Il Regolamento 1169/2011 Il settore agro-alimentare L ... · MICHELE NACCI (12/2/2013) BARBARA...

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Periodico quadrimestrale a cura dell’Ordine degli Avvocati di Parma. Autorizzazione del Tribunale di Parma n.14 del 10 giugno 1992. Spedizione in abbonamento postale art. 2 comma 20/c legge 662/96 Filiale di Parma Anno XXII numero 1 – febbraio 2013 Anno XXII numero 1 (sessantatreesimo della serie) febbraio 2013 grafica: Alessandro Riccòmini Stampa: Coop. Cabiria Scrl L’ articolo 62 della Legge 2012 n. 27 introduce rigorosissime regole da applicarsi all’intero complesso delle relazioni commerciali tra le imprese, ivi compresi servizi e prestazioni accessorie, ciò disciplinando nuovi obblighi contrattuali, termini di pagamento, interessi legali, nonché divieti di pratiche sleali pag. 11 Il settore agro-alimentare è in confusione la novità più significativa è quella relativa alla etichettatura nutrizionale che non solo cambia nome (dichiarazione nutrizionale) ed è strutturata in modo diverso da quella attualmente conosciuta dal consumatore, ma diventa obbligatoria pag. 8 Il Regolamento 1169/2011 in tema di informazione sugli alimenti ai consumatori A distanza di oltre cinquant’anni da questo evento si può trarre il bilancio dell’applicazione di tale normativa, in particolare dell’articolo 5 che, ancora oggi, costituisce la norma di diritto alimentare maggiormente applicata, nei tribunali del nostro paese pag. 21 L’articolo 5 della legge 283 del 1962: il bilancio a cinquant’anni dall’entrata in vigore A qualche anno di distanza dalle riforme del 2005 e 2006, il Legislatore torna a innovare la disciplina dell’esecuzione forzata, e in particolare il pignoramento presso terzi, con disposizioni inserite nella “Legge di stabilità 2013” pag. 37 Pignoramento presso terzi: le novità introdotte dalla legge n. 288/2012 nel “quaderno” allegato: La nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense (legge 31 dicembre 2012, n. 247) Ma che legge è? Davvero arduo formulare giudizi, nel bene e nel male: certe bocciature un po’ troppo tranchant sono forse frettolose ed eccessive, così come sono fuori luogo i trionfalismi che provengono da altri versanti

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Periodico quadrimestrale a cura dell’Ordine degli Avvocati di Parma.Autorizzazione del Tribunale di Parma n.14 del 10 giugno 1992.

Spedizione in abbonamento postaleart. 2 comma 20/c legge 662/96Filiale di Parma

Anno XXII numero 1 – febbraio 2013

Anno XXII numero 1(sessantatreesimo della serie)

febbraio 2013

grafica: Alessandro RiccòminiStampa: Coop. Cabiria Scrl

L’ articolo 62 della Legge 2012 n. 27 introduce rigorosissime regole da applicarsi all’intero complesso delle relazioni commerciali tra le

imprese, ivi compresi servizi e prestazioni accessorie, ciò disciplinando nuovi obblighi contrattuali, termini di pagamento, interessi legali, nonché divieti di pratiche sleali

pag. 11Il settore agro-alimentare è in confusione

la novità più signi�cativa è quella relativa alla etichettatura nutrizionale che non solo cambia nome (dichiarazione

nutrizionale) ed è strutturata in modo diverso da quella attualmente conosciuta dal consumatore, ma diventa obbligatoria

pag. 8Il Regolamento 1169/2011 in tema di informazione

sugli alimenti ai consumatori

A distanza di oltre cinquant’anni da questo evento si può trarre il bilancio dell’applicazione di tale normativa, in particolare

dell’articolo 5 che, ancora oggi, costituisce la norma di diritto alimentare maggiormente applicata, nei tribunali del nostro paese

pag. 21L’articolo 5 della legge 283 del 1962: il bilancio a cinquant’anni

dall’entrata in vigoreA qualche anno di distanza dalle riforme del 2005 e 2006, il Legislatore torna a innovare la disciplina dell’esecuzione forzata,

e in particolare il pignoramento presso terzi, con disposizioni inserite nella “Legge di stabilità 2013”

pag. 37Pignoramento presso terzi: le novitàintrodotte dalla legge n. 288/2012

nel “quaderno” allegato: La nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense

(legge 31 dicembre 2012, n. 247)

Ma che legge è?Davvero arduo formulare giudizi, nel bene e nel male: certe bocciature un po’ troppo tranchant sono forse frettolose ed eccessive, così come sono fuori luogo i trionfalismi che provengono da altri versanti

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SOMMARIOpag. 3 Attività del Consiglio

pag. 3 Aggiornamento albi

pag. 4 Variazioni

pag. 6 Comunicazioni:

- scuola forense

- pratica forense

pag. 8 Il Regolamento 1169/2011 in tema

di informazione sugli alimenti

ai consumatori

pag. 11 Il settore agro-alimentare

è in confusione

pag. 17 La legge anticorruzione

(6 novembre 2012 n. 190)

pag. 19 (anticorruzione):

Trafficodiinfluenzeillecite

pag. 21 L’articolo 5 della legge 283 del 1962;

il bilancio a cinquant’anni dall’entrata

in vigore; problematiche applicative

e prospettive future

pag. 28 La responsabilità da custodia

di animali in condominio

pag. 30 Segnali di fumo

pag. 37 Pignoramento presso terzi:

le novità introdotte

dalla legge n. 288/2012

pag. 45 Giurisprudenza disciplinare

pag. 54 Giurisprudenza

chiuso in redazione il 5 aprile 2013

Cronache dal Foro ParmenseAnno XXII numero 1 febbraio 2013

Periodico quadrimestrale a cura dell’Ordine degli Avvocati di Parma.

Autorizzazione del Tribunale di Parma n.14 del 10 giugno 1992.

Direttore responsabile:avv. Giuseppe Negri

Comitato di redazione:avv. Nicola Bianchi, avv. Andrea Conforti, avv. Emanuela De Roma, avv. Valentina Gastaldo,avv. Alberto Magnani, avv. Alessandra Mezzadri,avv. Giuseppe Scotti

Hanno collaborato a questo numero:

avv. Monica Alpiniavv. Afro Ambanelliavv. Raffaella Caldaavv. Renato Del Chiccaavv. Emanuela De Romaavv. Lino Viciniavv. Giovanni Mazzitelliavv. Stefano Molinariavv. Giacomo Voltattorni

(nel “quaderno” allegato):avv. prof. Giuseppe Colavittiavv. Lucia Taormina

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ATTIVITA’ DEL CONSIGLIODal 5 dicembre 2012 al 4 aprile 2013 il Consiglio si è

riunito 17 volte.

Elenco delle presenze dei Consiglieri alle adunanze:

avv. Salvini n. 17avv. Gandini n. 16avv. Maggiorelli n. 16avv. Brianti n. 16avv. Bruno n. 17avv. Cagna n. 17avv. Coruzzi n. 15avv. De Angelis n. 15avv. De Sensi n. 15avv. Francalanci n. 16avv. Iorio n. 16avv. Mezzadri n. 14avv. Piombi n. 16avv. Silvagna n. 14avv. Ziveri n. 11

OPINAMENTO PARCELLEDal 5 dicembre 2012 al 4 aprile 2013 l’apposita

commissione consiliare (ovvero il Consiglio) ha opinato n. 117 parcelle di cui n. 8 pareri di congruità.

TENTATIVI DI CONCILIAZIONE ART. 13 L. 247/2012

(compensi professionali) al 4 aprile 2013:tentativi n. 2esiti negativi n. 2

PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

Dal registro dei reclami nei confronti degli iscritti dal 5 dicembre 2012 al 4 aprile 2013:

Pervenuti n. 44Archiviati n. 29Disciplinari aperti n. 2Disciplinari celebrati n. 0Revoca sospensione cautelare: 3

RICHIESTE DI AMMISSIONE AL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO

Dal 5 dicembre 2012 al 4 aprile 2013: Pervenute n. 102Ammesse n. 99Non ammesse n. 1Pendenti n. 2

ALBO AVVOCATIISCRIZIONINICOLA MANCANIELLO per trasferimento dall’Ordine di Roma (11/12/2012)LAURA NOTARSTEFANO (11/12/2012)ANTONELLA PASQUARELLA per trasferimento dall’Ordine di Lucera (18/12/2012)ANGELA AIELLO (15/1/2013)MATTEO ANGELOTTI (22/1/2013)FLAVIO ANGIONI (22/1/2013)SIMONA INFORTUNA per trasferimento dall’Ordine di Reggio Calabria (22/01/2013)CARLO POLLINI (22/1/2013)MARIANNA ROLANDI (22/1/2013)1FEDERICA FACCHINI (29/1/2013)ALICE CURCIO (5/2/2013)FRANCESCO FAVARI (5/2/2013)MICHELE NACCI (12/2/2013)BARBARA PONZI (12/2/2013)STEFANO SIMEONE (12/2/2013)GENNY BALLERINI (19/2/2013)FEDERICA CUSIMANO per trasferimento dall’Ordine di Palermo (19/2/2013) FRANCESCA D’ABBIERO per trasferimento dall’Ordine di Benevento (26/2/2013)EVELINA MAGNANI (26/2/2013)VALERIA GIROLDI all’Elenco speciale degli avvocati addetti ad ufficilegali,pertrasferimentodall’OrdinediMilano(5/3/2013)MATTEO CORSO (12/3/2013) ALBERTO GHEZZI (12/3/2013)

BARBARA FONTANESI (19/3/2013)ALESSANDRA PALUMBO (19/3/2013)SERENA PIRO per trasferimento dall’Ordine di Bologna (19/3/2013)LEONARDO BAUCINA per trasferimento dall’Ordine di Taranto con anzianità maturata 18 maggio 1978 (26/3/2013)LISA BORGHI (3/4/2013)

CANCELLAZIONIFRANCO BASSI a domanda (11/12/2012)ROSSELLA MONACHESI dall’Elenco speciale degli avvocati addettiadufficilegali(28/12/2012)ENRICO VERNIZZI a domanda ( 28/12/2013)ALBERTO VERGIATI a domanda (08/1/2013)ANTONIO NEGRI a domanda (15/1/2013)MARIA ROSARIA FRISINA a domanda (22/1/2013)ALDO CREMONINI a domanda (29/1/2013)MARIOPAGLIARIperdecesso,delibera19/3/2013condecorrenza 17/3/2013

Alla data del 4 aprile 2013 gli iscritti all’albo erano in numero di milleduecentoventidue

PRATICANTI AVVOCATIIscritti: n. 16Cancellati: n. 17

PATROCINATORI LEGALIIscritti: n. 10Cancellati: n. 10

AGGIORNAMENTO ALBI

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VARIAZIONI

avv. ALESSIO BERTEI: Borgo Val di Taro (PR),

viale Bottego 14, invariati tel. e telefax;

avv. FEDERICA GENTILI: Parma, borgo Collegio Maria

Luigia 15, cell. 339/5778960, telefax 0521/1910043, invariati

e-mail e posta elettronica certificata;

dott.ssa RAFFAELLA SANTORO: tel. 0521/570912,

telefax 0521/570711, e-mail [email protected] e posta

elettronica certificata [email protected];

avv. STEFANIA TOMMASINI: Parma, borgo Collegio

Maria Luigia 15, e-mail [email protected],

invariati tel., telefax, e posta elettronica certificata;

dott.ssa MARGHERITA VERRATTI: Parma, piazza

Antonio Salandra 25/A, presso lo studio dell’avv. Maria

Assunta Tedesco, tel. e telefax invariati;

avv. FIORELLA MONACHELLA: telefax 0521/293985;

avv. ISABELLA MARRAZZO: telefax 0521/293985;

avv. PAOLA ROSA MUZZETTA: secondo Studio Legale,

Felino, piazza Miodini 9/1, cell. 349/2678770;

avv. FRANCESCA CARLI: Parma, borgo Collegio Maria

Luigia 15, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica

certificata;

avv. CASIMIRO NIGRO: e-mail [email protected];

avv. FRANCESCA ZANETTI: e-mail [email protected];

avv. ELISA CARRANI:posta elettronica certificata

[email protected];

avv. SILVANO CARUCCIO: Parma, viale Fratti 7,

tel. e telefax 0521/230113, cell. 347/2288182,

e-mail [email protected], posta elettronica certificata

[email protected];

avv. MICHELE SACCHI: posta elettronica certificata avv.

[email protected];

avv. FABRIZIO COLLI: e-mail [email protected];

avv. PAOLO LANNUTTI: posta elettronica certificata

[email protected];

avv. CHIARA ZILIOLI: presso Banca Centrale Europea,

Germania 60311 Frankfurt a.M., Kaiserstrasse 29, e-mail e

posta elettronica certificata [email protected];

avv. ALESSANDRO GIACOSA: Parma, via Ruggero da

Parma 21/A, tel. e telefax 0521/570576, invariati e-mail e posta

elettronica certificata;

avv. SIMONA CARPENA: Fontevivo (PR),

frazione Bianconese, quartiere Romitaggio 16,

tel. e telefax 0521/619883;

dott. LUIGI PELUSO: Parma, viale Fratti 7,

tel. e telefax 0521/230113, posta elettronica certificata

[email protected];

avv. FRANCESCO SAGGIORO: Parma, viale Fratti 7,

tel. e telefax 0521/230113, invariati e-mail e posta elettronica

certificata;

avv. MONICA BERTOZZI: unico ufficio Parma,

Vicolo dei Mulini 6, tel. 0521/237608, telefax 0521/285865,

invariati e-mail e posta elettronica certificata;

avv. MARINA BARUFFI: posta elettronica certificata

[email protected];

avv. CARLO ALBERTO DEL CHICCA: Parma, borgo

Cantelli 7, telefax 0521/504247, invariati tel. e-mail e posta

elettronica certificata;

avv. ANDREA MASSIMO MOLE’: Parma, borgo

Scacchini 8, invariati tel., telefax, cell., e-mail e posta

elettronica certificata, casella UNEP n. 355;

avv. LETIZIA TONOLETTI: Parma, borgo Scacchini 8,

invariati tel., telefax, cell., e-mail e posta elettronica certificata,

casella UNEP n. 355;

avv. MAURO FRANCHI: posta elettronica certificata

[email protected];

avv. STEFANIA LAMBERTI ZANARDI: posta elettronica

certificata [email protected];

avv. BARBARA ALLODI: Parma, strada Nino Bixio 73,

tel. 0521/504414 – 232258, telefax 0521/504420,

e-mail [email protected], invariata posta

elettronica certificata, casella UNEP n. 351;

avv. DORINA ZOGA: Parma, viale A. Fratti 7,

tel. e telefax 0521/230113, invariata e-mail,

posta elettronica certificata [email protected];

avv. SARAH CONGIA: e-mail [email protected];

avv. SALVATORE CONIGLIO:

e-mail [email protected];

avv. SONIA GANDOLFI: e-mail avv. [email protected];

avv. LUCIA DOSI: e-mail [email protected];

avv. ANGELO VINCENTI: telefax 0521/1857165;

avv. GIOVANNI QUARANTA: telefax 0521/1857165;

avv. CORRADO VINCENTI: telefax 0521/1857165;

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avv. MARIA ASSUNTA TEDESCO: primo studio Parma,

piazza Antonio Salandra 25/A, tel. 0521/232520, telefax,

e-mail e posta elettronica certificata rimangono invariati,

secondo studio Parma, viale Fratti 7, tel. e telefax 0521/230113;

avv. MARINA BOTTINI: Collecchio, viale S. Pertini 9,

tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata rimangono

invariati;

avv. LAURA GAVAZZI: Parma, stradello di piazzale Boito

1, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata;

avv. SAMANTHA PISARONI: e-mail [email protected];

avv. CONCETTA TURRA’: Parma, via Venezia 22,

tel. 0521/1744842, telefax 0521/1811657, invariati e-mail

e posta elettronica certificata;

avv. ELENA PERRICONE:

e-mail [email protected];

avv. CLAUDIA PEZZONI: secondo studio, Sorbolo (PR),

via Gramsci 5, sito web www.studiolegaleclaudiapezzoni.it;

avv. SANDRO MILANI: e-mail [email protected];

avv. ANNA LEDA GRECO: posta elettronica certificata

[email protected];

avv. SIMONA VARESE: posta elettronica certificata

[email protected];

dott.ssa ROSA LIPSI: Sala Baganza (PR), via Cortesi 2;

avv. MATILDE ROGATO: Parma, borgo Riccio da Parma 29,

tel. 0521/1641135, telefax 0521/1621248 - 1641135,

e-mail e posta elettronica certificata invariati;

avv. MAURIZIO PARIDE DONELLI:

e-mail [email protected];

avv. GIOVANNI VARCARO: casella UNEP n. 357;

avv. CARLOTTA FARNITANO: casella UNEP n. 357;

avv. MARIA LUCIA TAURINO: Parma, borgo della Posta

13, tel. e telefax 0521/232827, invariati cell., e-mail e posta

elettronica certificata;

dott. NICOLA MUSSINI: e-mail [email protected];

avv. PAOLO DELIETI: primo studio, Parma, stradello

Marche 6, tel. 0521/237578, telefax 0521/236840, secondo

studio, Parma, via Ferdinando Maestri 4, invariati tel., telefax,

e-mail e posta elettronica certificata;

avv. ANTONELLA DE STEFANO: posta elettronica

certificata [email protected];

dott. ROBERTO ORZETTI: Parma, strada Massimo

D’Azeglio 51, tel. 0521/231392, telefax 0521/239929, e-mail

[email protected], posta elettronica certificata invariata;

avv. RAFFAELLA CALDA: Parma, via Trento 30/a, invariati tel., telefax, e-mail e posta elettronica certificata;

avv. ANTONIO BODRIA: Parma, via Frà Salimbene 3, telefax 0521/221945, invariati tel., e-mail e posta elettronica certificata;

avv. GIUSEPPE DE STEFANO: Parma, viale Partigiani D’Italia 7, tel. 0521/484703, telefax 0521/696022, invariati e-mail, cell. e posta elettronica certificata;

dott. MASSIMO DE MATTEIS: Parma, viale Partigiani D’Italia 7, tel. 0521/489645, telefax 0521/696021, e-mail [email protected], posta elettronica certificata [email protected];

avv. MIRCO FAVAGROSSA: primo studio, Parma, viale Toschi 4, invariati tel., telefax ed e-mail, secondo studio, Cremona, via Postumia 8/b, tel. 0372/432959 e telefax 0372/863113;

avv. GIOVANNI MAZZITELLI: Parma, strada Antonio Zarotto 31, tel. e telefax 0521/237877, invariati e-mail e posta elettronica certificata;

avv. MARIA PAOLA MALACARNE: Parma, via Mistrali 2, tel. e telefax 0521/386616, posta elettronica certificata [email protected], invariato indirizzo e-mail;

avv. LUCA FRANCHI: Parma, borgo Collegio Maria Luigia 15, telefax 0521/1910043, e-mail [email protected], invariati tel. e posta elettronica certificata;

avv. BIAGIO CRAPAROTTA: Parma, viale Partigiani D’Italia 7, tel. 0521/1855975, telefax 0521/1854775, invariati e-mail e posta elettronica certificata;

avv. SIMONA ROSARIA FINOCCHIARO: Parma, viale Partigiani D’Italia 7, tel. e telefax 0521/460439, invariati e-mail e posta elettronica certificata;

dott.ssa FEDERICA PUTELLI: posta elettronica certificata [email protected];

avv. LUCREZIA FRANCESCA BARBA: Parma, via Carducci 8/a invariati tel. telefax, e-mail e posta elettronica certificata;

avv. ROBERTA ROLLO: Parma, via Carducci 8/a invariati tel. telefax, e-mail e posta elettronica certificata;

avv. IOLANDA CHIERICI: Parma, viale Partigiani D’Italia 7, tel. e telefax 0521/460439, invariati e-mail e posta elettronica certificata;

avv. NICOLA MANCANIELLO: tel. 0521/1810666;

CARATTINI & ASSOCCIATI STUDIO LEGALE TRIBUTARIO DI AVV. ELISABETTA CARATTINI AVV. LAURA GAVAZZI E RAG. FEDERICA DI MARTINO: Parma, stradello di piazzale Boito 1, tel. 0521/283068, telefax 0521/283830

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Tra

L’Ordine degli Avvocati di Parma, nella persona del Presi-dente Avv. Ugo Salvaini;

la Fondazione dell’Avvocatura di Parma, nella persona del Presidente Prof. Avv. Luigi Angiello;

la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università di Parma, nella persona del suo Direttore, Prof. Enrico Gragnoli, e l’Università di Parma, nella persona del Rettore, Prof. Gino Ferretti

Premesso che:

- l’art. 10 del “Regolamento della Pratica Forense” dell’Ordine degli Avvocati di Parma, in vigore dal 2 gennaio 2003, stabilisce che “la Scuola Forense organizzata dal Consi-glio dell’Ordine costituisce una integrazione della pratica e la frequenza della stessa è obbligatoria”;

- l’attività didattica e formativa svolta dalle due Scuole ha ad oggetto tematiche corrispondenti;

- l’art. 6, comma 5, del Regolamento della Scuola di spe-cializzazione per le professioni legali dell’Università di Parma, prevede l’obbligatorietà della frequenza alle attività didattiche;

- la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università di Parma svolge un’attività formativa di ele-vato livello, usufruendo, per tutte le discipline, dell’apporto didattico di Docenti Universitari, nonchèdi Magistrati, Avvo-cati, Notai ed altri Professionisti di alto prestigio, compro-vata e notoria professionalità e nel rispetto delle previsioni dell’art. 4 della l. n. 341 del 19 novembre 1990; dell’art. 17, comma 114, della legge 15 maggio 1997, n. 127; dell’art. 16 del d.lgs. n. 398 del 17 novembre 1997, nonchè delle altre disposizioni di legge e regolamento che ne regolano l’attività;

Tanto premessoSi stipula e si conviene che:

1 Gli studenti iscritti alla Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università di Parma, a condizione che ne sia certificata l’effettiva frequentazione, sono esentati dall’obbligo di frequenza alla Scuola forense istituita e gestita

dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Parma e dalla Fon-dazione dell’Avvocatura di Parma, previsto dall’art. 10 del “Regolamento della Pratica Forense” del suddetto Ordine.

2La Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, tramite la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università di Parma, si impegna a garantire all’Ordine degli Avvocati di Parma e, per esso, alla Fondazione dell’Avvocatura Parmense la fruizione a titolo gratuito delle aule necessarie per lo svolgimento delle attività didattiche della Scuola forense, con una frequenza non superiore a tre giorni settimanali, per 4 orea la giorno, compatibilmente con le esigenze dei corsi di laurea e delle altre attività tenute nell’ambito della Facoltà e del costituendo Dipartimento di Giurisprudenza. La Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università di Parma, inoltre, si impegna, a garantire sempre gratuitamente l’utilizzo delle aule necessarie per lo svolgimento degli eventi facenti parte del “Piano per l’Offerta Formativa dellìOrdine degli Avvocati”, per un numero non inferiore a dodici eventi annuali, a partire dall’anno accademico 2012/2013.

Parma, 26 luglio 2012.

Convenzione regolante i rapporti tra la Scuola di specializzazione per le professioni legali

dell’Università di Parma e la Scuola Forense organizzata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Parma

comunicazioni

Per lUniversità di Parma

Il Rettore

Prof. Gino Ferretti

Per l’Ordine

degli Avvocati di Parma

Il Presidente

Avv. Ugo Salvini

Per il Dipartimento

di Giurisprudenza

Il Direttore

Prof. Giovanni Bonilini

Per la Fondazione

dell’Avvocatura parmense

Il Presidente

Prof. Avv. Luigi Angiello

Visto e ratificato

Per la Scuola di

specializzazione per le

Professioni legali

dell’Università di Parma

Il Direttore

Prof. Enrico Gragnoli

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comunicazioni

Ripetutamente sono state richieste delucidazioni da parte di alcuni praticanti avvocati: pare, pertanto, opportuno fornire qualche chiarimento relativo alle regole concrete atte a facilitare la compilazione del libretto della pratica istitu-ito, come adempimento obbligatorio, col D.P.R. n. 101 del 10/4/1990 e nella redazione della relazione annuale prevista e voluta dall’art. 7 dello stesso D.P.R..

Le finalità proprie del libretto della pratica forense si ricollegano alla necessità di controllarne l’effettivo svolgi-mento e la suddivisione in semestri corrisponde al dettato dell’art. 6 del D.P.R. 101/90.

Per ogni periodo semestrale è richiesta al praticante la compilazione delle tre sezioni nelle quali è suddiviso il libretto.

1 - INDICAZIONE DELLE UDIENZE ALLE QUALI IL PRATICANTE HA ASSISTITO

Si richiede l’indicazione di non meno di 25 udienze (tenuto presente che possono nelle stesse essere incluse, purché contenute in un numero non superiore a tre, la partecipazione alle sessioni con il mediatore nei procedimenti ex D.lgs 28/2/2010, alle sedute dei procedimenti arbitrali ed agli incontri c/o la Divisione Provinciale del Lavoro per tentativo di conciliazione nei procedimenti ex art. 409 cpc) contrassegnate da data, numero di ruolo, organo giudicante e nome del giudice, alle quali il praticante abbia partecipato e nelle quali si sia svolta una qualsiasi attività difensiva da parte di avvocati costituiti.

Vi è, in altre parole, l’esclusione di udienze di mero rinvio, comprese quelle di spedizione a sentenza, qualora in quella sede l’avvocato si limiti a manifestare la volontà che la causa venga assegnata al collegio (o al giudice mono-cratico).

2 - INDICAZIONE DEGLI ATTI PREDISPOSTI

È, in generale, la parte meno problematica del libretto, considerando che null’altro si richiede che la tipologia dell’atto (citazione, comparsa di risposta, transazione etc) ed il suo oggetto (risarcimento danni, pagamento somma, etc).

3 - QUESTIONI GIURIDICHE DI MAGGIOR INTERESSE ALLA CUI TRATTAZIONE IL PRATICANTE HA ASSISTITO O COLLABORATO

Gli errori più comuni, riscontrati nella compilazione di questa sezione del libretto, discendono dalla due tendenze opposte di citare una moltitudine di casi, esponendone solo l’oggetto, o di approfondire oltre il richiesto una sola questione.

Al praticante è, in realtà, richiesto di enunciare più di in caso (almeno tre) approfondendo quel tanto che basta a far capire l’oggetto, la portata del caso, le norme applicabili ed un accenno di soluzione, secondo l’esponente.

Spesso il praticante si limita ad enumerare una serie di casi concreti, il più delle volte procedimenti giudiziari senza che questi implichino la benché minima problematica giuri-dica: anche questo è un errore, ove si consideri che il D.P.R. 101/90 fa espressa menzione di “questioni giuridiche”: conte-nuti, quindi, e non narrativa di cause.

4 - RELAZIONE ANNUALE DELLA PRATICA

Alla fine del 1° anno e del 3° semestre di pratica, in con-comitanza con la presentazione del libretto (pure esso debi-tamente compilato in ogni sua parte e quindi anche nella sezione riguardante la trattazione delle questioni giuridiche), è richiesta la redazione di una relazione illustrativa delle atti-vità svolte durante il periodo di pratica.

È questa l’occasione per descrivere il lavoro svolto, sia dal punto di vista della ricerca e dello studio, che da quello della par-tecipazione alle udienze, dei rapporti interpersonali con colleghi e terzi, e di tutto quanto faccia parte delle prime esperienze nell’ambiente del Foro. In questa sede dovranno essere trattate per esteso ulteriori questioni a carattere giuridico, in un numero non inferiore a tre, di cui una di natura deontologica.

Ancora una volta il praticante non deve incorrere nell’er-rore di descrivere semplicemente i passaggi processuali di una o più cause, ma, prendendo spunto dal caso concreto, esporre l’oggetto giuridico dello stesso, le problematiche sostanziali e procedurali nelle quali è incorso o eventuali annotazioni sulla deontologia forense.

In conclusione rammentiamo ai praticanti avvocati che un’attenta lettura del citato D.P.R. 101/90 e delle circolari espli-cative, a suo tempo inviate dal Presidente dell’Ordine, fornisce ogni elemento utile all’adempimento della pratica forense e che, comunque, il Consiglio, nelle persone dei membri delegati, si rende disponibile ad ogni ulteriore chiarimento.

Pratica ForenseAlcuni chiarimenti sulla pratica forense

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La normativa in tema di etichettatura dei prodotti alimen-tari è relativamente recente e di origine comunitaria.

Il legislatore italiano aveva dettato alcune scarne norme già all’articolo 8 della legge 283 del 1962, ma è con la diret-tiva CEE 79/112 che il settore ha avuto una regolamenta-zione organica. Tale direttiva è stata recepita con il DPR 322 del 1982, poi abrogato e sostituito dal Decreto legislativo 109 del 1992 che attualmente costituisce la norma italiana di rifermento.

La materia, di notevole importanza per gli scambi intraco-munitari, subisce frequenti modifiche: a sua volta, la direttiva 79/112 è stata sostituita con la direttiva 13 del 2000 e recen-temente è stato emanato il Regolamento 1169 del 2011 che costituirà il testo di riferimento per la parte generale della etichettatura.

Il Regolamento 1169, tuttavia, non si limita a disciplinare il tema dell’etichettatura ma si estende, più in generale, alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori.

Le novità del Regolamento che comportano un adegua-mento da parte delle imprese non sono tante, tra esse la più significativa è quella relativa alla etichettatura nutrizionale che non solo cambia nome (dichiarazione nutrizionale) ed è strutturata in modo diverso da quella attualmente cono-sciuta dal consumatore, ma diventa obbligatoria. I motivi di tale scelta sono enunciati nel considerando 34, dove si legge: “La presentazione obbligatoria sull’imballaggio di informazioni sulle proprietà nutritive dovrebbe supportare azioni dietetiche in quanto parte delle politiche sanitarie pubbliche, che possono anche prevedere l’indicazione di raccomandazioni scientifiche nell’ambito dell’educazione nutrizionale per il pubblico e garantire scelte alimentari informate.”

I tempi di applicazione sono strutturati in modo da con-sentire alle imprese di adeguarsi alle innovazioni normative. Il regolamento, infatti, è già entrato in vigore il 13 dicembre 2011 ma si applicherà in fasi successive: le norme generali saranno vincolanti a partire dal 13 dicembre 2014, mentre l’obbligo di apporre una dicitura nutrizionale (nuovo nome della etichettatura nutrizionale) scatterà il 13 dicembre 2016.

L’entrata in vigore del regolamento e la sua successiva applicabilità non comporteranno l’automatica caducazione del Decreto legislativo 109/92, norma nazionale di riferi-mento, ma la sua inapplicabilità nelle parti in cui è in contrasto con il Regolamento. Il legislatore italiano dovrebbe dunque intervenire sia per disporre una abrogazione espressa di tale norma sia (soprattutto) per introdurre le sanzioni in caso di inosservanza, in particolare, dei nuovi obblighi introdotti.

Alcune nuove disposizioni, benché non richiedano un

Il Regolamento 1169/2011 in tema di informazione sugli alimenti ai consumatori

adeguamento da parte delle imprese hanno un notevole interesse sul piano sistematico. Il legislatore comunitario, per esempio, introduce una classificazione delle diciture obbliga-torie, suddividendole nelle seguenti categorie:

a) informazioni sull’identità e la composizione, le proprietà o altre caratteristiche dell’alimento;

b) informazioni sulla protezione della salute dei consumatori e sull’uso sicuro dell’alimento. Tali informazioni riguardano in par-ticolare:

i) gli attributi collegati alla composizione del prodotto che pos-sono avere un effetto nocivo sulla salute di alcune categorie di consumatori;

ii) la durata di conservazione, le condizioni di conservazione e uso sicuro;

iii) l’impatto sulla salute, compresi i rischi e le conseguenze collegati a un consumo nocivo e pericoloso dell’alimento;

c) informazioni sulle caratteristiche nutrizionali che consen-tano ai consumatori, compresi quelli che devono seguire un regime alimentare speciale, di effettuare scelte consapevoli.

Per quanto riguarda la lettera a) si pensi ad esempio alla denominazione di vendita, che è quella dicitura che consente di comprendere la natura del prodotto offerto in vendita (ad esempio “confettura di albicocche” o “marmellata di aran-cia”) o all’elenco degli ingredienti, mentre la lettera c) si rife-risce evidentemente alla dichiarazione nutrizionale.

Più complessa è la lettera b) che ricomprende varie ipo-tesi. La prima si riferisce all’obbligo di indicare nell’elenco degli ingredienti gli allergeni (che sono elencati in un apposito allegato) chiaramente, con il loro nome e con una evidenzia-zione grafica che li differenzi dagli altri ingredienti in modo da consentire al consumatore di evitarli con una semplice lettura dell’etichetta.

La seconda, oltre al termine minimo di conservazione e alla data di scadenza, ricomprende tutte le informazioni che consentano al consumatore di conservare correttamente il prodotto (si pensi ad esempio alle temperature di manteni-mento che talora sono indicate) e le modalità di impiego (si pensi alle istruzioni per la cottura).

Questa disposizione è in linea con quanto prevede l’art. 14 del Regolamento 178 del 2002, che riguarda gli alimenti “a rischio” e stabilisce che per valutare se un alimento sia a rischio occorre valutare anche le informazioni messe a dispo-sizione del consumatore, anche in etichetta, per evitare spe-cifici rischi (si pensi alla presenza di microrganismi termolabili che sono dunque inattivati da una adeguata cottura).

La terza infine si ricollega specificamente alle modalità di consumo e trova applicazione, ad esempio, nel caso di dici-

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ture come “contiene liquirizia - evitare il consumo eccessivo in caso di ipertensione” che è obbligatoria nel caso di dol-ciumi contenenti acido glicirrizico o il suo sale di ammonio in seguito all’aggiunta delle sostanze stesse o di liquirizia ad una concentrazione pari o superiore a 4 grammi per chilo-grammo.

Questa classificazione, tuttavia, potrebbe sollevare alcuni problemi relativamente alla competenza in caso di sanzioni amministrative. La legge 24 novembre 1981, n. 689, all’art. 22bis stabilisce in linea di principio la competenza del giudice di pace. Sono previste tuttavia alcune eccezioni tassative in cui la competenza è del tribunale in composizione monocra-tica. In particolare, l’opposizione si propone davanti al tribu-nale quando la sanzione è stata applicata per una violazione concernente “disposizioni in materia di igiene degli alimenti e delle bevande”.

Una ordinanza della Suprema corte (Cass. civ. Sez. II, Ord., 24-05-2010, n. 12666) aveva fornito utili spunti al proposito, decidendo su un regolamento di competenza.

L’opposizione ad una ordinanza ingiunzione veniva pre-sentata davanti al Giudice di pace di Verona ma il giudice aveva ritenuto che una irregolarità in etichetta riguardante la “scadenza” del prodotto potesse riguardare la materia dell’igiene dei prodotti. Dichiarava la propria incompetenza e rimetteva l’opposizione al tribunale di Verona il quale, a sua volta riteneva di non essere competente.

Secondo il tribunale, infatti, gli ille-citi amministrativi previsti dal D.Lgs. n. 109 del 1992, rientravano nella competenza generale del giudice di pace in quanto la disciplina relativa all’etichettatura dei prodotti alimentari riguarda la materia del commercio.

In tal senso si era pronunciata anche la Corte Costitu-zionale, con sentenza n. 401/92, che poco dopo l’entrata in vigore del D. Lgs. 109/92 aveva riconosciuto la preminente natura commerciale delle norme in tema di etichettatura. Era stato in tale occasione chiarito che tali disposizioni non attengono la protezione della salute ma la tutela di interessi dei consumatori diversi da quelli igienico-sanitari.

La Suprema Corte ha ritenuto fondata l’istanza del Tribu-nale di Verona, notando che le contestate violazioni riguarda-vano informazioni commerciali relative al prodotto venduto e osservando in particolare: “La disposizione di cui alla L. n. 689 del 1981, lett. e), concernente l’applicazione di sanzioni per violazioni della normativa relativa alla “igiene degli alimenti e delle bevande”, costituendo una eccezione alla regola generale della competenza del giudice di pace, è norma di stretta interpreta-zione. La nozione di igiene non è quindi suscettibile di espansione”.

È tuttavia evidente che la nuova classificazione del legisla-tore comunitario che attribuisce funzione di protezione della

salute del consumatore a determinate diciture, potrebbe riproporre il problema.

Un’altra importante innovazione di carattere sistematico si trova all’articolo 8 che introduce nuove importanti dispo-sizioni in tema di responsabilità che non erano previste nella previgente normativa.

Viene infatti chiarito che l’operatore del settore alimen-tare responsabile delle informazioni sugli alimenti è l’opera-tore con il cui nome o con la cui ragione sociale è com-mercializzato il prodotto o, se tale operatore non è stabilito nell’Unione, l’importatore nel mercato dell’Unione. La norma precisa anche gli obblighi di tale soggetto stabilendo che “L’o-peratore del settore alimentare responsabile delle informazioni sugli alimenti assicura la presenza e l’esattezza delle informa-zioni sugli alimenti, conformemente alla normativa applicabile in materia di informazioni sugli alimenti e ai requisiti delle pertinenti disposizioni nazionali.”

Non è infrequente che un prodotto sia fabbricato da un soggetto e rivenduto a nome di un soggetto diverso che ne assume in tal modo la paternità. Il soggetto che appone il proprio marchio sarà dunque pienamente responsabile delle diciture in etichetta. La giurisprudenza era peraltro già arri-vata alle stesse conclusioni ed era andata anche oltre, consi-

derando responsabile il soggetto che vende a proprio nome un prodotto fabbricato da altri.

Meno chiaro è il terzo paragrafo dello stesso art. 8 che dispone: “3. Gli operatori del settore alimentare che non influiscono sulle informazioni relative agli alimenti non forniscono alimenti di cui conoscono o presumono, in base alle informazioni in loro possesso in qualità

di professionisti, la non conformità alla normativa in materia di informazioni sugli alimenti applicabile e ai requisiti delle perti-nenti disposizioni nazionali.” La norma sembra imporre, con un linguaggio in verità un po’ contorto, un obbligo di con-trollo e conseguentemente di responsabilità ai soggetti che successivamente operano nella distribuzione di un prodotto a marchio di altri.

Per tornare alle innovazioni normative che prevedono adempimenti da parte delle imprese, tra le più significative va segnalata quella relativa all’altezza dei caratteri delle eti-chette. La precedente normativa stabiliva infatti che le dici-ture dovessero essere formulate in un punto evidente e in modo da essere “facilmente visibili, chiaramente leggibili e indelebili” senza peraltro prevedere una dimensione minima dei caratteri. A fronte di una costante richiesta di maggiore leggibilità da parte dei consumatori, il legislatore è interve-nuto con una norma di una certa complessità.

In primo luogo è stata introdotta la definizione di «leg-gibilità», intesa come “l’apparenza fisica delle informazioni, tra-mite le quali l’informazione è visivamente accessibile al pubblico

l’articolo 8 introduce nuove importanti disposizioni in tema di responsabilità che non erano previste nella previgente normativa

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in generale e che è determinata da diversi fattori, tra cui le dimen-sioni del carattere, la spaziatura tra lettere e righe, lo spessore, il tipo di colore, la proporzione tra larghezza e altezza delle lettere, la superficie del materiale nonché il contrasto significativo tra scritta e sfondo”.

È stato stabilito inoltre che le diciture obbligatorie deb-bano figurare “in caratteri la cui parte mediana (altezza della x), definita nell’allegato IV, è pari o superiore a 1,2 mm”. Il legisla-tore non ha stabilito un determinato carattere di stampa o un determinato corpo, ma si riferisce alla altezza minima della parte mediana, determinata dalla “x” della parola “Appendix”, figurante nell’allegato IV.

Questa disposizione dovrebbe cambiare la grafica di molti dei prodotti attualmente in commercio, che dovreb-bero riservare uno spazio maggiore alle diciture obbligatorie, considerando che, come precisa l’art. 37 del Regolamento “Le informazioni volontarie sugli alimenti non possono occu-pare lo spazio disponibile per le informazioni obbligatorie sugli alimenti”.

Da ultimo, in questa breve rassegna, si segnalano gli arti-coli 38 e 39 che dettano norme sulle disposizioni nazionali.

La prima norma stabilisce in particolare che “Quanto alle materie espressamente armonizzate dal presente regola-mento, gli Stati membri non possono adottare né mantenere disposizioni nazionali salvo se il diritto dell’Unione lo auto-

al caval pist e la vécia

Per quanto la cosa suoni un po’ strana a Parma, ove la carne di cavallo è altamente apprezzata, le cronache recenti riportano notizie di ritiri dal commercio di prodotti finiti (lasagne, tortellini ecc.) nei quali, attraverso l’analisi del DNA, è stata determinata la presenza di carne di cavallo mentre l’etichetta riportava come ingrediente carneo la sola specie bovina.Dopo un primo ritrovamento in Inghilterra, Paese dove, conformemente al gusto per la rinomata cucina inglese la carne equina non è apprezzata, notizie di successivi ritiri dal mercato si sono rapidamente succedute e ora si sono verificate anche in Italia.Nessun problema igienico sanitario, solo un problema di etichettatura (per quanto esenzioni dall’obbligo di dichiarazione siano previsti all’art. 7 del D. Lgs. 109/92 esse non riguardano la carne di cavallo).Inoltre se anche la presenza in quota inferiore all’1% potrebbe classificarsi come accidentale, il problema è che le analisi del DNA non sempre riescono a fornire indicazioni accurate, limitandosi a indicare la presenza del componente.Con il clamore dato a queste circostanze dalla stampa quale danno di immagine deriva ai marchi dei produttori?

rizza.” In passato, infatti, non è stato infrequente il ricorso di vari Paesi membri a disposizioni che dettavano norma ulte-riori o incompatibili con il dettato comunitario e la norma appare un richiamo (peraltro in qualche modo superfluo) alla necessità di una disciplina uniforme dell’etichettatura.

Il successivo art. 39 delimita lo spazio del legislatore nazionale in questa materia, consentendo l’adozione di disposizioni che richiedono ulteriori indicazioni obbligatorie (si pensi ad esempio all’origine degli ingredienti) per tipi o categorie specifici di alimenti (e dunque non per la generalità dei prodotti alimentari) per almeno uno dei seguenti motivi:

a) protezione della salute pubblica;b) protezione dei consumatori;c) prevenzione delle frodi;d) protezione dei diritti di proprietà industriale e com-

merciale, delle indicazioni di provenienza, delle denomina-zioni d’origine controllata e repressione della concorrenza sleale.

Rinviando ad un successivo articolo l’esame delle singole diciture obbligatorie, già da questa prima panoramica si può comprendere la complessità dell’etichettatura dei prodotti alimentari e della relativa disciplina.

Afro Ambanelli

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Con il 24 ottobre 2012 ogni impresa, attiva nel settore agroalimentare, ha dovuto, volente o nolente, fare i conti con le nuove regole previste per i rapporti commerciali di ces-sione dei prodotti agricoli ed agroalimentari.

Tutti gli operatori, d’ora innanzi, per svolgere in armonia e senza rischio di essere fuorilegge le proprie attività, dovranno garantire rapporti commerciali trasparenti ed omogenei.

L’ articolo 62, della Legge 24 marzo 2012 n. 27 (“Con-versione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n.1, recante disposizioni urgenti per la con-correnza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”), introduce rigorosissime regole da applicarsi all’intero com-plesso delle relazioni commerciali tra le imprese, ivi compresi servizi e prestazioni accessorie, ciò disciplinando nuovi obbli-ghi contrattuali, termini di pagamento, interessi legali, nonché divieti di pratiche sleali.

1. I contratti

La nuova disciplina si applica a tutti i contratti e relazioni commerciali Business to Business (B2B), vale a dire a quegli accordi conclusi tra imprese private, tra cui a titolo mera-mente semplificativo gli accordi in essere tra produttori e la Grande Distribuzione o il settore HoReCa. Sono, inoltre, soggetti alla nuova normativa anche quegli accordi conclusi tra privati e la Pubblica Amministrazione, ciò nel caso in cui l’Ente pubblico si trovi ad acquistare e/o svolgere attività ai sensi del Codice Civile.

L’articolo 1, del Decreto Ministeriale applicativo della Legge recante Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività, in partico-lare evidenzia che le disposizioni, ivi contenute, costituiscono norme ad applicazione necessaria ai sensi del Regolamento 593/2008/CE sulla legge applicabile alle obbligazioni contrat-tuali, ed in quanto tali applicate ai contratti di cui all’art. 62, comma 1 e alle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e alimentari, la cui consegna avviene nel territorio della Repubblica italiana.

Fin dall’entrata in vigore ogni operatore coinvolto si è posto il problema se la sua tipologia di attività rientrasse o meno nella definizione di cui alla nuova normativa. La norma, a prima lettura, ha creato confusione o, meglio dire, tratto in inganno alcuni operatori del settore agroalimentare, facendo loro presupporre che le nuove regole fossero applicabili agli accordi commerciali di settore ma solo a determinate tipo-logie di accordi. Infatti il testo del Decreto Ministeriale indica che l’art. 62 si applica “con particolare riferimento alle relazioni economiche tra gli operatori della filiera connotate da un signifi-

Il settore agro-alimentare è in confusione

cativo squilibrio nelle rispettive posizioni di forza commerciale.”Quindi, alcuni hanno ritenuto di potersi esimere dall’ap-

plicazione delle disposizioni normative di cui all’art. 62 della Legge n. 27 non avendo rapporti commerciali con clienti caratterizzati dal predetto squilibrio.

La norma, contrariamente a quanto da alcuni ritenuto, non prevede, espressamente come elemento costitutivo della fattispecie, l’esistenza di uno sbilanciamento nelle posi-zioni di forza commerciale dei contraenti.

Si è vero che il decreto interministeriale, all’articolo 1 comma 1 parla di applicazione della norma a quei rapporti commerciali particolarmente critici, ma lo fa nell’ambito di un predefinito contesto.

Lo scopo generale della nuova normativa è, infatti, come precisato con il parere espresso dal Consiglio di Stato (parere n. 04203/2012 del 8.10.2012), quello di “garantire maggiore trasparenza nei rapporti tra i diversi operatori della filiera agro-alimentare, attraverso l’eliminazione di posizioni di ingiustificato squilibrio contrattuale tra le parti, demandando ad un atto inter-ministeriale il compito di definire alcuni aspetti di ulteriore detta-glio, necessari per assicurare l’effettiva e piena operatività delle disposizioni”. Squilibrio esplicito, od implicito, che potrebbe interessare qualsivoglia operatore di settore.

Pertanto, proprio perché la norma intende agevolare i rapporti commerciali equi e proporzionati, il Consiglio di Stato ha indicato al Ministero, l’opportunità di esplicitare il riferimento a tale «requisito» nella definizione dei confini applicativi dell’art. 62. Ciò indicando “l’opportunità …di un più puntuale riferimento alle relazioni economiche tra gli operatori della filiera, connotate dal requisito del significativo squilibrio nelle rispettive posizioni di forza commerciali” (cfr. punto 8 del Parere supra citato).

Il decreto pubblicato prevede ora, alla luce di quanto sug-gerito dallo stesso Consiglio di Stato, che l’art. 62 si applichi «con particolare riferimento» (dunque, non esclusiva-mente) alle relazioni connotate da «un significativo squili-brio» (art. 1, co. 1, del Decreto).

La mancanza di esplicito “squilibrio” non esclude l’applica-zione della norma primaria - l’articolo 62, appunto - al com-plesso delle relazioni commerciali B2B che “ruotano attorno alla cessione di prodotti agricoli e alimentari nei più diversi ambiti”. Gli unici accordi esclusi, invece, dall’applicazione delle nuove norme sono quelli definiti Business to consumer, vale a dire conclusi con i consumatori finali e/o i gruppi di con-sumatori, nonchè, in linea di massima i trasferimenti a titolo gratuito, per scopi solidaristici o mutualistici, le permute (ad esempio, tra prodotti agricoli/alimentari e altri beni o servizi) o i contratti di deposito.

settore agro-alimentare

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La normativa oltre ad identificare i soggetti, precisa, soprattutto quali siano i prodotti oggetto delle cessioni.

La norma s’intende applicata ai prodotti agricoli identifi-cati nell’Allegato I, di cui all’art. 38, comma 3 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). In elenco figu-rano oltre alle materie prime, alcuni semilavorati e prodotti destinati all’alimentazione umana e animale, ma anche altre categorie di beni come gli animali e le piante vive, le piante destinate a vari e diversi usi ( quali cosmetici e medicinali), le sementi, i grassi animali e vegetali per uso industriale diverso dall’alimentazione umana, etc.

I prodotti alimentari sono, invece, quelli definiti dal Rego-lamento n. 178/02 che ha introdotto la normativa generale sugli alimenti considerando come alimento: “qualsiasi sostanza o prodotto trasformato, parzialmente trasformato o non trasformato, destinato ad essere ingerito, o di cui si prevede ragionevolmente che possa essere ingerito, da esseri umani1.

Sono comprese le bevande, le gomme da masticare e qualsiasi sostanza, compresa l’acqua, intenzionalmente incor-porata negli alimenti nel corso della loro produzione, prepa-razione o trattamento.” È compresa l’acqua, “nei punti in cui i valori devono essere rispettati come stabilito all’articolo 6 della direttiva 98/83/CE e fatti salvi i requisiti delle direttive 80/778/CEE e 98/83/CE.

Non sono compresi:a) i mangimi;b) gli animali vivi, a meno che siano preparati per l’immis-

sione sul mercato ai fini del consumo umano;c) i vegetali prima della raccolta;d) i medicinali ai sensi delle direttive del Consiglio 65/65/

CEE e 92/73/CEE;e) i cosmetici ai sensi della direttiva 76/768/CEE del Consiglio;f) il tabacco e i prodotti del tabacco ai sensi della direttiva

89/622/CEE del Consiglio;g) le sostanze stupefacenti o psicotrope ai sensi della

convenzione unica delle Nazioni Unite sugli stupefacenti del 1961 e della convenzione delle Nazioni Unite sulle sostanze psicotrope del 1971;

h) residui e contaminanti.

Gli accordi dovranno essere stipulati obbligatoriamente per iscritto e dovranno prevedere, a pena di nullità, la durata, la quantità, le caratteristiche del prodotto venduto, il prezzo, nonché le modalità di consegna e di pagamento. I contratti devono essere informati a principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni, con riferimento ai beni forniti. La nullità del contratto può anche essere rilevata d’ufficio dal giudice.

Con riferimento alla forma scritta, il legislatore non detta delle regole rigorose lasciando agli operatori medesimi la piena libertà di forma da scegliere a seconda della propria partico-

lare situazione. Infatti, qualsiasi forma di comunicazione scritta, anche trasmessa in forma elettronica o a mezzo telefax, avente la funzione di manifestare la volontà delle parti di costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patri-moniale avente ad oggetto la cessione di prodotti agricoli e alimentari (art. 3, co.1, del Decreto) può ritenersi valido e cor-retto ai fini di assolvere agli obblighi normativi. Per far fronte all’obbligo di redazione scritta degli accordi, ex lege, il modo più semplice è, per esperienza professionale, quello di predisporre dei veri e propri accordi quadro che disciplinino nel complesso i rapporti con i propri clienti. Tuttavia, molti operatori, soprat-tutto le piccole e medie imprese non hanno la consuetudine di redigere e sottoscrivere accordi estesi, dunque, in mancanza di un accordo quadro, la corrispondenza commerciale2 che sia riferibile in modo inequivoco ai contraenti, se dettagliata in merito agli elementi essenziali della fornitura, potrà costituire e sostituire il contratto “formale”. Essa dovrà essere redatta comunque secondo ed in conformità ai principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività (art. 3, co. 3, Decreto).

Nel caso in cui ciò non fosse fattibile l’operatore adem-pierà ai propri obblighi semplicemente utilizzando in fattura e DDT, una dicitura “Assolve agli obblighi di cui all’art. 62, comma 1, del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modifi-cazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27”.

Il legislatore punisce la violazione dell’art. 62, comma 1 con la nullità del contratto, in tutti i casi di carenza della forma scritta e/o dei requisiti essenziali. Laddove ad esempio le modalità di individuazione delle quantità o del prezzo delle singole cessioni non siano adeguatamente determinabili, e ciò incida sull’equilibrio dei rapporti tra le parti in danno del for-nitore. Il legislatore stabilisce, inoltre, delle sanzioni in caso di violazione dell’obbligo di redigere accordi scritti di non trascurata entità. Le competenti autorità, in caso di omis-sione, hanno il diritto di imporre una sanzione amministrativa pecuniaria che va da € 516 fino a € 20.000.

2. Termini di pagamento ed interessi legali

La normativa introduce un termine legale ed inderogabile di pagamento. Ai sensi di quanto disposto al comma 3 dell’art. 62, le fatture dovranno essere pagate rispettivamente entro:

• 30 giorni per i prodotti deteriorabili. Il termine legale di 30 giorni si applica ai prodotti deteriorabili, come indicati in apposito elenco all’art. 62, comma 4. In particolare:

a) tutti i tipi di latte; b) i prodotti a base di carne “che pre-

1 Articolo 2 del Regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2002.

2 Più in dettaglio, per la validità dei contratti di cessione a strut-tura semplice, gli elementi essenziali qualora non siano riportati nel contratto stesso ovvero, devono risultare dal complesso di comu-nicazioni e ordini scritti intercorsi tra acquirente e venditore prima o contestualmente alla materiale consegna dei prodotti agricoli e alimentari.

settore agro-alimentare

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sentino le seguenti caratteristiche fisico-chimiche: aW supe-riore a 0,95 e pH superiore a 5,2 oppure aW superiore a 0,91 oppure pH uguale o superiore a 4,5”; c) i prodotti agricoli, ittici e alimentari sfusi non preconfezionati, cioé non avvolti (interamente o in parte) da alcun imballaggio che impedisca di accedervi. Tali prodotti possono peraltro venire posti in un involucro protettivo. I trenta giorni sono un termine di riferimento anche per quei prodotti che se sottoposti a trat-tamenti volti a prolungarne la durabilità come attraverso la refrigerazione, congelamento, surgelazione, etc., essa non sia superiore a 60 giorni; d) i prodotti agricoli, ittici e alimentari preconfezionati, vale a dire quei prodotti avvolti “interamente o in parte da un imballaggio, in modo che il contenuto non possa essere modificato senza che la confezione sia aperta o alterata”, la cui durabilità (termine minimo di conservazione o data di scadenza) non sia superiore a 60 giorni.

• 60 giorni per tutti gli altri beni non deteriorabili.

Il termine di pagamento decorre dall’ultimo giorno del mese in cui si è ricevuta la fattura avente data certa.

Per risolvere dubbi interpretativi relativi alla difficoltà di individuare con certezza il momento iniziale del termine, l’art. 5, commi 3 e 4, del Decreto di attuazione, indica chia-ramente che la data di ricevimento della fattura deve essere certificata nei seguenti casi:

• a partire dalla data di consegna della fattura a portata di mano;

• dal invio della fattura mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento;

• L’invio della fattura tramite posta certificata (PEC);

• l’utilizzo di EDI (Electronic Data Interchange) o equiva-lente, come previsto dalla normativa fiscale.

In ogni caso, in assenza di certezza sulla data di ricevimento della fattura, si presume che la fattura sia ricevuta al momento della consegna dei prodotti comprovandolo attraverso la data del documento di trasporto attestante la consegna delle merci.

Sono esenti dall’applicazione di questi termini i contratti che prevedono una cessione immediata dei prodotti , nonché le cessioni di prodotti alcolici, i cui “corrispettivi devono essere versati entro sessanta giorni dal momento della con-segna o ritiro dei beni medesimi”.

Non lo sono, invece, per precisazione, quegli accordi con-clusi da società fornitrici estere che consegnano la propria merce in Italia a clienti italiani. Infatti, ricordo che la nuova normativa trova applicazione per tutti gli accordi commerciali che prevedono la consegna dei prodotti sul territorio italiano. Ragion per cui segnalo subito un primo limite attuativo dell’art. 62. Sul punto credo valga la pena aprire una breve parentesi avente per oggetto principale l’attuale possibilità da parte del fornitore estero di poter usare concretamente uno dei

principali strumenti previsti come obbligatori dalla norma a dimostrazione della data certa, vale a dire la PEC. Per PEC s’in-tende la - Posta Elettronica Certificata - introdotta dal nostro Governo quale servizio di comunicazione elettronica con data certa. Peccato che il servizio sia usufruibile solo da cittadini italiani e/o da tutti i cittadini di nazionalità straniera residenti nel territorio italiano in possesso di un Codice Fiscale e, nel caso di cittadini extra-UE, di permesso di soggiorno* o “modello 22A con Ologramma” valido. Pertanto la PEC individuata e ben voluta dall’art. 62, non può trovare, allo stato, applicazione verso quelle società che pur consegnando in Italia, quivi non vi abbiano una propria sede legale, o non siano anagraficamente registrati. Circostanza che vede coinvolte la maggior parte di aziende che importano nel nostro paese.

Ciò precisato, tornando agli aspetti generali sui termini di pagamento, il legislatore attraverso questo strumento ha inteso introdurre un vero e proprio termine legale di paga-mento, da applicarsi al settore alimentare, questo al fine di contrastare il grave e diffuso fenomeno dei ritardi di paga-mento nelle transazioni commerciali.

L’autonomia contrattuale delle parti viene limitata al solo fine di tutelare la parte debole del rapporto. Ciò tenendo in considerazione quella che è la prassi commerciale di settore che ha sempre previsto - fino ad oggi - termini di pagamento molto dilatati nell’arco temporale. La posizione del fornitore in questo modo viene almeno in parte rafforzata grazie a termini certi per l’esecuzione della prestazione in suo favore (il pagamento del corrispettivo dei prodotti). I 30 o 60 giorni, a seconda della tipologia di beni oggetto di compravendita, previsti dalla norma non possono essere oggetto di deroga a vantaggio del debitore, non può essere, nemmeno oggetto di rinuncia o dilazione. A livello contrattuale può essere solo ammessa una pattuizione di più favorevole per il creditore ciò ad esempio attraverso l’applicazione di uno sconto da concordarsi in abbinamento ad un termine di pagamento inferiore a quello legale.

Una nuova prassi introdotta dalla norma riguarda anche gli interessi legali che verranno, d’ora innanzi applicati auto-maticamente alla data di scadenza del termine legale. Il for-nitore che abbia rispettato gli obblighi di cui all’art. 62 (e gli altri obblighi di legge e previsti contrattualmente con l’al-tra Parte), ma non abbia ricevuto il pagamento del prezzo pattuito, ha diritto a pretendere il pagamento della somma dovuta e degli interessi maturati. Pertanto, poichè gli interessi decorrono automaticamente allo scadere del termine legale di pagamento, è nulla ogni clausola contrattuale che escluda la decorrenza degli interessi, la ritardi o la subordini alla for-male messa in mora dell’acquirente.

L’acquirente potrà invocare la sospensione del pagamento solo qualora il fornitore non rispetti i suoi obblighi derivanti dal contratto o dalla legge. Tale ipotesi è, tuttavia, accredi-tata solo ed esclusivamente se applicata ed in riferimento ad una puntuale situazione di inadempimento. L’acquirente non potrà, pertanto, invocare la sospensione del proprio obbligo di pagare le somme dovute estendendo il proprio diritto ai prodotti che non sono oggetto di contestazione.

settore agro-alimentare

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Gli interessi legali di mora verranno calcolati utilizzando l’indice stabilito dal decreto legislativo n.192/12 con cui viene modificato il Decreto Legislativo n. 231/02, normativa nazio-nale di contrasto ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, con supplemento di 2 punti percentuali.

Se il debitore non rispetta i termini di pagamento, ai sensi della legge, le autorità competenti hanno il diritto di imporre una sanzione che può rivelarsi significativamente punitiva del trasgressore visto che va da € 500 fino a € 500.000. Il valore potrà essere determinato sulla base della carica della società, la continuità di non conformità regolate dalla legge e il ritardo effettivo. Con l’introduzione di tale ammenda il legislatore ha, quindi, voluto dare un chiaro segnale di cam-biamento e di inderogabilità alle nuove regole. Questo per sottolineare, quindi, l’impossibilità da parte del debitore medesimo di ovviare alle norme inderogabili ed imperative attraverso escamotages e accordi presi, di volta, in volta e direttamente con il proprio fornitore o adottando diverse formule di pattuizione con ampia portata.

3. Pratiche commerciali vietate

Tra le disposizioni urgenti in materia di concorrenza intro-dotte dall’art. 62 e dal decreto interministeriale compaiono in particolare quelle relative alle pratiche commerciali sleali.

Gli argomenti evidenziati al comma 2 dell’art. 62 sono stati poco commentati fino a d’ora o meglio dire deliberata-mente evitati e affrontati marginalmente dalla gran parte dei molteplici attori della GDO. In realtà, a mio avviso trattasi di tema di notevole rilevanza e da non trascurare soprattutto nel corso dell’esame di eventuali accordi che i nostri clienti potrebbero sottoporre alla nostra attenzione.

L’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, autorità nominata dal legislatore (cfr. Comma 8, art. 62) quale garante e vigilante dell’applicazione degli obblighi impera-tivi di legge da parte di tutti gli attori, nel 2010, quindi qual-che anno prima dell’approvazione della normativa oggetto di esame, aveva evidenziato con l’apertura di una Indagine Conoscitiva3, la necessità di esplorare la complessa realtà della grande distribuzione, maggiore protagonista negli acqui-sti del settore agroalimentare. L’Antitrust aveva, in particolar modo ritenuto necessario evidenziare ed indagare sotto il profilo verticale… “la natura e l’impatto delle crescenti richieste, da parte delle catene della GDO ai fornitori medesimi, di forme di contribuzione all’attività espositiva, promozionale e distributiva sganciate dalle quantità e dai prezzi di acquisto”.

Premesso che tale indagine ad oggi - nonostante siano trascorsi ormai tre anni - non è ancora addivenuta ad alcuna conclusione, il tema è stato regolamentato attraverso il sopra citato comma della norma, nonché dallo stesso art. 7 del Decreto di attuazione. “L’Autorità Garante della Concorrenza

e del Mercato con proprio regolamento disciplina la procedura istruttoria di cui al comma 8 dell’articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, al fine di garantire il contraddittorio, la piena cognizione degli atti e la verbalizzazione e le modalità di pubbli-cazione delle decisioni.”

L’Autorità Garante della concorrenza e del mercato in quanto autorità esperta in materia di pratiche potrà trovarsi in futuro a doversi pronunciare sugli aspetti spiacevoli dei rapporti sbilanciati che spesso accompagnano gli accordi commerciali con la grande distribuzione.

Mi riferisco alle voci indicate nella pluralità di accordi con varie diciture quali “sconto”, “compenso” e/o “premio”, vale a dire a quelle complesse pratiche promozionali che risultano essere prestate e per le quali le società venditrici sono tenute a riconoscere un compenso ai plurimi Gruppi della grande distribuzione. Si tratta di voci inserite a contratto che, soprat-tutto nel modus operandi, certamente non sempre risultano a favore del produttore medesimo e soprattutto prevedono da parte del fornitore l’elargizione di somme non sempre dovute e corrispondenti ad una controprestazione reale!

Al preciso scopo di tutelare la parte debole nel rapporto di compravendita di prodotti alimentari, il legislatore italiano ha introdotto nuove disposizioni per la concorrenza, lo svi-luppo delle infrastrutture e la competitività -entrate in vigore lo scorso 24 ottobre 2012 - grazie all’attuazione dell’art. 62, della Legge n. 27/12.

Il comma 2 dell’art. 62 e l’art. 4 del “Regolamento di attua-zione dell’art. 62 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, Decreto Mini-stero Politiche agricole 19.10.2012 n° 199, pubblicato sulla G.U. 23.11.2012” vietano ogni pratica anticoncorrenziale. Ciò individuando un vero e proprio elenco, esemplificativo e non esaustivo, di condotte commerciali sleali, che in quanto tali sono, nel modo più assoluto, perciò vietate. Tali divieti non riguardano i soli contratti di cessione, ma l’intero complesso delle relazioni commerciali. I servizi accessori ai contratti di cessione ad esempio, quand’anche siano offerti da società terze, come pure i contratti che abbiano a oggetto la gestione delle pratiche di acquisto del bene ceduto, etc.

Il legislatore, in particolare riferisce che “Nelle relazioni commerciali tra operatori economici, ivi compresi i contratti che hanno ad oggetto la cessione dei beni di cui al comma 1, è vietato:

a. imporre direttamente o indirettamente condizioni di acqui-sto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, nonché condizioni extracontrattuali e retroattive;

b. applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti;

c. subordinare la conclusione, l’esecuzione dei contratti e la continuità e regolarità delle medesime relazioni commerciali alla esecuzione di prestazioni da parte dei contraenti che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connes-sione con l’oggetto degli uni e delle altre;

d. conseguire indebite prestazioni unilaterali, non giustificate dalla natura o dal contenuto delle relazioni commerciali;

e. adottare ogni ulteriore condotta commerciale sleale che 3 Cfr. IC43 - Settore della grande distribuzione organizzata. Prov-vedimento n. 21765

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risulti tale anche tenendo conto del complesso delle relazioni com-merciali che caratterizzano le condizioni di approvvigionamento.”

La maggior parte di tali azioni, applicate nei contratti con la grande distribuzione fino ad oggi, possono essere conside-rate, senza dubbio alcuno, quali azioni sleali ai sensi di quanto disposto dalla normativa vigente ed in particolare secondo quanto disposto dalla normativa antitrust.

Gli accordi devono essere chiari e trasparenti. Le presta-zioni devono risultare giustificate in relazione alla natura e/o al contenuto delle relazioni commerciali.

Il Decreto del Ministero, in particolare, all’art. 4 precisa che nell’ambito delle cessioni di prodotti agricoli e alimentari, rien-trano nella definizione di “condotta commerciale sleale” anche il mancato rispetto dei principi di buone prassi e le pratiche sleali identificate dalla Commissione europea e dai rappresentanti della filiera agro-alimentare a livello comunitario nell’ambito del Forum di Alto livello per un migliore funzionamento della filiera alimentare (High level Forum for a better functioning of the food supply chain), approvate in data 29 novembre 2011, prassi elencate nel dettaglio nell’allegato al medesimo decreto.

Pertanto, non sono comportamenti trasparenti e leali quelle azioni e/o iniziative che portano alla creazione di un rapporto sbilanciato tra le parti (sbilanciamento che può manifestarsi sia in forma diretta, sia nelle relazioni tra il ven-ditore e le centrali (o gruppi) d’acquisto).

A titolo meramente esemplificativo sono tali azioni:- volte a conseguire dall’altra parte e a proprio esclusivo

vantaggio prestazioni non dovute e/o non giustificate;- con cui si richiede di emettere fatture o trattenute sui

pagamenti per servizi promozionali non concordati, non ero-gati o erogati solo in parte o comunque non ancora esigibili, o (addirittura) fittizi;

- premi, sconti, contributi o compensi, in denaro o in natura, non obiettivamente giustificati, come quelli richiesti per aver rispettato il termine di pagamento e/o le condizioni contrattuali;

- richieste legate a circostanze estranee al rapporto con-trattuale (es. per ottimizzazione del sistema informativo o dei processi amministrativi, per generiche spese di marketing, “anniversario”, “rinnovo/ristrutturazione locali”, “nuove aper-ture”, ampliamento o miglioramento della rete di vendita);

- servizi non richiesti. Come l’esposizione preferenziale dei prodotti del fornitore, in assenza di specifiche attività promozionali a essi relative.

Il fornitore potrà riconoscere al Cliente, in legittimità, sconti/ promozioni/ compensi, purché essi siano riferiti a pre-stazioni contrattuali realmente eseguite e comunque bilan-ciate, prestazioni accordate in cui ciascuna parte assumerà i propri rischi e vantaggi imprenditoriali.

Pertanto qualsiasi somma di denaro per promozioni richieste dai clienti della GDO saranno giustificate, dovute, liquidabili e liquidate, d’ora innanzi, solo se riferite ad attività concordate ed eseguite (debitamente e documentalmente giustificate) di comune accordo tra le Parti sotto la direzione ed in coordinamento, nonché controllo del fornitore mede-simo. Non solo ma tali prestazioni potranno essere remune-rate sono qualora saranno state regolarmente erogate. Per-

tanto la richiesta di somme anticipate per prestazioni future non concordate e concretamente non eseguite non saranno, a tutti gli effetti di legge, considerabili quali leali.

Ogni clausola che prevede una pratica sleale è nulla a tutti gli effetti di legge.

Il legislatore poco considera, in verità da un punto di vista sanzionatorio le pratiche scorrette. Egli, infatti, stabilisce l’ap-plicazione in caso di violazione di una sanzione di importo compreso tra 516 e 3.000 euro. Tale richiesto, a mio parere certo non limiterà la diffusa e malsana prassi di pratiche assai lesive per il contraente debole. Per essere efficace la sanzione dovrebbe, invece, venire commisurata ai benefici conseguiti dalla parte che ha abusato del proprio potere commerciale a discapito degli interessi e diritti del contraente fornitore che per poter rimanere sul mercato deve limitare sempre più il proprio diritto ad un utile proporzionato.

Ciò detto, non è tuttavia da trascurare il fatto che il legi-slatore abbia comunque previsto un possibile cumulo delle pene. Si prenda il caso di violazione contestuale delle norme di cui al comma 1 e 2 dell’articolo 62. Secondo le regole e procedure generali sull’illecito amministrativo, ciò preve-dendo la possibile irrogazione della pena più grave - quindi sino a 500.000 euro - aumentata fino al triplo.

4. Vigilanza e sanzioni

L’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) è l’Autorità preposta dalla legge al fine di vigilare sull’applicazione dell’art. 62 e di irrogare le sanzioni ammi-nistrative per la violazione delle disposizioni ivi previste e ove del caso a inibire le condotte sleali e adottare le misure cautelari previste dalla legge. L’Autorità provvede all’accerta-mento delle violazioni delle disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 62 d’ufficio o su segnalazione di qualunque soggetto interessato. Per lo svolgimento del proprio incarico l’Autorità potrà anche avvalersi del supporto operativo della Guardia di Finanza, fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dall’articolo 13 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

Al fine di adempiere ai compiti a lei assegnati, ai sensi di quanto disposto dal Regolamento ministeriale attuativo della normativa vigente, l’Antitrust dovrà adottare un proprio Rego-lamento sulle procedure di istruttoria e irrogazione delle san-zioni de quo, onde garantire la verbalizzazione e il contraddit-torio, l’accesso agli atti del procedimento, la pubblicazione delle decisioni che verranno adottate nei confronti dei trasgressori.

L’Autorità, in considerazione delle nuove competenze ad essa attribuite dall’art. 62 della legge n. 27/2012, a distanza di poche settimane dall’entrata in vigore della nuova normativa, ha deliberato di porre in consultazione pubblica la bozza del nuovo Regolamento contenente le procedure istruttorie in materia di disciplina delle relazioni commerciali concernenti la cessione di prodotti agricoli e alimentari. I soggetti interessati, quindi, avranno piena facoltà di dare il proprio contributo infor-mativo e valutativo. Si ritiene, infatti che una regolamentazione condivisa consenta una migliore applicazione delle norme.

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5. Conclusioni

Il settore alimentare è il primo settore manifatturiero in Europa ed è per la maggiore parte caratterizzato da piccole e medie imprese, le quali meritano regole omogenee e uguali per tutti. La competitività ad armi pari è essenziale in un mer-cato unico, quale il mercato europeo, ciò soprattutto se si con-sidera che esso è sempre più “stressato” in quanto soggetto ad una competitività non appropriata e bilanciata. Ci si augura che l’intervento normativo, a parte la confusione iniziale, porti ad un ridimensionamento e ad un nuovo riposizionamento di ogni player operativo sul mercato sotto tutti i punti di vista.

Di certo sarà possibile capire la concreta utilità e l’ef-fettività dell’applicazione della norma solo quando l’Autorità Garante potrà operativamente (scusate il gioco di parole) garantire la tutela a fronte dei primi accertamenti.

Infatti, solo con l’apertura delle prime indagini si avrà una con-creta evidenza di quanto lo strumento, che si è inteso introdurre attraverso un disposto normativo assai rigido, possa effettiva-mente tutelare la categoria dei produttori agricoli e alimentari.

Restiamo, quindi, alla finestra a guardare nella speranza che non vi siano, come già accaduto in passato per non dire come sempre, troppi escamotage per ovviare “legalmente” eludendo le nuove disposizioni di legge.

Raffaella Calda

Preme render noto che lo scorso 26 marzo 2013, quasi a voler anticipare il 1° aprile, il Ministero dello Sviluppo Economico, con una nota dell’ufficio legislativo, in tutta risposta ad un quesito giuridico proposto da Confin-dustria, ha espresso un proprio giudizio sull’inapplica-bilità dell’art. 62 per quanto attiene ai termini di paga-mento a seguito dell’introduzione del successivo D.lgs. 192/2012, di recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento, norma da me già citata nell’art. come punto di riferimento per la disciplina e modalità di calcolo degli interessi legali da applicarsi in caso di ritardo.

Si legge nella nota che “Il Ministero ritiene tacitamente abrogati i commi 3, 7, 8 e 9 dell’art. 62 del DL n. 1/2012, vale a dire rispettivamente la norma che fissa il decorso del termine per i pagamenti di prodotti agricoli e alimentari e le norme sulle relative sanzioni applicabili” Quindi secondo il Mini-stero l’art. 62, 3 comma non è più in vigore.

Preme, tuttavia evidenziare che il Ministero dello Svi-luppo Economico ha espresso il proprio “parere” attra-verso il servizio legislativo interno rispondendo in via epistolare con una risposta che non ha alcun valore interpretativo autentico. Inoltre non ha, altresì, preso in esame il fatto che l’art. 62 è comunque una norma spe-ciale riguardando espressamente il settore agro-alimen-tare rispetto alla normativa generale introdotta dalla recepita Direttiva sui Late Payments che trova applica-zione in tutti gli altri settori relativi alla compravendita di beni dalla A alla Z. Tra l’altro la stessa Direttiva sta-

bilisce che “Gli Stati membri possono mantenere in vigore o adottare disposizioni più favorevoli al creditore di quelle necessarie per conformarsi alla presente direttiva”.

Senza lasciar passare troppo tempo, immediatamente, il Ministero per le Politiche Agricole, Alimentari e Fore-stali (MiPAAF) è intervenuto con una nota ufficiale datata 2 aprile 2013, eliminando ogni dubbio sull’ipo-tetica abrogazione della norma. L’articolo 62 “non é stato in alcun modo inciso né dall’entrata in vigore del D.Lgs. 192/2012, né dalla direttiva 2011/7/UE”. Nella Nota si legge che le relazioni commerciali dei prodotti agro-alimentare “ si pongono in un rapporto di evidente specialità rispetto alle generiche previsioni del D.Lgs. 192/12”. Pertanto, “secondo il consolidato principio “lex posterior generalis non derogat legi priori speciali”, (…) il principio contenuto in una normativa speciale risulta insuscettibile di essere abrogato tacitamente o implicita-mente da una normativa generale”. Circa l’ipotetica incompatibilità dell’articolo 62 con la direttiva comunitaria, l’Ufficio legislativo del MiPAAF sottolinea “come lo stesso legislatore comunitario, nel disciplinare la materia relativa alla “lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”, faccia espressamente salva la possibilità che il legislatore interno mantenga, o adotti, disposizioni più favorevoli al creditore”.Tale circostanza veniva, comunque già disposta dallo stesso D. Lgs. 231/2002, nella parte in cui dispone che “sono fatte salve le vigenti disposizioni del codice civile e delle leggi speciali che contengono una disciplina più favorevole al creditore”, tema questo non modificato dal successivo D. Lgs. 192/2012.Quindi, non vi sono più dubbi interpretativi e/o ulteriori principi a cui potersi rifare per tentare nuovamente di peg-giorare l’instabilità economica delle imprese che subiscono quotidianamente la pressione della grande distribuzione, unica parte contrattuale che vorrebbe con tutta forza avere piena libertà decisionale sui termini di pagamento da applicare …ovviamente a proprio ed unico favore.

In conclusione, l’articolo 62 resta in vigore e deve venire applicato, a prescindere dai commenti ministeriali sull’argomento.

Tengo a precisare ulteriormente che, nonostante questo tentativo che ha, per fortuna solo momentaneamente, generato una nuova instabilità tra gli operatori - protagoni-sti deboli-, proprio in questi giorni è stata inoltrata all’Au-torità Garante della Concorrenza e del Mercato una prima segnalazione di comportamento sleale legata ad obblighi imposti ai fornitori per l’invio delle fatture a mezzo PEC. Ricordo che le segnalazioni delle violazioni di cui all’art. 62, commi 1, 2 e 3 potranno essere, d’ora innanzi, inoltrate da qualsivoglia operatore del settore interessato attraverso la mera compilazione di un formulario predisposto dalla stessa Autorità. L’Autorità, ritengo, prenderà a cuore il proprio nuovo ruolo di Garante della disciplina sfruttando al meglio la propria competenza antitrust.

R.C.

settore agro-alimentare

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L’Italia recependo le indicazioni della convenzione dell’or-ganizzazione della Nazioni Unite contro la corruzione (con-venzione di Merida), dopo un lungo iter parlamentare ha emanato la L. 190/12 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.

La legge è composta da due soli articoli, il primo con-tiene tutta la disciplina divisa in 83 commi, il secondo pre-vede solo la clausola di invarianza finanziaria. L’art. 1 affronta soprattutto gli aspetti di dettaglio dell’attività della pubblica amministrazione, gli aspetti organizzativi e strutturali, disci-plinando gli organi e i relativi compiti, e i rapporti dei privati con quest’ultima. In particolare spiccano: in coerenza con il principio di “trasparenza”, il dovere per ogni P.A. di pubbli-care via web tutti i dati relativi agli appalti e agli incarichi di consulenza al fine di migliorare il controllo della spesa destinata alle commesse (pena segnalazione alla Corte dei Conti), la rimodulazione dei codici di condotta per i pubblici dipendenti, la “rotazione” dei funzionari di 1° livello tra i vari uffici per evitare di “cristallizzare” le posizioni in un unico ufficio, l’introduzione di una specifica tutela per il dipendente che segnala l’illecito e una serie di deleghe al governo per l’intervento normativo in tema di incandidabilità, trasparenza e collocamento fuori ruolo.

Gli ultimi 9 commi dell’art. 1 modificano il codice penale. Vediamo come:

LA FATTISPECIE

DI CORRUZIONE

La legge 190/12 ha riformato il sistema di delitti di corru-zione eliminando il binomio corruzione propria/corruzione impropria, per introdurre uno schema fondato su fattispecie generale (art. 318 C.P.) e fattispecie speciale.

In particolare l’art. 318 è stato radicalmente riformulato con l’introduzione della fattispecie generale di “corruzione per l’esercizio della funzione” in luogo della originaria fatti-specie “per un atto d’ufficio”con un notevole inasprimento di pena.

Come si evince dalla comparazione del “vecchio” con il “nuovo”, l’art. 318 C.P. elimina il riferimento “all’atto dell’uf-ficio” e lo sostituisce con l’inciso “per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri” rendendo così lo stesso articolo fattispecie generale del reato di corruzione.

La differenza sostanzialmente si traduce nel fatto che la

retribuzione indebita (la promessa di denaro o altra utilità) non si deve porre in rapporto con uno specifico atto del pubblico ufficiale ma è sufficiente che venga promessa o cor-risposta in relazione all’esercizio delle funzioni pubbliche di cui il pubblico ufficiale è titolare.

Il fatto di svincolare la punibilità, dall’individuazione dello specifico atto elimina una delle più frequenti difficoltà nell’ap-plicazione del delitto di corruzione che la Giurisprudenza ha incontrato sinora.

Le più autorevoli riviste pongono ad esempio il caso del pubblico ufficiale “a libro paga” ovvero quel pubblico ufficiale pagato in maniera “forfettaria” o periodicamente non per compiere od omettere un determinato atto, ma per essere disponibile a farlo al bisogno. La Giurisprudenza (ex multis Cass. 25.8.2009 n. 34834) riconduceva sistematicamente tale fattispecie all’art. 319 C.P. in assenza dell’individuazione di uno specifico atto. Con la riforma, considerando il nuovo sistema, rappresentato dalla fattispecie generale dell’art. 318 e da quello speciale dell’art. 319 ove non venga individuato uno specifico atto, l’illecito dovrà essere inquadrato invece nella fattispecie di cui all’art. 318 C.P. novellato e non più nell’art. 319 C.P.

Laddove invece sia possibile individuare uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio sarà applicabile l’art. 319 C.P. che continua a prevedere la punibilità del p.u. nei medesimi (vecchi) casi ma con pene più severe (da 4 a 8 anni).

La distinzione tra le fattispecie di corruzione ante-riforma ponevano problematiche concrete (e conseguenze) anche per ciò che riguarda la fase delle indagini e dell’eventuale applicazione delle misure cautelari personali.

Infatti il “vecchio” art. 318 C.P. stabiliva la pena della reclu-sione da 6 mesi a 3 anni (o fino ad 1 anno nel caso del 2° comma) a fronte della pena della reclusione da 2 a 5 anni prevista del “vecchio” 319 C.P., e quindi la distinzione tra atto conforme e atto contrario diveniva decisiva ai fini delle con-dizioni per l’ammissibilità delle intercettazioni nelle indagini preliminari e per l’applicazione delle misure cautelari perso-nali entrambe applicabili solo per il 319 C.P.

Ora, dopo la riforma vista l’integrale modifica dell’art. 318, la distinzione tra le due fattispecie è limitata al tratta-mento sanzionatorio (ed ai termini di prescrizione del reato). Per ultimo, la nuova formulazione dell’art. 318 C.P. elimina qualsiasi distinzione tra corruzione antecedente (quando il p.u. riceva il denaro o altra “utilità” o ne accetta la pro-messa, per compiere successivamente un atto) e susseguente (quando il p.u. riceve denaro o altro quale remunerazione per un atto già compiuto). Ora, ad integrare il reato è sufficiente

anticorruzione

La legge anticorruzione (l. 6 novembre 2012 n. 190)

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che il privato retribuisca indebitamente il p.u. per l’esercizio delle sue funzioni anche quando la retribuzione intervenga in assenza di un previo accordo per un atto conforme già posto in essere da soggetto pubblico.

Anche per la fattispecie dell’art. 319 ter C.P. (corru-zione in atti giudiziari) è stato previsto un innalzamento della pena, (reclusione da 4 a 10 anni – ante riforma era da 3 a 8 anni) e nel caso in cui dal fatto derivi l’ingiusta condanna di qualcuno, il minimo edittale è stato aumentato in 5 anni al posto di 4.

La L. 190/12 ha modificato l’art. 320 C.P. (corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio) con l’eliminazione del riferimento al pubblico impiegato per la punibilità dell’in-caricato di pubblico servizio.

Ciò comporta che tanto la corruzione (generale) “per l’e-sercizio delle funzioni” quanto quella (speciale) di cui all’art. 319 C.P. possono essere commesse da p.u. e da incaricati di pubblico servizio, con la riduzione fino ad un terzo della pena nell’ipotesi di corruzione per quest’ultimo.

Per quello che riguarda i profili di diritto intertemporale le norme modificate non introducono nuovi reati con con-seguente operatività dell’art. 2 e 4 C.P. (legge più favorevole al reo).

LA FATTISPECIE

DI CONCUSSIONE

Il delitto di concussione è stato in più occasioni oggetto di richieste di chiarimenti da parte degli organismi interna-zionali di verifica, in quanto (criticavano) vi era scarsa chia-rezza dei criteri distintivi tra concussione e la fattispecie di corruzione. Il possibile rischio (anche la nostra giurispru-denza lo ha sottolineato) era quello di un uso distorto della fattispecie in quanto qualificando un fatto quale ipotesi di concussione (invece che corruzione), poteva essere possi-bile assicurarsi la “collaborazione” processuale del privato, al quale in quel caso era garantita l’esenzione da ogni pena. La L. 190/12 ha allora introdotto la distinzione tra concussione per costrizione (art. 317 C.P.) e concussione per induzione (art. 319 quater C.P.) prevedendo in quest’ultimo caso anche la punibilità del privato.

La precedente fattispecie incriminatrice di cui all’art. 317 C.P. è stata pertanto sdoppiata (art. 317 e 319 quater C.P.) con un significativo innalzamento della pena minima per il reato di concussione per costrizione (art. 317 C.P. da 4 a 6 anni rimanendo invariato il massimo, 12 anni); questa è l’ipo-tesi più gravemente punita tra i delitti contro la P.A.

La nuova fattispecie di cui all’art. 319 quater C.P. prevede la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pub-blico servizio che si sostanzia in un abuso dei propri poteri e induce il privato all’indebita dazione o promessa (è prevista

una pena da 3 a 8 anni). L’ulteriore novità è appunto che la condotta del privato che si lascia indurre all’indebita dazione o promessa è meritevole della pena, anche se minore, in quanto minore è la rimproverabilità della condotta rispetto alla fattispecie della corruzione (reclusione fino a 3 anni).

Il “vecchio” art. 317 C.P. allineava la costrizione e l’indu-zione come modalità alternative del reato, pertanto il fulcro della norma era la “pressione” che subiva il privato, senza che rivestisse rilievo centrale ai fini della sussistenza del reato la qualificazione della condotta come costrizione o induzione. Dopo la riforma, come vedremo, è il mutare dell’intensità di tale “pressione” che rende la condotta del privato punibile o meno, nella fattispecie di concussione.

La nuova formulazione dell’art. 317 (concussione per costrizione) limita il soggetto attivo del reato al solo pub-blico ufficiale.

Questa soluzione lascia perplessi, in quanto esclude quindi che un incaricato di pubblico servizio possa nella realtà della pubblica amministrazione porre in essere condotte minac-ciose tali da avere un effetto di integrale soggezione del pri-vato, e che queste quindi possano essere poste in esclusiva solo dal p.u.

La conseguenza è che quindi, qualora la condotta prevari-cante dell’incaricato di pubblico servizio sia minacciosa o vio-lenta, la qualificazione del fatto non potrà che essere quella di estorsione ex art. 629 C.P. aggravata dall’abuso dei poteri inerenti a un incaricato di pubblico servizio (art. 61 n. 9 C.P.).

Ciò comporta che qualora sanzionato con il massimo della pena l’incaricato di pubblico servizio è colpito con una pena più severa (10 anni di reclusione più l’aumento di un terzo) di quella massima prevista dall’art. 317 C.P. per il pub-blico ufficiale (12 anni di reclusione) e questo sembra irra-gionevole.

Il delitto di induzione a promettere (319 quater) o dare indebita utilità invece può essere commesso tanto dal p.u. quanto dall’incaricato di pubblico servizio. Nella nuova for-mulazione quindi diviene decisiva la distinzione tra la con-dotta di costrizione e quella di induzione poiché soltanto nel primo caso la pressione del pubblico ufficiale è talmente intensa da rendere inesigibile una reazione di contrasto o rifiuto del privato (e quindi renderlo immune dalla sanzioni).

È chiaro che se la costrizione viene realizzata mediante violenza questa viene inquadrata nell’ipotesi di concussione per costrizione. Così come certamente la minaccia di un male ingiusto da parte del p.u. appare idonea a integrare l’e-lemento della costrizione in quanto il privato viene piegato ad una scelta che altrimenti non farebbe. Si discuterà proba-bilmente se la compressione della libertà di autodeterminarsi del privato debba spingersi sino ad inibire qualsiasi alternativa ovvero se la concussione sia compatibile con una coazione meno invasiva.

Chiari criteri distintivi tra la condotta di costrizione e induzione non vi sono.

anticorruzione

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anticorruzioneNon è chiara la diversità di disvalore della condotta e la

diversità della situazione di soggezione in cui il privato viene a trovarsi.

Tuttavia le massime giurisprudenziali sono state elaborate sino ad oggi in relazione ad una norma che accumunava in un’unica fattispecie la condotta di costrizione ed induzione ed escludeva in entrambi i casi la sanzione penale nei con-fronti del privato.

Ora, il legislatore ha inteso, prevedendo la punizione del privato per la fattispecie di indebita induzione a dare o pro-mettere “utilità”, responsabilizzarlo. La norma si ribadisce ha inteso restringere l’ambito di applicazione della concussione ai soli casi in cui l’abuso e la condotta prevaricatrice del p.u. e la conseguente pressione sulla volontà del privato siano così intense da non rendere esigibile una resistenza del privato stesso. La Giurisprudenza dovrà chiarire i criteri distintivi e la linea di confine tra la condotta di costrizione e di induzione nei riguardi della condotta del p.u. o quelli relativi alla libera determinabilità del privato per la corresponsione dell’illecita remunerazione.

Per quello che riguarda i profili di diritto intertemporale, con riguardo alla condotta del pubblico ufficiale si realizzerà un’ipotesi di successione meramente modificativa di legge penale con conseguente applicazione della legge più favore-vole al reo.

Per l’incaricato di pubblico servizio il quale abbia costretto il privato alla dazione o promessa non più punibile ai sensi del “nuovo” 317 C.P. si realizzerà un’ipotesi di successione di leggi ai sensi dell’art. 2 comma 4 C.P. tra concussione ed estorsione aggravata.

Per quello che riguarda la nuova fattispecie di cui all’art. 319 quater questa prevede per il p.u. o l’incaricato di pub-blico servizio la pena della reclusione da 3 a 8 anni mentre per il medesimo fatto il “vecchio” art. 317 stabiliva una pena da 4 a 12 anni.

In forza del principio dell’applicazione della legge più favorevole, alla condotta di induzione posta in essere prima dell’entrata in vigore della riforma dovrà invece essere appli-cata quella del novello 319 quater con evidenti conseguenze anche in ordine alla prescrizione.

Si avrà invece una nuova incriminazione con conseguente non applicabilità ai fatti pregressi per il privato che sia stato indebitamente indotto alla dazione o promessa di denaro o “utilità” (art. 319 quater comma 2).

Stefano Molinari

(anticorruzione): traffico di influenze illecite

Tra le maggiori novità apportate dalla legge 6 novem-bre 2012 n. 190, vi è senza dubbio l’introduzione del reato di “Traffico di influenze illecite”, rubricato all’art. 346-bis c.p.

La disposizione in esame trae origine da una doppia esi-genza: innanzitutto, la necessità di rispondere alle istanze da tempo mosse in ambito internazionale e tendenti a pro-muovere una maggiore uniformità della politica criminale adottata nei diversi Paesi in materia di corruzione, nonché a sanzionare anche le condotte prodromiche e funzionali all’accordo corruttivo; secondariamente, l’esigenza di col-mare un vuoto legislativo, che in passato aveva già dato luogo ad alcune pronunce tendenti a tipizzare condotte non immediatamente inquadrabili nell’alveo della fattispe-cie punita dall’art. 346 c.p., dando, così, il via ad una nuova stagione di interpretazione creativa del diritto.

Tuttavia, durante il cammino legislativo abbiamo assi-stito a numerosi cambi di rotta, soprattutto in merito alla decisione se il reato di “Traffico di influenze illecite” fosse norma da intendersi o meno in sostituzione del già esi-stente Millantato credito.

Il Legislatore nella versione definitiva ha evidentemente optato per la compresenza delle due fattispecie; una deci-sione che, a ben vedere, sembra aggravare, piuttosto che risolvere i dubbi interpretativi/applicativi preesistenti. In effetti, già ad una prima lettura non sfugge come i nessi tra le due figure criminose saranno in grado di creare aree di interferenza tra i rispettivi ambiti di tipicità, soprattutto in presenza di quegli orientamenti giurisprudenziali che, a partire dai primi anni 90’ in certe aree geografiche, come detto, avevano già allargato i margini di applicazione del Millantato credito. Il risultato di questa scelta legislativa sembra, quindi, generare numerose perplessità sia con riferimento alle questioni di diritto intertemporale, sia qualora si intendano effettuare valutazioni su possibili patologie “a regime”.

Per quanto riguarda i profili di intertemporalità, va da sé che l’art. 346-bis c.p. rappresenti a tutti gli effetti per il soggetto privato (colui che promette o procura l’utilità) l’introduzione di una nuova norma incrimina-trice, con conseguente applicazione dell’art. 2, co. 1, c.p. Alle medesime conclusioni non è, tuttavia, possibile giun-gere in modo altrettanto immediato con riferimento alla condotta dell’intermediario; la fattispecie introdotta con l’art. 346-bis c.p. non costituirà, infatti, un’ipotesi di nuova

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incriminazione ove si abbia riguardo all’orientamento giu-risprudenziale che, allargando le maglie del Millantato cre-dito, aveva già ritenuto penalmente rilevante la condotta del mediatore che vanta influenze che è effettivamente in grado di esercitare.

In questo caso, il reato di Traffico di influenze illecite, rappresenterebbe nell’attuale panorama interpretativo una disciplina più favorevole, che, pertanto, dovrebbe tro-vare applicazione in ragione dell’art. 2, co. 4, c.p.

Volendo fare una previsione su quelli che potranno essere gli scenari futuri del concreto utilizzo dello stru-mento repressivo appena varato, è possibile intravedere implicazioni di natura giudiziaria sia nel caso in cui si intenda dare priorità alle esigenze di semplificazione pro-batoria, sia laddove si voglia esaminare la norma come risposta ai bisogni di punizione più severa nei confronti di tutti gli atti corruttivi.

Sotto il primo profilo, la potenziale riconducibilità ad entrambe le due fattispecie di alcune condotte, potrebbe, infatti, indurre a soluzioni strumentali, dettate da concrete esigenze probatorie più che dalla necessità di mantenersi all’interno di specifici confini di tipicità.

E in effetti, appare evidente che la prova del millantato credito sia più agevole rispetto a quella richiesta per il traffico di influenze illecite, per contestare il quale occor-rerà, per l’appunto, dimostrare di volta in volta un quid pluris, cioè l’esistenza di relazioni tra pubblico funziona-rio ed intermediario; anche la possibilità di utilizzare quale testimone il “compratore” e quella di effettuare intercet-tazioni telefoniche o applicare misure coercitive, sembre-rebbe favorire tale scelta.

Quanto al secondo aspetto, è inevitabile soffermarsi sul maggior rigore sanzionatorio previsto per la fattispecie di millantato credito, che in alcuni casi potrebbe condurre persino ad esiti applicativi aberranti, punendo in modo più grave condotte meno offensive, quali quelle frutto di men-dacio od orientate verso influenze non criminose.

Ciò ha portato alcuni autori a ritenere che, con un atteggiamento per così dire “schizofrenico”, il legislatore, attraverso l’introduzione del reato di traffico di influenze illecite, da un lato abbia tentato di intervenire in modo più incisivo contro i fenomeni corruttivi, colpendo anche le c.d. condotte prodromiche e funzionali agli accordi ille-citi, dall’altro abbia ridimensionato il proprio intervento, preferendo enfatizzare la frode sottesa alla fattispecie del Millantato credito, piuttosto che la lesione del prestigio della P.A., bene giuridico tutelato dall’art. 346 bis c.p. Una scelta che, per altro, trova conferma nel fatto che nella fat-tispecie di nuova introduzione la mediazione illecita viene tipizzata solo se finalizzata alla corruzione propria comune o in atti giudiziari. Altro nodo interpretativo, potrebbe ravvisarsi in relazione alla configurabilità di un concorso di reati nel caso in cui al patto di retribuzione segua la

anticorruzionecommissione di reati scopo non contemplati dalla clausola di sussidiarietà, quali l’abuso d’ufficio, la turbativa d’asta e la rivelazione di segreti d’ufficio.

Ritenendo che la loro omessa menzione nel nuovo det-tato normativo non possa essere interpretata come una specifica rinuncia del Legislatore a sanzionare mediazioni finalizzate alla consumazione delle predette fattispecie, la soluzione dovrà senz’altro essere ricercata nell’applica-zione del criterio generale dell’assorbimento secondo il quale l’accordo remunerativo dovrà essere inteso come antefatto non punibile travolto dalla progressione crimi-nosa dei fatti.

Ad una diversa conclusione, occorrerà, invece, perve-nire nell’ipotesi in cui il patto tra compratore e mediatore abbia quale obiettivo l’omissione di Atti d’ufficio; i limiti edittali di quest’ultima fattispecie, infatti, impediscono l’applicazione del criterio di valore dell’assorbimento e, pertanto, sembrerebbe legittimata la configurabilità di un concorso di reati.

Monica Alpini

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In memoria del dott. Paolo Scippa, magistrato ed amico, prematuramente scomparso

Sommario: 1. Cinquanta anni di articolo 5 legge 283/1962; 2. Diritto penale e alimenti:uno sguardo al passato; 3. Introdu-zione della legge 283 del 1962 : lo scopo della norma; 4. Prime modifiche: la legge 26 febbraio 1963 n. 441; 5. Il principio di specialità e l’art. 5 della legge 283 del 1962; 6. La legge 205 del 1999 di depenalizzazione; 7. Il fallito tentativo di superare l’articolo 5; 8. La presunta abrogazione dell’art. 5 da parte della legge “taglialeggi”; 9. La situazione presente; 10. considerazioni sull’elemento soggettivo in tema di art 5 legge 283 del 1962: l’insegnamento della giurisprudenza; 11. La competenza sull’art. 5 ed i tempi di prescrizione; 12. Reato di pericolo presunto; 13. le prospettive di riforma;

1. Cinquanta anni di articolo 5 della Legge 283 del 1962

Il 30 aprile del 1962 veniva approvata dal Parlamento Italiano la legge 283 contenente la disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari.

A distanza di oltre cinquant’anni da questo evento si può trarre il bilancio dell’applicazione di tale normativa, in particolare dell’articolo 5 che, ancora oggi, costituisce la norma di diritto alimentare maggiormente applicata, nei tri-bunali del nostro paese.

Tale normativa rappresentava all’epoca della sua intro-duzione una novità assoluta per l’ordinamento giuridico italiano.

Infatti, prima di allora nella legislazione nazionale non esi-steva una “normativa quadro” con carattere orizzontale appli-cabile indistintamente a tutti i tipi di alimenti e alle bevande.

Se ritorniamo agli anni ’60 del secolo scorso si possono rinvenire due tipologie diverse di disposizioni sugli alimenti.

Una prima normativa di carattere generale è quella con-tenuta nel codice penale del 1930.

A questa si affiancava la disciplina complementare, fram-mentaria e disomogenea, contenuta nelle leggi speciali.

Queste ultime erano il frutto dell’approvazione nel corso degli anni, di singole disposizioni relative a questo o quell’ali-mento in particolare, senza presunzione di completezza.

Analizziamo sommariamente lo stato della legislazione

in tema di alimenti al momento in cui venne approvata la legge 283 del 1962.

2. Diritto penale e alimenti: uno sguardo al passato

Le disposizioni del codice Rocco che qui interessano sono essenzialmente racchiuse in due diverse parti dello stesso codice del 1930.

Una prima serie di norme è quella posta a tutela dell’in-columità pubblica di cui al capo II del titolo VI del secondo libro del codice penale.

Ricordiamo come tali reati puniscono fatti che tipica-mente provocano un pericolo (o un danno) di tale potenza espansiva o diffusività, da minacciare (o ledere) un numero indeterminato di persone non individuabili preventivamente.

La reazione penale nel caso di fatti di comune pericolo viene anticipata in modo tale da salvaguardare l’incolumità delle persone prima che si verifichino dei danni rilevanti alla collettività.

Con particolare riferimento ai delitti contro la salute pubblica il giudice dovrà accertare il pericolo concreto ossia che le sostanze in questione siano in generale idonee a provocare effetti pregiudizievoli ai danni di una cerchia indeterminata di consumatori (1).

Ciò precisato i delitti che menzionano gli alimenti o le sostanze alimentari sono i seguenti:

l’art. 439 che punisce l’avvelenamento di acque o sostanze alimentari, l’art. 440 (adulterazione o contraf-fazione di sostanze alimentari), l’art. 442 (commercio di sostanze alimentari contraffatte o adulterate) l’art. 444 (commercio di sostanze alimentari nocive).

Le richiamate figure criminose sono strutturate come delitti, punite esclusivamente a titolo di dolo, con pene edit-tali pesanti (per esempio l’art. 440 c.p. è punito con la reclu-sione da tre a dieci anni, mentre l’art. 444 c.p. prevede una pena da sei mesi a tre anni di reclusione e la multa).

Nel titolo VIII dei delitti contro l’economia pubblica l’industria ed il commercio si collocano infine la frode in commercio (art. 515 c.p.) e la vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine (art. 516 c.p.).

In Buona sostanza, tutte queste disposizioni incrimina-trici esistevano già in forma embrionale nel codice penale del 1889 (il c.d. Codice Zanardelli dal nome del ministro guardasigilli dell’epoca) e sono state perfezionate e meglio definite nel codice Rocco.

L’articolo 5 della legge 283 del 1962; Il bilancio a cinquant’anni dall’entrata in vigore; problematiche applicative e prospettive future.

articolo 5 della L. 283

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Per quanto concerne i reati contro l’incolumità pubblica la prassi applicativa ne ha dimostrato la difficoltà di appli-cazione concreta da parte dell’autorità giudiziaria, infatti quest’ultima per addivenire alla prova della responsabilità deve preventivamente accertare (anche con una perizia tec-nica) che i comportamenti trasgressivi abbiano concreta-mente esposto a pericolo la salute pubblica.

La richiamata disciplina, essendo legata a parametri di pericolosità concreta e alla necessità di dimostrare in modo oggettivo la situazione di pericolo, in molti casi concreti non può essere applicata.

Gli organi di controllo in molti casi concreti hanno dif-ficoltà a fornire ai giudicanti rigorose prove scientifiche in ordine alla presenza dell’agente patogeno idoneo a rendere concreta ed attuale la messa in pericolo della salute pub-blica (2).

A fianco di delitti sin dalla proclamazione dello Stato unitario sono collocate numerose leggi speciali che si sono occupate di disciplinare la materia che qui interessa.

Tra le tante, senza presunzione di completezza, si pos-sono ricordare il Regio Decreto 3 agosto 1890 n. 7045 (regolamento per la vigilanza igienica sugli alimenti e sulle bevande e sugli oggetti di uso domestico) il R.D. 10 agosto 1895 n.625 sul burro, il R.D.L. 8 febbraio 1923 n. 501 sulle conserve.

Da segnalare infine il Regio Decreto Legge 15 ottobre 1925 n. 2033 Repressione delle frodi nella preparazione e nel commercio di sostanze di uso agrario, e di prodotti agrari e il suo regolamento per la esecuzione R.D.L. 31 luglio 1926 n. 1361.

Tutte queste disposizioni, tuttavia, non rappresentavano un corpo compatto applicabile indistintamente a tutti i tipi di alimenti o bevande ma solo ad alcuni prodotti.

3. Introduzione della legge 283 del 1962: lo scopo della norma

Se questa era la situazione nel diritto italiano al momento dell’approvazione della legge 283 chiariamo le ragioni della novella.

La legge in primo luogo, fu introdotta allo scopo di det-tare la disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande, in sostituzione delle norme ormai superate del Testo Unico delle leggi sani-tarie del 1934.

Quest’ultime disposizioni apparivano, a fronte del molti-plicarsi delle merci e dei prodotti compravenduti, inadeguate a tutelare in modo conveniente la salute e l’igiene pubblica.

Centrale all’interno della legge è, come detto, l’articolo 5.Appare opportuno in questo commento riportare il

testo originale della norma come venne pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 4 giugno 1962.

Con esso viene originariamente vietato “impiegare nella

preparazione di alimenti e bevande, vendere, detenere per ven-dere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuire per il consumo sostanze alimentari:

a) private anche in parte dei propri elementi nutritivi o mescolate a sostanze di qualità inferiore o comunque trattate in modo da variarne la composizione naturale, salvo quanto dispo-sto da leggi e regolamenti speciali;

b) in cattivo stato di conservazione;c) con cariche microbiche superiori ai limiti che saranno sta-

biliti nel regolamento di esecuzione o da ordinanze ministeriali;d) insudiciate, invase da parassiti, in stato di alterazione o

comunque nocive, ovvero sottoposte a lavorazioni o trattamenti diretti a mascherare un preesistente stato di alterazione;

e) adulterate, contraffatte e non rispondenti per natura, sostanza o qualità alla denominazione con cui sono designate o sono richieste;

f) colorate artificialmente quando la colorazione artificiale non sia autorizzata o, nel caso che sia autorizzata, senza l’os-servanza delle norme prescritte e senza l’indicazione, a caratteri chiari e ben leggibili, della colorazione stessa.Questa indicazione, se non espressamente prescritta da norme speciali, potrà essere omessa quando la colorazione è effettuata mediante caramello, infuso di truciolo di quercia, enocianina ed altri colori naturali consentiti;

g) con l’aggiunta di additivi chimici di qualsiasi natura non autorizzati con decreto del Ministro per la sanità o, nel caso che siano autorizzati, senza l’osservanza delle norme prescritte per il loro impiego. I decreti di autorizzazione sono soggetti a revisioni annuali,

h) che contengano residui di prodotti, usati in agricoltura per la protezione delle piante e a difesa delle sostanze alimentari immagazzinate, tossici per l’uomo…”

La norma in questione richiama alla mente altre disposi-zione contenute nel codice Rocco.

In questo testo la dottrina riconosce un grande utilizzo del metodo casistico a discapito della tecnica della sintesi nella formulazione delle norme incriminatrici.

Anche la legge 283 pare seguire il codice penale nella formulazione delle norme penalmente rilevanti.

Originariamente l’art. 5 prevedeva ben otto ipotesi diffe-renti di illecito penale, figure autonome e differenti tra loro.

Come correttamente sostenuto da Francesco Antolisei nel suo celebre manuale di diritto penale (3) la tecnica casi-stica, ripresa dal legislatore del 1962, viene giustificata da un punto di vista ideologico con la necessità di tutelare e garantire la certezza del diritto attraverso una minuta spe-cificazione delle ipotesi illecite.

In realtà, la minuziosità dei casi descritti nel codice come all’interno dell’art. 5, che qui interessa, non favorisce neces-sariamente la chiarezza della norma di legge e molte volte può dare luogo ad interpretazioni difformi da parte della giurisprudenza.

articolo 5 della L. 283

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Questo è ciò che effettivamente è accaduto nel corso del tempo con numerosi concetti del diritto alimentare che hanno subito una evoluzione che si è distaccata da quella originariamente intesa dal legislatore.

A questo aspetto si aggiunge infine la circostanza per cui alcuni concetti mutuati senza le dovute accortezze dalle materie scientifiche (biologia, scienza degli alimenti) hanno dato luogo ad una serie di controversie interpretative (4).

4. Prime modifiche: la legge 26 febbraio 1963 n. 441

Il testo originario venne modificato parzialmente già l’anno successivo alla sua approvazione, con la legge 26 febbraio 1963 n. 441 che eliminò espressamente la norma incriminatrice contenuta nella lettera e).

Anche la lettera f) dell’art. 5 sarà soppressa molti anni dopo, per la precisione con l’art. 57 comma 2 della legge 19 febbraio 1992 n. 142.

Le modifiche subite dall’art. 5 non si sono limitate tut-tavia a quelle qui sommariamente indicate perché anche le originarie disposizioni sanzionatorie sono state cambiate più volte nel corso del tempo.

Si deve precisare infatti, che al momento dell’approva-zione nel 1962 l’articolo 5 era sanzionato dall’articolo 6 con la pena dell’arresto alternativa a quella dell’ammenda.

Tuttavia, già con la legge 26 febbraio 1963 n. 441 la pena venne trasformata in senso più afflittivo in sanzione congiunta.

Questa semplice modifica comportava la mancata appli-cazione dell’’istituto premiale dell’oblazione speciale, previ-sta dell’art. 162 bis del codice penale sono per le contrav-venzioni punite con pena alternativa.

Successivamente, la norma è stata modificata ancora una volta, riportandola alla versione originaria dalla Legge 25 giugno 1999 n. 205, ciò proprio al fine di consentire l’applicazione dell’oblazione a tutti i reati contravvenzionali puniti dall’art. 5.

L’art. 6 prevede ora espressamente al comma 3 che: “salvo che il fatto costituisca piu’ grave reato, i contravventori alle disposizioni del presente articolo e dell’articolo precedente sono puniti con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda da € 309 a € 30.987.

Per la violazione delle disposizioni di cui alle lettere d) ed h) dell’articolo 5 si applica la pena dell’arresto da tre mesi ad un anno o dell’ammenda da € 2.582 a € 46.481”.

Da segnalare come la possibile alternativa tra arresto ed ammenda consenta agli organi inquirenti di definire la maggior parte dei reati di cui ci occupiamo con richiesta di emissione di decreto penale di condanna ai sensi e per gli effetti di cui agli art. 459 c.p.p. e seguenti.

Tale procedimento, che ricordiamo è alternativo all’ordi-nario giudizio dibattimentale, caratterizza quindi oltre il 90% dei reati alimentari in generale e dell’art. 5 in particolare.

5. Il principio di specialità e l’art. 5 della legge 283 del 1962

Anche la legge 24 novembre 1981 n. 689, contenenti modifiche al sistema penale, si è occupata della nostra materia.

Infatti, l’art. 9 (Principio di specialità) prevede una regola speciale da applicare nel caso in cui si siano più disposizioni che si occupano dello stesso fatto.

La regola generale è quella per cui quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposi-zione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni ammi-nistrative, si applica la disposizione speciale.

Tuttavia, “ai fatti puniti dagli articoli 5, 6, 9 e 13 della legge 30 aprile 1962 n. 283, modificata con legge 26 febbraio 1963 n.441, sulla disciplina igienica degli alimenti, si applicano in ogni caso le disposizioni penali in tali articoli previste, anche quando i fatti stessi sono puniti da disposizioni amministrative che hanno sostituto disposizioni penali speciali”.

Anche questa disposizione ad hoc è stata infine modifi-cata dal decreto legislativo n. 507 del 1999, per cui attual-mente la disposizione che interessa recita in questo modo:

“Ai fatti puniti dagli artt. 5, 6 e 12 della legge 283 del 1962, e successive modificazioni ed integrazioni, si applicano soltanto le disposizioni penali, anche quando i fatti stessi sono puniti con sanzioni amministrative previste da disposizioni speciali in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti e delle bevande”.

Giova sottolineare come il vigente principio di specialità restringe il campo di applicazione esclusivamente agli art. 5, 6 e 12 della legge del 1962 facendo sempre salva l’applica-zione della sanzione penale rispetto a quella concorrente amministrativa (5).

6. La legge 205 del 1999 di depenalizzazione

Come detto l’art. 5 ha subito ripetuti aggiustamenti nel corso degli anni.

Un importante intervento si è avuto con la legge di depenalizzazione n. 205 del 1999 e il successivo decreto di attuazione n. 507 del 30 dicembre 1999.

Tale provvedimento ha mantenuto gli articoli 5, 6 e 12 della legge del 1962 che insieme alle norme del codice penale rimangono a tutela della salubrità ed igiene degli ali-menti.

La legge in questione salva l’art. 5 della legge 283 del 1962 dalla generale trasformazione subita dagli altri illeciti penali alimentari, tutti modificati in sanzioni amministrative.

Da segnalare la disposizione di cui all’art. 12 bis che prevede una nuova aggravante speciale in materia di reati alimentari.

articolo 5 della L. 283

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La norma dispone che: “Nel pronunciare condanna per taluno dei reati previsti dagli articoli 5,6 e 12 della legge 283 del 1962, il giudice, se il fatto è di particolare gravità e da esso è derivato pericolo per la salute, può disporre la chiusura defi-nitiva dello stabilimento o dell’esercizio e la revoca della licenza, dell’autorizzazione o dell’analogo provvedimento amministrativo che consente l’esercizio dell’attività. Le medesime pene accesso-rie possono essere applicate se il fatto è commesso da persona già condannata, con sentenza irrevocabile, per reato commesso con violazione delle norme in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti e delle bevande”.

L’autorità giudiziaria ha applicato nella prassi tale aggra-vante molto raramente forse ritenendo il provvedimento troppo afflittivo nelle sue conseguenza finali.

7. Il fallito tentativo di superare l’articolo 5

Il Parlamento Italiano con l’articolo 6 delle legge 229 del 2003 aveva delegato il governo ad adottare “un decreto legislativo per il riassetto delle disposizioni vigenti in mate-ria di prodotti alimentari”.

Le bozze di tale testo unico vennero rese pubbliche dal Ministero della Salute, Dipartimento per la sanità pubblica veterinaria, la nutrizione e la sicurezza degli alimenti, nel mese di maggio del 2007.

L’idea principale di questo testo unico era quella di riu-nire in un solo corpus normativo tutta la variegata disciplina nazionale in tema di alimenti e di bevande.

Nell’ottica di riassetto complessivo della materia i fun-zionari del ministero avevano proposto la trasformazione in illeciti amministrativi dei comportamenti ancora penal-mente rilevanti di cui all’art. 5 della legge 283 del 1962.

In questo senso il capo VI della bozza del codice, occu-pandosi delle sanzioni alla violazione delle norme del codice, prevedeva espressamente il mantenimento delle disposizioni di cui all’art. 5, tuttavia, trasformandole in ille-cito punito con sanzione pecuniaria amministrativa.

Tale proposta, tuttavia, rimase tale in quanto alcuni esponenti della magistratura inquirente lamentarono pub-blicamente sugli organi di stampa il pericolo del venir meno della repressione penale e dei suoi strumenti più efficaci (i sequestri) a svantaggio della tutela dei consumatori.

La bozza del provvedimento, con i pregi ed i difetti che ogni testo di legge può presentare, a questo punto venne accantonato e rimase muto testimone del dato di fatto secondo cui il superamento della legge 283 del 1962 non era ancora maturo per l’ordinamento italiano.

8. La presunta abrogazione dell’art. 5 da parte della legge “taglialeggi”

Si deve infine registrare un ultimo provvedimento nor-mativo che per qualche tempo ha fatto ritenere, a torto, superato l’art. 5 e tutte le rimanenti disposizioni della legge 283 del 1962.

Si tratta della legge 28 novembre 2005 n. 246 recante in epigrafe “Semplificazione e riassetto normativo”.

Il Parlamento nazionale aveva anche in questo caso con-ferito delega al Governo al fine di provvedere al riordino e alla eliminazione delle norme ancora in vigore ma ormai obsolete.

Si trattava di un intervento assai opportuno nei suoi scopi, se si pensa al fatto che nell’ordinamento italiano sono presenti oltre 450.000 testi normativi.

È evidente come tale massa enorme di disposizioni sia di difficile conoscibilità non solo da parte di un semplice cit-tadino ma anche da parte degli addetti ai lavori ossia magi-strati ed avvocati.

Sulla base di tale meritorio progetto venivano emanate norme abrogative come la legge 6 agosto 2008 n. 133 e il decreto legge 22 dicembre 2008 n. 200 cosiddetto “taglia-leggi” convertito poi con modificazioni dalla legge 18 feb-braio 2009 n.9.

Quest’ultima disposizione conteneva un elenco delle disposizioni abrogate espressamente.

Successivamente, veniva emanato il decreto legislativo n.179 del 1 dicembre 2009 cosiddetto “salva leggi” con il quale venivano indicate le norme statali anteriori al 1 gen-naio del 1970 di cui si riteneva indispensabile la permanenza all’interno dell’ordinamento italiano.

Le norme non comprese nella lista di quelle salvate sono state abrogate ai sensi dell’art. 14 della citata legge 266 del 2005.

La legge 30 aprile 1962 n. 283 non compare in detto elenco.

La descritta situazione, a dire il vero abbastanza confusa, dava luogo alla ritenuta abrogazione della legge 283 del 1962.

Per dirimere la questione è intervenuta la Corte suprema di Cassazione che, con la sentenza n. 9276 del 19 gennaio 2011 (6) ha statuito che “in materia di alimenti e bevande deve ritenersi del tutto esclusa l’abrogazione della legge 283 del 1962 per effetto dell’art. 14 comma 14 ter della legge n. 246 del 2005 cd. “Taglialeggi”.

La motivazione della III Sezione si collega alla circo-stanza per cui essendo la legge qui in oggetto modificata ed integrata dalla legge n.441 del 1963 e figurando tale legge tra quelle espressamente escluse dall’intervento abrogativo, si deve ritenere come il legislatore non avesse alcuna inten-zione di abrogare la legge madre ossia la predetta 283.

Nessun senso logico avrebbe avuto escludere dall’abro-

articolo 5 della L. 283

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gazione la legge n. 441 del 1963 che modificava in senso sostanziale la legge 283 del 1962 e, dall’altro lato non inclu-dere quest’ultima legge tra quelle da salvare.

In definitiva secondo la Cassazione la mancata espressa indicazione della legge 283 del 1962 nell’elenco delle leggi da salvare trova in una serie di considerazioni logico siste-matiche la sua plausibile spiegazione.

9. La situazione presente

Come detto sopra l’articolo 5 della legge 283 del 1962 rappresenta ancora oggi un punto fermo nella legislazione sugli alimenti.

Le scarne statistiche pubblicate dal Ministero della Salute, sulla base della legge 7 agosto 1986 n. 462, dimo-strano come il maggior numero di contestazioni e con-danne sia quello relativo alle varie ipotesi di cui all’art. 5 (7).

In particolare, la parte del leone è costituita dalle ipotesi di cui alle lettere B) e D) della norma (8) (9) le altre fatti-specie risultano applicate più raramente.

L’enorme fortuna che la disposizione ha riscosso nei cinquant’anni trascorsi è dovuta in particolar modo alla natura di contravvenzione.

Come detto sopra infatti tale qualificazione giuridica semplifica molto l’onere probatorio che la pubblica accusa deve onorare nel corso del processo penale.

Chiariamo la questione con alcuni esempi pratici, pren-dendo sempre lo spunto dal diritto alimentare.

Nel caso di commissione di un delitto, come per esem-pio la frode in commercio o il commercio di sostanze ali-mentari contraffatte o adulterate, sull’organo inquirente incombe la prova non solo del fatto materiale di reato, ma anche dell’elemento soggettivo (dolo) dell’imputato.

Ciò significa che il Pubblico Ministero deve dimostrare non solo la condotta di messa in commercio dell’alimento, diverso da quello dichiarato o contraffatto, ma anche che il soggetto imputato abbia agito con dolo, ossia si sia rap-presentato e abbia voluto realizzare la condotta sanzionata dalla norma penale.

In caso di reati contravvenzionali la prova dell’elemento soggettivo è più semplice perché queste ultime, di norma, sono punite a titolo non solo di dolo ma anche di colpa.

Per il codice penale si ha colpa quando l’evento si veri-fica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (art. 43 c.p.)

Tale gravosa prova nel caso di contestazione di una con-travvenzione è appunto semplificata.

Infatti, in questo caso è sufficiente la mera prova del fatto illecito.

La colpa si ricava dalla semplice inosservanza delle regole di condotta (o se si preferisce dalla violazione di un dovere obiettivo di diligenza) nonché dalla rimproverabilità

della suddetta inosservanza al soggetto agente, in base ad un giudizio personalizzato (10).

La violazione dei doveri obiettivi di diligenza, di espe-rienza o cautelari in tema di violazione dell’art. 5 della legge 283 del 1962 sono quelli che vengono ripetuti dalla giu-risprudenza sulla base di alcune regole tratte dalla realtà concreta.

Altro problema è quello di stabilire lo standard alla luce del quale di deve formare il giudizio di prevedibilità ed evi-tabilità che a sua volta condiziona la struttura stessa della regola cautelare oggettiva.

Secondo una impostazione il parametro oggettivo in base al quale formulare il giudizio di prevedibilità ed evitabi-lità è quello dell’uomo della stessa professione e condizione (cd. Homo eiusdem professionis et condicionis). Il modello di riferimento quindi è quello di una astratta figura di agente esperto ed accorto, che ipoteticamente svolge quello stesso tipo di attività posta in essere dall’agente.

10. Considerazioni sull’elemento soggettivo in tema di art 5 legge 283 del 1962: l’insegnamento della giurisprudenza

Le diverse fattispecie dell’art. 5 sono, come già ripetuto, ipotesi contravvenzionali per la cui integrazione è suffi-ciente la semplice colpa.

La giurisprudenza si è preoccupata di chiarire i casi in cui la colpa può essere ritenuta esclusa.

Un primo caso è quello in cui sia rinvenibile l’ipotesi di forza maggiore o di caso fortuito, per cui essendo il sog-getto in assoluta buona fede non può essere punito.

Ancora l’adozione di ogni cautela al fine di evitare l’im-missione in commercio di un prodotto non regolamentare vale ad escludere la responsabilità penale.

Da tale principio consegue la regola per cui chiunque detenga per la vendita un prodotto alimentare non con-forme alla normativa vigente, risponde a titolo di colpa del reato di cui all’art. 5 della legge 283 del 1962 se non prova la sua buona fede.

Ciò significa dimostrare di aver eseguito tutti i controlli o di aver posto in essere tutte le precauzioni possibili al fine di evitare che il prodotto sia inviato al consumo.

Per concludere al fine di escludere la responsabilità nelle contravvenzioni è necessario che l’imputato provi di aver posto in essere una condotta immune da negligenza, imprudenza e imperizia e di aver rispettato le leggi i regola-menti, gli ordini e le discipline a lui imposte.

In poche parole, l’assenza di rimproverabilità di alcun genere esclude la colpa e quindi la punibilità.

articolo 5 della L. 283

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11. La competenza sull’art. 5 ed i tempi di prescrizione

La competenza a giudicare del reato che qui interessa era originariamente affidata al Pretore mentre a partire dal 1999 è stata affidata per materia al tribunale in composi-zione monocratica.

Ricordiamo invece come i reati più gravi del codice penale (art. 439, 440 e 442 c.p.) siano affidato al Tribunale in composizione collegiale.

Il reato di cui all’art. 5 della legge 283 del 1962 è soggetto al termine di prescrizione di quattro anni come tutte le contrav-venzioni del codice e delle leggi complementari (art. 157 c.p.).

In caso di atto interruttivo intermedio del termine della prescrizione si deve aggiungere infine un ulteriore aumento massimo di un ulteriore quarto e quindi il reato si prescrive al massimo in cinque anni dalla data di commissione.

Come detto sopra la scelta della maggior parte degli uffici di Procura di definire le contravvenzioni di cui all’art. 5 della legge 283 del 1962 con riti alternativi (decreti penali) rende il dibattimento penale una ipotesi eventuale se non remota.

Tuttavia una parte degli imputati decide di procedere all’opposizione ai decreti penali e di affrontare il processo.

Pur non disponendo di statistiche generali a livello nazio-nale e basando quanto qui descritto esclusivamente su una ricerca effettuata da chi scrive presso il tribunale di Parma, una percentuale molto elevata pari circa alla metà dei proce-dimenti viene definita con pronuncia assolutoria (11).

12. Reato di pericolo presunto

Le fattispecie di cui all’art. 5 qui in commento sono rite-nute normalmente rientranti nella categoria dogmatica dei reati di “pericolo presunto”.

Ciò significa che la pericolosità costituisce non ele-mento della fattispecie, come per esempio per il delitto di commercio di sostanze alimentari nocive (art. 444 c.p.), ma la ratio della stessa, nel senso che è lo stesso legislatore che reputa a priori che una certa condotta o una certa situa-zione che ne deriva sia di per sé pericolosa senza che sia necessario uno specifico accertamento.

Secondo la migliore dottrina (Pacileo) in tema di ali-menti la previsione di reati di pericolo presunto si giustifica in base al bene da proteggere (salute) e risponde anche alla difficoltà spesso insuperabile, di prova in concreto della pericolosità di determinate condotte (12).

Ciò è dimostrato dal fatto che la singola assunzione di alimenti non genuini o non igienicamente accettabili o comunque irregolari non potrebbe mai o quasi mai essere ritenuta di per sé pericolosa.

Così la detenzione per la vendita di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, ovvero in stato di altera-zione, o comunque nocive (art. 5 lett B e D) è reato di peri-

colo, per la consumazione del quale non è necessario che sia effettuata una compravendita o che sia effettivamente danneggiata la salute pubblica.

Il reato si consuma pertanto anche solo con la semplice detenzione delle sostanze alterate all’interno dell’esercizio di vendita.

13. le prospettive di riforma

Come narrato nei capitoli precedenti la storia dell’art. 5 è un susseguirsi continuo di modifiche e di proposte di modifica non realizzate.

Allo stato attuale la dottrina (13) si domanda se il Paese sia pronto per superare le ormai mature disposizioni dell’articolo 5 e procedere in altro modo verso il futuro.

In attesa di una scelta definitiva da parte del legislatore e vigente l’art. 5 si possono formulare alcuni suggerimenti per tutti i soggetti chiamati ad applicare la norma.

In primo luogo pare irrinunciabile una interpretazione ed applicazione delle disposizioni in modo conforme alla Costituzione Repubblicana ed alla normativa comunitaria nel frattempo intervenuta.

Le norme del 1962 si devono infatti applicare ad una realtà ed ad una società completamente mutata rispetto a quella in cui erano state elaborate.

La loro permanenza nell’ordinamento quindi impone una lettura orientata nel solco dei principi della norma fon-damentale del 1948 alla luce della giurisprudenza costitu-zionale più moderna.

Questo significa l’adeguamento agli insegnamenti moderni del diritto costituzionale e penale (diritto penale minimo, rispetto del principio di necessaria offensività delle condotte incriminate, non punibilità dei comportamenti irrilevanti e privi di concreta lesione ai beni giuridici protetti).

Gli organi di controllo e la magistratura devono quindi pro-cedere nello sforzo di adattamento alla mutata realtà e non pos-sono applicare la vecchia normativa come avveniva negli anni ’60.

Ciò infatti non è più ammissibile, anche alla luce della normativa comunitaria che prevale sempre sulla legge nazionale.

In poche parole, il diritto penale degli alimenti e quindi l’articolo 5 deve essere applicato in modo moderno, senza tenere conto di quello che avvenuto nel passato.

Al sistema repressivo originale della legge 283 si deve quindi sostituire un differente modo di agire da parte degli organi di controllo e della magistratura.

Questo deve avvenire in particolare alla luce del diritto europeo degli alimenti che giustamente si caratterizza per la valorizzazione del principio prevenzione rispetto alla mera repressione dei comportamenti irregolari.

Tali prospettive ideali tuttavia si scontrano con le ten-denze riscontrate nella prassi quotidiana.

Si registra infatti negli ultimi tempi la tendenza degli

articolo 5 della L. 283

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organi pubblici di controllo a creare un “doppio binario” in caso di riscontrate irregolarità.

Questo anche in casi in cui pare evidente la modesta gravità dei fatti e l’irrilevanza del pericolo portato alla salute dei consumatori.

Per meglio chiarire il concetto sopra esposto è necessa-rio fare alcuni esempi concreti.

E’ accaduto che in caso di ritenuta carenza igienica all’in-terno di un ristorante (cibo conservato in frigorifero senza rispetto delle buone regole di conservazione) gli organi di controllo abbiano proceduto immediatamente alla denuncia penale per violazione dell’art. 5 lettera B) della 283 del 1962.

Contestualmente gli stessi uffici pubblici hanno proce-duto alla contestazione amministrativa che comporta la messa a norma della riscontrata irregolarità nonché l’appli-cazione di una non indifferente sanzione pecuniaria ammini-strativa prevista dall’art. 6 del decreto legislativo 6 novem-bre 2007 n. 193. (14)

Mentre in passato la tutela penale era di fatto l’unico baluardo al mancato rispetto delle norme di igiene attual-mente vi sono altre disposizioni che sanzionano tali lacune.

Pare a chi scrive che in questo modo lo stesso compor-tamento materiale venga sanzionato due volte, con buona pace del principio di proporzionalità, di specialità nonché più in generale del rispetto degli operatori.

Infatti il bene giuridico tutelato dall’art. 5 pare lo stesso previsto nelle disposizioni dei regolamenti comunitario “pacchetto igiene” nonché nelle sanzioni amministrative introdotte nel nostro Paese (l’art. 6 del sopra richiamato decreto legislativo 193 del 2007)

Se l’ordinamento vuole essere coerente è necessario procedere a scelte precise eliminando nei casi di minore allarme sociale la denuncia penale che dovrà essere riser-vata unicamente ai casi ritenuti, sulla base di criteri precisi e prefissati, pericolosi per la salute dei consumatori.

In caso contrario il mantenimento della misura penale rimane mero deterrente generico, privo in realtà di un effi-cace effetto preventivo sulla maggior parte dei soggetti.

In altre parole voler punire tutte le irregolarità anche quelle minime come accade attualmente significa rischiare non punire, tenendo conto dei tempi lunghi richiesti per la celebrazione dei procedimenti penali nonché della prescri-zione breve prevista per i reati contravvenzionali.

Quanto sopra segnalato appare addirittura ingiusta-mente punitivo nel caso in cui i comportamenti siano di modesto o scarso livello materiale.

La necessità di adottare idonee politiche legislative nella materia che qui interessa deve far riflettere sull’opportunità di mantenere le norme penali incriminatici per sanzionare tutte le fattispecie attualmente punite dall’art. 5

Una possibile scelta quindi potrebbe essere la depena-lizzazione di parte delle ipotesi sanzionate dall’art. 5 mante-nendo la misura esclusivamente per alcune fattispecie (per esempio la lettera B) e la D).

Questa opzione non farebbe venire meno il controllo della magistratura su una moltitudine di fatti e allo stesso tempo eviterebbe tra trasmissione alle Procure di nume-rose notizie di reato di modesto o scarso rilievo.

Una rivalutazione del duplice livello sanzionato-rio (penale ed amministrativo con buona pace del sopra descritto principio di specialità che in tal modo viene disap-plicato) e una ponderata valutazione delle ipotesi penal-mente rilevanti dell’art. 5 della legge 283 sarebbe assoluta-mente opportuna anche per aiutare le nostre imprese ali-mentari ad uscire dalla piu’ grave situazione crisi economica degli ultimi trent’anni.

Lino ViciniAvvocato penalista e dottore di ricerca in “disciplina

nazionale ed europea sulla produzione e controllo degli alimenti”

(1) G. Fiandaca E. Musco Diritto penale parte speciale volume

I 2002 pag. 483 e ss.

(2) Pisanello Bigli Pellicano Guida alla legislazione alimentare

Epc Libri 2010 pag. 261 e seg.

(3) Francesco Antolisei Manuale di diritto penale parte speciale

parte prima X ed. pag. 10

(4) L. Alibrandi G. Pumelli S.Putinati Diritto penale delle

sostanze alimentari Università degli Studi di Parma seconda ed.

1997 pag 73 e ss.

(5) Carlo Correra Reati alimentari l’attuazione della depena-

lizzazione nel decreto legislativo n.507 del 1999 Maggioli editore

2000 pag. 29 e ss.

(6) cfr. Foro Italiano 2011 parte II c. 338

(7) Carlo Correra Frodi alimentari: analisi critica degli elenchi si

sentenze irrevocabili del 1991/92 in diritto e giurisprudenza agraria

e dell’ambiente 1993 pag. 76

(8) Vincenzo Pacileo Mancuso La giurisprudenza sui reati ali-

mentari negli elenchi delle sentenze irrevocabili pubblicati dal

ministero della sanità in Alimenta n. 9 settembre 1998 pag. 175

(9) Salsi Ricciardi Paris Ribaldi Brindani Reati alimentari pro-

blematiche igienico sanitarie in Italia nel quinquennio 1995-1999:

risultati di un’indagine statistica in Annali della facoltà medicina

veterinaria di Parma (vol xxvi, 2006) pag. 283

(10) Cadoppi Veneziani Manuale di diritto penale II ed. Cedam

2006

(11) Lino Vicini I reati alimentari nelle sentenze emesse dal

pretore e dal tribunale di Parma tesi del dottorato di ricerca in

“disciplina nazionale ed europea sulla produzione ed il controllo

degli alimenti” Università degli studi di Parma 2007

(12) Vincenzo Pacileo Reati alimentari Giuffrè 1995

(13) Donini Castronuovo La riforma dei rati contro la salute

pubblica Cedam 2007

(14) Lino Vicini Le nuove sanzioni in tema di sicurezza alimen-

tare in Pastaria n.10 dicembre 2008 pag. 30 e ss

articolo 5 della L. 283

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L’argomento degli animali nel condominio non è tra quelli maggiormente affrontati dalla dottrina.

Così ad esempio non vi ho rinvenuto traccia nel trattato teo-rico pratico del Visco (1).

Invece il Terzago, tra le altre cose, a proposito dei disturbi o molestie che gli animali tenuti in casa possono arrecare scrive che “il condomino potrebbe agire in giudizio per la cessazione delle molestie derivanti dalla detenzione degli animali nell’appar-tamento. La giurisprudenza ha infatti affermato che la disposizione dell’art. 844 c.c., pur essendo collocata nel titolo del codice che disciplina il diritto di proprietà e, in particolare, nel capo relativo alla proprietà fondiaria, deve intendersi applicabile, per ragioni di necessità sociale, anche a quegli altri rapporti che hanno per oggetto diritti diversi da quelli di proprietà e così si è affermato che tale norma è applicabile anche ai rapporti tra condomini, quando uno di essi, nel godimento della cosa propria o anche comune dia luogo a immissioni moleste e dannose nella proprietà dell’altro o degli altri (2).

Venendo al tema specifico del mio intervento ricordo che la responsabilità da custodia di animali, responsabilità extracontrat-tuale alias aquiliana, è delineata dall’art. 2052 del vigente codice civile che testualmene dispone: “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”.

Si può notare che questa norma appare del tutto autonoma rispetto a quelle sui danni cagionati da cose in custodia e che nella legislazione abrogata, come nel codice napoleonico, era invece formulata come una norma di carattere generale ed introduttivo.

Secondo il Rovelli (3) “La norma in esame è stata definita talvolta come presunzione juris e de jure. Ma con l’uso di tale terminologia non viene peraltro posto in dubbio che la presun-zione possa essere vinta dalla prova liberatoria consistente nella dimostrazione del caso fortuito; più appropriata, a mio avviso, è la dizione <presunzione di responsabilità con ammissione di prova liberatoria.>”

Gli elementi caratteristici della norma sono tre.1) L’attribuzione del danno ad un fatto di un animale. Questa

va intesa “nel senso che non occorra da parte del danneggiato dare la dimostrazione delle modalità di verificazione dell’incidente; ma è sufficiente per il danneggiato dare la dimostrazione di un fatto dell’animale idoneo a produrre il danno .” (4) (ad esempio si dovrà dimostrare che il danno è dovuto al morso di un cane).

2) La qualificazione del soggetto di cui si presume la respon-sabilità. Questo è il proprietario ma se lo stesso non usa l’animale nel momento in cui cagiona il danno la responsabilità ricade sull’u-tente. La dottrina è concorde nel riconoscere che questa respon-sabilità è alternativa e non cumulativa secondo non soltanto lo spirito della norma ma anche la lettera stessa della legge con l’uso della congiunzione disgiuntiva.

Le espressioni “se ne serve” e “uso” hanno suscitato perples-

sità interpretative. Nel caso di animale affidato ad un domestico o ad un componente della famiglia questi non vengono general-mente considerati come utenti dell’animale e quindi la responsa-bilità per i danni cagionati non ricade su di essi ma sul proprietario. Quando invece la custodia materiale dell’animale sia esercitata da amici o conoscenti del proprietario occorre verificare se vi sia stato o meno un rapporto di committenza.

3) La prova liberatoria del caso fortuito. “...la forza maggiore ed il fatto del terzo o dello stesso danneggiato, qualora siano causa esclusiva di danno, escludono la responsabilità dell’utente (o del proprietario) dell’animale” (5).

Passo ora ad esaminare alcune pronunce della Cassazione civile che potranno portare ad una maggiore specificazione e pre-cisazione dei principi che regolano la responsabilità da custodia di animali sia in generale che in particolare nel condominio.

La prima sentenza è del 2011 (6) e la Cassazione è stata chia-mata a statuire sul ricorso presentato da due genitori intenzionati ad ottenere il risarcimento dei danni riportati dalla figlia minore nei confronti del proprietario di un cane lasciato libero di circo-lare in un giardino privato completamente recintato.

Mentre l’adito Tribunale di Bologna aveva ritenuto che l’e-vento si era verificato per pari colpa concorrente del danneg-giato e del proprietario del cane la Corte di appello di Bologna aveva rigettato la domanda di risarcimento. Aveva infatti ritenuto che il comportamento dei genitori, che avevano violato l’obbligo di vigilanza sulla figlia minore, si poneva come causa autonoma dell’evento del danno e che il proprietario del cane aveva fornito la prova del caso fortuito, in quanto non era prevedibile che la minore si sarebbe introdotta in luogo chiuso da un cancello.

La Corte suprema di legittimità ha cassato le sentenza della Corte di appello ribadendo, esaurientemente, i principi già più volte sostenuti in argomento.

“La responsabilità di cui all’art. 2052 cod. civ., prevista a carico del proprietario in relazione ai danni cagionati da un animale di cui è pro-prietario, trova un limite solo nel caso fortuito, ossia nell’intervento di un fattore esterno nella causazione del danno che presenti i caratteri della imprevedibilità, della inevitabilità e della assoluta eccezionalità, con la con-seguenza che all’attore compete solo di provare l’esistenza del rapporto eziologico tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, mentre il convenuto per liberarsi, deve provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere detto nesso causale, non essendo sufficiente la prova di avere usato la comune diligenza nella custodia del’animale, principio costantemente ribadito da questa Corte di legittimità” (da ultimo Sez. 3, Sentenza n.9037 del 2010).

“È erronea in diritto l’individuazione come caso fortuito dell’ingresso della minore nel giardino, sul rilievo che il cane si trovava in un luogo privato, recintato e chiuso da un cancello. Infatti risulta che il cane era stato lasciato libero in un giardino con un cancello che non aveva idonea chiusura, tanto da essere facilmente aperto da una bambina di tre anni, e che di conseguenza il custode non aveva adottato cautele idonee in concreto ad evitare l’ingresso di estranei”.

La responsabilità da custodia di animali in condominio

animali in condominio

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“In tale fattispecie l’introduzione di una bambina, come del resto di qualunque altra persona estranea, non presenta il carattere della eccezionalità e della imprevedibilità che connettono il caso fortuito ex art. 2052 c.c.”.

La seconda sentenza che ricordo è del 2007 (7) e la Cassa-zione ha deliberato sul ricorso relativo al risarcimento richiesto ai proprietari di un cane a causa di un morso al volto della ricor-rente mentre era in visita nella loro abitazione.

Il Tribunale di Sassari aveva ritenuto l’applicabilità dell’art. 2052 c.c. ma anche il pari concorso di colpa dell’attrice mentre la Corte di appello di Sassari aveva dato maggior rilievo all’imprudenza della danneggiata nella produzione del danno (75%) ed aveva condan-nato i proprietari del cane al pagamento del 25% dei danni.

La Suprema Corte ha invece così statuito: “La responsabilità del proprietario dell’animale, prevista dall’art. 2052 c.c., è presunta, fondata non sulla colpa, ma sul rapporto di fatto con l’animale (Cass. 12307/98). Ne consegue che per i danni cagionati dall’animale al terzo il proprietario risponde in ogni caso e in toto, a meno che non dia la prova del caso fortuito, ossia dell’intervento di un fattore esterno idoneo a interrompere il nesso di causalità tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, comprensivo anche dal fatto del terzo o del fatto col-poso del danneggiato che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno. Ne consegue altresì che se la prova liberatoria richiesta dalla norma non viene fornita ... non rimane al giudice che con-dannare il proprietario dell’animale al risarcimento dei danni per l’intero, e non in parte, secondo una graduazione di colpe tra il medesimo ed il danneggiato.”

Una sentenza del 2010 (8) ha riconosciuto la responsabilità del proprietario di un cane, legato con una catena di tre metri in un luogo distante dal cancello di un giardino e su quest’ultimo era stato posto un cartello con la scritta “attenti al cane”, peraltro non visibile in caso di apertura, ed una persona si era introdotta nel giardino tramite il cancello aperto riportando danni per un morso del cane.

Ugualmente è stata ritenuta la responsabilità del proprietario di un cane lasciato incustodito e legato per mezzo del guinzaglio al corrimano delle scale di accesso ad una stazione della metro-politana, cane che aveva fatto cadere una persona anziana, a nulla rilevando che la vittima avesse la possibilità di evitare l’animale seguendo un percorso più discosto (9).

Alla luce dei principi sopra ricordati fino ad ora non posso che consigliare ai condòmini, proprietari di animali che custodiscono in un giardino esclusivo, di preoccuparsi che il giardino sia recin-tato e chiuso da un cancello che non sia lasciato aperto e tale che non sia possibile ad estranei introdurvisi. Così i proprietari di ani-mali non debbono lasciare gli stessi liberi di muoversi nelle parti comuni dell’edificio, scale, androni, cortili e debbono anche avere una particolare cura in occasione di visite di amici, ospiti e cono-scenti all’interno delle unità immobiliari di loro proprietà esclusiva.

Per completezza dell’argomento ricordo altre due pronunce della Corte di legittimità che ritengo significative anche se non strettamente collegate al tema del mio intervento.

La prima del 2006 (10) ha stabilito che, in tema di condominio degli edifici e nella ipotesi di violazione di una clausola regolamen-tare che vietava la detenzione di animali negli appartamenti, il con-domino può richiedere la cessazione della destinazione abusiva sia al conduttore che al proprietario locatore. “Peraltro, nell’ipotesi

di richiesta nei confronti del conduttore, si verifica una situazione di litisconsorzio necessario con il proprietario del cane, che deve partecipare al giudizio in cui si controverte in ordine all’esistenza e alla validità del regolamento: infatti, le limitazioni all’uso delle unità immobiliari in proprietà esclusiva, derivanti dal regolamento contrattuale di condominio, in quanto costituiscono oneri reali o servitù reciproche (Cass. 7003/1990; Cass. 1681/1993) afferi-scono immediatamente alla cosa.”

La seconda (11) del 2011 è di sicuro interesse perchè affronta una questione assai frequente nella pratica ed enuncia importanti principi

La impugnata sentenza della Corte di appello di Bari, pur avendo affermato la natura contrattuale del regolamento condo-miniale, aveva ritenuto che il divieto di tenere animali nel condomi-nio, essendo finalizzato a non arrecare disturbo alla persona, non ha carattere reale e non integra il contenuto di una servitù, dando luogo a una obbligazione personale e la stessa, avendo anche l’ef-fetto di non consentire il passaggio degli animali attraverso le parti comuni, rientra fra le deliberazioni adottabili a maggioranza.

La Corte di legittimità ha cassato la sentenza di merito sopra-ricordata sostenendo che occorra “considerare che le clausole del regolamento condominiale che impongono limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà inci-dono sui diritti dei condomini, venendo a costituire su queste ultime una servitù reciproca (Cass. 13164/2001): ne consegue che tali disposi-zioni hanno natura contrattuale, in quanto vanno approvate e possono essere modificate con il consenso unanime dei comproprietari, dovendo necessariamente rinvenirsi nella volontà dei singoli la fonte giustificatrice di atti dispositivi incidenti nella loro sfera giuridica: certamente, tali dispo-sizioni esorbitano dalle attribuzioni dell’assemblea, alla quale è consen-tito il potere regolamentare di gestione della cosa comune, provvedendo a disciplinarne l’uso e il godimento.”

“Ciò posto, il divieto di tenere negli appartamenti i comuni animali domestici non può essere contenuto negli ordinari regolamenti condo-miniali, approvati dalla maggioranza dei partecipanti, non potendo detti regolamenti importare limitazioni delle facoltà comprese nel diritto di proprietà dei condomini sulle porzioni del fabbricato appartenenti ad essi individualmente in esclusiva (12028/1993).”

Renato Del Chicca

Note:

1) Visco Antonio - Le case in condominio - Dott. A. Giuffrè

Editore - 1976

2) Terzago Gino - Il condominio - Giuffrè Editore - 1981,

pagg. 273 e 274

3) Rovelli Roberto - La responsabilità civile da fatto

illecito - UTET - 1964 pagg. 379 e 380

4) Rovelli, op. cit. pag. 386

5) Rovelli, op. cit. pag. 407

6) Sentenza Cass. civ. sez. III, 20/07/2011 n. 15895

7) Sentenza Cass. civ. sez. III, 19/03/2007 n. 6454

8) Sentenza Cass. civ. sez. III, 15/04/2010 n. 9037

9) Sentenza Cass. civ. sez. III, 19/05/2009 n. 11570

10) Sentenza Cass. civ. sez. II, 08/03/2006 n.4920

11) Sentenza Cass. civ. sez. II, 15/02/2011 n. 3705

animali in condominio

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segnali di fumo

il diritto preso sul serio &il diritto preso sul ridere

“L’attività del giurista deve sempre ispirarsi a ciò che pare ragionevole tendendo in tal modo a soddisfare esigenze di giustizia”(Salvatore Patti “La ragionevolezza nel diritto civile” - Lezione magistrale tenuta presso la facoltà di giurisprudenza, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa).

Dibattiti dottrinali e dispute notarili su un provve-dimento di volontaria giurisdizione del Tribunale di Parma: cronaca semiseria.

1) In Cronache dal Foro Parmense n. 3/2008 pag. 58 e segg. veniva riportato un decreto collegiale del Tribunale di Parma, Rel. Poppi, in sede di V.G. del 22-30 ottobre 2008. Quel provvedimento, seguito da una nostra nota, era così massimato: “Nel procedimento concorsuale ex art. 504 c.c. in relazione agli artt. 498 e segg. non può uno degli eredi beneficiari che successivamente abbia rinunciato al beneficio di inventario revocare il consenso alla vendita della propria quota su di un cespite ereditario, già autorizzata dal Tribunale ex art. 493 c.c. a trattativa privata o, in caso di insuccesso, ai sensi degli artt. 747, 748, 733 ss. c.p.c., in quanto altrimenti si legittimerebbe un comportamento emulativo che rende-rebbe l’erede arbitro di porre nel nulla la procedura di liqui-dazione anche nella fase attuativa della vendita, pregiudicando gli interessi dei creditori. Pertanto è inefficace la rinuncia al beneficio di inventario e l’opposizione alla vendita dei beni ereditari dell’intero cespite dopo che sia stata rilasciata l’au-torizzazione di cui all’art. 493 c.c..

Con ciò è da confermare la delega già conferita al notaio della procedura in precedente decreto per l’esecuzione alle operazioni di liquidazione dell’intero cespite”.

Il fatto: una pluralità di chiamati accetta una eredità con beneficio di inventario. Si applica l’art. 504 c.c.. L’eredità è capiente, i beneficiati scelgono un bene da alienare per liqui-dare i creditori, e il Tribunale ne autorizza l’alienazione come vuole l’art. 493 c.c.

Si sta procedendo alla vendita ma, colpo di scena, uno dei coeredi rinuncia al beneficio di inventario e per giunta si oppone alla alienazione della propria quota. Gli effetti sono disastrosi: la vendita di quote fa precipitare il prezzo del resi-

duo e praticamente il mercato si restringe ai coeredi che intendono rendersi acquirenti, e pertanto assecondano il rinunciante.

Quale fosse la rilevanza e la singolarità di tale decisione è conferma nei successivi commenti e nelle dispute con i notai che hanno rifiutato di assistere la procedura ponendo in esecuzione un provvedimento ritenuto abnorme per aver disposto la vendita di un cespite contro la volontà di uno dei comproprietari coeredi.

2) Il provvedimento riceveva una nota redazionale descrittiva e sostanzialmente adesiva in Giur. It. 2010, 328 e segg. corredata da un cospicuo apparato di riferimenti. Critica invece la nota di F. Mottola Lucano “Sulla rinuncia al beneficio di inventario” in “Famiglia, persone e successioni” 2010, fasc, 2, 116 e segg. secondo cui solo con l’atto di ven-dita, con effetto traslativo, anziché dall’assoggettamento della liquidazione determinato dal decreto autorizzativo, non è più consentito all’erede già beneficiato di revocare il proprio consenso.

Interviene ora Mauro di Marzio con una recentissima opera “L’accettazione dell’eredità con beneficio di inventa-rio” in “Collana di diritto privato a cura di Paolo Cendon”, 2013. Alle pagg. 420 - 421 l’autore riprende gli argomenti del precedente annotatore, esprimendosi nei termini che qui di seguito riportiamo: “La decisione desta perplessità e, anzi, sembra pervenire ad una soluzione paradossale, sol che si consideri che gli stessi eredi beneficiati, pur dopo l’autoriz-zazione alla vendita, possono decidere di non vendere (ed infatti è una facoltà onere pena la decadenza dal beneficio ndr). Si è visto poc’anzi che la rinuncia al beneficio di inventario non travolge gli atti di amministrazione - liquidazione già compiuti: ma, proprio per questo, dispiega invece i propri effetti sugli atti ancora da compiere, qual’è una vendita già autorizzata ma non ancora effettuata. Né sembra corretto ravvisare nel provvedimento di autorizzazione giudiziale alla vendita un punto di svolta ormai irreversibile, equiparabile ad una alienazione ormai già posta in essere: val quanto dire che la rinuncia al beneficio di inventario intervenuta dopo l’autorizzazione di cui all’art. 493 c.c. produce il suo effetto, nel senso che fa perdere al bene oggetto di autorizzazione il carattere di bene ereditario e, più in generale, fa venir meno la procedura di liquidazione. Anche dal punto di vista pra-tico, poi, non sembra che il principio riassunto in massima, nella sua astrattezza, consideri tutti gli aspetti della situa-zione determinata dalla rinuncia: in linea di principio, infatti, la rinuncia al beneficio di inventario comporta la confusione del patrimonio dell’erede con quello del defunto, sicché è ben possibile (si immagini un erede economicamente solido e senza soverchi debiti) che essa costituisca un vantaggio, e non un pregiudizio, per i creditori ereditari. In tale frangente,

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segnali di fumonon v’è una plausibile ragione in forza della quale impedire al rinunciante di recedere dall’alienazione già autorizzata al fine di soddisfare le passività ereditarie con mezzi propri, oltre che con i beni ereditari diversi.

D’altronde, volendo seguire l’opinione accolta in questa sede, la rinuncia di uno dei coeredi beneficiati, il quale acqui-sti per tale via la veste di erede puro e semplice, non necessa-riamente impedisce l’alienazione del bene nella sua interezza e non già pro quota.”(ragionevolmente così dovrebbe essere, tut-tavia anche se vi consentisse il rinunziante il ricavato pro quota di sua spettanza ricadrebbe nella sua disponibilità fuori dalla liquida-zione concorsuale a cui è destinato dal decreto autorizzativo, ndr).

3) Come vuole lo spirito di questa rubrica sembra lecito soffermarsi sulla cronaca. Infatti dopo tale provvedimento fu il diluvio. Dicono i notai: atto emulativo !? Questo è un prov-vedimento abnorme: non può un decreto camerale togliere la disponibilità di un bene al proprietario, non possiamo “sti-pulare” un atto di trasferimento invito domino incidendo sui suoi diritti soggettivi. L’atto sarebbe nullo, e loro notai incor-rerebbero in sanzioni, civili e disciplinari secondo quanto detta la legge notarile.

Tutti si rifiutano di assumere l’incarico di assistere la pro-cedura in tali condizioni: rinunciano, non accettano, tempo-reggiano. Un vero e proprio ammutinamento. Questo atto non s’ha da fare, né oggi né mai. Che debbono fare i poveri eredi beneficiari residui se non vogliono decadere ? Una idea c’è. Prendere di sorpresa un notaio come fosse un pavido Don Abbondio nella notte degli imbrogli. Ma non si trovano né Tonio né Gervaso.

Ma il provvedimento è talmente censurabile da doversi considerare abnorme?

4) Gli interventi critici avanti riportati possono essere condivisi nella misura in cui si assuma come generalizzante la valutazione compiuta dal Giudice. Ma, a ben vedere, ove fos-sero state evidenziate in motivazione le ragioni che in con-creto, in base a precise circostanze e comportamenti di fatto, in ipotesi del tutto diversi ed anzi opposti a quelli astratta-mente prefigurati dai commentatori, il carattere emulativo di “quella” rinuncia avrebbe potuto essere accertato e san-zionato. In altre parole il giudice avrebbe dovuto evidenziare se l’esercizio della rinunzia fosse stato attuato con moda-lità e per perseguire fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli consentiti; anche se l’opposizione del rinunciante alla vendita dell’intero cespite è sintomo di quella irragionevolezza pre-dicata dallo stesso Di Marzio. Per non dire che il rilievo con-trasta con la essenzialità di tal tipo di provvedimenti.

Sul tema Cass. 18.09.2009 n. 20106 secondo cui “l’abuso

del diritto non presuppone una violazione in senso formale, ma si configura al contrario, ogni qual volta il titolare di un diritto soggettivo, potendo esercitare le facoltà connesse a tale situazione giuridica, secondo modalità non rigidamente predeterminate, scelga di esercitarlo in maniera alterata dallo schema formale ad esso riconducibile, ossia finalizzando il suo esercizio al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli delineati dal legislatore”.

Semmai, a ben vedere, il provvedimento sarebbe censura-bile sotto altro aspetto.

Trattandosi di abuso del diritto la sanzione non era quella dell’inefficacia dell’atto, bensì quella risarcitoria.

Se però si fa leva sulla “tardività” della rinuncia rispetto alla autorizzazione ex art. 493 c.c., e quindi sulla sua ineffica-cia nei confronti della procedura (non dei creditori ereditari in ogni caso facoltizzati a soddisfarsi sui beni personali del rinunciante e legittimati ad agire in revocatoria della rinuncia ove svantaggiati) si coglie il punto essenziale del decreto.

Non va infatti dimenticato che esiste una comunione ereditaria (all’origine tutti eredi beneficiati) che ha precise regole previste nel codice civile. Noi stessi nella precedente nota avevamo fatto riferimento, come parimenti il Di Marzio nell’op. cit. pag. 521, al Natoli che in “Amminstrazione dei beni ereditari” II°, pag. 213 e segg. assume che per la deci-sione nella scelta dei beni ereditari da liquidare non si applica necessariamente il 3° comma dell’art. 1108 e quindi non è richiesta l’unanimità dei consensi. Si applica invece l’art. 1108 I° comma posto che nel caso della liquidazione concorsuale gli atti di vendita non sono considerati come negozi di dispo-sizione, bensì come strumento di amministrazione. Trattasi infatti di utilizzare il compendio ereditario per convertirlo in moneta destinata al pagamento dei creditori ereditari. Conf. Grosso – Burdese “Le successioni” in “Tratt. Dir. Civ.” del Vassalli, pag. 465. Parimenti Trib. Roma 13.10.1999, inedita.

Lo stesso Natoli in op. cit. pag. 214 scrive significativa-mente: “non si dimentichi infatti, che l’art. 493 richiede per la alienazione l’autorizzazione, e questa può valere a completare quella legittimazione che il mancato consenso di qualcuno dei coeredi potrebbe far apparire difettosa”. (nostra sottolineatura).

Nel caso di mancato raggiungimento della maggioranza qua-lificata, per lo stesso Di Marzio “è certamente da ammettere il ricorso alla procedura di cui all’art. 1105 IV° comma c.c.”.

Ne segue che, una volta che il Tribunale abbia valutato la congruità della proposta di vendita del cespite con rife-rimento alla stima giurata dello stesso e degli altri beni ere-ditari e ai crediti e legati da soddisfare, la delibera posta alla base della autorizzazione ex art. 493, non può che essere vincolante tanto per la maggioranza che per la minoranza. Parimenti quando nessuna maggioranza è stata raggiunta, e, ai sensi dell’u.c. dell’art. 1105 u.c., il Tribunale abbia adottato un provvedimento anch’esso vincolante sia che la proposta sia pervenuta da un comunista di minoranza o che sia stata adottata d’ufficio.

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Il provvedimento va rispettato da tutti i comunisti e comunque da ciascuno di essi, pena la potenziale perdita del beneficio di inventario, eventualità da escludere specie per evitare che ne decadano gli eredi incolpevoli.

Diversamente sarebbe disarticolata la procedura di bene-ficio di inventario quasi fosse una tela di Penelope da farsi e disfarsi, gravando su di essa episodi di ricatto o condiziona-menti che attentano alla integrità del diritto di ciascun bene-ficiato.

E che dire della responsabilità pre-contrattuale nelle ven-dite negoziali, e dell’affidamento di terzi nel corso di quelle forzate?

Deve perciò intendersi che sotto tale aspetto l’abuso del diritto nel provvedimento commentato è motivazione acces-soria e rafforzativa (“atto potenzialmente emulativo”).

Caso diverso quello di eredi sin dall’origine in parte puri e semplici e in parte beneficiati (Trib. Salerno 21.04.1999 in “Vita notarile” 2000, 130), ipotesi a cui lo stesso Tribunale accenna ad excludendum.

Nessun comproprietario può sottrarsi alle regole della comunione, ancorché abbia successivamente rinunciato al beneficio, salvo che ceda a terzi la propria quota sul cespite, così vanificando l’autorizzazione ottenuta, almeno nei ter-mini in cui è stata concessa. In tal caso però si tratterebbe di una cessione condizionata, consolidandosi se e quando quella porzione ceduta venga assegnata all’erede dante causa, altrimenti è priva di effetti (Cass. 01.07.2002 n. 9543; Branca “Della comunione” in commentario Scialoja Branca pag. 131 e segg.). Naturalmente con esposizione del coerede cedente ad azione risarcitoria.

4) Tornando alle cronache domestiche risulta evidente che le preoccupazioni dei notai non avevano alcuna ragione d’essere.

Infatti:a) anche i critici del provvedimento non si sono mai

sognati di affermare che lo stesso fosse abnorme tale da inge-nerare la nullità della vendita in tal modo autorizzata;

b) in ogni caso quel decreto è rimasto fermo non essendo stato né revocato ex art. 742 c.c. né reclamato ex art. 739 c.c. per motivi di diritto, né disapplicato per illegittimità in sede contenziosa ad iniziativa dell’interessato con actio nullitatis dopo che abbia sperimentato i rimedi camerali; e nemmeno impugnato con ricorso ex art. 111 Cost. avanti alla S.C. per pretesa pronuncia lesiva dei diritti soggettivi (alla disponibilità del bene di proprietà) dell’erede rinunziante;

c) non necessariamente la vendita doveva essere esperita a trattativa privata dato che l’autorità giudiziaria non aveva nominato un amministratore giudiziale ad acta (un coerede od un terzo) con poteri di rappresentanza ai sensi dell’ul-timo comma dell’art. 1105 c.c. per l’esecuzione dell’attività

giudizialmente autorizzata. Plausibile e più semplice la vendita “nelle forme dell’esecuzione”, alternativamente prospettata, ai sensi dell’art. 376 c.c. collegato con gli artt. 733, 748 c.p.c. Come successivamente avvenuto . Tale procedura si sarebbe conclusa con un verbale di aggiudicazione che per la tra-scrizione non necessita del decreto di trasferimento poiché qui il G.E. non esiste (Cass. 10587/95). A maggior ragione in questa ipotesi non sarebbe nemmeno concepibile l’applica-zione dell’art. 28 L. notarile per il quale il notaio “non può ricevere o autenticare atti se essi sono espressamente proi-biti dalla legge o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico”. Infatti si è al di fuori della “stipula di atti negoziali” a cui fa riferimento l’art 27 della L. notarile.

Il curioso è che, di contro a questi timori, non siano scat-tati quelli opposti derivanti dall’omissione a fronte del sancito obbligo di accettare gli incarichi salvo per casi di incompati-bilità (art. 27, primo comma, e art. 28 L.n.) qui non ricorrenti.

Epilogo. Possono mancare Tonio e Gervaso, ma c’è pur sempre la Provvidenza. E fu così che poco prima della sca-denza del termine per la liquidazione un notaio di buon cuore e buona volontà, voce e complessione baritonale, si dichiara disponibile. Studia il difficile caso, convoca gli eredi benefi-ciati, elabora l’avviso di vendita, e, d’accordo con loro, dato che il periodo cade tra la fine di luglio e agosto, e dunque la pubblicazione sul foglio locale è destinata a probabile insuc-cesso, ed è problematica la collaborazione del custode alla visita del cespite da vendere, provvede alla pubblicità ai primi di settembre, esattamente tre mesi e qualche giorno dopo l’accettazione dell’incarico. Dopo di chè si chiede tempestiva-mente la proroga del termine ex art 500 c.c., scadente alcuni giorni dopo la pubblicità. Quando in sede di volontaria giu-risdizione il Tribunale decide sull’istanza, circa un mese dopo il termine da prorogare le operazioni della vendita avevano già avuto successo: era già stata depositata un’offerta che consentiva di pagare tutti i debiti ereditari. Evviva! Ma la sez. v.g. decide: il notaio ha iniziato tardivamente le operazioni materiali, intese come pubblicità del bando, anche se si cadeva nel periodo feriale. La proroga è negata. E l’offerta già deposi-tata? Nemmeno menzionata. Come nei più drammatici finali delle opere liriche il notaio - baritono, colpito da un fendente, incolpevole stramazza al suolo sulle scene.

Nonostante le manifestate perplessità sul decreto auto-rizzativo qui annotato non esiste alcuna censura sulla proce-dura di liquidazione adottata. Lo segnaliamo ai notai.

Ma la decisione è conforme al canone della ragione-volezza, che, discendente dal diritto costituzionale (art. 3), permea tutto il diritto, anche il diritto privato, al punto che per taluno è da considerarsi una nuova clausola generale come quella dell’abuso del diritto? Nel nostro caso poteva legittimamente sanzionarsi il preteso ritardo nell’inizio mate-

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riale delle operazioni quando è certo che, diversamente, tutti i creditori ereditari sarebbero stati subito integralmente sod-disfatti, con sollievo degli eredi tutti?

Sul criterio della ragionevolezza, S. Patti come in epigrafe (da Trim. Dir. Proc. Civ. 2012, n. 1, pagg. 1 ss).

Ma a porre un velo o un veto (artificioso?) c’è il principio dell’assorbimento. Che vale occuparsi dell’offerta, se prima logicamente e cronologicamente, vi è la preclusione di una censura? La ragionevolezza riposa “ammucciata” sotto un grande masso, nel “sottosuolo”, per dirla con Dostoievskij, della giustizia.

Certo non rimaneva che il ricorso straordinario alla S.C., conforme a quanto stabilito dalle S.U n. 521/2005, allorchè, come nel caso, l’ordinanza, emessa ai sensi dell’art 749 c.p.c. espone l’erede, a seguito del diniego di proroga ex art. 500 c.c. all’azione di decadenza dal beneficio da parte dei credi-tori con inevitabile perdita dell’originaria posizione sogget-tiva (art. 505, primo comma c.c.) ed assunzione di responsa-bilità illimitata per i debiti del de cuius.

Cass. sez II, n. 13711/2012 ritiene ammissibile il ricorso ma lo respinge per infondatezza. Volete voi che il giudice di legittimità in sede di ricorso straordinario si produca in valutazioni in fatto, magari alla luce delle regole di esperienza, per accertarsi se il notaio aveva davvero provveduto tardi-vamente a pubblicare il bando? E come avvalersi del criterio della ragionevolezza se l’ordinanza impugnata, seppure docu-mentata agli atti, non contiene alcun riferimento alla offerta depositata a conclusione dell’iter?

Regola generale. Quando la partita si fa dura seguire sempre i consigli illuminati: desistere.

Virtù letterarie e…. teologali degli avvocatiMichele Salazar, avvocato e professore universitario,

appartiene al filone di narratori del genere Law & Literature, ma è anche il raffinato cultore di Cervantes, l’errante ricer-catore delle categorie, rustiche o aristocratiche, dei sapori e degli odori dei cibi di cui si alimentavano Don Chisciotte e il suo fido scudiero. Mica per caso, poiché Cervantes aveva una conoscenza profonda del diritto e della tecnica giuridica, e Salazar, giurista reggino, a sua volta è accademico della cucina: culture che si incontrano.

Avremo modo di tornare su questo Maestro naturale di Law & Literature.

Oggi, in piena transizione papale, mi soffermo su un punto della introduzione che Guido Alpa ha dedicato al volumetto di Salazar “L’avvocato di carta” Giuffrè, 2005, nella divertente e provocatoria collana del “Diritto e rovescio”.

Guido Alpa coglie lo spunto, a nostra consolazione, per narrare del primo incontro che il Consiglio Nazionale Forense ebbe con il Santo Padre, Giovanni Paolo II: “Al ter-mine dell’udienza pubblica tenuta sul sagrato della Basilica di S. Pietro il Papa passava a salutare e a benedire i pellegrini che si affollavano intorno a lui; i rappresentanti dei CNF ave-vano ricevuto una collocazione di riguardo, proprio presso il seggio pontificio; sicchè quando si avvicinò a noi, e il cerimo-niere gli riferì che si trattava degli avvocati, celiando osservai: “Juristen boese Christen”, a significare che eravamo consape-voli dell’immagine assegnata all’avvocatura da una tradizione di medievale origine. Ma il Papa, con piglio molto serio, mi rispose: “Oh, no. Non dimentichiamo che lo Spirito santo è il Paraclito, e Maria è l’Avvocata nostra”. A dire che, almeno da parte della Chiesa cattolica, quei pregiudizi non erano condi-visi; anzi la funzione dell’avvocato aveva un riconoscimento di altissimo riguardo”.

Và, circolare celeste…L’interrogativo di un vecchio amico di università sulle

modalità di trasferimento in un paese extra europeo di una “sua” fondazione con sede a Milano mi ha dato modo di apprendere come non necessariamente nelle Regioni meri-dionali si gestisca la cosa pubblica contro legge e buon senso. Sarò più preciso: come possa rovesciarsi l’ordine gerarchico delle fonti del diritto e il potere amministrativo soverchiare e abrogare norme del codice civile a carattere imperativo.

Da modesto avvocato di provincia rispondo: “Vai dal notaio, perché è necessario l’atto pubblico, lo dice l’art. 14 c.c. Anche se ho molte perplessità che si possa trasferire laggiù, in un Paese che non so se contempli la figura giuridica della fondazione, come la disciplini etc. Ma mai per scrittura privata come il tuo commercialisa ti va raccontando”. Infatti l’art. 2, comma 1, d.p.r. 361/2000 recita: “Le modificazioni dello statuto e dell’atto costitutivo sono approvate con le modalità e nei termini previsti per l’acquisto della personalità giuridica dall’art. 1, salvo i casi di riconoscimento della perso-nalità giuridica per atto legislativo”.

Macchè, prevale il commercialista sul parere dell’avvocato e di un notaio, anch’egli allibito al cospetto della opposta tesi.

Così la modifica di spostamento di sede della fondazione all’estero, con cambiamento della legge che la regola, da quella italiana a quella della Nazione della nuova sede (e in difetto di disciplina a quella della legge dell’ex nazione colo-nizzatrice, secondo un canone classico) approda per delibera del consiglio di amministrazione recepita in una scrittura privata, con sottoscrizioni nemmeno autenticate, all’agenzia delle entrate; da qui alla Giunta regionale guidata al tempo da

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un assiduo frequentatore del mare dei Caraibi (“Comuniòn addio, e Liberazione”! / addio miseria mia, che predicai, / ma ai Caraibi non bastò un milione”). Passa qualche mese e l’amico mi riferisce, senza l’intenzione di ferirmi: “Sai, la Regione mi ha rilasciato il nullaosta al transfert”.

Resto incredulo, diffidente, c’è qualcosa che non torna. Ma in Italia tutto torna, tutto e il contrario di tutto.

Per curiosità professionale con il notaio si telefona alla Regione, ufficio registro persone giuridiche, e in breve si ha la conferma. La fondazione è stata dichiarata “cessata”, sulla base di una scrittura privata. Il fondamento giuridico accam-pato riposa nell’ultimo capoverso della prima pagina della delibera della Giunta regionale lombarda del 14.11.2011: “Non costituisce modificazione statutaria la sola variazione di sede, ovvero del luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente”.

Dunque, se la variazione di sede non costituisce modi-fica statutaria, non occorre l’atto notarile. Può provvedere anche un commercialista senza incorrere nell’esercizio abu-sivo della professione. La riserva di legge a favore del notaio, bene a ragione per il carattere pubblicistico della materia, viene derogata in forza di una circolare regionale. Nel Cele-ste Impero, dall’alto dell’eccelso grattacielo, si governa come si vuole, anche alla rovescio. Anche per atti inesistenti. (“ma fede mia sta scritta nelle leggi, / che dal trono di Milano l’e-manai”).

Badate bene: la variazione di sede per scrittura privata non è limitata allo stesso comune o a comune della stessa regione, né tantomeno ad altro comune in Italia, con iscri-zione della fondazione nel registro delle persone giuridiche di altra regione. Nel caso sulla base di atto pubblico, la Regione Lombardia non può comandare a casa d’altri. Per una inter-pretazione estensiva che aggiunge abnormità ad abnormità si contempla il trasferimento di sede anche all’estero, nem-meno la istituzione di una sede secondaria per ragioni di decentramento amministrativo.

Qualche rompiscatole potrà chiedersi come il tenore di tale circolare possa garantire l’applicazione degli artt. da 28 a 32 e 16 II° comma c.c. di rilevante interesse pubblico, sulla liquidazione delle fondazioni cessate, sulla loro trasfor-mazione, sulla devoluzione dei beni residui ad altri enti con fini analoghi etc. Le autorità italiane sono estromesse, beni e capitali per lasciti o donazioni vagano senza più vincolo di destinazione nelle mani di amministratori non controllati, anche all’estero. Non a caso la legge 31.05.1995 n. 218 sulla Riforma del diritto internazionale privato al comma 3 dell’art. 25, applicabile alle società e ad altri enti, innova come segue: “I trasferimenti della sede statutaria in altro Stato e le fusioni di enti con sede in Stati diversi hanno efficacia soltanto se posti in essere conformemente alle leggi di detti Stati interessati”.

Ora, soltanto l’accertamento della Autorità Italiana sulla continuazione della attività della fondazione all’estero consente di evitare l’elusione delle norme codicistiche sul

suo scioglimento. Palese la natura di ordine pubblico della normativa. Al contrario la Regione Lombardia si é limitata a registrare la semplice cessazione della fondazione, con vio-lazione delle richiamate norme, ciò che il notaio non avrebbe consentito. Inoltre solo un pubblico ufficiale avrebbe potuto accertare il rispetto delle disposizioni statutarie inerenti al procedimento di modifica dello statuto, a cominciare dalla esistenza delle prescritte maggioranze nell’assemblea delibe-rante (art. 2, commi 2 e 3, d.p.r. 361/2000 e art. 21, comma 2, codice civile).

Vai a vedere che in questa tematica è sottesa la ratio di una delibera apparentemente imbecille? Certo il nostro amico è un semplice che, come accade sovente, crede a chi gli consiglia le scorciatoie e diffida dei professionisti che gli pongono problemi ed intralci. La sua è una fondazione onlus che da tempo opera per fini filantropici anche all’estero.

Intanto, và, circolare celeste! Ed or che anche il Cardinal ha in gran dispitto ,và “Sovran

dei longobardi, di lupo e non d’agnello lo suo belo”.Le terzine dantesche di cui al testo sono tratte da “Inferno

- La commedia dei poteri” - cerchio II - di Tommaso Cerno, ed. Rizzoli 2013.

Regole antiche e scandali moderni.“Ufficio del banchiere è invero quello di affidare denari altrui

all’uomo capace e probo, il quale sappia farli fruttare a proprio vantaggio e al momento stipulato li restituisca. Nel mondo econo-mico non ne esiste altro più difficile. Che cosa accadrà quando i politici irrigimentati nei partiti si accorgono che si possono nominare uomini ligi ai loro voleri ai posti di presidenti, amministratori delegati, dirigenti di nove decimi dell’apparato bancario del Paese?”.

(Luigi Einaudi)

Il paracaduteÈ questa la soluzione dell’ultimo indovinello natalizio, che la

parca (intesa come sparagnina) redazione non ha voluto a premi.Il collega paracadutista, 50 libbre in meno fa, porta le mie

stesse iniziali.

Giacomo Voltattorni

segnali di fumo

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Il giurista e il filosofo. Emilio Betti e Giovanni Gentile.Una mia notarella su “Segnali di Fumo” n. 02-03/2011

sotto il titolo “Curiosità accademiche (2): lo scemo del villag-gio” occasionava imprevedibilmente una lunga polemica.

Seguiva infatti, nel numero successivo 1/2012, nel’ “I segnali dei lettori” un intervento di Aldo Michele Colli, e nell’ultimo n. 2-3/2012 il corposo contributo di una collega picena, Stella Adria Infrasca (“La verità su Emilio Betti”) e una mia replica (“Grandi maestri, grandi equivoci?”), nonché una precisazione dell’avvocato A.M. Colli.

Ora, anzi fin già dal Luglio 2012, interveniva l’avvocato Renato Del Chicca con un testo che si pubblica qui di seguito, con una mia breve risposta.

Su una rivista forense la discussione sta uscendo fuori dalla righe … tanto più che, come noto, il Gentile non rico-nosceva nel diritto una autonoma categoria dello spirito. Pos-siamo perciò porre la parola fine, ogni lettore trarrà le sue conclusioni.

Si deve al collega Davide Sartori il contributo di preziose informazioni bibliografiche.

Giovanni Gentile e la sua tragica fine

Caro Giacomo, sull’ultimo numero di Cronache dal Foro Parmense

(sul penultimo ndr) nella tua rubrica “Segnali di fumo” leggo la garbata lettera di precisazione del collega Colli e la tua risposta che ha provocato in me la necessità di formularti a mia volta alcune osservazioni.

Scrivi che la sua precisazione risponde al vero e questo, ammetterai, non ti è stato di alcuno sforzo, sia per le giuste considerazioni di Colli sia perchè nella ricognizione sul cada-vere effettuata dal Prof. Francesco Leoncini, Direttore Isti-tuto di Medicina Legale di Firenze si può leggere “la sicura esistenza di 5 ferite da proiettili da arma da fuoco” e nel rapporto del Commissario Capo di P.S. di due giovani, dell’età di 20 e 25 anni che spararono più colpi di rivoltella.

I Segnali dei lettori Ma poi prosegui, in maniera per me incomprensibile, che poi attorno a quell’atto criminale circolasse un’aria di fuci-lazione è vero. Quindi scrivi che per non esecrare a senso unico sono ben più da condannare le morti procurate siste-maticamente, non già da oppressi, ma da sicari dell’autorità costituita e ricordi Matteotti, i fratelli Rosselli, Gobetti, Don Minzoni, ecc.

Io ti domando che senso abbia, mentre si parla dell’assas-sinio del sommo filosofo di Castelvetrano (14 aprile 1944) ricordare l’on Giacomo Matteotti (assassinato da sicari fasci-sti, identificati dalla Polizia processati e condannati dalla Magi-stratura, il 10 giugno 1924), i fratelli Carlo e Nello Rosselli (assassinati il 9 giugno 1937 a Bagnoles de l’Orne in Norman-dia da sicari del gruppo La Cagoule), Piero Gobetti (aggredito da squadristi il 5 settembre 1924 e morto esule a Parigi nella notte tra il 15 e 16 febbraio 1926, mai più riavutosi dalle gravi ferite invalidanti procurategli) e Don Giovanni Minzoni (assassinato la sera del 23 agosto 1923 con una bastonata alla nuca da squadristi fascisti).

Sarebbe come se uno, mentre scrive della tragedia dei 7 fratelli Cervi ( catturati con le armi in pugno e fucilati il 28 dicembre 1943 all’inizio della guerra civile) passasse a ricor-dare gli assai meno noti 7 fratelli Govoni di Pieve di Cento (Ferrara) (tra i quali una giovane mamma di appena 20 anni Ida., non accusati di nulla fuorchè dell’adesione di uno di essi, Dino, alla Repubblica Sociale Italiana, contadini anch’essi come i fratelli Cervi, assassinati da partigiani comunisti non si sa come , a guerra ormai terminata l’11 maggio 1945 i resti dei quali vennero recuperati sei anni più tardi).Tu potresti chiedere che senso abbia un simile accostamento.

Per ritornare all’infaticabile direttore scientifico dell’En-ciclopedia Italiana dell’Istituto Treccani dal 1925 al 1938 tu scrivi che venne sostituito alla presidenza dell’Accademia Nazionale della cultura fascista e che fu convinto a stento ad aderire alla RSI. Non è vero. Gentile fu solo componente, non di una mai esistita Accademia della cultura fascista, bensì della Reale Accademia d’Italia, fondata nel 1926 ma inaugu-rata nel 1929 con il compito di promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti (art. 2 dello Statuto). Presidenti della Reale Accademia sono stati nell’ordine Tommaso Tittoni, Guglielmo Marconi, Gabriele D’Annunzio, Luigi Federzoni e dal 1943 per l’appunto Giovanni Gentile.

Per quanto riguarda l’adesione del Senatore del Regno alla Repubblica Sociale Italiana viene così spiegata dallo stesso Gentile in una nota lettera, sincera anche perchè non destinata alla pubblicazione, scritta nell’immediatezza alla figlia primogenita Teresa.

“Ebbi il giorno 17 (novembre 1943 sul lago di Garda) un colloquio di quasi due ore (con Mussolini ), che fu commo-ventissimo: .. Non mi chiese nulla, non mi fece offerta. Il collo-quio fu a quattr’occhi. La nomina (a Presidente del’Accademia d’Italia) fu poi combinata col ministro amico (Carlo Alberto

segnali dei lettori

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segnali dei lettoriBiggini Ministro dell’Educazione Nazionale) e portata qui da un Direttore generale: Non accettare sarebbe stata una suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita”.

In occasione del tragico evento di cui trattiamo un giova-nissimo, ma certamente dotato di grandi qualità che lo porte-ranno in seguito a diventare Presidente del Consiglio e Pre-sidente del Senato della Repubblica, di nome Giovanni Spa-dolini, ebbe a scrivere rammaricandosi che nessuna autorità della RSI avesse avuto l’idea di dichiarare <lutto nazionale> la morte di Gentile (come fu fatto, fra l’altro, per Marconi e D’Annunzio, italiani e universali al par di lui e al par di lui Presidenti dell’Accademia d’Italia, con in meno la bellezza e la nobiltà del sacrificio”.

E Spadolini termina così il suo pregevole articolo: “ ... il popolo italiano non si divide in <fascisti> e <antifascisti> (che sono in sè termini di polemica contingente, e basta ) ma in <onesti> e <disonesti> e soprattutto in amici e nemici della patria”. Io condivido il pensiero di Spadolini del 1944 e tu?

Caro Giacomo, non dolerti di queste mie righe destinate soprattutto ai nostri colleghi più giovani che sicuramente non sono al corrente di molte delle cose che ho scritto.

Tu sei certamente in buona e numerosa compagnia ed esprimi tesi politicamente corrette mentre io, invece, sono tra quelli che si ostinano, nonostante un enorme recente battage mediatico, a non festeggiare il 25 aprile che conside-rano una festa non di tutto ma solo di una parte del popolo italiano.

Cordiali saluti.

Renato Del Chicca

P.S. A Bruno Fanciullacci, l’uccisore di Gentile, è stata concessa una medaglia d’oro al V.M. alla memoria ( Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e Capo dello Stato Luigi Einaudi ), anche se permettimi di avere qualche dubbio sul valore militare di un assalto di due armati ad un anziano Professore, viaggiante senza scorta come allora si usava, in com-pagnia del solo autista e la città di Firenze ha dedicato un largo ed una targa mentre le spoglie del Ministro della Pubblica istruzione ed autore della organica riforma scolastica che da lui prende il nome del 1923 riposano dal 18 aprile 1944 in un transetto della Basilica di Santa Croce in Firenze in compagnia delle foscoliane urne.

R.D.C.

La teoria gentiliana delle collanine. Il mio Professore di filosofia del Liceo, Carlo Alberto

Molinari, gentiliano, ebbe a spiegarci che la maturità - met-tiamola così - dell’uomo, è contrassegnata da un passaggio: dall’esaltazione alla vista delle perline colorate all’idea di

forarle all’entrata e all’uscita e di unirle con un filo. E così fu creata la collana.

Il mio interlocutore -in compagnia con altri esegeti anche famosi - si ostina a fermarsi al primo stadio, a considerare i fatti isolatamente, formandosi una opinione “atomizzata”, senza alcun nesso con altri, di diverso segno, il tutto, come si dice oggi, decontestualizzato.

Ed ecco, come conseguenza, la caducità delle sue osser-vazioni.

1) Sbandierare che nel 1944 il diciannovenne Giovanni Spadolini, repubblichino, e dunque non ancora repubblicano, vicino al filosofo Gentile, si esprimesse in quei termini, signi-fica mettersi al di fuori del tempo. All’epoca lo Spadolini si lamentava che il fascismo avesse perso “a poco a poco la sua agilità e il suo dinamismo rivoluzionario, proprio mentre riaffioravano i rimasugli della massoneria, i rottami del libera-lismo, i detriti del giudaismo”.

Più tardi fu uno dei più strenui sostenitori di Israele, e quanto altro tutti sanno.

2) L’adesione alla R.S.I. da parte del Gentile, narrata nella lettera alla figlia, non lascia forse trasparire la sua iniziale poli-tica perplessità, rotta da sentimenti personali? Tant’è che in precedenza aveva respinto la proposta del ministro Biggini di entrare nel Governo.

3) La protesta di Spadolini per la mancata dichiarazione di una giornata di lutto nazionale da parte della R.S.I. e per le incertezze della radio repubblichina non era una rampogna per l’estremismo fascista alla Farinacci, Pavolini, Ezio Maria Gray ecc., che avevano osteggiato le aperture del filofoso al Governo Badoglio al punto da far fondatamente supporre una complicità di frange fasciste nel suo assassinio? (rimando ai “Segnali dei lettori” su Cronache 2012, fasc. 2-3).

4) Nel racconto di Benedetto, figlio del filosofo, l’altro figlio del Gentile, Federico, doveva rivolgersi direttamente a Mussolini per sollecitare la promessa tumulazione del padre in Santa Croce, per la quale le autorità fiorentine tempo-reggiavano (Benedetto Gentile “Giovanni Gentile”, pagg. 61 e 62).

Poi fu amnistia, ma anche le giornate della memoria.

Giacomo Voltattorni

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SOMMARIO: 1. L’intervento di riforma e la sua entrata in vigore. - 2. L’introduzione della Pec nel processo esecutivo. - 3. Gli effetti della mancata dichiarazione ex art. 547 c.p.c. - 4. L’accer-tamento dell’obbligo del terzo.

1. L’intervento di riforma e la sua entrata in vigore.

A qualche anno di distanza dalle riforme del 2005 e 20061, il Legislatore torna a innovare la disciplina dell’esecuzione forzata, e in particolare il pignoramento presso terzi, con disposizioni inserite nella “Legge di stabilità 2013”2.

I commi 20 e 21 dell’unico articolo di cui si compone tale provvedimento introducono importanti modifiche agli arti-coli 543, 2° comma, 547, 1° comma, 548 e 549 c.p.c.

Mentre le prime due norme estendono al processo ese-cutivo il crescente utilizzo della posta elettronica certificata anche nell’amministrazione della giustizia3, più incisivo è l’in-tervento operato sulle ultime due disposizioni sopra citate, interamente riscritte e dalle quali risultano profondamente mutate le conseguenze della mancata dichiarazione del terzo e la fisionomia dell’accertamento dell’obbligo di quest’ultimo che ne abbia a seguire.

Dette modifiche si riflettono poi inevitabilmente sull’ope-ratività dei meccanismi processuali che in tali segmenti dell’e-secuzione forzata trovano presupposto.

Come peraltro sempre avviene in occasione delle riforme, anche quella in esame solleva numerosi dubbi ermeneutici di rilievo pratico, sui quali ancora è presto per conoscere le posizioni della giurisprudenza.

Pignoramento presso terzi:le novità introdotte dalla legge n. 288/2012

1 Legge 14 maggio 2005, n. 80, e legge 24 febbraio 2006, n. 52, sulle quali, per le modifiche introdotte al processo esecutivo, v. per tutti VULLO, (a cura di), Codice dell’esecuzione forzata. Commentato con dottrina e giurisprudenza, 4a ed., Piacenza, 2011.2 Legge 24 dicembre 2012, n. 288, in G.U. 29 dicembre 2012, n. 302. Allo stesso atto normativo si deve anche l’introduzione dell’art. 16 bis nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, di conversione del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, in tema di obbligo del deposito telematico degli atti processuali.3 Si pensi all’obbligo delle comunicazioni e notificazioni telema-tiche degli atti processuali: art. 16 quater, legge 21 gennaio 1994, n. 53 (“Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stra-giudiziali per gli avvocati e procuratori legali”), introdotto dall’art. 1, legge n. 288 cit.; art. 16 bis legge n. 221/2012. In arg. si segnala BUFFONE, Le novità del D.L. Sviluppo-bis e della L. stabilità per il 2013, in Il Civilista, Dalle notifiche telematiche al contributo unifi-cato. Tutte le modifiche, 2013, 5-18.

4 Si tratta di tutti i terzi, esclusi soltanto quelli che vengano chia-mati in relazione ai crediti di cui all’art. 545, commi 3 e 4, c.p.c., disposizioni che si riferiscono al pignoramento delle somme ad ogni titolo dovute da privati datori di lavoro. 5 Viceversa, il termine di dieci giorni non è garantito dall’invio della comunicazione tramite raccomandata, la cui tempestività, in base ad una lettura costituzionalmente orientata della norma, non è valutata al momento del ricevimento bensì a quello dell’invio e, precisamente, all’atto della consegna della raccomandata all’ufficio postale accettante. Non essendo peraltro espressamente prevista alcuna conseguenza rispetto alla spedizione tardiva, si propende per la natura meramente ordinatoria del termine de quo. Cfr. in arg. BATTAGLIA, in CIPRIANI, MONTELEONE (a cura di), La riforma del processo civile, Padova, 2007, 304.

A norma del comma 22 del citato articolo, la riforma si applica ai procedimenti di espropriazione presso terzi iniziati successivamente all’entrata in vigore della legge n. 288 cit., e dunque dal 1° gennaio 2013.

Il momento rilevante sarà la notifica dell’atto di pignora-mento, come vuole l’art. 491 c.p.c.; precisamente, per esigenze di certezza e di razionalità, pare che debba aversi riguardo al perfezionamento della notifica per il notificante e quindi al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario.

2. L’introduzione della Pec nel processo esecutivo.

Per effetto del comma 20 dell’art. 1, legge n. 288/2012, l’art. 543 c.p.c. ha così visto mutare il proprio testo nel senso che l’atto di pignoramento presso terzi, con la precisata decor-renza, dovrà contenere, oltre alla dichiarazione di residenza o all’elezione di domicilio nel comune in cui ha sede il tribunale competente, come già in precedenza previsto, anche «l’indi-cazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata del creditore procedente» (art. 543, 2° comma, n. 3, c.p.c.).

Ciò, evidentemente, per consentire che mediante detta modalità telematica possa avvenire l’invio della comunica-zione ex art. 547 c.p.c. da parte di quei terzi finora tenuti all’invio di raccomandata4. Ed infatti, il riformato comma 2, n. 4), del medesimo art. 543 c.p.c. prevede che di tale possibilità il terzo sia reso edotto, con l’invito contenuto nell’atto di pignoramento a comunicare la dichiarazione «a mezzo racco-mandata ovvero a mezzo di posta elettronica certificata».

L’innovazione è chiaramente volta a semplificare una fase della procedura, nell’interesse sia del creditore procedente (all’effettività del termine di dieci giorni di cui all’art. 543, comma 2, sempre che dal trasmittente nel termine sia rispet-tato, vista l’ordinaria simultaneità tra invio e ricevimento delle comunicazioni telematiche)5, sia del terzo (che potrà avvalersi di una modalità di trasmissione più comoda e non onerosa).

pignoramento

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6 Pure la citata disposizione peraltro s’inserisce in quel processo di riforma in atto volto alla “dematerializzazione” del processo civile (l’espressione è di BUFFONE, Le novità del D.L. Sviluppo-bis e della L. stabilità per il 2013, cit., 14). 7 La norma da ultimo richiamata nel testo, infatti, nel prevedere che “se il ricorrente … non ha indicato l’indirizzo di posta elet-tronica certificata comunicato al proprio ordine, le notifica-zioni gli sono fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione”, si riferisce senza dubbio al difensore della parte.8 Dopo l’introduzione dell’utilizzo generalizzato della Pec nei rap-porti con le pubbliche amministrazioni, con decorrenza 29 novembre 2008, l’art. 16 del D.L. n. 185/2008, convertito in legge con modifica-zioni dall’art. 1, legge 28 gennaio 2009, n. 2, ha imposto a professioni-sti e società di capitali nonché a società di persone di dotarsi di Pec, rispettivamente entro il 29 novembre 2009 ed entro il 29 novembre 2011; successivamente, l’art. 5 del D.L. n. 179/2012, convertito in legge n. 221/2012, ha previsto l’ulteriore estensione della Pec alle imprese individuali, siano esse nascenti ovvero già attive e non soggette a pro-cedure concorsuali: il termine di adeguamento è scaduto per le prime il 20 ottobre 2012, mentre le seconde dovranno depositare il proprio indirizzo Pec presso il registro delle imprese entro il 31 dicembre 2013. In arg. V. SANTACROCE, Pec obbligatoria per le ditte, in www.

http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2012-11-11; GHINI, L’obbligo di utilizzo della Pec per le imprese, in Fisco, 2013, 8, 1164 ss.9 Sulla sufficiente indicazione della Pec dell’avvocato v. anche SALETTI, Le novità dell’espropriazione presso terzi, in www.judi-cium.it, pag. 2, nota 6. 10 V. SALETTI, op. loc. cit., il quale osserva come il terzo possa agevolmente ricavare l’indirizzo Pec dell’avvocato del creditore pro-cedente dall’albo degli avvocati.11 Così recitava la norma nella sua precedente formulazione: «Mancata o contestata dichiarazione del terzo. - Se il terzo non com-pare all’udienza stabilita o, comparendo, rifiuta di fare la dichia-razione, o se intorno a questa sorgono contestazioni, il giudice, su istanza di parte, provvede all’istruzione della causa a norma del libro secondo. / Se il terzo non fa la dichiarazione neppure nel corso del giudizio di primo grado, può essere applicata nei suoi confronti la disposizione dell’art. 232 primo comma. ».

Resta invariata la distinzione fra terzi tenuti a comparire in udienza per rendere la dichiarazione de visu e terzi ammessi alla sua trasmissione per iscritto, sia pure telematicamente intesa.

Una piccola dimenticanza del Legislatore si registra nella mancata integrazione del testo dell’art. 547 c.p.c., che, nel precisare il contenuto necessario della dichiarazione del terzo, ancora si riferisce a quella resa “all’udienza o, nei casi previsti, a mezzo raccomandata”.

Pure la semplice e razionale novità introdotta pone comunque dubbi di ordine ermeneutico.

In primo luogo, è da capire a chi sia riferita l’espressione «creditore procedente».

La littera legis parrebbe esser rivolta alla parte sostanziale, piuttosto che al suo difensore, considerato che, in altre ana-loghe disposizioni, ubi lex voluit dixit: si pensi all’art. 125 c.p.c., il cui testo modificato dalla legge di stabilità per l’anno appena decorso espressamente richiede che negli atti indicati dallo stesso articolo sia precisato l’indirizzo Pec del difensore6. Non altrimenti, tuttavia, il legislatore ha fatto altrove, come nel testo dell’art. 366, comma 2, c.p.c. 7

Vero è anche che la genericità della formula non esclude che essa possa riferirsi al difensore, come accade ad esempio per tutte le norme che, nel descrivere i comportamenti pro-cessuali pur posti in essere nel processo dai procuratori delle parti, si riferiscono sic et simpliciter alle parti.

In difetto di specifiche pronunce ed in via prudenziale, sem-brerebbe dunque preferibile indicare sempre, oltre a quello dell’avvocato, anche l’indirizzo di posta elettronica certificata dell’assistito, e quindi, a tal fine, invitare quest’ultimo a munirsi tempestivamente di una propria casella Pec, laddove già non ne disponga. Non può nascondersi che l’avallo di una simile inter-pretazione equivarrebbe ad anticipare gli effetti in itinere dell’ob-bligatorietà della Pec per tutti gli operatori economici, ma anche ad estenderla ai privati, attualmente da ciò svincolati8.

Se, tuttavia, esclusivo fine dell’indicazione in esame è, come pare, quello su visto di consentire al terzo l’invio telematico della propria dichiarazione, sembra deporre nel senso di ritenere sufficiente l’indicazione della Pec dell’avvocato9 il rilievo che la procura ad litem conferisce al difensore, ex art. 84 c.p.c., anche il potere di “ricevere, nell’interesse della parte stessa, tutti gli atti del processo che dalla legge non sono ad essa espressamente riservati”.

Nessuna conseguenza è comunque espressamente rife-rita dalla norma all’eventuale difetto di indicazione. Si ritiene quindi che, in tal caso, l’atto sia comunque valido, non ricor-rendo motivi di nullità previsti dall’art. 156 c.p.c., così come si ritiene che il terzo non sia per ciò privato del diritto di inviare la comunicazione a mezzo Pec, laddove ne reperisca l’indirizzo per altra via10.

3. Gli effetti della mancata dichiarazione ex art. 547 c.p.c.

Per effetto dell’intervenuta riforma, l`articolo 548 c.p.c. e` interamente sostituito dal seguente:

«548. Mancata dichiarazione del terzo. - Se il pignoramento riguarda i crediti di cui all’articolo 545, terzo e quarto comma, quando il terzo non compare all’udienza stabilita, il credito pignorato, nei ter-mini indicati dal creditore, si considera non contestato ai fini del pro-cedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione, e il giudice provvede a norma degli articoli 552 o 553.

Fuori dei casi di cui al primo comma, quando all’udienza il cre-ditore dichiara di non aver ricevuto la dichiarazione, il giudice, con ordinanza, fissa un’udienza successiva.

L’ordinanza è notificata al terzo almeno dieci giorni prima della nuova udienza. Se questi non compare alla nuova udienza, il credito pignorato o il possesso del bene di appartenenza del debi-tore, nei termini indicati dal creditore, si considera non contestato a norma del primo comma.

Il terzo può impugnare nelle forme e nei termini di cui all’ar-ticolo 617, primo comma, l’ordinanza di assegnazione di crediti adottata a norma del presente articolo, se prova di non averne avuto tempestiva conoscenza per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore.»11.

pignoramento

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I primi tre commi sopra riportati disciplinano dunque l’i-potesi in cui manchi la dichiarazione del terzo, distinguendo quando questa debba farsi in udienza (i.e. pignoramento su crediti di cui all’art. 545, 3° e 4° comma, c.p.c.) e quando invece sia richiesto l’invio mediante raccomandata o Pec (pignoramento su cose o su crediti diversi da quelli di cui al 3° e 4° comma dell’art. 545).

Con riferimento alla prima delle citate situazioni, il primo comma dell’art. 548 c.p.c. contempla il caso in cui il terzo non compaia all’udienza fissata ex art. 547 c.p.c.

La norma introduce ex novo una fattispecie processuale tipica nella quale viene ad assumere rilevanza il concetto di non contestazione: per effetto della mancata comparizione, infatti, il credito pignorato «si considera non contestato» e ciò «nei termini indicati dal creditore».

Al contrario da quanto potrebbe suggerire una prima lettura, non sembra tuttavia corretto affermare che la norma trasponga nel processo esecutivo il generale principio di non contestazione codificato dal novel-lato art. 115 c.p.c.12, la cui fisionomia appare ben altra da quella attribuibile alla non contestazione menzionata dal nuovo art. 548 c.p.c.

Occorre notare infatti che in quest’ultima norma la non contesta-zione del credito viene soltanto pre-sunta («si considera non contestato») da un comportamento processuale puramente omissivo del terzo.

Diversamente, la non contestazione cui si riferisce l’art. 115 c.p.c. ha il significato di una volontaria ed effettiva presa di posizione circa i fatti dedotti, equiparata all’ammissione, come a contrario si ricava dall’onere positivamente posto in capo alle parti di contestare tali fatti «specificatamente», così da potersi con relativa certezza desumere, in difetto, la effettiva non con-testazione dei fatti medesimi; è importante rilevare che detto onere grava qui soltanto sulle parti costituite - e quindi su quelle che già abbiano assunto un comportamento difensivo attivo avendo deciso di prendere effettivamente parte al processo - e che nessuna conseguenza viene fatta dipendere da un atteggia-mento puramente omissivo qual è la contumacia.

Comunque, l’onere di contestare ex art. 115 c.p.c. colpisce le parti del processo, mentre l’effetto contestativo presunto di

cui all’art. 548 c.p.c. si produce nei confronti del terzo, che nel processo esecutivo non è parte13.

Ancora, la non contestazione ex art. 115 c.p.c. produce la relevatio ab onere probandi in favore della parte che ne sia di regola gravata ai fini dell’accertamento dei fatti su cui si fonda la domanda; diversamente, nel processo che qui ne occupa la non contestazione del credito serve ai soli «fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul prov-vedimento di assegnazione», affinché il giudice provveda «a norma degli articoli 552 o 553», al fine di quantificare i beni appresi a soddisfacimento del diritto del creditore procedente, il cui accertamento è invece già contenuto nel titolo esecutivo azionato.

Non potrebbe pertanto invocarsi la non contestazione ex art. 548 in procedimenti diversi - senz’altro se di natura

cognitiva ma anche se esecutivi - e dunque essa assume una valenza ten-denzialmente endoprocessuale, limitata ad ogni singola procedura nella quale viene a formarsi; argomenti a conforto dell’assunto si ricavano, oltre che dal primo comma della norma in esame, anche dal novellato art. 549 (su cui v. infra), che sancisce la natura esclusiva-mente incidentale dell’accertamento del’obbligo del terzo, e dal 4° comma, ultima parte, dell’art. 548, che a detto carattere endoprocedimentale pone una espressa deroga, disponendo che

la non contestazione rilevi anche nell’esecuzione promossa in forza dell’ordinanza di assegnazione nei confronti del terzo, ormai divenuto, per effetto della stessa ordinanza, debitore diretto del creditore procedente14.

Nondimeno, è chiaro che la riforma in esame presenti in comune con il principio di non contestazione generalizzato dall’art. 115 c.p.c. la medesima ratio di economia processuale.

12 Ci si riferisce naturalmente al testo riformato dalla legge n. 69/2009.13 Prevale largamente, infatti, l’opinione che nega al terzo la qualità tecnica di parte del processo esecutivo (Cass., 10 settem-bre 1998, n. 9866; Cass., 19 settembre 1995, n. 9888, in Corr. Giur. 1996, 308; COLESANTI, Il terzo debitore nel pignoramento di cre-diti, Milano, 1967, 233; TRAVI, Espropriazione presso terzi, Nss. Dig. it., VI, Torino, 1960, 958), spettante al creditore procedente e al debitore; si afferma che egli assuma, invece, nell’esecuzione il

mero ruolo di ausiliare di giustizia (Cass., 16 settembre 2008, n. 23727; Cass., 1 luglio 1993, n. 7151; Cass., Sez. Unite, 18 dicembre 1987, n. 9047; VACCARELLA, Espropriazione presso terzi, in Dig. disc. priv. - sez. civ., VIII, Torino, 1992, 109). Non mancano, peral-tro, opinioni contrarie (BUCOLO, Il processo esecutivo ordinario, Padova, 1994, 664; MONTELEONE, Diritto processuale civile, 3a ed., Padova, 2002, 988 ss., secondo cui il terzo assumerebbe la qualità di parte, non in virtù di un’efficacia diretta o riflessa del titolo esecutivo nei suoi confronti, quanto per l’obbligo di adem-pimento cui egli è tenuto a vantaggio di un soggetto diverso dal proprio creditore, quale destinatario di una pretesa diretta e pro-pria del creditore procedente. Secondo Cass., 15 gennaio 2003, n. 493, il terzo è da ritenersi parte nel giudizio di assegnazione fin dalla notifica della citazione, sorga o meno contestazione circa la sua dichiarazione, al pari di un convenuto, in quanto interessato alle vicende processuali dalle quali dipende la sua liberazione dal vincolo esecutivo. In argomento, v. anche BOVE, in Bove, Capponi, Martinetto, Sassani, L’espropriazione forzata, Torino, 1988, 403 ss.14 Per tutti tali rilievi v. SALETTI, op. loc. cit., 8.

non sembra tuttavia corretto affermare che la norma trasponga nel processo esecutivo il generale principio dinoncontestazionecodificatodalnovellatoart.115c.p.c.,lacuifisionomiaapparebenaltra da quella attribuibile alla non contestazione menzionata dal nuovo art. 548 c.p.c.

pignoramento

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Quanto al secondo e terzo comma dell’art. 548 c.p.c., riferiti all’ipotesi in cui il terzo sia ammesso ad inviare la pro-pria dichiarazione a mezzo raccomandata o Pec (pignoramenti su cose o su crediti diversi da quelli di cui al 3° e 4° comma dell’art. 545 c.p.c.), si trova qui disciplinato il caso in cui all’u-dienza fissata ex art. 547 c.p.c. il creditore assuma «di non aver ricevuto la dichiarazione».

In tal caso, «il giudice … fissa un’udienza successiva» con un’ordinanza che, a norma del terzo comma dell’art. 548, «è notificata al terzo almeno dieci giorni prima della nuova udienza.»

L’onere della notifica incomberà chiaramente sul creditore procedente; l’eventuale omissione non potrà che rendere ope-rante, salvo cause di forza maggiore, il disposto dell’art. 630 c.p.c., che l’inattività delle parti sanziona con l’estinzione del processo esecutivo.

Diversamente, se il terzo «non compare alla nuova udienza, il credito pignorato o il possesso del bene di appartenenza del debitore, nei termini indicati dal creditore, si considera non contestato a norma del primo comma.».

In entrambi i casi previsti dal primo e dal terzo comma, la mancata dichia-razione del terzo viene dunque ad assumere un significato totalmente opposto a quello assunto nel regime ante riforma: là essa era, infatti, di osta-colo al conseguimento dell’obiettivo dell’espropriazione, giacché il pignoramento non poteva per-fezionarsi per difetto di oggetto15, tanto da richiedere l’inizio del giudizio di accertamento ai sensi dell’art. 548 c.p.c., quale unico rimedio idoneo ad impedire l’estinzione del processo esecutivo16 ex art. 630 c.p.c.17 ed a consentire l’accertamento dell’esistenza e dell’entità del bene, essenziale al perfeziona-mento ed alla prosecuzione del processo stesso18; nella novel-lata fattispecie, invece, il comportamento omissivo del terzo, che non invia la comunicazione o non compare all’udienza ove convocato, equivale al riconoscimento del credito nei termini indicati dal creditore procedente. Ragioni pratiche e di giustizia spiegano peraltro il diverso modo di operare del meccanismo nell’uno e nell’altro caso, laddove il primo comma fa dipen-dere l’effetto presunto dalla sola mancata presenza del terzo, mentre non altrettanto dispone il comma terzo per il man-cato invio (affermato) della dichiarazione, ma richiede anche

la convocazione del terzo pignorato ad un’udienza apposita-mente fissata: questa seconda previsione si spiega sul rilievo che l’affermazione di mancato ricevimento della dichiarazione, non altrimenti verificabile da parte del giudice in difetto della presenza del terzo, potrebbe rivelarsi non veritiera19.

La norma non precisa se l’udienza così fissata sia sol-tanto volta a consentire al terzo di opporre una smentita alla deduzione del creditore oppure se il terzo possa anche profittarne per rendere la dichiarazione in quella sede; delle due plausibili, quest’ultima ipotesi appare preferibile in vista dell’interesse prioritario costituito dal conseguimento dello scopo del processo esecutivo, nell’interesse privatistico del creditore procedente, ma anche di quello pubblicistico all’ef-fettività della tutela giurisdizionale.

Altra notazione di rilievo pratico attiene al campo di ope-ratività del nuovo testo dell’art. 548 rispetto a quello previ-gente alla legge n. 288 cit.: un rapido confronto tra le citate disposizioni è sufficiente per notare che mancano nell’o-dierna previsione ipotesi prima normate, così ponendosi il

dubbio sulla loro regolamentazione a far data dal 1° gennaio di quest’anno.

Si pensi al caso in cui il terzo compaia all’udienza, ma rifiuti di ren-dere la dichiarazione, fattispecie che il vecchio testo dell’art. 548 c.p.c. assoggettava al medesimo tratta-mento normativo della dichiarazione

negativa20: quanto al regime attuale, la dottrina interrogatasi sul punto21 ha escluso un’applicazione analogica od estensiva del meccanismo della non contestazione, in quanto ecce-zionalmente previsto per un soggetto che non è nemmeno parte del processo espropriativo22.

Un ulteriore limite del nuovo regime, già acutamente fatto notare23, si rinviene nella difficoltà di coordinare il meccani-smo presuntivo fin qui descritto con la genericità dell’atto di pignoramento consentita dall’art. 543, 2° comma, n. 2, c.p.c. ed ancor più largamente intesa dalla giurisprudenza24: in difetto di puntuale indicazione del credito pignorato - peral-tro non sempre in concreto possibile da parte del creditore procedente - verrebbe di fatto a mancare l’utilità connessa alla non contestazione, consistente nell’esatta quantificazione del credito, sia pure in via presuntiva; a fortiori ciò vale quando il pignoramento debba colpire le cose di proprietà del debi-

15 SALETTI, op. loc. cit., 2. 16 REDENTI, VELLANI, Diritto processuale civile, 3a ed., III, Milano, 1999, 333. 17 Cass., 5 settembre 2006, n. 19059.18 V., però, ANDRIOLI, Appunti di diritto processuale civile, Napoli, 1962, 445, secondo cui, in caso di assenza del terzo o di suo rifiuto di rendere la dichiarazione, ai fini dell’estinzione era neces-saria la rinuncia agli atti da parte del creditore pignorante e degli intervenuti muniti di titolo.

19 Cfr. SALETTI, op. loc. cit., 3.20 V. per tutti REDENTI, VEL-LANI, op. cit. 21 SALETTI, op. loc. cit., 5. 22 V. supra, nota 13.23 SALETTI, op. loc. cit., 524 Cfr. Cass., 24 maggio 2003, n. 8239; in dottrina, DELLA PIETRA, Le vicende del pignoramento e dell’assegnazione dei cre-diti, in Le espropriazioni presso terzi, diretto da F. Auletta, Bolo-gna, 2011, 38.

la mancata dichiarazione del terzo viene ad assumere unsi-gnificatototalmenteopposto a quello assunto nel regime ante riforma

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tore che si trovano presso il terzo e queste non siano speci-ficamente individuate. Si ritiene che in dette ipotesi siano di fatto impedite l’assegnazione e la vendita, essendo impossibili la stima, l’asporto e la stessa individuazione del bene, e che nemmeno possa operarsi un’automatica quantificazione del credito pignorato sull’importo del credito azionato in ese-cutivis25.

A diversa conclusione dovrebbe pervenirsi laddove l’atto di pignoramento avesse individuato il rapporto giuridico rite-nuto sussistente tra debitor e debitor debitoris, eventualità che consentirebbe la prosecuzione del processo espropriativo; la natura e il contenuto del provvedimento giudiziale segui-rebbero di conseguenza. Quanto al pignoramento di crediti, prioritario è porsi l’interrogativo se questi possano definirsi immediatamente esigibili o no, così richiedendo l’applicazione dell’art. 553, 2° comma, c.p.c. La risposta offerta in dottrina è affermativa, in mancanza di contrari elementi, in conside-razione anche del testo dell’art. 1183, 1° comma, c.c.; se ne deduce che il giudice possa, senza indicare un esatto ammon-tare, disporre l’assegnazione con riferimento al rapporto risultato non contestato e fino alla concorrenza del credito portato dal titolo esecutivo26.

Tale evenienza peraltro avrebbe l’effetto di prolungare fino al momento dell’assegnazione l’incertezza sul quantum di beni effettivamente colpito dal vincolo di indisponibilità, nascente con la notifica dell’atto di pignoramento27.

Altro aspetto problematico si collega agli altri contenuti della dichiarazione del terzo richiesti dagli artt. 547 e 550 c.p.c., ovvero la specificazione di eventuali cessioni notificate o accettate e di precedenti sequestri e/o pignoramenti eseguiti presso il terzo medesimo.

Dal testo dell’art. 548 si ricava che la ficta non contestatio produce l’esclusivo effetto di consolidare ai fini della proce-dura espropriativa la quantificazione del credito pignorato fatta dal creditore procedente nell’atto di pignoramento, mentre è chiaro che in alcun modo essa potrebbe giovare rispetto agli ulteriori sopra richiamati contenuti della dichia-razione attesa dal terzo, elementi che, in caso di inerzia di quest’ultimo, verrebbero semplicemente a mancare.

Pertanto, in difetto di esplicita indicazione da parte del terzo di eventuali precedenti sequestri, il creditore non potrebbe citare il/i sequestrante/i a norma del 3° comma dell’art. 547 c.p.c.28

Quanto ai precedenti pignoramenti, il giudice non potrebbe disporne la riunione a norma dell’art. 550 c.p.c., salvo che egli non ne acquisisca conoscenza per altra via potendo così prov-vedere d’ufficio29.

Sotto diverso profilo e sempre in prospettiva critica, si è ritenuta difficilmente giustificabile la mancata previsione nel testo riformato di un onere di informativa nei con-fronti del terzo circa le conseguenze derivabili dalla sua mancata dichiarazione o comparizione in udienza, prospet-tando anche un dubbio di legittimità costituzionale del 1° e del 3° comma dell’art. 548 c.p.c., per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.: il terzo infatti, pur non essendo parte del processo esecutivo, viene a subire i rigorosi effetti di un regime processuale di cui nemmeno sarà stato informato, subendo un trattamento deteriore rispetto, ad esempio, al convenuto nel processo di cognizione (al quale l’art. 163, 3° comma, n.7, c.p.c. garantisce l’avvertenza circa le conse-guenze della sua mancata tempestiva costituzione) o all’inti-mato di sfratto (anch’egli informato ex art. 640, 1° comma, c.p.c. degli effetti dell’eventuale sua mancata comparizione all’udienza di convalida)30.

È per vero evidente che la riforma abbia sul punto inteso imprimere all’esecuzione presso terzi una maggiore spedi-tezza, in vista del soddisfacimento del diritto azionato nei confronti del debitore principale, ma questo fine s’è per-seguito facendo “leva” soltanto sul comportamento, anche omissivo, del terzo pignorato, unico soggetto direttamente coinvolto dalla modifica legislativa e responsabilizzato all’e-stremo. Il senso pratico di tali rilievi si coglie appieno vol-gendo il pensiero ad ipotesi anche paradossali, nelle quali il terzo potrebbe trovarsi a dover adempiere, per effetto della non contestazione fittizia, ad obbligazioni non realmente esi-stenti nei confronti del proprio creditore.

La severità del meccanismo è poi rafforzata dal regime d’impugnativa descritto dal quarto comma dell’art. 548, ai sensi del quale «Il terzo può impugnare nelle forme e nei ter-mini di cui all’articolo 617, primo comma, l’ordinanza di asse-gnazione di crediti adottata a norma del presente articolo, se prova di non averne avuto tempestiva conoscenza per

25 SALETTI, op. loc. cit., 6.26 SALETTI, op. loc. cit., 6-727 Sulla questione e sui contorni assunti dopo le riforme del 2005 e 2006, v. per tutti ACONE, Novità in tema di pignoramento presso terzi, in Riv. es. forz., 2006, 1. 28 La chiamata del sequestrante cui è tenuto il creditore pigno-rante ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 547 consiste in una cita-zione a comparire per l’udienza appositamente fissata dal giudice

(CASTORO, Il processo di esecuzione nel suo aspetto pratico, 10a ed., Milano, 2010, 516), da attuarsi nel termine perentorio da questi indicato, il cui scopo è garantire la partecipazione del sequestrante alla procedura esecutiva, con le modalità e i limiti di cui all’art. 688 c.p.c. (CASTORO, op. loc. ultt. citt.; BUCOLO, Il processo esecutivo ordinario, Padova, 1994, 687). L’inosservanza del termine suddetto e, a maggior ragione, l’omissione della citazione sono considerate cause di estinzione del procedimento esecutivo ai sensi dell’art. 630 c.p.c.: ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, 3a ed., III, Napoli, 1957, 200; SATTA, L’esecuzione forzata, IV, Torino, 1963, 201.29 SALETTI, op. loc. cit., 10.30 Così SALETTI, op. loc. cit., 4.

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31 Così recitava nella sua precedente formulazione l’art. 548 c.p.c.: «Mancata o contestata dichiarazione del terzo. – Se il terzo non compare all’udienza stabilita o, comparendo, rifiuta di fare la dichiarazione, o se intorno a questa sorgono contestazioni, il giudice, su istanza di parte, provvede all’istruzioni ella causa a norma del libro secondo. / Se il terzo non fa la dichiarazione neppure nel corso del giudizio di primo grado, può essere appli-cata nei suoi confronti la disposizione dell’articolo 232 primo comma.».32 Per tutti tali rilievi v. SALETTI, op. loc. cit., 9, il quale evidenzia anche un parallelismo fra tale norma ed il primo comma degli artt. 650 e 668 c.p.c., già dichiarati incostituzionali proprio in relazione alla questione sollevata nel testo, rispettivamente con sentenze della Consulta n. 120/1976 e n. 89/1972.33 SALETTI, op. loc. cit., 10.

irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore.».31

La lettera della norma parrebbe limitare il diritto del terzo di proporre opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza di assegnazione fondata sulla non contestazione del credito alla sola ipotesi di sua mancata tempestiva conoscenza per le ragioni indicate dalla disposizione medesima.

Una siffatta interpretazione equivarrebbe tuttavia ad escludere le ulteriori cause di impugnativa generalmente ammesse, descrivendo un trattamento del terzo peggiore rispetto a quello riservato ad ogni altro debitore esecutando. Per tali ragioni, già si è proposta un’interpretazione corret-tiva della norma32, per cui la mancata conoscenza dovrebbe esser riferita, anziché all’ordinanza di assegnazione, all’atto di pignoramento: così la norma acquisterebbe una comprensibile fun-zione sanzionatoria nei confronti del terzo inerte, pur invitato a rendere la dichiarazione con l’atto regolarmente ricevuto; viceversa, il terzo potrebbe opporsi all’ordinanza di assegnazione resa sul presupposto della ficta non contestatio laddove la sua omissione sia dipesa dalla mancata tempestiva cono-scenza della procedura esecutiva. Tale ricostruzione consente di affermare anche la tendenziale irrevocabilità della dichiarazione positiva del terzo formata per effetto della non contestazione.

Si noti che la norma si riferisce ai soli crediti, non menzio-nando il pignoramento di cose. Se ne potrebbe quindi dedurre l’operatività del regime generale di impugnativa dell’ordinanza de qua.

Ci si è chiesti, ancora, se il regime di stabilità enunciato dall’ultimo comma in commento possa estendersi anche alla dichiarazione resa inesatta, offrendo risposta tendenzialmente negativa33.

4. L’accertamento dell’obbligo del terzo.

L’articolo 549 c.p.c. è sostituto dal seguente:

«549. Contestata dichiarazione del terzo. - Se sulla dichiara-zione sorgono contestazioni, il giudice dell’esecuzione le risolve, com-piuti i necessari accertamenti, con ordinanza. L’ordinanza produce effetti ai fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione ed è impugnabile nelle forme e nei termini di cui all’articolo 617.» 34

Il primo periodo del citato arti-colo continua dunque a richiedere, in caso di contestazioni sul contenuto della dichiarazione resa ex art. 547 c.p.c., lo svolgimento di un accerta-mento di merito circa l’obbligo del terzo; tuttavia, come reso esplicito dalla differente formula qui usata («se sulla dichiarazione sorgono contesta-zioni, il giudice dell’esecuzione le risolve, compiuti i necessari accertamenti, con ordinanza») rispetto alle corrispon-denti contenute nei previgenti artt. 548 («il giudice…provvede all’istruzione della causa a norma del libro secondo») e 549 («con la sentenza che definisce il giudizio … il giudice … fissa un termine

per la prosecuzione del processo esecutivo»), tale accertamento si svolge ora all’interno del processo esecutivo, anziché in un autonomo giudizio affidato al giudice della cognizione.

Nel sistema previgente, il giudizio si concludeva con una sentenza di mero accertamento soggetta agli ordinari mezzi di impugnazione35 e con rilevanza non limitata alla sola azione esecutiva36.

34 Si riporta di seguito il testo previgente dell’art. 549 c.p.c.: «Accertamento dell’obbligo del terzo. - Con la sentenza che defini-sce il giudizio di cui all’articolo precedente, il giudice, se accerta l’esistenza del diritto del debitore nei confronti del terzo, fissa un termine per la prosecuzione del processo esecutivo».35 CASTORO, op. loc. ultt. citt.36 Cfr. per tutte Cass., Sez. Unite, 24 giugno 2008, n. 25037, la quale ha pure affermato il duplice contenuto di accertamento della sentenza conclusiva di tale giudizio: uno di “rilevanza meramente processuale, attinente all’assoggettamento del credito pignorato all’espropriazione forzata, efficace nei rapporti tra creditore proce-dente e terzo debitor debitoris e come tale rilevante ai soli fini dell’e-secuzione in corso, secondo la forma dell’accertamento incidentale ex lege”; l’altro “idoneo ad acquistare l’autorità di cosa giudicata sostanziale tra le parti del rapporto, avente ad oggetto il credito del debitore esecutato (che pertanto è litisconsorte necessario) nei confronti del terzo pignorato”. In precedenza, sulla natura di sen-tenza di mero accertamento, Cass., 26 giugno 1976, n. 2409; Cass.,

Lanuovadisciplina,nell’apprezzabile intento di dare attua-zione anche nell’esecuzione forzata al principio della ragio-nevoleduratadelprocesso,avvalendosi di schemi procedi-mentali già recentemente sperimentati,introduceancheprofilidiincertezza,connessiin particolare all’utilizzo di meccanismi presuntivi puri

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Significativa appare dunque l’innovazione introdotta dalla legge n. 288 cit. all’art. 549 c.p.c., che vuole ora risolte le con-testazioni sul contenuto della dichiarazione del terzo con una ordinanza dagli effetti limitati ai fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione ed impugnabile soltanto con opposizione agli atti esecutivi, nei modi e termini di cui all’art. 617 c.p.c.

Il nuovo regime ricalca evidentemente quello già applicato ex art. 512 c.p.c. alle controversie sorte in sede di distribu-zione a partire dalla riforma del 200537 e, tuttavia, l’apprezza-bile effetto di operare una uniformazione normativa all’interno dell’esecuzione forzata con riguardo alle liti inerenti la quanti-ficazione dei beni appresi è incompleto, alla luce del contenuto precettivo degli artt. 616 e 619 c.p.c., che ancora affidano alla cognizione ordinaria le eventuali contestazioni sulla pignora-bilità dei beni, provenienti dal terzo che affermi di esserne il vero proprietario, difformità che si riflette sulle diverse garan-zie processuali fruite38.

Per altro verso, la riforma pare risolvere l’annoso dibattito, se il creditore agisca per l’accertamento dell’obbligo del terzo iure proprio o utendo iuribus del debitore esecutato, in favore

10 febbraio 1972, n. 359; Cass., 8 novembre 1965, n. 2331; REDENTI, VELLANI, Diritto processuale civile, 3a ed., III, Milano, 1999, 335; VACCARELLA, op. loc. ultt. citt.; BONSIGNORI, L’esecuzione forzata, 3a ed., Torino, 1996, 233; MANDRIOLI, Diritto processuale civile, 21a ed., IV, Torino 2011, 124, nt. 31; contra, ZANZUCCHI, VOCINO, Diritto processuale civile, 5a ed., III, Milano, 1964, 186 e 190; cfr., inoltre, RICCI, Accertamento giudiziale, Dig. disc. priv. - Sez. civ., I, Torino, 1987, 23. Un orientamento dottrinario non escludeva che il contenuto e l’efficacia propri di una sentenza di condanna potessero essere provocate dalla parte, mediante apposita domanda (VACCA-RELLA, op. loc. ultt. citt.) (COLESANTI, Il terzo debitore nel pignora-mento di crediti, Milano, 1967, 447, nt. 155; cfr. anche SATTA, op. cit., 327; contra, VACCARELLA, op. loc. ultt. citt.). 37 Art. 2, comma 3, lett. e) n. 9 D.L. n. 35/2005, conv. in legge n. 80/2005.38 SALETTI, op. loc. cit., 11.39 In tal senso SALETTI, op. loc. cit., 11. L’indirizzo dominante in dottrina e in giurisprudenza propendeva già sotto il previgente regime per la tesi secondo cui il creditore procedente agisce iure proprio (VACCARELLA, Espropriazione presso terzi, Dig. disc. priv. - Sez. civ., VIII, Torino, 1992, 117; SALETTI, Il giudizio di accerta-mento dell’obbligo del terzo pignorato, in Riv. dir. proc. 1998, 1010; Cass., 5 settembre 2006, n. 19059), anziché utendo iuribus del debi-tore in virtù di una legittimazione straordinaria di tipo surrogato-rio (in questo secondo senso ALLORIO, in Giur. it. 1948, I, 2, 116; CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, 5a ed., III, Roma, 1956, 58 s.). Sulla questione e sulle conseguenze deri-vanti dall’accoglimento dell’una o dell’altra tesi, BALENA, Elementi di diritto processuale civile, 4a ed., III, Bari, 2007, 153 ss. L’acco-glimento della prima soluzione comportava nel previgente regime alcuni corollari: l’inammissibilità di prove per interrogatorio e per giuramento decisorio deferite dal terzo pignorato al debitore ese-cutato e viceversa (VACCARELLA, op. cit., 117; Cass., 11 maggio 1968, n. 1459; contra, Cass., 6 febbraio 1962, n. 221); l’inopponibilità al creditore di scritture prive di data certa, essendo terzo riguardo al rapporto tra debitore esecutato e debitor debitoris (Cass., 13 maggio 1979, n. 2194; LUISO, Diritto processuale civile, 4a ed., III, Milano, 2007, 69; SALETTI, op. ult. cit., 1021; Cass., 26 luglio 1967, n. 1984; Cass., 9 agosto 1961, n. 1946), salva l’applicazione dell’art. 2704,

comma 3, c.c., quanto all’accertamento della data nelle quietanze (GRAZIOSI, in CARPI, TARUFFO (a cura di), Commentario breve al codice di procedura civile, 4a ed., Padova, 2002, 1550).40 SALETTI, op. loc. cit., 11. V. già nello stesso senso, con riferi-mento al regime previgente, VACCARELLA, op. cit., 117; SALETTI, Il giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo pignorato, cit., 1005 ss.: a critica dell’opinione tradizionale che indicava l’oggetto dell’accertamento nel rapporto sostanziale tra debitore esecutato e terzo nella sua consistenza attuale, si osservava l’irrilevanza, nei confronti del creditore istante, delle vicende di quel rapporto matu-rate successivamente alla notificazione dell’atto di pignoramento, così che detto oggetto risultava necessariamente limitato alla con-sistenza del rapporto stesso alla data del pignoramento (Luiso, Diritto processuale civile, 4a ed., III, Milano, 2007, 68 ss.); consi-derata l’esigenza di rinvenire un interesse attuale all’accertamento giurisdizionale, la citata dottrina ne deduceva in via ulteriore che l’oggetto del giudizio non potesse che consistere nel diritto attuale del creditore ad assoggettare il credito del debitore verso il terzo all’esecuzione. La giurisprudenza dominante in proposito ha rigo-rosamente circoscritto il giudizio alle contestazioni circa l’esistenza e l’ammontare del debito del terzo (Cass., Sez. Unite, 18 ottobre 2002, n. 14831; Cass., 22 gennaio 1990, n. 320; Cass., Sez. Unite, 18 dicembre 1985, n. 6460, in Foro it. 1986, I, 390; FRISINA, in Giust. civ., 1983, I, 453), escludendo la trattazione di ulteriori questioni; tra queste quelle relative al diritto attuale del creditore esecutante di procedere in executivis (Cass., 29 aprile 2003, n. 6667; Cass., 25 novembre 1995, n. 12225; Cass., 17 ottobre 1992, n. 11403; Cass., 15 luglio 1972, n. 2443; Trib. Roma, 3 luglio 1997, in Giur. rom. 1998, 23), alla legittimità dell’intervento del sequestrante (Cass., 10 novembre 1979, n. 5798), alla rivalutazione monetaria del credito esecutando (Cass., 17 ottobre 1992, n. 11403; Cass., 22 gennaio 1990, n. 320), all’illegittimità dell’inizio dell’esecuzione per violazione del termine di cui all’art. 481 c.p.c. (Cass., 4 feb-braio 2004, n. 2067), alla giurisdizione (Cass., Sez. Unite, 18 otto-bre 2002, n. 14831; ma v., in senso opposto, Cass., Sez. Unite, 24 giugno 2008, n. 25037), alla validità dell’atto di pignoramento ex art. 543 c.p.c. o alla nullità della notifica della citazione nel mede-simo atto contenuta (Cass., 10 agosto 1992, n. 9452, in Giur. it. 1993, I, 1, 966; Cass., 10 novembre 1979, n. 5798), all’esistenza e validità della motivazione addotta dal terzo a giustificazione della mancata comparizione all’udienza (Cass., 8 gennaio 2004, n. 101), alla pignorabilità del bene aggredito (Cass., 15 novembre 1994, n. 9623; Cass., Sez. Unite, 18 dicembre 1987, n. 9407, in Foro it. 1988, I, 2321 e in Giur. it. 1989, I, 1, 537; Cass., 23 aprile 1987, n. 3932, in Foro it. 1988, I, 1647; in precedenza, Cass., 17 giugno 1974, n. 1782).41 SALETTI, Le novità dell’espropriazione presso terzi, cit., 11.42 Nel previgente regime era controverso se il giudizio di accerta-mento ex art. 548 c.p.c. desse luogo a litispendenza con altro even-tualmente già pendente tra debitore e terzo ed avente ad oggetto lo stesso rapporto: in senso affermativo si esprimeva la giurisprudenza (Cass., 13 gennaio 1979, n. 281), mentre in senso opposto la dottrina, che ha affermato al più la facoltà discrezionale del secondo giudice di sospendere il processo, in attesa della definizione del primo giu-dizio (VACCARELLA, op. cit., 118; SALETTI, Il giudizio di accerta-mento, cit., 1024).

della prima soluzione39, e conferma che oggetto dell’accerta-mento è il diritto del creditore di procedere ad espropriazione forzata sui beni pignorati40, come ne esclude l’efficacia di giudi-cato fuori dal processo esecutivo41.

Sembrano venire meno ulteriori quesiti legati alla pre-cedente normativa: si pensi alla possibile litispendenza tra il giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo e quello even-tualmente in corso tra quest’ultimo e il soggetto esecutato42,

pignoramento

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43 Sulla quali v. per tutti MONTANARI, Commento all’art. 548 c.p.c., in CONSOLO, LUISO (a cura di), Codice di procedura civile commentato, 3a ed., II, Milano, 2007.44 SALETTI, Le novità dell’espropriazione presso terzi, cit., 11. Sulle questioni citate nel testo, nel regime ante riforma, v. SALETTI, Il giudizio di accertamento, cit., 1014 e 1019 ss.45 Per tutti detti rilievi, v. SALETTI, Le novità dell’espropriazione presso terzi, cit., 13 s., il quale osserva come tale ipotesi ermeneu-tica risulti preferibile anche nell’interesse del creditore procedente, il quale potrà beneficiare della partecipazione in senso tecnico del terzo al giudizio anche ai fini di ottenerne il riconoscimento dell’ob-bligo nei confronti del debitore principale.46 SALETTI, o. loc. ult. cit.

alle questioni sulla competenza ed alla prosecuzione del giudizio di accertamento in caso di estinzione del processo esecutivo43: in base all’attuale formulazione, l’accertamento de quo presuppone la pendenza del processo esecutivo, non pone questioni di competenza, né di rito, ed esclude ogni forma di litispendenza con l’eventuale giudizio cognitivo in corso tra debitore e terzo, perché avente differente natura oltre che oggetto.44

Le nuove norme sollevano però nuovi dubbi ermeneutici.Il previgente art. 548, 1° comma, c.p.c. prevedeva, infatti,

che l’avvio del suddetto giudizio avvenisse su istanza di parte, mentre la nuova norma non offre alcun cenno al riguardo, limi-tandosi a disporre che «Se sulla dichiarazione sorgono contesta-zioni, il giudice dell’esecuzione le risolve».

Tale formula potrebbe suggerire un’operatività anche uffi-ciosa dell’accertamento, ma argomenti di vario ordine indu-cono a ritenere comunque opportuna e doverosa una formale iniziativa di parte, ovvero del creditore procedente o di altro creditore intervenuto munito di titolo esecutivo; in tal senso depongono il rilievo per cui l’accertamento presuppone l’e-sistenza di contestazioni sul contenuto della dichiarazione del terzo, che competono ai titolari dell’azione esecutiva, ed, inoltre, l’oggetto dell’accertamento stesso, riguardante l’esi-stenza di obblighi in capo a un soggetto - il terzo, appunto - che non è parte del processo esecutivo, ma che tale dovrà essere rispetto all’accertamento medesimo, come imposto dal diritto di difesa protetto dagli artt. 24, comma 2, e 111, comma 2, Cost. Non basterebbe dunque un’istanza informale, ma si richiede una vera e propria domanda di accertamento, rivolta al giudice dell’esecuzione ai sensi della novellata norma. Se ne deduce, in via ulteriore, l’onere della chiamata in giudizio del terzo pignorato - affinché il giudizio possa svolgersi in contrad-dittorio anche nei suoi confronti - mediante citazione, nella quale siano indicate specificamente le somme o cose che si ritengono da costui dovute al debitore principale, da notificarsi entro il termine che il giudice provvederà a fissare45.

Difettano, inoltre, di espressa previsione fattispecie in pre-cedenza specificamente normate: tra queste, il caso del terzo che compaia all’udienza rifiutandosi di rendere la dichiarazione; per tale evenienza si è proposta un’interpretazione estensiva

dei presupposti della norma46, consentendo il giudizio di accer-tamento. Ma altrettanto potrebbe forse ammettersi tutte le volte in cui il meccanismo di ficta non contestatio risulti inido-neo a conseguire una esatta quantificazione del credito o una reale identificazione del bene pignorato, in considerazione delle difettose indicazioni contenute nell’atto di pignoramento. Sembra infatti che il nuovo regime, per rivelarsi efficace, non possa prescindere da uno stretto coordinamento tra l’operati-vità del giudizio di accertamento e gli esiti del meccanismo non contestativo sancito dall’art. 548 c.p.c.

Questi ultimi rilievi peraltro ne suggeriscono uno ulte-riore. La nuova disciplina, infatti, nell’apprezzabile intento di dare attuazione anche nell’esecuzione forzata al principio della ragionevole durata del processo, avvalendosi di schemi proce-dimentali già recentemente sperimentati, introduce anche pro-fili di incertezza, connessi in particolare all’utilizzo di meccani-smi presuntivi puri, la cui constatazione non può che suscitare qualche perplessità, quanto meno sotto l’aspetto pratico, nei riguardi della riformata disciplina.

L’effetto ulteriore è quello di cercare applicazioni corret-tive od estensive, le quali tuttavia, se utili a colmare vere o presunte inefficienze del nuovo sistema, rischiano di incremen-tare, anche sotto il profilo normativo, l’incertezza complessiva sollevata delle nuove norme.

Emanuela De Roma

pignoramento

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Avvocato - Procedimento disciplinare - Procedimento dinanzi al C.d.O. - Principio invariabilità collegio giudi-cante - Applicabilità - Esclusione Avvocato - Procedi-mento disciplinare - Sospensione cautelare - Natura - Presupposti

Il procedimento dinanzi al C.O.A. territoriale, a differenza di quello che si svolge dinanzi al C.N.F., non ha natura giuri-sdizionale, bensì amministrativa. Consegue che in quella sede non possono trasferirsi tutte le regole dettate dal codice di rito e, segnatamente, quelle relative alla nullità degli atti del processo in relazione alla costituzione del giudice ex art. 158 c.p.c., non potendosi appunto qualificare “giudice” il compo-nente del COA territoriale.

Va pertanto riaffermato il punto più volte enunciato prin-cipio secondo cui il mutamento della composizione collegiale nel corso del procedimento disciplinare dinanzi al C.d.O. non comporta l’invalidità della decisione resa dall’organo discipli-nare, atteso che il principio della invariabilità del collegio giudi-cante è posto esclusivamente in riferimento ai procedimenti di carattere giurisdizionale (Nella specie, è stata rigettata poiché fondata l’eccezione di nullità della decisione impugnata per asserita illegale composizione del Collegio a seguito del volon-tario allontanamen-to di un suo componente).

In linea generale, il potere cautelare esercitato dal C.d.O. ai fini dell’adozione del provvedimento di sospensione è discrezionale e non sindacabile, essendo solo ad esso affi-data dall’ordinamento la valutazione della lesione al decoro e alla dignità della professione e quella dell’opportunità dell’a-dozione della misura cautelare, mentre l’esame del C.N.F. è limitato al controllo di legittimità, restando precluso ogni giudizio rispetto all’opportunità dell’adozione della misura sospensiva. La decisione del C.O.A. di applicare la misura cau-telare della sospensione, la quale non ha natura di sanzione disciplinare ma di provvedimento amministrativo a carattere provvisorio, si rivela immune da censure quando, come nella specie, venga disposta dopo una ponderata e motivata deci-sione discrezionale del Consiglio territoriale, che, prescin-dendo dalla fondatezza o meno delle imputazioni mosse al professionista, abbia tenuto conto della gravità delle stesse e della loro capacità di incidere sulla dignità e decoro della professione. (Nel caso di specie, la sospensione cautelare ha trovato il naturale presupposto nella perquisizione e seque-stro penale effettuati nello studio legale del professionista, ravvisando nella vicenda la ricorrenza deil presupposto del c.d. strepitus fori, inteso quale evidente turbamento e cla-more suscitati nell’opinione pubblica con inevitabile riflesso sull’intera classe forense, per effetto dell’acquisita la prova documentale integrata della massiccia diffusione mediatica

della notizia). (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Vibo Valentia, 19 luglio 2010).

Cons. Naz. Forense 21-02-2011, n. 8 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. DE GIORGI - P.M. FEDELI

(conf.) - avv. D.S.

Avvocato - Procedimento disciplinare - Decisione del CNF - Ricorso per revocazione - Presupposti

In difetto di un comportamento in grado di spiegare influenza decisiva sull’esito del giudizio, va dichiarata inam-missibile l’impugnazione per revocazione della decisione del C.N.F. proposta ai sensi dell’art. 395, n.1, c.p.c. Il “dolo pro-cessuale” revocatorio, invero, risulta integrato non già per il tramite della semplice violazione dei doveri di lealtà da parte del soggetto agente, occorrendo invece un quid pluris con-sistente nell’aver posto in essere dei veri e propri artifici e raggiri tali da pregiudicare, ovvero sviare, la difesa avversaria facendo apparire situazioni diverse da quelle reali, inibendo così al giudicante la corretta verità processuale.

Il profilo che giustifica la domanda di revocazione presen-tata ai sensi del n. 3 dell’art. 395 c.p.c. non consiste nella sola impossibilità di produrre documenti che si assumono decisivi, ma richiede che l’impossibilità non sia derivata da colpa del soccombente. Non può ritenersi, dunque, integrata la causa di revocazione, con conseguente inammissibilità del ricorso, ove risulti che, attraverso una semplice richiesta, ben poteva ottenersi il documento. (Dichiara inammissibile il ricorso per revocazione decisione C.N.F., 15 marzo 2008).

Cons. Naz. Forense 21-02-2011, n. 13 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. MORLINO - P.M. IAN-

NELLI (conf.) - avv. P.V.

Avvocato - Norme deontologiche - Doveri di probità, dignità e decoro - Fatti non riguardanti l’attività forense - Obbligazioni assunte nei confronti di terzi - Mancato adempimento - Illecito deontologico - Sussistenza - Notorietà dei fatti - Irrilevanza. Avvocato - Norme deon-tologiche - Rapporti con la parte assistita - Inadempi-mento al mandato - Mancata informazione - Omessa restituzione di documenti - Gestione fiduciaria di somme

La norma dell’art. 5 del codice deontologico riguarda quelle attività che, pur realizzate nella dimensione privata, siano astrattamente idonee a ledere i valori presidiati. Il fatto, pertanto, che un avvocato non adempia alle obbligazioni tito-late, giungendo a subire sentenze, atti di precetto e richie-ste di pignoramento, costituisce illecito disciplinare soprat-tutto se gli episodi si ripetono e raggiungono la notorietà. La violazione deontologica, peraltro, sussiste anche a prescin-

Giurisprudenza disciplinare

giurisprudenza

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dere dalla notorietà dei fatti, poichè in ogni caso l’immagine dell’avvocato risulta compromessa agli occhi dei creditori e degli operatori del diritto (giudici e ufficiali giudiziari).

Per costante giurisprudenza del C.N.F., commette un ille-cito deontologico l’avvocato che accetti il mandato e ometta di svolgerlo, dando false informazioni ovvero omettendo di fornirle.

Nel caso di gestione di denaro dei clienti, il professio-nista, a norma del codice deontologico, è obbligato a chie-dere istruzioni scritte e ad attenervisi, al fine di evitare che si verifichino situazioni ambigue e poco trasparenti che nuoc-ciono all’immagine dell’intera avvocatura. Qualora, peral-tro, nella determinazione della sanzione della cancellazione disciplinare da parte del C.O.A. sia risultata decisiva la cir-costanza del fatto appropriativo e successivamente ad essa tale appropriazione sia stata smentita dalla sentenza penale di assoluzione per insussistenza del fatto, la sanzione deve essere rideterminata nella misura meno grave della sospen-sione dall’esercizio della professione per la durata di un anno. (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Bolzano, 31 luglio 2007).

Cons. Naz. Forense 25-02-2011, n. 15 Pres. ALPA - Rel. FLORIO - P.M. IANNELLI (non

conf.) - avv. L.T.

Avvocato - Norme deontologiche - Sanzione - Radia-zione ex art. 41 L.P. - Presupposti - Compromissione dignità “classe forense” - Nozione

Al fine di ritenere la grave condotta dell’incolpato idonea a compromettere non solo la reputazione del professionista ma altresì la dignità della classe forense in vista dell’irroga-zione della sanzione della radiazione disciplinare, la locuzione “classe forense”, evincibile dall’art. 41 L.P., va intesa non solo in termini assolutamente generali ma anche nei termini più ristretti della classe forense locale. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Arezzo, 27 novembre 2009).

Cons. Naz. Forense 16-03-2011, n. 27 Pres. ALPA - Rel. MORLINO - P.M. GALATI (conf.)

- avv. G.B.

Avvocato - Norme deontologiche - Dovere di indi-pendenza - Intermediazione nel rapporto con il cliente - Violazione - Svolgimento dell’attività professionale in forma societaria - Società di fatto - Elementi oggettivi e soggettivi - Sussistenza - Avvocato - Norme deonto-logiche - Divieto di patto di quota lite - Abrogazione - Principio abolitio criminis - Applicabilità alle sanzioni disciplinari - Natura amministrativa - Esclusione - Prin-cipio tempus regit actum - Illecito deontologico – Sus-sistenza - Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con il cliente - Azione giudiziale per il pagamento delle

competenze professionali - Divieto ex art. 49 c.d.f. - Applicabilità .

Viene meno al dovere di indipendenza, impostogli dall’art. 10 del codice deontologico forense, l’avvocato che riceva i mandati professionali non direttamente dal cliente interes-sato, ma attraverso società di consulenza, la quale mantiene il rapporto con tale cliente ricevendo l’incarico di agire giudi-zialmente e ricevendo i relativi compensi.

Costituiscono elementi di carattere oggettivo e sogget-tivo, idonei a configurare l’esistenza di una società di fatto tra l’avvocato ed una società di consulenza e, quindi, il non consentito svolgi-mento dell’attività professionale in forma societaria, la condivisione dei locali, l’utilizzo promiscuo di mobili ed attrezzature, l’accostamento di targhe sulla pub-blica via del tutto identiche come materiale forma e caratteri, l’espressa indicazione della società di consulenza come “part-ner” nel sito web del professionista, nonché le modalità con-crete di svolgimento del rapporto professionale con il cliente, sempre intermediato dalla società consulente, la quale riceve la remunerazione dell’attività legale per poi girare i relativi importi al professionista. (Nelle specie, il rapporto professio-nale con il comune cliente era costantemente intermediato, sia pure fittiziamente, dalla società di consulenza, che appa-rentemente riceveva in prima persona il mandato dal cliente stesso per il recupero dei crediti di questo verso terzi e per-cepiva poi effettivamente i compensi per l’attività professio-nale medesima svolta in concreto dall’avvocato ricorrente, il quale peraltro tali compensi provvedeva successivamente a rifatturare).

L’abrogazione nel tempo di una sanzione disciplinare non fa venir meno retroattivamente la relativa responsabi-lità: il principio riconosciuto dall’art. 25 Cost. per le sanzioni penali non trova applicazione alle sanzioni disciplinari per la diversa natura amministrativa, e non penale, delle stesse. Mancando la possibilità di applicare analogicamente i principi penalistici per difetto dell’elemento dell’”eadem ratio”, nel campo deontologico vige invece il principio del “tempus regit actum”, sicché la stipulazione di un patto di quota lite prima dell’entrata in vigore del decreto Bersani (d.l. n. 223/06, art. 2 co. 2-bis) rimane invalida ed inefficace fino all’entrata in vigore del decreto stesso.

L’art 49 del codice deontologico forense si applica anche nei confronti dell’avvocato che agisca in giudizio contro il proprio cliente per il pagamento delle proprie prestazioni professionali nel caso previsto dall’art. 46 dello stesso codice. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Torino, 9 otto-bre 2008).

Cons. Naz. Forense 16-03-2011, n. 31 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. BULGARELLI - P.M.

FEDELI (conf.) - avv. A.A.M.

giurisprudenza

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Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la parte assistita - Divieto di conflitto di interessi - Art. 37 c.d.f. - Ratio - Fattispecie

Affinché possa dirsi rispettato il canone deontologico posto dall’art. 37 c.d.f., non solo deve essere chiara la terzietà dell’avvocato, ma è altresì necessario che in alcun modo pos-sano esservi situazioni o atteggiamenti tali da far intendere diversamente. La suddetta norma, invero, tutela la condizione astratta di imparzialità e di indipendenza dell’avvocato - e quindi anche la sola apparenza del conflitto - per il signifi-cato anche sociale che essa incorpora e trasmette alla col-lettività, alla luce dell’id quod plerumque accidit, sulla scorta di un giudizio convenzionale parametrato sul comportamento dell’uomo medio, avuto riguardo a tutte le circostanze e peculiarità del caso concreto, tra cui la natura del precedente e successivo incarico.

La ratio sottesa all’art. 37 c.d.f. è diretta ad assicurare che il mandato professionale debba essere svolto in assoluta libertà ed indipendenza da ogni vincolo e, nel contempo, a garantire che il rapporto fiduciario che deve sussistere tra il cliente e l’avvocato, con il correlativo vincolo di riservatezza, che concerne le notizie apprese dal cliente, non possa essere in alcun modo incrinato, o posto in dubbio, dai successivi incarichi professionali assunti dal professionista.

Affinché la condotta dell’avvocato resti immune da cen-sure deontologiche, non è sufficiente che il professionista affermi, dichiari o comunichi alle parti la sussistenza della situazione di incompatibilità per essere stato avvocato di entrambe, ma occorre altresì che egli ponga in essere tutte le cautele necessarie perché queste dichiarazioni non solo siano veritiere, ma appaiano in concreto tali da far apparire l’assoluta terzietà dell’avvocato al di sopra di ogni dubbio o ipotesi. (Nella specie, alla dichiarazione formale con la quale il professionista comunicava ai due suoi clienti in contrappo-sizione che non avrebbe tutelato alcuno dei due, era seguito un comportamento che aveva dato luogo a situazioni di fatto, concludenti ed oggettive, in evidente contrasto con la posi-zione solo formalmente assunta). (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Casale Monferrato, 25 settembre 2008).

Cons. Naz. Forense 20-04-2011, n. 48 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. BASSU - P.M. FEDELI

(non conf.) - avv. A.C.

Avvocato - Procedimento disciplinare - Decisione C.d.O. - Notificazione - Termine ex art. 50 co.1 L.P. - Natura ordinatoria - Violazione - Nullità decisione - Esclusione

Avvocato - Norme deontologiche - Pubblicità attività professionale - Limiti - Doveri dignità e decoro - Fatti-specie

Il termine di quindici giorni indicato dall’art. 50, co. 1, r.d.l. n. 1578/1933 per la notifica all’interessato della decisione del C.d.O. ha natura ordinatoria e non perentoria, sicché il man-cato rispetto di esso non determina né la nullità del provve-dimento adottato né altra ipotesi di vizio del procedimento.

L’art. 2 del d.l. 223/06, convertito in l. n. 248/06, abrogando le disposizioni che non consentivano la cd. pubblicità infor-mativa delle attività professionali, non ha affatto abrogato l’art. 38 c. 1, r.d.l. n. 1578/33, il quale punisce comportamenti non conformi alla dignità ed al decoro professionale. Doven-dosi pertanto interpretare alla luce di tale disposizione le norme di cui agli artt. 17 e 17-bis del codice deontologico, la pubblicità informativa deve essere consentita entro i limiti fissati dal c.d.f. e comunque svolta con modalità che non siano lesive della dignità e del decoro professionale. Viola le suddette prescrizioni la pubblicità mediante la quale il profes-sionista, al fine esclusivo di condizionare la scelta da parte di potenziali clienti e senza adeguati requisiti informativi, offra ad essi consulenze medico-legali e prestazioni gratuite in caso di soccombenza, con rinuncia ad anticipi e prospetta-zione di vantaggi, integrando un tale messaggio una forma di attrazione di clientela operata con mezzi suggestivi e propri di una competitività sui prezzi incompatibili con la dignità e il decoro che debbono caratterizzare ogni pubblica manife-stazione dell’avvocato e, soprattutto, quelle manifestazioni dirette ad una potenziale clientela, come tale sanzionabile in relazione al principio enunciato dal citato art. 38 l.p. (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Napoli, 7 ottobre 2008).

Cons. Naz. Forense 21-04-2011, n. 56 Pres. ALPA - Rel. MARIANI MARINI - P.M. IAN-

NELLI (conf.) - avv. G.O.

Avvocato - Norme deontologiche - Doveri di probità, dignità e decoro - Doveri di lealtà e correttezza - Fasci-colo d’ufficio - Inserimento di atto privo di data e timbro di deposito - Illecito deontologico - Avvocato - Norme deontologiche - Illecito disciplina-re - Elemento psicolo-gico - Suità della condotta - Sufficienza

Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante il professionista che inserisca nel fascicolo di ufficio un atto (comparsa conclusionale) sprovvisto di data e di utile timbro di deposito, ancorché non ufficialmente depositato, pur essendo a conoscenza della invalidità della produzione.

Al fine di integrare l’illecito disciplinare sotto il profilo soggettivo è sufficiente l’elemento della suità della condotta, inteso come volontà consapevole dell’atto che si compie. Il dolo, invece, denotando una più intensa volontà di trasgres-sione del comando deontologico, rileva nella determinazione della misura della sanzione. Invero, anche la negligenza del comportamento è motivo di responsabilità, proprio perché

giurisprudenza

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essa dimostra che non si sono adottati tutti gli accorgimenti necessari e, in ogni caso, quelli richiesti nel caso concreto. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Tivoli, 30 gen-naio 2009).

Cons. Naz. Forense 21-04-2011, n. 66 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. BORSACCHI - P.M. CIC-

COLO (conf.) - avv. R.K.H.

Avvocato - Norme deontologiche - Art. 20 c.d.f. - Divieto di uso di espressioni sconve-nienti od offensive - Critica della decisione impugnata - Limiti

In tema di espressioni sconvenienti ed offensive, la circo-stanza che le frasi contestate non individuino un destinatario persona fisica, poiché rivolte all’iter processuale o alla sen-tenza, non giustifica la violazione della norma deontologica, poiché il difensore deve sempre attenersi a comportamenti improntati a correttezza e lealtà nel rispetto del giudicante, inteso quest’ultimo non solo come persona ma anche come funzione.

Benché l’avvocato possa e debba utilizzare fermezza e toni accesi nel sostenere la difesa della parte assistita o nel criti-care e contrastare le decisioni impugnate, tale potere/dovere trova un limite nei doveri di probità e lealtà, i quali non gli consentono di trascendere in comportamenti non improntati a correttezza e prudenza, se non anche offensivi, che ledono la dignità della professione. La libertà che viene riconosciuta alla difesa della parte non può mai tradursi in una licenza ad utiliz-zare forme espressive sconvenienti e offensive nella dialettica processuale, con le altre parti ed il giudice, ma deve invece rispettare i vincoli imposti dai doveri di correttezza e decoro. (Nella specie, l’atto di appello redatto dagli incolpati sotten-deva, neppure troppo velatamente, l’imparzialità del giudice di primo grado, in un contesto “aggressivo” nel quale preva-leva una ingiustificata vis polemica inutile ai fini di una efficace difesa). (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Vicenza, 5 novembre 2008).

Cons. Naz. Forense 21-04-2011, n. 74 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. PISANO - P.M. FEDELI

(conf.) - avv.ti E.D.V. e P.B.C.

Avvocato - Norme deontologiche - Dovere di adem-pimento previdenziale e fiscale - Mancato invio del Modello 5 - Sospensione a tempo indeterminato - Natura disciplinare - Esclusione - Prescrizione - Decor-renza - Dies a quo

L’obbligo di comunicazione alla Cassa del proprio red-dito professionale ha carattere ineludibile e la sospensione a tempo indeterminato che i Consigli dell’Ordine comminano ex art. 17, co. 5, Legge n. 576/1980 non ha natura di sanzione disciplinare.

La prescrizione, in caso di tema mancato adempimento

degli obblighi previdenziali, inizia a decorrere dal momento in cui la Cassa è posta in grado di verificare la debenza e l’am-montare dei contributi, ossia dal momento della trasmissione del Modello 5. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Pescara, 8 luglio 2010).

Cons. Naz. Forense 01-06-2011, n. 79 Pres. ALPA - Rel. MERLI - P.M. IANNELLI (conf.)

- avv. B.C.

Avvocato - Tenuta albi - Praticante avvocato abili-tato al patrocinio - Intervenuta scadenza del termine - Cancellazione Elenco praticanti abilitati - Manteni-mento iscrizione Registro praticanti - Legittimità - Avvo-cato - Tenuta albi - Procedimento penale o disciplinare a carico del professionista - Richiesta del professionista di cancellazione dall’albo - Inammissibilità

Il decorso del termine previsto dall’art. 8 del R.D.L. n. 1578/33, con la conseguente cessazione dell’abilitazione prov-visoria, non determina il venir meno dello status di praticante e dell’interesse dello stesso a rimanere iscritto nel relativo regi-stro speciale per proseguire nello svolgimento della pratica, pur restando privo dello jus postulandi. Invero, conformemente ai principi più volte affermati, il praticante avvocato non abilitato può legittimamente mantenere l’iscrizione nel relativo Regi-stro Speciale senza limitazione temporale, sino a quando non abbia superato l’esame per l’abilitazione professionale e senza la necessità di proseguire nella pratica secondo le modalità pre-scritte dalla norma vigente.

L’art.37, ottavo comma, del R.D.L. 27 novembre 1933 n.1578 (richiamato dal comma 2 dell’art. 14, R.D. n.37/1934) pone un divieto di pronunciare la cancellazione dall’albo degli avvocati quando sia in corso, a carico dell’avvocato, un pro-cedimento penale o disciplinare; tale divieto ha portata gene-rale ed opera pertanto anche quando sia l’iscritto a rinun-ciare all’iscrizione. (Rigetta il ricorso avverso delibera C.d.O. di Bassano Del Grappa, 10 febbraio 2011).

Cons. Naz. Forense 30-12-2011, n. 222 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. BORSACCHI - P.M.

IANNELLI (conf.) - avv.ti A.P.P.L. e G.T. Avvocato - Procedimento disciplinare - Rapporti

tra procedimento disciplinare e penale - Contestuale pendenza procedimento penale - Sospensione proce-dimento disciplinare - Presupposti - Identità dei fatti - Oggettiva e Soggettiva - Necessità

La sospensione del procedimento disciplinare in pen-denza di procedimento penale a carico dell’incolpato si pone come necessaria ogniqualvolta si ravvisi identità dei fatti in base ai quali è elevata l’imputazione da reato e l’incolpazione per violazione deontologica, sia sotto il profilo dell’elemento soggettivo sia sotto quello oggettivo.

giurisprudenza

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La sospensione obbligatoria ad effetti interruttivi perma-nenti del procedimento disciplinare deve ritenersi sussistente allorquando ciò risulti imposto da un’espressa norma di legge o la decisione penale si presenti come presupposto giuridico della emananda decisione disciplinare. Quest’ultima ipotesi si configura, per l’art. 653 c.p.p., sia con la sentenza irrevo-cabile di condanna sia con quella d’assoluzione, entrambe avente efficacia di giudicato quanto all’accertamento dei fatti nel giudizio disciplinare. (Nella specie, il CNF, pur rile-vando l’eccessiva durata della pendenza del procedimento disciplinare, le cui reiterate sospensioni di per sé rivestono carattere afflittivo, non ha rinvenuto nella normativa di riferi-mento strumenti utili a porvi riparo, non potendo estendere il proprio sindacato sul provvedimento di sospensione al di là del giudizio sulla legittimità della decisione finale assunta dal COA, e considerato, peraltro, che in materia disciplinare l’impugna-zione è consentita solo avverso le decisioni che concludono un procedimento disciplinare). (Dichiara inam-missibile il ricorso avverso decisione C.d.O. di Catania, 16 novembre 2009).

Cons. Naz. Forense 08-04-2011, n. 39 Pres. ALPA - Rel. ALLORIO - P.M. GALATI (conf.)

- avv. G.A.M. Avvocato - Procedimento disciplinare - Prescrizione

- Violazione deontologica di carattere permanente - Decorrenza - Cessazione della condotta - Fattispecie - Omessa presentazione del modello 5 - Dies a quo - Dif-fida ad adempiere intimata dalla Cassa

In caso di omessa presentazione del “modello 5”, la pre-scrizione decorre, ai fini disciplinari, dalla diffida ad adempiere intimata all’interessato dalla Cassa di Previdenza.

Secondo la giurisprudenza del CNF, la prescrizione dell’a-zione disciplinare, nell’ipotesi di condotta dell’incolpato per-durante nel tempo, e quindi permanente, comincia a decor-rere non già dalla data di realizzazione del fatto illecito, bensì dalla data di cessazione della condotta. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Pescara, 13 maggio 2010).

Cons. Naz. Forense 21-04-2011, n. 59 Pres. ALPA - Rel. SALAZAR - P.M. GALATI (conf.)

- avv. B.C. Avvocato - Procedimento disciplinare - Decisione

del C.d.O. - Decisione che dispone l’apertura del pro-cedimento - Impugnazione - Inammissibilità - Natura di “decisione” ex art. 50, r.d.l. n. 1578/1933 - Esclusione - Applicabilità principi del giusto processo ex art. 111 Cost. - Esclusione - Natura amministrativa del procedi-mento - Conseguenze - Esigenze buon andamento ed imparziali-tà ex art. 97 Cost. - Regime di impugnabilità dei provvedimenti amministrativi - Applicabilità

È inammissibile il ricorso proposto avverso la delibera con la quale il C.d.O. dispone l’apertura del procedimento disciplinare, non potendo essere condivisa, in virtù dell’argo-mento letterale e sistematico, una diversa e più ampia inter-pretazione dell’art. 50 del r.d.l. n. 1578/33 (Cass., Sez. un., n. 29294/2008), la cui generica disposizione consentirebbe di ritenere “decisioni”, e come tali suscettibili di impugnativa - sia pure limitata entro un mero controllo estrinseco di lega-lità formale -, le deliberazioni di apertura del procedimento, atteso che il legislatore, con tale termine, ha senz’altro inteso definire il provvedimento decisorio conclusivo del procedi-mento disciplinare che si svolge nei confronti degli avvocati, e non anche gli atti con cui è disposta l’apertura del proce-dimento disciplinare. A suffragio di una diversa esegesi non può ritenersi rilevante né, per un verso, la circostanza che legge professionale preveda l’intervento del C.N.F. anche prima della definizione del procedimento davanti al Consiglio locale come avviene per le decisioni in materia di ricusazione o astensione dei componenti del Consiglio dell’ordine (art. 53, R.D. n. 37/34) o per la risoluzione dei conflitti di com-petenza insorti fra i Consigli locali - in quanto le richiamate norme in tema di ricusazione sono superate ancorché non esplicitamente abrogate dalle disposizioni previste dall’art. 2 d.lgs. n. 597/47, mentre la pronuncia sui conflitti di com-petenza risolve comunque una fase incidentale del procedi-mento disciplinare - né, per altro verso, il richiamo ai prin-cipi del giusto processo sanciti dall’art. 111 Cost.. E ciò in virtù della condivisa considerazione secondo cui i C.d.O., quando esercitano la funzione disciplinare, svolgono funzione amministrativa, e non giurisdizionale, a quest’ultima soltanto dovendo conseguentemente essere rivolto il predetto para-metro costituzionale ed alla prima invece più pertinente-mente riferendosi, quale pubblica funzione, la norma di cui all’art. 97, co. 1, Cost. con le connesse esigenze di buon anda-mento ed imparzialità, esigenze riferibili al corretto esercizio del potere disciplinare e con le quali il sindacato sulle inizia-tive dei C.d.O., esercitato prima che il procedimento abbia avuto la sua conclusione, si pone in contrasto.

Atteso che il procedimento disciplinare di natura ammi-nistrativa assolve una funzione sanzionatoria correlata ad interessi pubblici e che il Consiglio dell’Ordine, nell’eserci-zio della funzione disciplinare, adempie ad una pubblica fun-zione, la norma costituzionale ai cui parametri va riferito il procedimen-to disciplinare è quella prevista dall’art. 97, co. 1, in ossequio alla quale vanno assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Ne consegue che il sinda-cato sulle iniziative disciplinari dei Consigli dell’ordine, eserci-tato per il tramite dell’impugnativa della delibera di apertura prima che il procedimento abbia avuto la sua conclusione, non risponde ad esigenze di buon andamento della funzione disciplinare, favorendo non già e non tanto il corretto eser-

giurisprudenza

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cizio del potere disciplinare, quanto piuttosto la possibilità, in tal modo concessa a chi vi sia assoggettato, di allontanare il più possibile la sanzione e di rallentare se non di impe-dire l’esercizio della funzione disciplinare, con l’espediente di ricorrere, sin dalla fase iniziale del procedimento, al Consiglio nazionale forense e poi alla Corte di Cassazione, riducendo così l’efficacia della possibile irrogazione di una sanzione cor-relata alla gravità del fatto commesso.

Il procedimento disciplinare di primo grado ha natura amministrativa, sicché l’impugnazione della delibera di aper-tura di procedimento disciplinare si inscrive nel sistema di impugnabilità dei provvedimenti amministrativi, per il quale i vizi del procedimento non sono lesivi dell’interesse legittimo o del diritto soggettivo del professionista, se non quando si traducano in vizi del provvedimento conclusivo del proce-dimento amministrativo. (Dichiara inammissibile il ricorso avverso decisione C.d.O. di Verona, 12 aprile 2010).

Cons. Naz. Forense 21-04-2011, n. 63 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. MASCHERIN - P.M. CIC-

COLO (conf.) - avv. A.G.

Avvocato - Norme deontologiche - Informazione sull’attività professionale - Limiti - Captazione di clien-tela - Predeterminazione dei costi - Proporzionalità e adeguatezza - Fattispecie

Configura impropria attività di captazione della clientela, come tale disciplinarmente rilevante, il messaggio pubblicita-rio il cui contenuto si presenti equivoco, suggestivo ed ecce-dente il carattere informativo consentito. (Nel caso di specie, le espressioni “L’angolo dei diritti” e “negozio”, utilizzate nel messaggio pubblicitario, sono state ritenute di natura pretta-mente commerciale, in quanto volte a persuadere il possibile cliente attraverso un motto pieno di capacità evocativa emo-zionale, eccedendo in tal modo l’ambito informativo razio-nale previsto dalla norma deontologica).

Ancorché il Codice deontologico forense, lungi dal con-sentire una pubblicità indiscriminata, permetta la diffusione di specifiche informazioni sull’attività professionale al fine di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assi-stenza nella libertà di fissazione di compenso e della modalità del suo calcolo, tuttavia la peculiarità e la specificità della pro-fessione forense giustificano, conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le limitazioni derivanti dalla necessità di proteggere i beni della dignità e del decoro della professione, ed una tale verifica è dall’ordinamento affidata al potere-dovere dell’ordine professionale.

La proposta commerciale che offra servizi professionali a costi predeterminati molto bassi lede il decoro della profes-sione legale, a prescindere dalla corrispondenza con i minimi tariffari, dovendo piuttosto considerarsi l’adeguatezza del

compenso al valore ed all’importanza della singola pratica trattata in quanto proporzionato all’attività svolta. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Varese, 15 dicembre 2009).

Cons. Naz. Forense 7-07-2011, n. 93 Pres. ALPA - Rel. PERFETTI - P.M. CICCOLO

(conf.) - avv.ti D.P. e E.S. Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la

controparte - Pluralità di iniziative inutilmente vessato-rie - Illecito deontologico - Art. 49 c.d. - Nozione “inizia-tive giudiziali” - Interpretazione

Avvocato - Norme deontologiche - Violazione disci-plinare - Configurabilità - Necessa-ria espressa previ-sione di una norma di diritto - Esclusione - Esercizio del diritto di difesa - Contestazione del fatto - Sufficienza

Conformemente al costante orientamento del C.N.F., affinché l’interessato possa esplicare con pienezza il suo diritto di difesa è solo necessario che sia contestato il fatto, e non anche la norma che si assume violata.

Non è sempre necessaria l’esistenza di una norma di diritto al fine di poter configurare una violazione disciplinare (tranne i casi in cui quest’ultima derivi dalla prima com’è per il man-cato invio delle comunicazioni alla Cassa di Previdenza o per gli errori commessi in sede di investigazioni difensive), quando quest’ultima derivi dalla violazione di norme deontologiche.

L’art. 49 c.d.f., in ossequio al quale il professionista non può aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte quando ciò non cor-risponda ad effettive ragioni della parte assistita, va interpre-tato nel senso che l’espressione “iniziative giudiziali” si rife-risce a tutti gli atti aventi carattere propedeutico al giudizio esecutivo suscettibili di aggravare la posizione debitoria della controparte e, quindi, anche agli atti di precetto, benché non costituenti atti di carattere processuale. Pone pertanto in essere un illecito deontologico l’avvocato che, mediante l’in-timazione di venti precetti diversi a ciascuno dei venti con-domini sull’asserito presupposto del vincolo solidale di con-debito, aggravi la posizione dei singoli determinando la lievi-tazione di voci tariffarie e di spese non consone alla natura dell’atto, all’evidente unico scopo di conseguire un ingiusto profitto e di aggravare, in maniera palesemente infondata, la situazione debitoria della controparte. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Larino, 9 dicembre 2008).

Cons. Naz. Forense 13-07-2011, n. 98 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. PERFETTI - P.M. GALATI

(conf.) - avv. T.C. Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la

parte assistita - Tardiva restituzione di documenti - Avvo-cato - Norme deontologiche - Rapporti con la parte assistita - Art. 51 c.d.f. - Interpretazione - Divieto di uti-

giurisprudenza

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lizzare notizie acquisite in ragione del rapporto profes-sionale esaurito

Sussiste violazione dell’art. 42 c.d.f., secondo il quale l’av-vocato è tenuto a restituire senza ritardo alla parte assistita la documentazione ricevuta per l’espletamento del mandato ogni qualvolta il cliente ne faccia richiesta, laddove risulti accertato che il professionista abbia provveduto a riconse-gnare la documentazione soltanto a seguito della formale dif-fida impartita dall’Ordine e, con colpevole ritardo, dopo ben oltre tre mesi dalla rinunzia ai mandati, a nulla rilevando il fatto che il comportamento tenuto dal ricorrente non abbia di fatto danneggiato i clienti, non incorsi in decadenze o pre-clusioni di sorta.

La corretta lettura del canone deontologico di cui all’art. 51 c.d.f. induce a ritenere che il divieto di utilizzazione delle notizie acquisite in ragione del mandato conferito all’avvo-cato costituisce una circostanza ulteriore rispetto al divieto di assunzione di incarichi contro un ex cliente nel biennio dalla cessazione dell’incarico. Ne consegue che l’avvocato non può assumere incarichi contro un ex cliente se non decorso un biennio dalla cessazione del precedente mandato e che egli, in ogni caso, non può mai utilizzare notizie acquisite nell’ambito dell’espletamento dell’incarico esaurito. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Vicenza, 16 luglio 2008).

Cons. Naz. Forense 18-07-2011, n. 104 Pres. f.f. CARDONE - Rel. DEL PAGGIO - P.M.

MARTONE (conf.) - avv. A.N.

Avvocato - Norme deontologiche - Illecito discipli-nare - Imputabilità - Elemento soggettivo - Consapevo-lezza illegittimità condotta - Irrilevanza - Volontarietà dell’azione - Sufficienza - Avvocato - Norme deontolo-giche - Rapporti con la parte assistita - Dovere di infor-mazione veritiera e corretta - Misura - Dovere di riser-vatezza - Formale cessazione dell’incarico - Irrilevanza

Ai fini della imputabilità dell’infrazione disciplinare non è necessaria la consapevolezza dell’illegittimità dell’azione, dolo generico e specifico, essendo sufficiente la volonta-rietà con la quale l’atto deontologicamente scorretto è stato compiuto.

L’art. 40 c.d.f., nel disciplinare gli obblighi (o la facoltà) di informazione al cliente, impone in ogni caso una infor-mazione corretta e veritiera, a prescindere dalla virtuale innocuità delle false comunicazioni. Un rapporto fiduciario quale è quello che lega l’avvocato al suo cliente (art. 35 c.d.f.) non può infatti tollerare alcun comportamento che violi un aspetto essenziale della “fiducia”, consistente nella comple-tezza e verità delle informazioni destinate all’assistito, mentre la maggiore o la minore gravità di siffatte violazioni può inci-dere soltanto sulla misura della sanzione applicabile (nella specie, quella dell’ avvertimento).

Non incide sui generali doveri di riservatezza nei con-fronti dei clienti la circostanza della formale cessazione del mandato. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Torino, 5 febbraio 2009).

Cons. Naz. Forense 18-07-2011, n. 112 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. FERINA - P.M. FEDELI

(conf.) - avv. G.B. Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con i

colleghi - Doveri di correttezza, probità è lealtà - Paga-mento delle competenze del collega avversario - Con-tegno indebitamente ostruzionistico - Illecito deontolo-gico - Sanzione - Censura - Adeguatezza

È palesemente privo di giustificazione, nonché gra-vemente contrario ai principi di lealtà e di colleganza, il comportamento dell’avvocato che in modo arbitrario ed ostruzionistico frapponga ostacoli al pagamento da parte di una assistita, precedentemente cliente dell’esponente, di quanto dovuto al precedente difensore, pur se determinato nell’ammontare sulla base di un provvedimento giudiziale, già corrisposto alla cliente dalla controparte soccombente. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Bologna, 10 dicembre 2008).

Cons. Naz. Forense 22-07-2011, n. 124 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. SALAZAR - P.M. GALATI

(conf.) - avv. M.R. Avvocato - Norme deontologiche - Dovere di riserva-

tezza - Rapporti con la stampa - Divulgazione di notizia relative al mandato - Illecito deontologico

In materia di corretto rapporto tra il professionista e gli organi di stampa, pone in essere un comportamento con-trario agli obblighi imposti dalla normativa deontologica il professionista che intrattenga con la stampa una crescente rapporto, consentendo la divulgazione di notizie relative al mandato difensivo conferito dal cliente

La deontologia forense ha uno dei suoi pilastri fonda-mentali nella tutela della riservatezza del rapporto avvocato - cliente, che impone al primo il vincolo di tenere riservata la stessa esistenza del rapporto, con particolare riguardo alla trattazione/esternazione dell’oggetto del mandato difensivo. Il rispetto di tale vincolo da parte dell’avvocato costituisce condizione imprescindibile per la realizzazione del diritto costituzionale del cittadino a difendersi, tanto più quando, come nella specie, la vicenda resa nota alla stampa, già di per se particolarmente delicata, veda coinvolta una persona minore. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Porde-none, 15 aprile 2009).

Cons. Naz. Forense 30-09-2011, n. 150 Pres. ALPA - Rel. MORLINO - P.M. CICCOLO

(conf.) - avv. L.F.

giurisprudenza

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Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la parte assistita - Difensore d’ufficio - Doveri di corret-tezza e fedeltà - Osservanza - Necessaria conferma del mandato - Esclusione - Richiesta di archiviazione formu-lata dal P.m. - Opposizione del difensore - Richiesta di imputazione coatta al G.i.p. - Atto contrario all’interesse del cliente - Illecito deontologico

Ai fini del pieno espletamento dei relativi effetti, il man-dato di difensore d’ufficio non abbisogna di alcuna conferma, peraltro insita nella mancata trasformazione dell’incarico in fiduciario, ovvero nella mancata comunicazione di nomina di altro difensore di fiducia. In mancanza di tali atti, per-tanto, il difensore è comunque soggetto a tutti gli obblighi gravanti su di esso in ragione della sua funzione, ivi com-preso quello di lealtà e correttezza e fedeltà al mandato e, in particolare, di comunicare al cliente le iniziative difensive maturate, specie quando queste, contrastando con un inte-resse immediato del cliente, seppure per lui più garantiste, potrebbero, in linea teorica, contenere un potenziale ele-mento di danno da individuarsi anche in un prolungamento dei tempi di definizione.

Il difensore - sia esso d’ufficio o di fiducia - laddove abbia cognizione della responsabilità del proprio cliente e, pertanto, si renda conto della infondatezza delle richie-ste “assolutorie” provenienti dall’accusa, non è tenuto, se tanto sia di nocumento al proprio cliente, ad opporsi a queste, e, qualora non si senta in condizione di avallare una richiesta infondata, non ha altra alternativa che rinun-ziare al mandato, astenendosi invece dal compiere attività contrarie all’interesse del proprio cliente. (Nella specie il P.M. aveva richiesto l’emissione di un provvedimento di archiviazione, a cui la difesa, nell’interesse del proprio assi-stito, avrebbe dovuto fare acquiescenza e non certamente, come accaduto, sollecitare poteri riservati al G.i.p. per una “imposizione coatta” in contrasto con l’interesse imme-diato del cliente). (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Catanzaro, 10 giugno 2009).

Cons. Naz. Forense 18-10-2011, n. 165 Pres. ALPA - Rel. MORLINO - P.M. GALATI (conf.)

- avv. M.D.G.G. Avvocato - Norme deontologiche - Dovere di corret-

tezza e probità - Rapporti con i colleghi - Espressioni sconvenienti e offensive - Illecito deontologico

L’avvocato deve porre ogni più rigoroso impegno nella difesa del proprio cliente, ma tale difesa non può mai tra-valicare i limiti della rigorosa osservanza delle norme disci-plinari e del rispetto che deve essere sempre osservato nei confronti della controparte, del suo legale e dei terzi, in ossequio ai doveri di lealtà e correttezza e ai principi di colleganza.

Ai sensi dell’art. 20, ult. parte, c.d.f., la ritorsione o la pro-vocazione o la reciprocità delle offese non escludono l’infra-zione della regola deontologica posta nella prima parte del medesimo articolo.

(Nella specie, il CNF ha ritenuto che, nel contesto della strategia difensiva scelta dagli incolpati per resi-stere alla domanda di modifica delle condizioni di sepa-razione, apparisse non essenziale, oltre che soggettiva-mente sgradevole, il termine “amante” riferito in senso dispregiativo alla compagna del professionista ricorrente, anch’essa avvocato, al fine di mettere in luce un quadro di vita in contrasto con le giustificazioni poste a fonda-mento della richiesta riduzione dell’asse-gno di mante-nimento. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Padova, 16 marzo 2009).

Cons. Naz. Forense 18-10-2011, n. 167 Pres. ALPA - Rel. SALAZAR - P.M. FEDELI (conf.)

- avv.ti E.P. e G.S. Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la

parte assistita - Gestione di somme - Indebito tratteni-mento - Esistenza di un credito nei confronti del cliente - Irrilevanza - Illecito - Sussistenza - Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con i colleghi - Obbligo di dare istruzioni al collega - Obbligo di informativa - Violazione - Illecito deontologico

Costituisce illecito disciplinare, in violazione dell’art. 41 c.d.f., l’indebita ritenzione di somme da parte dell’avvocato in difetto di espressa e necessaria pattuizione. In particolare, integra illecito deontologico il comportamento dell’avvocato che trattenga indebitamente la somma ricavata dalla vendita forzata di un’autovettura pur in presenza di un credito nei confronti del cliente ed in costanza di rapporto con quest’ul-tima, qualora, come nella specie, non risulti che il professioni-sta abbia mai chiesto o comunque ottenuto l’autorizzazione a trattenere le somme spettanti al cliente

Pone in esser un illecito deontologico l’avvocato che, nonostante i ripetuti tentativi posti in essere dal collega per ottenere notizie in ordine alle procedure di esecuzione for-zata presso terzi al primo affidate, non fornisca alcuna comu-nicazione, con ciò violando l’art. 31 c.d.f. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Pistoia, 16 ottobre 2009).

Cons. Naz. Forense 15-12-2011, n. 183 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. PIACCI - P.M. IAN-

NELLI (conf.) - avv. P.F. Avvocato - Norme deontologiche - Doveri di pro-

bità, dignità e decoro - Richiesta di prestiti perso-nali al cliente - Illecito deontologico - Circostanze contingenti sofferenza finanziaria - Effetto esimente - Esclusione

giurisprudenza

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La richiesta di prestiti personali ad un cliente per soddi-sfare situazioni contingenti di sofferenza finanziaria del pro-fessionista e senza provvedere alla restituzione integra un illecito disciplinare di rilievo che giustifica la sanzione disci-plinare della sospensione per mesi tre dall’esercizio della professione, non potendo peraltro rilevare come esimenti le circostanze, pur gravi, addotte dal ricorrente a giustificazione del suo operato. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Parma, 19 dicembre 2006).

Cons. Naz. Forense 15-12-2011, n. 198 Pres. ALPA - Rel. ALLORIO - P.M. IANNELLI (non

conf.) - avv. A.S. Avvocato - Procedimento disciplinare - Procedi-

mento dinanzi al C.d.O. - Composizione collegio giu-dicante - Principio di immodificabilità - Applicabilità - Esclusione - Avvocato - Norme deontologiche - Rap-porto con i colleghi - Definizione transattiva della lite direttamente con la controparte - Illecito disciplinare - Sussistenza

Il principio di invariabilità del collegio giudicante di cui all’art. 473 c.p.c., richiamato dall’art. 63, co. 3, R.D. n. 37/34, è riferito al solo procedimento giurisdizionale avanti al C.N.F. e non trova invece applicazione nel procedimento ammini-strativo innanzi al C.O.A. Ne consegue che il mutamento della composizione collegiale nel corso del procedimento dinanzi all’Ordine territoriale non comporta l’invalidità della decisione resa dall’organo disciplinare, atteso che il principio dell’invariabilità del collegio giudicante è posto esclusivamente in riferimento ai procedimenti di carattere giurisdizionale.

Viola l’art. 27 c.d.f. ed i principi deontologici di lealtà e correttezza il professionista il quale, prendendo direttamente accordi con la controparte assistita da un avvocato, tratti e definisca la transazione della lite tra essi pendente, per di più approfittando delle circostanze di tempo e luogo date dall’imminente esecuzione del pignoramento nei confronti della stessa controparte. (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Terni, 3 maggio 2010).

Cons. Naz. Forense 15-12-2011, n. 200 Pres. ALPA - Rel. BROCCARDO - P.M. IANNELLI

(non conf.) - avv. V.C.

Avvocato - Norme deontologiche - Indagini difensive - Dichiarazione dal proprio assistito - Violazione disci-plina art. 391 bis c.p.p. - Illecito deontologico - Sussi-stenza

Viola i doveri di lealtà e correttezza (art. 6), di diligenza (art. 8), nonché l’art. 52 (rapporti con i testimoni) c.d.f. l’av-vocato che, in vista del giudizi abbreviato da condizionare all’acquisizione del documento, raccolga dal proprio assistito

presso lo studio professionale una dichiarazione nell’ambito di indagini difensive soggette alla disciplina di cui all’art. 391 bis c.p.p., senza tuttavia gli avvertimenti e le modalità pre-scritte dalla stessa norma. (Rigetta il ricorso avverso deci-sione C.d.O. di Treviso, 8 ottobre 2007).

Cons. Naz. Forense 15-12-2011, n. 211 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. PICCHIONI - P.M.

GALATI (conf.) - avv.ti A.P.P.L. e G.T. Avvocato - Norme deontologiche - Doveri di probità,

dignità e decoro - Divieto di uso di espressioni scon-venienti od offensive - Limiti - Fattispecie - Avvocato - Norme deontologiche - Principi generali - Dovere di adempimento previdenziale e fiscale - Mancata emis-sione di fatture - Illecito deontologico - Sussistenza - Imputabilità dell’illecito a dimenticanza della segretaria - Irrilevanza

In tema di espressioni sconvenienti ed offensive, va esclusa la illiceità deontologica quando le frasi utilizzate non eccedono i limiti di una critica più acerba - se, come nella specie, riferita alla giovane età ed alla modesta esperienza professionale dell’incolpato - che aspra, senza peraltro assu-mere quei toni oggettivamente irriguardosi che giustificano la sanzione. In particolare, la reazione, da parte del profes-sionista, alle affermazioni dell’ex cliente in ordine alla asse-rita non corretta esecuzione del mandato difensivo deve ritenersi proporzionata alla gravità dell’accusa, da costui mossa al proprio difensore, di essere venuto meno a lealtà e correttezza. Allo stesso modo, l’invito al proprio COA a non prestar fede ad affermazioni dettate soltanto dalla volontà di non pagare il corrispettivo di una prestazione dall’esito sfavorevole costituisce contegno che non eccede la misura di una critica contenuta in limiti accettabili e cer-tamente non irriguardosi.

L’addebito a dimenticanza della segretaria della omessa fatturazione della somma indicata nella ricevuta rilasciata al cliente non muta la valutazione disciplinarmente rilevante del comportamento dell’avvocato come lesivo del dovere di vigilanza e di diligenza, cui è tenuto l’esercente la profes-sione legale su collaboratori e dipendenti del proprio studio. (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Asti, 1 luglio 2009).

Cons. Naz. Forense 15-12-2011, n. 212 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. TACCHINI - P.M.

GALATI (conf.) - avv.ti M.F. e R.P.

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TRIBUNALE DI PARMASENT. N. 925 / 2012Giudice: dr.ssa Angela Chiari

La fattispecieUna S.r.l. attiva nel settore della produzione e commercio

di automazioni per l’industria alimentare sviluppava macchi-nari con caratteristiche tecniche tali da formare oggetto di due distinti brevetti per invenzione industriale.

Preso atto che una S.p.A. operante nel medesimo set-tore produceva e vendeva una macchina dotata di soluzioni tecniche analoghe a quelle contenute nei propri brevetti, in data 08.02.2001 le notificava atto di citazione con cui -previo accertamento della validità dei propri brevetti per invenzione industriale e, in subordine, previa disposta conversione di uno o entrambi i brevetti per invenzione industriale in modelli di utilità ex art.76 c.3 C.P.I. - chiedeva di accertare la violazione dei brevetti e dei diritti esclusivi dell’attrice e di conseguenza dichiarare la responsabi-lità della convenuta ex art.2598 c.2 e 3 c.c. per concorrenza sleale, iniben-dole qualsivoglia attività produttiva e commerciale, ordinandole il ritiro dal mercato della sua macchina e con-dannandola al risarcimento di tutti i danni patiti dall’attrice, da quantifi-carsi nel corso del giudizio, oltre alle spese per la pubblica-zione della sentenza e alla fissazione di una penale a carico della convenuta per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione degli emanandi provvedimenti.

Costituitasi ritualmente in giudizio, la convenuta eccepiva preliminarmente la nullità dell’atto di citazione per indeter-minatezza degli elementi del petitum e della causa petendi, avanzava eccezione riconvenzionale di nullità dei brevetti dell’attrice, deducendo nel merito che la macchina di sua produzione aveva caratteristiche tecniche così divergenti da quelle della macchina attrice sì da escludersi ogni presunta contraffazione dei brevetti. Infine, concludeva per il completo rigetto di tutte le domande attrici, vinte le spese.

Successivamente agli adempimenti ex artt.180 e 183 c.p.c. il G.I. originariamente titolare del ruolo ordinava la comuni-cazione degli atti al P.M. il quale -intervenuto in relazione alle esercitate azioni di contraffazione e concorrenza sleale- chie-deva l’accoglimento delle richieste attoree con i conseguenti provvedimenti di legge.

La decisioneIn via preliminare il Giudicante esaminava le eccezioni

avanzate dalla convenuta in ordine all’accertamento inci-dentale della nullità dei brevetti dell’attrice e alla nullità dell’atto di citazione.

L’esame della prima eccezione individuava la normativa applicabile al caso di specie nel R.D. n.1127/1939, esclu-dendo l’applicazione del D.Lgs. n.168/2003 (introduttivo del rito collegiale e della competenza esclusiva delle Sezioni Specializzate in materia di Proprietà Industriale ed Intel-lettuale) in quanto il giudizio veniva instaurato prima del 01.07.2003.

Di conseguenza, il Giudicante affermava la piena com-petenza del giudice monocratico, escludendo la partecipa-zione obbligatoria del P.M. nel caso di specie.

Nello specifico, proseguiva il Giudicante, parte conve-nuta non proponeva una domanda riconvenzionale di nullità

dei brevetti ottenuti dall’attrice, ma si limitava ad avanzare un’eccezione riconvenzionale di nullità (confor-memente alle definizioni offerte da Cass. Civ. n.4233 del 16.03.2012 e n.9044 del 15.04.2010).

Così circoscritta la richiesta della convenuta, il Giudicante si riportava a quella giurisprudenza di legittimità che esclude il presente giudizio dal novero di quelli che prevedono la

partecipazione obbligatoria del P.M., dovendo quest’ultima limitarsi -ex art. 78 L.Inv.- alle sole azioni dirette ad otte-nere la dichiarazione di decadenza o nullità di un brevetto per invenzione industriale (ex multis, Cass. Civ. n.16314 del 24.07.2007).

Sul punto, il Giudicante si riportava altresì a conforme giurisprudenza di merito: Tribunale di Milano del 03.03.2003, Corte d’Appello di Bologna del 16.03.2001 e lo stesso Tri-bunale di Parma del 18.12.2002 (con rimando alle disposi-zioni degli artt. 50 bis e 50 ter c.p.c.).

Pertanto, il Giudicante concludeva nel senso che la noti-fica della citazione al P.M. avvenuta in corso di giudizio deve intendersi come mera litis denuntiatio disposta dall’origina-rio G.I. ex art.71 c.2 c.p.c. con conseguente litisconsorzio facoltativo del P.M. in ragione della sussistenza di un pub-blico interesse.

Quanto alla seconda eccezione, sollevata in comparsa di costituzione e risposta, non è stata ribadita in sede di

Giurisprudenza

rigettava la domanda attrice diconcorrenzasleale,posto che la macchina della convenuta non interferiva con il primo brevetto di parte attrice; mentre il secondo doveva considerarsi invalido per difetto dei requisiti di brevettabilità

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precisazione delle conclusioni, dovendosi intendere rinun-ciata. Oltre questo tranciante profilo processuale, il Giudi-cante rimarcava comunque l’infondatezza di tale eccezione, ritenendo adeguatamente indicati gli elementi richiesti ex art.163 c.3 nn.3,4 c.p.c..

Circa l’esame del merito, entrambe le espletate CTU dimostravano che la macchina della convenuta aveva caratte-ristiche tecniche tali da non interferire con l’ambito di prote-zione del primo brevetto attoreo, escludendo i presupposti della lamentata contraffazione.

Quanto al secondo brevetto dell’attrice, il Giudicante evidenziava l’anteriorità di un brevetto francese su una mac-china di pari utilizzo, conseguendone il difetto di novità e originalità del brevetto di invenzione della convenuta, salva l’individuazione dei requisiti di novità ed originalità per una valida brevettazione quale modello di utilità limitatamente ad una sua rivendicazione. L’attrice tentava allora di spostare il thema decidendum sulla validità o meno di tale rivendicazione quale modello di utilità, ma il Giudicante riteneva inammissi-bile la suddetta istanza di conversione perché era comunque decorso il termine decennale di durata del titolo di privativa del quale si chiedeva la conversione e perché la domanda di conversione trova la sua giustificazione solo ed esclusi-vamente nell’ambito di un giudizio inerente la nullità di un brevetto e presuppone la dichiarazione di nullità del titolo di privativa (sul punto, Corte d’Appello Venezia 1773/2010 “la conversione rimane un istituto applicabile solo in caso di giudizio vertente sulla nullità e non anche in presenza di una mera ecce-zione, comportante solo valutazioni di natura incidentale”).

Nella concreta fattispecie in esame, infatti, parte conve-nuta si limitava ad eccepire la nullità del brevetto al solo fine del rigetto delle domande attrici sì che il Giudicante, difet-tando il suo potere di pronunciarsi sulla nullità del brevetto per assenza di specifica domanda, non poteva che dichia-rare inammissibile la conversione richiesta dall’attrice (sul punto, veniva indicata conforme giurisprudenza di merito: Trib. Venezia 07.05.2007, Trib. Boogna 02.06.1997, Trib. Milano 11.03.1996, Corte d’Appello Milano 27.01.1995).

Rilevava infatti il Giudicante come né l’attrice né la conve-nuta chiedevano una pronuncia di accertamento della nullità degli originari brevetti: l’attrice chiedeva solo - e in subor-dine- la conversione dei brevetti per invenzioni industriali in modelli di utilità mentre la convenuta demandava l’accerta-mento di detta nullità solo in via incidentale. Di conseguenza, non potendosi addivenire ad una sentenza con effetti sulla dedotta nullità, nemmeno può procedersi alla conversione.

P.Q.M.Il Giudicante rigettava la domanda attrice di concorrenza

sleale, posto che la macchina della convenuta non interfe-riva con il primo brevetto di parte attrice mentre il secondo

doveva considerarsi invalido per difetto dei requisiti di bre-vettabilità; pertanto, in assenza di qualsivoglia violazione dei pretesi diritti di privativa vantati da parte attrice, cadeva ogni sua domanda risarcitoria. Compensate tutte le spese pro-cessuali.

g.m.

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