Il quaderno di LibeRe - anno 2012 numero 0

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Raccolta dei materiali di analisi e di elaborazione dell'associazione.

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SOMMARIO Editoriale

Anna Serafini Quello che siamo, quello che vogliamo. Il perché dell’associazione, il perché dei quaderni. 3

Ciò che ci piace / Ciò che non ci piace 4 Ancora sull’associazione Roberta Agostini L’Italia non è un paese per donne 5 Marilena Menicucci Essere Libere e Responsabili 5 Femminicidio Marinella de Nigris La violenza di genere è purtroppo in aumento 8 Vittoria Franco Fermiamo la strage di donne 10 Maria Rita Parsi “Donna svegliati! Alzati! Resisti!” 12 Federica Resta Le “4 P” per prevenire il femminicidio 15 Le donne cambiano il lavoro Maria Antezza Protagonismo delle giovani imprenditrici 18 F. Donaggio D. Gottardi Non siamo migliori, né uguali, siamo il rinnovamento 20 Paola Rossi Assistenza sociale. Prospettive e rischi attuali 22 Daniela Sbrollini Talenti e crescita nell’imprenditoria femminile 23 Animali e diritti Silvana Amati Quando l’impegno è donna: la tutela dei diritti degli animali 28 Maria Fasolo Da Palermo con furore. Le donne e i nostri amici a 4 zampe 29 Il colore del grigio Manuela Granaiola Ricominciare si può 32 Maria Giovanna Ruo Divorzi grigi: un nuovo “libello di ripudio”? 34 LibereResponsabili Marilena Adamo Un diverso approccio culturale. La mediazione 38 Fiorenza Bassoli L’approccio di genere nella promozione della salute 39 Mariangela Bastico Buone idee in buone mani. Le donne risorsa per ricostruire il paese 41 Francesca Puglisi I servizi educativi per l’infanzia. Investimento per il paese 42 Oltre i confini Grazia Barbiero Le donne nella Primavera Araba 46 Franca Biondelli La femminilizzazione dei processi migratori 47 Manuela Paltrinieri Perché non fidarsi del buonsenso 49 La rappresentanza Gigliola Corduas Libere di . . . 53 Maria Fortuna Incostante Più quote, più donne, più democrazia 55

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Quello che siamo, quello che vogliamo

Perché l’associazione, perché i quaderni

di Anna Serafini

L'Associazione si chiama LibeRe LibertàResponsabilità. Nasce da un gruppo di donne che vuole far crescere una visione innovativa, laica, riformista ed europea del welfare, dei diritti della persona e delle relazioni familiari, arricchendo in tal modo le proposte del PD. In Italia persiste una sottovalutazione delle politiche di welfare quali politiche di sviluppo. Questo fenomeno si è aggravato negli ultimi anni con i governi di centro-destra che hanno sospinto le forze più riformiste in trincea. Ora occorre riprendere il filo dell'innovazione. Su questo le donne possono svolgere un ruolo decisivo. L'antipolitica e le derive populistiche e plebiscitarie, al di là delle forme che assumono, bloccano l'innovazione in tutti i settori del Paese e coprono un sostanziale immobilismo sociale. Per questo la

nostra associazione ha come sua premessa una battaglia anche culturale contro l'antipolitica. I rapidissimi mutamenti sociali impongono scelte nuove e coraggiose e un approccio integrato tra visione giuridica e sociale. LibeRe vuole contribuire a rendere il paese più moderno e più equo. C’è una larga parte della società civile femminile che oggi non si riconosce in alcuna formazione politica. Ha investito tempo, risorse, energie nel lavoro e nella ricerca di una vita ricca di stimoli. Sconta una mancanza completa di tessuto relazionale connettivo, capace di funzionare da rete di supporto e di scambio intellettuale e culturale. Gli stessi interessi delle più giovani spesso non incrociano i percorsi della politica. Così come quelli di tante donne che, uscite dal ruolo produttivo e riproduttivo, la società tende a rendere invisibili. Del resto nello stesso mondo politico e associativo non sono poche le donne che avvertono l'esigenza di rapporti meno discontinui e labili. L'ambizione è quella di rivolgersi a tutte queste donne. Donne che, della flessibilità e della capacità di scambiarsi esperienze e conoscenza, hanno fatto uno stile di vita. Donne che, hanno bisogno di trovarsi/ritrovarsi in una nuova comunità che regali loro nuova voce, capacità di contare, possibilità di esprimere pensieri forti e azioni consequenziali e incisive. Queste donne rappresentano una preziosa risorsa: conquistarle o riconquistarle, significa dare identità più forte alla politica.

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Lontanissimo, da queste donne, è il linguaggio del rivendicazionismo tout court. E non sono interessate a rivendicare spazi secondo formule antiche. Vogliono trovare, condividere, esprimere la loro visione del mondo. Vogliono trovare le parole per dirlo. A queste donne vogliamo parlare il linguaggio moderno della partecipazione, della ricchezza di vite che si spendono in progetti complessi e fecondi. Vivere LibeRe significa lasciare una traccia, vivere una vita dove la politica, il lavoro o la famiglia non siano totalizzanti e quindi scegliere toni anche ironici perché leggerezza e profondità non siano incompatibili. E' per questo che l'Associazione LibeRe ritiene fondamentale anche dotarsi di uno spazio web e organizzare in Quaderni i materiali raccolti nel lavoro di analisi e di elaborazione. Abbiamo l'ambizione di far crescere la voglia di partecipare e di entrare in relazione attraverso molteplici forme di linguaggio. Le prime scadenze saranno il rilancio della battaglia storica sugli asili nido e l’impegno su una nuova frontiera culturale per contrastare il fenomeno crescente del femminicidio. E' solo un primissimo inizio. Il desiderio è quello di creare una rete tra donne, fuori e dentro le istituzioni, per affermare politiche di innovazione nel welfare e nelle relazioni familiari. Il sito www.libereassociazione.it è in progress e il numero zero dei Quaderni serve a testare le potenzialità di una prima diffusione online del lavoro della nostra squadra. Una squadra aperta al contributo di altre preziose energie che vorranno essere protagoniste insieme a noi di questo impegno.

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ANCORA SULL’ASSOCIAZIONE L’Italia non è un paese per donne. di Roberta Agostini

L’Italia non è un paese per donne, come ormai tutti i dati ci confermano, da quelli Istat a quelli contenuti nel rapporto dello Special Rapporteur dell’Onu, Rashida Manjoo, sulla violenza contro le donne. I numeri della violenza e dei femminicidi sono in aumento, sono profondamente radicati gli stereotipi e purtroppo l’esclusione femminile dalla sfera pubblica e dai vertici della società e delle istituzioni non è un fenomeno in via di estinzione.

Le battaglie delle donne fuori e dentro le istituzioni hanno cambiato molte cose, ma che permanga un retaggio culturale antico che si mescola con problemi attualissimi ce lo dice il fatto che nella maggio parte dei casi sono mariti, amici, parenti gli autori della violenza. E’ il segno di una discriminazione profonda delle donne, di una incapacità di accettare libertà ed autonomia. Bisogna mettere in campo una risposta complessa, risorse certe, un osservatorio, strategie di prevenzione, accoglienza, sostegno alla rete dei centri. Ed è necessaria una politica forte, in grado di connettere i bisogni, le aspettative, le speranze e le capacità di tante donne italiane con un progetto di alternativa per il paese. Benvenuta l’associazione “LibeRe” perché insieme, in tante, possiamo finalmente provare a rimuovere quel blocco - sociale, culturale, economico - che al fondo della società italiana impedisce il pieno affermarsi della parte così consistente rappresentata dalle donne.

Essere Libere e Responsabili di Marilena Menicucci

La presentazione dell’Associazione LibeRe è un evento che coincide con il bisogno delle donne di incontrarsi, di confrontarsi e d’incidere nella nostra società per quello che sono. Una realtà poco nota e un’identità fraintesa, che quest’Associazione, già con il nome riporta alla sua dignità. La libertà e la responsabilità, infatti, sintetizzate in LibeRe, sono due componenti dell’identità delle donne e del loro modo di vivere. Le donne sono esperte nelle responsabilità: cittadina, figlia, sorella, amica, lavoratrice, moglie, madre, nonna e altro ancora, fino alla rinuncia, al sacrificio, all’annullamento e alla prigione del desiderio di libertà, in famiglia

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come in ufficio, arrivando ad essere vittima di violenze, con tutti i drammi e le tragedie conseguenti. La libertà è l’ obiettivo del desiderio di una donna, a cui responsabilmente rinuncia per amore, per formarsi una famiglia, per trovare un lavoro, per mantenerlo, per aiutare i vecchi genitori, per avere tanti soldi e per mille altri motivi, che nella nostra società italiana una donna è costretta ad assumersi e a soddisfare, perché è sola, come le nonne e le mamme. Sembra esagerata quest’affermazione, che mette in continuità il terzo millennio con il precedente, dopo il femminismo, l’emancipazione femminile e la legislazione a favore della parità, eppure ancor oggi, in Italia, la donna è costretta a decidere fra la carriera e la famiglia, gli affetti o il lavoro, la ragazza normale o la velina, fino all’escort, arrampicandosi sugli specchi, o vendendosi, se vuole realizzarsi nel pubblico e nel privato. L’integrazione delle sue responsabilità con la libertà di essere se stessa è ancora impossibile, tranne qualche eccezione, dovuta comunque al sacrificio di altre donne: mamme, nonne, immigrate e badanti, che si assumono responsabilità al posto dell’altra che si realizza. Un cane che si morde la coda e una condizione, che arretra la nostra società a livelli preoccupanti, come quotidianamente raccontano giornali e media. Come sarebbe diverso il nostro paese, se le donne potessero sentirsi libere di esercitare la loro professione e d’incidere politicamente, senza rinunciare agli affetti e alle cure! Dato il bisogno, sarà importantissimo seguire il lavoro di quest’Associazione, che nel nome promette di cambiare le cose e, poiché la presentazione avviene presso il Senato, un luogo simbolo della democrazia, la speranza è di vedere il Parlamento italiano stracolmo di donne, libere di lottare per i bisogni, di cui sono responsabili.

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Biennale di Venezia 2011 - Foto di Anna Mencaroni

FEMMINICIDIO

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La violenza di genere è purtroppo in aumento di Marinella De Nigris

La violenza contro le donne, che troppo spesso si traduce in omicidio, è in aumento in tutti i Paesi. Il rapporto presentato a Ginevra da Rashida Manjoo, portavoce dell’ONU dice: “Il femminicidio è crimine di Stato tollerato dalle istituzioni per incapacità di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne che vivono diverse forme di discriminazione e violenze”. La legislazione italiana è buona ma il problema è l’applicazione, il rispetto e la prevenzione che nel nostro Paese sono insufficienti. Ormai è necessario affrontare il problema in maniera decisa e considerare i crimini contro le donne un problema grave che mette a

rischio la sicurezza del Paese. E’ necessario quindi trovare la strada giusta per evitare i tanti omicidi di genere. La prima cosa è quella di considerare il femminicidio una ipotesi di reato a se stante, considerandolo quindi come un ipotesi per evitare le discriminazioni di genere, quindi un’azione positiva da porre in essere. E necessario iniziare una valutazione multidisciplinare della potenzialità del rischio “femminicidio” e questa valutazione può essere fatta dagli attori sociale ed istituzionali impegnati nel settore della violenza di genere. Negli ultimi dieci anni infatti la violenza di genere si è negativamente arricchita di caratteristiche patologiche che denunziano spesso la difficoltà di relazione tra i sessi, e troppo spesso una devianza nel vivere le difficoltà, tanto da tramutarsi in violenza nell’ambito familiare. La solitudine e le difficoltà nel mondo lavorativo e sociale da parte degli uomini diventano patologia, spesso criminale nei rapporti interfamiliari. La crisi economica, il materialismo ed il consumismo rendono gli uomini impotenti e “soli” di fronte ad una realtà che genera violenza. L’abbandono subito da un uomo nell’ambito della coppia diviene disperazione patologica e quindi vendetta verso la persona, che diviene oggetto di odio perché colpevole di “tradimento”. Il femminicidio si consuma innanzitutto in famiglia, di fatto o regolare, quindi dobbiamo abbandonare i preconcetti e aprire la famiglia ad una analisi approfondita abbattendo i muri che fino adesso la hanno falsamente protetta. E’ giunto il momento di affrontare il problema in maniera drastica e completa sia dal punto di vista della prevenzione che dal punto di vista della repressione. E’ necessario intervenire sui giovani, sui genitori e sugli insegnanti fin dalle scuole medie. L’informazione nelle scuole dovrebbe essere costante e coordinata e dovrebbe essere fatta da psicologici ed esperti della materia, i quali non dovrebbero ridurre gli interventi a singoli lezioni, ma essere presenti nelle scuole in maniera costante, in modo da creare un riferimento per gli studenti. I giovani non solo devono essere informati sui vari aspetti della violenza, sulla lettura dei segnali, sui comportamenti da tenere, ma devono poter avere persone di fiducia, esperte, alle quali potersi rivolgere per assistenza ed aiuto. E’ importante anche offrire sostegno ed informazione anche ai genitori degli studenti, essendo la famiglia, in particolar modo, la famiglia in via di separazione, il soggetto che deve essere sostenuto. Per quanto riguarda la formazione, sarebbero necessari programmi, nell’ambito

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scolastico, dedicato anche agli insegnanti che, essendo a contatto quotidiano con gli studenti, devono essere in grado di leggere i segnali della violenza e della sofferenza, tanto delle vittime quanto degli attori. È importante ricostituire sul territorio i consultori e centri di ascolto per gli adolescenti, adeguati alle esigenze e alle emergenze attuali. Dovrebbe essere costituiti presso i pronto soccorsi degli ospedali le strutture rispondenti al codice rosa, cioè personale adeguato ad accogliere la vittima di violenza, sia dal punto di vista medico che psicologico. Dovrebbero essere potenziati e strutturati i centro di mediazione familiare, i quali agendo anche in coordinamento con il tribunale per i minorenni e con il tribunale per le problematiche della famiglia potrebbero aiutare le famiglie separande in difficoltà. Uno dei punti fondamentali per la prevenzione della violenza contro le donne è proprio affrontare in maniera sana la separazione perché una separazione vissuta male spesso diviene patologia. Tutte le proposte relative alla prevenzione riguardano quegli aspetti sociali che, negli ultimi anni, sono stati enormemente sottovalutati e che, invece, in un momento di grave difficoltà, dovrebbero essere potenziati come sostegno alle persone e prevenzione dei crimini. In Italia esiste la legge sugli atti persecutori art. 612 bis cp., che potrebbe essere migliorata, una proposta potrebbe essere quella di considerare il delitto previsto di atti persecutori procedibile a querela, da proporre entro sei mesi dal fatto ed irrevocabile, in modo da evitare eventuali interventi minacciosi contro la vittima per ottenere la remissione della querela stessa. Per quanto riguarda l’ammonimento previsto dall’art. 8 del dpr 23.02.2009, dovrebbe essere previsto espressamente che trattasi di diffida pregiudiziaria facente parte di una procedura a carattere penale prodromica alla eventuale iscrizione nel registro indagati nel caso previsto dal comma 4 dell’art. 612 bis. In tal modo si eviterebbe il ricorso al TAR per ottenere la sospensiva dell’ammonimento stesso, che blocca anche psicologicamente, gli effetti dell’ammonimento. Per quanto riguarda l’autore dei reati di violenza, dovrebbe essere incentivato un percorso di tipo psicologico e terapeutico, percorso che potrebbe essere incentivato dalla specifica previsione di una circostanza attenuante nel caso di sottoposizione dell’indagato-imputato ad un specifico percorso terapeutico di recupero. Tutte le proposte di intervento legislativo e sociale necessitano di un coordinamento tra tutte le forze operanti: una cosa fondamentale dovrebbe essere quella di instituire un registro statistico relativamente alle denunzie e alle segnalazioni di violenza. Solo uno studio approfondito del disagio territoriale può aiutare ad affrontare in maniera completa il problema che non può essere risolto con la mera repressione. E’ il momento di svegliarci e di ricordare con le azioni che lo Stato è fatto di persone, che devono essere rispettate ed ascoltate e non possono essere abbandonate ai loro problemi in un isolamento che annulla il concetto di società.

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Fermiamo la strage di donne di Vittoria Franco

Vedo due rischi gravi rispetto alla violenza contro le donne: l'indifferenza e un senso di impotenza. L'indifferenza si ricava anche dal fatto che i media danno sempre meno risalto a fatti di cronaca gravi, purtroppo sempre più frequenti. Qualche giorno fa un uomo ha ucciso la moglie e la figlioletta di 5 anni e ferito un'altra. Sulla stampa neanche un cenno. Come se eventi violenti non fossero più considerati tali, degni di essere trattati e analizzati. Come se fossimo sopraffatti dalla loro espansione, impotenti ad affrontare un fenomeno che è diventato ormai un'emergenza sociale. Sembra che anche la capacità di reazione dell'opinione pubblica si stia perdendo. C'è davvero il rischio dell'assuefazione. La commissione sui diritti umani dell' ONU, che si è riunita pochi

giorni fa a Ginevra, si è occupata del tema con un giudizio molto severo sul nostro Paese. "In Italia resta un problema grave, risolverlo è un obbligo internazionale”, ha detto Rashida Manjoo, Special Rapporteur, che ha elencato i molti limiti delle politiche di contrasto, rivelatisi finora inefficaci. Prevenzione, protezione delle vittime e punizione dei colpevoli sono i ritardi dell’Italia. Non si riesce poi a trovare una sola ragione plausibile per il così prolungato ritardo nella sottoscrizione della “Convenzione europea per la prevenzione e la lotta alla violenza sulle donne”, trattato che rappresenterebbe il primo strumento giuridicamente vincolante in Europa per la creazione di un quadro completo per combattere la violenza tramite la prevenzione, l'azione giudiziaria, il supporto alle vittime. I dati resi noti dall'Osservatorio Nazionale Stalking sono impressionanti. Sono già 66 le donne uccise dall'inizio dell'anno, nella stragrande maggioranza dei casi per mano del partner o di persona di famiglia. Nel 2010 sono state 127, l'anno scorso 137, una ogni tre giorni. È una vera strage di donne, che non conosce differenze di ceto sociale o di livello culturale. Le violenze sono invece accomunate da un atteggiamento maschile che concepisce la relazione come possesso, le donne come oggetto di proprietà di cui si può disporre a piacimento, perfino col diritto di vita e di morte. Questo vale per gli italiani come per gli immigrati che reagiscono con l'uccisione di fronte a leggeri segni di integrazione delle donne di famiglia. Sicuramente c'è un problema culturale che attiene a una mentalità patriarcale, che persiste e risulta difficile da smantellare; c'è un problema di incapacità degli uomini nel riuscire a elaborare il lutto dell'abbandono, ma ci sono anche emergenze che occorre affrontare. Non si può pensare che i problemi legati alla grave crisi economica ne cancellino altri ugualmente drammatici che richiedono interventi adeguati alla natura della violenza sulle donne come una violazione dei diritti umani fondamentali. Anche per questa occorrono risorse: per varare un efficace piano di contrasto, per l'Osservatorio, per adottare efficaci e diffusi programmi culturali facendone partecipi innanzitutto le scuole, che devono educare al rispetto della persona femminile e della

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sua libertà, ma anche le associazioni, le famiglie, le istituzioni. Occorrono risorse per sostenere i centri antiviolenza e magari istituirne degli altri, come prevede un ddl del PD. Si sa che dove c'è un centro aumentano le denunce, perché si può contare su un rifugio, su sostegni legali e psicologici. E invece, essi versano in enormi difficoltà, molti rischiano di chiudere perché hanno perso anche le risorse degli Enti locali. È da salutare con riconoscenza la notte bianca in trenta città organizzata da 'DiRe' - donne in rete contro la violenza - proprio per urlare che la violenza aumenta ed è sempre più insopportabile. La sensazione altrimenti è che tutto accada senza provocare una reazione istituzionale adeguata, che l'argine al crimine si stia sgretolando.

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“Donna, svegliati! Alzati! Resisti!” di Maria Rita Parsi

“Donna, svegliati! Alzati! Resisti!”, scrive con convinzione e trasporto Alice Walker sottolineando l'assoluta necessità che siano le donne a cambiare le cose del mondo. Esse sono la leva, la più grande delle risorse, la sola in grado di realizzare “l'unica vera ed ultima Rivoluzione possibile” per una visione bambinocentrica del mondo. Appartenere al sesso femminile – nascere donne piuttosto che uomini – per molte ha significato e significa ancora oggi trovarsi al mondo in una condizione di inferiorità, di oppressione e di svantaggio. La complessa vicenda di movimento e di pensiero che per convenzione chiamiamo femminismo ha una storia lunga più di due secoli che nella critica al patriarcato e nella rivendicazione dell'uguaglianza fonda le sue principali battaglie. Ma la coscienza collettiva si cancella se le

donne non hanno coscienza di sé, della propria storia e di quella che riguarda la loro famiglia, il loro ambiente, il loro Paese e il mondo intero. Le donne che dimenticano di tramandare la Cultura delle donne – l’antenata e l’origine della Cultura dell’Infanzia – la negano, ancor prima che a se stesse, alle donne e agli uomini che metteranno al mondo, la negano perciò a i propri figli e alla vita stessa. “Donna, ricorda chi siamo”, esorta la Walker. “Non “gente” ma la madre di ogni essere. Noi creiamo con il nostro sangue e il nostro latte le creature che ci opprimono; che siano uomini o noi stesse”. In un mondo in cui la differenza sessuale rappresenta il principio di discriminazione fra un sesso dominante e un sesso dominato vige da sempre la sostanziale distinzione tra una sfera pubblica, assegnata di diritto agli uomini, ed una sfera privata in cui sono confinate le donne. La tradizione, dai greci ai giorni nostri, pur nelle specifiche varianti, è sempre stata androcentrica: la razionalità maschile si contrappone al sentimento femminile, l'attività politica a quella domestica, l'educazione dei saperi alla cura della casa. Da qui il bisogno del cambiamento che solo la donna può determinare. “Possiamo iniziare a farlo ora”, recita uno dei versi della poesia “Fermare la violenza contro la donna” della Walker. “Ora che vediamo un cielo e non una pietra un bastone o un pugno sopra la testa di tutte noi”. Anche se di pietre, bastoni e pugni – secondo l’ultimo rapporto dell’Onu e dell’Unione interparlamentare – ce ne sono ancora tanti in Italia: le donne elette nei parlamenti nazionali nel 2011 sono state il 19,5%. In testa alla classifica – sembra quasi pleonastico ricordarlo – i Paesi scandinavi quali Svezia, Norvegia e Finlandia con il 42-45% di donne elette. L’Italia, invece, è solo 57ma con il 21,6% di donne elette alla Camera e il 18,6% al Senato. Permangono insolute, inoltre, alcune gravissime atrocità: l’infibulazione nel mondo di centocinquanta milioni di bambine menomate nella loro sessualità, di cui cinquecentomila vittime in Europa (l’Italia è tra i primi Paesi con il

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tasso più alto); l’analfabetismo delle donne, pari – secondo i dati Unesco – a due terzi della popolazione mondiale; in Cina ogni anno un milione di bambine muore per essere nata femmina, al mondo sono cento milioni le bambine a cui sono state inflitte pratiche infanticide e aborti selettivi; in Italia nel 2010 sono state uccise centoventisette donne (nel 36% l’assassino era il marito, nel 18% il partner), in Europa ogni giorno sette donne al giorno vengono uccise dal marito o dal compagno e una donna su quattro subisce violenza o è perseguitata per stalking. Impariamo, come scrive Veronica A. Shoffstall, che “davvero siamo forti, che davvero valiamo qualcosa” perché le donne sono il collante del mondo che la loro fisicità rende longevo, capace di perpetuarsi, di rimanere vivo, allora “davvero possiamo farcela”.

Fermare la violenza contro la donna di Alice Walker (*)

Donna Per fermare la violenza contro la donna, la donna deve fermare la violenza contro se stessa. Possiamo iniziare a farlo ora, ora che vediamo un cielo e non una pietra un bastone o un pugno sopra la testa di tutte noi. Donna Per fermare la violenza contro la donna, ferma la violenza che tu perpetui contro tua sorella,

che è una donna tua nuora che è una donna. tua madre che è una donna. Donna

Per fermare la violenza contro la donna,ferma la violenza che vive in contrasto con la tua vita, in fondo al tuo cuore terrorizzato e trascurato. Donna Ricorda chi siamo: non “gente” ma la madre di ogni essere

Noi creiamo con il nostro sangue e il nostro latte le creature che ci opprimono; che siano uomini o noi stesse. Donna Svegliati! Alzati! Resisti! Donna Per fermare la violenza contro la donna, sta’ ritta sui tuoi piedi senza catene! Abbiamo perso la Terra vivendo in ginocchio.

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(*) Alice Walker ha pubblicato vari libri, fra cui il romanzo “Il colore viola” (Premio Pulitzer) e molti libri per bambini. Testo di Veronica A. Shoffstall tratto dall’Antologia a cura di Eve Ensler (autrice de “I monologhi della vagina” e Mollie Doyle “Se non ora quando? – Contro la violenza e per la dignità delle donne” (Piemme Edizioni) "Dopo un po' impari la sottile differenza tra il tenere una mano e incatenare un'anima ed impari che amare non significa possedere e che stare insieme non significa sicurezza. E cominci ad imparare che i baci non sono un contratto e che i doni non sono promesse. E cominci ad accettare le sconfitte a testa alta ed occhi aperti con la grazia di una donna e senza il dolore di un bambino. Ed impari a costruirti la tua strada giorno dopo giorno perché il terreno di domani e' troppo incerto per un programma e i piani futuri falliscono sempre a metà strada. Dopo un po' impari che anche il sole può scottarti se ne prendi troppo. Così coltivi il tuo giardino e decori la tua anima senza aspettare che qualcuno ti porti i fiori. E tu impari che davvero puoi farcela che davvero sei forte che davvero tu vali qualcosa"

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Le “4 p” per prevenire il femminicidio di Federica Resta

Il “diritto ad avere diritti”: così Hannah Arendt definiva, con parole tutt’oggi insuperate, la dignità. Quel bene prezioso, che fonda gli ordinamenti costituzionali dando senso al sistema dei diritti e delle libertà fondamentali e che, come ricordato più volte da Stefano Rodotà, apre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per sancire l’inviolabilità di quello che è il presupposto di ogni altra prerogativa. Eppure, mai come nel caso delle donne questo valore fondamentale - condizione e presupposto di ogni altro diritto- è quotidianamente violato con atti di discriminazione e

violenza. Atti espressione di quello che Amartya Sen ha definito un “genocidio nascosto” e per i quali il pensiero giuridico contemporaneo ha coniato la definizione di “femminicidio”, utilizzata peraltro nella sentenza Campo Algodonero emessa dalla Corte interamericana per i diritti umani (presieduta per la prima volta da una donna: Cecilia Medina Quiroga) il 10.12.2009, volta a sancire la responsabilità dello Stato messicano per i femminicidi avvenuti sul suo territorio. E se la pronuncia Algodonero rimanda, indubbiamente, a una realtà sociale, politica e culturale – quale quella messicana –profondamente diversa da quella italiana, tuttavia anche rispetto al nostro Paese non devono essere in alcun modo sottovalutati i dati relativi alle violenze di cui sono vittime le donne. La sezione concernente l’Italia del Rapporto condotto dall’ONU sul femminicidio nel mondo documenta infatti come, nel nostro Paese, una donna su tre – nella fascia d’età compresa tra i 16 e i 70 anni– sia stata vittima di violenza e il 35% delle vittime non abbia presentato denuncia. Sono state 63 le donne uccise da maggio a giugno di quest’anno; il 13% di esse era stata vittima di stalking. A fronte di questa realtà, è doveroso interrogarsi sulle cause e sui modi per affrontare un fenomeno che ha, indubbiamente, i caratteri dell’emergenza, ma di cui non si possono ignorare le radici profonde, radicate nella cultura e nella società del nostro Paese, nelle false rappresentazioni dei rapporti tra generi e negli stereotipi sessisti che ancora sottendono tradizioni, istituti, ruoli e realtà attuali. Vi è, insomma, una componente profondamente “strutturale” di questo fenomeno che non può essere ignorata e che richiede un intervento di carattere non emergenziale ma, appunto, altrettanto strutturale. Un intervento che eviti il ricorso meramente strumentale al diritto penale in funzione simbolica, nella consapevolezza che, in questa delicatissima materia, la legislazione penale – peraltro sufficientemente completa e, salvo alcuni aspetti, condivisibile – non può risolvere tutti i problemi. La sola chiave per affrontare seriamente un fenomeno quale quello del femminicidio è quella delle “4 P” (to prevent, promote, punish, protect), ovvero il ricorso a una sinergia di norme di natura diversa che coniughino misure volte a prevenire le cause stesse della violenza e disposizioni di carattere promozionale rispetto a una corretta rappresentazione dei rapporti tra generi e della stessa soggettività femminile; norme di carattere repressivo e misure tese a proteggere la vittima di tali abusi, evitando fenomeni di vittimizzazione secondaria e adottando

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tutte le cautele del caso per riconoscere uno status di garanzie alle persone offese anche sul piano previdenziale, lavorativo, assistenziale. A quest’idea di fondo si ispira l’importantissimo disegno di legge della senatrice Anna Serafini, in un certo senso unico, in quanto comprensivo di misure di carattere preventivo-promozionale (si pensi al Codice dei media per la promozione della soggettività femminile, ispirato alla tradizione della soft-law, mai così adatta come in questa materia) volte a sradicare i falsi stereotipi di cui la violenza di genere si alimenta e a favorire il rispetto della soggettività femminile; di puntuali modifiche alla disciplina penale la cui urgenza è stata resa evidente dalla prassi (si pensi all’estensione al coniuge dell’aggravante per lo stalking) e di norme volte a proteggere la vittima, finanche nei rapporti con i soggetti (si peni alle forze dell’ordine e alle strutture sanitarie) cui per primi essa si rivolge, nel tentativo di chiedere aiuto alle istituzioni. In attesa della firma, da parte del Governo, della Convenzione di Istanbul, l’approvazione di questo disegno di legge sarebbe il modo migliore per adeguare l’ordinamento interno agli obblighi internazionali e per restituire alle donne quella dignità troppo spesso violata.

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Biennale di Venezia 2011 – Foto di Patrizia Lo Conte

LE DONNE CAMBIANO IL LAVORO

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Protagonismo delle giovani imprenditrici di Maria Antezza

L’agricoltura ha attraversato in questi anni una profonda evoluzione culturale espandendo il proprio contributo ben al di là dei confini del cosiddetto “settore primario”, posizionandosi all’interno di una filiera che, trasversalmente, abbraccia il settore primario, il secondario, il terziario, con riferimento alla rilevante attività agrituristica da un lato e didattico-pedagogica dall’altra, il settore energetico, con il contributo nel campo delle energie rinnovabili e della produzione delle biomasse: una rivoluzione culturale, prima che economica che non a caso ha anche riaccostato le nuove generazioni a questo mondo, seppure in misura ancora non sufficiente. In generale, si va potenzialmente rinnovando l’apporto di qualità del settore a livello complessivo dell’economia e della società: dalla tutela, alla manutenzione ed alla cura del paesaggio e dell’ambiente, al presidio anche sociale che l’attività agricola esercita nei piccoli e piccolissimi centri abitativi del nostro Paese, oltre che,

primariamente, alla qualità intrinseca del prodotto agricolo italiano, veicolo di notorietà e reputazione delle produzioni italiane e all’apporto alla crescita di sensibilità verso la salute alimentare, il benessere, la qualità della vita e tutta quella costellazione di valori che intreccia natura e cultura in modo inscindibile. E' evidente che il fattore umano, la formazione, lo sviluppo e il rinnovo delle competenze, le motivazioni verso l’innovazione ed il sistema dei valori culturali e dei modelli di vita e salute, diventano (tornano a essere) determinanti, così come decisive sono le componenti di ricambio generazionale, il ringiovanimento della filiera ed il contributo femminile al PIL del settore. Da un’indagine condotta in ambito Rete Rurale Nazionale emerge chiaramente il bisogno nel nostro Paese di interventi integrati, capaci di incentivare il passaggio generazionale tra genitore e figli nonché di attrarre forze nuove, specialmente quelle delle giovani imprenditrici. Ma per fare questo é necessario da un lato supportare i giovani per affrontare una delle maggiori barriere all’entrata del settore: rendere economicamente possibile l’accesso alla terra ad una giovane che voglia intraprendere questo mestiere, dall’altro interventi che rafforzino l’impresa anche attraverso la creazione di servizi alle famiglie rurali. Ricambio generazionale della filiera e maggiore protagonismo delle donne imprenditrici e dirigenti sono quindi due obiettivi intrecciati che rappresentano, non da soli, una necessità per l’evoluzione del settore che anche il mondo associativo sta portando avanti per sensibilizzare adeguatamente le forze politiche, le istituzioni centrali e locali, il sistema educativo. Oltre a ciò, è necessario favorire l’accesso ai servizi formativi, informativi e consultivi sulla possibilità di avviare un’attività indipendente, sulle opportunità legislative. Quest’ultimo punto rimanda al tema degli strumenti legislativi di supporto all’impresa, segnatamente all’avvio, allo start up, all’inserimento di strumenti innovativi di processo e prodotto, che toccano in particolare le nuove generazioni, maschili e femminili.

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Attualmente è all’ordine del giorno della 9^ Commissione parlamentare “Agricoltura e produzione agroalimentare” il disegno di legge “Misure per favorire il ricambio generazionale in agricoltura e istituzione della Banca delle terre agricole”. Lo scopo del DDL è proprio quello di agevolare la risoluzione della criticità strutturale del comparto agricolo determinato da un’inadeguata presenza di imprenditori con meno di 40 anni. Come pure, un altro ostacolo che si tende a superare attraverso il DDL, è la piccola dimensione dell’impresa, favorendo le forme di cooperazione e aggregazione che, pur salvaguardando l’identità delle singole esperienze, consentono la condivisione progettuale, la messa in comune di segmenti e di processi che consentono di approcciare co più forza i mercati globali: cooperative, ma anche reti di impresa (con riferimento al decreto-legge 10 febbraio 2009), e organizzazioni d’impresa. Il tema della rete, può essere considerato e non da ora, un nuovo paradigma anche culturale, di cui l’istituto della rete di impresa è una concretizzazione. Questa formula si addice particolarmente alle nuove generazioni, ed all’ingresso delle donne, giovani e non, in un mondo dove essere insieme garantisce tanto la sopravvivenza quanto gli esiti più innovativi e all’avanguardia del “fare impresa con la terra”. E’ auspicabile che la rete, come paradigma, serva a mettere assieme, non solo all’interno dello stesso segmento settoriale, ma tra i soggetti dell’intera filiera: agricoltura e turismo, agricoltura e chimica, agro-industria, produzione-commercializzazione e servizio. E' fondamentale favorire il ricambio generazionale e di genere per rispondere alle sempre maggiori esigenze alimentari, energetiche e territoriali che attendono l’agricoltura nazionale ed europea. Tali sfide non possono essere affrontate senza un’agricoltura forte, competitiva, dinamica, caratteristiche che i giovani e le donne presentano in misura maggiore. Del resto, se guardiamo al futuro, non possiamo che ripartire da loro, che del futuro sono i titolari, che questa terra dovranno continuare a rendere fertile, che questo pianeta dovranno continuare ad abitare. Risuona quanto mai appropriato il profetico ammonimento di quel grande sapiente che era il capo degli indiani Sioux, il mitico Alce Nero, che esaltava la sacralità della terra e del nostro rapporto con il mondo ricordando che “questa terra non l’abbiamo ricevuta in eredità dai nostri padri, ma in prestito dai nostri figli”.

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Non siamo migliori, né uguali, siamo il rinnovamento

di Franca Donaggio e Donata Gottardi

1976 – 2012: sono passati più di trent’anni dalla prima direttiva europea sulla parità. Molti di più se ci riferiamo alla parità retributiva. Il nostro Paese è passato da antesignano della normativa di fonte europea a suo cattivo traspositore. Potrebbe bastare una ripresa di attività legislativa? La risposta ci pare non possa che essere negativa. Sarebbe sicuramente utile e opportuno, ma non basterebbe. Dobbiamo chiederci cosa non funziona. Non solo nel nostro Paese, ovviamente, visto che non si contano le iniziative a livello europeo. Ma, dobbiamo ammettere, che è soprattutto il nostro Paese ad essere fanalino di coda, quello che si colloca tra i più lontani rispetto agli obiettivi che si era data la Strategia di Lisbona per il 2010 e ora quelli per il 2020.

Quali strumenti dobbiamo attivare se abbiamo già un corpus normativo antidiscriminatorio, finanziamenti di attività promozionali, diffusi organismi di parità? Sicuramente va migliorato il diritto antidiscriminatorio, per rimetterlo almeno in pari al livello europeo, e va rafforzata la formazione, premessa anche di una giustiziabilità, finora rimasta a livelli risibili. E’ applicando e contestando che si forma la materia. Non bastano le affermazioni teoriche. Sicuramente vanno ripensati i meccanismi di finanziamento delle azioni positive. Attualmente abbiamo il finanziamento – più o meno consistente, più o meno utilizzato – di almeno tre

grandi aree di azioni positive – 125, 215, 53 sono i numeri delle leggi del 1991, 1992 e 2000. Ma non sono mai uscite dalla cerchia delle buone prassi ignote e ignorate. Sicuramente vanno messi maggiormente in rete e dotati di autonomia e risorse gli organismi di parità e di controllo delle discriminazioni. Una vera Authority forse sarebbe necessaria. Anche per evitare di essere succubi delle scelte governative. Ma comunque non ci pare sufficiente. Ricordate il dibattito che ci ha divise tra pensiero della differenza e politiche di pari opportunità? Ricordate quello che ci ha divise tra politiche settoriali di pari opportunità e politiche orizzontali di mainstreaming? Perché non provare a trovare un altro passo? Colmiamo i rischi sia della separatezza, sia della diluizione. Mettiamo al centro delle scelte politiche e di governo alcuni grandi temi, che attualmente animano quasi esclusivamente il campo delle donne. Facciamoli diventare centrali, non solo per atto dovuto alle donne, ma per atto dovuto alla società che vogliamo. E congiungiamo le riforme normative con le politiche, attribuendo una dotazione di strumenti realmente efficace ed efficiente. Questa coinvolge le parti sociali e il sistema sociale e produttivo, per il rilancio della competitività, seguendo la prospettiva dello sviluppo sostenibile. Quanto ai temi, pensiamo si debba riallacciare la elaborazione sui Tempi delle città e progettare politiche di redistribuzione dei ruoli nel lavoro per il mercato e nel lavoro di cura.

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Entrambe queste aree intervengono sull’asse dei tempi, dei lavori e dell’organizzazione e sono progetti di innovazione sociale, quello che serve per la competitività qualitativa delle comunità locali così come dell’intera Europa. Vincoliamo davvero i provvedimenti, tutti, alla valutazione di impatto di genere, da farsi ex ante ed ex post. Il rapporto sulla situazione del personale non funziona? Rivediamolo alla luce della costruzione di indicatori e di rendicontazione. Capovolgiamo la prospettiva della Responsabilità sociale di impresa. Questa, come è noto, è volontaria e porta ‘oltre’ l’obbligo della parità e dei divieti di discriminazione. Questo significa che dobbiamo presidiare e controllare la soglia: tutti i datori di lavoro devono dar conto di come applicano il rispetto della normativa, cioè la loro collocazione ‘al livello’ della soglia. Perché non pensare di procedere, a campione, a controlli mirati al rispetto della parità (formazione, progressione di carriera, retribuzione, …)? Investiamo nei servizi sociali. Otteniamo, così, un duplice risultato positivo: si consente alle persone, e in particolare alle donne, di rimanere nel mercato del lavoro; si sviluppa soprattutto occupazione femminile. Interveniamo sulle famiglie, non tanto per vincolare a un unico modello (ricalcato sulle scelte religiose; riportandoci indietro di decenni), ma per comprendere, oltre ai servizi, come poter assecondare cambiamenti già in atto a livello delle generazioni più giovani: costruiamo un vero congedo di paternità e rendiamo vincolante la fruizione di (almeno) una parte del congedo parentale del padre. Riformiamo i lavori, la previdenza e la sicurezza sociale all’insegna delle donne. Riprendiamoci in mano la flessibilità richiesta dalle lavoratrici (e dai lavoratori). Inventiamo in opportunità e in benessere delle persone che lavorano. Non dedichiamo solo attenzione collaterale alle donne e alle lavoratrici. Rafforziamo la formazione, soprattutto quella lungo tutto l’arco della vita e nei momenti di discontinuità tra lavori. Impegniamoci ad una azione di conoscenza della normativa sulla parità di opportunità e sui divieti di discriminazione. Valorizziamo le potenzialità e i vantaggi, per il singolo datore di lavoro come per l’intera società. Per far questo occorre una condizione di base: che le donne siano in condizione paritaria in tutti i luoghi della presa di decisione, in politica come nell’economia. Si tratta di fenomeni circolari: finché le donne non sono massicciamente presenti in questi luoghi, non si prenderanno provvedimenti e adotteranno politiche nette in questa direzione; finché non si avranno questi provvedimenti e politiche, le donne difficilmente saranno presenti a livello decisionale. Serve una discontinuità netta, evidente, chiara. Non siamo migliori, né siamo uguali (perché un diverso punto di vista è letto come litigio femminile, quando le differenze di opinioni tra uomini sono riportate e accettate tutti i giorni?). Siamo il rinnovamento, siamo parte dell’innovazione.

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Assistenza Sociale. Prospettive e rischi attuali di Paola Rossi

I molti che si interessano di politica e anche coloro che a tutti livelli contribuiscono a decidere orientamenti, scelte, finanziamenti, spesso non hanno chiara la funzione sociale dell’assistenza nell’Italia repubblicana dal dopoguerra. Non ne conoscono la storia e le origini non distinguono ruoli e funzioni di servizio pubblico, privato sociale, volontariato. Dal dopoguerra l’assistenza si affranca dalla filantropia ottocentesca, dalla beneficienza e emerge la necessità di dare dignità e prospettive di crescita personale e sociale a cittadini già sudditi di una monarchia e di un regime totalitario,fin lì destinatari di beneficienza. L’assistenza si basa sugli artt. 2,3 e 4

della Carta fondante della neonata Repubblica che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e a tale scopo si riconosce il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la sua partecipazione attiva al progresso della società. Una nuova filosofia sostiene i rapporti tra i cittadini e lo stato. Perseguire libertà e eguaglianza significa questo. L’assistenza viene individuata come strumento ( insieme alla previdenza e alla sanità ) su cui far leva per restituire a un popolo stremato volontà di risorgere e di recuperare le proprie risorse e la propria dimensione. Nell’autunno del 1946, un gruppo di politici e studiosi, italiani e stranieri, riuniti a Tremezzo, sul lago di Como, studiano gli strumenti per restituire dignità ai cittadini e dare alla pubblica amministrazione un impulso a immettere nei propri comportamenti flessibilità e sintonia con i bisogni gravi ed urgenti della popolazione. Il cittadino, anche nelle situazioni di bisogno e fragilità personale e sociale, deve essere riconosciuto titolare di diritti e non destinatario di elargizioni benefiche atte a creare consenso deprimendo l’individualità e la capacità di individuare autonomamente soluzioni. In questa sede si ipotizzò la nascita di una professione nuova in perfetta consonanza con il dettato costituzionale e il rinnovamento dei compiti della pubblica amministrazione. Da lì a poco nacquero le scuole di servizio sociale. Per molti decenni gli assistenti sociale hanno operato esclusivamente nella pubblica amministrazione, realizzandone il nuovo mandato e introducendo nuovi stili d’intervento e criteri di valutazione suggeriti dal progresso delle scienze sociali, di cui per molto tempo sono stati gli unici cultori e fruitori. Malgrado le sollecitazioni del gruppo di Tremezzo, non è nato in Italia un ministero dell’assistenza, restandone affidate le competenze relative al ministero dell’ interno, che ha compiti sulla pubblica sicurezza e solo nel 1976 alcune di queste sono state trasferite ali EE:LL, presso i quali non si sono spesso realizzate flessibilità e crescita culturale adeguata, restando solido l’ancoraggio alle formule burocratiche compatibili con una politica clientelare e priva di prospettive.. La burocrazia ha sempre avuto la meglio, tendendo a ridurre le persone e i problemi di cui erano portatrici a categorie assistibili e a dare risposte semplificate e standardizzato per un politico che aveva ed ha necessità di previsione di spesa e di governo. In questo contesto il servizio sociale professionale, gli assistenti sociali, hanno introdotto metodologie, hanno condotto studi e ricerche per recuperare e mantenere la filosofia fondante dell’assistenza sociale così come discende dalla Costituzione. Innovazioni e sperimentazioni introdotte allora sono diventate nel tempo prassi operative e perfino slogans di cui si ignorano l’origine e il significato: la PA tende a dare risposta ai bisogni e talvolta agisce decontestualizzandoli e riducendo persone e situazioni a mere categorie assistibili. Soprattutto si è persa la capacità di ricollegare le difficoltà vissute dai singoli a comportamenti della PA, come spesso avviene, a cause complesse che non possono essere affrontate in modo settoriale e devono trovare risposta con il coinvolgimento della comunità di appartenenza. Si poteva sperare che la legge Turco avesse impostato un nuovo approccio

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all’assistenza ma, a parte i tempi e il recepimento tardivo e parziale delle Regioni e la nascita tumultuosa di associazioni, la PA ha fatto ovunque un passo indietro. Esternalizzare ha avuto sempre più il senso di delegare, compiti di sostegno delle persone più deboli e in sofferenza ad organismi esterni che agiscono su settori , si accollano i rischi e l’onere di perpetui ritardi ed insolvenze della Pa, rimanendo in stato di sudditanza nei confronti del politico. Se la presenza del servizio sociale, degli operatori, con il loro portato di proposte , di valutazioni e ricerche all’interno dei servizi e in contiguità con le sedi politiche decisionali, nei tempi passati aveva introdotto reali mutamenti di strategie e creato spazi di accoglimento dei più deboli, questa gestione all’esterno cristallizza comportamenti che hanno ben altra filosofia e riferimenti culturali diversi: da ciò un reale superamento del dettato costituzionale e un reale ritorno al passato. Da ciò il profondo malessere degli assistenti sociali che avvertono il rischio di perdita dei valori e dei fini di cui si sentono e sono portatori e di essere utilizzati come tecnici dell’assistenza, nel momento in cui hanno conquistato il pieno riconoscimento della professione e accumulato esperienza e conoscenza da spendere per innovare il rapporto tra lo stato e il cittadino nel settore dell’assistenza sociale. Il rischio grave e reale è che si perda il significato dell’assistenza, che si lega all’eguaglianza dei cittadini, alla promozione sociale, alla partecipazione.

Talenti e crescita nell’imprenditoria femminile di Daniela Sbrollini

L'Italia, per rispettare quanto sancito dal Consiglio europeo di Lisbona del 23-24 marzo 2000, avrebbe dovuto integrare nel mercato del lavoro il 60 per cento delle donne in grado di lavorare entro il 2010. In realtà l'Italia, con un tasso del 46,6 per cento, appare decisamente al di sotto della media europea (pari al 58,3 per cento) e ben lontana da questo obiettivo. Secondo un recente sondaggio dell'Istituto nazionale di statistica i dati sulla disoccupazione femminile sono preoccupanti: nel nostro Paese, le donne inattive sono 9.677.000, con un aumento congiunturale dello 0,3 per cento (+ 30.000 unità) e tendenziale dello 0,9 per cento (+ 86.000 unità). La quota

delle donne inattive, secondo l'ISTAT, è sempre superiore a quella degli uomini: sono circa cinque ogni dieci quelle inattive. I più recenti dati dell'Istituto indicano che, nella fascia di età tra i trentacinque e i quarantaquattro anni, al nord lavorano settantacinque donne su cento, al centro sessantotto e al sud quarantadue. Considerate le esigenze e le richieste provenienti da più parti, appare doveroso e ineludibile un intervento legislativo indirizzato a definire un quadro giuridico della parità effettiva e della razionalizzazione delle risorse, che conferisca alla donna la reale e concreta possibilità di conseguire un ruolo paritario in un contesto imprenditoriale. Tale intervento si inserisce nel più generale e recente indirizzo dell'Unione europea (Small Business Act), volto a orientare gli Stati membri ad assicurare una politica di sviluppo delle piccole e medie imprese. Sebbene il 20 febbraio 2010, sia entrato in vigore nel nostro Paese il decreto legislativo 25 gennaio 2010, n. 5, in attuazione della direttiva 2006/54/CE, relativa al principio delle pari

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opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (che ha, tra l'altro, modificato il codice delle pari opportunità tra uomo e donna di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198), non si riscontrano disposizioni specifiche volte a incentivare l'imprenditoria femminile. Infatti, le nuove disposizioni rafforzano il principio della parità di trattamento e di opportunità fra donne e uomini, che deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell'occupazione, del lavoro e della retribuzione, e prevedono, inoltre, sanzioni più severe in caso di violazione di tali princìpi. Tuttavia, molto c’è ancora da fare nel settore dell'imprenditoria femminile. Gli organi dell'Unione europea, come si evince nella risoluzione 2010/2275(INI) del Parlamento europeo, del 13 settembre 2011, incoraggiano gli Stati membri a promuovere l'imprenditorialità femminile nel settore industriale e a fornire assistenza finanziaria, strutture di consulenza professionale e una formazione appropriata alle donne che fondano imprese. Il nostro attuale quadro normativo non consente di soddisfare tali richieste. L'Italia, grazie alla citata direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, ha recepito il cosiddetto «mainstreaming di genere» che rappresenta una delle principali novità nell'ambito dell'attuale ciclo di programmazione delle politiche strutturali. Esso esprime un principio che ha determinato in modo importante la programmazione delle politiche europee dell'ultimo decennio in relazione all'obiettivo delle pari opportunità tra uomini e donne. Prende in considerazione le differenze tra le condizioni, le situazioni e le esigenze delle donne e degli uomini per far sì che la prospettiva di genere si applichi all'insieme delle politiche e delle azioni dell'Unione europea. Il mainstreaming di genere può essere definito una strategia globale e trasversale volta a smascherare e a diminuire le differenze di impatto che politiche, seppur a prima vista neutrali in termini di parità tra i sessi, hanno per donne e per uomini. In quanto strategia finalizzata al raggiungimento delle pari opportunità contribuisce a porre il punto di vista delle donne letteralmente al «centro della corrente» in tutte le politiche e le azioni dell'Unione europea, promuovendo la loro partecipazione in campi o in ruoli precedentemente loro preclusi. Secondo una definizione dell'Unione europea è: «l'integrazione sistematica delle condizioni, delle priorità e dei bisogni propri delle donne e degli uomini in tutte le politiche, al fine di promuovere attività fondate sull'uguaglianza tra donne ed uomini. È anche intesa come mobilitazione di tutte le politiche e le misure generali al solo scopo di realizzare uguaglianza e tenendo conto della loro incidenza sulla situazione specifica di donne e di uomini nelle fasi di pianificazione, di implementazione, del calcolo delle ricadute e della loro valutazione». Il principio, sancito formalmente dalle Nazioni Unite nella Conferenza di Pechino del 1995, è l'asse portante del IV Programma 1996-2000 e uno dei «pilastri» del Trattato di Amsterdam (1997). Contribuisce a far sì che l'obiettivo delle pari opportunità tra le donne e gli uomini, insieme all'imprenditorialità, all'adattabilità e all'innovazione, diventi il riferimento trasversale e imprescindibile per accedere a programmi, formulare progetti e programmare politiche nazionali. Nessuna programmazione operativa, anche locale, è approvata dall'Unione europea senza un'attenzione particolare al principio delle «pari opportunità». Il cambiamento di prospettiva è fondamentale e le strategie di mainstreaming messe in campo, ad esempio in ambito occupazionale, hanno permesso alle donne di non essere più considerate «categoria assistita».

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I cardini della strategia del mainstreaming di genere sono indicati nella comunicazione COM(96)67 della Commissione, del 21 febbraio 1996, recante «Integrare la parità di opportunità tra le donne e gli uomini nel complesso delle politiche e azioni comunitarie», la prima a definire una programmazione relativa a: occupazione e mercato del lavoro: si intende portare avanti la definizione del quadro giuridico della parità, razionalizzare e integrare in maniera migliore i provvedimenti di sostegno a studi riguardanti donne nella politica di cooperazione allo sviluppo nei Paesi in via di sviluppo: l'inserimento delle questioni di genere nella cooperazione allo sviluppo è definita dalla comunicazione COM(2001)0295 della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sull'integrazione delle questioni di genere nella cooperazione allo sviluppo; donne capi d'impresa e coniugi collaboratrici nelle piccole e medie imprese: si prevedono azioni a favore delle donne nelle piccole e medie imprese, attraverso un miglioramento della flessibilità del lavoro, della qualificazione professionale e dell'accesso agevolato al credito; istruzione e formazione: l'insieme delle azioni dell'Unione europea in materia di istruzione, formazione o gioventù mira a inserire le pari opportunità come obiettivo specifico o come priorità addizionale; diritto delle persone: azioni per la lotta contro la violenza nei confronti delle donne, per la lotta contro il traffico di persone e per il reinserimento nella società delle vittime di tale traffico. Sono previste azioni volte a migliorare la sicurezza e l'integrità delle donne rifugiate; ricerca e scienze: rafforzata dalla comunicazione COM(1999)76 della Commissione del 1999 relativa alle donne e alla scienza; politica del personale: la politica di pari opportunità è attuata dalla Commissione nei confronti del suo personale tramite programmi di azioni positive. In Italia l'integrazione del punto di vista di genere nelle politiche governative è stata introdotta dalla direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 27 marzo 1997, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 116, del 21 maggio 1997, di cui è il secondo obiettivo strategico e che si prefigge le finalità di promuovere l'attribuzione di poteri e responsabilità alle donne, di riconoscere e di garantire libertà di scelte e qualità sociale a donne e a uomini. Essa prevede il rafforzamento e l'adeguamento dei meccanismi istituzionali del mainstreaming attraverso azioni che assicurino un coordinamento dell'azione dei Ministeri e che verifichino lo stato di attuazione delle normative in materia di parità, in particolare della legge 10 aprile 1991, n. 125 (ora confermata nel citato codice di cui al decreto legislativo n. 198 del 2006). Nella direttiva sono individuate, in alcuni campi, le seguenti priorità di azione per la situazione italiana: in campo politico-istituzionale, promuovere la presenza delle donne nei luoghi decisionali, le analisi di impatto, il coordinamento e la riforma dell'azione istituzionale, e, infine, la cooperazione internazionale; in campo economico-sociale, formare e promuovere l'imprenditorialità femminile, l'occupazione (sia nel lavoro dipendente che nel lavoro autonomo e nel no-profit), le politiche dei tempi, degli orari e dell'organizzazione del lavoro, della salute e della violenza contro le donne. Le riforme sono finalizzate alla costruzione di un sistema articolato per l'attuazione del mainstreaming attraverso il riesame di normative, politiche e programmi con l'apporto del Comitato nazionale per l'attuazione dei princìpi di parità di trattamento ed eguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici.

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Ragioni e provvedimenti sopra elencati sono all’origine di una mia Proposta di legge, presentata il 18 novembre scorso, e intitolata “Disposizioni per la promozione e il sostegno dell'imprenditoria femminile". Una proposta con misure urgenti tese a modificare e a integrare le norme di settore. Nel merito, l'articolo 1 della Proposta, prevede la destinazione, a decorrere dall'anno 2011, di una quota non inferiore al 30 per cento del Fondo per la finanza d'impresa, di cui all'articolo 1, comma 847, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, al fine di favorire la creazione e lo sviluppo sul territorio nazionale di nuove imprese femminili. A tale fine, lo stesso Fondo è rifinanziato per una quota pari a 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2011, 2012 e 2013. L'articolo 2 prevede, al fine di sostenere l'accesso delle donne alle attività d'impresa, la concessione di un credito d'imposta del 36 per cento per le spese documentate e sostenute per l'acquisto di impianti e di macchinari necessari all'avvio dell'attività e al miglioramento della qualità della produzione. A tal fine è previsto lo stanziamento di 300 milioni di euro per il triennio 2011-2013. L'articolo 3 prevede l'istituzione, presso il Ministero dello sviluppo economico, del Fondo strategico in favore delle piccole e medie imprese femminili, con una dotazione di 150 milioni di euro per il triennio 2011-2013. L'articolo 4 prevede un cospicuo rifinanziamento del Fondo nazionale per l'imprenditoria femminile previsto dall'articolo 54 del citato codice di cui al decreto legislativo n. 198 del 2006, con 200 milioni di euro l'anno a decorrere dal 2011. L’approvazione rapida di questa Proposta darebbe al Paese uno strumento per intervenire seriamente a tutela dell’imprenditoria femminile, utile sul versante delle politiche di genere ma anche come risposta alla crisi nella direzione della tanto attesa e auspicata crescita.

Biennale di Venezia 2012 – Foto di Patrizia Lo Conte

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Quando l’impegno e’ donna: la tutela dei diritti degli animali di Silvana Amati

C’ è una relazione tra l’altra metà del cielo e la tutela degli animali, un legame che nasce da molti storici punti di convergenza. Donne e animali hanno avuto ed hanno ancora percorsi paralleli nella faticosa strada al riconoscimento di diritti fondamentali. Solo alla metà del XVI° secolo, con il Concilio di Trento, alle donne in Europa è stato riconosciuto il diritto all’anima. Le donne non godono ancora di maggiori diritti rispetto agli animali in vasta parte del mondo. Le donne, in quanto portatrici di vita, sono di norma maggiormente attente alla difesa dei diritti fondamentali dei più deboli, di cui si prendono cura sia che si tratti di bambini, di anziani, di animali. Così nelle principali associazioni animaliste la prevalenza dell’impegno è donna. In tutto questo trovo dunque corrispondenze con il mio impegno verso gli animali, che nasce dalla convivenza con i gatti della mia vita, Tom e Zac, ma anche dai ricordi dolorosi della mia esperienza

universitaria, dalla conoscenza diretta delle sofferenze degli animali sottoposti a sperimentazione. La strada è stata lunga e non semplice, anche perché fino al dopoguerra è prevalsa nel Paese una economia agricola secondo la quale gli animali sono stati considerati solo di “utilità”, cioè strumenti. Certo non “esseri senzienti” come ora, dopo la Carta di Lisbona, sono riconosciuti in Europa. Si è anche potuto usufruire di molte buone leggi che hanno prodotto molte buone pratiche, in particolare nelle tante amministrazioni comunali virtuose che fortunatamente governano tanta parte dell’Italia. Restano però moltissime zone d’ombra, oltre a pesanti criticità che per altro la crisi economica attuale aggrava. Resta il problema del randagismo, acuto in estate in molte realtà, soprattutto del Sud. Un problema che, accompagnato dalla barbarie dell’abbandono, in primis interroga le nostre coscienze ed inoltre incide anche pesantemente sulle risorse comunali. Resta l’alto costo complessivo di farmaci e alimenti dedicati agli animali d’affezione che sono ancora considerati beni di lusso, mentre sempre più spesso rappresentano l’ultima, unica compagnia di persone sole, sovente le meno abbienti, quasi sempre donne. Resta il tema della sperimentazione animale, oggi così fortemente contestata dalla maggioranza degli italiani, con i canili lager, dove si allevano cuccioli per le peggiori sofferenze. Resta la difficoltà di applicare finalmente tante direttive europee, dal divieto di sperimentazione animale per i cosmetici, alle differenti norme che riguardano gli allevamenti dove comunque va tenuto insieme l’uso che si fa degli animali, con la necessità di rispettarli almeno un po’, riducendo il più possibile le loro sofferenze.

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E questo solo per ricordare alcune emergenze che prevedono, anzi impongono, un impegno politico e legislativo e una crescita culturale complessiva per rispondere alle nuove domande della società civile. E’ noto infatti che oltre l’87% degli italiani ha un sentimento positivo nei confronti degli animali, che il 44 % ha un cane, mentre i gatti stanno nel 33% delle famiglie come compagni di vita. Per questo recentemente ho proposto e ottenuto che ANCI si facesse promotrice di una campagna di buone pratiche attivandosi per diffondere nuovi modelli di regolamento per la gestione degli animali. Per questo ho avuto la disponibilità degli organizzatori del concorso Miss Italia di spendersi per la campagna “un amico non si abbandona mai”. Così nelle oltre 600 piazze dove si svolgeranno le preselezioni si parlerà di lotta al randagismo nel periodo estivo, quello più delicato sul fronte degli abbandoni. Per questo in Senato lavoro per ottenere l’approvazione dell’articolo 14 della legge comunitaria, quello in cui si norma la sperimentazione animale. Si tratta comunque di un cammino difficile, costruito con il supporto delle principali associazioni animaliste. Ma è anche la strada che può portare l’Italia a meglio corrispondere alla massima di Gandhi secondo la quale” il grado di civiltà di una Nazione si misura dal modo in cui tratta gli animali”.

Da Palermo con furore. Le donne e i nostri amici a quattro zampe

di Maria Fasolo

Francesca, Patrizia, Rosanna, Daniela, Grazia, Elena, Franca, Maria. Questi sono alcuni dei nomi delle straordinarie donne e ragazze, che si occupano a Palermo, da volontarie , dei canili. Il fenomeno del randagismo legato all’abbandono ha molteplici origini, la superficialità con cui alcune famiglie adottano un animale, per poi alle prime difficoltà abbandonarlo, è uno di questi. Un cane abbandonato è un cane che soffre, questo ce lo dicono gli esperti, ma diventa anche un problema per la società. Si abbandona quando non si vuole rinunciare alle ferie, perché tenere un cane in casa significa sacrificarsi: portarlo fuori

per fargli fare i bisogni, farlo correre e camminare, insomma un cane non è un peluche che puoi piazzare sul divano e farlo stare lì buono senza muoversi. Poi c’è pure l’abbandono legato alle questioni economiche: quando un cane si ammala curarlo é dispendioso, e alcune famiglie, con la crisi che attanaglia il Paese, non hanno la possibilità di affrontare le spese per le cure mediche. Come cercare di risolvere il problema? Ci dovrebbero essere delle strutture, organizzate, che a poco prezzo accolgano i cani. Una soluzione potrebbe essere quella di fare delle convenzioni con i canili privati dove, con il

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contributo dei comuni o con un prezzo accessibile alle famiglie, si dia ospitalità ai nostri amici; oppure formare una rete di “autoaiuto”, tra tutti quelli che hanno animali in casa, per potersi sostenere a vicenda quando si è in viaggio o ci si deve assentare. Per quanto riguarda le cure agli animali ammalati si potrebbero fare delle convenzioni con veterinari, quelli ad esempio delle ASL. Dovremmo impegnarci tutti affinché i farmaci e i vaccini per i nostra amici a quattro zampe abbiamo un costo più accessibile. Si dovrebbero, inoltre, realizzare strutture di accoglienza dotate di personale pronto ad intervenire, nei casi di maltrattamenti, con guardie cinofile che ne abbiano l’autorità. Tali strutture dovrebbero prevedere anche la presenza di educatrici cinofile che facciano dei colloqui pre-adozione, per capire il grado di affidabilità di una famiglia che vuole adottare un animale e per seguirne poi un percorso di affidamento e sostegno. Queste potrebbero essere alcune delle soluzioni. A Palermo il canile municipale che accoglie gli animali abbandonati è fatiscente, i poveri cani vengono tenuti in gabbie anguste. Ma, per fortuna, ci sono tante donne e ragazze che cercano di portargli un po’ di conforto e sollievo: puliscono le gabbie, li fanno “zampettare”, gli danno da mangiare. Tutto ciò a titolo completamente gratuito. Poi ci sono i canili privati dove delle donne straordinarie, senza nessuna risorsa pubblica, si occupano di decine di cani e gatti abbandonati che, altrimenti, sarebbero destinati ad una brutta fine. La nuova amministrazione, fra i tanti proclami fatti, si impegni per dare sollievo a questi nostri amici a quattro zampe, utilizzando le risorse per costruire un nuovo canile facendolo gestire alle associazioni di volontariato, alle tante donne e ragazze che li amano veramente ed ogni giorno si sacrificano per accudirli e per dare loro un po’ di affetto ed una carezza. E spero che, con l’arrivo dell’estate, un attimo prima di decidere abbandonarli, li guardino a lungo negli occhi: sono convinta che cambierebbero subito idea. Come diceva Konrad Lorenz “il nostro amore per gli animali si misura dai sacrifici che siamo disposti ad affrontare per loro”.

Biennale di Venezia 2011 – Foto di Stefano Bascone

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Biennale di Venezia 2011 – Foto di Alberto Polonara

IL COLORE DEL GRIGIO

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Ricominciare si può di Manuela Granaiola

Lo innamorarsi è la ricetta che usano i vecchi contra il tempo; e ha cotanta virtù il lor far ciò, cha tanto ritornano giovani quanto ciò fanno.

Pietro Aretino (1492-1556)

Oggi fortunatamente le persone, dopo aver lasciato il lavoro, non si aspettano più di vivere quel periodo di riposo come preludio all’inevitabile declino psico-fisico. Un numero crescente d’anziani oggi spera di poter vivere la vecchiaia come una fase della vita segnata da nuova progettualità, voglia di apprendere e di fare. Non a caso capita sempre più di frequente che, dopo l’entrata in pensione, si riscoprono i sentimenti e le relazioni affettive ed interpersonali. La conservazione di un buono stato di salute in

età avanzata rappresenta una grande – probabilmente la più grande - conquista epocale. Le cittadine e i cittadini europei, raggiunta l’età della pensione, oggi hanno di fronte a loro un'aspettativa di vita attiva e sana mediamente di circa 15 anni; un periodo che tende ad allungarsi di circa tre mesi ogni anno. Un periodo che purtroppo però non è ancora uguale per tutti i paesi europei. Sarebbe un errore gravissimo considerare il prolungato invecchiamento solo, o prevalentemente, come fattore di instabilità sociale, necessariamente foriero di conseguenze negative per i sistemi pensionistici e sanitari; occorre invece leggerlo attentamente in un’ottica totalmente nuova per coglierne le complessità ma soprattutto per promuovere le nuove potenzialità che tale tendenza può generare, sia in termini di civiltà, che in termini economici e di potenziale sviluppo. Quella di come affrontare il crescente invecchiamento della popolazione è una delle sfide fondamentali che la politica dovrà affrontare nei prossimi anni. Una sfida da vincere per uscire bene dalla crisi che ci attanaglia. In fondo a cosa dovrebbe servire la politica se non a creare le condizioni per vivere tutti meglio e più a lungo? Esiste una “questione demografica”, cioè uno squilibrato invecchiamento delle nostre società, che - aggravata dagli effetti della crisi - sembra dar vita ad una insanabile contrapposizione tra giovani generazioni ed anziani. Non è così. La questione giovanile è solo l’altra faccia di una più complessa “questione demografica” che oggi non trova più risposte in un disordinato ed egoistico modello di sviluppo ormai economicamente insostenibile ma soprattutto incapace di rispondere alle aspettative di milioni di donne e di uomini – giovani o anziani che siano - ed alle inedite, globali sfide che ci attendono non fra 10 o 20 anni ma nell’immediato futuro. Ci troviamo di fronte ad un quadro che integra i vecchi bisogni sempre rilevanti e centrali come quelli consolidati dell’assistenza sanitaria, della cura nella fase terminale della vita e delle pensioni con le nuove potenzialità ed aspettative di milioni di anziani che, generazione dopo generazione (una diversa dall’altra), in numero sempre crescente, ri-scoprono la libertà, la creatività, la voglia di viaggiare, la partecipazione, la formazione, la cura del proprio corpo e della propria mente e con essi la rinascita dei sentimenti; anziani che si confrontano consapevolmente con le nuove tecnologie e che non si accontentano più di ballare, di giocare a

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bocce o a carte. Anziani di buon grado costretti ad essere risorsa aggiuntiva per famiglie che sempre con maggior difficoltà riescono a far quadrare i propri bilanci e la cura dei figli. Genitori anziani che sopperiscono alla previdenza per i figli disoccupati, educano i nipoti e sono portatori di ruoli e competenze utili per tutta la società. Si tratta di quella prospettiva complessa e per molti aspetti ancora tutta da indagare, che viene oggi indicata con il termine di “Invecchiamento attivo”. Non è un caso se, anche in questa situazione, le donne sembrano destinate a svolgere un ruolo particolarmente rilevante. Le donne sono “abituate” ad una maggiore autonomia e sono dunque meglio in grado, anche in età avanzata, di affrontare le sfide dell’anzianità. Sfide spesso vissute da “single senior” anche in virtù della loro maggiore aspettativa di vita. Negli ultimi anni sembra inclinarsi il mito di quella visione un po’ romantica (e tanto pubblicitaria) della coppia d’anziani che si appresta a vivere insieme e serenamente il proprio invecchiamento comune. Secondo un sondaggio illustrato al cinquantesimo congresso della Società italiana di gerontologia e geriatria a prendere più spesso la decisione in età avanzata di separarsi o divorziare sono le donne. La crescita delle separazioni dopo i sessanta anni suggerisce una intrigante e più ampia riflessione che investe la totalità dei rapporti familiari così come sono stati e come stanno mutando in questi anni. Una riflessione che riguarda prevalentemente donne che, ricordo, negli anni sessanta (quelli della rivoluzione sessuale ed antiautoritaria) erano poco più che ventenni. Anni ed anni di matrimonio non sempre proprio soddisfacenti, troppo spesso segnati dal sacrificio e dalla subordinazione verso il coniuge che lavora ! Ora che i figli hanno una vita propria, capita che quegli anni vengano ripensati e rifiutati in nome di una ritrovabile libertà fonte di nuove esperienze, di rinnovata attenzione per la propria persona e per nuove, non vincolanti, relazioni con gli altri. Negli Stati Uniti il fenomeno dei divorzi in età avanzata è in crescita da tempo, tendendo al raddoppio anno dopo anno. Da qualche tempo lo stesso fenomeno è emerso anche nel nostro paese mostrando una netta crescita. Le società occidentali, quelle del benessere pre-crisi, mostrano una spiccata tendenza all'unificazione dei comportamenti sociali alimentando fenomeni inediti ancora tutti da indagare. Si tratta certo ancora di tendenze fortemente diversificate per reddito, paese, livello di formazione, cultura; tuttavia si tratta di indicazioni tendenzialmente significative che ci parlano di ripensamenti, di riflessioni, di critica e di disponibilità al cambiamento fino ad oggi inimmaginabili in un certo, diffuso stereotipo della figura dell’ anziano. Quello dei “divorzi grigi” è un fenomeno ancora limitato ma tuttavia emblematico e fortemente significativo che si lega strettamente a quanto agisce all’interno della più complessa questione demografica. Pur non potendo generalizzare né cadere in semplici luoghi comuni, in genere i dati ci dicono che l'uomo “perde la testa” per una donna più giovane mentre la donna punta prevalentemente a riconquistare la propria libertà. Insomma il divorzio o la separazione in età avanzata, se non ci sono gravi difficoltà finanziarie, non viene vissuto tanto come dramma familiare quanto piuttosto, specialmente per la donna, come occasione per un nuovo inizio. Ecco che allora anche la questione demografica, nella sua declinazione del così detto “invecchiamento attivo”, porta alla luce tutte le contraddizioni non più sostenibili di una società contemporanea che ancora fatica a riconoscere una concreta parità tra sessi e perciò genera soluzioni apparentemente stravaganti (ma invece profondamente radicate nella storia delle relazioni familiari di questo paese) come quelle appunto del fenomeno dei “divorzi grigi”.

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Divorzi grigi: un nuovo “libello di ripudio”? di Giovanna Ruo

Forse un tempo per una coppia il fatto di invecchiare insieme era scontato. O forse la più precoce mortalità rendeva lo stesso invecchiare insieme in fenomeno statisticamente marginale. O forse ancora le poche volte che entrambi i partner (coniugi o no qui non importa) arrivavano insieme a traguardi di età considerati di tutto rispetto (60 anni lo erano), il loro maturare fisico era stato coevo. Ma attribuire la responsabilità di un fenomeno statisticamente crescente quale quello dei divorzi grigi solo al viagra o a quei modelli sociali che hanno ammiccato per anni all'uomo comune, facendo intravedere nell'anziano che si accompagna alle ragazzine il 'vincente' da imitare, è probabilmente individuare più un concomitante

effetto che una causa. Non ho né competenza né scienza per individuare le motivazioni di un fenomeno sociale crescente, che chi fa il mio mestiere di avvocato non può però limitarsi a registrare. Chi ha il compito di dare voce alla domanda di giustizia delle persone, chi per mestiere entra nella vita e nelle case di tanti nuclei familiari e ha modo di cogliere con anticipo tendenze e nuove problematiche sociali connesse all'evolversi dei costumi familiari, non può fare a meno di interrogarsi anche sul piano della responsabilità sociale, dato che la difesa dei diritti non può limitarsi al singolo caso nel singolo processo, ma ha una portata costituzionale molto più ampia, e deve espletarsi anche nella società civile. Fatto sta che sempre più frequentemente si assiste a unioni che si dissolvono dopo tanti anni, per scelta sostanzialmente dell'uomo che trova una rinnovata freschezza sentimentale in una compagna usualmente più giovane, più appagante non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico, perché meno pungente, meno critica della compagna di una vita, decisamente più propensa se non all'adulazione (molto frequente nelle situazioni di ruolo sociale rilevante dell'uomo) quantomeno all'assecondamento. E fino a qui si dirà che quella di rifarsi una vita è estrinsecazione della libertà personale, del principio di autodeterminazione costituzionalmente garantito. E certamente è così, se non ci fossero molto spesso, troppo spesso, storie di un abbandono triste, consumato dopo anni di abnegazione spesso unidirezionale, con conseguenze rilevanti sia sul piano personale sia su quello sociale. Nella generazione di donne 'dismesse' da partner che, avvertendo intorno ai 50 anni o su di lì una rinnovata fame d'aria, quasi che sentissero che l'orologio biologico sta loro dando ultime chances di giovanilismo da non perdere, si sentono spesso storie simili. Si tratta di donne che negli anni della giovinezza sono rimaste un passo indietro rispetto ai loro partner, che li hanno anche aiutati nel lavoro, ma in una posizione defilata, talvolta assumendo il peso di un secondo lavoro criptato nell'esercizio commerciale, nell'azienda, nello studio professionale del marito, mentre contestualmente crescevano i figli e talvolta davano assistenza ai genitori anziani anche di lui. Donne che hanno sostenuto il proprio uomo carrierista tessendo una fitta trama di

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relazioni sociali utili al di lui successo. Donne che hanno anche condiviso complesse manovre finanziarie per rendere meno fiscalmente visibili i patrimoni talvolta consistenti dei loro uomini, la cui apparente esiguità si rivolgerà loro contro. Ebbene queste donne si trovano 'dimissionate' in un'età nella quale è difficile per loro (la natura è discriminatoria in questo) rifarsi una vita e per di più in una situazione non semplice dal punto di vista anche giuridico e sociale. Nei divorzi grigi, infatti, i figli sono già cresciuti, e sono diventati indipendenti (o lo sono stati fatti talvolta diventare con oculate manovre preparatorie): questo sul piano giuridico vuol dire che la casa familiare non viene assegnata. E che se è di proprietà dell'uomo o di terzi, la donna si trova senza casa. Ma, si dirà, avrà diritto a un congruo assegno di mantenimento. Dipende: se non sarà sposata non avrà diritto proprio a nulla. Ma, qualcuno certamente osserverà, se una non ha voluto assumere gli obblighi del matrimonio, non ha diritto ai corrispondenti benefici, a quella solidarietà coniugale o post coniugale che è rappresentata dall'assegno di mantenimento o da quello divorzile. Peccato che non sia sempre così chiaro che non sposarsi vuol dire anche rinunciare preventivamente a ogni garanzia: e scoprirlo dopo una vita in cui ci si è dedicati non meno di una moglie, sacrificando la propria carriera, la propria vita, talvolta la propria identità sociale, in una vita solidale con il partner e con la famiglia con lui costruita identica nei contenuti a quella coniugale, non è cosa gradevole, per dirla con un eufemismo. E dirò anche che per chi fa il mio mestiere di avvocato, dover comunicare a una 60enne che non è stata moglie nei fatti meno di me, che mi ha raccontato fino a quel momento la sua storia di abnegazione nei confronti del partner che la ha appena dimissionata chiamandolo sempre 'mio marito' (perché tale è stato nel suo vissuto), comporta una vera "sofferenza costituzionale", una profonda frustrazione per l'amara consapevolezza di non avere gli strumenti per dare voce alla domanda di giustizia; tanto più se quella stessa 60enne non coniugata solo alla fatidica domanda avvocatesca su data e tipo di matrimonio, avrà affermato tranquillamente di non essere sposata con quello che fin a quel momento aveva chiamato 'mio marito'. Ma anche la sorte delle coniugate non è poi delle migliori. Per quanto riguarda la casa, la situazione più o meno si equivale, a parte alcuni aspetti tecnici collegati con particolari istituti patrimoniali del matrimonio. Si è già detto che l'assegnazione della casa familiare ha luogo quando vi sono figli minori o non indipendenti economicamente e conviventi: situazione che, nei cd. divorzi grigi, è veramente marginale. Se le 'dimissionate' non sono proprietarie della casa, quindi, se ne debbono andare; se sono comproprietarie con il partner, questi potrà richiedere la divisione della casa e, se questa non sarà divisibile (come succede con molta frequenza), ne chiederà la vendita. La casa sarà venduta e la nostra avrà realizzato qualche cosa che le consentirà, tutt'al più, di acquistare un immobile certamente di minor pregio sotto tutti gli aspetti. Più piccolo, meno centrale etc.. Ma saranno solo i casi fortunati, quelli nei quali negli anni ci sarà stato un acquisto di immobile intestato ad entrambi. Per quanto riguarda le sposate, potranno ottenere un assegno di mantenimento, ma se la situazione patrimoniale del marito è modesta o appare tale (e per disvelare in questi casi le reali capacità occorrono anni di giudizio e un investimento di risorse economiche non sempre possibile per la dimissionata), tale assegno sarà in realtà ben lontano dal consentirle di mantenere il tenore di vita precedente. Senza casa, con risorse economiche modeste, o comunque al di sotto di quelle precedentemente godute, queste donne si trovano anche molto spesso sole. Dopo una prima fase nella quale il compianto degli amici e delle amiche fa intravedere almeno una solidarietà sociale, costrette

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talvolta per far quadrare il bilancio a reinventarsi un lavoro o un secondo lavoro del quale in precedenza poteva anche non esserci stato bisogno, quando riescono a trovarne uno - perché in età matura non è poi mica facile-, talvolta anche molto al di sotto delle precedenti aspettative sociali, vengono spesso anche abbandonate dal contesto amicale che le ha sostenute in un primo momento, che non ama essere coinvolto alla lunga in diatribe, tanto più se con strascichi giudiziali. Restano i figli, quando ci sono, e quando non si alleano con lui, più potente economicamente, vincente, meno recriminatorio. Non si tratta di situazioni che possano essere risolte per legge, anche se la legge qualche cosa potrebbe farla per alleviarle. Mi chiedo se la riscoperta del valore della maturità e un serio ripensamento culturale sul giovanilismo forzato e imposto come valore sociale tornerebbe utile, e mi chiedo anche se la nostra società che si asserisce avanzata ed è così orgogliosa di sé rispetto ad altre, non stia reinventando proprio il 'libello di ripudio'.

Biennale di Venezia 2011 – Foto di Patrizia Lo Conte

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Biennale di Venezia 2011 – Foto di Anna Mencaroni

LIBERE E RESPONSABILI

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Un diverso approccio culturale. La mediazione. di Marilena Adamo

Donne, relazioni, welfare, innovazione. Insomma ne parliamo ancora noi? Sì, perché oggi più che mai c’è bisogno di una sguardo diverso, di una diversa cultura nell’affrontare le indispensabili innovazioni nel welfare. Innovazioni che non necessariamente passano da un aumento di spesa, né necessariamente si risolvono nei diversi pesi del rapporto pubblico-privato.

Un esempio che mi sento di proporre è la diffusione della cultura della mediazione nella soluzione dei conflitti e in particolare nel caso di separazione o divorzio in presenza di figli piccoli, quella

che viene chiamata mediazione familiare, che mi sta particolarmente a cuore.

E’ successo in Italia, come in altri casi, che la società civile anticipasse la politica e la legislazione e fin dalla fine degli anni 80 sono nate associazioni di genitori separati, insieme a psicologi, assistenti sociali, avvocati- una per tutte la milanese Ge.A ( Genitori Ancora) - che mutuando anche dalle esperienze francesi hanno incominciato ad introdurre una pratica nuova e a formare figure di alta qualificazione professionale, sconosciute nel nostro panorama formativo e delle professioni. Da allora – più di 20 anni – diverse leggi ne hanno fatto cenno. Per prima, la legge Turco 285 ne parla come sperimentazione da sostenere da parte dei Comuni nel caso di “difficoltà relazionali” genitori-figli o tra genitori. Fino ad arrivare nel 2006, con l’introduzione dell’affido condiviso in caso di separazione/divorzio, alla previsione della mediazione prima della decisione definitiva del magistrato. Ma in nessuna legge si definisce la mediazione ( in cosa consiste?) né il profilo professionale ( chi è il mediatore?) e quindi il percorso formativo. Sono fiorite così, all’italiana, scuole e corsi di diverso tipo, dai più rigorosi ( triennio post-laurea con tirocinio e supervisione) a quelli veramente scadenti. La preoccupazione di veder ridursi la mediazione a pratica burocratica o peggio farla gestire da professionisti non qualificati – che guai si possono fare in situazioni così delicate! – ci ha portato ad una proposta di legge ( A.S. 2203/ 2010) che riconosce e regolamenta la figura professionale del mediatore familiare e la sua formazione, dopo più di un anno di confronto con l'associazionismo interessato. Il testo assume un “punto di vista”, quello della mediazione come pratica non “riparatoria”, ma “promozionale”, che scommette sulla capacità delle persone di gestire il conflitto; la mediazione quindi non può essere imposta, ma scelta: obiettivo allora come oggi, non è quello di salvare a tutti i costi un matrimonio o un rapporto di coppia (se ci si riesce, meglio naturalmente), ma di sostenere chi si separa o divorzia a mantenere la piena funzione genitoriale. Nessun approccio ideologico, ma la piena consapevolezza di come la trasformazione

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in corso da anni della famiglia e della genitorialità richieda a volte sostegno e aiuto alle persone, fuori dalle aule giudiziarie e dagli ambulatori medici. Meglio, molto meglio del Prozac.

L’approccio di genere nella promozione della salute di Fiorenza Bassoli

Nel nostro paese fino a qualche anno fa c’è stata poca attenzione alla medicina di genere, e questo ha comportato arretratezza nella prevenzione e nella cura di oltre il 50% della popolazione. Le donne vivono di più: una bambina nata nel 2000 alle condizioni date, ha un’aspettativa di vita di 100 anni. Ma se le donne vivono di più sono anche quelle che si ammalano di più e sono maggiormente soggette all’insorgere della disabilità. Sono anche quelle che vivono gli ultimi anni della loro vita molto spesso sole e soffrono di solitudine e abbandono. Quando ciò non avviene si trasformano in caregiver del marito della famiglia e infine di se stesse. Ma gli stili di vita delle donne sono profondamente cambiati. Al lavoro

fuori casa, spesso caratterizzato da forte responsabilità e impegno, si aggiunge quello di cura della casa e dei figli, per una cultura ancora presente nel nostro paese che rende difficile condividere con il partner queste attività. Qualcosa sta cambiando tra le giovani generazioni, ma ancora molto lentamente e il bisogno di cura dei bimbi si assomma anche quello dei nonni e spesso dei bisnonni. Aumenta lo stress, il fumo e l’alcol è sempre più diffuso tra le giovani donne, e comporta conseguenze sulla salute ancora più gravi che su quella degli uomini. Le donne sono le principali consumatrici di farmaci, ne consumano circa il 40% in più anche perché vivono più a lungo, farmaci che sono stati sperimentati sugli uomini anche se è risaputo che esistono differenze tra i generi che influiscono sul metabolismo dei farmaci. Questo comporta che le donne così come i bambini e gli anziani subiscono una maggiore quantità di eventi avversi in seguito alla somministrazione di farmaci. Sono anche più soggette ad alcune gravi patologie come l’Alzheimer che colpisce una donna su sei rispetto agli uomini che hanno un rapporto uno a dieci. Inoltre ci sono alcune malattie ritenute prettamente maschili come l’infarto e mentre i cardiologi lanciano l’allarme sostenendo che dopo la menopausa le protezioni di cui godono le donne durante la vita fertile si annullano, non si sviluppa alcuna azione di prevenzione e informazione. L’idea che la donna non sia soggetta a questi rischi, aggiunta al fatto che l’infarto si presenta nelle donne con sintomi un po’ diversi e che spesso vengono trascurati, porta al risultato che il 38% delle donne colpite da infarto muore nel giro di un anno mentre muore solo il 25% degli uomini infartuati. L’Unione Europea ha assunto da tempo la dimensione di genere tra i Principi Guida per il conseguimento degli obiettivi comunitari in salute e ha sollecitato i Governi dei Paesi Europei al coordinamento di politiche intersettoriali per la promozione della salute che tengano conto dell’approccio di genere.

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Con il Governo di Centro sinistra nel 2007 si è avviata una inversione di tendenza con lo stanziamento di 2,7 milioni di Euro per la medicina di genere,ma poi tutto si è bloccato. Solo grazie alla iniziativa delle senatrici e delle parlamentari sollecitate dall’azione di studiose e associazioni di donne che il tema della Medicina di Genere è entrato nelle Aule Parlamentari. Anche il Comitato Nazionale di Bioetica ha sottolineato come nella prevenzione e nella cura,la donna non possa essere considerata una mera variabile dell’uomo,ma un soggetto specifico. L’indicazione che viene data è quella di formare personale medico e sanitario alla differenza di genere nella cura di aumentare il numero di donne nelle sperimentazioni farmacologiche. Anche nel documento: GUADAGNARE SALUTE programma dell’Istituto Superiore di Sanità,nella parte che riguarda le il controllo delle malattie croniche si argomenta a lungo sull’incidenza di genere e su quanto può influenzare lo sviluppo e l’andamento dei fattori di rischio e di malattia. Recentemente ho sottoscritto come prima firmataria un Manifesto SEX-Gender Medicine che è stato presentato a Milano proposto da Donne in Rete e GISeG Gruppo Italiano Salute di Genere. In questo Manifesto sono previsti ben nove punti che se sviluppati e attuati possono segnare una svolta decisiva nel nostro Paese per quanto riguarda la medicina di genere. Per prima cosa occorre sviluppare una ricerca interdisciplinare e più bilanciata rispetto il genere. In modo che ne vengano benefici per entrambi i generi ma anche per bambini e anziani,che hanno altre esigenze. Il fattore sesso e genere dovrebbe essere sempre considerato dai finanziatori,valutatori e revisori della ricerca. Chiediamo che venga inserito il genere nei curricula studiorum a tutti i livelli. Ai pazienti e agli operatori sanitari dovrebbe essere data la possibilità di accedere ai dati relativi le differenze di genere per migliorare la consapevolezza delle diversità nell’uso dei farmaci, dei medical device e di altri approcci terapeutici. Le istituzioni devono promuovere incentivi per la ricerca su sesso-genere per arrivare all’equità della cura. Come senatrici della Commissione Igiene e Sanità del Senato in questa legislatura abbiamo sviluppato una forte iniziativa su questi temi: dalla indagine ancora in atto sul Percorso nascita (gravidanza, parto e puerperio) alle indagine concluse con proposte molto significative su HIV-AIDS in particolare al femminile e il diritto alla maternità anche per chi è malato. Il tema dell’Artrite Reumatoide, che colpisce in particolare le donne, è stato al centro di un’altra indagine che è servita a mettere in luce le diversità d’accesso alle cure da parte delle donne sulla base della realtà in cui vivono.

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Buone idee in buone mani. Le donne risorsa per ricostruire il paese. di Mariangela Bastico

Ho nel cuore e negli occhi la distruzione, il dolore, l'angoscia che i terremoti del 20 e 29 maggio hanno determinato tra la popolazione nella mia terra, nel centro dell'Emilia operosa, ricca e solidale. E' stato un evento drammatico, dagli effetti tremendi, in grado di modificare profondamente - e dipenderà da tanti di noi in che direzione - il futuro di persone, famiglie, comunità. A queste immagini frequentemente associo quelle della profonda crisi economica ed occupazionale, che stiamo vivendo in Italia, crisi senza precedenti, più grave di quella del 1929; non di minore entità e' la crisi politica, che presenta caratteri più inquietanti di quella del 1992-93, all'epoca di tangentopoli. Nel tenere collegati, pur nelle enormi oggettive differenze, i due drammatici eventi,la crisi e il terremoto, individuo risorse nel paese in

grado di farci uscire dal buio della difficoltà e di avviare una ricostruzione in termini qualitativamente innovativi: tra queste risorse colloco, per primi, le donne e i giovani. Le donne tante volte sono state chiamate a farsi carico delle situazioni più difficili, sia nell'ambito familiare, sia nel sociale, sia nella politica, per essere poi, troppe volte, "rimandate a casa" quando le condizioni dell'emergenza, anche per merito del loro impegno, sono state superate. Ho visto donne in prima fila nelle terre sconvolte dal terremoto: sono sindache, assessore,dipendenti comunali e delle aziende sanitarie, imprenditrici, insegnanti, educatrici, esponenti di associazioni e di gruppi di volontariato; impegnate a portare solidarietà ed aiuti, a organizzare servizi, a far funzionare le strutture pubbliche, così fondamentali nell'emergenza. Hanno lavorato e risolto problemi pur essendo prive di tutto, degli edifici (tutti i municipi sono inagibili, gli ospedali e le case protette chiuse), delle strumentazioni essenziali, dei computer...eppure ognuna di loro, oltre alla fatica del lavoro sotto le tende, nei ricoveri di fortuna, ha alle spalle il dramma di non potere entrare nella propria casa, l'impegno nei confronti dei figli e dei famigliari in condizione di particolare bisogno. E sono donne, prevalentemente, quelle che stanno organizzando cene ed altre iniziative per raccogliere fondi in aiuto alle persone colpite dal terremoto, a coloro che hanno perso tutto, la casa, il lavoro, la propria impresa, i riferimenti dell'identità collettiva, la piazza, il municipio, la torre, la chiesa, il centro storico. Insieme a loro hanno lavorato e si impegnano tanti giovani, straordinari, generosi,intelligenti, tenaci. Nel paese e nell'Emilia sconvolta dal terremoto, mentre si affrontano le emergenze, è necessario sapere guardare in avanti, pensare ad una ricostruzione che non sia solo la riproduzione di ciò che c'era prima, ma progettare il futuro con innovazione e qualità. Nulla sarà più come prima: affermiamo frequentemente di fronte alla crisi e alle rovine dei paesi distrutti dal terremoto; ma spesso i comportamenti non sono coerenti con questa enunciazione e riproducono i medesimi criteri e modalità del passato.

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Occorrono la creatività ed il coraggio di intraprendere percorsi nuovi; in caso contrario i deboli diventeranno sempre più svantaggiati, le differenze aumenteranno e non potrà esserci sbocco positivo alla crisi. Lo vediamo, purtroppo, già nella condizione di lavoro e di vita di tante donne: le prime ad essere cacciate dal lavoro, in quanto più precarie, nei momenti di crisi; quelle maggiormente colpite dal calo dei salari reali e dalla riduzione dei servizi. E i giovani sono coloro che vivono maggiormente la disoccupazione: il 34 per cento è in cerca di lavoro e oltre 2.300.000 ragazzi dai 14 ai 25 anni non sono né a scuola né al lavoro. Ma proprio le donne e i giovani possono costituire la leva essenziale per il superamento della crisi e la ricostruzione; possono diventarne protagoniste attraverso la costruzione di nuove leadership, nuovi gruppi dirigenti, attraverso l'affermarsi di nuove idee, progettualità e modalità di lavoro. Proprio le competenze e i saperi del donne, tanto a lungo svalorizzati e tenuti fuori dalle stanze in cui si decide, possono essere decisivi per la rinascita. E' profondamente vera l'affermazione di Albert Einstein: "Non possiamo risolvere i problemi con i medesimi schemi di pensiero con cui li abbiamo creati". Il pensiero e le elaborazioni delle donne costituiscono oggi un patrimonio decisivo per "risolvere i problemi". Per questo è fondamentale il tema della presenza adeguata e della rappresentanza delle donne nelle istituzioni, nei luoghi del governo (nazionale e locale) e delle decisioni (consigli di amministrazione). Per questo i temi delle quote, delle modifiche alle leggi elettorali attraverso l'introduzione della doppia preferenza e la garanzia di presenze equilibrate nelle candidature, le penalizzazioni nei rimborsi elettorali ai partiti che non rispettano gli equilibri di genere nelle candidature, non sono pure tecniche per addetti ai lavori, ma rivestono, oggi, assoluta importanza e priorità politica. Per il futuro del paese e per la ricostruzione dell'Emilia ferita c'è bisogno delle idee, delle capacità di concretizzare e del punto di vista differente delle donne: c'è bisogno delle loro buone idee, da affidare nelle loro buone mani.

I servizi educativi per l’infanzia, investimento per il Paese

di Francesca Puglisi

E’ una “emergenza nazionale”. Sono tornate a crescere in tutt'Italia le liste d'attesa per avere un posto nella scuola dell'infanzia. In regioni virtuose come l'Emilia-Romagna che hanno quasi raggiunto l'obiettivo di Lisbona del 33% di copertura dei posti all'asilo nido, oggi si arriva al paradosso che bambini e bambine che hanno frequentato il nido, a 3 anni debbano restare a casa. Nel Mezzogiorno del Paese, difficilmente si riesce ad entrare a scuola prima del compimento dei 5 anni. I tagli agli organici imposti dalla Gelmini nella scuola

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Statale, insieme ai tagli ai bilanci degli Enti locali e al cappio sulle assunzioni imposto ai Comuni dal Patto di Stabilità interno, ha finito per strozzare la “prima scuola”. La scuola 0-6 anni, lo dimostrano tutte le ricerche, e' fondamentale per combattere i divari sociali, economici e territoriali che affliggono il nostro Paese e per recuperare gli svantaggi in modo duraturo. Sono essenziali servizi educativi di qualità che sappiano mettere al centro della propria missione i diritti dei bambini e delle bambine, coinvolgendo educatori, genitori e la comunità tutta nell’appassionante sfida dell’educazione. Investire in istruzione di qualità sin dalla tenera età è una scommessa sul futuro e per la coesione sociale del nostro Paese. Al centro delle politiche educative, della progettazione e dell'innovazione dei servizi per la prima infanzia, ci devono essere sempre loro, i bambini e le bambine, esseri unici ed irripetibili, nelle loro differenze. Nello 0-6, la richiesta dei genitori, non e' di servizi qualsiasi, ma di servizi di qualità che garantiscano esperienze educative significative ai propri figli e offrano ai genitori stessi l'opportunità di incontri con insegnanti e altri genitori per rafforzare le proprie competenze genitoriali. La crescente presenza di famiglie con bambini piccoli provenienti da moltissimi paesi e portatori di culture diverse, anche rispetto all'educazione dei bambini, rende asili nido e scuole per l'infanzia luoghi essenziali di incontro, partecipazione, confronto e integrazione all'interno delle città. Luoghi dove crescere bene, significa crescere insieme. Dove i figli di genitori stranieri - che quando nascono nel nostro Paese, vogliamo siano subito cittadini italiani - e i nostri figli, si allenino da subito a vivere e a confrontarsi con culture diverse, perché secondo gli scenari demografici, l'unica alternativa alla multiculturalità è la guerra. Le aree metropolitane del Mezzogiorno conoscono da tre decenni una situazione di esclusione sociale e culturale di massa dei bambini e dei ragazzi. Il 23% delle famiglie del sud vivono sotto la linea di povertà. Si tratta di 1.200.000 persone tra 0 e 18 anni. Alle quali vanno aggiunte ben 410.000 in situazione di povertà assoluta e altre centinaia di migliaia che sono poco sopra la linea di povertà. Il fallimento formativo riguarda oltre il 30% dei ragazzi nel Mezzogiorno contro il 20% che è la già elevatissima media italiana di dispersione scolastica. Nelle periferie delle città il dato supera il 25% al nord, il 45% al sud. Ma da troppo tempo ormai, le azioni di sistema riparative e compensative si sono interrotte. Così gli asili nido del mezzogiorno accolgono 1 bambino su 10 contro i 6 su 10 nel Centro-Nord. Lo Stato centrale, se escludiamo il periodo 2007-2009 con il Piano triennale straordinario del Governo Prodi che ha investito 447 milioni di euro, uniti ad altri 281 milioni in compartecipazione delle regioni e provincie autonome, dal punto di vista finanziario è stato assente. E ha scaricato il peso finanziario sulle Amministrazioni comunali e sulle famiglie. Inoltre la mancanza totale di una manutenzione della legge del 71 fino al nuovo Titolo V della Costituzione e la mancanza dal 2002 di livelli essenziali e di norme generali a livello nazionale ha comportato il consolidamento di 21 sistemi normativi regionali diversi e un diverso impegno per questi servizi. Così oggi si va da un’offerta regionale che ha una forbice dal 3% al 31%.

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I livelli essenziali aspettano di essere definiti da oltre 10 anni ed è da qui che bisogna ripartire per disegnare politiche, indirizzi per lo sviluppo della prima infanzia e non certo dal costo standard che non può costituire la base di una costruzione e ricostruzione sociale rispettosa di ogni singolo bambino. Si tratta di lavorare per convergenze che portino l’Italia almeno a raggiungere la media europea come offerta di servizi per la prima infanzia per avvicinarci all’obiettivo del 33% (oggi siamo al 18% circa considerando i servizi pubblici e privati e circa al 23% tenendo presenti i bambini nelle sezioni primavera e gli anticipatari nella scuola dell’infanzia). Va riaffermata la necessità del superamento della condizione di servizio a domanda individuale per il nido; il superamento degli squilibri tra le Regioni e intraregionali per dare a tutti i bambini l’opportunità di godere di questi servizi, con un nuovo piano straordinario che preveda tappe differenziate per le singole Regioni come condizione per godere di fondi statali. E' necessaria la partecipazione dei genitori non solo negli organismi di rappresentanza ma anche in una forte progettazione inclusiva. Prevedere che il servizio educativo pubblico, sia a gestione diretta che indiretta, sia un punto di riferimento per le tematiche dell’educazione dei bambini piccoli per tutta la comunità circostante. E soprattutto è necessario togliere dal patto di stabilità interno le assunzioni e le spese per i servizi educativi. La buona scuola c'è già, nel lavoro quotidiano e nelle buone pratiche. Dobbiamo far rinascere, insieme ai nostri amministratori locali, una nuova primavera dell'educazione e dell'istruzione, che sappia davvero coinvolgere tutti, pedagogisti, educatori, insegnanti, ricercatori, famiglie, privato sociale. Non possiamo assolverci perché c'e' la crisi, ne' possiamo perder tempo a piangerci addosso. Dobbiamo assumerci la responsabilità del dover essere migliori, di continuare ad andare oltre i nostri limiti ed innovare offrendo risposte di qualità per assolvere al compito che ci è affidato. Chi ha responsabilità di governo in questo momento negli enti locali, sa che dovrà modernizzare questo Paese, dovrà offrire risposte ai nuovi bisogni, avendo a disposizione meno risorse. Dovrà saper fare di più con meno. Per questo oggi serve una nuova alleanza ed un patto di corresponsabilità tra tutti gli attori della comunità locale. Rigettando la politica del voucher- cara famiglia, ti do' un bell'assegno, poi tu vai a comprarti in un sistema di mercato a diversi prezzi, l'istruzione che vuoi per i tuoi figli ed io pubblico, me ne lavo le mani- proponiamo piuttosto un modello di governo pubblico del sistema integrato dei servizi educativi 0-6 anni. In cui sia il pubblico a stabilire standard qualitativi, controllo degli stessi, qualifica e formazione in servizio del personale docente e non docente, un comune coordinamento pedagogico e tutti, pubblico e privato, contribuiscono alla costruzione del sistema integrato. Consapevoli di una questione cruciale: che senza l'impegno delle istituzioni per leggere, interpretare anticipandoli, i nuovi bisogni dei bambini e delle loro famiglie, non si può promuovere quel processo costante di innovazione, fatto di buone pratiche e di piccoli passi concreti di miglioramento. Questo deve essere il nostro riformismo nei servizi e nella scuola. Non riforme epocali, che finiscono per invecchiare ancora prima di realizzarsi, non

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l'esecuzione di direttive e decreti, calati dall'alto e imposti dalle norme agli operatori della scuola, ai bambini e alle famiglie. Le riforme non si fanno senza confronto e collaborazione; richiedono uno sforzo comune di condivisione il più possibile ampio e convinto, coinvolgendo tutti i soggetti che a vario titolo partecipano ai processi di formazione, è la strada giusta per riconoscere e valorizzare le risorse umane e professionali presenti nelle nostre scuole, per riaccendere desideri e speranze.

Biennale di Venezia 2012 – Foto di Anna Mencaroni

OLTRE I CONFINI

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Le donne nella Primavera araba di Grazia Barbiero

Di là del mare, sono soprattutto voci e azioni di donne che spostano le cose. Sono le donne il motore più forte dei processi di cambiamento che stanno ridisegnando le culture sociali, e di conseguenza la politica, le forme di governo nei paesi che si affacciano lungo le coste meridionali del Mediterraneo. Noi, impegnate in questo stretto passaggio della storia a dar vita ad una Europa in grado di porsi nel mondo globale

come soggetto statuale forte e unitario, non possiamo trascurare quelle voci e quelle azioni che ci riguardano così da vicino. In fondo, questa attenzione non è che una costante della nostra vicenda storica e della nostra civiltà, e questo portiamo in dote all'Europa. In questi giorni, ha parlato al Parlamento italiano Ahlem Belhadj, psichiatra tunisina di 47 anni, protagonista con la sua associazione di una “Primavera araba” nata per l'opinione pubblica italiana solo di recente, ma in realtà attiva da ventitré anni, da quando la Tunisia è caduta nelle mani del dittatore Ben Ali. Da quel momento, le donne tunisine hanno avviato con un tempismo ignoto in larga misura in Europa, una lunga marcia civile in difesa dei diritti delle donne. Erano e sono convinte che il rispetto della dignità delle donne, la lotta contro ogni discriminazione di genere modifichi in senso positivo il quadro sociale promuovendo libertà e democrazia assieme ad una migliore qualità della vita di ogni cittadino. Ad Ahlem Belhadj e alle sue compagne è andato il Premio Langer di quest'anno. Alla conferenza euro-mediterranea di Barcellona del 1995, Alexander Langer aveva concepito un “progetto storico di lunga durata che rivalorizzasse quella grande eredità comune costituita dall'incrocio tra tre continenti, tre grandi religioni e fra tradizioni fortemente interrelate”. Purtroppo, quella “visione” fin qui non ha prodotto azioni significative in grado di dare nuovo valore a questo incrocio strategico. Ma resta la luce di una intuizione alla quale prima o poi sarà conveniente tornare, poiché è la sola, certa fonte di pace e di buone relazioni tra mondi diversi in un'area della terra da decenni sottoposta a tensioni fortissime e altrettanto disgraziatamente strategiche. La Tunisia, già nel 1957 aveva adottato il Code du Statut personell che aveva consentito alla tunisine il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali, tra i quali il divorzio, ben prima che la questione dei diritti facesse progressi in altri paesi del Mediterraneo meridionale. L'Associazione delle donne democratiche tunisine, che ha sempre protestato la sua indipendenza e la sua autonomia fondata su un femminismo militante, ha lavorato sui temi della uguaglianza e della cittadinanza in stretta relazione con gli obiettivi della democrazia e della separazione tra politica e religione. Sotto la dittatura, si muovono con altri movimenti del Maghreb e del Mediterraneo, e, in patria, si alleano a poche altre associazioni attive sul terreno dei diritti. L'Associazione conduce lotte politiche e giuridiche affinché siano applicate le norme delle Nazioni Unite sull'eliminazione di tutte le discriminazioni contro le donne. Intanto, il regime

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assumeva un carattere sempre più repressivo per vanificare le conquiste già adottate dalla legislazione. Non è solo una battaglia di principi: l'Associazione penetra la società, le sue militanti operano nei centri urbani accanto alle donne del popolo, creano un centro di ascolto per le vittime delle violenze, attivano partecipazione, creano consapevolezze sconosciute; in pratica alimentano le radici della Rivoluzione che, al suo scoppio, troverà una cultura di crisi pronta ad accoglierla e a sostenerla.

La femminilizzazione dei processi migratori di Franca Biondelli

In Italia negli ultimi 20 anni il fenomeno dell’immigrazione è aumentato costantemente e il numero degli immigrati è cresciuto di oltre 30 volte. Una delle caratteristiche più rilevanti del flusso migratorio degli ultimi anni è l’incidenza della presenza femminile, diventata ormai paritaria a quella maschile. Le donne sono sempre più protagoniste dell’immigrazione verso l’Italia, soprattutto a causa delle richieste del mercato del lavoro. La crescente domanda di servizi domestici e di servizi alle persone favorisce l’afflusso di donne immigrate nel nostro paese. Esiste un nesso stretto tra la femminilizzazione dei processi migratori e della forza lavoro e la domanda di attività tradizionalmente femminili come i servizi di cura e domestici, il lavoro infermieristico e l’insegnamento. Se da un lato le donne diventano sempre più soggetti attivi del fenomeno migratorio, garanti del reddito familiare e artefici della mobilità

sociale e della mediazione culturale, dall’altro sono più esposte degli uomini ai rischi della dequalificazione umana e professionale. Relegate alla semplice attività di cura ed escluse dalle relazioni sociali, le donne migranti si ritrovano spesso segregate in nuove schiavitù che sviliscono la loro formazione scolastica e professionale. Il numero delle donne migranti che dichiara di essere vittima di intimidazioni e discriminazioni sul luogo di lavoro è superiore a quello delle donne italiane, mentre il 4,7 percento afferma di aver subito violenze fisiche da parte di colleghi, contro l’1,5 percento delle italiane. I provvedimenti del governo in tema di immigrazione inaspriscono le condizioni di vita degli immigrati nel nostro paese e le donne potrebbero subirne le conseguenze peggiori. In particolare la norma che elimina il principio di non segnalazione degli immigrati regolari che si rivolgono a una struttura sanitaria potrebbe avere delle gravissime ripercussioni sulla salute delle donne immigrate, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e il parto. Inoltre le politiche del governo, rendendo sempre più difficile l’ingresso regolare e l’ottenimento del permesso di soggiorno, destinano gli immigrati all’irregolarità e alla clandestinità, relegandoli all’interno dell’economia sommersa e irregolare che metterà sempre più in pericolo anche la

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loro salute fisica. Per la legislazione italiana sugli stranieri (basata su principi demagogici e di scarsa pregnanza giuridica, ormai continuamente demolita dagli interventi della Corte di Giustizia Europea) la questione immigrazione è principalmente questione di chiusura e di ordine pubblico, poiché in nome della lotta alla clandestinità non affronta contestualmente il problema della revisione di quelle leggi che di fatto rendono clandestina l’immigrazione e non prevede nuove possibilità di regolarizzazione e integrazione. In tal modo si profila un “diritto penale differenziato per lo straniero”, un diritto diseguale, secondo il quale in nome dell’emergenza si sospendono i diritti fondamentali degli stranieri. La presenza degli immigrati dovrebbe invece essere considerata un giacimento di esperienze, una forza promotrice dell’avanzamento della nostra società, non solo in termini di produzione, ma anche di trasmissione di valori e modelli. In quest’ottica la presenza di donne immigrate rappresenta un fattore di novità e offre nuove possibilità di sviluppo e di integrazione. Le donne portano con sé valori ed esperienze diverse, trovando dei punti di contatto che esprimono idee di reciprocità e collettività. “I desideri, i progetti e le scelte delle donne hanno la forza di modificare assetti ed equilibri precostituiti e di aprire prospettive di cambiamento sia in termini di sviluppo che di libertà individuali” (Lilli Chiaromonte). I valori della collaborazione, della cooperazione e dell’integrazione sono spesso veicolati attraverso le attività femminili. Non a caso uno dei dati più rilevanti nel panorama del lavoro rivolto alle donne immigrate è la crescita dell’associazionismo. In molte regioni italiane si sono moltiplicati iniziative e progetti gestiti da donne immigrate, volti alla creazione di sportelli di consulenza e di informazione, di servizi per l’inserimento lavorativo delle donne e di strumenti per la realizzazione della mediazione interculturale e linguistica. Tutelare i diritti delle donne significa salvaguardare una molteplicità e una specificità di genere che contribuisce ogni giorno ad arricchire la nostra società. Prendiamo nello specifico la Sanità. Le donne immigrate si rivolgono alla Sanità pubblica principalmente per l’assistenza durante la gravidanza, per il parto e l’interruzione di gravidanza. L’ostacolo principale di questa tendenza non è da ricondursi a un problema di matrice culturale o religiosa, ma di natura linguistica: ovvero di scarsa comprensione della lingua. In particolare, sono le donne di nazionalità cinese e nordafricana a presentare serie difficoltà di interazione con i medici dovute a una scarsa conoscenza della lingua italiana. A penalizzare le donne straniere, soprattutto quelle di più basso status sociale, nell’accesso ai servizi sanitari Sono dunque problemi di comunicazione. Difficilmente, infatti, si tiene conto delle specificità culturali e sociali della popolazione straniera residente. Inoltre, secondo i dati diffusi dal ministero della Salute sull’attuazione della “legge contenente le norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (legge 194/78), la conoscenza della fisiologia della riproduzione e dei metodi per la procreazione responsabile tra le donne immigrate è scarsa: pochissime sono in grado di identificare il periodo fertile e in generale i metodi per la procreazione responsabile sono conosciuti in modo superficiale e utilizzati in modo improprio”.

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Perché non fidarsi del buonsenso di Manuela Paltrinieri

Non so molto dell’Islanda. Ma ricordo una frase che Geir Haarde, allora premier, pronunciò davanti al Parlamento nel 2008: «Gli uomini fanno confusione, poi arrivano le donne e mettono in ordine». A quel tempo, l'Islanda era schiacciata da una crisi economica e politica molto grave: il debito estero era quasi nove volte il Pil; le due banche più importanti, la Glitnir e la Landsbanki, erano appena crollate; la corona era stata svalutata del 60%. Ma, mentre i grandi banchieri responsabili del crollo venivano estromessi e processati, Haarde nazionalizzò le banche e nominò due donne ai loro vertici. Dopo le dimissione di Harrde, nel 2009, fu eletta premier Jòhanna Siguroardòttir, socialdemocratica e femminista, omosessuale dichiarata e mamma. Anche se il suo Governo ha, inevitabilmente, qualche problema, ma l’economia islandese si è ripresa e una certezza

condiziona ogni nostra valutazione su quella piccola terra misteriosa: l’Islanda è il paese in cui esiste il più alto livello di parità tra uomo e donna in materia di rappresentanza politica, di istruzione, di occupazione, di sanità. E’ insomma il paese dove le donne stanno meglio al mondo, almeno per la nostra idea di benessere. Ma premier e ministre dicono che si può e si deve ancora fare molto per i diritti delle donne, soprattutto nella lotta contro le differenze salariali e contro gli abusi sessuali, oltre che per giungere a un’equa presenza femminile al governo, composto oggi – pensate lo scandalo - da quattro donne e sei uomini. Ma ci si sta lavorando. La verde, fatata Islanda affascina i giovani creativi di tutto il mondo, che vanno a viverci anche per lunghi periodi, in cerca d’ispirazione: c’è da credere che, nei prossimi anni, la musica, la moda, gli stili più innovativi che contamineranno le nostre banali estetiche consumistiche arriveranno tutte da lì. E affascina noi donne, incuriosite e un po’ invidiose di dinamiche sociali e politiche così “femministe”. Forse non ci piacerebbe vivere in Islanda, ma di certo io vorrei capire come funziona davvero, andare a guardare da vicino. Pensate che qualche giorno fa Agnes Siguroardottir è diventata capo della Chiesa Luterana, e tra qualche giorno Thora Arnorsdottir, una giornalista giovane e bella, potrebbe diventare la prima donna Presidente della Repubblica. A proposito del “voler capire come funziona”, Thora ha recentemente dichiarato di non preoccuparsi affatto della difficoltà di conciliazione tra ruolo pubblico e ruolo privato (è madre di tre figli, l’ultimo dei quali appena nato): dice che ci penserà Svavar, suo marito, che è già ben collaudato, visto che si occupa molto anche dei tre figli avuti dalla prima moglie. Lei potrebbe tranquillamente svolgere il lavoro di Presidente a tempo pieno, senza sensi di colpa e senza preoccupazioni. Thora aggiunge: non sono né di destra né di sinistra, basta il buonsenso. Il termine “buonsenso” - scritto tutto attaccato, a definire una vera e propria categoria del pensiero - decisamente accresce la mia voglia di capire: forse il “buonsenso” degli islandesi è diverso dal nostro, perché io non mi sono mai fidata di chi dice “basta il buonsenso”.

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Il “buonsenso”, in Italia, appartiene – a parole – a tutti. Nei fatti, ognuno lo utilizza per imporre il proprio punto di vista. Spesso nasconde inclinazioni, vocazioni, profili intellettuali del tutto divaricanti. Il buonsenso cui si appellano alcuni esponenti della Lega, ad esempio, non è affatto uguale al mio. Con questo termine – unione di due parole, di semplice e immediata comprensione – si possono spacciare per rassicuranti e convincenti le interpretazioni più varie, sguaiate, sbagliate. Spesso, il buonsenso nella politica italiana serve a intorpidire le acque: quando si sente dire che “serve buonsenso”, si può star certi che si sta frenando un processo, si sta ridimensionando la portata di una riforma, si torna indietro invece di progredire. Anche perché, come dicevo, ad ogni “buonsenso” corrisponde un “buonsenso contrario e opposto”. Proviamo ad applicare la categoria del buonsenso alla legge sull’aborto. Il tema è di stringente attualità, ce ne stiamo occupando in tante, perché la sua applicazione è sempre più parziale e difficoltosa. Ad esempio, l’obiezione di coscienza - che buonsenso e volontà di giustizia non possono che assumere come un diritto - sta diventando una pericolosa scure che pende sulla sorte delle donne, rendendo loro difficile, se non impossibile, accedere a quanto previsto dalla legge n. 194. I dati contenuti nel Documento approvato al termine dell'indagine conoscitiva svolta nella XIV legislatura dalla Commissione XII della Camera lo confermano, denunciando, senza giri di parole, che l'obiezione di coscienza medica all'interruzione volontaria di gravidanza è ormai in grado di ostacolare e, in alcuni casi, d'impedire, «l'effettivo svolgimento continuativo del servizio» (par. 4.4 del Documento). Eppure, il buonsenso, oltre che una specifica previsione della legge n. 194, imporrebbero che quest’ultima fosse sempre pienamente applicabile; che, anche in questo delicato ambito, valga in ogni caso un rigoroso bilanciamento tra i diritti dei medici e quelli delle donne. Sarebbe insomma certamente “sensato” dare per scontato che, pur in presenza della legittima manifestazione di volontà di qualche obiettore, il Servizio Sanitario Nazionale assicurasse sempre e comunque la corretta effettuazione degli interventi di IVG. Perché - mi sembra chiaro - nessuna persona di buon senso potrebbe considerare accettabile che, in presenza dei presupposti stabiliti dalla legge, la libertà di coscienza di un medico annullasse il diritto delle donne a ottenere la prestazione richiesta, la quale – come ha sancito la Corte costituzionale – ha l’obiettivo di tutelare la sua salute psicofisica (art. 32 Cost.). Ma il conflitto tra gli interessi propri delle pazienti e degli obiettori sembra ormai estraneo a qualsiasi tentativo di corretto bilanciamento: la vittoria, tra questi contendenti, è sempre più spesso attribuita ai secondi. L’ultima Relazione ministeriale sull’attuazione della legge n. 194, ci informa così che l’obiezione dei ginecologi raggiunge le vette dell’85,6% nel Lazio, dell’84,1% in Basilicata, dell’83,9% in Campania, dell’83,5% in Sicilia. L’attenta lettura di alcune sentenze e di alcuni libri ci dice poi che la grande quantità di obiezioni è molto spesso motivata da evidenti ragioni di comodo, di carriera, di realizzazione

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professionale: le testimonianze sul punto sono ormai numerose e più che credibili. Ne costituiscono puntuali conferme sia il caso della ginecologa obiettrice che decise comunque di interrompere la propria gravidanza (scatenando così la reazione legale – peraltro inutile – del suo compagno: un caso esaminato dalla Pretura di Bari del 1990) sia l’emergere di vicende in cui ginecologi obiettori si sono rivolti a colleghi più sereni nei confronti dell’IVG affinché si occupassero dell’aborto di loro mogli o compagne (casi descritti da C. Lalli, nel libro C'è chi dice no, Milano, 2011). E’ pur vero che la stessa legge n. 194 non ha disciplinato come forse avrebbe dovuto questo particolare aspetto, ma non tutto quel che capita è di sua responsabilità. Una norma in essa contenuta, ad esempio, ha limitato il diritto all’obiezione agli atti univocamente diretti a determinare l’aborto, escludendo l’assistenza antecedente e conseguente all’intervento; quest’ultima dovrebbe quindi essere garantita anche dal personale sanitario con convincimenti morali contrari alla pratica dell’IVG. In effetti, questa distinzione sembra certamente di buonsenso, quanto il divieto all’obiezione nei casi in cui l’interruzione della gravidanza sia indispensabile per salvare la vita della donna. Peccato che l’interpretazione di questo dettato normativo possa però indurre a conclusioni assai poco sensate: ad esempio, in Italia obiettano anche gli analisti di laboratorio, i quali devono effettuare gli esami clinici di routine prima dell’intervento; lo fanno forti di talune pronunce che hanno avallato le loro pretese. E’ chiaro che una simile tendenza può pericolosamente condurre (e sta probabilmente già conducendo) al boicottaggio della legge. E pensate che c’è chi sostiene che questa deriva – per me evidentemente insensata - sia invece proprio la risposta più ragionevole alla presunta insensatezza della Legge. Qualcuno afferma che siano proprio i limiti al diritto all’obiezione fissati nella legge n. 194 a risultare incomprensibili in base al buonsenso, creando così un temerario parallelismo tra la legge n. 194 e tutta la disciplina penale relativa alla partecipazione criminosa. Taluni giuristi tentano insomma di convincerci che, in fondo, se l’aborto è un atto che qualcuno ritiene criminoso quanto un omicidio, allora gli esami clinici che lo precedono sarebbero certamente assimilabili ai preparativi di un delitto vero e proprio. Il “mio” buonsenso rifiuta però questa forzata assimilazione: l’omicidio è un reato a tutto tondo, l’aborto è consentito da una legge dello Stato, serve a tutelare la salute della donna ed è stato ritenuto costituzionalmente legittimo dalla stessa Corte costituzionale. In nome del buon senso si possono peraltro produrre altre orribili situazioni: non vorremmo mica negare il diritto all’obiezione al farmacista che debba corrispondere, dietro presentazione di regolare ricetta medica, un farmaco abortivo? Certo che no. E così, si potrebbe arrivare all’obiezione “da banco”. Personalmente, troverei di grande buonsenso che, pur a fronte di una piena tutela delle complesse coscienze dei medici, degli infermieri, dei farmacisti, le donne che lo debbano fare, possano interrompere una gravidanza nei modi più idonei alla loro soggettiva situazione, in una sala operatoria o con un farmaco. E che non dovessero mai trovarsi costrette - come sempre più spesso capita - a perdere tempo prezioso per la loro stessa salute psicofisica nella estenuante ricerca di quell’unico medico che, in quell’unico giorno del mese, nell’unico ospedale abbastanza vicino, sia disponibile a fare il suo dovere. Non vi è traccia di buon senso in una simile realtà. Né si intravede la possibilità di farsi bastare il buonsenso per trovare una efficace soluzione a questi problemi: il buonsenso, evidentemente, non basta.

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Biennale di Venezia 2011 – Foto di Anna Mencaroni

LA RAPPRESENTANZA

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Libere di ... di Gigliola Corduas

Accettiamo di buon grado l’invito a confrontarsi sui temi della partecipazione politica a partire da due parole-chiave come “libertà” e “responsabilità”, parole tanto abusate quanto ancora lontane dal tradursi in comportamenti consolidati. Dall’osservatorio di un’associazione come il Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, cogliamo i segnali di un disagio che ha investito la disponibilità verso l’impegno politico allontanatosi dal comune sentire dei cittadini e ostaggio di meccanismi che sembrano costantemente etero-diretti e che ci impongono scelte decise in un impalpabile altrove (dettano legge le agenzie di rating e i mercati globali, “è

l’Europa che ce lo chiede” ma quale Europa, anche di questo dovremmo discutere). Il disagio è sentito soprattutto dalle donne sia nel rapporto con il mondo del lavoro, in cui più degli uomini faticano ad entrare e a rimanere, sia nella quotidianità della vita familiare dove pesano come macigni la ridefinizione delle politiche sociali e i tagli del welfare. Le donne, da sempre più esposte al rischio di regressi, sono costantemente in bilico tra i tempi mai conciliati del lavoro e della famiglia, con il carico del lavoro di cura e di assistenza ai minori e agli anziani che torna a gravare sulle famiglie e, ovviamente, sulle donne. In questa situazione ci sembra quanto mai opportuno che si rimetta la palla al centro e si riparta da un tema antico e irrisolto: la presenza femminile in politica. Un tema antico, e ne è testimone il CNDI, fondato nel 1902 come ramo italiano dell’International Council of Women (Washington 1888), nato nel contesto di fine 1800 che ha visto la mobilitazione dei movimenti suffragisti che avevano individuato nel diritto di voto uno strumento fondamentale per garantire la partecipazione delle donne alla vita sociale oltre che politica, un passaggio essenziale per cambiare gli assetti normativi e, attraverso questi, la condizione delle donne. Ma è anche un problema assolutamente attuale in una fase di ricostruzione della mediazione politica che deve dare risposte esaurienti ai problemi reali o confrontarsi con i rischi della disaffezione e le tentazioni di atteggiamenti che vanno dalla critica ai partiti a forme pericolose e sterili di antipolitica. In una fase di difficoltà come quella che stiamo attraversando, risulta evidente come il rapporto delle donne con la politica sia ancora problematico e ulteriormente compromesso da discutibili scelte operate anche recentemente nei diversi schieramenti. Sono scelte che in troppi casi hanno strumentalizzato la presenza femminile, con una gamma di opzioni che vanno dall’uso e abuso di “quote rosa” interpretate all’interno di una gestione spartitoria e clientelare dei partiti alla filosofia della bellezza come valore spendibile in tutti i contesti compreso quello politico, fino alla promozione parlamentare dell’harem del capo. Quante sono le donne presenti sulla scena politica che realmente danno voce a esigenze di quell’oltre metà del corpo elettorale che sono le donne? E’ una partita ancora tutta aperta, carica di incognite e nodi da sciogliere, affrontata nel contesto della riforma della legge elettorale ma sentita per lo più come lontana, sovrastata dai tanti problemi con cui le donne si confrontano ogni giorno. Eppure è proprio nei momenti di difficoltà che le donne, rimaste ai

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margini del sistema e delle sue degenerazioni, possono costituire una riserva di energie e una risorsa essenziale. Non dimentichiamo che fino al 1946 le donne sono state escluse dal voto politico e amministrativo “al pari degli analfabeti, interdetti, detenuti in espiazione di pena e dei falliti”, come osservò l’onorevole Salvatore Morelli che nel 1867 presentò, primo in Europa, un progetto di legge dal titolo "Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna, accordando alla donna i diritti civili e politici" per la parità della donna con l'uomo, quando il Codice Civile del 1865 ne faceva una minorenne a vita. La legge fu respinta. Del resto lo stesso Giolitti, nel 1912, considerava questa estensione del diritto di voto un salto nel buio. Il suffragio femminile è stato esercitato per la prima volta nel 1946, in occasione delle amministrative della primavera e poi in occasione delle votazioni del 2 giugno per l'Assemblea Costituente e per il referendum Monarchia/Repubblica, in un’Italia che usciva dai disastri della 2° guerra mondiale e che si preparava a una difficile ricostruzione materiale e morale. E’ passato più di mezzo secolo ma sono ancora numerose le contraddizioni nella presenza femminile in politica, per gli aspetti sia quantitativi (in Senato 60 donne su 322, alla Camera dei Deputati sono 136 su 630) sia qualitativi e rimane più che lecito chiedersi quanto le donne elette riescano a intercettare e a trasformare in questioni politiche le domande e i bisogni delle altre donne. E allora su questo aspetto, che è stato un caposaldo nella lotta emancipazionista, frutto di una conquista difficile, bisogna ancora confrontarsi e riflettere. Ed è significativo che ci troviamo a farlo in una fase di difficoltà per la società, investita da una crisi strutturale e non possiamo dimenticare, come sottolinea Martha Nussbaum che nell’impasse che stiamo vivendo, giocata principalmente sul piano della razionalità economica, è necessario riportare al centro dell’attenzione la dimensione dei diritti umani, della cultura, di ciò che rende significativo e dà qualità alla vita e porre accanto al PIL altri parametri che tengano conto della cultura, della condivisione di valori comuni su cui si basa la convivenza civile, del rispetto dei diritti umani. Di fronte a queste difficoltà un più forte impegno politico al femminile sia in termini di coinvolgimento diretto sia di sensibilizzazione della partecipazione al confronto, può costituire il motore per riattivare una visione meno esausta della politica, che sappia far prevalere l’interesse generale e il bene comune rispetto alla salvaguardia degli interessi di élites ristrette. Come associazioni abbiamo delle priorità che in una fase di difficoltà devono essere ribadite e che sono alla base anche della nostra attenzione per un rafforzamento della presenza femminile in politica:

- che nascere donne non deve comportare una maggiore difficoltà a realizzare se stessi e le proprie aspirazioni

- che all’inserimento paritario a tutti i livelli non debba corrispondere una cancellazione della specificità femminile, un’omologazione passiva ai modelli maschili consolidatisi nel tempo, funzionali a differenti equilibri economici e sociali

- che ci riguardano anche quelle situazioni in cui le donne, all’interno di culture diverse, sono oggetto di maltrattamenti, di sfruttamento, perché anche il rispetto delle diversità trova un limite nella cultura dei diritti umani

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- che il nostro futuro sono innanzitutto le giovani generazioni, ragazze e ragazzi che più di noi sono colpiti dalla crisi in corso, che rischia di privarli del presente oltre che del futuro.

E’ a queste ragazze e a questi ragazzi che, come dice Paola Gaiotti, dobbiamo passare il testimone facendo in modo che non ci si smarrisca nell’illusione che sia sufficiente un rinnovo solo sul piano generazionale ed evitare che si perda memoria della lunga tradizione d’impegno che è alle nostre spalle. E’ un patrimonio che non possiamo dimenticare se crediamo che sia ancora da compiere il percorso di una democrazia paritaria dove donne e uomini abbiano le stesse opportunità e gli stessi diritti, una democrazia centrata sul rispetto delle persone, donne e uomini, e dei tanti modi di essere donne e uomini.

Più quote, più donne, più democrazia

di Maria Fortuna Incostante

Qualsiasi analisi relativa alla democrazia paritaria elettiva, o, più semplicemente, alla questione più nota come “quote rosa” non può che partire da una semplice ricognizione dei dati numerici. Il nostro Paese con una percentuale di parlamentari donne del 20,3% si colloca al 58esimo posto della classifica stilata dall’Unione interparlamentare internazionale (IPU). Alla Camera su 630 deputati 136 sono donne (21,6%) mentre al Senato su 320 senatori troviamo 60 senatrici ovvero il 18,7%: sebbene ci siano stati netti miglioramenti rispetto al passato, siamo tuttavia ben lontani dai primi paesi europei oppure anche rispetto al Parlamento europeo dove il 35% degli eurodeputati è costituito da donne. Pur non trattandosi di cariche elettive, occorre ricordare che nel Governo italiano siedono attualmente solo 3 donne ministro su 19 ministri.

Altrettanto significativo è il confronto con i dati relativi ai livelli di governo sub-statali. Per quanto riguarda il livello regionale, su 20 Presidenti di Regione, solo 2 sono donne, mentre nessuna ricopre la carica di Presidente del Consiglio regionale. Infine, su 808 consiglieri regionali solo 97 sono donne (12%). A livello provinciale vi sono attualmente 104 presidenti di provincia di cui solo 13 sono donne (12,3%). Tra i 374 assessori provinciali di origine elettiva, il 14,7% è donna e tra i 2820

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consiglieri provinciali la percentuale scende al 14,2%. Nei comuni con popolazione superiore ai 15 mila abitanti su un totale di 590 sindaci, poco più del 7% è donna e tra gli oltre 13 mila consiglieri comunali le donne sono presenti con una percentuale del 12,5%. Nei comuni con popolazione inferiore ai 15 mila abitanti, invece, su un totale di 7028 sindaci, la percentuale di donne è dell’11,5%, mentre tra i consiglieri significativamente sale al 21% (18.629 donne su 87.708 consiglieri). Questi dati ci raccontano di un paese scarsamente gender

sensitive sul fronte della rappresentanza politica. In questo senso la riforma costituzionale del 2003 che ha introdotto il concetto (attivo e propositivo) di promozione delle pari opportunità per l’accesso alle cariche pubbliche elettive e non elettive offre una copertura costituzionale ad eventuali interventi a favore delle candidature femminili, assieme al nuovo articolo 117.7 modificato nel 2001, con riferimento specifico alle regioni. Come specificato successivamente dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. 49/2003 e 4/20120) ormai la strada è, pur con taluni limiti, legittimamente aperta per l’inserimento delle quote nelle liste elettorali. In generale le disposizioni costituzionali in questi anni non hanno trovato applicazione a livello nazionale, dove il discorso delle quote di genere è messo colpevolmente in secondo piano rispetto alla più ampia discussione relativa al compromesso sulla legge elettorale. L’importante è tenere bene a mente che, anche se con effetti fisiologicamente diversi, le quote di genere sono e devono essere applicabili ad ogni sistema elettorale. La situazione è più incoraggiante se si guarda alle regioni. In particolare voglio ricordare con orgoglio la soluzione adottata dalla Campania che ha introdotto la cd. doppia preferenza di genere ovvero la possibilità per l'elettore di esprimere sino a due preferenze, purché la seconda vada ad un candidato di genere diverso dalla prima. Nel caso di due preferenze per candidati dello stesso genere, risulterebbe annullata solo la seconda e non l'intera scheda. È questa la soluzione, ritenuta pienamente legittima dalla Corte costituzionale nella già citata sentenza 4/2010 che ho riproposto al Senato e che la collega Sesa Amici ha depositato alla Camera. Fortunatamente l’impegno delle colleghe alla Camera ha fatto sì che lo scorso 8 maggio si giungesse al'approvazione proprio di una proposta di legge relativa alle quote rosa nelle candidature per le elezioni comunali, provinciali e regionali che contiene, basandosi sul ddl Amici, proprio il meccanismo della doppia preferenza di genere accanto a una quota dei 2/3 e 1/3. La proposta di legge – ora all’esame del Senato – contiene anche l’inserimento nella legge statale quadro del principio della promozione delle pari opportunità con riferimento alle regioni (legge 165/2004). Ciò che alla Camera non si è riusciti ad inserire, mi auguro si potrà inserire al Senato. Sono certa che sul punto l’impegno di tutte le colleghe democratiche sarà indefesso e mi auguro sarà lo stesso in generale per tutte le senatrici. Mi riferisco alla questione della presenza delle donne nella formazione delle giunte e quindi non tanto delle cariche rappresentative quanto di quelle

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esecutive: è un tema dal quale non si può più sfuggire se si pensa sia alla sempre più copiosa giurisprudenza amministrativa in merito che alla recente pronuncia della Corte costituzionale nel giudizio per conflitto di attribuzione sempre relativo al caso campano (81/2012) che ha stabilito che anche nell’atto di nomina degli assessori deve valere il principio della promozione delle pari opportunità. Un monito che non possiamo lasciare cadere nel vuoto.

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