gerberto venne per la prima volta a conoscenza del nuovo sistema. D'altra parte, può darsi che gli "apici" boeziani fossero essi stessi interpolazioni posteriori. La situazione, per quanto riguarda l'introduzione delle cifre numeriche in Eu-ropa, è altrettanto confusa quanto quella che circonda l'invenzione di tale sistema forse mezzo millennio prima».

Fig. 17 - Le cifre indo-arabiche nel Codex Vigilanus (976), scritte da destra verso sinistra.

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diverse testimonianze.32 Su tale questione ci sono due scuole di pensiero fra gli storici.

Secondo alcuni, Gerberto, nel periodo in cui studiò matemati-ca in Catalogna, dal 967 al 969, apprese le nuove cifre a Barcellona dagli arabi e le utilizzò per migliorare l'uso dell'abaco medioevale, retaggio di quello romano. L'abaco medioevale, di cui si ha notizia nei manoscritti che riportano l’Ars Geometrica33 di Severino Boezio, era diviso in colonne, dedicate ciascuna a un ordine di unità (uni-tà, diecine, centinaia, ecc.), dentro le quali venivano gettati (da cui il triplice nome di abaco a colonne o a gettoni o di Boezio) dei gettoni 32 Uno dei suoi discepoli: «Usava nove simboli con cui era in grado di esprimere ogni numero» (K. Menninger, Number Words and Number Symbols: A Cultural History of Num-bers, New York, Dover, 1992, p. 324.) 33 È attribuita tradizionalmente al console romano Manlio Torquato Severino Boezio (480-526). Secondo le moderne indagini filologiche, invece, sarebbe un’opera medievale di autori vari risalente al secolo XI. Cfr. Luca Nicotra, La tavola pitagorica: un falso storico dimenticato. In: «Alice&Bob», n. 15, 2009, MatePristem Bocconi Springer-Verlag, Milano. Versione completa on-line in: http://matematica.unibocconi.it/articoli/la-tavola-pitagorica.

Fig. 18 - Genealogia delle cifre indiane secondo Karl

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recanti impresse delle cifre molto somiglianti alle cifre ghobar ara-be e alle cifre devanagari indiane. La novità dell'abaco a gettoni, ri-spetto a quelli romani precedenti "a sassolini" (calculi) e "a botto-ni", consisteva nel fatto che si utilizzava in ogni colonna un solo gettone il cui numero impresso (detto apice o figura di Boezio) in-dicava il numero di sassolini o di bottoni che sostituiva.34 Questa forma di abaco decretò successivamente la fine dell'abaco come strumento di calcolo, in quanto esso stesso era diventato sostan-zialmente una inutile materializzazione della scrittura dei numeri con il nuovo sistema decimale posizionale e del relativo modo di calcolare all'indiana.

Secondo altri storici della matematica, invece, Gerberto non apprese le nove cifre dai mori di Spagna modificando poi l'abaco medioevale ma, egli stesso, le apprese da tale abaco che aveva quindi già quelle modifiche che invece gli sono attribuite secondo la prima ipotesi.

Malgrado le cifre indo-arabiche fossero comparse per la prima volta in Spagna, fu tuttavia l'Italia il paese europeo che per primo utilizzò la nuova aritmetica indo-arabica, grazie alla sua esposi-zione, in forma molto pratica e chiara di problemi reali, contenuta nel Liber Abbaci (1202) di Leonardo Fibonacci.35 In realtà le cifre in-do-arabiche erano già note in Italia anche prima dell'apparizione dell'opera di Fibonacci: nel 1149 erano state utilizzate a Pisa per compilare delle tavole astronomiche, le Tavole pisane, forse tradu-

34 Cfr. Keith Devlin, Op. cit., pp. 34-38; cfr. anche Luca Nicotra, La tavola pitagorica: un fal-so storico dimenticato. Op. cit. 35 A volte erroneamente ricordato come Liber abaci. La traduzione del titolo corretto Liber abbaci è Libro del calcolo, mentre la traduzione del titolo errato Liber abaci sarebbe Libro dell'abaco, che non avrebbe senso. Infatti il libro fu scritto da Leonardo Pisano, detto Fi-bonacci, proprio per far conoscere il nuovo modo di calcolare reso possibile dalla nota-zione posizionale decimale in contrapposizione al vecchio modo di calcolare con l'uso dell'abaco. L'errata traduzione nasce dall'ignoranza della distinzione fra i termini abacus e abbacus: il primo indica l'abaco, mentre il secondo indica l'algoritmo ovvero, come veni-va chiamata in quell'epoca, la tecnica di calcolo con le dieci cifre del sistema posizionale indo-arabico (cfr. Keith Devlin, Op. cit., pp. 21, 22). Cfr. anche Filloy Yagüe Euge-nio,Teresa Rojano, Luis Puig, Educational Algebra: A Theoretical and Empirical Approach, Milano, Springer, 2007, in particolare p. 69 e sgg.

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zioni latine di tavole arabe della fine del X secolo,36 ma il Liber Ab-baci fu l'opera che più di ogni altra diffuse in tutta Europa il nuovo sistema di numerazione. Fibonacci ebbe l'opportunità di conoscere quest'ultimo durante la sua permanenza a Bugia (l'antica Saldae romana e odierna Béjaïa in Algeria) nell'Africa settentrionale, dove appena quattordicenne, nel 1185 circa, raggiunse il padre, nomi-nato dalla Repubblica di Pisa notaio nella dogana di quella città «per occuparsi dei mercanti pisani che si recavano in quel luo-go».37

Cartografia Nella cartografia gli arabi, inizialmente, seguirono le orme di

Tolomeo ma, successivamente, le loro preoccupazioni di ordine commerciale e amministrativo prevalsero sugli aspetti scientifici. Fu con il celeberrimo geografo Abū ‘Abd Allāh Muhammad ibn Muhammad ibn ‘Abd Allah ibn Idrīs (1009 circa-1164 circa, o semplicemente al-Idrìsi o anche Edrisi) che ritornò ad emergere l'interesse scientifico. Nel 1154, sotto il regno di Ruggero II di Sici-lia, realizzò a Palermo un grande planisfero inciso su una lastra d'argento - detto Tabula Rogeriana e nota anche come la Grande Car-ta - che è una delle più avanzate mappe del mondo medioevale. Il planisfero era completato da un'opera di geografia Nuzhat al-mushtāq, famosa tra gli arabi anche col nome Kitāb Rugiār ("Libro di Ruggero") in quanto lo stesso re Ruggero partecipò alla reda-zione, durata 15 anni, sia del planisfero sia del libro. La Grande Carta era basata, con metodo sperimentale, sulla determinazione della longitudine e latitudine dei luoghi e la sua redazione mostra una proiezione simile a quella che molti secoli dopo fu ideata da Mercatore. Con l'opera di al-Idrisi nacque in Sicilia, alla corte pa-lermitana di Ruggero II, la prima vera e propria scuola di geogra-fia scientifica dell'epoca moderna:

36 Keith Devlin, Op. cit., pp. 37, 38. 37 Dall'introduzione di Leonardo Fibonacci al Liber Abbaci.

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Quello di al-Idrisi quale massimo geografo sperimentale di tutto il medioevo fu tuttavia uno strano destino. Infatti mentre «l'I-slam occidentale subì durevolmente il suo influsso e gli tributò ampi riconoscimenti, quello orientale decretò il silenzio quasi completo sull'autore e sull'opera» ( M. Pinna). E questo non tanto perché da musulmano aveva lavorato per un principe cristiano, ma soprattutto per aver, come detto, messo continuamente in discus-sione quelle che erano le conoscenze e le credenze geografiche ara-be. Sul fronte europeo, una volta subentrati gli svevi ai normanni, le lotte e gli scontri fratricidi tra gli eredi del Regno di Sicilia, por-tarono anche alla persecuzione degli intellettuali musulmani e ben presto la loro lingua fu messa al bando in tutta l'Isola.38

La traduzione in latino delle opere di al-Idrìsi diffuse lo studio

della geografia nell'Europa cristiana.

La bussola La paternità dell'invenzione della bussola, in base alle testi-

monianze storiche in nostro possesso, è contesa fra arabi e cinesi.

38 Dalla conferenza di Tindaro Gatani: L'opera cartografica di al-Idrisi: geografo arabo-siculo del XII secolo. (http://www.comune.milazzo.me.it/Public/Allegati/Article/8007/1_allegato.pdf).

Fig. 19 - Tabula Rogeriana di al-Idrisi (1154).

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Quel che sembra più sicuro affermare è che, in entrambi i casi, sia la sua invenzione sia il suo uso per navigare risalgano all'XI secolo e che i marinai arabi ne fecero largo uso.

Nella sua forma moderna, la bussola fu probabilmente creata nell'Italia meridionale39 fra il 1300 e il 1305 ma la tradizionale at-tribuzione della sua invenzione a Flavio Gioia sembra falsa e frut-to di un errore d’interpretazione di un testo dello storico Flavio Biondo che, verso la metà del sec. XV, scambiando superficial-mente l’invenzione con l’uso della bussola, effettivamente diffuso nel Mediterraneo dai navigatori amalfitani, aveva attribuito a que-sti la sua invenzione. Il filologo Giambattista Pio, a sua volta, nel 1511 riprese la falsa notizia da Flavio Biondo e correttamente la espresse in latino: «Amalphi in Campania veteri magnetis usus inven-tus, a Flavio traditur» frase che tradotta in italiano suona: «Flavio afferma che ad Amalfi, in Campania, fu inventato l’uso della ca-lamita». Successivamente, però, la stessa frase fu riportata da un copista spostando, per errore, la virgola dopo «a Flavio», cambian-do così totalmente il suo significato che divenne: «Amalphi in Campania veteri magnetis usus inventus a Flavio, traditur», ovvero «Si narra (traditur) che ad Amalfi, in Campania, fu inventato l’uso del-la calamita da Flavio». All’errore si aggiunse la beffa, quando lo storico napoletano Scipione Mazzella aggiunse di suo che Flavio sarebbe nato a Gioia in Puglia e poi avrebbe inventato la bussola ad Amalfi: nacque così il leggendario quanto immaginario Flavio Gioia, inventore della bussola, citato come tale nel 1540 da Lilio Gregorio Giraldi nel suo De Re Nautica. È merito della storica me-dievalista Chiara Frugoni la recente scoperta di tali errori in uno studio che è stato confermato dallo storico Alessandro Barbero nella trasmissione Superquark del 7 agosto 2008. 40

In realtà i cinesi, probabilmente, conoscevano il fenomeno del magnetismo già fin dal 2634 a.C., secondo antichi annali cinesi in cui è riportato un carro con figure umane che tendono un braccio 39 Cfr. Maurice Dumas, Op. cit., pp. 112,114. 40 Cfr. Luca Nicotra, Quella birbona della punteggiatura!, in «Notizie in ... Controluce», An-no XIX, n. 9, settembre 2010.

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nella direzione del Sud, il punto cardinale più importante per i ci-nesi.41 Altri riferimenti al magnetismo si trovano nell’opera cinese Il libro del maestro della valle dei demoni del secolo IV a.C. Un testo cinese del 1044 descrive la bussola ad acqua, costituita da un ma-gnete a forma di pesce posto in una vasca colma d’acqua e quindi libero di orientarsi nella direzione Nord-Sud. Fu il famoso mate-matico cinese Shen Gua (1031-1095), nella sua opera enciclopedica Meng Qi Bi Tan (Studio del ruscello dei sogni) del 1086, che spiegò per primo come magnetizzare un ago, strofinandolo con un pezzo di magnetite, e come costruire la bussola asciutta, sospendendo l’ago a un filo di seta con una goccia di cera o di mostarda. Un'al-tra descrizione della bussola semplicemente come "ago calamitato" - e non come strumento di navigazione - è contenuta nell'opera ci-nese Pen ts-ao yen i, scritta nel 1111 da K'ou Tsung-Shih. Invece la prima citazione documentata, fino a oggi nota, della bussola come strumento di navigazione è contenuta nell’opera cinese Ping Zhou Ke Tan (Conversazioni di Ping Zhou) del 1117. In questa opera Chu Yu afferma che negli anni 1086-1099 l'uso della bussola per navi-gare era stato introdotto in Cina da marinai stranieri, che non è improbabile identificare con gli arabi o tutt'al più con marinai in-do-malesi che lo appresero a loro volta dai contatti con marinai a-rabi. Tuttavia, l’uso della bussola per navigare potrebbe essere an-cora anteriore a tale periodo: forse fra l’850 e il 1050.42

La maiolica L'uso della ceramica aveva un posto di primo piano nell'arte

musulmana ed era già fiorente nell’VIII secolo. A Maiorca i mori producevano quel particolare tipo di ceramica che prese il nome di maiolica43 e venne esportata in Europa. Artigiani ceramisti mu- 41 Raffaele Gargiulo, La bussola magnetica. In: www.ilportaledelsud.org/bussola.htm. 42 Cfr. Luca Nicotra, L'impresa scientifica nella Nuova Cina, Op. cit., p. 24. 43 La maiolica è un materiale ceramico ottenuto con argille più pure di quelle delle terre cotte. Poiché dopo la cottura a 900-950 °C la pasta risulta porosa e colorata in giallo-rosso, il manufatto viene ricoperto con uno strato di smalto opaco costituito da una mas-sa fusa di feldspato, silice, ossido di piombo e di un opacizzante (ossido di stagno, di ti-tanio, di antimonio, ecc.). Lo smalto può essere bianco o colorato con l'aggiunta alla mas-

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sulmani, di origine persiana, si stabilirono a Faenza, a Firenze e in Sicilia, dove già esistevano scuole di ceramica fin dai tempi dell'antichità classica, lasciando l'impronta del loro stile orientale. Specialmente nelle ceramiche di Caltagirone, in Sicilia, risulta evi-dente l'influenza araba nelle decorazioni geometriche e floreali. Al posto della vetrina, per impermeabilizzare la ceramica, gli arabi

introdussero l'antica tecnica dell'invetriatura di origine persiana. L'invetriatura è costituita da un composto silico-alcalino (marza-cotto) e da un composto a base di piombo e stagno calcinati44 in-sieme (calcino).

Il violino Il violino è nato a Cremona più di quattrocento anni fa, dalle

mani di artigiani che erano diventati esperti in seguito a ricerche

sa fusa di ossidi metallici (di cobalto, di cromo, di ferro, di manganese, ecc.). Sullo smalto si possono applicare le decorazioni e infine su queste viene applicata la vetrina finemen-te macinata, che è un vetro a base di piombo. Il manufatto viene quindi sottoposto a una seconda cottura generalmente a una temperatura di 50°C inferiore rispetto alla prima, che porta a incipiente fusione i tre strati applicati dopo la prima cottura: smalto, decora-zioni, vetrina. Lo smalto forma uno strato continuo e opaco, la vetrina uno strato vetroso continuo, sottile e trasparente che impermeabilizza e conferisce lucentezza e brillantezza. 44 Cioè riscaldati ad alte temperature in assenza di aria per eliminare i composti volatili e provocare reazioni di decomposizione termica con produzione di anidride carbonica.

Fig. 20 - Maiolica di Caltagirone. Fig. 21 - Maiolica di Faenza.

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empiriche secolari, prendendo lentamente la forma che conoscia-mo oggi. Esso, però, deriva dall'evoluzione di un antico strumento arabo, il rebab (figura 22), introdotto in Europa dai mori nell'VIII secolo.

Il rebab è uno strumento ad arco la cui origine si fa risalire all'VIII secolo circa, in Afghanistan. Fu diffuso dagli arabi nel nord Africa e da qui in Spagna. È ancora oggi molto diffuso in Turchia nei locali pubblici, come le sale da the.

Dal rebab si svilupparono altri strumenti a corda: prima la ri-beca (figura 23) e poi la giga.

La ribeca fu uno degli strumenti più diffusamente impiegati nell'Europa tardo medievale, e ancora largamente attestati in pie-na epoca rinascimentale. Fu molto diffusa nelle corti europee fino al XVI secolo, come strumento per l'accompagnamento del ballo e della lettura di poesie.

La giga è uno strumento musicale a corde suonate con un arco, della famiglia della ribeca, forse derivata dalla lira ad arco. Infine dalla giga è derivata la viola da braccio.

È nel dicembre del 1523 che troviamo scritta per la prima vol-ta, nel registro della tesoreria dei Savoia, la parola violino. Il violi-no appare in Italia nella prima metà del XVI secolo, probabilmente prima del 1530, ed è una filiazione della viola da braccio e della li-ra da braccio. È difficile attribuire con certezza la paternità del vio-

Fig. 22 - Rebab. Fig. 23 - Ribeca. Fig. 24 -Violino.

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lino, che potrebbe appartenere al bresciano Gasparo Bertolotti det-to Gasparo da Salò.

Gli scacchi Il gioco degli scacchi fu inventato in India, intorno al VI seco-

lo, ma ebbe larga diffusione nel mondo arabo, come attesta lo stes-so nome che deriva dall'occitano e catalano escac, a sua volta deri-vato dal persiano shah che significa "re", adattamento dell'arabo es-saq. Gli scacchi furono importati in Europa dagli arabi, attraverso la Spagna.

Le norie Le norie o ruote idrauliche apparvero per la prima volta in

Mesopotamia intorno al 200 a. C. ed ebbero molta diffusione nel mondo islamico, dove furono oggetto di studi e perfezionamenti.

6. La trasmissione del sapere antico all'Occidente cristiano Gran parte della scienza e della filosofia greca dell'Antichità si

sarebbe persa senza l'opera di traduzione degli arabi dal greco e dal siriaco in arabo e successivamente non sarebbe penetrata nel mondo occidentale cristiano senza l'opera di traduzione, dall'ara-bo in latino, dei grandi traduttori dei secoli XII e XIII.

Toledo fu il maggior centro delle traduzioni in latino delle o-pere arabe. Normalmente erano tradotte in due fasi: dall'arabo in un vernacolo (per opera di ebrei e musulmani spagnoli) e da que-sto in latino. Infatti, mentre tutti gli studiosi dell'epoca conosceva-no il latino, pochi erano quelli che conoscevano anche l'arabo. I più grandi traduttori dell'epoca, però, erano in grado di tradurre direttamente dall'arabo in latino.

Fra i maggiori traduttori ricordiamo il filosofo inglese Aethel-hard (Adelardo di Bath, 1070-1160 circa) che soggiornò in Nor-mandia, a Salerno, ad Antiochia e a lungo in Sicilia. A lui si attri-

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buisce un ruolo di primo piano nella trasmissione della scienza a-raba al mondo cristiano.

Nella Spagna islamica (Andalus) fiorirono numerosi tradutto-ri: Giovanni di Siviglia, Domenico Gundisalvi, Ermanno il Dalma-ta, Roberto di Chester che operarono nella prima metà del XII se-colo. A Barcellona e Toledo troviamo due italiani che però vissero

gran parte della loro vita in Spagna: Platone di Tivoli ( 1110-1145 ) e Gherardo da Cremona (1114-1187). Il primo fu anche matematico e astro-nomo e a lui si devono le tra-duzioni in latino di alcune ope-re di Tolomeo e Archimede. Il secondo è ritenuto il maggior traduttore medievale e la sua imponente opera lascia suppor-re che fosse a capo di una vera e propria scuola di traduttori.

Guglielmo di Moerbeke (1215-1286 circa) fu un grande traduttore soprattutto di opere matematiche e aristoteliche. Traduceva direttamente dall'a-rabo in latino ma confrontava anche i testi arabi con gli origi-

nali greci. Altri traduttori furono invece anche autori originali. Fra essi

Alfredo di Sareshel (XIII secolo) , che scrisse un De motu cordis, con evidenti influenze arabe. Il più noto è però lo scozzese Michael Scot (Michele Scoto, 1175-1236 circa), che soggiornò a Toledo, Bo-logna e Roma e infine a lungo come astrologo, alchimista e filosofo alla corte di Federico II, in Sicilia. Scrisse due trattati originali sull'astrologia, ma si interessò pure di alchimia, pur non essendo del tutto originali i suoi due trattati alchimistici. A lui si deve so-

Fig. 25 - Sacrobosco - Tractatus de Sphaera (1230 circa).

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Maimonide (1135-1204) - in arabo Mosheh ben Maymon - che si occupò anche di astronomia e Avempace (1095-1138) - in arabo Ibn Bājja - che fu anche filosofo, poeta, matematico e apprezzato musi-cista.

Abu Bakr Muhammad ibn Zakariya al-Razi - latinizzato in Rhazes e anche Rasis - fu uno scienziato eclettico. Scrisse 184 libri di carattere scientifico, fu direttore di vari ospedali e si interessò di filosofia e musica. Diede notevoli contributi alla chimica, scoprì l'acido solforico e introdusse l'impiego dell'alcool in medicina. È stato il primo a descrivere il vaiolo e la sue differenze dal morbillo. A lui si deve la scoperta dell'asma allergica, della rinite allergica e del raffreddore da fieno, scrivendo per primo un trattato sull'im-munologia e l'allergia. Comprese per primo che la febbre è una di-fesa naturale dell'organismo. È considerato uno dei più grandi al-chimisti di tutti i tempi. Come medico dava esempio di grande professionalità, criticando i ciarlatani e affermando, molto moder-namente, che occorreva un costante aggiornamento professionale da parte dei medici. Poneva però in evidenza, con grande mode-stia, i limiti dell'opera dei medici, distinguendo le malattie in cu-rabili, potenzialmente curabili e incurabili. La sua opera maggiore è l'imponente enciclopedia medica in nove volumi Kitāb al-hāwī fī tibb (Il libro che raccoglie le notizie sulla medicina) che contiene anche una raccolta postuma dei quaderni di appunti di Rhazes.

Abū l-Qāsim Khalaf ibn ʿAbbās al-Zahrāwī -latinizzato in A-bulcasis - è considerato il padre della moderna chirurgia.46 La sua visione della medicina era straordinariamente moderna, fondata sulla prudenza, sulla professionalità, sullo studio dell'anatomia

46 Ahmad ("St Thomas' Hospital"), Al-Zahrawi - The Father of Surgery, in «ANZ Journal of Surgery», vol. 77, Suppl. 1, 2007; Mario Tabanelli, Albucasi, un chirurgo arabo dell'alto Me-dio Evo: la sua epoca, la sua vita, la sua opera, Firenze, 1961; Albucasis, Traitier de cyrurgie. Édition de la traduction en ancien français de la Chirurgie d'Abu al-Qasim al-Zahrawi du manu-scrit BNF, 1318, ed. francese di David A. Trotter, Tübingen, 2005; Albucasis, On surgery and instruments, ed. araba e traduzione inglese di Martin S. Spink e Geoffrey L. Lewis, Londra, 1973; Abulcasis, La chirurgie d'Abulcasis, ed. araba e traduzione francese da Lu-cien Leclerc, Paris,1861.

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che incoraggiava attraverso dissezioni dei cadaveri e vivisezioni,47 in tempi in cui tali temi erano molto scabrosi. Insisteva sulla ne-cessità di rispetto reciproco fra medico e paziente, sul dovere di dispensare cure indipendentemente dalle differenze di ceto sociale differenziandole, invece, sulla base dello studio diretto di ogni singolo caso. Ai suoi allievi raccomandava:

Comportatevi con riservatezza, e precauzione; abbiate nei ri-

guardi dei pazienti dolcezza e perseveranza; seguite la via buona, che porta al bene, ed a conseguenze fortunate. Astenetevi dall'ini-ziare trattamenti pericolosi e difficili.48

In chirurgia si devono a lui per la prima volta molti trattamen-

ti: l'estrazione, per via vaginale, dei calcoli renali; la tracheotomia; la legatura arteriosa per arrestare le emorragie (operazione resa nota nel XVI secolo da Ambroise Paré); le suture intradermiche, che non lasciano tracce visibili, e le suture con due aghi e un solo filo; il metodo di riduzione delle lussazioni della spalla (chiamata oggi "manovra di Kocher"); la patellectomia, circa mille anni prima di Ralph Brooke; la messa in pratica nelle operazioni della piccola pelvi della "posizione Trendelenburg", attribuita in seguito al chi-rurgo tedesco Friedrich Trendelenburg; il trattamento chirurgico delle osteo-artriti turbercolari per lo più vertebrali ("Mal di Pott"), sette secoli prima di Percival Pott; l'escissione delle varici.

Inoltre praticava con successo: la trapanazione; le amputazio-ni; il trattamento delle fistole, delle ernie e della perforazione ana-le; la cura dell'aneurisma; l'operazione del gozzo; la litotomia; in-terventi di chirurgia plastica; l'asportazione delle tonsille. Creò circa duecento utensili chirurgici (bisturi, forbici, sonde, stiletti, ca-teteri, seghe, stecche, otoscopimolti) e fu il primo a comprendere la predisposizione, di natura ereditaria, all'emorragia e a descrive-re la gravidanza extrauterina.

47 Sleim Ammar, En souvenir de la médecine arabe - Quelques-uns de ses grands noms, Tunisi, Imprimerie Bascone & Muscat, 1965. 48 Mario Tabanelli, Op. cit., p. 50.

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L'opera che ha reso noto Abulcasis in tutta Europa, per oltre mezzo millennio dopo la sua morte, è una enciclopedia medica di 1500 pagine in trenta volumi intitolata al-Taṣrīf li-man ʿagiza ʿan al-taʾlīf, (La condotta per colui che non sa comporre [un libro]) ultimata nell'anno 1000 e poi tradotta in latino da Gherardo da Cremona nel XII secolo col titolo Concessio ei data qui componere haud valet, con oltre dieci edizioni tra il 1497 e il 1544. Fu poi tradotta in fran-cese, in ebraico, in inglese, in provenzale e pubblicata a Venezia (1497), Amburgo (1519), Strasburgo (1532), Basilea (1541), Oxford (1778). Tutti i grandi chirurghi medievali hanno attinto ad essa. L'opera può essere suddivisa in tre parti. La prima è dedicata alla medicina generale. La seconda tratta della cura delle malattie, del regime alimentare, dei veleni, delle dermatiti, della febbre, dei reumatismi, degli ascessi e delle piaghe. La terza, quella che ha permesso di fondare la moderna chirurgia, passa in rassegna tutte le conoscenze chirurgiche dell'epoca: la cauterizzazione, l'incisio-ne, l'amputazione, le fratture, le lussazioni, i piccoli interventi, i salassi, l'operazione ai calcoli della vescica, la gangrena, l'emiple-gia di origine traumatica da lesione vertebro-midollare e il parto.

Avicenna scrisse più di 450 trattati di filosofia, astronomia, matematica, fisica, alchimia, geologia, psicologia, logica, teologia islamica e poesia, di cui sono giunti fino a noi 240. Di questi, 150 riguardano la filosofia e 40 la medicina. È considerato da George Sarton «il più famoso scienziato dell'Islàm e uno dei più famosi di tutte le razze, luoghi e tempi». Fra i suoi libri di medicina i più famosi sono una enciclopedia filosofica e scientifica in 18 volumi, Il libro della guarigione (Kitab al-Shifa), e un testo di medicina uni-versitario, Il canone della medicina (al-Qānūn fi-tibb).49 Entrambe queste opere sono state studiate fino al XVII secolo, consacrando Avicenna "padre della medicina moderna". Il canone della medicina comprende le nozioni mediche di Ippocrate e Galeno e quelle bio-logiche di Aristotele; fu il libro di testo di medicina più diffuso 49 Stampato nell'originale arabo per la prima volta in Occidente a Roma nel 1593. Nel Medioevo era molto studiato nella traduzione latina di Gherardo da Cremona (XII sec.) e poi in quella di Andrea Apago uscita a Venezia nel 1527.

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nelle università medioevali (a Montepellier a Leuven fu usato fino al 1650).

Di Abū Marwān ʿAbd al-Malik ibn Zuhr, maestro di Averroè, è molto nota l'opera di medicina specialista intitolata Kitāb al-taysīr fī al-mudāwāt wa l-tadbīr (Libro della semplificazione sulle terapie e la dieta), che assieme all'opera di Averroè sulla medicina generale, Colliget, fu a lungo il testo medico più seguito da cristiani, musul-mani ed ebrei.50 Altre sue opere sono state tradotte in latino: il trat-tato di medicina Rectificatio medicationis et regiminis51 e due trattati sulle febbri, tradotti in latino a Venezia nel 1578. Inoltre: il Kitāb al-iqtiṣād fī iṣlāḥ al-anfūs wa al-ajsād (Libro sull'andamento della riforma degli spiriti e dei corpi) in cui passa in rassegna diverse malattie e le rispettive differenti terapie, tratta dell'igiene e del ruolo svolto dal-la psicologia nei trattamenti medici; il Kitāb al-aghdhiya (Il libro delle derrate alimentari), libro sui diversi rimedi farmacologici, sull'im-

portanza degli alimenti e sui loro effetti sulla salute.

Il contributo di Averroé alla medi-cina è legato soprattutto a due opere, delle quali sono state fatte traduzioni in latino nel XVI secolo: un manuale com-pleto di medicina in sette libri - che in particolare nel primo espone l'anatomia del corpo umano - intitolato Kitāb al-Kulliyyāt fī al-Tibb, più noto in Occidente come Colliget,52 e il commento al poema medico Cantica di Avicenna. Anche la seconda opera è un compendio di tutta la medicina, con nozioni anche di chi-rurgia. Altre opere mediche di Averroé ci sono state tramandate in latino: il li-

50 Cfr. Internet Encylocpedia of Philosophy (http://www.iep.utm.edu/). 51 Edizioni di Venezia del 1490 e di Lione del 1531. 52 Colliget è una alterazione del primitivo Colliet, trascrizione, in base alla pronunzia ara-bo-spagnola, del titolo arabo al-Kulliyyāt (generalità).

Fig. 27 - Statua di Averroè a Cordova.

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bretto De spermate53 e il trattatello De theriaca.54 Averroè, come già aveva fatto Abulcasis, affrontò tematiche mediche "scandalose" per quei tempi, quali la dissezione dei cadaveri e l'autopsia, po-nendosi in contrasto con l'interpretazione religiosa del Corano da parte del filosofo al-Ghazali, che condannava queste pratiche co-me contrarie all'Islàm. Alle obiezioni di al-Ghazali, Averroè rispo-se che «chiunque si sia occupato di anatomia e dissezione a scopo scientifico, ha incrementato la sua fede in Dio».55 Averroè si occu-pò pure di temi medici legati al sesso, identificando le cause delle disfunzioni sessuali, per il cui trattamento prescrisse per primo opportune medicazioni. Si occupò pure di psicologia e di neurolo-gia, identificando l'esistenza di una malattia simile, per i sintomi da lui descritti, al morbo di Parkinson. Per primo comprese che la visione è dovuta a proprietà fotorecettive della retina.56

La scuola medica di Salerno La fondazione della celebre Scuola di medicina salernitana è in

parte avvolta dalla leggenda ma è legata senz'altro agli arabi. È certo che vi contribuì un medico ebreo di nome Donnolo, dopo il periodo della sua prigionia presso i saraceni. Ma il contributo maggiore all'affermazione della Scuola venne da parte di un mer-cante di Cartagine, del quale si ignora il nome arabo e noto come Costantino l'Africano, che dopo un viaggio a Salerno si sentì for-temente interessato alla medicina, tanto che tornando in patria si mise a collezionare un buon numero di opere arabe su quella di-sciplina. Successivamente si imbarcò con questi testi alla volta di Salerno e vi approdò, secondo la leggenda, dopo un naufragio.

53 Soltanto nel vol. XI dell'edizione latina di Averroé fatta a Venezia dal Comino nel 1560. 54 Cfr. voce Averroè in Enciclopedia Italiana, Op. cit. 55 Cfr. Emilie Savage-Smith , Attitudes Toward Dissection in Medieval Islam, in «Journal of the History of Medicine and Allied Sciences», ed. Oxford University Press, vol.50 pp. 67-100. 56 A. Martin-Araguz, C. Bustamante-Martinez, Ajo V. Fernandez-Armayor, J. M. Mo-reno-Martinez, Neuroscience in al-Andalus and its influence on medieval scholastic medicine, in «Revista de neurología» 34 (9), 2002, p. 877-892.

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Convertitosi al cristianesimo divenne un monaco benedettino presso il Monastero di Cassino e qui tradusse in latino i testi arabi di medicina che aveva portato da Cartagine.

La creazione della Scuola medica salernitana è considerata la prima forma di università nel senso moderno del termine. E anche se ufficialmente si ha notizia della sua organizzazione interna sol-tanto nel 1231, quando Federico II di Svevia procedette a riordi-narla, stabilendo che fosse l'unica facoltà di medicina del Regno, le origini della Schola Medica Salernitana risalgono al IX-X secolo e quindi cronologicamente precede l'Alma Mater Studiorum di Bolo-gna che ufficialmente viene considerata la prima università euro-pea in ordine cronologico, essendo stata istituita nel 1088.

8. L'Islàm per la matematica Nell'VIII secolo gli arabi si erano limitati soprattutto ad acqui-

sire le conoscenze matematiche dei greci e degli indiani, attraverso traduzioni di opere greche e indiane a loro pervenute in siriaco, in persiano e in sanscrito. È pure probabile che attinsero a fonti della matematica babilonese. Tutte queste fonti - ma soprattutto quelle greche e indiane - hanno influenzato i loro successivi contributi o-riginali, che riguardano quattro branche della matematica: aritme-tica, algebra, trigonometria e geometria. I matematici musulmani erano sostanzialmente degli eclettici: sceglievano dalla matematica greca, babilonese e indiana ciò che era più consono alla loro men-talità, essenzialmente concreta e pratica.

Fra le centinaia di matematici islamici57 ricordiamo soltanto le figure maggiori: Mohammed ibn-Musa al-Khwārizmi, abd-al-Hamid ibn-Turk, Thabit ibn-Qurra, Abu'l-Wafa, al-Karkhi (o al-Karaji), Avicenna, al-Biruni, Alhazen, ibn-Yunus, Omar Khayyam, Nasir al-Din al-Tusi, al-Kashi, Abu Kamil.

57 Heinrich Suter nella sua opera Die Mathematiker und Astronomer der Araber und ihre Werke (1900) illustra l'opera di oltre 500 matematici e astronomi islamici.

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Le geometrie non-euclidee Dei contributi alla geometria da parte dei matematici arabi

diamo soltanto un cenno alla questione delle geometrie non eucli-dee, per chiarirne l'attribuzione inesatta della loro scoperta che talvolta si legge in qualche scritto molto superficiale, e con intenti chiaramente nazionalistici, sui contributi degli scienziati islamici.

Il V degli "assiomi speciali" o "postulati" degli Elementi di Eu-clide, nella versione originale recita così:58

Ogni volta che una retta, intersecando altre due rette, forma con esse angoli interni da una medesima parte [angoli coniugati in-terni] la cui somma è minore di due retti, allora queste due rette indefinitamente prolungate finiscono con l’incontrarsi da quella parte nella quale gli angoli anzidetti formano insieme meno di due retti.

Quest’ultimo postulato è detto anche postulato delle parallele,

in quanto, anche se può sembrare strano, può essere posto nella forma logicamente equivalente e più nota a un largo pubblico, do-vuta a Proclo (410-485) e a John Playfair (1748-1819) che la riprese in epoca moderna :

Per un punto fuori di una retta, su un piano, si può condurre una parallela e una soltanto alla retta data.

Tale postulato differisce notevolmente dai precedenti, sia per

una maggiore complessità sia per una scarsa evidenza fisica. Esso è divenuto famoso nella storia della matematica, e più in generale del pensiero filosofico-scientifico, per essere stato l’origine delle geometrie non euclidee e, di conseguenza, di quel profondo mu-tamento nella concezione della matematica che ne è scaturito, ri-guardo soprattutto al significato da dare al termine "vero" in ma-tematica. La difficoltà d’intuizione di questo postulato è imputabi-le a una forma di maggiore complessità della sua elaborazione at-

58 Si fa riferimento all’elenco delle dieci proposizioni primitive degli Elementi di Euclide dato da Thomas L. Heath, considerato il maggior studioso moderno di Euclide.

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traverso i sensi, che secondo gli psicologi moderni sarebbero due: il tatto e la vista. Inoltre, fa notare Luigi Campedelli, esso richiede «una più matura educazione ai concetti matematici (perché impli-ca l’estendersi della retta all’infinito). Si aggiunga l’impossibilità di una verifica sperimentale (sempre a causa di quell’illimitata lun-ghezza della retta) sia pure nella grossolana approssimazione che è consentita dai modelli materiali degli enti geometrici astratti».59

Nel contesto di una geometria, come quella euclidea, ispirata all’esperienza fisica e quindi di stampo intuizionista, la mancanza di evidenza fisica ha fatto sospettare che il quinto postulato potes-se essere in realtà un teorema, vale a dire una proposizione deri-vabile dagli altri postulati. Lo stesso Euclide lo introduce il più tardi possibile, come 29a proposizione del 1° libro degli Elementi, dopo aver dedotto tutte le possibili conseguenze dai primi quattro postulati. Questa riluttanza di Euclide a servirsi del quinto postu-lato ha fatto sospettare che egli stesso ne avesse cercato invano la dimostrazione e che, alla fine, intuita la sua indimostrabilità, e vo-lendo d’altra parte servirsene per la dimostrazione di successive proposizioni, si fosse rassegnato a collocarlo ultimo fra i postulati.

Proprio questa sua scelta ha confermato, in epoca moderna, la genialità di Euclide.60

59 Luigi Campedelli, La struttura logica della geometria, nel volume Per un insegnamento mo-derno della matematica, edito a cura di Mario Villa sotto il patrocinio del Ministero Pubbli-ca Istruzione e dell'O.C.S.E. per le classi pilota in matematica - Patron, Bologna 1963, p. 267. 60 Per una panoramica introduttiva sulle geometrie non euclidee cfr. Luca Nicotra, Le ipo-tesi non euclidee, «Notizie in ...Controluce», nn. 7-12 (2003), nn. 1, 3, 5, 7, 10 (2004), n. 5 (2005); per approfondimenti: Roberto Bonola, La geometria non-euclidea. Esposizione storico-critica del suo sviluppo, Bologna, Zanichelli, 1906; Federigo Enriques, Conferenze sulla geo-metria non-euclidea, N. Zanichelli, 1918; Evandro Agazzi, Dario Palladino, Le Geometrie non Euclidee e i fondamenti della geometria, Milano, Edizioni Scientifiche e Tecniche Mon-dadori, 1978; Lorenzo Magnani, Le geometrie non euclidee, Bologna, Zanichelli, 1978; Rena-to Betti, Lobačevskij. L'invenzione delle geometrie non euclidee, Milano, Bruno Mondadori, 2005; Federigo Enriques, Questioni riguardanti le matematiche elementari, volume I: critica dei principii, Bologna, Zanichelli, 1912; Bertrand Russell, I fondamenti della geometria, Roma, Newton Compton, 1975; Edward Stabler, Il pensiero matematico, Torino, Boringhieri, 1970; Nikolaj Ivanovic Lobacevskij, Nuovi principi della geometria, Torino, Boringhieri, 1963; Fe-derigo Enriques, Giorgio de Santillana, Compendio di storia del pensiero scientifico, Zani-

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Tuttavia, dopo di lui molti matematici greci si cimentarono nell'impresa di dimostrare il V postulato, non essendo convinti della sua natura di postulato. I matematici arabi, che ammiravano molto la matematica greca, si appassionarono anch'essi alla "que-stione del V postulato di Euclide". Fra di essi sono da ricordare soprattutto tre nomi: Alhazen, Omar Khayyam e Nasir al-Din al-Tusi. Va detto che tutti i tentativi di dimostrazione del V postulato sono falliti per la stessa ragione: non erano validi perché assume-vano come premessa (o ipotesi) una proposizione che era logica-mente equivalente al V postulato stesso. Questa situazione si pro-trasse, coinvolgendo di volta in volta grandi matematici, fino al 1733, anno in cui il gesuita Giovanni Gerolamo Saccheri, fervido seguace di Euclide, nell’anno stesso della sua morte diede alle stampe la sua opera Euclides ab omni naevo vindicatus, concepita con l’intento di dimostrare il quinto postulato e in tal modo “libe-rare” (in latino vindicare) da ogni difetto (naevo) gli Elementi del grande matematico alessandrino. Derivando quel postulato dai precedenti, per tutti evidenti e quindi “veri”, era convinto di con-sacrare finalmente la verità eterna e assoluta della geometria eu-clidea, dissipando qualsiasi dubbio sulla sua validità che potesse nascere da quel famigerato postulato. Saccheri cercò di conseguire il suo scopo applicando il tipo di ragionamento proprio delle di-mostrazioni per assurdo61 - che aveva già magistralmente illustra-to in una sua opera, titolata Logica demonstrativa (1697) - assumen-

chelli, Bologna 1937; Attilio Frajese, Attraverso la storia della matematica, Firenze Le Mon-nier, 1971; Eric Temple Bell, I grandi matematici, Firenze, Sansoni, 1950; Guido Zappa, La matematica, oggi, Roma, Universale Studium, 1952; Federigo Enriques - Per la storia della logica, Bologna, Zanichelli, 1922; Pietro Nastasi, , Le conferenze americane di Klein, «Note di Matematica, Storia e Cultura», 3-4, PristemStoria, Milano, Springer-Verlag, 2000, pp. 12-15. 61 Per dimostrare una tesi T conseguente da un'ipotesi I, nelle dimostrazioni per assurdo si segue un metodo indiretto, mostrando che assumendo “temporaneamente” che sia ve-ra la tesi non-T allora consegue non-I. In tal modo si mostra che dalla negazione della te-si discende la negazione dell’ipotesi, e ciò è assurdo poiché l’ipotesi I è la proposizione che accettiamo vera per assunzione e d’altra parte, per il principio di contraddizione, non può essere contemporaneamente I e non-I. Dunque se la negazione della tesi porta a una contraddizione, per il principio del terzo escluso dev’essere vero T e non “non-T”.

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do successivamente come ipotesi ciascuna delle due possibili ne-gazioni del V postulato, ossia, riferendoci alla sua forma più diffu-sa di cui si è detto, ammetteva che data una retta su un piano, per un punto fuori di essa, in un caso si potesse tracciare più di una retta parallela ad essa e nell'altro, invece, nessuna. In sintesi Sac-cheri osservava che la geometria costituita dalle prime 28 proposi-zioni di Euclide + la negazione del quinto postulato + tutte le pro-posizioni derivate risulterebbe contraddittoria perché conterrebbe sia la negazione del quinto postulato sia il quinto postulato stesso, che, come teorema, sarebbe conseguenza delle prime 28 proposi-zioni degli Elementi. Saccheri condusse il suo "ragionamento per assurdo" riferendosi a un quadrangolo (detto poi quadrangolo di Saccheri) di cui considerava i tre possibili casi per due suoi angoli adiacenti, mutuamente escludentesi: entrambi retti, acuti, ottusi. Saccheri, nel caso degli angoli retti credé di dimostrare il V postu-lato, ma in realtà sbagliò come tutti i suoi predecessori in quanto l'ipotesi degli angoli retti era un'altra forma equivalente del V po-stulato. Invece, le altre due ipotesi, degli angoli acuti e ottusi, lo portarono, da quel grande logico che era, ma con suo disappunto, a conclusioni non contraddittorie, che corrisponderanno a quelle che poi saranno le due geometrie non-euclidee ellittica e iperboli-ca. Saccheri, però, cercò di camuffare, come un suo errore, le sue conclusioni logicamente corrette, in quanto inaspettatamente op-poste a quelle che sperava di ottenere per vindicare il suo Euclide. In tal senso Saccheri, suo malgrado, deve essere considerato il pa-dre delle geometrie non-euclidee.

Vediamo ora quale è stato il contributo dei matematici islamici alla nascita delle geometrie non-euclidee.

Alhazen è stato il primo dei tre principali precursori arabi del-le geometrie non euclidee, tentando di dimostrare il V postulato di Euclide ragionando su un quadrilatero trirettangolo che sarà poi ripreso nel XVIII secolo dal matematico svizzero Johann Heinrich Lambert.

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Dopo Alhazen, Omar Khayyam (1050 circa-1122) tentò, anche lui invano, di dimostrare il V postulato secondo un ragionamento simile a quello che poi sarà seguito da Gerolamo Saccheri.62

Infine Nasir al-Din al-Tusi (1201-1274), il cui nome completo è Muhammad ibn Muhammad ibn al-Hasan al-Tusi, come tutti i suoi predecessori tentò invano di dimostrare il V postulato in quanto assumeva un'ipotesi che equivaleva allo stesso postulato che intendeva dimostrare. La sua "falsa" dimostrazione è contenu-ta in un'opera intitolata Schakl al Kutta e considera lo stesso qua-drilatero di Omar Khayyam.63 Al-Tusi è stato anche uno dei due

ultimi grandi matematici musulmani prima del declino della civiltà islamica, che ebbe inizio nel XV secolo. È stato uno dei rappresentanti più significativi dello spirito interdisciplinare che ha caratterizzato gli scienziati musulmani. Infatti, fu anche astronomo, fisico, chimico, biologo, filosofo e teologo.64

Dunque, i matematici arabi non scoprirono le geometrie non euclidee, ma certamente fu importante soprat-tutto il tentativo di dimostrazione del V postulato da parte di Omar Khay-yam, in quanto fu ripreso da Saccheri, al quale invece, suo malgrado come abbiamo visto,65 si deve la prima di-

62 Cfr. D. E. Smith, Euclid, Omar Khayyam and Saccheri, «Scripta Mathematica», 3, 1935,, pp. 5-10. 63 Cfr. Roberto Bonola, Non-Euclidean Geometry, New York, Dover, 1955; A. Braunmühl, Nazir-ed-din und Regiomontanus, «Nova Acta Leopoldina 71 (1897); cfr. anche Schakl al Kutta - Traité du quadrilatere attribué aà Nassir-uddin-el-Toussy, traduit par Alexandre Pa-scha Caratheodory, Costantinople 1891. 64 Cfr. voce Nasir al-Din al-Tusi in MacTutor History of Mathematics archive, School of Mathematics and Statistics, University of St Andrews, Scotland, http://www-history.mcs.st-and.ac.uk/Biographies/Al-Tusi_Nasir.html. 65 Suo malgrado, in quanto Saccheri voleva dimostrare invece la validità logica della ge-ometria euclidea come "unica" possibile geometria.

Fig. 28 - Nasir al-Din al-Tusi.

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mostrazione della validità logica di geometrie fondate sulle due possibili negazioni del V postulato di Euclide.

Algebra e aritmetica Gli arabi non furono gli inventori dell’algebra, come qualche

volta erroneamente si legge, ma certamente ebbero un ruolo im-portante nel consentire il passaggio dalle prime rudimentali forme dei greci alle forme e agli sviluppi che le dettero gli algebristi ita-liani del Rinascimento, vissuti nel XVI secolo: Gerolamo Cardano, Niccolò Fontana detto il Tartaglia, Ludovico Ferrari, Scipione Dal Ferro, Raffaele Bombelli.66

Fra i numerosi matematici islamici che dettero contributi allo sviluppo dell'algebra, certamente occupa un posto di primo piano Mohammed ibn-Musa al-Khwārizmi (a volte scritto Khuwārizmi e al-Hovarezmi), nativo della provincia di Khowarezm (o Chwa-

rizm), che visse nel seco-lo IX, essendo morto prima dell'850, e lavorò come astronomo e ma-tematico alla Casa della Sapienza (Bait al-hikma) al tempo del califfo Al-Ma'mùm. Da questi eb-be l'incarico di redigere degli estratti del Sin-dhind, di studiare le ta-vole astronomiche di Tolomeo, di fare osser-

vazioni astronomiche a Baghdād e Damasco e di misurare il grado

66 Sono però da ricordare anche il francese Nicolas Chuquet (morto verso il 1500 e del quale si sa soltanto che nacque a Parigi ed era medico) con la sua opera Triparty en la science des nombres (1484), e Luca Pacioli (1445-1514) con la sua celeberrima Summa de ari-thmetica, geometria, proportioni et proportionalità (1494), che se non è stato il primo è stato però il più famoso trattato di algebra di quel periodo. Cfr. Carl B. Boyer, Op. cit. pp. 320-334.

Fig. 29 - Statua di al-Khwarizmi a Khiva, in Uzbekistan.

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terrestre, al fine di ottenere una misura precisa del diametro della Terra.67 Per identificare in maniera precisa una persona, gli arabi usavano una "stringa" di parole molto lunga dove specificavano il suo nome, i nomi di un figlio, del padre e del luogo natale. Il nome completo di questo grande matematico persiano è infatti Abu Ab-dallāh Mohammed ibn-Musa al-Khwārizmi, che significa: Mo-hammed, padre di (abu) Abdallāh, figlio di (ibn) Mosè (Musa), o-riginario di (al) Khwārizmi. Generalmente, lo si cita semplicemen-te come al-Khwārizmi o anche al-Khuwarizmi.68

Scrisse più di una mezza dozzina di opere di astronomia e di matematica, probabilmente basate sul Sindhind indiano, tavole a-stronomiche, trattati sull'astrolabio e due opere di matematica, che hanno avuto una notevole importanza e influenza sullo sviluppo della matematica in Occidente.

La prima è un'opera di aritmetica, scritta nell'825 circa, della quale si è perduto l'originale arabo. La sua importanza risiede nell'esposizione sistematica delle operazioni aritmetiche, con nu-meri sia interi sia frazionari, eseguite con le cifre indiane e il si-stema di numerazione decimale posizionale.

Nel 1857 il principe Baldassarre Boncompagni, matematico e storico della scienza, trovò, nella University Library di Cambridge, il codice (ms. Ii. vi. 5) di una traduzione latina medioevale di que-sta opera, fatta probabilmente da Adelardo di Bath nel XII secolo, e la fece pubblicare a Roma con il titolo Algorizmi de numero Indo-rum, poiché il manoscritto non aveva un titolo. A volte la stessa opera viene titolata con le parole iniziali Dixit algorizmi (figura 30) 67 Gaetano Fazzari, Breve storia della Matematica dai tempi antichi al Medio Evo, Palermo, Sandron, 1907. 68 Le forme latinizzate dei nomi arabi presentano spesso molte differenze, dovute al di-verso modo in cui si tenta di riprodurre il suono del nome arabo. Nel caso di questo ma-tematico, la forma araba completa del suo nome sarebbe più opportuna per eliminare una falsa identità. Infatti, esiste un altro matematico, vissuto però sotto il califfo Al-Motaded, che regnò negli anni 892-902, il cui nome completo è Abu Ja'far Mohammed ibn-Musa Al-Khwārizmi con il quale per lungo tempo è stato confuso Abu Abdallāh Mohammed ibn-Musa Al-Khwārizmi poiché nella maggior parte dei manoscritti compa-re soltanto Mohammed ibn-Musa Al-Khwārizmi senza la parte iniziale del nome com-pleto, che specifica "padre di" ovvero "abu". Cfr. Keith Devlin, Op. cit., pp. 67-68 e 75-76.

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o, più semplicemente, come Aritmetica di Al-Khwarizmi. È da que-sta traduzione che è poi derivata la latinizzazione "Algoritmi" di Al-Khwarizmi:

Quivi la parola Algoritmi, ovvero, come è anche scritta, algori-

smi, è la trascrizione sufficientemente esatta del soprannome arabo Al Howarezmi del detto autore. Tuttavia più tardi si ritenne questa forma per un genitivo latino e liber Algorismi fu adoperato nel Me-dioevo come titolo di libri di Aritmetica (Algorismus); ed essendosi perduta poi tradizione sull'origine di questa parola, fu creduta di origine greca e trasformata in Algoritmus, ch'è al presente in uso presso tutte le lingue europee per denotare un regolare schema a-ritmetico. Singolare trasformazione per la quale il nome di una provincia persiana ottenne questo significato. 69

Considerando algorismi come genitivo latino si deve sottinten-

dere ovviamente il nominativo liber, per cui la frase iniziale suone-

69 Gaetano Fazzari, Al Howarezmi, famoso matematico arabo, in Scienza e scienziati ( a cura di Roberto Giannarelli e Biagio Giannelli), Firenze, Le Monnier, 1960, p. 64.

Fig. 30 - Particolare della prima pagina del manoscritto di Abu Abdallāh Mohammed ibn-Musa al-Khwārizmi, inizialmente titolato dalle prime pa-role, Dixit algorizmi, poi rinominato da Baldassarre Boncompagni Algori-zmi de numero Indorum,

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rebbe così: Dixit algorismi liber de numero indorum, ovvero «Afferma il libro di aritmetica sui numeri indiani». In particolare, con la pa-rola Algoritmus, si indicò nel Medioevo l'uso del sistema di nume-razione decimale e posizionale degli indiani. Successivamente lo stesso termine è stato usato, in maniera più generale, per indicare uno schema di calcolo, di operazione, un procedimento di solu-zione di un problema, fino al suo significato attuale nell'informati-ca, dove per algoritmo si intende un elenco di istruzioni che in un numero finito di passi risolvono un determinato problema.

La seconda opera, Kitâb al-Mukhtasar fî Hisâb al-Jabr wa'l-Muqâbala (Libro sul calcolo attra-verso restaurazione e opposizione),70 fu scritta intorno all'830, su invi-to del califfo Al-Ma'mùm di scrivere un'opera divulgativa sull'algebra.

È tutt'oggi dibattuta la que-stione dell'originalità di quest'o-pera, mentre è universalmente riconosciuto che per la sua espo-sizione chiara, sistematica ed e-lementare l'al-jabr di al-Khwarizmi ha avuto una grande diffusione e influenza sull'opera dei matematici occidentali, tanto da far credere a molti che lui stesso fosse l'inventore dell'alge-bra.

70 Ce ne sono rimasti cinque manoscritti arabi, ma non tutti completi. Un manoscritto a-rabo completo si trova ad Oxford. Diverse traduzioni in latino: nel 1145 da Roberto di Chester, nel 1150 circa da Gherardo da Cremona, nel 1250 circa da Guglielmo di Lunis, al quale si deve forse anche una traduzione nel vernacolo italiano. (cfr. Keith Devlin, Op. cit. p. 206 nota 2 del cap. 4).

Fig. 31 - Una pagina del libro Kitâb al-Mukhtasar fî Hisâb al-Jabr wa'l-Muqâbala di Al-Khwarizmi.

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Questa, invece, aveva avuto nel greco Diofanto (III-IV secolo a.C.) e nell'indiano Brahmagupta (598-668) due precedenti impor-tanti antesignani.

Diofanto è vissuto ad Alessandria d'Egitto verso il 250 d. C. Non si sa nulla della sua vita. Delle sue opere sono pervenute a noi un libro sui Numeri poligonali e i primi sei libri della sua celebre Arithmetica, scoperti da Raffaele Bombelli (gli altri sette sono an-dati perduti). Pur essendo titolata Arithmetica, la sua opera costi-tuisce, in realtà, l'inizio del calcolo algebrico - per tale motivo è considerato il "padre dell'algebra" - spingendosi fino alla risolu-zione numerica delle equazioni di 2º grado. È probabile che la sua opera sia stata il punto di partenza dell'algebra araba ed è, invece,

certa la sua influenza sulla scuola algebrica italiana rinascimentale. Alcuni termini algebrici tutt'oggi in uso - per esempio il termine "potenza" - derivano da Diofanto. La maggior parte dei problemi della sua Arithmetica sono, però, di analisi indeterminata e non di algebra elementare, in quanto Dio-fanto cercava le soluzioni intere di equazioni a coefficienti interi. Infatti, è rimasto il nome di equa-zioni diofantee alle equazioni linea-ri, a coefficienti interi, di cui si chiedono le soluzioni in numeri interi, e l'analisi indeterminata va anche sotto il nome di analisi dio-fantea. La sua Arithmetica è nota anche al grande pubblico per l'abi-tudine del grande matematico francese Pierre de Fermat di anno-tare al margine di una sua copia

Fig. 32 - La copertina del libro Ari-thmetica di Diofanto curata da Claude Gaspard Bachet (1621).

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stampata71 le sue osservazioni, che in realtà erano nuovi teoremi, dei quali per lo più il grande matematico francese dava soltanto l'enunciato, dichiarando di averne trovato una dimostrazione che non entrava nel margine del libro. In effetti, tali teoremi enunciati da Fermat sono stati, poi, dimostrati tutti, tranne uno (detto l'ulti-mo teorema di Fermat) che a lungo ha impegnato invano le più grandi menti matematiche72, quello scritto a margine della que-stione 8 del libro 2 dell'Arithmetica diofantea:

Testo di Diofanto: Dividere un quadrato dato in due quadrati Annotazione di Fermat: Non è invece possibile dividere un

cubo in due cubi, o un biquadrato in due biquadrati, né, in genera-le, dividere alcun'altra potenza di grado superiore al secondo in due altre potenze dello stesso grado: della qual cosa ho scoperto una dimostrazione veramente mirabile, che non può essere conte-nuta nella ristrettezza del margine.73

In altri termini: non esistono soluzioni intere positive dell'e-

quazione xn + yn = zn per n>2. Nei contenuti, l'Arithmetica di Diofanto non può essere consi-

derata pienamente un'esposizione di problemi algebrici, in quanto contiene la formulazione in termini specifici numerici di 150 pro- 71 Si trattava di una edizione dell'Arithmetica di Diofanto del 1621 curata da Claude Ga-spard Bachet, comprendente anche una traduzione latina e arricchita di commentari del-lo stesso Bachet. 72 L'ultimo teorema di Fermat è stato finalmente dimostrato nel 1994 con una lunghissima dimostrazione di oltre 200 pagine (poi ridotte a 130) dal matematico inglese Andrew Wi-les, con sofisticati strumenti della geometria algebrica, delle rappresentazioni di Galois, della teoria delle curve ellittiche e delle forme modulari dell'algebra di Hecke, ovvero di strumenti matematici di cui non si disponeva al tempo di Fermat! 73 Pierre de Fermat, Osservazioni su Diofanto, Torino, Boringhieri, 1969, p. 18. La prima e-dizione uscì nel 1670, cinque anni dopo la morte di Fermat, per cura del figlio Samuel. Una prima ristampa si ebbe soltanto nel 1891. Il titolo, molto lungo e in latino, recitava: Diophanti Alex. Arithm. libri sex... Cum commentariis C.G. Bcheti V. C. et Observationibus Domini Petri de Fermat Senatoris Tolosani. Accessit Doctrinae Analyticae inventum novum, col-lectum ex variis eiusdem D. de Fermat epistolis. Il testo originale di Fermat è: « Cubum au-tem in duos cubos, aut quadratoquadratorum in duos quadratoquadratos, et generaliter nullam in infinitum ultra quadratum potestatem in duos eiusdem nominis fas est divide-re. Cuius rei demonstrationem mirabilem sane detexi hanc marginis exiguitas non cape-ret »

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blemi e non un'esposizione sistematica dei metodi di soluzione delle equazioni e delle operazioni algebriche. Invece, dal punto di vista della notazione rispetto a opere "algebriche" precedenti che utilizzavano un linguaggio "a parole", Diofanto fa un passo avanti perché anticipa l'uso della notazione simbolica introducendo ab-breviazioni nel linguaggio.

A Brahmagupta si deve l'introduzione dello zero come nume-ro,74 nella sua opera in 25 capitoli Brahmasphuta Siddhanta scritta nel 628. Il matematico indiano considera lo zero come risultato della sottrazione di un numero da se stesso e ne fornisce alcune proprietà elementari:

... quando lo zero viene sommato a un numero o sottratto da

un numero, tale numero rimane invariato; e un numero moltiplica-to per zero diventa zero.

e, ragionando in termini di «fortune» per i numeri positivi e di «debiti» per quelli negativi, diede anche alcune elementari regole sulle operazioni aritmetiche sui numeri relativi (positivi e negati-vi):

Un debito meno zero è un debito. Una fortuna meno zero è una fortuna. Zero meno zero è zero. Un debito sottratto da zero è una fortuna. Una fortuna sottratta da zero è un debito. Il prodotto di zero moltiplicato per un debito o una fortuna è zero.75

Che in termini di notazione moderna, a tutti ben nota, deno-

tando con a un numero assoluto (positivo) equivale a:

-a - 0 = -a +a - 0 = +a 0 - 0 = 0

74 Precedentemente lo zero non era considerato un numero ma soltanto una cifra utile per designare gli spazi vuoti nella notazione posizionale: per es. 1038. 75 Keith Devlin, Op. cit., p. 31.

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0 - (-a) = +a 0 - (+a) = -a 0 x (-a) = 0 oppure 0 x (+a) = 0

L'algebra araba ha avuto, quindi, dei predecessori greci e in-

diani, ma secondo lo storico della matematica Carl Boyer, il titolo di "padre dell'algebra" spetterebbe, più che a Diofanto, ad al-Kwarizmi, per la maggiore vicinanza della sua opera all'algebra elementare moderna.76 Senza dubbio è dal termine al-jabr del titolo originale dell'opera di al-Kwarizmi che è derivato il termine stesso "algebra" usato poi in Occidente. Vale la pena di soffermarsi sul significato delle due parole al-jabr e al-muqābalah che non è ben no-to. L'interpretazione più accreditata è la seguente.

Al-jabr verrebbe da jabara, - che significa accomodare un mem-bro rotto, riparare - per indicare l'operazione di trasporto (con se-gno cambiato) di un termine da un membro all'altro di un'equa-zione. Tale operazione era intesa come "riparazione" dell'equazio-ne, in quanto era resa necessaria per avere alla sinistra e alla destra del segno di uguaglianza soltanto termini positivi e diversi da ze-ro. Per gli arabi, e poi anche per i primi algebristi italiani, una e-quazione con uno dei due membri nullo non aveva senso, contra-riamente a quanto invece oggi siamo abituati con l'equazione scrit-ta in forma canonica.77

Al-Muqābalah deriverebbe invece da mokabolad, - che significa compensazione, confronto - per indicare l'operazione di confronto dei termini simili (aventi la stessa parte letterale) presenti nei due membri di un'equazione e la conseguente loro riduzione (addizio-ne o sottrazione).

76 Carl B. Boyer, Breve storia della Matematica dai tempi antichi al Medio Evo, Op. cit., p. 267. 77 Il primo a usare equazioni con un membro nullo (forma canonica) è stato il matemati-co, astronomo e cartografo inglese Thomas Harriot (1560-1621), che nel luglio 1609 ave-va puntato il cannocchiale, da lui costruito, verso la Luna, seguito poi nel novembre del-lo stesso anno da Galileo, le cui osservazioni lo portarono alla scoperta dei crateri lunari. Cfr. Luca Nicotra, L'ideale estetico nell'opera dello scienziato, in Nello specchio dell'altro, ri-flessi della bellezza tra sarte e scienza (a cura di Luca Nicotra e Rosalma Salina Borello), Roma, UniversItalia, 2011, pp. 23, 24.

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Per esempio, da 2x2 - 5x - 9 = 2x + 7 per al-jabr si ottiene 2x2 = 5x + 2x + 7 + 9 e per muqābalah si ha poi 2x2 = 7x + 16.

Tuttavia, secondo altri, jabr sarebbe un termine assiro che sta per equazione e muqābalah non sarebbe altro che la sua traduzione araba.78

C'è da chiedersi perché gli arabi chiamassero "riparazione" (al-jabr) e "compensazione" (al-muqābalah) quelle che per noi sono le operazioni di "trasporto" di un termine da un membro all'altro dell'equazione e di successiva "riduzione" dei termini simili. A tale scopo è necessario tenere presente che gli arabi non riconoscevano i numeri negativi, come noi oggi siamo abituati. Chiamavano "co-sa" (shay) o "radice" (jidhr) l'incognita x e numeri semplici quelli noti (5, 78, 23, ecc...) . Un'espressione come 12 - 2x veniva pertanto da loro interpretata come "il numero (semplice) 12 diminuito di due cose", ovvero il numero 12 veniva considerato come un 12 "difet-toso", un 12 al quale, pur conservando la sua identità come nume-ro, mancava una parte rappresentata da "due cose". Occorreva pertanto "restaurare" l'integrità di 12 portando nell'altro membro dell'equazione le "due cose" (2x) che venivano eventualmente ag-giunte o sottratte alle altre cose che ivi si trovassero. In altri termi-ni, restaurare e compensare significava mettere in un membro dell'equazione tutti i "numeri semplici" e nell'altro membro tutte le "cose", eseguendo su ciascuno di tali gruppi eventuali addizioni o sottrazioni. Per esempio, nell'equazione 2x2 +5x = 7 - 2x, gli arabi dovevano "restaurare (al-jabr) il 7 con le due cose" a secondo membro portando le due cose (2x) al primo membro e aggiungen-dole alle altre cose ivi presenti: 2x2 +5x +2x = 7, da cui poi per "compensazione" (muqābalah) ottenevano 2x2 +7x = 7.79

L'algebra di al-Khwarizmi trattava fino alle equazioni di se-condo grado, riconoscendo, a differenza dei greci, anche le radici irrazionali. Contiene il più antico frammento di geometria della

78 Solomon Gandz, The origin of the Term "Algebra", in «American Mathematical Montly», 33, 1926, pp. 437-440. 79 Cfr. J. A. Oaks, M. H. Alkhateeb, Simplifying Equations in Arabic Algebra, in «Historia Mathematica 34», n. 1 febbraio 2007, pp. 45-61.

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letteratura scientifica araba, il teorema di Pitagora sui triangoli ret-tangoli (chiamato dagli arabi Figura della sposa), ma soltanto nel ca-so limitato dei triangoli isosceli. Inoltre, sono presenti le regole per il calcolo delle aree del triangolo, del parallelogramma, del cerchio e per il volume dei corpi solidi poliedrici (esclusi quindi sfera e ci-lindro).80 Il carattere pratico degli arabi è ben visibile nelle parole della stessa prefazione all'algebra di al-Khwarizmi, che dopo aver elargito grandi lodi al profeta Maometto e al califfo al-Ma'mùm scrive di essere stato da questi invitato a:

... comporre una breve opera sul calcolo per mezzo (delle re-

gole) di al-jabr (restauro) e muqābalah (riduzione), limitandosi a quegli aspetti più facili e utili della matematica di cui ci si serve co-stantemente nei casi casi di eredità, donazioni, distruzioni, senten-ze e commerci e in tutti gli altri affari umani, o quando si vogliono effettuare misurazioni di terreni, scavi di canali, calcoli geometrici e altre cose del genere.81

Una caratteristica dell'algebra di al-Khwarizmi è l'assenza del-

la notazione simbolica, che invece è tipica dell'algebra. Al-Khwarizmi indicava con le cifre indiane i numeri che, nell'algebra cui siamo abituati noi, vanno invece intesi non specificati e quindi rappresentati con lettere per porne in evidenza la loro "generalità". Era evidentemente un retaggio del vecchio modo di pensare "a-ritmetico" di stampo babilonese. Si dovette superare questo limite per diffondere in maniera moderna il contenuto dell'algebra di al-Khwarizmi in Occidente, dove ebbe la stessa importanza e noto-rietà degli Elementi di Euclide. La presenza di alcuni problemi e l'impostazione rigorosamente numerica dei sei capitoli dedicati al-la soluzione delle equazioni di secondo grado fanno ipotizzare la presenza dell'influenza della matematica babilonese, mentre il ri-corso alla geometria nelle dimostrazioni delle proprietà algebriche è di sicura ispirazione greca. 80 Gaetano Fazzari, Breve storia della Matematica dai tempi antichi al Medio Evo, Op. cit. 81 L.C. Karpinsky, Robert of Chester's Latin Translation of the Algebra of al- Khuwarizmi, New York, Macmillan, 1915, p. 46.

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Un altro matematico islamico contemporaneo di al-Khwarizmi, di nome abd-al-Hamid ibn-Turk, aveva scritto (forse anche prima di al-Khwarizmi) un'opera algebrica molto simile nei contenuti, nell'impostazione e nelle dimostrazioni a quella di Mo-hammed ibn-Musa. Di essa ci è pervenuta, recentemente, soltanto una parte attraverso un manoscritto intitolato Necessità Logiche in Equazioni Miste.82 Le forti somiglianze fra le opere algebriche dei due matematici induce a pensare che l'algebra, ai tempi dei loro autori, fosse un argomento ormai consolidato e che i due matema-tici più che autori originali fossero soprattutto dei trattatisti. Que-sta interpretazione sarebbe anche avvalorata dalla stessa dichiara-ta finalità divulgativa di queste opere, che presuppone l'esistenza di una materia già consolidata. Qualcosa del genere si era già pre-sentato per Euclide con i suoi Elementi.

Dopo al-Khwarizmi un grande algebrista di origini egiziane,

Abu Kamil Shuja ibn Aslam ibn Muhammad ibn Shuja (850-930 circa), scrisse un'altra famosa opera di algebra dal titolo Kitab fil-jabr wa'l muqabala, nella quale sono usati anche numeri irrazionali come coefficienti delle equazioni. Abu Kamil, considerato il più grande algebrista arabo dopo Al-Khwarizmi, scrisse numerose al-tre opere, purtroppo andate perdute: Libro della fortuna, Libro della chiave per la fortuna, Libro dell'adeguato, Libro sui presagi, Libro dell'essenza, Libro dei due errori, Libro sull'aumento e la diminuzione. Ci sono invece pervenuti il Libro sull'algebra, il Libro delle cose rare nell'arte del calcolo, il Libro sulla misurazione dei terreni e la geometria.

Entrambe le opere di algebra di al-Khwarizmi e di Abū Kāmil molto probabilmente furono studiate da Leonardo Fibonacci, tra-endo da esse molti spunti per il suo famoso Liber Abbaci.83

82 Aydin Sayili, Logical Necessities in Mixed Equations by 'Abd al Hamid ibn-Turk and the Al-gebra of is Time, Ankara, 1962. 83 Probabilmente, altre fonti del Liber Abbaci furono anche altre opere islamiche: il Libro su rapporto e proporzione di Ahmad ibn Yuysuf ibn al-Daya, il Libro sulla geometria dei Ba-nū Mūsā e anche il Liber mahamalet di Giovanni da Siviglia, un'opera di aritmetica per i commercianti (cfr. Keith Devlin, Op. cit., p. 79.

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Se al-Khwarizmi, nel suo ruolo di trattatista, può essere para-gonato a Euclide, Thabit ibn-Qurra (836-901) può essere conside-rato, nel suo ruolo di commentatore di opere matematiche, l'alter ego arabo del matematico alessandrino Pappo.

A Thabit si deve la creazione di una scuola di traduttori impe-gnati nella traduzione, dal greco e dal siriaco all'arabo, di gran parte delle opere dei grandi matematici greci: Euclide, Archimede, Apollonio, Tolomeo ed Eutocio.

A lui si deve, senza però dimostrazione, una generalizzazione a tutti i tipi di triangoli del teorema di Pitagora sul triangolo ret-tangolo, esprimibile nella formula:

AB2 + AC2 = BC (BB3+C3C) = BC x BB3 + BC x C3C

essendo BC = BB1 = CC1 e i punti B3 e C3 le intersezioni di due se-mirette uscenti da A tali da formare gli angoli AB3B e AC3C con-gruenti con l'angolo in A del triangolo ABC. I quadrati costruiti su AB e su AC sono equivalenti rispettivamente ai rettangoli BB1B2B3

e CC1C2C3. In figura 33 è riportato il caso in cui l'an-golo in A è ottuso. Nel caso invece in cui fosse acuto, i punti B3 e C3 risulterebbero scambiati. Espresso a paro-le, il teorema di Pitagora generalizzato da Thabit af-ferma che la somma dei quadrati costruiti sui lati AB e AC è equivalente alla somma dei rettangoli BB1B2B3 e CC1C2C3. In altri termini si può dire, quindi, che nel caso dell'angolo in A ottuso, la somma dei quadrati costruiti sui lati AB

Fig. 33 - Teorema di Pitagora generalizza-to da Thabit per un triangolo qualunque.

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e AC è equivalente al quadrato costruito su BC diminuito del ret-tangolo B3B2C2C3. Nel caso in cui l'angolo in A sia acuto, invece, la somma dei quadrati costruiti sui lati AB e AC è equivalente al quadrato costruito su BC aumentato del rettangolo B3B2C2C3. Nel caso particolare in cui l'angolo in A sia retto, infine, i punti B3 e C3 coincidono con il punto H, proiezione ortogonale di A su BC, e quindi BB3+C3C = BC ottenendo il noto teorema di Pitagora per i triangoli rettangoli: AB2 + AC2 = BC2.84

Thabit stabilì anche una notevole formula in grado di stabilire se due numeri sono amicabili o amici, ovvero sono l'uno la somma dei divisori dell'altro. Se p, q , r sono numeri primi e hanno la forma p = 3 x 2n - 1 , q = 3 x 2n-1 - 1, r = 9 x 2n-1 - 1, allora i numeri 2npq e 2nr sono numeri amici. Compì studi sui segmenti di parabo-la e di paraboloide, sui quadrati magici e la trisezione degli angoli.

Abu Bekr ibn Muhammad ibn al-Husayn Al-Karaji, o secondo

altri al-Karkhi, (953-1029)85 fu un altro algebrista arabo. I giudizi sulla sua opera vedono divisi gli sto-rici della matematica nelle due ni di chi non gli riconosce originalità e di chi invece al contrario sostiene che fu un creativo ed ebbe anche il merito di liberare l'algebra dal retag-gio geometrico dei greci. Scrisse una sua opera di algebra, Al-fakhri fi al-jabr wa al-muqabala, nella quale consi-dera equazioni di grado superiore al secondo e fornisce le prime soluzioni numeriche, soltanto positive, di e-quazioni della forma ax2n + bxn = c anche nell'insieme dei numeri irra-

84 C. Boyer, Op. cit., p. 275. 85 Cfr. voce Abu Bekr ibn Muhammad ibn al-Husayn Al-Karaji in MacTutor History of Mathematics archive, School of Mathematics and Statistics, University of St Andrews, Scotland, http://www-history.mcs.st-and.ac.uk/Biographies/Al-Karaji.html.

Fig. 34 - Triangolo aritmetico di al-Karaji.

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zionali, aprendo la via alla matematica del Rinascimento. Fu il primo a definire il prodotto di due potenze di ugual base xnxm = xn+m. Calcolò la potenza di un binomio fino alla quinta potenza, u-tilizzando il noto schema del triangolo aritmetico in una forma simile al triangolo di Pascal (figura 34). Scoprì che la somma dei primi n numeri naturali è n volte la media aritmetica fra il primo e l'ultimo: ∑ = ( + 1) 2⁄ ; che la somma dei quadrati dei primi n numeri naturali è uguale alla somma di questi e dei prodotti di ciascuno di essi per il suo predecessore: ∑ =∑ +∑ ( −1); che la somma dei cubi dei primi n numeri naturali è uguale al quadrato della somma dei numeri stessi: ∑ =(∑ ) .86 Studiò anche le successioni numeriche x, x2, x3, ....... e 1/x, 1/x2, 1/x3.... Al-Karaji utilizzava, anche se in una forma non compiutamente rigo-rosa, il principio di induzione matematica: dimostrava un asserto nel caso di n=1, quindi lo dimostrava nel caso n=2 basandosi sul caso precedente, e così via.

L'ultimo grande matematico islamico dopo Nasir al-Din al-

Tusi, prima del declino della civiltà islamica che ebbe inizio nel XV secolo, è stato Ghiyath al-Din Jamshid Mas'ud al-Kashi (1380-1429),87 al quale si deve il calcolo più preciso di π, prima della fine del XVI secolo. Fu un abilissimo calcolatore e affermò per primo in maniera autorevole l'uso delle frazioni decimali nel mondo arabo, dove le frazioni sessagesimali erano ancora considerate più con-venienti per ottenere approssimazioni più elevate nei calcoli. Svi-luppò un metodo di calcolo della radice n-esima di un numero che costituisce un caso particolare del metodo generale poi sviluppato nel XVIII secolo da William George Horner (1786- 1837) e da Paolo Ruffini (1765-1822).

86 In Luca Nicotra, Le proprietà della tavola pitagorica, «Alice&Bob» 2013; n. 36-37: pp. 46-52, MatePristem, Università Bocconi, è dimostrato come tale formula può essere ricavata dalla tavola pitagorica generalizzata. 87 Cfr. voce Ghiyath al-Din Jamshid Mas'ud al-Kashi in MacTutor History of Mathematics archive, School of Mathematics and Statistics, University of St Andrews, Scotland, http://www-groups.dcs.st-and.ac.uk/~history/Biographies/Al-Kashi.html.

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Tra la fine dell'XI secolo e l'inizio del XII vi fu un vivace scam-bio culturale fra il Maghreb (l'attuale Marocco) e l'Andalus (la Spagna islamica) dovuto a numerosi viaggi fra i due Paesi di molti studiosi e matematici, che portavano con sé opere matematiche in arabo, in particolare fra le città di Ceuta, Marrakech, Siviglia e Bu-gia. Questi viaggi sono stati il veicolo di trasmissione in Europa della scienza araba e di quella più antica, greca e indiana, acquisita dagli arabi. La scuola algebrica magrebina dal XII al XV secolo in-trodusse quelle abbreviazioni per le incognite, le loro potenze e le operazioni che ebbero molta influenza sugli algebristi italiani del Rinascimento, conducendo poi alla notazione simbolica dell'alge-bra moderna.

La trigonometria Anche la trigonometria non fu inventata dagli arabi ma certa-

mente essi dettero contributi fondamentali e ne affermarono la sua identità di scienza autonoma, non più semplicemente asservita ai calcoli astronomici.

La parola "trigonometria", che deriva dai termini greci trígonon (τρίγωνον, triangolo) e métron (μέτρον, misura), indica essa stessa la finalità di questa scienza matematica: calcolare le misure di un tri-angolo qualsiasi, andando quindi ben oltre le possibilità di calcolo del teorema di Pitagora, limitate ai triangoli rettangoli.88

Per tutte le discipline è difficile stabilire in maniera precisa e netta le date di inizio e i nomi dei padri fondatori. Spesso i concetti che ne sono alla base nascono e si sviluppano in maniera "anoni- 88 Ricordiamo dagli studi secondari superiori che dei sei elementi che definiscono un tri-angolo (tre lati e tre angoli) soltanto tre sono indipendenti, di cui almeno uno però deve essere un lato. Ciò equivale a dire che per determinare un triangolo è sufficiente cono-scere le misure di tre suoi elementi, di cui almeno uno sia un lato, in quanto esistono in-finiti triangoli (simili) che hanno i corrispondenti angoli uguali. La trigonometria è quel-la branca della matematica che consente di risolvere in maniera "generale" proprio que-sto problema: note le misure di tre elementi (fra i quali almeno uno sia un lato) di un tri-angolo "qualunque", calcolare le misure degli atri tre elementi. Questo obiettivo può es-sere raggiunto grazie alle relazioni fra angoli e lati di un triangolo qualsiasi, definite dal-la trigonometria tramite sei funzioni goniometriche principali (seno, coseno, tangente, cotangente, secante, cosecante), così dette in quanto funzioni "soltanto" degli angoli.

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ma" nella notte dei tempi e soltanto molto tempo dopo è possibile ravvisare, nei documenti giunti fino a noi, uno o più nomi di per-sonaggi che hanno saputo (e potuto) esprimere e affermare in ma-niera più precisa quei concetti. Così, anche per la trigonometria è difficile stabilire data di nascita e paternità.

L'interesse per quella che poi sarà definibile come "trigonome-tria" si manifestò già nelle antichissime civiltà egizia e babilonese, nei teoremi sui rapporti fra i lati di triangoli simili. Ma mancando il concetto di misura degli angoli - che sarà introdotto più tardi dai greci - più che di forme embrionali di "trigonometria" si può parla-re di "trilaterometria".89 Un "simbolico atto di nascita" della trigo-nometria, invece, può essere costituito dalle proposizioni 12 e 13, sui triangoli ottusangoli e acutangoli, contenute nel Libro II degli Elementi di Euclide, che esprimono, in termini geometrici, la legge del coseno per i triangoli nota come teorema di Carnot:90

Proposizione 12

Nei triangoli ottusangoli il quadrato costruito sul lato che sot-

tende l'angolo ottuso è maggiore dei quadrati costruiti sui lati che contengono l'angolo ottuso per una grandezza che è uguale al doppio del rettangolo formato da uno dei due lati adiacenti all'an-golo ottuso (ossia quello su cui cade la perpendicolare) e dal seg-mento tagliato al di fuori del triangolo dalla perpendicolare verso l'angolo ottuso.

Proposizione 13

Nei triangoli acutangoli il quadrato costruito sul lato che sot-

tende l'angolo acuto è minore dei quadrati costruiti sui lati che contengono l'angolo acuto per una grandezza che è uguale al dop-pio del rettangolo formato da uno dei due lati adiacenti all'angolo acuto (ossia quello su cui cade la perpendicolare) e dal segmento tagliato all'interno del triangolo dalla perpendicolare verso l'ango-lo acuto.

89 Cfr. Carl B. Boyer, Op. cit. p. 186. 90 Ibidem, p. 133; cfr. anche Ugo Amaldi, Federigo Enriques, Carlo Felice Manara, Ele-menti di trigonometria piana, Bologna, Zanichelli, 1964, pp. 85, 86.

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Il ruolo dell’Islàm n

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yabhata (476-550), nella sua opera Aryabhatiya (499), che contiene una tavola dei seni a intervalli di 3° 45', poi perfezionata con intervalli di 1° dall'astronomo e indiano Bhaskara Achārya (1114–1185).92 Quest'ultimo scrisse nel 1150 un'opera di astrono-mia, Siddhanta Shiromani, che contie-ne, oltre la tavola dei seni di cui si è detto, molti interessanti risultati di

calcolo matematico, verso il quale l'Autore mostrava un particola-re interesse, rivelandosi anche un precursore della moderna anali-si infinitesimale. Le conoscenze trigonometriche di Bhaskara si spingevano fin verso la trigonometria sferica. A lui si devono, per la prima volta, le formule per il calcolo del seno della somma e dif-ferenza di due angoli: sin( ± ) = sin cos ± cos sin , già note, però, a Claudio Tolomeo (100 circa-175 circa) nella forma ge-ometrica delle corde.

È interessante l'origine del termine "seno", che in tutte le lin-gue europee deriva dal latino sinus e che a scuola viene introdotto senza spiegazione, creando un alone di mistero, in quanto non si capisce perché mai una "funzione matematica" sia stata battezzata con un nome che evoca una parte del corpo umano.

Considerata la circonferenza (detta trigonometrica) con centro nel vertice dell'angolo AOB e raggio arbitrario OA (figura 37), il seno dell'angolo AOB è la misura, rispetto al raggio OA, del seg-mento orientato BA.93

Tale rapporto è invariante rispetto alla circonferenza trigono-metrica considerata e dipende solo dall'angolo AOB. Infatti, con- 92 Cfr. Ettore Bortolotti, Op. cit., p. 639. 93 Il coseno dell'angolo AOB è invece la misura rispetto al raggio OA del segmento orien-tato OB. Tutte le altre funzioni trigonometriche, pur avendo anch'esse una definizione diretta "geometrica" tramite la circonferenza trigonometrica, possono essere definite in-direttamente in forma analitica tramite le loro relazioni con le funzioni seno e coseno. Per esempio, la tangente dell'angolo AOB è definibile come rapporto fra il seno e il cose-no dello stesso angolo.

Fig. 36 - Bhaskara Achārya.

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siderata un'altra circonferen-za concentrica con la prece-dente e di raggio OA', essen-do i triangoli AOB, A'OB' si-mili, e quindi i corrisponden-ti elementi proporzionali, ri-sulta BA/OA = B'A'/OA' = sen AOB. L'origine del termi-ne "seno" si comprende os-servando che BA è la metà della corda AC. Nel sanscrito, che è l'antica lingua degli in-diani (corrispondente al lati-no per le lingue neolatine), la

parola per indicare "metà corda" è jya-ardha, a volte sostituito con ardha-jya e abbreviato in jya (corda). Questo termine fu tradotto da-gli arabi in jiba, un termine senza significato che rifletteva unica-mente la pronuncia fonetica del sanscrito jya. Ma poiché nella lin-gua araba le vocali non vengono scritte, jiba divenne jb, (j non è una vocale in arabo). Successivamente, Roberto di Chester, che operò intorno al 1150, interpretò la parola jb come jaib, che in ara-bo significa baia, e quindi la tradusse con il termine latino sinus, il cui significato era appunto baia, insenatura. Fu lui quindi a intro-durre il termine "seno" nelle lingue europee. Successivamente Gherardo da Cremona confermò la scelta di Roberto di Chester.

Inizialmente gli arabi si accostarono alla trigonometria sotto l'influenza sia greca sia indiana. La trigonometria presso i greci era impostata geometricamente sullo studio delle corde che sottendo-no gli angoli al centro delle circonferenze. Tale risulta la forma della trigonometria nell'Almagesto di Tolomeo. Presso gli indiani, invece, fece la comparsa la definizione del "seno" come numero, sostituendosi alla corda dei greci. Di questi due "filoni" della tri-gonometria rimane traccia nelle opere di al-Biruni. Dei due ap-procci finì con l'affermarsi presso gli arabi quello indiano che con-durrà al corretto sviluppo analitico della trigonometria.

Fig. 37 - La circonferenza trigonometrica e la definizione della funzione seno.

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Gli arabi furono grandi costruttori di tavole trigonometriche, che risultavano incorporate nelle loro opere astronomiche, poiché servivano per i calcoli astronomici. Le prime tavole arabe dei seni e delle tangenti94 furono quelle compilate da al-Khwarizmi e da al-Battani (latinizzato in Albatenius, 850- 929), 95 ma Thabit utilizzò probabilmente già un secolo prima la nozione di seno. Nell'opera in 57 capitoli Kitab al-Zij (Sul movimento delle stelle) Albatenio uti-lizza una formula dove compaiono le funzioni seno e seno-verso.

È con il matematico e astronomo persiano

Abu l-Wafā Muhammad ibn Muhammad ibn Yahya ibn Ismāʿīl al-Būzjānī (940-998)96 che la trigonometria assume una forma più sistema-tica. Vengono da lui dimostrate le formule di duplicazione e bisezione, per il calcolo delle funzioni trigonometriche del doppio e della metà di un angolo dato. Compilò anche una nuova tavola dei seni con intervallo di un quarto di grado e una tavola delle tangenti. Faceva uso di tutte e sei le funzioni trigono-metriche fondamentali e delle loro relazioni.

Abu al-Hasan 'Ali ibn 'Abd al-Rahman ibn Ahmad ibn Yunus

al-Sadafi al-Misri o più semplicemente ibn Yunus (950-1009) nel 1000 circa redasse con grande meticolosità e dovizia di dettagli un libro di tavole astronomiche, al-Zij al-Kabir al-Hakimi, ricco di os-servazioni astronomiche eseguite probabilmente con strumenti molto potenti e di calcoli accurati, che hanno destato l'ammirazio-ne degli studiosi d'oggi. Nel 1819 il matematico e astronomo fran- 94 Cfr. Ettore Bortolotti, Op. cit., p. 641. 95 Cfr. voce Abu Abdallah Mohammad ibn Jabir Al-Battani (biography) in MacTutor History of Mathematics archive, School of Mathematics and Statistics, University of St Andrews, Scotland, http://www-groups.dcs.st-and.ac.uk/~history/Biographies/Al-Battani.html. 96 Cfr. voce Mohammad Abu'l-Wafa Al-Buzjani in MacTutor History of Mathematics ar-chive, School of Mathematics and Statistics, University of St Andrews, Scotland, http://www-history.mcs.st-andrews.ac.uk/Biographies/Abu'l-Wafa.html.

Fig. 38 - Abu l-Wafā.

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cese Jean-Baptiste Delambre (1749-1822) tradusse in francese il te-sto di ibn Yunus e scoprì che due dei metodi da lui usati per de-terminare il tempo dall'altezza del Sole e delle stelle non erano al-tro che l'applicazione di una delle tre formule scoperte nel XVI se-colo da Johann Werner (1468-1522): 97

2 cos = cos( + ) + cos( − ).

Fu anche un grande astrologo. A lui è intitolato un cratere del-la Luna.

È infine con Nasir al-Din al-Tusi che la trigonometria araba

raggiunge il suo culmine. A lui si deve la dimostrazione del teo-rema dei seni98 e la prima esposizione sistematica e completa della trigonometria piana e sferica considerata come scienza autonoma e non asservita ai calcoli astronomici.

9. Un matematico-poeta Un posto a parte merita Omar Khayyam (1050 circa-1122) che

è stato uno dei più grandi matematici e poeti islamici. In Oriente è noto soprattutto come matematico, mentre in Occidente, al contra-rio, è noto come uno dei più grandi poeti persiani.99

97 David A. King, Islamic Math and Science, «Journal for the History of Astronomy», Vol. 9, p.212; Carl B. Boyer, Op. cit., p. 281. 98 Il teorema dei seni afferma che in un triangolo è costante, e uguale al diametro della circonferenza circoscritta, il rapporto fra ciascun lato e il seno dell' angolo opposto. In formula: a/sen α = b/ sen β = c / sen γ = D. 99Antonino Pagliaro - Alessandro Bausani, La letteratura persiana, Firenze-Milano, Sanso-ni-Accademia, 1968; Angelo Michele Piemontese, Storia della letteratura persiana, 2 voll., Milano, Fratelli Fabbri, 1970; E.G. Browne, Literary History of Persia, (4 voll., 2.256 pp.), ul-tima edizione del 1998; Jan Rypka, History of Iranian Literature, Reidel Publishing Company, 1968.

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Celebri sono le sue "quartine",100 che sono state tradotte in varie lingue europee, consacrando in Europa la sua fama di grande poeta.101 Sulla pa-ternità del migliaio di quartine a lui attribuite in vari manoscritti, gli stu-diosi hanno pareri differenti. Secondo alcuni sarebbero sicuramente attri-buibili a Khayyam soltanto una tren-tina di esse, mentre secondo altri un centinaio; le rimanenti sarebbero rac-colte di vari autori etichettate sotto il suo prestigioso nome. I temi ricorren-ti sono l'elogio del vino e dell'edoni-

smo bacchico, la critica dell'imperfezione del Creato e dell'ipocri-sia dei religiosi, i limiti dell'intelletto dell'uomo, il pessimismo esi-stenziale, l'incitamento a vivere l'oggi, anticipando così di diversi secoli il rinascimentale carpe diem di Lorenzo il Magnifico:

Alcuni vivono per la gloria del mondo, altri per i paradisi dei profeti a venire; prendi ciò che hai e lascia andare le promesse, esse sono il suono di un tamburo distante.

Solo l'uva può, con logica assoluta, confutare in numeri e noiose sette; solo alchemico vino può, in un istante, mostrarci la vita che trasmuta il piombo in oro. Null'altro siamo che non parte del gioco, muoviamo su una scacchiera di giorni e notti; ad ogni mossa un pezzo cade preso, la partita continua mentre noi veniamo riposti. 100 Alessandro Bausani (a cura di), Quartine (Roba'iyyat), Torino, Einaudi, 1956 e ristam-pe. 101 La prima traduzione è stata quella in inglese di Edward Fitzgerald nel 1859; cfr. Mario Chini (a cura), Rubaiyàt di Omar Khayyam secondo la lezione di Edoardo Fitzgerald, Lanciano, Carabba 1919.

Fig. 39 - Statua di Omar Khayyam a Bucarest.

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Bizzarro, non credi? delle miriadi passarono prima di noi la porta oscura; nessuno tornò a indicarci la via, per conoscerla dovremo metterci in viaggio. Il Creatore, allorquando plasmò adorne forme e nature, Per qual ragione mai le gettò sotto imperio di morte? Se ben riuscita era l’Opra, perché mandarla in frantumi? E se mal riuscita era, di chi, dunque, la colpa?

Un uomo è portato nel mondo, un altro strappato alla terra, Ma a niuno è concesso svelare l’arcano supremo: E questo solo c’è dato saper del Destino Che la vita nostra è una Coppa, e Qualcuno la beve. Ogni erba che cresce gioiosa in riva al ruscello, Diresti, è peluria spuntata da angeliche labbra. Attento, il piede non porre sovra quell’erba a disprezzo: È nata quell’erba da tombe di belle dal volto di fiore. Prima di me e di te notti e giorni molti son stati, I giri grandi del cielo per qualche cosa son stati; Dovunque poggi il piede, tu, sulla terra, Quei grani di polvere pupille di belle fanciulle son stati.

Calma la brama del mondo e vivi contento di poco, Taglia i legami tutti col Bene e col Male del tempo: In mano prendi una coppa e la treccia d’Amica gentile, Ché passa, passa e non resta, questa tua vita d’un giorno.

Si sbaglia chi, mio nemico, mi chiama filosofo, Iddio sa bene che io non sono quel che loro dicono; dacché sono sceso in questo luogo di dolore, voglio almeno sapere chi io sia.

Fin quando sprecherai tu la vita adorando te stesso? E ad affannarti a correr dietro all’Essere e al Nulla? Bevi vino, ché una Vita che ha in fondo solo la Morte Meglio è che passi nel sonno, meglio è che passi in ebbrezza.

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Quando l’ebbro Usignolo trovò la via del Giardino E ridente trovò il volto della Rosa e la coppa del Vino, Venne e in misterioso bisbiglio mi disse all’orecchio: “Considera bene: la vita trascorsa mai più, mai più non si trova”.

Questi giorni pochi di vita che toccano a noi, son passati, Passati com’acqua in torrente, passati qual vento sul piano; Ed io mai mi rammento di due giorni soli il dolore: Il giorno ancor non venuto, il giorno che lungi è passato. Amore! se potessimo, tu e io, con lui cospirare per afferrare tutt'intero quest'infelice schema delle cose non vorremmo forse frantumarlo - e poi formarlo di nuovo, più simile al desiderio del cuore?

Se fosse dipeso da me il mio venire, non venivo E se da me dipendesse l'andarmene, quando mai me ne andrei? Era meglio se in questo diroccato convento Non fossi venuto, né andato, né stato giammai.

Non siamo nulla di più che una sequenza in movimento, giochi di ombre proiettati su uno sfondo; la lanterna magica di un illusionista, ci da vita a mezzanotte, per il suo spettacolo.

Come matematico ha lasciato contributi notevoli in algebra e,

come abbiamo visto, è stato uno dei tre precursori arabi delle ge-ometrie non-euclidee. La sua opera più importante, Trattato sulla dimostrazione dei problemi di algebra,102 considerava anche equazioni di terzo grado, estendendo quindi il dominio di trattazione dell'algebra di al-Khuwarizmi. Per le equazioni di secondo grado fornisce, come già i greci Menecmo, Archimede e l'arabo Alhazen, soluzioni sia numeriche sia geometriche. Per le equazioni di terzo grado, invece, Omar ritiene - erroneamente come sarà dimostrato dagli algebristi italiani del Rinascimento - impossibili soluzioni numeriche esatte e fornisce un sistematico metodo geometrico di

102 D. S. Kasir, The Algebra of Omar Khayyam, 1931; D. J. Struik, Omar Khayyam. Mathemati-cian, in «The Mathematics Teacher», n.51, 1958, pp. 280-285.

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soluzione, ottenendo le radici dell'equazione come punti di inter-sezione fra sezioni coniche. Prende in considerazione l'equazione cubica x3 + 200x = 20x2 + 2000 di cui trova una soluzione numerica approssimata e la soluzione esatta con il suo metodo geometrico. Espresso secondo una simbologia algebrica moderna letterale e non numerica, il suo procedimento è, in sintesi, il seguente. Data l'equazione di terzo grado x3 + ax2 + b2x + c3 = 0, (a sta per 2x10, b2 per 2x102, c3 per 2x103), si ponga x2 = 2py e si sostituisca nell'equa-zione cubica, ottenendo 2pxy + 2apy +b2x +c3 = 0, equazione che rappresenta una iperbole sul piano xy, mentre l'equazione x2 = 2py posta nella forma esplicita y = x2/2p è evidentemente l'equazione di una parabola sullo stesso piano. I valori di x, y che soddisfano entrambe le equazioni sono le soluzioni del sistema delle due e-quazioni e pertanto sono interpretabili come ascissa e ordinata dei punti "comuni" all'iperbole e alla parabola, ovvero come coordina-te dei loro punti di intersezione. In questo procedimento è implici-to il principio - che sarà posto mezzo millennio dopo da René De-scartes a fondamento della geometria analitica - di poter sostituire un fatto algebrico (un'equazione) con uno geometrico (una curva) che ne è in qualche modo l'immagine. In tal senso Omar Khayyam può essere considerato un precursore della geometria analitica di Cartesio, confortati in tale asserzione dalle sue stesse parole:

Chiunque pensi che l'algebra sia uno stratagemma per cono-

scere ciò che non si sa, ha una idea sbagliata di essa. Non si do-vrebbe fare alcuna attenzione al fatto che l'algebra e la geometria presentano un aspetto così diverso. L'algebra non è altro che la di-mostrazione di fatti geometrici.103

Nella sua "algebra", Omar Khayyam afferma di aver esposto

in un'altra sua opera una regola per calcolare qualunque potenza, superiore alla terza, di un binomio. Quest'opera non ci è pervenu-ta e si suppone che la regola cui allude Omar sia il classico schema

103 Citazione da A. R. Amir-Moez, A Paper of Omar Khayyam, in «Scripta Mathematica», n. 26, 1963, pp. 329, riportata in Carl B. Boyer, Op. cit., pp. 282, 283.

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del triangolo aritmetico, che contiene, nelle successive righe, i co-efficienti dello sviluppo della potenza ennesima di un binomio (a + b)n. Ogni riga del triangolo inizia e termina con 1 , mentre cia-scun numero intermedio è la somma dei due numeri adiacenti del-la riga precedente. La riga n fornisce i coefficienti di (a + b)n:

L'affermazione di Omar riguar-do alla sua "scoperta" del triangolo aritmetico sembra essere avvalorata da un manoscritto dell'opera al-Bahir fi'l-jabr che lo contiene, del matema-tico arabo AsSamaw'al Ibn Yahya Al-Magribi (1130 circa- 1180 circa) vissuto un secolo dopo. In realtà il triangolo aritmetico è stato scoperto e riscoperto più volte nel corso dei secoli.104 In India è noto come trian-golo di Pingala risalente al IV-III se-colo a.c. In Cina compare nel 1303 - nello sviluppo fino all'ottava poten-za - nell'opera Ssu-yüan yü-chien (Prezioso specchio dei quattro elementi)

104 Una approfondita analisi è contenuta nella recente tesi di laurea in algebra di Cristian Acccogli, Triangoli aritmetici, Università degli Studi di Bologna, Anno Acc. 2013-2014 ( http://amslaurea.unibo.it/6954/1/TESI_CRISTIAN_copia.pdf).

Fig. 40 - Triangolo aritmetico. cinese contenuto nell'opera Ssu-yüan yü-chien (1303) di Chu Shih-chieh.

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di uno dei più grandi matematici cinesi, Chu Shih-chieh. Qui figura con il titolo Tavola del vecchio metodo dei sette quadrati

moltiplicatori, che dimostra un'origine ancor precedente del trian-golo aritmetico presso i cinesi. Esso, infatti, era già apparso - nello sviluppo fino alla sesta potenza - nell'opera del matematico Yang Hui (1238-1298) la cui attività si svolse soprattutto negli anni 1261-1275, di cui ci dà notizia proprio Chu Shih-chieh. A sua volta Yang Hui afferma di averlo appreso dal libro - andato perduto - Shi Suo Suan Shu di Jia Xian (1010-1070).105 In Europa, compare per la prima volta in Germania nel 1527 nel frontespizio di un libro commerciale di aritmetica, del tedesco Peter Apian (Petrus Appia-nus), intitolato Rechmung. Successivamente in Italia, nel 1536, compare nel General Trattato di Niccolò Tartaglia e nel 1544 di nuovo in Germania nell'Arithmetica integra di Michael Stiffel. Blai-

105 Carl B. Boyer, Op. cit., p. 241,242 e Cristian Acccogli, Op. cit.

Fig. 41 - Triangolo aritmetico arabo del matematico AsSamaw'al Ibn Yahya Al-Magribi (XII secolo). (Da George Ifrah, Op. cit. p. 275.)

Fig. 42 - Triangolo aritmetico contenuto nel frontespizio dell'opera Rechmung (1527) di Peter Apian

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se Pascal nel 1654, scrive il Trattato del triangolo aritmetico, scopren-done diverse proprietà, rese più evidenti dalla disposizione a tri-angolo rettangolo che gli diede.

Questo breve excursus storico dimostra chiaramente come spesso siano arbitrarie e dettate da spinte nazionalistiche certe at-tribuzioni di scoperte scientifiche. Nel nostro caso, per rendere giusto onore a tutti i matematici che lo scoprirono o riscoprirono e di cui si ha sicura notizia, bisognerebbe parlare di triangolo di Yang Hui o di Chu Shih-chieh o di Khayyam o di Apiano o di Tar-taglia o di Stiffel o di Pa-scal, ecc... Troppi nomi, che rischiano di non ren-dere merito ad altri (fino-ra) ignoti scopritori.

Meglio dunque par-lare semplicemente di "triangolo aritmetico".

A Omar Khayyam sono stati intitolati i nomi di un cratere lunare e dell'asteroide 3095 .

10. L'Islàm per l'astronomia Della grande dedizione degli arabi allo studio dell'astronomia

è rimasta ancor oggi traccia nei numerosi nomi delle stelle e dei termini tecnici dell’astronomia, che per la maggior parte sono ara-bi: Aldebaran, Altàir, Algedi, Betelgeuse, Algol, Vega Dubhe, Me-rak, Phedka, Alioth, Alkaid, Benetnash, Mizar, Rigel, àzimut, nà-dir, zenith.

Nel IX secolo il califfo al-Ma'mùn fece costruire a Baghdād, nella Casa del Sapere, un osservatorio astronomico e nel secolo successivo l'astronomia araba raggiungerà il culmine delle sue co-noscenze con Albatenio. Nella Casa del Sapere gli astronomi i-

Fig. 43 - Triangolo aritmetico comparso nell'o-pera General Trattato (1536) di Niccolò Tarta-glia.

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slamici determinarono con precisione la pendenza dell’eclittica (23° 33') e la sua diminuzione progressiva.

La loro mentalità più pratica che teorica portò gli arabi a pre-diligere più la parte osservativa dell'astronomia che l'elaborazione di nuovi sistemi astronomici. Costruirono molti astrolabi e perfe-zionarono gli strumenti astronomici appresi dai greci. Connessa alla loro prediletta pratica delle osservazioni del cielo è la loro grande opera di compilazione di tavole astronomiche, che potero-no perfezionare grazie all'applicazione della trigonometria. Le loro tavole furono molto usate anche in Spagna e in Cina. Sono rima-ste celebri le tavole hakemite redatte da Ibn Yu'nus nel 1007, le tavole toledane, compilate da ar-Zarqali (1029-1087) latinizzato in Arza-chele, i cui dati consentiranno poi la creazione delle tavole alfonsine nel 1252. Ad Arzachele è dovuta la teoria della "trepidazione delle stelle fisse".

Dal punto di vista teorico invece, sono scarsi i contributi isla-mici. Al matematico e astronomo Abu l-Wafa' è attribuita - ma con molti dissensi fra gli storici della scienza - la scoperta della "terza ineguaglianza lunare" più nota oggi come "variazione lunare", ge-neralmente attribuita in Occidente all’astronomo Ticho Brahe.

Alhazen scrisse numerose opere astronomiche delle quali ci sono pervenute soltanto alcune. Elaborò un sistema pseudo-tolemaico a nove cerchi concentrici che avevano, all'interno, eccen-trici ed epicicli, necessari per spiegare il moto apparente di quelli che allora erano considerati i "pianeti" della Terra: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno.

Averroè si dedicò allo studio dell'astronomia sia in occasione dei suoi celebri commenti all'opera di Aristotele sia all'infuori di tali commentari, redigendo un compendio dell'Almagesto tolemai-co (pervenuto soltanto in versione ebraica) e un'opera più filosofi-ca che astronomica, il De substantia orbis. Da fedele seguace della fisica di Aristotele fu contrario alla rappresentazione tolemaica dei moti planetarî mediante eccentrici ed epicicli, sostenendo invece l'esistenza di orbite concentriche.

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Nasir al-Din al-Tusi, è stato uno dei più grandi a-stronomi arabi, ma studiò anche medicina, filosofia e matematica. Fu promotore e direttore dell'osservatorio astronomico di Maragheh in Azerbaijan. Compilò accura-te tavole dei moti dei pianeti e un catalogo delle stelle che pubblicò nell'opera Zij-i il-khani (tavole ilkhaniche).

È famoso per avere per-fezionato il modello plane-tario di Tolomeo concilian-dolo con quello di Aristote-

le, con il quale era in contrasto sul principio aristotelico del moto rettilineo come unico moto naturale. Nel suo trattato di astrono-mia al-Tadhkira fi'ilm al-hay'a è contenuto infatti un teorema (detto poi "teorema di Nasir al-Din" o anche "Tusi-coppia") che fu risco-perto da Copernico106 e da Cardano due secoli e mezzo dopo nel XVI secolo.107 Tale teorema, espresso in forma moderna, asserisce che se una circonferenza rotola (senza scivolamenti) lungo l'inter-no di un'altra circonferenza di diametro doppio, il luogo geome-trico descritto da un punto della prima circonferenza è un diame-tro della circonferenza esterna. In tal modo il risultante di due mo-ti circolari uniformi è un moto rettilineo alternato (figura 44).

106 È di questa opinione W. Hartner (Nasir al-Din al-Tusi 's lunar theory, «Physis - Riv. In-ternaz. Storia Sci.» 11, 1-4,1969, pp. 287-304). Non è invece d'accordo I. N. Veselovsky, (Copernicus and Nasir al-Din al-Tusi, «J. Hist. Astronom». 4, n. 2, 1973, pp. 128-130) secon-do il quale Copernico lo avrebbe appreso dai Commentari di Proclo. 107 Cfr. Carl B. Boyer, Note on Epicycles and the Ellipse from Copernicus to La Hire, «Isis», 38, 1974.

Fig. 44 - Manoscritto di Nasir al-Din al-Tusi (Vat. Arabo Ms. 319) che illustra il teorema "Tusi-coppia".

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11. La tassellatura di Penrose nell'arte islamica? Fino a pochi anni fa si è ritenuto che gli artisti musulmani a-

vessero realizzato le caratteristiche decorazioni, con tasselli a stelle e poligoni chiamati in persiano girih,108 che ornano le madrase,109 le moschee e i palazzi, disegnandole a "zig-zag" con regoli rettilinei e compassi. Uno studio attento di tali decorazioni ha evidenziato una differenza profonda della tecnica utilizzata dal IX al XV secolo e dal XV secolo in poi.Le decorazioni del primo periodo mostrano una evidente periodicità, realizzata grazie all'uso di simmetrie ge-ometriche di traslazione e di orientamento. Nel XIII secolo i mori di Spagna furono maestri indiscussi nell'arte di tassellare le super-fici dell'Alhambra,110 arrivando a utilizzare tutti i possibili gruppi di simmetria geometrica sul piano, che sono diciassette.111

Un salto di qualità nella complessità delle decorazioni si è a-vuto dal XV secolo in poi, non essendo più possibile ravvisare la periodicità tipica delle precedenti decorazioni realizzate con le re-gole della simmetria classica. Le difficoltà connesse con tale nuova tecnica dovevano essere notevoli, in quanto si trattava di riempire, senza vuoti e sovrapposizioni, vaste superfici con tessere (o tassel-li) in apparenza diverse, prive di simmetria traslazionale e quindi

108 Una definizione attuale di girih alla luce dei più recenti studi matematici su di essi si trova in Gülrun Necipoglu The Topkapi Scroll: Geometry and Ornament in Islamic Architec-ture, Santa Monica, 1995, pp. 92-93: «The girih [is] a highly codified mode of geometric patterning with a distinctive repertoire of algebraically definable elements… The girih mode, with its two- and threedimensional formulations compiled in surveying examples of pattern scrolls, is characterized by its self-consciously limited vocabulary of familiar, almost emblematic, star-and-polygon compositions generated by invisible grid systems that eliminated a broad spectrum of alternative geometric designs». 109 La madrasa era un edificio che ospitava un istituto di istruzione superiore per le scien-ze giuridico-religiose, costituito da un cortile aperto con due o quattro atri fra i quali si allineavano le stanze che alloggiavano gli studenti. Spesso era unita a una moschea e quando non lo era aveva un minareto proprio. Erano, insomma, dei "college" ante-litteram. 110 Complesso di palazzi e edifici vari cintato da mura, che si trova a Granada in Spagna. 111 Cfr. Le 17 simmetrie dei mosaici islamici nell'Islamic Journal. Studies and resources for high schools and university in www.orientalia.me/2014/06/07/le-17-simmetrie-dei-mosaici-islamici.

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in maniera aperiodica. Ciò avrebbe costretto gli artisti a ridisegna-re un numero enorme di volte le tessere in posizioni differenti.

Nel febbraio 2007, invece, Peter J. Lu, dottorando in fisi-ca all'Università di Harvard, in occasione di un suo viaggio in Uzbekistan, osservando un mosaico su una parete di una madrasa a Bukhara, ebbe l'in-tuizione che l'aperiodicità del-le sue forme geometriche po-tesse essere ricondotta a quel-la tipica della cosiddetta "tas-sellatura di Penrose", che è stata il primo esempio di tas-sellatura quasi-periodica.

Tornato negli Stati Uniti

d'America Lu studiò assieme al fisico Paul J. Steinhardt dell'Uni-versità di Princeton, esperto di quasi-cristalli, centinaia di fotogra-fie delle decorazioni geometriche islamiche disponibili negli ar-chivi. Lu e Steinhardt pubblicarono lo stesso anno le loro ricer-

Fig. 45 - Macrotessera di Peter J. Lu e figure componenti: pentagono (1), rombo (2), esagono oblungo (3), farfalla (4), decagono (5). I cinque poligoni hanno tutti lo stesso lato.

Fig. 46 - Decorazioni del santuario Darb-i Imam a Isfahan in Iran (1453) e ricostruzione al computer. (Da «Science Magazine», vol. 315, n° 1106, 2007).

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che,112 dalle quali risulta che i mosaici geometrici islamici dal XV secolo in poi erano ottenuti riproducendo su tutta la superficie da decorare una macrotessera formata da cinque tessere elementari (figura 45) aventi le forme di un decagono, di un esagono oblungo, di un pentagono, di un rombo e di una farfalla, secondo una strut-tura molto simile alla celebre tassellatura di Penrose. In particola-re, Lu ha mostrato che presentano una struttura molto vicina a quest'ultima le decorazioni del santuario Darb-i Imam a Isfahan in Iran, costruito da Jalal al-Din Safarshah nel 1453 (figura 46). Le po-che imperfezioni (11 errori su 3700 tasselli) in esse presenti posso-no essere rimosse ribaltando (flipping) alcune tessere e sono impu-tabili, secondo Lu, non al progetto originario dell'artista bensì alla sua realizzazione pratica o a successive riparazioni.

Spesso si usa, impro-priamente, il termine qua-sicristallo al posto di tas-sellatura di Penrose. In re-altà sono due concetti net-tamente distinti, ma così intimamente collegati dal-la medesima struttura ge-ometrica di reticolo quasi-periodico da giustificare questo uso improprio. An-che cronologicamente la loro scoperta è avvenuta in tempi diversi.

La tassellatura di Pen-

112 Peter J. Lu and Paul J. Steinhardt, Decagonal and Quasi-crystalline Tilings in Medieval Is-lamic Architecture, «Science» vol. 315, n° 1106 (2007). Anche in: www.physics.harvard.edu/̴plu7publications/Science_315_1106_2007; cfr. anche A Discovery in Architecture: 15th-Century Islamic Architecture Presages 20th-Century Mathe-matics. In http://muslimheritage.com/topics/default.cfm?ArticleID=670)/; cfr. anche J. R. Minkel, Islamic Artisans Constructed Exotic Non repeating Pattern 500 Years Before Ma-thematicians, 22 February 2007, «Scientific American». In: www.sciam.com/article.cfm?articleID=EA6A6CC6-E7F2-99DF-370D2FEA2995DA0D

Fig. 47 - Quasi periodicità nella tassellatura di Penrose con rombi.

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rose è stata scoperta dal fisico, matematico e cosmologo inglese sir Roger Penrose e da Robert Ammann nel 1974. Essa riguarda il modo di riempire un piano in maniera quasi-periodica con parti-colari figure geometriche secondo determinate regole di accop-piamento.113 Le possibili tassellature di Penrose sono infinite (tante quante i numeri reali), presentano una quasi-simmetria traslazio-nale a lungo raggio e una simmetria rotazionale di ordine 5, cioè sono invarianti per rotazioni di un quinto di angolo giro cioè di 360°/5 = 72° intorno al loro centro. Sono pertanto dette tassellatu-re quasi-periodiche.

I quasicristalli, invece, sono un nuovo tipo di solidi scoperti nel 1982 da Danny Shechtman del National Institute of Stanford (NIST), chimicamente ottenuti dalla solidificazione di una lega metallica di Alluminio-Manganese Al80Mn20).114 Nel 2009, è stato scoperto un quasicristallo naturale di icosaedrite (Al63Cu24Fe13) in un frammento di roccia ritrovato a Khatyrka sui monti Koryak, nella Russia estremo-orientale.115

113 Roger Penrose, Set of tiles for covering a surface, brevetto 4133152 assegnato il 9 gennaio 1979; una esauriente esposizione della tassellatura di Penrose si trova nel libro divulgati-vo di Roger Penrose, La mente nuova dell'imperatore, la mente, i computer, le leggi della fisica, Milano, Rizzoli BUR, 2000. 114 D. Schetman, I. Blech, D. Gratias e J. Cahn, Metallic Phase with Long-Range Orientational Order and No Translational Symmetry, in «Physical Review Letters, vol. 53, n. 20, 1984, p. 1951». Per questa scoperta Shechtman ha ricevuto il Premio Nobel per la Chimica nel 2011. 115 Attualmente il frammento è conservato presso il Museo di storia naturale dell'Univer-sità degli Studi di Firenze.

Fig. 48 - Altri esempi di tassellatura di Roger Penrose con rombi.

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Gli autori della scoperta, il geologo italiano Luca Bindi dell'U-niversità di Firenze e il fisico Paul J. Steinhardt,116 ritengono che il frammento sia arrivato sulla Terra tramite un meteorite circa 15000 anni fa e che il quasicristallo che contiene si sia formato 4,5 miliardi di anni fa.

116 L. Bindi, P. J. Steinhardt, N. Yao e P. J. Lu, Natural Quasicrystals, in Science, vol. 324, n. 5932, 2009, pp. 1306-9.

Tassellature periodiche Per tassellatura, in matematica, s'intende la completa ricopertura di un pia-

no con una o più figure geometriche, dette tessere, ripetute all'infinito senza so-vrapposizioni. Così definita, la tassellatura è un oggetto illimitato, mentre nella pratica è limitata essendo applicabile soltanto a superfici finite.

Una tassellatura è periodica se è possibile realizzarla con una tessera costi-tuita da una sola figura geometrica ripetuta rispettando una simmetria di trasla-zione e una simmetria di orientazione.

La periodicità è dovuta alla possibilità di realizzare il riempimento del pia-no ripetendo per traslazione in due direzioni ortogonali del piano la tessera ele-mentare in maniera da non creare sovrapposizioni e non lasciare vuoti. In tal modo è possibile riconoscere oltre la presenza di una simmetria di traslazione anche quella di una simmetria di orientazione, consistente nel parallelismo dei lati corrispondenti delle tessere (quelli che possono essere ottenuti per traslazio-ne da altre tessere). Si può dire anche che una tassellatura periodica è invariante per traslazione, ciò significando che essa non cambia traslandola orizzontalmen-te o verticalmente di un numero qualunque di tasselli. Un facile esempio di tas-sellatura periodica è costituito dal riempimento di un piano con esagoni regolari. Una tassellatura periodica può essere realizzata anche con altri poligoni: triango-lo equilatero, quadrato, rettangolo e parallelogramma. Non può essere realizzata, invece, con pentagono, ettagono, ottagono regolari e con cerchi.

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Non è tuttavia ancora chiaro se gli artisti islamici fossero stati istruiti da matematici che conoscessero già 500 anni fa le strutture quasi-cristalline o se, in maniera intuitiva, le avessero applicate per rendere più facile un lavoro che altrimenti sarebbe stato e-stremamente più difficile, dovendo ridisegnare ogni volta, a parti-re da zero, con riga e compasso la forma base (tassello) delle loro decorazioni a stella e poligoni. David Baron così si esprime a tal proposito:

It could be proof of a major role of mathematics in medieval

Islamic art or it could have been just a way for artisans to construct their art more easily. It would be incredible if it were all coinci-dence, though. At the very least, it shows us a culture that we often don't credit enough was far more advanced than we ever thought before.117

Di diversa opinione è invece Alpay Özdural, dottorando della

Eastern Mediterranean University in North Cyprus, che ha pub-blicato i risultati delle sue ricerche in una serie di articoli ma è sfortunatamente morto prematuramente il 22 febbraio 2003. Ö-zdural ha analizzato attentamente due fonti della matematica i-slamica: il libro del famoso matematico Abu 'l-Waf al-Buzjani (ca. 940-998) Kitab fima yahtaju ilayhi al-saani' min al-a'mal al-handasiya (Sulle costruzioni geometriche necessarie per gli artisti) e il libro di un anonimo del 1300 circa, intitolato Fi tadakhul al-ashkal al-mutashabiha aw al-mutawafiqa (Sui concatenamenti di figure simili o corrispondenti).

Özdural ha tratto da queste due fonti varie citazioni, che di-mostrano chiaramente un'attività di insegnamento, da parte di matematici agli artisti islamici, della geometria per mezzo di me-todi di taglia-e-incolla utili per realizzare le decorazioni.

117 David Baron, Medieval Islamic Architecture Presages 20th-Century Mathematics In http://www.news.harvard.edu/gazette/2007/03.01/99-tiles.html), Harvard University Gazette, February 22, 2007.

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Fig. 49 - Tassellatura di Penrose con dardi e aquiloni.

I cristalli

Nel linguaggio comune con il termine "cristallo" ci si riferisce impropriamente a vetri di qualità superiore, contenenti ossido di piombo al 24%. Dal punto di vista chimico-fisico, invece, i cristalli sono solidi nei quali le particelle costituenti a livel-lo microscopico (atomi, ioni, molecole) oscillano con moto armonico attorno ai no-di di un reticolo tridimensionale regolare (struttura cristallina), che si può pensare formato dalla ripetizione periodica per traslazione nelle tre dimensioni spaziali di una cella elementare, la quale è definibile come la più piccola porzione del reticolo che ne conserva tutte le caratteristiche. Sono proprietà caratteristiche dei solidi il mantenimento nel tempo di una forma propria, la quasi totale incompressibilità e la presenza di una struttura cristallina nei "solidi cristallini" oppure la presenza di una struttura quasi-cristallina nei "solidi quasi-cristallini". I vetri, come i solidi, posseggono forma propria e incompressibilità ma non una struttura né cristallina né quasi-cristallina, per cui non sono veri solidi, ma liquidi sottoraffreddati a tem-peratura ambiente. Sono impropriamente detti "solidi amorfi". Nei vetri, la rapida velocità di raffreddamento della massa fusa iniziale e la bassa velocità di cristalliz-zazione impediscono la sistemazione degli atomi secondo un reticolo tridimensio-nale regolare, conservando a solidificazione avvenuta una struttura microscopica molto vicina a quella di un liquido. È proprio la mancanza di una completa cristal-lizzazione che conferisce al vetro omogeneità di proprietà in tutte le direzioni (iso-tropia), di cui la trasparenza è la proprietà più appariscente che caratterizza questo stato della materia detto stato vetroso. Come liquido sottoraffreddato a tempera-tura ambiente, il vetro si trova in uno stato metastabile, per cui lentamente nel tempo tende ad assumere lo stato cristallino proprio dei solidi, dando luogo al processo di devetrificazione ben visibile dalla graduale perdita della trasparenza.. Nello spazio bidimensionale la struttura cristallina ha il suo corrispondente in una tassellatura periodica e la cella elementare nella tessera o tassello elementare.

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Tassellature quasi-periodiche

Una tassellatura è quasi-periodica se è realizzabile con una tessera ottenu-

ta accoppiando due o più figure geometriche secondo ben definite regole. Un esempio di tassellatura quasi-periodica è proprio la tassellatura di

Penrose, realizzata con la ripetizione di una tessera formata da due tipi di rom-bi di uguali lati, ma l'uno con angoli di 144° e 36° e l’altro di 72° e 108°, accop-piati fra loro in modo che non formino mai un parallelogramma.

Al tendere all'infinito del numero di rombi (così come accade in una tas-

sellatura che riempia un piano), il rapporto fra i due tipi di rombi tende al nu-mero aureo Φ = (1 +√5)/2 = 1,618 che definisce la sezione aurea. Come è no-to, a tale numero è collegata una certa definizione matematica della bellezza, ma in questo caso è particolarmente importante in quanto essendo irrazionale dimostra che è impossibile scomporre la tassellatura di Penrose infinita in una tessera che contenga un numero intero di entrambi i rombi: tale tipo di tassella-tura è dunque aperiodica. Tuttavia, i rombi possono essere collegati in modo ta-le da formare decagoni regolari (figura 47) tutti con la stessa orientazione e, per-tanto, la tassellatura di Penrose ha un ordine di orientazione a lungo raggio. I-noltre se si considerano tutti i rombi che hanno lati paralleli a una direzione, si può notare che essi si dispongono secondo linee frastagliate, tra loro più o meno parallele e a distanza circa uniforme. Vi sono cinque famiglie di tali linee che si intersecano secondo angoli multipli di 72°. La struttura geometrica della tassel-latura bidimensionale di Penrose è caratterizzata dalla ripetizione di decagoni con una simmetria più complessa di quella soltanto traslazionale propria della tassellatura periodica, essendo anche rotazionale, poiché occorre oltre che tra-slare anche ruotare la tessera elementare cinque o dieci volte, attorno al suo cen-tro, per riprodurre la configurazione di partenza. La tassellatura di Penrose ha dunque un tipo di ordine quasi-periodico (figura 47).

Un'altra tassellatura di Penrose utilizza, invece, due tessere costituite dalle figure geometriche "aquilone" e "dardo". In geometria un aquilone è un quadri-latero con due coppie di lati consecutivi congruenti.

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