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1 IL RUOLO DEL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE NEL PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE DEI MERCATI Di Angela Maria Scullica Il 23 aprile 2010 l’allora primo ministro greco George Papandreu parlò dal porto di Mefisto di Castelrosso nell’isola di Megisti. Era una bellissima giornata di sole, c’era tanta gente ad ascoltare, i bambini giocavano felici e nessuno avrebbe mai potuto immaginare quel che sarebbe accaduto in seguito a quel discorso. Papandreu stava chiedendo all’Europa di intervenire per evitare il fallimento del Paese. La preghiera, nonostante i dubbi e le numerose reticenze, fu alla fine accolta e la Grecia ricevette 200 miliardi per scongiurare la sua uscita dall’Euro. Da allora successe di tutto, drammi, suicidi, povertà. La Grecia insomma si ritrovò in brevissimo tempo sull’orlo del precipizio. E anche se a decidere l’intervento fu la troika formata da Commissione europea, Banca centrale e Fondo monetario internazionale, nella memoria collettiva dei Greci quel fatidico giorno restò impresso come quello in cui Papandreu consegnò il Paese nelle mani del Fondo monetario internazionale. Dopo la Grecia la stessa sorte toccò al Portogallo e alla Spagna. Anche l’Italia rischiò grosso nel novembre 2011, dopo che le agenzie di rating, nell’estate, peggiorarono i loro giudizi sul nostro Paese, scatenando la speculazione internazionale. L’Italia se la cavò cambiando il Governo e dando il via ad una politica di austerity che, alla luce di quel che avvenne dopo, allontanò ulteriormente la ripresa. Ma è riuscita ad evitare l’intervento del Fondo monetario internazionale con tutte le drammatiche conseguenze che ne sarebbero potute derivare. Ed oggi in piena crisi dell’euro in molti avanzano seri dubbi sull’operato del Fondo e sugli interessi che lo muovono. Una delle accuse che si rivolgono a questo organismo è che possa essere stato utilizzato dagli americani, insieme alle agenzie di rating, come cavallo di Troia per scardinare l’euro e consentire al dollaro di mantenere il ruolo di valuta dominante che ha avuto dal dopoguerra ad oggi, nonostante la perdita di terreno degli Stati Uniti nei confronti della Cina. Un’accusa infondata? Per alcuni economisti sì, per altri no. Vero è che si tratta di una istituzione controversa che ha permesso

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IL RUOLO DEL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE

NEL PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE DEI MERCATI

Di Angela Maria Scullica

Il 23 aprile 2010 l’allora primo ministro greco George Papandreu parlò dal

porto di Mefisto di Castelrosso nell’isola di Megisti. Era una bellissima

giornata di sole, c’era tanta gente ad ascoltare, i bambini giocavano felici e

nessuno avrebbe mai potuto immaginare quel che sarebbe accaduto in

seguito a quel discorso. Papandreu stava chiedendo all’Europa di

intervenire per evitare il fallimento del Paese. La preghiera, nonostante i

dubbi e le numerose reticenze, fu alla fine accolta e la Grecia ricevette 200

miliardi per scongiurare la sua uscita dall’Euro. Da allora successe di tutto,

drammi, suicidi, povertà. La Grecia insomma si ritrovò in brevissimo

tempo sull’orlo del precipizio. E anche se a decidere l’intervento fu la

troika formata da Commissione europea, Banca centrale e Fondo monetario

internazionale, nella memoria collettiva dei Greci quel fatidico giorno restò

impresso come quello in cui Papandreu consegnò il Paese nelle mani del

Fondo monetario internazionale. Dopo la Grecia la stessa sorte toccò al

Portogallo e alla Spagna. Anche l’Italia rischiò grosso nel novembre 2011,

dopo che le agenzie di rating, nell’estate, peggiorarono i loro giudizi sul

nostro Paese, scatenando la speculazione internazionale. L’Italia se la cavò

cambiando il Governo e dando il via ad una politica di austerity che, alla

luce di quel che avvenne dopo, allontanò ulteriormente la ripresa. Ma è

riuscita ad evitare l’intervento del Fondo monetario internazionale con tutte

le drammatiche conseguenze che ne sarebbero potute derivare. Ed oggi in

piena crisi dell’euro in molti avanzano seri dubbi sull’operato del Fondo e

sugli interessi che lo muovono. Una delle accuse che si rivolgono a questo

organismo è che possa essere stato utilizzato dagli americani, insieme alle

agenzie di rating, come cavallo di Troia per scardinare l’euro e consentire

al dollaro di mantenere il ruolo di valuta dominante che ha avuto dal

dopoguerra ad oggi, nonostante la perdita di terreno degli Stati Uniti nei

confronti della Cina. Un’accusa infondata? Per alcuni economisti sì, per

altri no. Vero è che si tratta di una istituzione controversa che ha permesso

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con i suoi prestiti di ottenere liquidità immediata ai Paesi che ne avevano

bisogno ma che ha anche provocato danni irreparabili alle economie più

fragili. Esaminiamo dunque la sua storia e quali sono state le idee che ne

hanno fino ad oggi guidato l’azione.

La nascita del Fmi con gli accordi di Bretton Woods

Nel 1942 quando, in seguito all’entrata in guerra degli americani, le sorti

del conflitto volgevano ormai a favore degli alleati, Stati Uniti e Gran

Bretagna iniziarono a pensare di costruire insieme un nuovo ordine

monetario internazionale che impedisse il formarsi di quegli squilibri

economici e finanziari che avevano portato il mondo alla grande

depressione del 1929 e poi alla guerra. Ci vollero due anni di discussione

prima di approdare nel luglio del 1944 allo storico incontro di Bretton

Woods. Nella ridente cittadina montana del New Hempshire si diedero

appuntamento al Mount Washington Hotel 400 delegati di 44 paesi. Era la

prima volta che un numero così elevato di Stati indipendenti si trovavano

insieme per decidere e condividere un sistema monetario che avrebbe

dovuto dare, in modo duraturo, ordine, disciplina e benessere a un mondo

che usciva devastato dallo scontro. La situazione era però ben diversa

rispetto a cinque anni prima. La guerra aveva infatti profondamente

stravolto i rapporti di forza tra le Nazioni. L’Europa continentale e il

Giappone ne uscivano distrutti mentre ad Est iniziava a brillare il faro

dell’Unione Sovietica. Ma l’avvenimento sicuramente più importante era il

sorpasso ai vertici del potere mondiale degli Stati Uniti, che assurgevano al

ruolo di potenza dominante, sull’Inghilterra che si avviava verso un lento

ma inesorabile declino. A Bretton Woods i lavori si concentrarono in tre

commissioni: una presieduta dall’americano Dexter White, una che faceva

capo all’economista inglese Jon Maynard Keines e infine la terza

capeggiata dallo spagnolo Eduardo Suarez. Ma a determinarne il risultato

fu l’esito dello scontro tra White e Keynes. L’americano poneva il dollaro

al centro del sistema monetario ancorandolo all’oro e assegnava al Fmi il

ruolo di superbanca che erogasse solo prestiti agevolati in caso di squilibri

della bilancia dei pagamenti, da restituirsi nel tempo. L’inglese invece

puntava su una stanza di compensazione all’interno della quale i paesi

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membri partecipavano con quote rapportate al volume del loro commercio

internazionale, in base alla media dell’ultimo triennio. La compensazione

tra debiti e crediti sarebbe avvenuta tramite una moneta, il Bancor. Nel

progetto di Keynes, che aveva in mente la positiva esperienza del New

Deal, il Fondo sarebbe stato solidaristico in quanto avrebbe dovuto

sostenere l’azione degli stati membri durante le crisi periodiche

dell’economia. Alla fine vinsero gli americani, che avevano dalla loro

un’economia forte e in grande espansione, e il dollaro divenne la moneta di

riferimento internazionale, l’unica convertibile con l’oro. Le altre dovettero

ancorarsi al dollaro, fissando il cambio con la moneta americana. Il nuovo

sistema fu chiamato Gold exchange standard e i Paesi che vi aderirono si

impegnarono ad adottare politiche monetarie tese a mantenere fissi i tassi di

cambio al dollaro e, di conseguenza, all’oro. Cominciava già allora ad

essere chiaro a tutti che le economie erano interdipendenti e che la stabilità

monetaria e finanziaria avrebbe avuto ripercussioni positive sulla crescita

mondiale.

Il Gold exchange standard e la nascita del Fmi

Per garantire questa stabilità occorreva un meccanismo che fosse allo stesso

tempo in grado di incoraggiare la crescita del commercio e di rendere i

requisiti dell’equilibrio esterno sufficientemente flessibili da poterli

soddisfare senza sacrificare l’equilibrio interno. Nacque così il Fondo

monetario internazionale. Esso avrebbe dovuto da un lato supervisionare e

garantire la parità tra le monete dei diversi Paesi e, dall’altro, fornire un

aiuto finanziario a breve termine (3-5 anni) ai Paesi membri in disavanzo.

L’idea originale fu dunque quella di creare una sorta di stanza di

compensazione degli scambi monetari derivanti dal commercio

internazionale che poteva disporre di ammortizzatori per pareggiare gli

scompensi delle partite correnti senza ricorrere a immediati aggiustamenti

dei cambi. Il Fondo monetario internazionale venne costituito con i

versamenti degli Stati membri le cui entità determinarono il loro potere

decisionale, gli obblighi e i diritti finanziari nei confronti del Fondo stesso.

Le quote maggiori spettarono agli Stati Uniti: 2750 milioni di dollari

(28,03% del potere di voto); Cina: 550 milioni di dollari (5,81% del potere

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di voto); Francia: 450 milioni di dollari (4,80% del potere di voto). Oggi

aderiscono al Fmi 178 Paesi, il loro potere decisionale è proporzionale alle

quote versate. Le nazioni più industrializzate del mondo (Usa, Germania,

Inghilterra e Francia) controllano da sole il 39% dei voti. Ma per

completare l’architettura istituzionale dell’ordine economico concepito a

Bretton Woods, accanto al Fondo monetario internazionale fu istituta anche

la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (conosciuta

come Banca Mondiale) e un’organizzazione mondiale per il Commercio

(World trade Organisation - WTO) che cominciò ad operare a partire dal

1995.

L’egemonia americana e l’assenza della speculazione

Lo statuto del Fondo monetario internazionale, ratificato nel luglio 1944,

entrò in vigore nel dicembre 1945 ma effettivamente in funzione a partire

dal marzo 1947. Quell’anno fu molto importante per l’Europa perché segnò

l’inizio di un periodo molto florido e ricco di opportunità per la ripresa. A

condurre il gioco erano gli Stati Uniti che ormai avevano saldamente in

mano la leadership indiscussa del mondo Occidentale. Tre mesi dopo

l’avvio del Fmi, e precisamente il 5 giugno, l’allora segretario di Stato

americano George Marshall, annunciò al mondo, dall’Università di

Harvard, la decisione del suo Paese di lanciare un piano di aiuti economico-

finanziari per l'Europa, che sarebbe diventato noto a tutti con il suo nome.

Nel suo discorso Marshall disse che l'Europa aveva bisogno, per almeno

altri 3-4 anni, di ingenti aiuti da parte degli Stati Uniti e che, senza di essi,

avrebbe imboccato inesorabilmente la strada del declino. Sempre in

quell’anno, il 30 ottobre, 23 paesi firmarono il Trattato Generale sulle

Tariffe e il Commercio (General Agreements on Tariffs and Trade-Gatt)

per promuovere il commercio internazionale. Insieme al piano Marhall,

questo accordo, che durò sino al 1994, anno in cui fu sostituito dal Wto,

contribuì a portare i Paesi Occidentali sul binario della crescita.

In quegli anni anche l’economia statunitense spiccò il volo. Le esportazioni

crebbero in modo esponenziale favorite anche dai prestiti del piano

Marshall che vincolavano le linee di credito in dollari all’acquisto di

prodotti americani. La forte domanda estera consentì agli Stati Uniti di

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riconvertire l’industria bellica, diversificare la produzione e imporre il

made in Usa in tutto il mondo.

In un contesto in cui gli Stati Uniti erano al centro del commercio

internazionale, il mantenimento di un sistema monetario di cambi fissi che

faceva perno sul dollaro, appariva semplice e di facile gestione. Le

istituzioni di Bretton Woods svolgevano un ruolo molto marginale,

limitandosi a correggere squilibri circoscritti e di breve durata. La

speculazione non solo non era ammessa, ma neppure possibile. Gli scambi

monetari erano esclusivamente la contropartita di quelli commerciali. Erano

vietati i movimenti di capitale destabilizzanti da un Paese all’altro, e nei

singoli Stati vigevano divieti sugli investimenti in capitali esteri e sul

collocamento di titoli del debito pubblico che non fossero i propri. Non

esisteva un sistema bancario e finanziario privato sovranazionale e le borse

valori operavano entro i confini dello Stato di appartenenza. In altre parole

l’assetto e la regolamentazione dei mercati finanziari escludevano alla base

movimenti di capitali monetari speculativi. Il sistema monetario del gold

exchange standard poteva infatti funzionare solo in un ristretto spazio di

manovra della circolazione monetaria.

La Cee e la rinascita dell’Europa

Ma a partire dal 1958 l’equilibrio raggiunto nel dopoguerra cominciò a

scricchiolare. Nel decennio precedente, grazie agli aiuti del piano Marshall,

e al sistema dei cambi fissi, gli Stati europei conobbero uno sviluppo a due

cifre che li portò a ragionare in termini più indipendenti e competitivi nei

confronti degli Stati Uniti. E a incontrarsi per portare avanti l’idea una più

ampia area di libero scambio e circolazione delle persone, dei servizi, delle

merci e dei capitali. Ma non furono principalmente le ragioni economiche a

spingere i Paesi europei verso l’unione, quanto l’idea di costruire una pace

duratura in Europa dopo le enormi sofferenze patite con la guerra. A fare il

primo passo in tal senso fu il Ministro francese degli Affari esteri, Robert

Schuman che propose alla Germania di riunire in un mercato comune le

industrie del carbone e dell'acciaio, le più strategiche dal punto di vista

bellico, sottoponendole al controllo di un'autorità sovranazionale. Poi, per

rendere, come disse Schuman il 9 maggio 1950, "una qualsiasi guerra tra la

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Francia e la Germania non solo impensabile, ma materialmente

impossibile", nel 1951 la Francia e la Germania istituirono con Belgio,

Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi, la Comunità europea del carbone e

dell'acciaio (CECA)

Il passo decisivo e più importante fu però compiuto sei anni dopo, quando

il 25 marzo 1957 Francia, Belgio, Germania ovest, Italia,

Lussemburgo, Paesi Bassi, firmarono a Roma due trattati (detti appunto i

Trattati di Roma) che entrarono in vigore il 1º gennaio 1958, dando vita

alla Comunità europea dell'energia atomica (Euratom) e alla Comunità

economica europea (Cee o CE in seguito al Trattato di Maastricht del

1992) o Mercato Comune, la cui sede politica e burocratica fu fissata a

Bruxelles. La Cee, che nacque con l’idea di favorire l'unione economica dei

suoi membri, fino ad arrivare a un'eventuale unione politica, aveva tra i

suoi obiettivi quello di favorire il libero movimento di beni, servizi,

persone e capitali, abolire i cartelli e sviluppare politiche congiunte e

reciproche nel campo del lavoro, dello stato sociale, dell'agricoltura, dei

trasporti, del commercio estero, era però circosrcitta solo ai sei paesi

europei che l’avevano proposta. Si trattava quindi, almeno inizialmente, di

un patto ristretto a pochi, tant’è che alla richiesta del Regno Unito di

allargare il Mec, la Francia si oppose nel novembre 1958. Ciò spinse il

Regno Unito ad allearsi con la Svezia per promuovere l'Associazione

europea di libero scambio (EFTA) che si concretizzò nel 1960, con

l’adesione di altri paesi non membri della Cee (Austria,

Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svizzera). Pertanto, alla fine degli anni

cinquanta, il difficile processo di integrazione europea aveva insomma già

iniziato il suo cammino, pur con una visione soggetta a logiche ed equilibri

di potere nazionale.

In particolare all’inizio fu la Francia il paese che più determinò, a livello

strategico, la direzione. Il 21 dicembre 1958 il generale Charles De Gaulle

fu nominato con una votazione plebiscitaria presidente della Repubblica e

governò la Francia per dieci anni. De Gaulle era favorevole a

un’integrazione economica europea ma credeva anche che i singoli Stati

dovessero mantenere la loro individualità e responsabilità. (“Non ci può

essere altra Europa che quella degli Stati, tutto il resto è mito, discorsi,

sovrastrutture”). Il resto, e cioè la creazione di un’impalcatura politica fatta

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di sovrastrutture e authority, erano per lui solo chiacchiere destinate al

fallimento. In sintesi la sua idea era quella di una Europa confederale da

raggiungere attraverso accordi e trattati tra Paesi.

Così, pur contrario alla burocrazia di Bruxelles, da un lato spinse gli Stati

europei a firmare regole comuni e pemanenti con l’obiettivo principale di

avviare una politica agricola comunitaria di cui la Francia ne avrebbe

beneficiato, dall’altro lavorò per formare in Europa un asse franco- tedesco

e, nello stesso tempo, trafficò in segreto per costituire un direttorio con gli

inglesi e gli americani a capo dell’alleanza atlantica. Il secco no che

ricevette da Washington e da Londra lo portò a cambiare disegno politico

puntando su un’Europa a guida francese che si ponesse in concorrenza con

le due potenze mondiali: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. La Francia

aveva tutte le carte in regola per giocarsi la partita da protagonista. Anche

perché con la fine del Commonwealth e il disastroso esito della crisi di

Suez, la Gran Bretagna venne a perdere tutta la sua forza e iniziò a premere

per entrare anch’essa nella Comunità europea che nel frattempo stava

conoscendo uno straordinario successo. Nel decennio 1958-1967 lo

scambio tra i sei Paesi della Cee era infatti passato da 6,7 miliardi di dollari

a 24,1 aumentando del 260% circa.

Gli americani perdono terreno

A partire dal 1958 il deflusso di capitali verso l’Europa, non compensato a

sufficienza dalle esportazioni portò per la prima volta in deficit la bilancia

di pagamenti degli Stati Uniti. Fu il primo segnale serio di allarme per gli

americani. La forte ripresa del commercio in Europa rischiava di fare

saltare gli accordi di Bretton Woods. Così, dopo un periodo di relativo

immobilismo, gli Usa, presieduti da John Fitgerald Kennedy, reagirono

dando il via da un lato a una stretta integrazione del potenziale militare

all’interno della Nato e rilanciando dall’altro l’iniziativa americana in

Europa con un programma di liberalizzazioni spinte. E per far fronte al

deficit valutario, la Banca centrale americana (Fed) iniziò a stampare

dollari. Questa politica, definita con l’espressione di “benign neglect”,

portò inevitabilmente nel tempo a diminuire la capacità americana di

convertire i dollari in circolazione in oro, aprendo le prime crepe nel

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sistema. Queste si allargarono a partire dal 1962 quando scoppiò la guerra

del Vietnam e l’amministrazione democratica del presidente Lyndon

Johnson diede inizio ad una politica economica espansiva per finanziare

l’aumento delle spese sociali e l’impegno militare in Asia.

Le banche abbassarono i tassi d'interesse sui prestiti e numerosi governi

dei Paesi in Via di Sviluppo, incentivati anche dal Fondo Monetario

Internazionale e dalla Banca Mondiale, videro l'occasione favorevole per il

loro sviluppo. Il momento sembrava perfetto per chiedere prestiti per

sostenere i piani di crescita e far fronte ai bisogni di popolazioni stremate

dalla fame. Nella pratica però, molto spesso i soldi andarono nelle mani di

dittatori che se ne servirono per armarsi e rafforzare il loro potere

favorendo l’accumulo del debito dei Paesi del Sud del mondo.

La fine di Bretton Woods

Con le liberalizzazioni e la politica monetaria espansiva portata avanti dagli

Stati Uniti negli anni Sessanta iniziarono i processi di globalizzazione

dell’economia con la formazione di potentissime imprese multinazionali.

Con il risultato che i dollari fuori dal controllo della Federal Reserve Bank

usati nelle transazioni europee (eurodollari) e quelli riciclati e investiti dai

produttori di petrolio (petrodollari) crebbero enormemente (da 14 miliardi

nel 1964 a 160 nel 1973 e a 500 miliardi nel 1978). Alla fine di quel

decennio c’era una sovrabbondanza di biglietti verdi in giro per il mondo.

Nel 1971 per la prima volta anche il conto corrente degli Stati Uniti andò in

deficit e da più parti si iniziò a ipotizzare una possibile svalutazione del

dollaro nei confronti dell’oro. I francesi e gli inglesi, spaventati dalle

possibili conseguenze, minacciarono di convertire tutte le loro riserve di

dollari in oro. Ma così dicendo, fecero peggiorare la situazione. La

reazione degli americani fu infatti immediata. Il 15 agosto 1971 con un atto

unilaterale, il presidente americano Richard Nixon annunciò di sospendere

temporaneamente la convertibilità del dollaro in oro e in altre riserve

accompagnando il tutto con un blocco dei salari di 90 giorni, una tassa del

10% sulle importazioni e una tassa del 10% sul credito per gli investimenti.

Immediatamente dopo la divisa americana perse il 20% del proprio valore

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rispetto allo yen e quasi il 15% nei confronti del marco tedesco. La caduta

del dollaro trascinò nel caos l'intero sistema monetario internazionale. Le

monete deboli come la sterlina inglese, la lira italiana, la peseta spagnola e

in parte il franco francese, registrarono pesanti perdite rispetto al marco e

allo yen. E, nel terremoto valutario, i capitali di tutto il mondo s'orientarono

sempre di più verso la moneta nipponica e tedesca, mettendo in discussione

il ruolo stesso del dollaro nel sistema monetario internazionale. Nella testa

di Nixon la sospensione della convertibilità del dollaro avrebbe dovuto

essere solo un atto di forza temporaneo in attesa di stabilire un nuovo

rapporto di cambio ma gli eventi la trasformarono in una mossa definitiva

che inaugurò un periodo di estrema volatilità per le valute.

La svalutazione rese di fatto il dollaro inconvertibile e la sua circolazione

accrebbe l'inflazione e la situazione debitoria di molti paesi produttori e

consumatori di petrolio. I dollari vennero investiti solo in piccola parte

negli stessi Stati produttori. Il resto si riversò nel sistema economico e

finanziario mondiale con effetti destabilizzanti che portarono gli Stati

Uniti, nel marzo del 1973, ad abbandonare per sempre l’ancoraggio con

l’oro chiudendo definitivamente un’epoca “felice” in cui tutto era stato

regolato in modo semplice e chiaro.

Le crisi energetiche e la liberalizzazione dei mercati

La volatilità dei cambi aumentò i rischi di ulteriori tonfi del dollaro mentre

all’orizzonte le nubi si facevano minacciose. Stava infatti per scoppiare il

fronte arabo israeliano. Il 6 ottobre 1973 con l’attacco di Egitto e Siria

contro Israele iniziò la guerra dello Yom Kippur. La guerra, che durò 16

giorni (finì ufficialmente il 22 ottobre), ebbe pesanti ripercussioni sulle

economie dei Paesi europei e degli Stati Uniti che perdurarono fino alla

fine degli anni Settanta. Il prezzo del petrolio aumentò più del triplo

rispetto alle tariffe precedenti causando una pesante inflazione in Giappone

e nei paesi europei industrializzati carenti di petrolio come l’Italia. Questi,

per evitare peggiori conseguenze, furono costretti a sostenere il mondo

arabo e a favorire la causa palestinese, anche dinanzi ad atti terroristici e

violenti. La crisi petrolifera colpì duramente la Comunità Europea, che non

riuscì, negli anni successivi alla guerra, a predisporre un comune piano

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economico di ripresa per gli Stati membri. Ma l’aumento dei prezzi del

petrolio riversò un ampio flusso di denaro (petrodollari) nelle tasche dei

petrolieri che lo fecero confluire verso le banche internazionali. Una mina

vagante per gli Stati Uniti.

Se i petrodollari in circolazione fossero stati investiti in valute più stabili,

come il marco o lo yen, il dollaro non solo avrebbe subito una ulteriore,

pesante, caduta ma sarebbe diventato anche una delle divise utilizzate negli

scambi internazionali. E non più l’unica. La paura di perdere la centralità

della propria moneta, spinse gli Stati Uniti ad accelerare la liberalizzazione

dei mercati dando una ulteriore spinta al processo di globalizzazione in

atto.

Nel 1974 il fallimento (26 giugno) di una banca tedesca, la Bankhaus

Herstatt, causò enormi difficoltà anche alle banche degli altri Paesi che

ebbero pesanti ripercussioni sul sistema dei pagamenti.

Per migliorare la collaborazione internazionale ed evitare incidenti analoghi

a quello di Herstatt il Governatore della Banca d’Inghilterra Peter Cooke,

insieme agli altri rappresentanti delle banche centrali dei paesi cosiddetti

G-10 diede vita a un Comitato sotto l’egida della Banca dei Regolamenti

Internazionali, situata a Basilea. L’obiettivo era quello di coordinare i

processi di deregolamentazione dei mercati finanziari tra gli Stati aderenti e

di promuovere una regolamentazione leggera nel sistema bancario. Intorno

al Comitato, che fu inizialmente chiamato “Comitato Cooke” dal nome del

suo primo presidente, cominciò a raccogliersi una specie di forum

finanziario aperto. In esso le banche centrali e i maggiori istituti di credito

della sfera occidentale e in particolare dell’anglosfera ebbero un ruolo

strategico molto importante nel promuovere e indirizzare la

deregolamentazione.

Cambia la mission del Fmi

La fine di un sistema di cambi fissi come quello di Bretton Woods e

l’eliminazione dei controlli sui movimenti dei capitali resero non solo ardua

ma inutile la missione per la quale il Fmi era stato istituito: promuovere il

commercio internazionale in un quadro di stabilità monetaria. In uno

scenario di volatilità sistemica dei mercati finanziari che fomentava la

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speculazione internazionale e di forte liquidità circolante in dollari

occorreva ripensare la funzione del Fondo e stabilire nuovi obiettivi che

vennero individuati nel finanziamento degli squilibri della bilancia dei

pagamenti dei paesi in via di sviluppo con prestiti vincolati al rispetto di

specifiche condizioni e a piani di rigorosa stabilizzazione. L’attenzione del

Fondo si spostò pertanto sulle politiche macroeconomiche dei paesi

membri e sugli squilibri interni dei loro mercati. Ciò lo portò a trasformarsi

da prestatore a breve termine in prestatore a lungo termine. Il 13 giugno

1974 fu creato un nuovo meccanismo di credito che avrebbe aiutato i paesi

membri le cui bilance dei pagamenti fossero state sostanzialmente

squilibrate dall'aumento del costo del petrolio a superare il difficile periodo

di transizione. La dotazione di questo nuovo strumento creditizio,

equivalente a 3 miliardi in diritti speciali di prelievo, fu sottoscritta dai

paesi OPEC e dal Canada.

Nel triennio successivo le bilance dei pagamenti dei paesi industrializzati

migliorarono notevolmente. Le migliori condizioni di scambio, la crescita

delle importazioni manifatturiere da parte deli paesi dell’Opec avevano

riportato i conti delle economie occidentali a posto. Ma anche i Paesi in via

di sviluppo, grazie al riciclaggio dei petrodollari favorito dal Fondo

monetario erano in netta ripresa. Purtroppo però la nuova crisi orientale

frenò il positivo trend di sviluppo che si era venuto a creare. Nel 1976

anche l’Italia, con l’allora Governo di Unità nazionale presieduto da Giulio

Andreotti, fu costretta a chiedere un prestito di circa cinquecentomilioni al

Fondo monetario internazionale sottoponendosi, in cambio, a una rigida

disciplina e ai controlli sui bilanci e sulle spese.

Nel gennaio 1979 l’Aiatollah Khomeini guidò in Iran la rivoluzione contro

lo scia Reza Palevi e nell’aprile dello stesso anno un referendum popolare

decretò l’instaurazione di una Repubblica Islamica con a capo Khomeini.

Immediatamente dopo il dittatore irakeno Saddam Ussein lanciò una

escalation propagandistica contro il fondamentalismo sciita dell’Iran

proponendosi ai paesi arabi e a quelli occidentali come il baluardo contro il

possibile dilagare del komeinismo. La guerra che scoppiò nel settembre

1980 fu inevitabile. Gli aumenti dei prezzi del petrolio che ne seguirono

resero di nuovo rilevanti i meccanismi di riciclaggio dei surplus dei paesi

OPEC ed ebbe ripercussioni negative sulla ripresa dei Paesi in via di

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sviluppo. Questa infatti dipese sempre di più dalle operazioni di riciclaggio

dei petrodollari effettuate dal Fondo monetario internazionale che mutarono

profondamente i rapporti tra economie industrializzate e paesi OPEC,

conferendo a questi ultimi un maggior peso politico.

La svolta monetarista

Ma l’aumento del prezzo del petrolio fece anche crescere notevolmente in

Europa e negli Stati Uniti il rischio di una nuova ondata di inflazione

incontrollata e di un conseguente tonfo del dollaro seguito da una serie di

svalutazioni a catena delle altre valute. Con la guerra tra l’Iran e l’Irak gli

Stati Uniti avvertirono sempre più forte la paura di perdere il privilegio di

possedere la valuta di riferimento mondiale. Da qui cominciò a farsi strada

negli Usa l’idea di una politica monetaria che mettesse al primo posto la

stabilizzazione del cambio del dollaro a prescindere dell’equilibrio della

bilancia commerciale. L’idea aprì la strada a scenari sino ad allora

inesplorati. Innanzitutto per dare stabilità al dollaro indipendentemente dai

rapporti economici reali sottostanti, gli Usa dovevano attirare capitali

dall’estero. E per farlo occorreva rendere il più attrattivo possibile il

mercato finanziario interno. In questa nuova prospettiva divenne

inevitabile la liberalizzazione completa dei movimenti dei capitali. Una

strada che comportò anche la fine del protezionismo. Senza liberalizzare gli

scambi commerciali non sarebbe infatti stato possibile liberalizzare i

movimenti dei capitali. Ma per ridare al dollaro quel ruolo egemonico di

moneta di riferimento mondiale occorreva anche pensare a un nuovo

sistema monetario che potesse di fatto sostituirsi al gold standard in modo

non traumatico: il cosiddetto dollar standard. Per questo serviva una nuova

teoria. E Milton Friedman la formulò con il monetarismo. Secondo i

principi della teoria monetarista, per mantenere il dollaro come moneta di

riserva, bisognava preservarlo dalla svalutazione indotta dall’inflazione.

Sarebbe stata dunque quest’ultima la “bestia nera” da combattere a tutti i

costi regolando la circolazione monetaria in virtù della crescita

dell’economia. La teoria di Friedman fissò pertanto una stretta correlazione

tra massa monetaria (M1) e prodotto interno lordo (PIL) e attribuì a una

autorità monetaria (la Fed nel caso degli Usa), indipendente dal potere

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politico, il compito di dosare la liquidità del sistema, tramite la manovra sul

tasso di interesse. Per gli Stati Uniti e l’Europa il monetarismo, nonostante

un’ avvio tranquillo, senza cioè particolari traumi, fu una grande

rivoluzione. Negli Usa la sua introduzione fu preceduta da una attenta

strategia di comunicazione politica. Già nell’agosto del 1979 il presidente

americano Jimmy Carter nominò Paul Volcker a capo della Fed. Volker,

che proveniva dalla Federal Reserve di New York, dal 1969 al 1974 aveva

ricoperto l’incarico di sottosegretario del Ministero del Tesoro per gli affari

monetari internazionali. E qui si era fatto conoscere per il ruolo importante

che aveva avuto nelle decisioni di sospendere nel 1971 la convertibilità

dell'oro. Volker mise subito la lotta all’inflazione in cima alle priorità degli

americani. Egli disse che senza un attento controllo e contenimento

dell’inflazione l’economia americana non sarebbe ripartita, facendo capire

che, per rilanciare gli investimenti e l’occupazione, avrebbe dovuto tirare il

freno con forza. Il concetto passò velocemente all’opinione pubblica e, alla

fine del 1979, la Fed innalzò fortemente i tassi di interesse. La manovra

ebbe successo, fermò l’inflazione e evitò la svalutazione del dollaro. Ad

essa si affiancò la liberalizzazione dei movimenti di capitali, il cui via fu

dato dal Depository Institutions Deregulation and Monetary Control Act,

approvato dal Governo degli Stati Uniti nel 1980.

La deregulation degli anni Ottanta

Gli anni Ottanta si aprirono all’insegna del liberalismo spinto. Due furono

gli statisti chiave del nuovo movimento che guidò le scelte del mondo

occidentale. Ronald Reagan negli Usa e Margaret Tatcher in Inghilterra.

Essi presentarono il liberalismo e la svolta monetarista come una battaglia

per la libertà, contro il dilagare dello statalismo sia interno che esterno. La

caduta delle barriere finanziarie apriva la scena su quella che venne vista

fin dall’inizio come la nuova frontiera dell’economia mondiale. Un grande

spazio dove i capitali erano liberi di circolare senza limiti. Facilitati in

questo dalle scoperte tecnologiche di quegli anni che annullarono gli

intervalli temporali e spaziali delle transazioni finanziarie spianando la via

all’ingegneria finanziaria dei derivati. E scatenando, in assenza di regole,

movimenti speculativi su larga scala che posero le loro basi in paradisi

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fiscali, protettorati, porti franchi, isole, atolli indipendenti. Il processo di

globalizzazione passò così nelle mani delle istituzioni finanziarie private

che, in ogni paese sollecitarono la deregolamentazione statale imponendola

di fatto, con il ricorso ai centri finanziari offshore.

Le forze globalizzanti si identificarono nel cosiddetto “consenso di

Washington”, espressione coniata nel 1989 dall'economista John

Williamson per indicare le 10 direttive di politica economica promosse

dalle organizzazioni internazionali con sede a Washington come il Fondo

Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e il Dipartimento del Tesoro

degli Stati Uniti d'America per risolvere le crisi dei Paesi in via di sviluppo

che ricorrevano al loro aiuto. Le direttive, che prendevano spunto dalla

scuola di Chicago di cui Friedman era l’esponente di spicco, consistevano

in riforme di stabilizzazione macroeconomica e apertura dei mercati ai

capitali e al commercio internazionale. Dalla sua accezione originaria, il

termine “Consensus di Washington” venne in seguito utilizzato per indicare

un generale orientamento verso un approccio economico fortemente

orientato al mercato. Una sorta di manifesto neoliberista attorno al quale si

raccolse una vasta galassia di banche, organizzazioni finanziarie e gruppi

transnazionali occidentali, pubblici e privati che ne condividevano principi

e metodi. Incontri come quello di Davos divennero il palcoscenico di

questo nuovo assetto di potere. Tra gli invitati c’erano anche i

rappresentanti degli Stati e delle istituzioni finanziarie nazionali che

venivano sollecitati a non ostacolare le spinte globalizzanti e a dare risposte

tempestive e conformi alle esigenze di deregolamentazione.

La scuola di Chicago e i PAS

L’aumento dei tassi di interesse americani e la rivalutazione del dollaro

fecero lievitare il debito pubblico che i Paesi invia di sviluppo avevano

ricevuto a tasso variabile negli anni precedenti dal Fondo Monetario

Internazionale e dalla Banca Mondiale. In quegli anni gran parte di essi,

anche per effetto degli eccessivi squilibri della bilancia commerciale

provocati dalla libera circolazione dei capitali, finì in amministrazione

controllata e chiese l’aiuto del Fondo. Sollecitato da più Stati membri, il

Fondo, per mantenere il suo ruolo, dovette riconvertirsi in uno strumento di

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politica economica internazionale specializzato nella ristrutturazione dei

debiti degli Stati sovrani. In sintonia con il pensiero dominante, la dottrina

che guidò i suoi interventi fu quella del libero mercato, interpretata su scala

globale secondo gli insegnamenti della scuola di Chicago. In sintesi:

liberalizzare i movimenti di capitale, privatizzare i pubblici servizi e le

risorse naturali economiche in mano pubblica, come miniere e fonti di

energia, applicare una severa politica monetaria antinflazionista per arrivare

a un bilancio pubblico in pareggio. Una visione che di fatto favoriva la

penetrazione economica finanziaria dei grandi conglomerati finanziari e

commerciali stravolgendo profondamente la struttura economica finanziaria

del Paese in questione. Il primo caso si ebbe con il Messico.

Nel 1982 il Messico dichiarò al mondo intero che non ce l’avrebbe fatta a

restituire il suo debito. Per evitare il collasso del Paese e la reazione a

catena che si sarebbe potuta scatenare nel sistema economico e finanziario

mondiale, il Fondo e la Banca Mondiale subentrarono nei crediti delle

banche commerciali, permettendo il flusso di nuovi capitali. Ma così

facendo aumentarono l’entità del debito e costrinsero il Messico, in cambio

dell’urgente salvataggio, ad accettare i cosiddetti Pas, piani di

aggiustamento strutturali, impostati secondo i dettami della scuola di

Chicago. L’obiettivo dei Pas era quello di stabilizzare la bilancia dei

pagamenti. Per farlo il Messico doveva da un lato incrementare nel più

breve tempo possibile le esportazione attuando tutte le misure necessarie

anche a scapito di cambiare radicalmente produzione e metodi lavorativi,

dall’altro attirae capitali mettendo in atto tutte le manovre necessarie allo

scopo tra cui l’aumento dei tassi di interesse. Secondo il Fondo monetario i

PAS avrebbero spianato la via in Messico per rilanciare nuovamente

l’economia a partire dagli anni '90. In realtà non fu così e ancora oggi il

Messico fa molta fatica a riprendersi. Le ricette del Fmi furono seguite da

numerosi paesi, dall'America Latina all'Africa al Sud Est Asiatico. E

dappertutto le privatizzazioni causarono licenziamenti, l’eliminazione dei

dazi favorì l’ingresso delle merci straniere più competitive, la riduzione dei

vincoli sociali, le politiche deflattive, la svendita delle risorse naturali ed

umane e impoverirono la popolazione. Tanto che lo stesso Fondo dovette

prendere atto del mancato raggiungimento dei risultati sperati. Il dato di

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fatto era infatti che i Paesi soccorsi dal Fmi facevano tutti molta fatica a

rimborsare i prestiti ricevuti.

Per migliorarne la situazione il Tesoro americano pensò di spostare in

avanti le scadenze e di rifinanziare gli arretrati.

A partire dal 1985 con il Piano Baker, nel 1988 con l’iniziativa di Toronto e

nel 1989 con il Piano Brady il Governo promosse una serie di nuove misure

mirate a ridurre il debito per i Paesi altamente indebitati. La loro

realizzazione fu affidata al Club di Parigi, l'organizzazione che mette

insieme i 19 Governi che vantano maggiori crediti (gestisce il 70% di tutti i

crediti bilaterali ufficiali, che a loro volta costituiscono la metà dei debiti

esteri). In particolare il piano Baker aveva l’obiettivo di stimolare le banche

a fornire nuovi crediti per sostenere le politiche di aggiustamento proposte

dal fondo. Ma gli istituti di credito non si si dimostrarono disponibili a

investire in aree deboli e il piano fallì. L’anno dopo, a Toronto, vennero

proposte nuove scadenze diluite in 25 anni dopo un periodo di 14 a tassi

limitati per i crediti agevolati. Esperimento che dopo pochi mesi fu

accantonato.

Visto l’insuccesso delle precedenti manovre di riduzione del debito il

piano Brady puntò a coinvolgere il Fondo monetario internazionale, la

Banca Mondiale e i governi in forma bilaterale. Non fu un gran successo

ma nacquero le prime forme di conversione del debito estero interno in

valuta locale. Solo alla fine degli anni Ottanta, quando divenne chiaro che il

posticipare le scadenze nel tempo faceva da un lato guadagnare molto in

interessi ma dall’altro, aumentare il debito totale, a causa della

capitalizzazione dei tassi, i creditori si resero conto che alla lunga ci

avrebbero perso, perché alcuni debiti non si sarebbero mai estinti.

Gli anni dell’euforia e la crisi aisiatica

Nel 1989 crolla il muro di Berlino. E’ la fine della guerra fredda. E’ il

trionfo degli Stati Uniti sull’Unione Sovietiva, della democrazia sul

comunismo, del modello americano su quello sovietico. Gli Usa sono i

padroni del mondo. Si apre un decennio dove gli investimenti privati

spiccano il volo e la deregulation si manifesta in tutti i settori.

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Negli anni Novanta il Fmi contribuisce a spingere l’acceleratore sulla

rapida liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali

coinvolgendo molti Paesi in via di sviluppo che si lasciano trascinare nel

clima generale di grande euforia. A parte alcune importanti eccezioni tra

cui l’India e la Cina che rimasero sorde agli appelli liberistici, la maggior

parte dei Paesi in via di sviluppo aprirono le loro economie agli scambi di

capitali con l’estero. Anche se ormai i rischi connessi alla completa

mobilità dei capitali non erano più sconosciuti, in molti ambienti politici e

accademici regnava la convinzione che le liberalizzazioni avrebbero

portato maggiore efficienza e sarebbero state utili alla crescita

dell’economia globale.

Ma in molti Paesi in via di sviluppo nei quali il Fmi promosse le

liberalizzazioni, le crisi degli anni Novanta superarono quelle del decennio

precedente e, anche per via del collegamento tecnologico sempre più stretto

tra gli operatori e i mercati di tutto il mondo, ebbero delle ripercussioni

molto forti dappertutto. Ne fu un esempio la crisi finanziaria del Sud est

asiatico che colpì i paesi asiatici, ma fece sentire per diverso tempo i suoi

contraccolpi ovunque. A lungo il Fondo monetario internazionale aveva

incoraggiato gli investitori internazionali a convogliare capitali sui Paesi di

nuova industrializzazione, in forte crescita e dotati di istituti finanziari,

apparentemente, solvibili e affiancati da garanzie pubbliche facendosi in

ultima istanza garante, insieme ai Governi coinvolti, della loro restituzione.

Gli investitori, che tra l’altro non conoscevano bene i mercati asiatici,

confidavano anche nel fatto che questi Paesi fossero troppo grandi e

importanti per essere lasciati fallire. Il rischio che si presero fu quindi,

spesso inconsapevolmente, troppo elevato. Bastò infatti il peggioramento

della congiuntura internazionale per provocare una reazione a catena di

dimensioni eccezionali.

Le economie dei Paesi indebitati smisero di crescere e gli speculatori

internazionali presero posizione cercando di forzare la svalutazione delle

loro valute. Cosa che alla fine avvenne. Le autorità nazionali, dopo alcuni

tentativi andati a vuoto, furono infatti costrette a ritirarsi in quanto le

riserve valutarie limitate e l’eventuale costo di un’operazione di

salvataggio, non permisero loro di tenere duro. Ma il deprezzamento spinse

le banche e i creditori internazionali a richiedere indietro i prestiti

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scaricando così i loro problemi di liquidità sulle imprese. Quelle locali,

soprattutto, ne soffrirono moltissimo. Erano indebitate in dollari e non

potevano rimborsarli a causa del drammatico calo della domanda interna

che lasciava invenduta la produzione. Scoppiò così una crisi gravissima che

dalle banche e dalle imprese si propagò all’economia reale. I due paesi più

colpiti furono l’ Indonesia e la Thailandia dove i tassi di accumulazione del

capitale caddero violentemente e mai più raggiunsero le elevate vette del

decennio precedente.

Il movimento no global e le accuse al Fondo

La crisi fu talmente profonda che economisti, scienziati, politici e autorità

internazionali misero in seria discussione la natura, le funzioni, i compiti e

le politiche delle grandi istituzioni finanziarie internazionali. Le pesanti

conseguenze in Asia e la rigidità con la quale il Fondo monetario

internazionale applicò gli insegnamenti della scuola di Chicago e il

paradigma del Washington Consensus contribuirono al diffondersi di una

parte del movimento no global, quella avversa al Fmi.

Le maggiori accuse rivolte al Fondo riguardavano il fatto che esso agisse

più per preservare il suo credito e quello degli investitori istituzionali che

per favorire la ripresa dei Paesi in difficoltà, che prestasse più attenzione

alla tenuta del processo di globalizzazione che alle drammatiche

conseguenze della crisi sulle economie locali, che salvaguardasse gli

interessi degli speculatori piuttosto che delle popolazioni interessate.

Sembrava inoltre non dare affatto peso al principio che tutti coloro che

avessero partecipato alla formazione di una bolla speculativa dovessero

caricarsi parte dei costi qualora essa esplodesse. Ad avvalorare le accuse

c’erano studi e ricerche come .un rapporto prodotto dalla Banca mondiale

nel 1996 che analizzava l’impatto sociale dei PAS sui Paesi che li avevano

adottati. Dall’indagine emerse che in 8 dei 23 Paesi esaminati che ci fu un

aumento della povertà, mentre in 11 dei rimanenti 15 paesi la povertà è

diminuì meno del 2%. Mentre i tagli alle spese sociali portarono ad un

incremento della mortalità infantile e alla diminuzione del livello scolare.

Ma c’era anche l’esempio virtuoso della Malesia, l’unico paese che per non

seguire le raccomandazioni del Fmi, impose restrizioni ai movimenti di

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capitale in uscita. Una decisione che permise a Mahathir , leader del partito

unico, di traghettare il paese fuori dalla crisi senza spargere sangue. Ma

anche Cina e India se l’erano cavata riducendo al minimo le liberalizzazioni

del mercato dei capitali.

Al di là di tutto la crisi asiatica fece comprendere al mondo intero come

l’elevata integrazione finanziaria dei paesi legasse i destini degli uni agli

altri ben oltre quanto preventivato e osservato in passato. E i dubbi sul

fatto che i mercati lasciati a se stessi potessero garantire l’ordinato

funzionamento dell’economia globale, si fecero sempre più varco

nell’opinione pubblica. Da più parti si sollevò l’idea che fosse ormai giunto

il momento di ragionare su una gestione graduale del processo di

integrazione mondiale che prevedesse un meccanismo di governo del

sistema finanziario globale, la supervisione e regolamentazione dei mercati

finanziari e un intervento oculato degli Stati nella soluzione dei problemi

macroeconomici. Queste idee alimentarono e diedero forza al movimento

no global che da allora divenne una corrente di opinione internazionale

imprescidibile.

La crisi Argentina e la riforma del Fondo

Con l’inizio del nuovo millennio lo scenario economico e politico

americano mutò rapidamente. Nel novembre del 2000 venne eletta una

nuova amministrazione guidata dal presidente George Bush e quasi

contemporaneamente scoppiò la bolla speculativa legata ai titoli della new

economy. Nonostante la recessione che ne seguì fosse di lieve entità, Bush

decise ugualmente di agire in modo massiccio tagliando le tasse per

rilanciare i consumi interni. Anche la Fed, guidata da Alan Greenspan, si

orientò verso una politica monetaria espansiva abbassando i tassi. In breve

tempo, grazie alle due mosse congiunte sulle tasse e sul costo del denaro,

la finanza pubblica degli Stati Uniti passò da una situazione di sostanziale

equilibrio ad una di accentuato deficit mentre il denaro a tassi bassi spinse

le famiglie americane a diminuire il risparmio in maniera consistente e a

ricorrere sempre più al debito per finanziare l’acquisto dei beni. Il tragico

attentato alle torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001, che fece

precipitare gli indici in Borsa, spinse il Governo Usa a pigiare ancora di

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più sul pedale della ripresa. Ma la politica monetaria e fiscale sempre più

espansiva e gli interventi militari in Afghanistan prima e in Iraq poi,

peggiorarono portarono alla crisi dell’America latina. Gli effetti recessivi

dell’economia che si erano manifestati in seguito all’attacco terroristico

dell’11 settembre e il crollo dei titoli di Borsa, unito alle incertezze sul

futuro dei mercati emergenti, spinsero gli investitori a ridurre il loro

impegno in Argentina. Il Paese in grave difficoltà chiese aiuto ma

l’amministrazione Bush non rispose e il Fondo monetario internazionale

non solo non volle intervenire ma bloccò anche l’erogazione di quella parte

di prestito che era già preventivata perchè, fece sapere, non erano ancora

stati ottenuti risultati soddisfacenti sul piano fiscale. Ciò spinse il Governo

argentino a sospendere i pagamenti verso l’estero e, per evitare che si

prosciugassero le riserve di dollari del sistema bancario in seguito alle

richieste di conversione della valuta locale, a sbarrare ai cittadini l’ingresso

in banca. Fu il disastro. Dall’Argentina la crisi si estese a Turchia, Brasile e

Uruguay e questo rese molto difficile per gli economisti sostenere con

entusiasmo come negli anni passati che gli interventi del fondo monetario

internazionale nei Paesi in via di sviluppo dovessero accompagnarsi a una

politica di rapida liberalizzazione dei mercati e di privatizzazione

altrettanto veloce del settore pubblico. Ancora una volta la storia insegnava

che occorreva molta cautela e attenzione soprattutto in presenza di

economie fragili e di mercati poco sviluppati. E anche lo stesso Fondo

cominciò a ripensare a una riformulazione della sua strategia che fosse più

adeguata alle emergenze e in linea con una visione meno invasiva dei suoi

interventi.

Il problema di una revisione dei metodi e delle modalità di azione del

Fondo fu sollevato nel 2004 dall’ex direttore Rodrigo De Rato. Per

quest’ultimo il Fondo era andato oltre la sua funzione e aveva agito, sulla

base delle esperienze passate, in modo poco ponderato. Occorreva quindi

ridefinire strategie, strumenti e compiti anche alla luce dei nuovi scenari

internazionali come l’espansione della globalizzazione finanziaria e

l’asumento delle interconnessioni tra sistemi economici e finanziari. Le

strategie del fondo non potevano inoltre prescindere dalle conseguenze che

avevano la cancellazione del debito e il conseguimento degli obiettivi nei

paesi poveri. Ma anche le quote di partecipazione dei Paesi membri

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andavano riviste in funzione del peso economico che nel frattempo avevano

raggiunto. A questo proposito in un un primo momento venne promosso

un aumento di capitale che accrebbe il peso di Cina, Turchia, Corea del Sud

e Messico. Poi, nel 2006 a Singapore fu avviato un progetto, approvato nel

marzo 2008, che rivedeva il meccanismo del calcolo delle quote e del

numero dei voti base in modo da dare voce nelle decisioni anche ai paesi

più piccoli e arretrati.

La crisi finanziaria globale

Mentre si discuteva sulla riforma del Fondo, la forte deregolamentazione

degli anni Novanta, l’eccessiva finanziarizzazione del sistema e il

prolungato abbassamento dei tassi condussero il mondo occidentale alla più

grave crisi finanziaria dal 1929 ad oggi. Essa iniziò negli Stati Uniti in

seguito alla facilità con cui le banche avevano dato i mutui, dividendo i

rischi in prodotti strutturati e derivati. E scoppiò in tutta la sua violenza,

con il fallimento della Lehman Brothers, avvenuto nell’ottobre 2008 che

ebbe, tra le più gravi conseguenze, quella di contrarre fortemente la

liquidità dell’intero sistema bancario occidentale. Da allora, il Fondo

Monetario Internazionale, aumentò notevolmente il suo impegno e il suo

peso anche in Europa dove fino a quel momento non c’erano stati problemi.

Anzi con l’euro, le economie europee stavano conoscendo un periodo di

crescita degli scambi e delle transazioni finanziarie molto positivo ma in

Europa la crisi di liquidità si trasformò ben presto in crisi del debito

pubblico mettendo a rischio gli Stati più indebitati, a partire dalla Grecia.

Così, dopo aver incrementato nel 2008 sensibilmente la propria capacità di

prestito il Fondo monetario internazionale si dotò di strumenti d’intervento

più flessibili che gli avrebbero consentito di aiutare i paesi membri a

prevenire improvvisi crolli di fiducia da parte degli investitori

internazionali. Crolli che avrebbero innescato ulteriori pericolose crisi di

liquidità.

Con il rinnovato peso politico del Fondo monetario sulla scena

internazionale hanno ripreso vigore le critiche alle modalità di intervento

del fondo che, come nel caso della Grecia, sarebbero arrivate a

compromettere lo sviluppo del Paese invece di risollevarlo e permettergli in

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modo adeguato di ripagare i suoi debiti nel tempo. Finora nelle decisioni e

nelle modalità di intervento del Fondo un ruolo rilevante lo hanno giocato

gli Stati Uniti e i paesi del G7 che si sono mossi preoccupati più a curare i

propri interessi politici ed economici in un’ottica di breve termine e spesso

miope che orientati a una reale ripresa delle economie soccorse. Ora però, e

questa crisi insegna, non è più possibile pensare in modo particolaristico e

circoscritto alle proprie necessità. Le tecnologie stanno collegando tutte le

economie in modo molto stretto e interdipendente trasformando il mondo in

un villaggio globale nel quale le debolezze di un paese si propagano

velocemente su tutti gli altri. Il ripensamento sulle politiche di intervento

del Fondo diventa quindi una strada obbligata della quale lo stesso Fondo

sembra esserne ormai consapevole.

Contrariamente a quanto ha sostenuto (e fatto) per trent’anni, di imporre ai

paesi salvati misure drastiche e celeri per recuperare velocemente il

prestito, il Fondo monetario internazionale si è espresso di recente per un

intervento più graduale che consentisse alle economie di riprendersi senza

stravolgere la loro situazione e il loro mercato. Prova ne è il caso della

Grecia alla quale, dopo la constatazione del disastro, è stata concessa una

dilazione dei tempi per rimborsare il debito. La strategia che il Fondo

vorrebbe mettere a punto oggi, è pertanto quella di avviare nei Paesi che ne

richiedessero l’intervento una politica monetaria accomodante che porti in

modo ragionevole e progressivo al risanamento dei conti, al riordino del

sistema bancario e a riforme strutturali. Ma il dibattito sul ruolo che il

Fondo monetario internazionale dovrà giocarsi in un’economia che ormai a

tutti gli effetti è diventata globalizzata, è molto acceso. Soprattutto in virtù

del fatto che le strette interconnessioni tra i Paesi sotto l’influenza della

enorme velocità degli scambi informatici, hanno azzerato la possibilità di

circoscrivere danni.

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