IL PUNTO Pakistan, Libano e Iran Giro di boa elettorale · Elezioni e Medio Oriente, legittimità e...

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In questo numero: BORDIN, CAMPANINI , CANEPA, DE LEO, LUPO, MARTINI , MOUAL, PARSI , POLLI , REDAELLI Israele, misteri siriani e timori per Gaza di Massimo Bordin a pag. 2 Un nuovo presidente La sfida di Beirut di Alessandro Politi Conversazione con il Premio Nobel Shirin Ebadi di Francesco De Leo Pakistan: dopo Musharraf in cerca di stabilità di Riccardo Redaelli a pag. 5 VITTORIO EMANUELE PARSI Docente di Relazioni Internazionali - Università Cattolica di Milano Elezioni e Medio Oriente, legittimità e consenso IL PUNTO Non è un rapporto felice quello del Medio Oriente con le procedure elettorali. Non che la cosa stupisca eccessivamente, se solo si considera che, con l’eccezione di Israele e della Turchia, non esistono democrazie competitive nella regione. Paradossalmente, le uniche elezioni che negli ultimi anni hanno svolto un ruolo incisivo nel processo politico si sono avute in paesi sconvolti o minacciati dalla guer- ra civile, come l’Afghanistan, l’Iraq o il Libano. Per cercare di capire come mai questo si verifichi, occorre ricordare le due funzioni fondamentali assolte dalle ele- zioni. La prima è quella di consentire la selezione della classe politica, di permet- tere la competizione tra élite politiche alternative, per il governo del paese. Grazie al voto, i cittadini giudicano l’ope- rato di un governo, lo censurano o espri- mono la loro approvazione: in primo luogo, quindi, le elezioni misurano il con- senso sociale verso l’azione del governo. La seconda funzione delle elezioni è quel- la di raccordare le istituzioni politiche con la società, di confermare il loro buon dirit- to a rappresentare il popolo, cioè il deten- tore ultimo della sovranità. In questo senso, le elezioni ribadiscono la legittimità del regime politico. Se guardiamo alla quasi totalità dei regimi presenti in Medio Oriente, è facile constatare che essi si dividono in due grandi categorie. In primo luogo abbiamo quei regimi che non fanno mistero di non tenere in alcun conto la sovranità popola- re come base della propria legittimità e, conseguentemente, neppure ritengono che spetti al giudizio popolare decidere della rotazione tra élite politiche. È il caso ben rappresentato dall’Arabia Saudita, che ha tenuto solo due anni fa le prime consultazioni elettorali a livello locale (riservate ai soli cittadini maschi, chiama- ti a eleggere la metà dei rappresentanti di assemblee con mere funzioni consultive). segue in ultima» IL FATTO Pakistan, Libano e Iran Giro di boa elettorale Giro di boa elettorale, in poche set- timane, per tre Paesi fondamentali per gli equilibri geo-politici del Vicino Oriente. Pakistan, Iran e Libano si sono confrontati o si confrontano con elezioni che possono mutare il rappor- to di forze interno ai tre paesi con con- seguenze importanti per tutta la regio- ne. Se da un lato è vero che le elezioni tradizionalmente non svolgono in Medio Oriente un ruolo incisivo nel processo politico come accade in Occidente, dall’ altro lato è innegabile che l’attuale situazione è un po’ diver- sa dal solito. Giungono da varie capi- tali scricchiolii che annunciano possi- bili cambiamenti politici mentre le recenti elezioni pakistane hanno inve- ce segnato, in modo clamoroso, la fine dell’era Musharraf. C’e’ molta attesa per l’esito delle elezioni iraniane con i riformisti che provano a rialzare la testa, mentre la situazione in Libano appare invece irrimediabilmente im- pantanata e segnata dal sangue degli attentati. Tre elezioni per un passaggio che può, per una volta, cominciare a cambiare qualcosa negli equilibri del Vicino Oriente. Stefano Polli a pagina 3» mensile di politica, cultura e società Anno 1 - Numero 2 • €. 0 www.ilvicinoriente.it Febbraio 2008 Afghanistan (foto E. Bellano) pagg. 4-5 a pag. 4

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In questo numero: BORDIN, CAMPANINI, CANEPA, DE LEO, LUPO, MARTINI, MOUAL, PARSI, POLLI, REDAELLI

Israele,misteri sirianie timori per Gaza

di Massimo Bordin a pag. 2

Un nuovopresidenteLa sfidadi Beirut

di Alessandro Politi

Conversazionecon il PremioNobelShirin Ebadi

di Francesco De Leo

Pakistan:dopo Musharrafin cerca di stabilità

di Riccardo Redaelli a pag. 5

VITTORIO EMANUELE PARSI

Docente di Relazioni Internazionali- Università Cattolica di Milano

Elezioni e Medio Oriente,legittimità e consenso

IL PUNTO

Non è un rapporto felice quello delMedio Oriente con le procedure elettorali.Non che la cosa stupisca eccessivamente,se solo si considera che, con l’eccezione diIsraele e della Turchia, non esistonodemocrazie competitive nella regione.Paradossalmente, le uniche elezioni chenegli ultimi anni hanno svolto un ruoloincisivo nel processo politico si sono avutein paesi sconvolti o minacciati dalla guer-ra civile, come l’Afghanistan, l’Iraq o ilLibano. Per cercare di capire come maiquesto si verifichi, occorre ricordare le duefunzioni fondamentali assolte dalle ele-zioni. La prima è quella di consentire laselezione della classe politica, di permet-tere la competizione tra élite politichealternative, per il governo del paese.Grazie al voto, i cittadini giudicano l’ope-rato di un governo, lo censurano o espri-mono la loro approvazione: in primoluogo, quindi, le elezioni misurano il con-senso sociale verso l’azione del governo.La seconda funzione delle elezioni è quel-la di raccordare le istituzioni politiche conla società, di confermare il loro buon dirit-to a rappresentare il popolo, cioè il deten-tore ultimo della sovranità. In questosenso, le elezioni ribadiscono la legittimitàdel regime politico.

Se guardiamo alla quasi totalità deiregimi presenti in Medio Oriente, è facileconstatare che essi si dividono in duegrandi categorie. In primo luogo abbiamoquei regimi che non fanno mistero di nontenere in alcun conto la sovranità popola-re come base della propria legittimità e,conseguentemente, neppure ritengonoche spetti al giudizio popolare decideredella rotazione tra élite politiche. È il casoben rappresentato dall’Arabia Saudita,che ha tenuto solo due anni fa le primeconsultazioni elettorali a livello locale(riservate ai soli cittadini maschi, chiama-ti a eleggere la metà dei rappresentanti diassemblee con mere funzioni consultive).

segue in ultima»

IL FATTO

Pakistan, Libano e IranGiro di boa elettorale

Giro di boa elettorale, in poche set-timane, per tre Paesi fondamentali pergli equilibri geo-politici del VicinoOriente. Pakistan, Iran e Libano sisono confrontati o si confrontano conelezioni che possono mutare il rappor-to di forze interno ai tre paesi con con-seguenze importanti per tutta la regio-ne. Se da un lato è vero che le elezionitradizionalmente non svolgono in

Medio Oriente un ruolo incisivo nelprocesso politico come accade inOccidente, dall’ altro lato è innegabileche l’attuale situazione è un po’ diver-sa dal solito. Giungono da varie capi-tali scricchiolii che annunciano possi-bili cambiamenti politici mentre lerecenti elezioni pakistane hanno inve-ce segnato, in modo clamoroso, la finedell’era Musharraf. C’e’ molta attesa

per l’esito delle elezioni iraniane con iriformisti che provano a rialzare latesta, mentre la situazione in Libanoappare invece irrimediabilmente im -pantanata e segnata dal sangue degliattentati. Tre elezioni per un passaggioche può, per una volta, cominciare acambiare qualcosa negli equilibri delVicino Oriente.

Stefano Polli a pagina 3»

mensile di politica, cultura e societàAnno 1 - Numero 2 • €. 0 www.ilvicinoriente.itFebbraio 2008

Afghanistan (foto E. Bellano)

pagg. 4-5a pag. 4

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Il momento da cui partire per cercaredi comprendere la fase in cui si trova inqueste settimane la politica israeliana vaforse fissato alla tarda serata dello scor-so 12 febbraio quando in una strada diDamasco salta in aria dentro a unaMitsubishi Pajero l’“ingegnere” diHezbollah, Imad Mugniyeh, ritenuto lostratega militare dell’organizzazionesciita libanese. Mugniyeh, per la verità,era ricercato da 42 stati, in prima fila gliUSA - che gli addebitavano le stragi allaloro ambasciata e a una caserma di mari-nes nel Libano degli anni 80 - e Israeleche, oltre al resto, lo riteneva responsabi-le della strage a Buenos Aires contro lasede della comunità ebraica, effettuatasecondo il Mossad su commissione ira-niana. L’eliminazione di un personaggiodel genere resta inevitabilmente avvoltanel dubbio; molti erano quelli che glidavano la caccia e nemmeno si puòescludere che, come spesso capita inMedio Oriente, nel suo stesso campoqualcuno, ritenendolo un testimone sco-modo o un rivale troppo potente o unascheggia impazzita, abbia deciso di farlofuori. Le reazioni israeliane, però, auto-rizzano l’ipotesi più lineare e scontata.Intanto ci sono state interviste di ex diri-genti del Mossad che quasi sono arriva-ti a rivendicare l’esecuzione. Poi è ripre-sa la polemica sulla stampa israeliana aproposito degli “omicidi mirati”. In unarticolo di “Haaretz” Gideon Levy, gior-nalista che in passato è stato portavocedi Shimon Peres, ha addebitato al pre-mier Olmert e al ministro della DifesaBarak la decisione di riattivare una stra-tegia di “operazioni segrete alla JamesBond” che “hanno portato soltanto durie dolorosi attacchi di rappresaglia controIsraele e gli ebrei nel mondo oltre anuovi rimpiazzi non meno efficaci deiloro predecessori.” Ma la polemica diLevy tocca anche un altro aspetto quan-do richiama il bombardamento israelia-no nel nord della Siria dello scorso set-tembre e associandolo all’esecuzione diDamasco si domanda “che interesse c’ènell’umiliare Bashar al-Assad? E perquanto ancora egli continuerà a repri-mersi e a incassare semplicemente que-sta umiliazioni?”. La Siria, cheCondoleeza Rice ha voluto al tavolo diAnnapolis, rappresenta per Israele nonpiù solo l’immediato retroterra diHezbollah in Libano, ma ormai l’anellodi congiunzione per i finanziamenti e learmi iraniani destinati oltre che al grup-po sciita libanese anche ai sunniti diHamas. La recente pubblicazione delrapporto Winograd sulla guerra dell’e-state 2006 quando Israele si è trovatosotto attacco da due fronti, Hamas daGaza e Hezbollah dal Libano, lascia inbilico nell’opinione pubblica l’immaginedi Olmert, che aveva pensato di schiva-re l’ondata di impopolarità sostituendol’anno scorso al ministero della Difesa ilsindacalista Peretz con il “guerriero”Heud Barak, che fu da giovane coman-dante dei reparti speciali d’élite. Una

Si afferma spesso, con un sottintesoimplicito giudizio negativo, che il regimesaudita si regge sul wahhabismo e dun-que su un sistema di pensiero “medieva-le” e “fanatico”. Eppure il wahhabismo èstato alle origini un movimento decisa-mente riformista. La sua prima caratteri-stica è di essere nato prima dell’impattodella colonizzazione europea sulle terremusulmane. Fu infatti nel XVIII secoloche un predicatore acceso, MuhammadIbn ‘Abd al-Wahhab (1703-1792), lanciònella regione araba del Nejd una campa-gna di riconversione dei beduini all’Is -lam – quei beduini che la non frequenta-zione dei centri urbani della civiltà isla-mica e le pratiche consuetudinarie aveva-no allontanato dagli autentici insegna-menti del Profeta. Per realizzare il suoscopo Ibn ‘Abd al-Wahhab cercò e otten-ne l’appoggio di una famiglia di emiri, iSa‘ud: egli forniva la dottrina; i Sa‘ud lespade. I guerrieri tribali wahhabiti parti-rono dal Nejd ma estesero le loro impre-se in tutta la penisola araba, fino ad arri-vare a conquistare Mecca e Medina, e sispinsero perfino in Iraq. Ciò preoccupògli Ottomani che inviarono quale loroemissario in Arabia il pascià d’EgittoMuhammad ‘Ali o, meglio, suo figlio I -brahim. L’esercito egiziano sconfisse iwahhabiti sauditi nel 1818 e per quasi un

secolo il movimento conobbe un declino.Era il wahhabismo “medievale” e

“fanatico”? Certamente Muhammad Ibn‘Abd al-Wahhab impose una lettura radi-cale e puritana dell’Islam, per esempioopponendosi alla mistica sufi e delegitti-mando le pratiche non contemplate dallashari‘a. Ma appunto egli richiamava a unritorno rigoroso alle fonti e alla dottrina,al Corano, alla sunna del Profeta e allaLegge islamica. Il richiamo alla Legge eraun richiamo di disciplina e ordine, un

modo per razionalizzare l’impeto bedui-no, dargli una direzione e impregnarlo divalori islamici. Si trattava dunque di unaproposta innovativa e non banale. Siguardava al passato, certo, all’epoca delProfeta, ma per riformare il presente.Alcuni storici hanno addirittura parlatodel wahhabismo come di un movimentoprotonazionalista arabo rivolto contro ladominazione ottomana. È un eccesso dimodernizzazione, ma Ibn ‘Abd al-Wahhab aveva piena consapevolezza delsuo obbiettivo di neo-islamizzazione. Lodimostra anche il libro da lui scritto, ilTrattato sull’unicità divina. Porre il mono-teismo al centro della concezione musul-mana, non è una novità, ma l’insistenzasull’unicità di Dio, il tawhid, aveva unaduplice funzione: mobilitare i credenti eoffrire loro una chiave semplice d’inter-pretazione complessiva della realtà inchiave trascendente. Sebbene il Trattatosull’unicità divina si presenti superficial-mente come una raccolta di hadith e ditradizioni pie, il contributo originale diIbn ‘Abd al-Wahhab deriva dall’ordinedelle sue citazioni e dal suo costante,spesso imperativo, richiamo a meditare,che si ripete nei riassunti alla fine di ognicapitolo, e che è utile sia a esercitare lamemoria, sia come palestra spirituale. Ilcredente è dunque invitato a esercitare losforzo di elaborazione personale sullefonti della Legge e di non vivere una fedesupina all’autorità e spiritualmente pas-siva. Anche il jihad viene evocato comeimpegno a lottare contro l’oscurantismoallo scopo di liberare i musulmani dall’a-dorazione di falsi dèi. In qualche modo,Ibn ‘Abd al-Wahhab riprendeva l’inse-gnamento del grande dottore IbnTaymiyya, che aveva ammonito a nonlasciare chiusa la porta dell’ijtihad, delragionamento proprio sulla rivelazione,la scrittura e la sua codificazione.

Che il wahhabismo sia nato primadello scontro con la colonizzazione euro-pea e in un’area in fondo marginale delmondo islamico significa che era venutoil tempo per l’islam, dopo quattro secolidi stasi, di reinterrogarsi e di trovare in sestesso le energie della propria emenda-zione.

2 Anno 1 - Numero 2

Israele, misteri sirianie timori per Gaza

MASSIMO BORDIN

MASSIMO CAMPANINI

SGUARDO SU ISRAELE

mossa a effetto che può non bastare mache in ogni caso ha prodotto dentroTsahal, desideroso di emendarsi dall’im-magine di impreparazione offerta alpaese due estati fa, l’elaborazione dipiani, non solo teorici, volti a evitarenuovi attacchi su due fronti. Se la preoc-cupazione principale a medio termineper Israele rimane il piano nucleare ira-niano, a breve si rafforza il rischio da

Gaza, sempre più “Hamas-land” e certonon arrivano rassicurazioni dalla situa-zione libanese. Ma è Gaza con i suoirecenti avvenimenti che preoccupa dipiù Israele e l’omicidio mirato diDamasco può ben essere letto come unchiaro messaggio dissuasivo nei con-fronti dei siriani e di Hezbollah ove fos-sero tentati di riaprire un secondo frontea nord nel quadro di un remake di un’e-

state che Israele non vuole rivivere.Resta però da dimostrare che l’opzionemilitare sia sufficiente o addirittura utilea Israele per evitare il rischio di un accer-chiamento che va stringendosi. L’altrafaccia della questione sta nella politicairaniana che comincia a essere percepitadai paesi arabi come troppo invadente.Un tema da diplomatici accorti più cheda militari decisi.

MOVIMENTI ISLAMICI E ISLAMISTI

Alle radici del wahhabismo

Auguri al Vicino Oriente

Direttore di “Radio Radicale”

Docente di Storia dell’Islam - Università Orientale di Napoli

Riceviamo dal Consigliere del Presidente della Repubblica per laStampa e l’Informazione:

Vi rappresento i sensi dell'attenzione del Presidente Giorgio Napolitano per lainiziativa editoriale - il mensile il Vicino Oriente - che dedicate all'approfondi-mento politico-culturale delle problematiche di quella regione, tanto difficolto-samente alla ricerca di sicurezza, convivenza e pace. Nel trasmettere l'auspiciodel Presidente che ne giunga un proficuo contributo di ampliamento di cono-scenza e di confronto, l'occasione mi è gradita per associare il mio augurio dibuon lavoro.

Pasquale Cascella

LETTERE

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3Febbraio 2008

IL FATTO

La prova delle urneQualcosa si muove nelle leadership

di alcuni paesi-chiave per i destinimediorientali. Da qualche parte giun-gono scricchiolii che annunciano possi-bili futuri cambiamenti. Da altrove,invece, arrivano i tonfi sonori della finedi un’epoca. La percezione generale èche, dopo un lungo immobilismo, forsedavvero ci sono i primi segnali dell’ini-zio un passaggio nuovo, di equilibririnnovati che potrebbero crearsi.

In poche settimane tre paesi fonda-mentali nella regione del Grande Me -dio Oriente - quell’area allargata che daRabat arriva ormai fino ai confini in -diani e dove ogni evento importanteha, in qualche modo, ripercussioni einfluenze negli altri paesi - affrontanoelezioni che, in un verso o in un altro,possono modificare equilibri fermi damolto tempo. Pakistan (18 febbraio),Libano (26 febbraio, salvo ulteriori rin-vii) e Iran (14 marzo) hanno guardato oguardano al responso delle votazionicome a un passaggio di boa di percorsiche potrebbero prendere direzioninuove o subire variazioni comunquesensibili.

È, in parte, una situazione nuova peril Medio Oriente dove l’impatto deiprocessi elettorali e certamente diver-so, meno concreto, da quello tradizio-nale delle democrazie occidentali.

Di sicuro, le elezioni in Pakistanhanno segnato una svolta decisa e, inparte, imprevedibile soltanto qualchemese fa. Il cambiamento in Pakistan hasubito un’accelerazione violenta dopol’uccisione di Benazir Bhutto portandoa maturazione situazioni ormai logoree ponendo con forza la ‘’questione Mu -sharraf’’. Di fatto, in pochi giorni il vol -to del Pakistan è mutato radicalmente,il futuro del presidente è in forse e lanuova coalizione al potere potrebbecambiare la rotta di molte politicheportate avanti fino a oggi da Mushar -raf.

In particolare, il nodo da sciogliere èquel lo degli ambigui rapporti con igrup pi talebani e la riconquista del

con trollo del territorio a ridosso delconfine con l’Afghanistan. Proprio inquelle aree tribali sulla frontiera hannotrovato rifugio molti leader talebani edi Al Qaida e un nuovo approccio, piùdeciso e con meno sfumature, versoquelle zone e le bande che lo controlla-no potrebbe avere un impatto decisivonon solo per le politiche interne delPakistan, ma anche per le sorti dell’Af -ghanistan e, più in generale, per gli in -te ri equilibri regionali.

Se quelli che arrivano da Islamabadsono fatti inequivocabili e chiarissimi,da Teheran giungono invece piccoli av -vertimenti di novità, movimenti un po’confusi ma che potrebbero essere l’a-vanguardia di segnali più decisi.

Le elezioni legislative iraniane sonoviste da molti osservatori come un mo -mento importante per capire se il fron-te riformista stia riguadagnando su

quello conservatore. In questo senso, ilrecupero da parte del comitato di su -pervisione del Consiglio dei Guar dianidi parecchi dei circa 2.200 candidati (lastragrande maggioranza dei quali ri -formisti) bocciati in un primo tempo èsicuramente un segnale da non sotto-valutare. Com’è noto, uno dei momen-ti più controversi delle ultime elezionifu proprio la bocciatura di molti candi-dati non ammessi alle elezioni.

Un Iran orientato su posizioni piùmoderate contribuirebbe a creare unclima nuovo nell’intero Vicino Orientee, anche in vista del cambio della guar-dia alla Casa Bianca, si aprirebberoprospettive più solide nei rapporti traTeheran e l’occidente non solo sullospinoso dossier del nucleare iraniano.

Un presidente americano democrati-co (Hillary Clinton o Barack Obama)avrebbe certo una visione diversa dei

rapporti con l’Iran e un approccio com-plessivo nuovo verso tutte le tematichemediorientali. Sarebbe importante cheanche da parte iraniana ci fosseroaccenti nuovi e più concilianti rispettoa quelli ribaditi a più riprese da Mah -mud Ahmadinejad, a cominciare daquelli nei confronti dell’esistenza diIsraele.

La decisa discesa in campo di questesettimane da parte del fronte riformistao conservatore moderato guidato daMohamad Khatami e Akbar HashemiRafsanjani fa ritenere che qualcosa sistia muovendo anche negli equilibriinterni iraniani.

Dove invece la situazione fa fatica amuoversi è in Libano. Dopo 14 rinvii èstata fissata la data del 26 febbraio perl’elezione del nuovo presidente dellarepubblica che dovrà prendere il postolasciato vacante da Emile Lahud loscorso 24 novembre. Le ultime settima-ne sono state segnate da tensioni moltoforti, attentati e morti. I tentativi dimediazione e convincimento portati a -vanti dal segretario generale della Legaaraba Amr Mussa e, in maniera piùsoft, da alcuni paesi europei non hannoportato a risultati concreti.

C’è un dato che dovrebbe far riflette-re. Sul nome del futuro presidente èstato, più o meno, raggiunto un accor-do di compromesso e la candidaturadel comandante dell’esercito MichelSuleiman ha ricevuto un sostanzialevia libera da parte di tutte le compo-nenti libanesi. Eppure l’elezione è stataancora rinviata perché si sta trattandoancora anche sulla composizione delfuturo governo e, più in particolare,sugli equilibri futuri tra le varie forze ei vari poteri libanesi.

Insomma, qualunque sia l’esito delleprossime elezioni libanesi (sono previ-ste pochi giorni dopo l’uscita di questonumero del ‘’Vicino Oriente’’), sicura-mente non risolveranno i problemistrutturali che sono alla radice dell’at-tuale situazione del Libano, un paesedestinato a soffrire ancora delle tensio-ni attuali.

STEFANO POLLI

Capo della Redazione Affari Internazionali - Ansa

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4 Anno 1 - Numero 2

“Il Libano viene usato come mailbox permessaggi tra l’Iran e gli USA”, dichiaraOussama Safa, direttore del LebaneseCenter for Policy Studies, il ché è macabra-mente vero da quando è stato impostouno stallo alla rivoluzione dei Cedri eviene confermato dall’assassinio del capoterrorista Imad Mughniye.Va ricordato che da novembre scorso nonsi è ancora sciolto il nodo dell’elezione diun nuovo presidente e che anche le elezio-ni politiche stanno slittando pericolosa-mente. Con l’avviso lanciato ai propri cit-tadini dal governo di ar-Riyadh a nonviaggiare in Libano per un tempo indefini-to e con la temporanea chiusura del centroculturale francese a Beirouth è chiaro chela situazione è diventata particolarmenteseria e che diverse capitali si chiedono se èin preparazione un nuovo attacco a Israeleo ai suoi interessi nel mondo oppure seaddirittura non è in preparazione unaguerra civile.Tuttavia bisogna conservare il sanguefreddo e cominciare a guardare l’interadinamica tra Golfo e Levante per immagi-nare scenari credibili. Una guerra civile? Si tratta dell’ipotesipeggiore, ma non risponde al perché la sidovrebbe fare. Sarebbe l’ultima spallatasciita per spazzare il governo di Siniora eaffermare in modo incontrastato il propriopotere (e quello di Damasco e Tehran)?Non è strettamente necessaria perché nellostallo non ci guadagnano sunniti e maro-niti, mentre Hizb’Allah si può tranquilla-mente permettere d’aspettare.Non è nemmeno vantaggiosa a breve ter-mine perché toglierebbe senso alla missio-ne ONU UNIFIL2, implicandone il ritiro elasciando il campo a un’eventuale (con-tro)offensiva israeliana.A proposito, perché Tel Aviv dovrebbelanciare TSAHAL in un’altra avventura?Solo per il capriccio di recuperare l’onoredelle armi? Qualunque analista israelianoserio, e non mancano, sa che una vittoriacontro Hizb’Allah non coinciderà con ilsuo annientamento e che politicamentenon cambia gli squilibri di fondo. Israele ha bisogno di un governo forte perprepararsi a chiudere rapidamente lapiaga della Palestina occupata e il vecchiocontenzioso del Golan prima che sia trop-po tardi. Una vittoria tattica in Libanosarebbe solo un effimero rafforzamentodel premier Olmert, ma nulla di più.E visto che ci siamo, tutti sono davverosicuri che Mughniye sia stato ammazzatodal Mossad o dalla CIA, a Damasco per dipiù? È un detto ormai popolare in MedioOriente che se è successo qualcosa di malela colpa è del Mossad; un modo ironicoper ricordare che i capi arabi preferisconogridare “arbitro cornuto” piuttosto chefare autocritica.Invece molti sanno che sono in corso trat-

tative serrate tra l’Iran e gli USA per unaccordo sottobanco in modo da permette-re un’uscita dignitosa dall’Iraq e un futuropiù roseo, senza troppe sanzioni, al gover-no di Tehran, in cambio ovviamente anchedi quel che conta del chip nucleare.Non dimentichiamo che Ahamadinejad,che non ha perso l’occasione per un’altratruculenta sparata contro Israele, non haperò cancellato una visita per il 2 marzo inIraq, là dove la presenza statunitense è benvisibile e il governo non è certo contrario aWashington.Una prima ipotesi, tutta libanese, è che lamorte del terrorista sia stata in qualchemodo facilitata dai siriani stessi, in mododa intralciare questo nuovo corso irano-americano e far pesare anche la propriapresenza.Un’altra, facilmente derivabile, è che si siasacrificato un conveniente capro espiato-rio per propiziare il ravvicinamento,ovviamente alle proprie condizioni.Altre parlano di un colpo obliquo degliUSA ai danni del riaddestramento edequipaggiamento dell’Armata del Mahdiin Iraq, guidata da al-Sadr e supervisiona-ta, guarda caso, da Mughniye. Altre anco-ra di una finta uscita di scena del terrori-sta, alla James Bond, per togliere un imba-razzo a Hizb’Allah con gli USA.Ci sarà una ritorsione per l’uccisione?Molto probabilmente per salvare la facciaa spese di vittime probabilmente innocen-ti, ma strategicamente l’essenziale è anco-ra da decidere: ci sarà un accordo tra Bushe Ahmadinejad o no? Da lì dipenderà inlarga misura il destino dello sventuratopostino libanese, nonché dalla capacità deipolitici locali di guardare in faccia la realtàdemografica e agire di conseguenza.

ALESSANDRO POLITI

APPROFONDIMENTO / 1

Un nuovopresidenteLa sfidadi Beirut

FRANCESCO DE LEO

CONVERSAZIONE

TEHRAN – È piena di neve la stradache ospita lo studio dell’avvocato ShirinEbadi a Tehran. La capitale dell’Iran ètutta bianca, infreddolita da una tempe-ratura che ha toccato i -27°, nel silenzio digiornate dedicate alla commemorazionedell’Ashura, la più importante ricorrenzareligiosa degli sciiti. Deve attenderla unattimo…è al telefono, mi dice la gentilesegretaria della prima donna iraniana emusulmana a cui sia stato conferito ilPremio Nobel per la Pace. Si accomodipure qui intanto…contininua, accompa-gnandomi in una saletta d’attesa in cui fabella mostra una fotografia dell’Ebadigiovanissima, ritratta negli anni in cuistudiava diritto. Studiò giurisprudenzaall’Università di Tehran e subito dopo lalaurea superò gli esami per diventaremagistrato. Shirin Ebadi il suo sogno loraggiunse, fu giudice per cinque anni,presidente di una sezione del tribunale,ma come tutte le donne giudice, dopo laRivoluzione Islamica, fu costretta adabbandonare la magistratura. È nel ’92che ottenne l’autorizzazione a operarecome avvocato riuscendo ad aprire unsuo studio. Prego è pronta… può seguir-mi… la segretaria mi indica la stanzadell’Ebadi e con un sorriso mi fa cenno dientrare. L’avvocato è seduto alla scriva-

nia, ha la penna in mano, il capo chinato,concentratissima nel suo lavoro. La stan-za non è molto illuminata, piccola, mapiena di libri e ricordi alle pareti. In evi-denza la pergamena del Nobel per laPace che riporta a quel 10 dicembre 2003,un grande successo per le donne iranianee per tutti quei liberali e dissidenti chenella sua carriera ha difeso con grandepassione e dedizione. Oggi l’Ebadi è

docente presso l’Università di Tehran esostenitrice attiva dei movimenti per idiritti femminili e dei bambini. Vive aTehran con il marito e le due figlie.Benvenuto… mi dice sorridendomi men-tre, tradendo stanchezza, stropiccia gliocchi con la mano. Tanto lavoro?, le chie-do. Non immagina quanto… c’è sempre tan-tissimo da fare qui. Guarda l’orologio conl’aria di chi non ha possibilità di impiega-

Shirin Ebadi: “Non vote

Analista strategico

Giornalista

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5Febbraio 2008

Sulla base dei dati disponibili, i risulta-ti delle elezioni pakistane hanno con-fermato la sconfitta del partito legato alpresidente Musharraf, la PML-Q(Pakistan Muslim League). Tuttavia, ipartiti dell’opposizione non hannoriportato una vittoria così schiacciantecome immaginato da alcuni analisti. Il partito della defunta Benazir Bhutto,il PPP (Paksitan People’s Party), guidatoora de facto dal marito di lei, Asif ‘AliZardari (noto per la sua corruzione eambiguità), e da una serie di notabilidel partito, è il maggior partito delpaese. Buona anche l’affermazione delpartito dell’ex primo ministro NawazSharif, la PML-N (Pakistan MuslimLeague – Nawaz). I partiti religiosi isla-misti, che avevano per lo più boicottato

le elezioni, sono poco rappresentati inparlamento, mentre risultano elettianche molti indipendenti e rappresen-tanti di partiti minori.In sostanza una frammentazione chenon sembra dispiacere ai militari, iquali potrebbero far leva proprio suquesta mancanza di un polo politicoforte, che possa governare senza biso-gno di coalizioni, per mantenere il lororuolo sulla scena politica e per sfruttarele rivalità partitiche.Una soluzione forte per marginalizzareancor più il presidente Musharrafsarebbe ovviamente un governo di coa-lizione PPP-PML-N, ossia fra i dueprincipali suoi oppositori. Una soluzio-ne che personalmente mi sembra irta diostacoli e scarsamente praticabile. I duepartiti sono infatti divisi da una storicaforte rivalità. È stato Nawaz Sharif acausare l’esilio di Benazir e a favorirel’imprigionamento per corruzione diZardari. Alla rivalità politica si aggiun-ge il fatto che i due partiti rappresenta-no uno zoccolo politico-sociale percepi-to come molto diverso (più di quantosia in realtà): il PPP il partito dei notabi-li e dei capi feudali del Sindh, la PML-N fortemente radicata nel Punjab, comedimostrano anche i risultati recenti.Nel sistema clientelare e populistapakistano, i programmi contano davve-ro poco. È tuttavia chiaro che Zardari eil PPP sembrano disposti ad accordicon Musharraf, mentre Nawaz Sharif,estromesso dal potere proprio daMusharraf nel 1999, sembra animato dauna forte rivalsa contro il presidente.In più, la traumatica uccisione dellaBhutto ha lasciato un vuoto di potereche è stato formalmente occupato dalmarito e dal figlio maggiore (appenadiciannovenne). In realtà, i notabili delPPP che hanno governato il partitodurante l’esilio della Bhutto difficil-mente daranno a Zardari ampia libertàdi manovra. E in ogni caso tutti sannoche difficilmente un governo di coali-zione può permettersi delle politiche disfida aperta alle forze armate.Teoricamente, il PPP potrebbe tentaredi formare un governo con l’aiuto delleformazioni minori e degli indipenden-ti, oltre a quello – magari indiretto – delpartito di Musharraf. Dipenderà moltoanche dalle decisioni del presidente edalla sua capacità di attuare politicheduttili e mostrare flessibilità.In buona sostanza, sono elezioni chenon danno stabilità al Pakistan. L’annoscorso, quando Washington spinse perun compromesso fra la Bhutto eMusharraf, il progetto era di creare una“diarchia” che desse forza a Musharraf,democratizzando in modo controllatoil paese, e appoggiandosi a una perso-na “amica dell’Occidente” come laBhutto. Con la morte di questa e il crol-lo di popolarità del presidente, il pro-getto è fallito.Per quanto indifendibile nelle sue scel-te recenti, tuttavia, non bisogna dimen-ticare che Musharraf ha seguito in que-sti anni politiche moderate e di riduzio-ne della corruzione, per quanto ambi-gue e inefficaci. Mentre i due campionidella democrazia pakistana, il PPP e laPML di Nawaz Sharif durante gli annidi governo hanno dilatato la corruzio-ne, portando il clientelismo e l’ineffi-cienza delle strutture amministrative alivelli incredibili.Se il Pakistan fosse una principessarapita, forse sarebbe ancora meno peri-coloso l’orco cattivo dei cavalieri giun-ti a salvarla.

RICCARDO REDAELLI

APPROFONDIMENTO / 2

Pakistan:dopo Musharrafin cerca di stabilità

re tempo per i convenevoli. Volevo chie-derle qualcosa sul suo Paese, tra un meseandrete a votare per le elezioni parla-mentari? Queste elezioni non sono libere!…perché la gente non può votare chi vuole.Pensi che l’idoneità e la moralità dei candida-ti dev’essere riconosciuta dal ‘Consiglio deiGuardiani’ e il popolo potrà votare solo chi èpassato da questo filtro. È per questo che nonle considero libere e mi asterrò dal partecipa-

re a queste votazioni. Spesso apprendiamola notizia di una nuova esecuzione capi-tale in Iran, cosa ne dice? Mi dispiace vera-mente che la pena di morte esista in Iran… epurtroppo è molto eseguita. Il peggio è chepersino minorenni vengono condannati amorte in questo Paese. Tutti gli sforzi miei edi tutti i difensori dei diritti umani per aboli-re la pena di morte in Iran non sono serviti amolto. Quali sono i reati per cui la si ap -

plica da voi? L’assassinio, l’omosessualità,la rapina a mano armata, la lotta armata con-tro il regime, il grande spaccio di droga… ealtri reati. Mi chiedo quale possa esserneil giudizio della gente iraniana? La gentenon è favorevole a questa legge… non è con-tenta di questo. Purtroppo c’è una piccolaminoranza che crede nella vendetta e con que-sto avvalla il principio alla base di questalegge. Io sono completamente contraria allapena di morte e approfitto di ogni occasioneper esprimerlo con forza. Riecco la segreta-ria, ci offre del tè caldo. È quel che ci vuolecon questo freddo… La Ebadi sorseggia,ma non riesce a rilassarsi. Con la mente èal suo lavoro. Credo poi soffra tanto aparlar male del suo paese. Dopo la noto-rietà seguita al Nobel, mi dica, temeancora per la sua sicurezza? Sì… non ècambiato nulla. Non dimentichi poi… midice con un sorriso sarcastico che il gover-no iraniano ha cercato di nascondere l’attri-buzione di questo premio. Erano convinti dinon annunciare questa notizia… poi venti-quattr’ore dopo… a seguito delle tante prote-ste, hanno dato una breve notizia al telegior-nale. Fuori è freddissimo, ora di andare.Tra un mese questo paese voterà per l’ot-tavo parlamento dopo la rivoluzione diKhomeini e due settimane dopo entrerànell’anno 1387. Auguri Iran.

erò! Elezioni irregolari”

Docente di Geopolitica- Università Cattolica di Milano

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6 Anno 1 - Numero 2

Aumento dei salari, ma solo per i la-voratori pubblici. I paesi del MedioOriente e del Golfo mantengono alcu-ne caratteristiche che erano propriedel mondo ex sovietico. Hanno mol-tissimi lavoratori direttamente dipen-denti dallo Stato per esempio.Lavoratori i cui stipendi sono decisidallo Stato. In Arabia Saudita peresempio, un po’ come nella gloriosaURSS (cambiato quel che c’è da cam-biare, ovviamente), c’è il “Majlis AlShura”, il consiglio composto da unarosa di capi clan e capi tribù locali no-minati direttamente dal Consiglio deiministri su indicazione del Re. Le pre-rogative del Consiglio sono andate al-largandosi nell’ultimo decennio, e og-gi i 150 membri di questo parlamentonon eletto, tra l’altro, danno indicazio-ni e raccomandazioni al sovrano.Qualche giorno fa il Consiglio ha de-ciso di chiedere alle autorità di stan-ziare 60 miliardi di rial in due anni (ol-tre 10 miliardi di Euro, unaFinanziaria italiana) per alzare i sala-ri e le pensioni dei lavoratori pubbli-ci. Vuol dire un incremento del 5% al-l’anno per tre anni. A questa sommasi aggiungeranno circa 12 miliardi dirial (circa 2 miliardi e mezzo di Euro)per tenere bassi i prezzi dei beni diprima necessità, e contenere il timoredi crescita dell’inflazione, al 4,1% que-st’anno (anche se a Dicembre 2007 iltasso annuale era del 6,5). La decisio-ne è arrivata proprio sull’onda di pro-teste crescenti sul costo della vita.Anche se l’aumento per i soli salaripubblici ha provocato l’irritazione deilavoratori del settore privato, ovvia-mente esclusi dalla decisione delConsiglio della Shura. Curiosamente invece il governo pale-stinese della Cisgiordania di Sa lamFayyad è al centro delle critiche – an-che dalla sua fazione, Fatah – per unascelta di tendenza opposta. Il governoha infatti dovuto subire diversi gior-ni di sciopero indetti dal sindacato delpubblico impiego contro un decretodell’Autorità palestinese, varato insettembre, che stabiliva che gli stipen-di sarebbero stati pagati solo dopo chei lavoratori avessero prodotto la pro-

va di aver pagato le bollette dei servi-zi pubblici (elettricità e acqua e altreutilities). La data ultima per il paga-mento era il 31 gennaio 2008. InCisgiordania - dove vivono circa 2 mi-lioni di palestinesi - ci sono circa 500milioni di dollari di bollette insolute. Ma il capo dei sindacati del settorepubblico palestinese Bassam Zakar -neh ha definito “illegale, affrettata esbagliata” la decisione di pretendere ilpagamento delle bollette. Una deci-sione che “offende la dignità dei lavo-ratori”. La stampa palestinese raccon-ta le vicissitudini di persone comeIbrahim Moussa, 65 anni, a capo diuna famiglia di 27 persone in cui solodue lavorano: deve ancora pagare 16mila dollari di elettricità e 25 mila diacqua (bollette insolute dal 1997).“Prima ci trovino un lavoro, poi pa-gheremo. No jobs, no money“.Ovviamente Fatah è nel dilemma: so-stenere il suo premier e la sua politi-ca del rigore o appoggiare la protestadelle masse? Jamal Abul- Rub, mem-bro del consiglio legislativo palestine-se, cerca di barcamenarsi: “siamo con-tro coloro che rifiutano di pagare lebollette, ma preferiremmo che il mo-do per indurli a pagare tenga contodelle dure condizioni in cui vivono ipalestinesi nei territori”. E forse anchedei sondaggi: gli ultimi (delPalestinian Center for Policy and SurveyResearch) dicono che dopo una stagio-ne positiva Fatah ricomincia a perde-re consensi in Cisgiordania, e cheHamas, specie dopo lo sfondamentodel confine di Rafah, è in crescita. E sel’uomo delle istituzioni più amato èAbu Mazen (in realtà quello più ama-to in assoluto, è il prigioniero diIsraele Marwan Barghouti, che nelconfronto diretto batterebbe sia ilPresidente dell’Anp che il premier diGaza), nel confronto tra il premier diGaza Haniye e quello della Cisgior -dania Fayyad, cioè tra le politiche diHamas e quelle di Fatah, vince il pri-mo 43 a 36.

La crisi dei salarie la tradizione sovietica

PAOLO MARTINI

ECONOMIA E MEDIORIENTE

Le pubblicazioni sui temi economici e finan-ziari offrono sempre più spazio al fenomenodei fondi sovrani per varie ragioni, tra lequali senz’altro la turbolenza dei mercatifinanziari degli ultimi mesi, sfociata nelleenormi perdite subite da banche e investito-ri. In un mercato in crisi di liquidità, l’attenzio-ne si concentra infatti su chi ne dispone e traquesti i fondi sovrani la fanno da padroni.Sono ormai numerose le operazioni finan-ziarie portate avanti da questi fondi negliultimi mesi anche grazie alle difficoltà in cuisi trovano banche e istituzioni finanziarieincappate a vario titolo nella rete dei subpri-me e degli strumenti derivati.Per “fondi sovrani” s’intendono quegli orga-nismi creati da stati sovrani con la finalità diinvestire disponibilità liquide solitamentegenerate da surplus commerciali (derivanti,ad esempio, da materie prime energetiche).Non ci si stupisce, quindi, nel constatare cheil primo fondo sovrano è nato in Kuwait, nel1960 (Kuwait Investment Authority).Altrettanto comprensibile il fatto che attual-mente il fondo con la maggiore dotazionefinanziaria sia l’Abu Dhabi InvestmentAuthority (del 1978).La dimensione stimata dell’ADIA è di 875miliardi di dollari. A fronte di una tale dispo-nibilità finanziaria sembra quasi modestol’investimento di 7,5 miliardi di dollari fattoa fine 2007 in obbligazioni convertibili emes-se da Citigroup. Questo fondo, peraltro, paresia destinato a essere surclassato da un altrodi dimensioni ancora maggiori che potrebbenascere a breve in Arabia Saudita.Il fenomeno dei fondi sovrani non è peròlimitato alle petromonarchie del Golfo, ma siè esteso a nuovi protagonisti della scena eco-nomica mondiale quali ad esempio Cina eRussia.Quali sono dunque i temi del dibattito attor-no ai fondi sovrani? E per quale motivo l’ul-timo summit economico di Davos ha dedi-cato loro così tanta attenzione?Ci sembra intanto di poter distinguere tracoloro che sono interessati al fenomeno ecoloro che ne sono preoccupati. I primi sonoi rappresentanti del mondo finanziario chesta facendo ricorso a quei “capitali di salva-taggio” in grado di consentire il superamen-to delle turbolenze cui si è accennato sopra(Citigroup, Credit Suisse, Merril Lynch,Morgan Stanley, UBS ed altri).

Sul fronte dei preoccupati dobbiamo senz’al-tro annoverare i governanti dei maggioripaesi occidentali (Francia, Germania e StatiUniti), preoccupati da alcune caratteristichedei fondi sovrani: scarsa trasparenza, diffici-le tracciabilità degli investimenti, possibileinterferenza in settori strategici nazionali,criteri di investimento non necessariamenteispirati da logiche di profitto.In questa chiave, si esprimono riserve suifondi sovrani dell’area del Golfo Persico chepresentano una serie di caratteristiche pecu-liari, tra le quali quella di essere espressionedi entità statuali non propriamente demo-cratiche secondo gli standard occidentali(stesso discorso per i fondi di Russia e Cina).C’è tuttavia un dubbio che sorge al riguardo:le perplessità occidentali potrebbero, infatti,nascondere un crescente disorientamentoche deriva dal fatto che l’asse mondiale del-l’economia si sta spostando sempre più a este che coloro che hanno investito prevalente-mente in titoli di stato, obbligazioni e simili,stanno iniziando a comprare i gioielli difamiglia di un occidente sempre più in diffi-coltà.Se è vero infatti che la trasparenza e la demo-craticità di uno stato estero possono (devo-no) costituire un criterio per valutare labontà di un investitore che sia emanazione ditale stato, è altrettanto vero che tali criteridovrebbero essere utilizzati anche quando sidecide di andare a investire in tali paesi; eccodunque che alcune delle critiche appaiono inbuona parte strumentali.Inoltre, quale credibilità può avere l’occiden-te quando teme che i fondi sovrani possanoavere logiche d’investimento diverse daquelle legate al profitto se esso stesso detienee alimenta un’industria di stato in settoristrategici (energia, comunicazioni, difesa)che di fatto sarebbe soggetta alle stesse obie-zioni che si hanno per i fondi sovrani?Sembra dunque evidente come il dibattitosui fondi sovrani non colga il tema essenzia-le del ridisegnamento in atto della geografiaeconomico-finanziaria mondiale e nascondala paura del mondo occidentale di perdere leprerogative di dominio globale detenutedall’inizio dell’era coloniale sino a oggi(ieri?).

I timori dell’OccidenteIn crisi la sua influenza

ANTONELLO LUPO

FINANZA E DIRITTO

Caporedattore di “Radio Radicale”Avvocato - Partner dello StudioLegale Norton Rose

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CULTURA

Velo e polemiche, la via turca al laicismo

Nelle settimane passate in Turchiaabbiamo visto decine di miglialia di perso-ne nelle piazze che protestavano contro gliemendamenti costituzionali votati dal par-lamento turco per togliere in sostanza ildivieto dell’uso del turban nelle università.

La questione del velo ha messo ancorauna volta in evidenza le molteplici realtàpresenti nel paese, che non possono essereinterpretate in modo univoco. Una personache si definisce laica può benissimo esserelaica ma antidemocratica o si può definirenon laica ma liberale. Soprattutto chi sidefinisce laico non significa sempre che sianon credente o non praticante. Potrebbesembrare che mettere insieme queste defi-nizioni generi un ossimoro, ma in Turchiatanti si riconoscerebbero senza esitazioni inqueste apparenti contraddizioni.

L‘interpretazione del concetto di laicità el’applicazione dello stesso concetto nellavita quotidiana delle persone è molteplice.

Basta pensare che in Turchia i sostenitoripiù accaniti del turban sono i circoli laiciliberaldemocratici per i quali l’uso del velosignificherebbe un’esercizio di libertà diespressione e non costituirebbe una minac-cia per i fondamenti laici dello stato turco.

La maggioranza delle donne in Turchiaporta un fazzoletto in testa. Eppure nontutte le donne che coprono il capo usano ilturban e non tutte sono religiose praticanti,si tratta piuttosto di una tradizione.

D’altronde ci sono tante donne cheseguono i precetti dell’islam senza coprireil capo. La Turchia è piena di donne laiche,femministe, di destra o di sinistra, dirigen-ti, docenti, atlete che fanno i 30 giorni didigiuno nel mese di ramadan senza copri-re i loro capelli, pur non essendo necessa-riamente contrarie al turban o all’uso delcopricapo in generale.

In sostanza, fino a poco tempo fa ognu-no viveva come voleva ma con le discus-sione intorno alla riforma costituzionale, ilmodo di coprire il capo è ormai diventatoun simbolo del conflitto fra laicità e antilai-cismo in Turchia.

Il turban è un copricapo particolare, un

modo più ortodosso di coprire la testa cosìda da non far scoprire neanche un capello,diverso dal fazzoletto usato dalla maggiorparte delle donne in Turchia. È proprio ilturban che apparve in Turchia all’iniziodegli anni Ottanta che ha messo in allarmegli ambienti più marcatamente laici come ivertici militari, i magistrati e la maggiorparte del corpo docente, oltre agli esponen-ti del partito di opposizone, il partitoRepubblicano del popolo.

Per le élite laiche, il turban che copreanche in parte la faccia delle donne nonrappresenta un simbolo religioso ma unsimbolo politico nel vero senso della paro-la. Un simbolo che ispirerebbe una più dif-

fusa islamizzazione del paese, con il peri-colo magari di vedere un giorno permessol’uso del turban nelle scuole medie-superio-ri o negli uffici pubblici, indossato da chisvolge una funzione pubblica, contraria-mente ai precetti laici del fondatore dellaRepubblica, Ataturk.

Si teme inoltre la pressione sociale chesubirebbero le studentesse da parte dei lorofamiliari, che potrebbero indurle a portareil turban nelle università. Una legge cheriguarda le libertà fondamentali potrebbeavere un effetto al contrario sulle studen-tesse che vengono dalle famiglie conserva-trici. In sostanza ci sarebbe il pericolo che“si puo” diventi si “deve”.

Prima che entri in vigore, la riforma isti-tuzionale dovrà essere promulgata dal pre-sidente della Repubblica Abdullah Gul cheaveva trovato una dura opposizione allasua elezione alla presidenza da parte deilaici perchè la moglie indossa il turban.

Bisogna anche vedere come si esprimeràla corte Costituzionale sulla questione dicompatibilità dell’iniziativa con il principiofondamentale della laicità stabilito nellaCostituzione. Quello che è sicuro è che lacontroversia sul velo islamico infiammeràancora tante discussioni in una Turchia chebussa alle porte di un’Europa sempremeno convinta di accoglierla a pieno titolo.

SEYDA CANEPA

7Febbraio 2008

Il mondo arabo guarda? Il mondo araboguarda eccome! Guarda, osserva, studia,imita e rimodella a suo piacimento quelloche lo affascina di più, che lo rapisce, quel-lo a cui non riesce a resistere nel bene e nelmale, attraverso il mezzo di comunicazio-ne per eccellenza: la televisione. Il mondoarabo è anche molto più curiosodell’Occidente, può essere pigro in alcuniambiti ma nel curiosare altrove no, bastipensare alle zone più disagiate delle gran-di metropoli arabe, dove l’occhio di unturista non può non cadere sull’immaginemetropolitana delle baracche distrutte,sporche, ma con una parabola sul tetto,migliaia e migliaia di parabole su baracchesparse qua e là, che completano la com-plessità delle grandi metropoli arabe.

A soddisfare poi ulteriormente la curio-sità degli uomini è arrivata anche la reteinternet un lusso ben presto venuto menograzie dell’aumento degli internet point,accessibili a tutti, poveri o ricchi, perché peraccedere all’altro mondo bastano pochidirham, che tutti sono disposti a spendereanche se solo per un ora al giorno.

Tutto questo non vuol dire che il mondoarabo non ha una televisione propria. Anzi,in Medio Oriente si è espansa sempre piùrapidamente l’industria dei media e il feno-meno sta avendo uno sviluppo forse ina-spettato, sono almeno 400 i canali satellita-ri arabi, diversissimi tra di loro, molti deiquali di grande qualità e quasi superiori aquelli occidentali. Basti pensare all’ormaicelebre emittente del Qatar Al Jazzera, allaquale ha fatto seguito Al Arabiya, qualecatalizzatore dell’attenzione sull’obbiettivorosa. Questi canali rappresentano delle pil-lole quotidiane di all news, ossia tv di solainformazione, tanto da sembrare i gemelliarabi delle americane Fox News e Cnn oforse sono già gli audaci concorrenti. Cisono poi canali dedicati ad altri temi preci-si, si passa quindi da canali religiosi comeIqra, famosa per la presenza dei continuiinterventi di autorevoli Shuyukh (daSheikh) provenienti dalle diverse scuoleislamiche, che all’interno dei programmifanno sermoni e danno consigli sui com-portamenti di vita da condurre per esseredei buoni musulmani.

Ma da questi canali si passa poi ad altriancora, come quelli musicali, dove invecesi susseguono i numerosi videoclip, daquelli delle danzatrici del ventre che si esi-biscono davanti alle telecamere munitesolo di qualche velo che copre le parti inti-me lasciando scoperte le parti più provo-canti, quelle coperte invece dalle donnemusulmane più osservanti, per poi vederei diversi cantanti arabi, più simili a model-le e attori che veri cantanti. Ammiccanocon sorrisi provocanti, i vestiti non sonopoi da meno, come le scene d’amore chenon hanno mancato di creare una vera epropria polemica sui metodi usati, pergirare i videoclip e sul rispetto per la serietàverso invece coloro che sono consideratidei veri talenti.

Tutto questo, viene conosciuto e carpitoattraverso la televisione, in qualche modolo specchio della società dove si vive e

Tv e Internetnel mondo arabo

KARIMA MOUAL

SOCIETA’

dimostra che il mondo arabo è pieno dicomplessità, è variegato, diversamente dacome erroneamente viene rappresentato inOccidente.

L’immagine simbolo, però, di comel’Occidente negli ultimi anni ha rappresen-tato e rappresenta il mondo arabo sui suoischermi televisivi è stata ed è una soltanto- Osama Bin Laden e i suoi compagni - conun unico messaggio - un messaggio di

intolleranza, odio e violenza. Un messag-gio corto, quasi sbrigativo, dettato forsedalla pigrizia (e lo dico in buona fede), unamalattia che ha colpito negli ultimi anni igiornalisti che dovevano affrontare questotema? La pigrizia non può colpire chi fainformazione, data la responsabilità che neconsegue nel creare muri difficili oggi daabbattere per conoscersi e dialogare senzapregiudizi.

Cosa ci è arrivato dal mondo arabo è unfatto oramai chiaro a tutto l’Occidente, maè interessante vedere cosa arriva veramen-te dell’Occidente sugli schermi arabi?Quale Occidente passa via satellite dentrole case arabe?

La ricerca della risposta a queste doman-de continuerà nel prossimo numero.

(1-continua)

Giornalista marocchinaesperta di immigrazione

Corrispondente in Italia per la NTVNews Channel – Turchia

In onda ogni due venerdì alle 20,30 • www.ilvicinoriente.it

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8 Anno 1 - Numero 1

• 4: Dopo quasi un anno, kamikaze pale-stinesi tornano a terrorizzare Israele. ADimona (nel Neghev), città simbolo delpotere nucleare israeliano, due palestine-si si fanno esplodere davanti a un centrocommerciale. Tre morti e decine di feriti.Hamas rivendica l’attentato.

• 8: Il premier palestinese Salam Fayyad,in visita negli Stati Uniti, afferma di rite-nere “improbabile” un accordo di paceduraturo con Israele entro il 2008.Annapolis sembra sempre più lontana.

• 12: Ucciso in un attentato a Damasco, neipressi della sede dei servizi segreti siria-ni, Imad Mughniyeh, comandante milita-re di Hezbollah. Secondo Hezbollah è sta-to ucciso da “mani sioniste”, ma lo Statoebraico nega. Al suo funerale, HassanNasrallah, leader del movimento sciita,promette “guerra aperta” a Israele.

• 13: Ucciso in un attentato in Afghani -stan, a sessanta chilometri da Kabul, il ma-resciallo italiano Giovanni Pezzulo.

• 18: In Pakistan un voto di protesta tra-volge il presidente pachistano PervezMusharraf nelle elezioni legislative chebocciano il partito dell'ex generale e pre-miano l'opposizione guidata dal Partitopopolare della leader assassinata BenazirBhutto.

• Il segretario di Stato americanoCondoleezza Rice visiterà Israele e iTerritori palestinesi all'inizio del mese perportare avanti il dialogo sul processo dipace sulla scia della conferenza diAnnapolis. Ad annunciarlo è stata la stes-sa Rice, parlando alla commissione Esteridel Senato Usa.

• 2: Il presidente iraniano Mahmud Ah -madinejad compirà una visita storica aBaghdad. La missione, che sarà la primadi un presidente iraniano dalla rivoluzio-ne komeinista del 1979, durerà due gior-ni, durante i quali Ahmadinejad incon-trerà le più alte autorità irachene.

• 14: Elezioni legislative in Iran. L'esclu -sione di migliaia di candidati riformatoriè stata giudicata una “catastrofe” dall’expresidente Mohammad Khatami.

• C’è attesa per il rapporto sull’Iraq che ilgenerale David Petraeus, comandante incapo delle forze americane nel Paese, do-vrà presentare in marzo al Congresso.

• Libano: Se gli sforzi della Lega Arabaper eleggere un candidato “di consenso”quale nuovo presidente della Repubblicalibanese non avranno successo, la maggio-ranza parlamentare libanese si è riservatail diritto di eleggere a maggioranza sem-plice il generale cattolico-maronita MichelSuleiman capo dello Stato “prima del ver-tice arabo” previsto a Damasco alla fine dimarzo. Lo ha messo in chiaro Fares Sueid,coordinatore della coalizione governativadelle “Forze del 14 marzo”.

COSA E’ ACCADUTO (FEBBRAIO 2008) COSA ACCADRA’ (MARZO 2008)

A cura di: Francesco De LeoDirettore Responsabile: Vinicio CoppolaRedazione: Davide De Leo (da Londra), Annalisa Galardi, Donato VolpicellaEditorialisti: Massimo Bordin, Vittorio Emanuele Parsi, Stefano Polli

Collaboratori: Khaled Fuad Allam, Gianluca Ansalone, Dawood Azami, Nomi Bar-Yacoov, Elisabetta Brighi,Francesco Boccia, Massimo Campanini, Giuseppe Caldarola, Mimmo Candito, Seyda Canepa, Toni Capuozzo,Franco Chiarello, Michael Cox, Lorenzo Cremonesi, Rosita Damora, Paride De Masi, Gwen Griffith-Dickson,Renzo Guolo, Alfredo Mantovano, Paolo Martini, Gian Micalessin, Karima Moual, Samuela Pagani, GiovanniPellegrino, Alessandro Politi, Antonio Polito, Riccardo Redaelli, Monica Ruocco, Robert Springbord, FereshtehTaerpour, Yasemin TaskinProgetto grafico e impaginazione: Giuseppe LorussoStampa: Editrice Salentina Srl, Via Ippolito De Maria 37, 73013 Galatina (Lecce)[email protected] • www.ilvicinoriente.itSupplemento della rivista HermesEditore: A.C. Hermes - Via Delle Murge, 59/A - 70124 BariRegistrazione testata: Tribunale di Bari n. 12 del 14/03/2005

Rivista stampata con il contributo de

continua dalla prima» Vittorio Emanuele ParsiElezioni e Medio Oriente, legittimità e consenso

Com’è noto, la casa dei Saud fu costretta a un simile passo in un momento di estre-ma debolezza, dopo l’invasione dell’Iraq, e sotto le pressioni americane il cui proget-to per la stabilizzazione della regione si fondava proprio sulla democratizzazione.

Il secondo gruppo è costituito da quei regimi che affondano la propria origine inrivoluzioni ormai lontane, spesso coincidenti con l’affrancamento dalla dominazionestraniera diretta o indiretta. In simili casi il richiamo alla sovranità popolare è unanecessità costante per la riaffermazione della legittimità delle istituzioni, per cui le ele-zioni non possono non tenersi, ma a condizione che sia ben chiaro che la loro capacitàdi determinare l’esito dello scontro per il potere sia nullo (come in Siria) o comunquelimitato e coincidente con una fase di crisi del regime e di forte pressione esterna (comein Egitto). Un caso particolare all’interno di questa tipologia è rappresentato dall’Iran.In ossequio alla rivoluzione da cui è sorta, la repubblica islamica riconosce nel popo-lo il detentore della sovranità, ma la costringe a esplicitarsi nel rispetto del velayat (ilprincipio del governo islamico). In più, attraverso un sindacato inappellabile sull’am-missibilità delle candidature operato dal Consiglio dei Guardiani stabilisce i “limiti”attraverso i quali la competizione delle élite è regolata dal giudizio degli elettori.

Ma perché, con rarissime eccezioni (la Giordania, almeno parzialmente), sembra chein Medio Oriente siano proprio le elezioni dei paesi a rischio di guerra civile (o che cer-cano faticosamente di venirne fuori) quelle che sembrano assolvere entrambe le lorofunzioni? La risposta è che quando il regime è troppo fragile o non è ancora consoli-dato l’élite politica che gestisce il processo elettorale è costretta a “prendersi il rischio”del giudizio da parte dei cittadini, con l’esito, talvolta, di vedere sanzionato dal vototanto il crollo del consenso quanto quello della legittimità del regime, come il recentecaso pakistano sembra suggerire.

mensile di politica, cultura e società

LA QUESTIONE

Gerusalemme,il nodo mai sciolto

Città santa per le tre religioni monotei-ste - terra promessa per gli ebrei, teatrodella missione redentrice di Gesù e luogodi ascesa del profeta Maometto versoAllah -, Gerusalemme rappresenta il cuo-re simbolico del conflitto israelo-palestine-se, crocevia delle speranze, ma anche deilutti e dei tormenti che hanno attraversa-to la regione per secoli.

Non è un caso se la sovranità diGerusalemme, assieme alla questione delritorno dei profughi e ai confini del futu-ro stato palestinese, sia il principale osta-colo a un accordo di pace tra israeliani epalestinesi. Anche dopo la conferenza diAnnapolis, durante la quale il presidenteAbu Mazen ha detto a chiare lettere che ilfuturo Stato dei palestinesi dovrà avereGerusalemme Est come capitale oppurenon sarà.

Ma come esplode la questione diGerusalemme e perché viene reclamatacome capitale da due popoli?

Per capirlo – senza pretendere di risali-re all’anno 1.000 a.C., quando David riu-nificò le dodici tribù d’Israele in un unicoregno, fissando la capitale proprio aGerusalemme - dobbiamo fare un salto in-dietro nel tempo di almeno 60 anni, alla vi-gilia della nascita dello Stato di Israele.

Dopo la seconda guerra mondiale e l’a-bisso della Shoah, i britannici – allora po-tenza mandataria in Palestina – deferiro-no il futuro del loro dominio alle NazioniUnite, che costituirono a loro volta unComitato speciale sulla Pale stina (Unscop)per cercare di sbrogliare la matassa. PerGerusalemme, l’Unscop propose l’inter-nazionalizzazione. La città e i suoi dintor-ni sarebbero dovuti diventare un corpus se-paratum dai due Stati, amministrato diret-tamente dalle Nazioni Unite.

Il 29 novembre 1947 l'Onu approvò ladivisione della Palestina, tra le protestedella Lega Araba e l’esultanza dei dirigen-ti sionisti.

Da quel momento, la storia del MedioOriente cominciò a grondare di sangue.Dopo la prima guerra arabo-israeliana(’48-’49), Gerusalemme fu spaccata indue: la parte occidentale ricadde sotto lasovranità di Israele, la parte orientale -comprensiva della Città Vecchia - sotto laGiordania. La formula dell’internaziona-lizzazione, sul terreno, era ormai divenu-

ta impraticabile: i luoghi di culto ebraici fi-niti sotto la giurisdizione giordana furonoprofanati; dal canto suo, Israele trasferì iministeri e la Knesset a Gerusalemme, di-chiarandola nel 1950 capitale dello stato.

Il 7 giugno 1967, durante la guerra deiSei Giorni, le truppe israeliane occuparo-no anche la parte orientale della città,creando di fatto un’unica Geru salemmeebraica. Di fronte alle condanne delConsiglio di sicurezza dell’Onu degli an-ni successivi, Israele reagì con la promul-gazione – nel 1980 - di una legge costitu-zionale che proclamava Geru salemme in-divisa capitale dello Stato.

Fu proprio la questione della sovranitàsu Gerusalemme Est a far fallire il verticedi Camp David del 2000, quando Clintonriuscì a portare Barak e Arafat vicinissimia un accordo, che poi sfumò proprio per-ché il raìs puntò i piedi, bocciando ogni so-luzione che non riconoscesseGerusalemme Est come capitale delloStato palestinese sotto la sua piena sovra-nità. Il fallimento spalancò le porte allaSeconda Intifada, esplosa nel settembredel 2000 in seguito alla provocatoria pas-seggiata del leader del Likud, ArielSharon, sulla contesissima Spianata dellemoschee. La visita al Monte del Tempiointendeva simboleggiare la sovranitàisraeliana sul luogo sacro, oggetto diun’interminabile contesa.

L’ultimo tentativo di mediazione diClinton condusse ai negoziati di Taba delgennaio 2001, che pure fallirono, questavolta sul problema dei rifugiati palestine-si.

Il resto è storia recente. Con la morte diArafat e l’avvento al potere di Abu Mazen,la dirigenza palestinese ha scelto un ap-proccio più pragmatico al problema diGerusalemme, malgrado le forti resisten-ze dei fondamentalisti. Dal canto loro gliisraeliani, prima con Sharon e ora conOlmert, sembrano aver capito che la pacein Terra Santa è inscindibile dalla creazio-ne di uno Stato palestinese che abbia inGerusalemme Est la sua capitale.

Dopo Annapolis, sembra esserci la ba-se per lavorare a un accordo. Anche sequalcuno ha scritto che la ricerca di unasoluzione per Gerusalemme è come anda-re incontro alla linea dell’orizzonte: più cisi avvicina, più lei si allontana.