Il re della Neve

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primo capitolo del libro Il Re della Neve

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La Biblioteca di Sciare

LUIGI BORGO

IL RE DELLA NEVE

LA BIBLIOTECA DI SCIARE

Luigi BorgoIL RE DELLA NEVE

Edizione speciale per Sciare Magazinepubblicata su licenza di Mediafactory Edizioni S.r.l.Cornedo - Vicenza

© Luigi Borgo, 2009

Progetto grafico e impaginazioneMediafactory

StampaTipografia Danzo Cornedo - Vicenza

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Tutti i diritti di copyright sono riservati

Ogni riferimento a fatti, persone esistenti e cose è puramente immaginario e casuale.

IL RE DELLA NEVE

I

Ogni volta che arriva la neve, e da queste parti arriva spesso, quasi lo facesse apposta, io chiudo gli occhi per non vederla, anche se poi è peggio, perché nella mia mente tutto diventa comunque bianco, come se la neve si infilasse sotto le palpebre; e tra una favilla e l’altra ecco che appare la sagoma di quel superbo cretino di Bill Welles, classe 1963, disteso pancia al cielo, gambe e sci divaricati, braccia e bastoncini aperti, lì, sul par-terre dell’arrivo di Lake Louise, a coprire quanta più neve possibile, come un Cristo deposto che urlava “Pa-dre, Padre perché mi hai voluto migliore di tutti?”

Bill Welles era inaspettatamente ritornato a correre nel Canadian Circuit e, l’anno prima delle Olimpiadi invernali di Torino, a Lake Louise, non meno inaspet-tatamente aveva messo dietro tutti. Tra le cose irreali e impossibili che passano per la testa di un vincitore, le sue dovettero essere straordinariamente speciali, poi-ché da quel momento Bill Welles distrusse la mia vita.

Per dieci giorni e per dieci notti Bill scomparve, be-vendo tutto quello che era possibile bere. Lo trovarono il giovedì della settimana successiva che dormiva su una panchina di Ottawa, nei pressi della casa natale di Nancy Greene, la dea Nancy, la sola a essere riuscita a donare a una delle terre più innevate del pianeta la sfera

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di cristallo dello sciatore più forte del mondo, che, mi fa pensare, ciò è tanto più figo per lei, quanto deprimente e disonorevole per gli sciatori con la foglia d’acero rosso sul pube. E questo capitò addirittura due volte, quando Bill era solo un bambino viziato, che non prometteva grandi cose e io un angioletto del paradiso, come mi ha sempre raccontato la nonna, oppure, come penso io, una pseudo briciola indefinibile di materia cosmica cat-turata chissà come da quel tizio che a tempo debito la passò a mia mamma durante un fuori programma di una lezione di sci per poi dimenticarsene per sempre. Tra un boccale e l’altro, a Bill doveva essere entrato nella testa che la sua impresa nel Canadian Circuit valesse non meno di quelle vittorie, perché quando fu possibile par-lare con lui, spiegò che voleva passare quella notte con Tiger Nancy per concepire il più grande sciatore del Canada di tutti i tempi. Lo dichiarò ai giornali che, sen-tendone l’alito, non lo scrissero, ma lo ripeté così tante volte che divenne comunque una cosa pubblica, nota perfino a mia madre. “A me non interessa che Nancy sia sulla sessantina. Io ho vinto il gigante di Lake Loui-se a 42 anni, baby, partendo in terzo gruppo. Guardami in faccia e non dimenticare quello che ti sto per dire: io ci sarò tra i Crazy Canachs alle Olimpiadi di Torino, sicuro come tua mamma fa il lavoro più vecchio del mondo”.

Non era con me che parlava, anche se a quel tempo era più o meno quello che pensavo di mamma, e prin-cipalmente a causa sua, dato che la storia del mio con-cepimento me l’hanno completamente rimossa i nonni. Non ho mai avuto problemi in questo senso. Per me e anche per mamma loro sono il contrario di “extra”, nel vero senso della parola, intendo. Se non fosse stato

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per i miei nonni, io non sarei quello che sono e questo mi dispiacerebbe molto. Sono uscito con ottimo e con un anno di anticipo dalla scuola media, per esempio; ho una camera tutta mia, per esempio; il nonno mi ha regalato un mega computer con cui potrei fare anche l’hacker, se non volessi dispiacere al nonno, secondo il quale io ho preso tutto da suo fratello Antony, di cui ho ricevuto il nome, che è morto in Normandia, durante lo sbarco, mentre era a capo del suo plotone, per esem-pio. Nella memoria familiare non c’è stato Kidd più intelligente di lui e lui, sempre secondo il nonno, sa-rebbe diventato prima colonnello, poi generale e quindi presidente del Canada, se non l’avessero accoppato in quella bastarda spiaggia, per esempio. E poi sono un ragazzo cui piace leggere e nel tempo in cui Bill Welles scarponava nella casa dei nonni, andavo pazzo per un libro di uno scrittore italiano, precisamente langobardo, in cui si abbozza un matricidio, e che sottolineavo quasi a ogni pagina: insomma così maturavano i giorni, uno dopo l’altro, come pere gnocche. …potrei continuare all’infinito con gli esempi sulla mia autostima.

Il contrario di “Antony Junior Kidd”? “Bill Welles!” Senza i miei nonni, che sono anche i suoi genitori,

nemmeno Tety sarebbe quella che è, compresa questa ridicola parentesi di nome Bill Welles e quell’altra, or-mai dimenticata, della mia accidentale messa al mon-do. Perché a 30 anni, una donna sola con un figlio di 12 anni e mezzo, è una costa più esposta di quella della Normandia del ‘44 e bavare bontà sul primo vitello che le capita tra i piedi…, sul primo cane randagio che vie-ne a oltre… non è cosa di cui meravigliarsi. Come a dire che per tipi come Bill, cresciuti nel mito del Crazy Team dei primi anni ‘80, ma che pazzi, come solo lo

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sanno essere i cretini, lo sono per davvero, conquistarla è un giochetto da ragazzi… qualcosa come bere un ta-marindo al seltz…

Il contrario del “capitano Antony Kidd?” “Tutti i cretini come Bill Welles!”

Il quale era ritornato alle gare, dopo una serie infi-nita di fallimenti. Da quando cioè, a 20 anni, lo ave-vano cacciato dalla squadra giovanile del Canada per indisciplina e per scarsi risultati, che a parole sem-plici è il principio aristotelico di causa ed effetto, le aveva provate tutte: surfista nei mari del sud, quando il windsurf fu la novità dell’estate 1983, chitarrista in una banda di San Francisco, ma suonava da far schifo, barman in un chiosco di Bikini. Un bel giorno si sco-prì inventore e cercò di vendere la sua passione per la birra a un produttore italiano: si trattava di una ricetta a base di una polverina, che poi si scoprì essere una miscela di zucchero e sale, per produrre una birra che non facesse gonfiare il ventre. Alla fine entrò nel bu-siness del turismo: prima cercando di sfruttare la sua conoscenza dei mari del sud, dove si proponeva come skipper, ma gli spazi angusti della barca a vela non si accordavano molto con il suo temperamento, cioè fini-va a cazzotti con tutti; poi gli venne in mente lo sci e il suo Canada. Per qualche anno parve che questo fosse il suo destino. Sarebbe invecchiato parlando di grandi spazi e di bianchissima powder ai suoi concittadini di Francoforte, dove era andato a vivere e si era sposato, meno felicemente di quanto aveva creduto, dato che in seguito si sposò altre due volte e per un certo periodo ebbe due mogli, una a Monaco, dove aveva trasferito l’agenzia, ritenendo che ormai a Francoforte perfino le cameriere conoscevano l’indimenticabile freddo cana-

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dese, una a Lachine, vicino a Montreal, Quebec, Tety, cioè mia madre, la sua patetica Giovanna d’Arco nei mesi in cui scoppiò il gran casino, dopo la vittoria, in effetti epica, di Lake Louise. Perché quel cretino di Bill con gli sci sapeva farci. E se ne convinse più o meno a quarant’anni, quando, scrivendo l’ennesimo contratto per una settimana di heliski nella British Columbia, gli si dischiuse improvvisamente un’idea più a fuoco delle altre di quello che lui era. Di quello che veramente sa-peva fare. Di ciò per cui aveva davvero lavorato nella sua scompigliata vita. Semplicemente capì che lui era uno sciatore, in specie un gigantista, con il giusto amo-re per la velocità per non sentirsi uno slalomista ma pure con quella consapevolezza che se si fosse dedicato alle discese, uno come lui, bene che gli fosse andata, sarebbe finito su una sedia a rotelle. Bastavano tre porte in sequenza che il suo cervello si annebbiava e il suo pensare diventava la più barbara volontà di vittoria che un atleta sapesse esprimere, in nome della quale estre-mizzava linee, tattiche, movimenti. C’era qualcosa di atavico in quel suo modo di sciare; era come se una remota incarnazione di quello che è oggi Bill Welles si fosse salvata la vita reagendo in quel modo e che quel modo gli fosse rimasto dentro per sempre, pronto a esprimersi tutte le volte in cui lui stava per sentirsi perduto. Sciare per Bill doveva essere qualcosa del ge-nere, una reazione animale da chi lo stava per colpire a morte. Sciava scappando da una grossa pantera nera, da una tigre del circo Barnum, da un puma delle Montagne Rocciose. Sciava fuggendo da cinque killer della mala di Boston, dagli sgherri di un marito geloso nella Ve-nezia del XVIII secolo, dalla pioggia di meteoriti che colpì il Golfo del Messico e dintorni, quando fu. E così

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quella mattina a Lake Louise splendeva il sole mentre si affacciava al cancelletto con il pettorale numero 48. Alla seconda porta aveva già le bave alla bocca. Alla terza il passaggio fu così vicino al palo che parve infor-care. Per almeno quattro volte chi lo stava guardando pensò che uscisse e per altrettante riuscì nel miracolo. “Ha vinto Welles”, dissero a Thomas Grandi che si era da un bel po’ tolto gli scarponi e aspettava le premiazio-ni. “Chi? Nonno Welles?” Sì, nonno Welles e io non so ancora se benedire o maledire quella discesa.

Bill non sopportava di essere chiamato ‘nonno’ e nemmeno ‘senatore’, come s’inventò un giornalista lo-cale, cui disse chiaro e tondo che se si fosse permesso ancora di prendersi gioco di lui, gli avrebbe spezzato tutte e due le gambe e violentato la moglie, un partico-lare, questo, che ci aggiungeva sempre, senza nemme-no aver visto di che donna si trattasse. Bill fu irascibile nel suo primo anno di rientro nelle competizioni. I ri-sultati stentavano a venire e lui si arrabbiava per i ma-teriali, per le condizioni della pista, per quello “schifo di Federazione!”, per gli atleti che non sono più quelli di una volta, per tutte le regole dello sci, che a suo dire, erano tutte contro di lui. Per me, che facevo finta che non esistesse.

Il contrario di “essere?” “Lui!” Il secondo anno fu migliore. Ebbe meno attese e ri-

uscì ad abbassare il punteggio. Nel 2004 gli avevano dato degli sci sbagliati, veloci ma troppo duri, e lui non ci si trovava. Migliorò comunque il punteggio anche se contava di fare meglio. L’anno di Lake Louise fu l’anno in cui tutto cambiò di livello: meno punti, più aspettative e una crescente irascibilità che sfogava con minacce di morte a chicchessia. Do, dedi, datum, dare:

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bill, bili, bilum, bile. Il contrario di “Lake Louise 2005?” “Lake Placid

2006!”Insomma io sono Antony Junior, ho 12 anni e mezzo

e sono il nipote adorato di Tom Kidd, che ha il miglior negozio di ferramenta di Lachine. Il mio gioco preferi-to è trovare i contrari.

Il contrario di “nonno?” “Papà!”

Bill diceva di essere innamorato di mamma. Conti-nuava a ripeterle la cosa più assurda che avessi mai sen-tito dire, ossia di voler vivere tutta la sua vita con lei. Le diceva enormità del tipo: - Tu sei l’unica donna che mi abbia portato bene. Con te vinco e vincerò sempre.

Il contrario di “Tety?” “Mamma!” ... bisognava pur dire che fosse pur anche una zoccola.(Mamma: sono stati i 4 anni più brutti della mia

vita). [E-mail non inviata]. Anche mamma era una maestra di sci ma aveva at-

taccato gli sci al chiodo dopo la mia nascita. Di me non devono aver parlato molto. Al massimo può avergli detto che io sono stato concepito durante una lezione, che è quanto credo di avere capito, poiché nemmeno con me, che ne sono il diretto interessato, mamma si è mai dilungata tanto sulla faccenda. Bill deve aver attri-buito al fatto della lezione, la mia passione per la scuo-la, perché un giorno l’ho sentita tanto ridere e, per la vita che faceva, non trovo altra spiegazione plausibile. Si erano sposati all’epoca dell’agenzia. Una cosa loro, che io e i nonni non vogliamo nemmeno ricordare. Lei coordinava le comitive dall’altra parte dell’Atlantico, risolvendo come poteva tutte le promesse che lui face-va in Europa e che non poteva mantenere, perché sem-