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Andrea Kong Maggia IL PROCESSO IMPROVVISATIVO Jackson Pollock - Number 8

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Andrea Kong Maggia

IL PROCESSO IMPROVVISATIVO

Jackson Pollock - Number 8

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Anno 2004

INDICE

PARTE PRIMA

1. Processo temporale e campo improvvisativo

2. Definizione degli elementi del processo temporale. Tempo interno, tempo esterno e ritmo

3. Il tempo esterno

4. Il tempo interno

5. Esempi empirici

6. Il concetto di campo improvvisativo

7. L’action-painting e il processo improvvisativo

PARTE SECONDA

1. Free Jazz

2. Ornette Coleman

3. Analisi del campo improvvisativo di Free Jazz

4. La cornice

5. Il limite esterno

6. Il luogo interno

7. Il balzo – il tempo improvvisativo

8. Il tempo improvvisativo interno

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PARTE TERZA

1. Breve ascolto di Free Jazz. Da 00:00 a 00:20 – L’uno

2. Da 00:20 a 05:12 – Il ritmo di Free Jazz e l’assolo di Dolphy

3. Da 05:24 a 19:55 – L’assolo di Hubbard e l’assolo di Coleman

4. Il lato due: gli assolo di Cherry e delle sezioni ritmiche

Conclusioni

Nota bibliografica e discografica

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Introduzione

La nostra indagine si propone di osservare e riflettere sulla linea di confine tra ciò che accade nelcontinuum temporale e ciò che è, dove l’imprevisto è di casa e dove possiamo dire che si genera, insenso proprio, l’improvvisazione. In un certo qual modo una riflessione sulla contrapposizione fra lanozione di processo e quella di struttura attraverso i modi dell’improvvisazione. Per far questo,essendo l’improvvisazione un atto immanente nel tempo, ci rivolgeremo alle pratiche in cui essaassume una specializzazione. Sappiamo esserci degli ambiti che hanno esperienza della praticaimprovvisativa: primariamente nella musica, dove l’accadimento istantaneo, la creazione sull’estrodel momento subisce una forte rivalutazione e acquista significati particolari. A questi noi cirivolgeremo. Precisiamo che la particolarità di questa ricerca è proprio il campo d’indagine che sipropone. L’improvvisazione per sua natura costitutiva, come abbiamo accennato, è qualcosa cheprincipalmente accade e che poco si presta ad una classificazione. Oltremodo l’atto improvvisativoin sé è qualcosa d’evanescente, effimero e transitorio, che possiamo ben dire antitetico a unarigorosa teoria scientifica che, invece, è tanto più valida quanto più riesce a predire con esattezzal’evento oggetto d’indagine. Questo fa sì che l’improvvisazione in sé sia qualcosa che non si studia, perché semplicementeaccade, e dunque non lascia traccia. Dato il carattere “istantaneo” dell’atto improvvisativo, divienedifficile e forse anche paradossale rintracciare materiali e studi che a esso si riferiscono. È invecepossibile trovare dei percorsi, delle esperienze consapevoli, quando l’improvvisazione acquista lapeculiarità di un atto che specializza una forma. Allora l’improvvisazione è musicale, teatrale,anche pittorica: spesso un’accezione di una disciplina artistica o comunque di un ambito dovelibertà e creatività sono fortemente richieste. Acquisisce un passato che la solleva dall’attimo perstoricizzarsi e in questo senso può essere studiata e compresa, ma sempre in riferimento ad unadisciplina che la contiene. Anticipiamo che il testo che segue si preoccuperà maggiormente dell’improvvisazione in sé, maattraverso una particolare lettura di alcune sue specializzazioni, come aree di ricerca in cui possiamoeffettivamente riscontrare cosa accade in atti improvvisati che hanno un più alto grado diconsapevolezza. Dunque, all’inizio, proprio come farebbe un improvvisatore, dobbiamo guardarealla sua essenza, consci di aver di fronte un campo aperto, libero, avulso da ogni struttura e dicarattere eminentemente temporale. Per affrontare questo problema, in apertura, tenteremoun’analisi che ci consentirà d’individuare le due categorie principali del processo improvvisativo, iltempo improvvisativo ed il campo improvvisativo. Conseguentemente, in queste categorie,definiremo le costanti che sempre partecipano all’atto improvvisativo in sé. Questa “metodologia”,ci darà modo di agganciare l’evanescente improvvisazione agli atti di chi ha fatto di questa praticauna “forma espressiva”, permettendoci di riflettere ed analizzare l’improvvisazione in sé inriferimento a performance improvvisative date. In questo senso abbiamo ritenuto che la musicaavesse maggior voce in capitolo, ma ricorreremo anche ad altre forme d’arte, come la pittura diJackson Pollock, che sarà particolarmente indicativa quando trattermo il campo improvvisativo. Aggirato, in un qual certo modo, il problema dell’istantaneità dell’accadimento improvviso,introdurremo la performance improvvisativa che fa da sfondo a questa ricerca. La performance cheproponiamo in questo lavoro come quadro di riferimento è Free Jazz di Ornette Coleman,1 storica

1 Ornette Coleman, Free Jazz, a Collective Improvisation by The Ornette Coleman Double Quartet, Atlantic 1364, NewYork 1961.

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incisione e “manifesto” della libera improvvisazione jazzistica. Qui metteremo in relazione lecategorie individuate all’inizio, il campo improvvisativo e il tempo improvvisativo, con laperformance di Ornette Coleman. Vedremo come gli elementi spaziali che inerisconoall’improvvisazione in ambiti in cui essa è fortemente voluta si connotino strutturalmente. Inseguito cercheremo di comprendere la particolare accezione temporale propria di un processoimprovvisativo, il flusso temporale, riferendola a ciò che accade nella performance di Coleman. Chela musica sia innanzi tutto e perlopiù un’arte temporale è cosa risaputa, vedremo comenell’improvvisazione il tempo subisca un’ulteriore trasformazione, attraverso un movimento che vadall’interno verso l’esterno, dal soggetto all’ambiente. Certo col termine improvvisazione possiamoforse dare una vaga idea di quella particolare temporalità in cui le “cose avvengonoistantaneamente”, ma perlomeno possiamo intenderci su una zona, definire una prima area di ricercae così rilevare che l’improvvisazione tende per sua natura costitutiva ad esimersi da ogni rigidadefinizione. Dunque il nostro procedere all’interno di questa pratica, (perché, in definitiva,l’improvvisazione è sempre un atto del soggetto) non è certo da intendersi come uno studiorigorosamente fondato e saldamente radicato su un sistema normativo di leggi e definizioni, mapiuttosto (e proprio per la natura specifica dell’oggetto d’indagine) come semplice indicazione di unarea di ricerca di gusto squisitamente temporale. Una sorta di “improvvisazionismo”, dunque, in cuici avventuriamo con la dovuta cautela e speriamo con la necessaria modestia, cercando di far luceattraverso la riflessione di una pratica che ci ha da sempre affascinato per il suo alto contenutocreativo.

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IL PROCESSO IMPROVVISATIVO

§ 1. Processo temporale e campo improvvisativo

L’inizio di questo nostro studio sulla natura dell’improvvisazione è caratterizzato dall’esigenzadi individuare le costanti che sempre partecipano al processo improvvisativo: in via analiticaosserveremo la temporalità di un improvvisazione e il luogo in cui essa avviene definendo lecomponenti che riconosciamo come originarie. Ricordiamo come questo operare sia indispensabileper una corretta impostazione nell’indagine che ci siamo proposti per definire con precisione glielementi che ineriscono al processo improvvisativo, dandoci la possibilità di far luce all’interno diuna pratica che per sua natura è a-sistematica e che dunque, nell’immanenza del suo essere, tende acelarsi sotto il velo dell’istantaneità. È un far ordine, è un separare e osservare, ascoltare ciò cheavviene all’interno di un processo magmatico e fluido che sgorga innanzi tutto e perlopiù libero davincoli e immanente nel tempo. Pensare l’improvvisazione può essere contraddittorio, e vedremoche spesso avremo questa sensazione, voler ordinare questo particolare modo di vedere il mondopotrebbe assorbirne la libertà che a esso afferisce come costitutiva all’interno di un processo che hale sue forze, i suoi luoghi e innanzi tutto i suoi tempi. Schematizzare e riordinare questa pratica cheper sua essenza ha da sempre una parvenza di libero gioco ci rende pignoli e antipatici: perchédobbiamo analizzare ciò che vuol essere libero, improvvisato per l’appunto? Rispondiamo dicendoche l’improvvisazione è tanto più libera quanto più è consapevole . È questa la ragione che ci spingea cercare che cosa sia l’improvvisazione. Il problema fra libertà espressiva e struttura formale ha alimentato e tormentato l’arte e per noiin essa la musica, da sempre. Questa antitesi così feconda ci porta a cercare nel suo interno glistrumenti che danno accesso all’improvvisazione. È innanzi tutto e perlopiù il carattere temporaledel processo improvvisativo che ci obbliga a rivolgerci alla musica e al suo modo di pensare iltempo. In questa accezione abbiamo già disposti sul nostro banco di lavoro una serie di “strumenti”(come ad esempio la notazione musicale e, ancor meglio, performance date di artisti che ad essahanno fatto ricorso) che ci facilitano l’ingresso in questa particolare pratica che è l’improvvisazione.A tutti capita d’improvvisare: nella quotidianità è un atto così consueto che spesso non ci rendiamoconto di come la nostra mente sia naturalmente predisposta a esso. Un acquazzone improvviso,diciamo, e in questo già nel linguaggio vi è una sottolineatura del carattere immanente dello stesso.Così anche noi di conseguenza siamo improvvisatori, un telo di plastica diventa un impermeabile,una cartella un ombrello. Il musicista però ha un’esperienza dell’improvvisazione: la pensa, lastudia e la pratica come essenza costitutiva di un’espressione artistica che in alcune sue accezionicome ad esempio il jazz diviene spesso non solo forma artistica privilegiata ma anche vissuto realedel musicista. A questo faremo ricorso per individuare, attraverso l’esperienza che la musica hadella prassi improvvisativa, dei punti di orientamento che ci consentano una maggior comprensionedel suo farsi. Il processo improvvisativo, abbiamo detto, è effimero e transitorio, un atto del soggetto dicreazione istantanea in cui difficilmente riusciamo a riconoscere delle costanti. Dunque il primoriferimento che possiamo rilevare è osservare come si comportano le generalissime categorie dispazio e tempo. Certo qui vi è subito un nodo centrale che Jhoanne Rivest nel suo breve saggio

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“Alea, happening, improvvisazione, opera aperta” 2 mette in luce quando rileva che“l’improvvisazione pura è probabilmente la forma più radicale del rifiuto della scrittura e, suotramite, della stessa nozione di opera”, in quanto l’artista “concepisce la musica sulla basedell’ispirazione del momento”. Con questo, essa ricava un interessante osservazione che ci parepregnante per il proseguo della nostra ricerca, specificando che “il provvisorio prende ilsoppravvento sulla perennintà, una prerogativa delle opere interamente scritte, e la nozione diprocesso entra in competizione con quella di struttura”. 3 È proprio quest’ultima affermazione che,in riferimento all’introduzione delle categorie di spazio e tempo ci interessa particolarmente: il fattoche la nozione di processo entri fortemente in competizione con quella di struttura, significa che latemporalità di un atto improvvisativo stabilisce già di per se stessa la quasi totalità degli elementirinvenibile all’interno di una performance. Questa è un atto di creazione istantanea che si da senzaarchitetture particolari e che si incarna nell’immediato usando il tempo come processo liberatoriodell’espressività interiore del soggetto. In questa accezione la processualità scalza la struttura làdove dovrebbe essere, magari legata a una partitura od a una forma musicale ben definita. Ma di unospazio, certo, abbiamo sempre bisogno. Vedremo dunque come, a nostro avviso, la processualitàinibisca la struttura, essendo il tempo l’elemento portante di un improvvisazione, ma che comunqueun residuo significativo della stessa struttura è ineliminabile, rimane in gioco e assumecaratteristiche che cercheremo di mettere in rilievo. Certo ora la struttura è in funzione del tempo,che dev’essere libero e capriccioso come l’espressività dell’artista, mentre, in forme classiche dicomposizione, sappiamo che il tempo è in funzione della struttura, in definitiva, della formamusicale prescelta. Questo ci ricorda che all’interno di un improvvisazione non ci sono a prioritemporali. Vediamo come le due principali categorie fenomeniche sopra citate intervengono nello processoimprovvisativo, sempre tenendo a mente le nozioni di processo e struttura che via via chiariremocon esempi e confronti. Il tempo definisce la processualità dell’atto improvvisativo: è attraverso ladefinizione degli elementi del processo temporale che saremo in grado di coglierel’improvvisazione nel suo farsi e d’intenderla come pratica temporale. L’improvvisazione è sempredinamica, è un movimento in cui il tempo assume una diversa valenza, si soggettivizza, diventa piùnostro. Per intenderci non è il tempo misurato, oggettivato di un orologio o di un metronomo mapiuttosto il nostro tempo interno che trova una sua modalità espressiva, un modo d’essere nelmondo-ambiente, un suo fluire dall’interno verso l’esterno. Questa particolare temporalità è, in uncerto qual modo, il sostrato indispensabile per un atto di creazione istantanea, liberando l’artistaperformante da vincoli formali esterni. La seconda categoria a cui faremo riferimento definisce il luogo dell’improvvisazione, lo spazioin cui essa si dà: la denominiamo campo improvvisativo. È proprio questo termine, campo, chedefinisce lo spazio che inerisce alla sua essenza come elemento strutturale. Le forze cheintervengono nel processo improvvisativo si trovano già dispiegate nello spazio a essa dedicato. Seconsideriamo con attenzione proprio lo spazio in cui essa avviene, il campo, ci accorgiamo di comel’improvvisazione non si generi mai in maniera totalmente casuale anche nella quotidianità. Unacquazzone improvviso ha nel suo campo, nel suo spazio, gli elementi causativi dello stesso edanche quelli che ci permettono di farci un ombrello con una cartella. Se potessimo disporre di unafotografia di quel momento vedremmo disposti sul campo gli elementi utilizzati e ciò che hagenerato il processo: vedremmo un cielo estivo macchiato di nubi scure, la nostra cartella posatasulla panchina, i bambini gridare e rincorrersi nel parco e un telo di plastica ricoprire una vecchiatavola di legno. Questi oggetti non sono lì per caso, sono lì e basta; sarebbe casuale se trovassimoun vecchio ombrello sotto la panchina su cui siamo seduti: allora verrebbe meno la spinta creativa inseno all’improvvisazione perché il modello, l’ombrello che ci ripara dalla pioggia, sarebbe già dato.Avremmo casualmente trovato un oggetto che si conforma al modello che pensiamo: un ombrello. 2 Jhoanne Rivest, in Enciclopedia della musica, Il Novecento, vol.II, Giulio Einaudi editore, Torino 2002, pag. 312.3 Ivi, corsivo mio

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Mancherebbe la trasformazione, quell’atto genetico solo mio che impone un nuovo significato aglielementi del campo dall’interno verso l’esterno, dalla nostra necessità interiore (in questo caso ilproteggersi dalla pioggia) alla sua fatticità. Questo essere lì degli elementi nel campo improvvisativone conferisce il carattere strutturale. Nella musica acquista una sorta di consapevolezza ed è pensatopreliminarmente per delineare il campo, lo spazio dove quel tal strumento darà libero accesso allesue risorse improvvisative. Questo aver già pensato l’improvvisazione fa sì che, per condurre lanostra ricerca, si consideri la musica come pratica elettiva. Dunque distinguiamo un luogo dell’improvvisazione, uno spazio definito dove essa prendeavvio, il campo improvvisativo, da una temporalità in cui si dispiega e in cui avviene il processoimprovvisativo, che chiameremo tempo improvvisativo. All’inizio definiamo gli elementi costitutividell’improvvisazione e, per l’analisi temporale, in contrapposizione al processo improvvisativo incui a prevalere è il tempo interno del soggetto, il concetto di tempo esterno. Stabiliti gli elementicostitutivi, saranno presentati e discussi esempi empirici spesso a carattere musicale per rendere piùagevole e comprensibile il lavoro svolto. Conseguentemente analizzeremo il concetto di campoimprovvisativo ora accennato delineandone i contorni e il significato strutturale.

§ 2. Definizione degli elementi del processo temporale. Tempo interno, tempo esterno eritmo

Iniziamo la nostra disamina dal processo temporale perché abbiamo più volte affermato chel’improvvisazione è un atto del soggetto e come tale è sempre all’interno di una fase di movimento.Questo spiega l’uso della nozione di processo, che vedremo assumere interessanti connotazionidurante il nostro lavoro, proprio perché essa è inscindibile dall’atto di creazione istantanea datoall’interno di un improvvisazione. Giovanni Piana ci ricorda che “parlando della temporalità delsuono intendiamo certamente attirare l’attenzione sul fatto che il suono è anzitutto un processo” eche “gli oggetti temporali sono propriamente dei processi” 4. Questa nozione che leghiamo findall’inizio del lavoro all’improvvisazione ha esplicitamente la funzione di connotare la stessa comeuna fase di movimento spontanea, che si dispiega nel tempo assumendo la caratteristica di un flussodiscontinuo. Cerchiamo ora di analizzare più in profondità il processo temporale. Il tempo “può essere considerato come principio ordinatore dell’esperienza. Esso è una relazionetra le persone e gli eventi che esse percepiscono” 5. Questa affermazione di Thomas Clifton ci rendepartecipi di una suggestione che ora assume un importanza particolare, in quanto ci ricorda che iltempo “può essere molte cose diverse in una volta” 6 , ed è proprio a questa possibilità che bisognaguardare quando ci soffermiamo ad osservare una performance musicale, ancor più se essa èimprovvisata. Dunque necessariamente iniziamo la nostra disamina temporale distinguendo dueprincipali temporalità che ci aiutano ad orientarci all’interno di un atto improvvisativo.

4 Giovanni Piana, Filosofia della musica, Guerini, Milano 1991, pag. 131.5 Thomas Clifton, Music as heard. A study in Applied phenomenology, Yale University Press, New Haven 1983, pag.53.6 Jonathan D. Kramer, in Enciclopedia della musica, Il sapere musicale, vol.II, Giulio Einaudi editore, Torino 2002,pag. 143. Qui l’autore di questo breve saggio, titolato Il tempo musicale, distingue e discute diverse temporalitàriscontrabili nell’esperienza dell’ascolto musicale. La principale distinzione da cui Kramer ricava ulteriori accezioni deltempo musicale è quella fra linearità e non-linearità. La linearità viene così definita: “la determinazione di una o piùcaratteristiche della musica secondo implicazioni che derivano da principi od orientamenti che governano un interopezzo o una sua sezione”. Inoltre esso “è il continuum temporale creato da una successione di eventi in cui gli eventiprecedenti implicano i successivi e questi ultimi sono conseguenza dei primi”. Il tempo musicale non-lineare è invece il“continuum temporale risultante dal complesso dei principi che governano una sezione o un pezzo”.

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Il tempo interno e il tempo esterno sono necessariamente due accezioni temporali con cuiavremo a che fare nel corso della nostra indagine.7 Queste danno luogo a una sorta di dialettica chesi sostanzializza in due forme di movimento contrarie. Il tempo interno muove dal soggetto verso ilmondo/ambiente, è un’istanza, una richiesta di affrancamento dal tempo oggettivo, come adesempio, nella musica, il battito regolare di un metronomo. In questo percorso esso cerca disvilupparsi in quella zona di confine che non è né interna né esterna al soggetto, come flussotemporale. È fortemente personale e soggettivo, aderendo alla volontà espressiva dell’artista (seassumiamo campi specializzati come la musica) attraverso il rinvenimento e la trasformazionecreativa dei materiali che ha a disposizione durante la sua performance improvvisativa. Il tempo esterno per contro muove dall’esterno (mondo/ambiente) verso l’interno (soggetto).Questa operazione richiede un continuo adeguamento, un conformarsi a un modello che è esterno alnostro essere e che bisogna introiettare per averne possesso. In questo senso l’operazione non è maicompletata, siamo sempre su una via in cui possiamo centrare il bersaglio, (per esempio colpireall’unisono il battito del metronomo), ma che non è mai totalmente perfetta, presentandodifferimenti e semmai inavvertibili scarti. Discuteremo ora queste due accezioni considerando ciòche nella musica è maggiormente rappresentativo del carattere temporale della stessa: il ritmo. Restringiamo il campo della nostra indagine approfondendo l’aspetto temporale della musica eoperiamo una riduzione che ci renda solo la sua essenza ritmica. Dunque ci interessa unicamentequella parte che, se visualizzata su uno spartito musicale, chiamiamo sviluppo orizzontale. L’altraparte, lo sviluppo armonico o verticale, dunque ciò che propriamente inerisce allo sviluppodell’armonia in un ambito tonale, o che comunque si occupa di regolare i rapporti tra i suoni nonrientra in questa ricerca. Quest’esclusione arbitraria ci consente di avvicinarci al fenomenotemporale costitutivamente, considerando ciò che ci viene reso a partire dall’ uno8 come una visionesequenziale che legata allo stesso si dinamizza ma solo e sempre in relazione a quel primo battito erespingendo tutte le successive costruzioni che note, accordi ed armonie, pongono al suo interno. Èil tempo musicale nella sua forma pura, l’essenza ritmica. Certo siamo consapevoli della varie enumerosissime accezioni che il termine “ritmo” può assumere, e che, come ricorda Sachs, è unaparola priva di un significato generalmente accettato.9 Precisiamo quindi qual è la particolareaccezione che intendiamo usare, per amor di chiarezza, di seguito. Il termine ritmo etimologicamente ha origine dal verbo greco fluire, scorrere, e vedremo chel’idea di flusso sarà centrale nella nostra disamina, ma più in relazione al tempo in generale che nonal ritmo in senso proprio. Certo è contenuta nel ritmo l’idea di un fluire, ma in senso stretto il ritmopresenta altri lati più significativi. È forse se osservato “in grande”, e dunque in relazione alla suaiterazione in un lasso temporale ampio che l’idea di “flusso” prende corpo. Ma se noi frazioniamo ilritmo nelle parti di cui è composto emergono altri fattori che è interessante osservare da vicino. OttóKároli suggerisce che il ritmo “è qualcosa di fortemente connesso al movimento che si ripresentaregolarmente”, e che imprime al tempo un effetto “pulsante”. 10 In musica, e in un contestoesplicitamente temporale come quello che ora stiamo affrontando, il riferimento all’essenza ritmicaè da noi inquadrato da un angolatura preminentemente “percussiva”, giustificato da quell’idea dipulsazione funzionale alla percezione di movimento. Questo ci conduce alla frazione temporale che,contenente la pulsazione, viene ripetuta e che, per esprimerci in termini musicali è chiamata battuta

7 Come vedremo nel corso di questa ricerca non è possibile analizzare l’improvvisazione senza distinguere in essadiverse temporalità. Queste si possono immaginare come cerchi concentrici in cui a seconda delle diversespecializzazioni vengono via via contenute. Quando, per esempio, analizzeremo Free Jazz di Ornette Coleman vedremoche il divenire contiene il tempo musicale e che questi, a sua volta, contiene il tempo improvvisativo, che ora assume lavalenza di flusso temporale.8 Da considerarsi come primo battito di un possibile ritmo. Bisogna dunque considerare la natura ciclica di un ritmo el’uno, all’interno del ciclo, come inizio e luogo di generazione continua del ritmo stesso.9 Curth Sachs, Rhythm and Tempo, New York 1953, pag. 12.10 Ottó Károli, La grammatica della musica, Giulio Einaudi editore, Torino 1969, pag.38.

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o misura: “l’unità metrica compresa fra due battiti successivi accentati è chiamata battuta”. 11Quelche ci preme osservare, da percussionisti e in riferimento all’improvvisazione, è la ciclicità cheprende corpo quando un ritmo trova la sua dinamica ed il fatto che essa si costituisce in relazioneall’uno, cioè a quel battito che segna la ripetizione della battuta e nel contempo la percezione dellapulsazione. Così l’uno, come inizio e nel contempo fine del ciclo ritmico ha di certo un valoretemporale particolare e significante, ed è a questo che vogliamo riferirci nella nostra disamina,spogliando non solo l’uno e il ritmo da eventuali costruzioni “melodiche o armoniche”, masicuramente anche da tutti i collegamenti più o meno filosofici e metafisici a cui questo terminerimanda. Ora questo riferimento all’ uno in quanto essenza ritmica diviene importante perché, comevedremo, esso è il primo atto che genera il processo improvvisativo ed inoltre, all’interno di unciclo ritmico, il ritorno all’uno ci permette di comprendere il ritmo in essere e la sua durata. Dunquein questa particolare accezione l’uno ha la particolarità di generare il ritmo e di stabilirne all’internodel processo temporale la ciclicità.La musica è originariamente una pratica “temporale”, la sua natura pone il suo essere qui e ora, nelmomento dell’esecuzione, e questo è accentuato nell’enfasi dell’istante che si ha all’interno diun’improvvisazione. L’esperienza che noi possiamo fare del ritmo come pratica ha all’internodell’ambito musicale degli specialisti che troviamo in qualsiasi cultura e tradizione, dunque, anchein riferimento a quanto sopra accogliamo l’invito di Giovanni Piana “se vuoi sapere qualcosaintorno all’essenza del ritmo chiedila alle percussioni” 12 e diamo a loro la parola. Mantenendo soltanto la visione sequenziale, (e con ciò intendiamo quell’idea del fluire dellapulsazione), potremmo dire che nella mente di un percussionista il tempo, nel suo essere ritmo, èuna sorta di visione, un filo d’Arianna che lega tutti i colpi sul tamburo trasformandoli in unacadenza, in un discorso puramente temporale. Differenziamo ora il tempo in due accezioni13 in cui laprima, secondo ciò che abbiamo detto, definiremo come tempo esterno e che si ricollega alle inizialiconsiderazioni di un carattere puramente oggettivo del suo scorrere. La seconda invece, di formaantitetica alla precedente, si sviluppa intrinsecamente dall’ uno sequenza per dare avvio al ritmo eintroduce al processo improvvisativo, dove il tempo, riplasmato, assumerà definitivamente ilcarattere di flusso temporale. Lo chiameremo tempo interno.

11 Ivi.12 Cfr. in Giovanni Piana, Filosofia della musica, Guerini, Milano 1991, pag. 158. Inutile ricordare come le percussioni,ma anche il semplice percuotere un qualsiasi oggetto o il battere il piede quando si ascolta una musica siano alle basedel ritmo. Si potrebbe chiedere all’etnomusicologo come ciò avvenga nelle diverse culture, ma che i tamburi siano ipadroni del ritmo è un fatto universalmente riconosciuto.13 Le due accezioni che seguono sono presentate in modo schematico ed essenziale. Esse hanno unicamente lo scopo didelineare una prima, sostanziale, “divisione” temporale, indispensabile per la comprensione del processo temporalerelativo ad una improvvisazione. Nel corso dell’indagine avremo modo di raggiungere gradi di sottigliezza maggiori,considerando come queste due prime temporalità interagiscano col farsi di un improvvisazione. Per il tempo esterno,nell’analisi che segue, si consideri come quadro di riferimento il metronomo come strumento che incarna il tempooggettivo e come percussionista il musicista “accademico” di tradizione occidentale. Per contro, nel tempo interno, iltamburo e in un qual certo modo i percussionista “etnico” sono lo sfondo dell’argomentazione, essendo maggiormenteaffini al farsi di un improvvisazione.

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§ 3. Il tempo esterno

Il tempo, così come può essere sentire il tempo esterno per un percussionista accademico ènell’atto di essere tenuto14 una sorta di operazione mnemonica, dunque un essere che è ricordare eche, colpo dopo colpo definisce il percussionista come “colui che ha buona memoria degli attimi ditempo considerati come quantità matematiche fluide”.15 Per chi ha esperienze in ambito MIDI16 o diregistrazione digitale anche il termine quantità trova immediatamente una sua giustificazione.Infatti, nel momento in cui, suonando una qualsiasi melodia all’interno di un programma, o megliodi un sequencer17, decido di portare ogni nota esattamente a tempo, e quindi di correggere gli erroricommessi durante l’esecuzione, è possibile usare l’opzione del sequencer che quantizza ognisingola nota, ogni tempo suonato. La quantizzazione suddivide matematicamente il tempo, operasulle note, sui valori che noi preliminarmente impostiamo (durate di un quarto, ottavo, sedicesimo,terzinati ecc…), riportando i valori suonati “fuori tempo” (cioè quei colpi che anticipano o ritardanorispetto al clic metronometrico) esattamente dove dovrebbero essere. Questa operazione fatta attraverso il computer, cioè questo correggere e riportare un’esecuzionemusicale alla scansione meccanica di un tempo è oggi molto diffusa nelle produzioni di musicacommerciale: il tempo subisce una compressione e una massificazione, perde di valenza qualitativastandardizzandosi alle necessità di mercato. Per stare a tempo dobbiamo ricordarci il luogo deltempo, dobbiamo sapere dove esso è. D’altronde lo stesso metronomo non fa altro che ricordarciche il tempo è lì. Rileviamo da questa semplice considerazione come la consapevolezza e la tecnicadi un “sapere musicale” in un’accezione di tempo sentito sia legata alla precisione del ricordotemporalmente orientata. Il sapere del percussionista diventa ora una quantità razionale mnemonicatemporalmente orientata. Egli coglie dal magazzino della memoria gli elementi che serviranno peragire nel tempo. Allo stesso modo l’esperienza empirica lo lega allo strumento. L’iterazionecostante di pratiche musicali educa il corpo ad agire sullo strumento e nella musica. La fusione diquesti due elementi, quantità razionale mnemonica e pratica strumentale contribuiscono dunque aformare in buona parte la tecnica di un percussionista accademico.

La forma e il modello sono i “modi” dell’accademia e in ambito di musica colta occidentalepossiamo dire che hanno un orientamento temporale, in via evolutiva, che così assume rilievostorico. Il percussionista accademico cresce attraverso esercizio, memoria e modello. Più avantipotrà permettersi l’obbiettivo critico e l’interpretazione. L’essere temporalmente orientato di unsapere che è quantità della memoria e che trova nella forma e nel modello il suo carattere storico è,nella nostra indagine, riassunto nel concetto di tempo esterno. Estrapolare l’essenza di un temposentito esternamente rinvia al suo modello ed alla logica struttura formale che ne fa da sfondo. È inquesto contesto strutturale che il tempo si presenta come successione di attimi che ci sfuggono.L’angolatura proposta esalta lo sforzo del percussionista nel cogliere un tempo che è ugualmentemodello e causa di se stesso e presenta negli strumenti a lui concessi, quantità della memoria epratica strumentale, l’insufficienza e il limite del sentire. Il percussionista dovrà sempre adeguarsi almodello di un tempo dato a priori. Ci sarà sempre uno scarto tra la sua rappresentazione e il

14 Tenere il tempo in ambito musicale è un’analogia che già di per se stessa evidenzia il suo carattere oggettivante.L’atto del tenere è in realtà la capacità di centrare il clic del metronomo all’unisono con il colpo sul tamburo delpercussionista, è un tempo oggetto diviso e ordinato che funge da modello e regola per l’esecuzione. Così, se si parla diun tempo che non si riesce a tenere, si dice che esso ci scappa, propriamente che abbiamo perso il tempo proprio comese avessimo perso un oggetto che poc’anzi era lì, davanti a noi.15 Questa definizione relaziona il modo di ricordare del percussionista con la scansione metronometrica. Egli devericordare la divisione matematica delle singole unità (crome, ottavi, sedicesimi ecc…) e collocarla all’interno di untempo dato che funge da unità di riferimento per l’esecuzione.16 MIDI è l’acronimo di Musical Instruments Digital Interface, lo standart di comunicazione grazie al quale glistrumenti musicali elettronici comunicano fra di loro.17 Software MIDI per la registrazione digitale.

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modello. Il talento è colui che definisce il minimo scarto possibile all’interno di una strutturaformale tra modello e rappresentazione. Definiremo ora come limite esterno l’insieme delle componenti (forma, modello, quantità dellamemoria e pratica strumentale) che formano il processo di sentire il tempo esternamente. Il limiteesterno di un tempo che è sentito ci conduce al concetto di tempo come nullità. Nel sentire il tempolo percepiamo come nullità. Nel continuo processo di adeguamento ad un tempo modello che non èmai in noi, ma che si pone come limite esterno del nostro essere nel mondo rileviamo la sua istanzadi annullamento, di auto-soppressione. La necessità di cogliere dalla quantità della memoria imateriali che servono al buon percussionista per rappresentare un tempo dato, l’adeguamento tra ilcogliere nella memoria uno strumento da riattualizzare, per rappresentare mediante disciplinastrumentale il tempo modello all’interno della conseguente struttura formale, crea lo scarto. Loscarto è il risultato dell’inadeguatezza al limite esterno. L’evidenza di ciò è la continua lotta che sipone tra il nostro colpo e l’esigenza di colpire il tempo modello nell’istante del suo esserci. 18

Abbiamo così definito un processo che attraverso il limite esterno, come insieme delle suecomponenti produce lo scarto. Lo scarto significa slittamento temporale, dipendenza,inadeguatezza: sentendo il tempo esterno sentiamo la nullità.Possiamo chiamare questo primo concetto TEMPO A.19 Questo ci aiuterà negli esempi che verrannoproposti nel prossimo paragrafo. Ora possiamo analizzare la seconda accezione proposta, il tempointerno.

§ 4. Il tempo interno

Nei confini già tracciati, che sappiamo essere quelli della considerazione del ritmo in unaaccezione tipicamente “percussiva”, proseguiamo la nostra indagine procedendo da un angolatura“improvvisazionista”. Riprendiamo l’argomentazione soffermandoci sullo strumento che forse piùrappresentativo del ritmo ne segna le origini come strumento musicale: il tamburo. Il gesto dellamano sul tamburo è da sempre rimasto invariato. Il tamburo stesso, nonostante il processo divirtualizzazione che lo ha modificato nel corso del tempo, rendendolo spesso oggi, nella suaattualità, nulla più di un impulso elettronico,20 conserva fortemente il suo carattere archetipico,

18 Queste considerazioni sull’inadeguatezza umana a modellarsi su un tempo che presenta unicamente la sua facciataesterna, e che conseguentemente ci rende partecipi di un senso di rotolamento, di sopressione, di attimi cheincessantemente si susseguono è stato più volte interesse di filosofi. Schopenhauer, che sappiamo essersi interessatospesso di musica, si riferisce al tempo rilevandone l’instabilità, per cui passato e futuro sono un nulla, la vita siautodivora: “nel tempo nessun istante esiste se non a condizione di annientare il precedente che lo ha generato, peressere a sua volta annientato con la stessa rapidità…” Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione,Mursia, Milano 1991, pag. 43.19 Dobbiamo ora, per ragioni di chiarezza, segnalare che in questa fase intendiamo discutere unicamente lacontrapposizione dei due concetti temporali già evidenziati all’inizio di questa indagine, il che necessariamente ciconduce ad un certo schematismo nell’esposizione. Ci riserviamo di fare le considerazioni necessarie, ricavati glielementi costitutivi, con esempi “musicali”, strada facendo.20 Si consideri come l’elettronica e il MIDI hanno virtualizzato questi strumenti. Su una mother keyboard a 88 tastipossiamo avere mediante il collegamento ad un expander (ad esempio un pro-cussion della E-MU system inc., moduloche contiene ben 180 campionamenti percussivi) l’intero set di Ionosation, brano per 13 percussionisti di Edgar Varèse.Nondimeno, con l’ausilio di un campionatore, è possibile campionare il suono di una qualsiasi percussione, disporlasull’ottava e “venderlo” in internet. Questo gigantesco mercato ci pone di fronte alla realtà virtuale del suono. Oggivendiamo suoni e timbri e non solo più gli strumenti, che l’elettronica ha smaterializzato. Con il MIDI gli strumenti nonsono più necessari per suonare: è la qualità del campione sonoro che fa la differenza. Queste considerazioniporterebbero a interessanti problematiche, ma a noi interessa evidenziare come il tamburo e la percussione etnica,nonostante l’evoluzione tecnologica, siano ancora fortemente presenti nella nostra cultura. Oggi suoniamo lo stessotamburo di duemila anni fa con la stessa intenzione ed ugual carica espressiva. La percussione ha conservato la sualibertà anche dallo sviluppo tecnologico, anzi, questo confronto ne rafforza il senso archetipo. È la necessità dipercuotere, di battere sul tamburo che spinge alla percussione. Pochi strumenti hanno conservato intatta la propriaessenza originaria come il tamburo.

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originario. Sentiamo in questo nostro mondo virtuale i tamburi suonare nelle città. Pochi strumentihanno conservato come la percussione il legame con l’intenzione originaria: il battere, il percuoterequalcosa e il fare di questa azione un ritmo. Da questa angolatura rileviamo la libertà dellepercussioni. Per un percussionista tutto è strumento, la ricerca timbrica non ha fine. Questo esprimela necessità interiore della percussione, il suo essere musica e contemporaneamente l’essernesvincolata: il ritmo è qualcosa di diverso dalla musica, la precede, esso è già nella vita e nella naturae questo è sicuramente un motivo che ha dato adito alle diverse accezioni che questo terminepresenta, ma noi cerchiamo di seguire la traccia percussiva impostata. Nella società tradizionale nero-africana, il tamburo non è, a ben vedere, considerato come unostrumento musicale (così come la musica non è necessariamente cosiderata nel senso occidentale deltermine), ma come mezzo di comunicazione per veicolare il linguaggio. Secondo Patrick Kersalé,etnomusicologo francese che ha dedicato molto tempo allo studio dei “tamburi” nell’africaoccidentale, originariamente vi sono due tipologie principali di utilizzo del tamburo:- come mezzo che permette la sola trasmissione di un messaggio;- come strumento che permette l’accompagnamento di una cerimonia rituale.Il tamburo quindi diventa “parlante” ed è, secondo le parole di Titinga Frédéric Pacéré, 21 un“linguaggio di linguaggi”. Infatti esso non mira a riprodurre direttamente il linguaggio parlato, mauna concatenazione di esso. Sul piano pratico l’articolazione del linguaggio del tamburo tieneprincipalmente conto della tonalità e della lunghezza delle sillabe, ma anche dell’intensità enfatica edello statuto fonetico delle vocali (apertura, posizione) rappresentati sullo strumento dall’altezza deisuoni, la durata, la dinamica e il timbro. Il linguaggio del tamburo è basato, per una gran parte, sullariproduzione delle tonalità della lingua. Infatti, la maggioranza delle lingue dell’Africa nera, sonodelle lingue tonali. In esse una stessa parola assume diversi significati in funzione dell’altezzatonale alla quale viene pronunciata. Per illustrare questo concetto di seguito vediamo alcuni esempiproposti sempre da Patrick Kerselé. Il pentagramma musicale, ricordiamolo, ha un valoreillustrativo; il tono medio del discorso è simbolizzato dalla nota SI.Fig. 1

Il contesto “etnico” ci ricorda come l’essenza di un ritmo creato sui tamburi sia immanente espesso improvvisata. Questo breve richiamo al tamburo parlante, in un certo qual modo, suggeriscecome già dall’unione dei due termini tamburo-parlante, si evince che la funzione generativa deldiscorso parlato sta alla radice di molte forme africane di espressione ritmica. Nondimeno ilpercussionista “etnico” ha libertà d’esecuzione e fa ricorso a lunghe parti improvvisative suonando 21 Autore dell’interessante testo Le Langage des Tam-tams et des Masques en Afrique, Ed. L’Harmattan, Paris, 1992.

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il tamburo durante le cerimonie e le feste tradizionali. Così come il discorso verbale è di normalibero, e si fa metrico solo a condizioni stabilite, analogamente il discorso del tamburo parlante èmetricamente libero. Il grado di compenetrazione fra discorso verbale e ritmi strumentali èabbastanza significativo da consentire la messa a punto di modelli che permettano di studiarecongiuntamente i ritmi del parlato e quelli delle percussioni. Il più valido di questi modelli, “ è unatripartizione che suddivide le modalità percussive in modalità parlante (speech mode), segnaletica(signal mode) e coreutica (dance mode).22 È importante annotare come la libertà metrica sia, inparticolari condizioni (signal mode), un richiamo forte all’improvviso: un evento inaspettato accadee il tamburo veicola immediatamente il messaggio d’avvertimento. Queste componenti su cui siforma il ritmo del tamburo parlante, qui appena abbozzate, (questo non è certo una ricercaetnomusicologica) rendono conto di come l’atto improvvisativo sia necessario all’interno di uncontesto in cui il ritmo è legato alla spontaneità del percussionista. Per contro il percussionistacresciuto nelle strutture accademiche, pur conoscendo profondamente la musica della culturaoccidentale, anzi, proprio per questo, essendo legato ad una forma e a un modello, spesso accusa lasua inadeguatezza di fronte all’improvvisazione. È come se un ritmo troppo ben confezionatomancasse della sua necessità interiore, della sua spinta per evolvere. Ristagna, si perde di fronte allapagina scritta. Qui, spesso, a differenza di luoghi in cui, come abbiamo visto, il ritmo è “linguaggiodi linguaggi” la percussione è solo ancella, serva della musica. Potremmo esprimere questa antitesi(che si propone spesso come vecchia antitesi fra musica colta e musica etnica o a carattereimprovvisativo) nel jazz, in quello che viene definito swing.23 A noi questo serve per rilevare, conun semplice esempio, come il percussionista possa in realtà essere proposto anche come un non-musicista.24 Il suo essere non-musicista ribadisce la diversità che si pone tra ritmo e musica, omeglio, fra il libero spontaneismo di un ritmo creato percuotendo un tamburo e la tecnica necessariaper padroneggiare una partitura e gli strumenti a cui essa è riferita. L’essere non-musicista delpercussionista è l’essere originariamente senza forma e senza modello. È l’essere nell’immanenzadella naturalità di un ritmo, né prima né dopo. Quest’atto ribadisce il legame con l’improvvisazione,con la libertà e con quel particolare vitalismo che troviamo nella percussione. Questa libertà esempre stata il motivo che ha portato a una svalutazione nella nostra cultura della praticapercussiva.25Il suo legame con il mondo sensibile, corporeo, l’ha spesso relegata nella cavernaplatonica. Per una piena rivalutazione del ruolo delle percussioni nella musica colta di tradizioneoccidentale dobbiamo aspettare fino al Novecento, con la crisi della tonalità e l’opera dicompositori come Edgard Varèse, che interrogato sul tema della percussione così si esprime,rilevando infine come un’orchestra di jazz sia portatrice di un vitalismo sconosciuto alla ‘dolciastra’orchestra sinfonica:

“ Georges Charbonnier: Edgard Varèse, perché le percussioni hanno un ruolo tantoimportante nella musica contemporanea?Edgard Varèse: Probabilmente è l’epoca che lo esige. Comunque io sò di essere davvero ilprimo ad aver scritto delle composizioni dedicate alle sole percussioni. Che cosa ci si può

22 J.H.K. Nketia, Drumming in the Akan Communities of Ghana. A Survey of Traditional Forms, Longmans Green,London 1963, pp. 17-31.23 Lo swing è nel jazz un particolar modo di portare il tempo, un’intenzione che si trasmette nella musica. Dunque non èuna forma a cui ci si deve riferire, ma, nella sua accezione più significativa è uno stato dell’essere, qualcosa che si ha eche non si può imparare. Certo è risaputo che all’origine dello swing e dei ritmi del jazz ci sono proprio quei “tamburi”africani a cui abbiamo accennato (non per niente il classico swing pone l’enfansi sul tempo debole ed è terzinato).24 È ovvio che qui, in questa particolare specificazione, il termine musica (e quello di musicista) è connotato nella piùampia accezione propria della tradizione occidentale, comprendendo quindi tutte le forme ed i modelli che in esso sisono sviluppati ed evoluti.25 Ecco come l’essere non-musicista del percussionista trova anche nell’opinione comune un riscontro. Spesso suonareil tamburo è visto come un’atto semplice, per l’appunto spontaneo che non è ancora propriamente musica, mancando dimelodia e note.

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aspettare? Come si possono sfruttare? Le percussioni, per loro essenza sonora, hanno unavitalità che manca agli altri strumenti. Prima di tutto, hanno una…G.C.: … estensione?E.V.: …un’estensione che gli altri strumenti non hanno. Le percussioni hanno un aspettovivente; un aspetto sonoro che è più vivo degli altri. Più immediato. L’attacco del suono siavverte più nettamente, più rapidamente. E poi le opere ritmiche, per percussioni, sono libereda quegli elementi aneddotici che così facilmente si trovano nella nostra musica. Appenadomina la melodia, la musica diventa soporifera: si è costretti a seguire una melodia, appenaessa si manifesta, e, con la melodia, è l’aneddoto che si insinua. Ora la melodia appareinsidiosamente, e subito. Basterà opporre il rumore dei timpani e quello degli strumenti asuono indeterminato. L’ascoltatore percepisce un intervallo e coglie immediatamente unembrione di melodia.G.C.: Lei pensa quindi che le percussioni abbiano come principio e come vantaggio il fatto dieliminare dalla musica l’aneddoto.E.V.: Esattamente. Le percussioni non sanno raccontare una storia.G.C.: c’è una differenza rispetto all’impatto che la percussione-melodia ha sull’ascoltatore?E.V.: Ciò che caratterizza le percussioni è la transitorietà. La periodicità del suono normale faaddormentare l’ascoltatore. Io non faccio distinzione tra suono o rumore. Quando si dice‘rumore’ (in opposizione al suono musicale) si opera un rifiuto di ordine psicologico: il rifiutodi tutto ciò che distoglie dal ron ron, dalla gradevolezza, dal ‘farsi cullare’. È un rifiuto cheesprime una preferenza. L’ascoltatore che opera questo rifiuto dimostra di preferire ciò che losminuisce a ciò che lo stimola. Una prova: nel jazz. Mettete quindici, venti musicisti jazz nellaCarnegie Hall o in un altro posto qualsiasi, poi sostituiteli con un’orchestra sinfonica.L’orchestra sinfonica è un elefante idropico. L’orchestra jazz, una tigre. La prima ha perdutovitalità. È dolciastra. Come non lo è la nostra epoca.” 26

Ora noi, ponendo la figura del non-musicista, ovvero di un suonatore di un ritmo che èqualcos’altro rispetto alla musica, come ritmo che vive anche senza la musica stessa, nedistinguiamo la sua essenza e ribadiamo l’idea che il tempo, nel suo essere ritmo, è una sorta di visione, non è solo l’attimo che inevitabilmente scorre, ma il ricordo di unbattito che è passato e il sentimento di uno che presto arriverà. Il passaggio dal semplice colpo,casuale e rotto, cadente e rotolante su un tamburo viene ad elevarsi mediante questa particolarevisione, che ci suggerisce come nell’improvvisazione sia il tempo interno del soggetto a imprimereuna particolare valenza al tempo improvvisativo. Dunque non è conformandosi al modello esterno,ma piuttosto nel libero gioco che si ha fra il colpo della mano sul tamburo e il nostro tempo interno,la nostra emozionalità che si ricorda del battito appena dato e che allo stesso modo anticipa quelloche daremo che si crea la possibilità di vedere, creare o trovare un ritmo. In questo senso la nascitadi un ritmo ci aiuta a comprendere il farsi di un’improvvisazione, e il flusso temporale che in essa èsempre contenuto. Cercheremo ora di specificare le componenti che formano il processo temporaleall’interno di un atto improvvisativo. Pur consapevoli che lo schematismo a cui ricorriamo per lanostra analisi è dissonate rispetto alla libertà di un “improvviso”, sentiamo l’esigenza di fissare dellecostanti che diano luogo a dei centri argomentativi.

26 Edgard Varèse, nato a Parigi nel 1883 e morto a New York nel 1965 si era trasferito a New York nel 1915. Ilcompositore occupa uno spazio forse unico nella musica moderna per la sua ricerca di nuovi materiali e dilegittimazione musicale del rumore. L’intervista a cui ci riferiamo è in Georges Charbonnier, Entretiens avec EdgardVarèse, Belfond, Paris 1970, pp. 43-44. È rinvenibile anche in una raccolta di scritti del compositore apparsa nellacollana “Musique/Passé/Prèsent” diretta da Pierre Boulez e da Jean-Jaques Nattiez, professore di musicologia allaFacoltà di Musica dell’Università di Montreal, di cui vi è una traduzione italiana: Edgard Varèse, Il suono organizzato– scritti sulla musica, Unicopli, Milano 1985, pp. 105-107.

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All’inizio dell’improvvisazione vi è l’ uno. L’uno è il primo atto dell’improvvisazione, è il saltoall’interno del processo temporale peculiare di una performance improvvisativa. Ricordiamo chetrattiamo sempre dell’improvvisazione in ambito temporale. Qui vi è un intenzionalità dell’artistaperformante che, sospinta da una necessità espressiva interiore, è un’intenzione di libertà ed hanell’uno il suo primo atto creativo. Possiamo dire che l’uno è un confine temporale, una costanteche trasla dal divenire al tempo interno dell’artista performante e genera il processo improvvisativo.Definiamo ora il luogo in cui esso avviene come campo improvvisativo. Un campo improvvisativo èsimile ad un’area indeterminata, senza un confine preciso, uno spazio che sarà occupato daimateriali scelti dall’improvvisatore prima che il processo temporale abbia inizio e che in questaaccezione rivestirà, come vedremo più avanti, un ruolo strutturale nella disamina di unimprovvisazione. È una zona che non è interna ma neanche esterna all’improvvisatore, un concettospaziale che trova la sua linea di demarcazione nello scontro tra la necessità espressiva interioredell’artista performante che agisce attraverso l’intenzione come istanza di libertà, contro il limiteesterno. Il limite esterno, abbiamo detto, è il mondo che agisce come forma e modello, è il tempoesterno che si pone contro l’intenzione di libertà dell’atto creativo, sono i “modi” e le “strutture”, leregole. La lotta tra queste due forze segna il confine continuamente ridefinito di un campoimprovvisativo. All’interno del campo improvvisativo (che è sfondo della nostra possibilitàd’espressione conscia ed inconscia,) 27 l’uno è l’inizio del movimento, della processualità.L’improvvisazione è sempre una prassi: porre l’uno nel campo diventa formulare l’istanza di libertàdell’intenzione. L’istanza di libertà dell’intenzione ha il compito di giocare il limite del campoimprovvisativo e quindi di dilatare la possibilità espressiva dell’artista performante nella lotta che sicrea tra il tempo esterno (limite esterno) e la necessità espressiva interiore (tempo interno). Ilcarattere indeterminato del campo improvvisativo ci informa degli infiniti colpi che possiamosviluppare nell’atto creativo che dà origine a un ritmo, essendo una zona in cui qualsiasi direzione èpossibile. Ponendo l’uno nel campo creiamo, a livello percettivo, una sorta di regola di relazione, ognibattito sarà, in un certo qual modo, riferito ad esso. L’uno determina l’avvio del processo temporale.La serie/sequenza si svilupperà intorno ad esso. La regola di relazione lega gli infiniti battiti chepossiamo sviluppare a partire dall’uno elevandoli a ritmo. Così il ritmo, in questa accezione, è unasorta di “visione acustica”, mentale, interna. Vedere nel campo significa creare un segno nel tempomediante una serie di colpi, un tempo che diviene riconoscibile, che acquista una cadenza e unpunto di ritorno, formando un ciclo. Possiamo dire che improvvisare un ritmo è una capacità chesviluppandosi dall’intenzione di libertà coglie nell’infinità del campo improvvisativo i colpi giusti ecrea un movimento ciclico, ondulatorio. La serie-sequenza che si crea la definiamo,metaforicamente, flusso temporale. L’istanza di libertà contenuta nel flusso temporale, giocandocontro la linea di demarcazione posta dal limite esterno, crea una tensione costante, (che è proprioquel tendere, per esempio, che avvertiamo ascoltando dello swing). Il movimento a onde, tipico diuna libera improvvisazione musicale, rispecchia e introduce alla naturalità e spontaneità dell’attostesso, che similmente alla respirazione si contrae e si dilata. Così diventa chiaro come, in ultimo, iltempo che possiamo trovare all’interno di una performance improvvisativa richiami l’idea del fluire,dall’interno verso l’esterno, piuttosto che la rigida e matematica scansione metronometrica. Nelflusso non vi è una rottura che determina la divisione temporale e la sua successiva organizzazionestrutturale, in cui il tempo musicale, come abbiamo visto all’inizio della nostra indagine, acquisisceuna struttura piramidale, matematizzata (che infatti contiamo prima di suonare). Nella genesi di unritmo liberamente improvvisato, è semmai il tempo interno dell’improvvisatore a prevalere, in uncontinuo gioco di rimodellamento con ciò che gli è comunque esterno, e dunque tutto sembra

27 Come vedremo più avanti l’improvvisatore opera un movimento dall’interno verso l’esterno. Negli esempi chesaranno proposti più avanti sia Jackson Pollock che Ornette Coleman spesso affermeranno la necessità di esprimere ciòche si è, anche con espliciti riferimenti all’inconscio.

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costituirsi in un’area che, come risulterà nell’ipotesi prodotta nel corso di questa indagine, non è undentro e neanche un fuori, bensì una zona intermedia, che abbiamo chiamato campo improvvisativo. Questo secondo processo sarà chiamato TEMPO B, e con ciò rimarchiamo l’idea che il tempoall’interno di un processo improvvisativo assume una valenza particolare, fortemente soggettiva,che è l’autentico sostrato che permette l’atto di creazione sull’estro del momento. Possiamo oradefinire il tempo improvvisativo come: flusso temporale generato dal tempo interno del soggetto,proprio di un processo di creazione istantanea e rinvenibile nell’area specificata come campoimprovvisativo.

Fig. 2 SINTESI DEL PROCESSO IMPROVVISATIVO

L’uno è il primo atto che inaugura il processo improvvisativo. A partire da esso la particolare temporalità che avràluogo all’interno del campo improvvisativo, che è lo spazio preliminarmente ricavato dall’improvvisatore e che hala funzione di contenere la sua performance, si sviluppa con un movimento ondulatorio, dall’interno versol’esterno, costituendosi come flusso temporale. Il limite esterno (tempo esterno, forma e modello) preme control’intenzione di libertà, la necessità espressiva dell’improvvisatore, creando un contrasto che in ultimo definisce ilconfine del campo improvvisativo stesso. Annotiamo schematicamente le due temporalità proposte:

TEMPO A = TEMPO ESTERNO TEMPO B = TEMPO INTERNO

Sentire il tempo esternamente = scansione di un tempooggettivo.

Limite esterno = insieme delle componenti che formano ilprocesso di sentire il tempo esterno (forma, modello, quantitàdella memoria e pratica strumentale).

Scarto = inadeguatezza al limite esterno, scivolamentotemporale.

Uno = è l’atto che avvia il processo improvvisativo

Intenzione = è l’intenzione di libertà della necessitàespressiva interiore, è un tendere, una spinta.

Campo improvvisativo = è il luogo ove avvienel’improvvisazione, lo spazio ad essa dedicato.

Flusso temporale = è l’accezione temporale propria deiprocessi improvvisativi

§ 5. Esempi empirici

Limite esternoLimite esterno

Uno

Limite esternoLimite esterno

Campo improvvisativo

Flusso temporale

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Consideriamo ora i tempi A e B nella loro accezione pratica. Analizziamo con semplici esempi econ l’aiuto di alcuni esercizi di tecnica del tamburo, le fondamentali differenze tra i due modi di“ portare” il tempo nella pratica strumentale.

TEMPO A L’analisi empirica del tempo A ci conduce direttamente all’idea di un tempo che è, comeabbiamo in precedenza definito, solo sentito. Abbiamo affermato che il percussionista sente loscarto come il risultato della sua inadeguatezza nella lotta che si crea tra il suo battere e l’esigenzadi colpire il tempo modello nell’istante del suo esserci. Il percussionista suona colpo dopo colpo iltempo A. Lo suona attraverso la pratica strumentale nella concezione quantica della memoria,cercando di centrarlo ad ogni colpo ma con la sensazione latente che il tempo gli scappi. Suonareper lui diventa essenzialmente catturare il tempo nella sua rete di colpi. Quest’operazione fissa in séun’inconsapevolezza del ritmo, nella migliore delle ipotesi è un suonare bene il tempo, produrre ilminimo scarto tra il colpo dato e il tempo modello. È principalmente un’operazione mnemonica.Nel nostro esempio pratico cercheremo di riassumere semplicemente, con l’aiuto delle percussioni,il processo di sentire il tempo. Esaminiamo un classico esercizio per imparare la tecnica deltamburo, i Paradiddless:28

Fig.3

Ora, per eseguire i Paradiddles abbiamo bisogno dei nostri materiali: un rullante, un paio dibacchette per tamburo ed un metronomo. Definiamo la relazione con gli elementi del limite esterno:

Forma=Modello=Quantità della memoria=Pratica strumentale=

ParadiddlesBattere del metronomoColpo dato (dalla bacchetta sul tamburo)Iterazione della forma

28 I paradiddles sono esercizi di base della tecnica del tamburo. La continua ripetizione dell’esercizio serve ad acquisirela padronanza delle bacchette sul tamburo. All’inizio come estensione delle mani per il controllo e l’impostazione delledita e dei polsi, successivamente, in relazione al tempo, quando una certa manualità è acquisita, come studio vero eproprio di una possibile figurazione ritmica. R = destra L= sinistra (diteggiatura per l’alternanza delle mani).

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Ipotizziamo di essere dei principianti percussionisti accademici, impostiamo il metronomo asessanta battiti al minuto e iniziamo il nostro esercizio. Si tratta di un tempo in quattro/quartiscandito in sedicesimi: ogni battere del metronomo dovrà contenere quattro colpi. Abbiamo quindiall’interno di una struttura formale (paradiddles), un tempo modello (metronomo) cui i nostri colpidati come quantità mnemonica cercano di adeguarsi mediante iterazione della forma (praticastrumentale). Lo scarto, evidente se siamo percussionisti alle prime armi, è facilmente avvertibile nella lotta tracolpo dato e tempo modello. Sappiamo che al tempo modello devono corrispondere quattro colpisuddivisi temporalmente in ugual modo:

Fig. 4 Battere del tempo modello

Ogni “fetta” di tempo è una quantità di silenzio-attesa. Nondimeno può essere rappresentata comepausa. Per colpire con precisione il tempo modello in base alla rappresentazione fatta dobbiamoeseguire una sorta d’operazione mnemonica. Abbiamo precedentemente affermato che, nel tempo,essere è ricordare e che il buon percussionista è colui che ha buona memoria degli attimi di tempoconsiderati come quantità matematiche fluide. Possiamo ora, sulla base di questo semplice eserciziopratico, fare delle considerazioni che ci aiutano a capire l’accezione temporale proposta. La prima è che fino a quando la pratica strumentale (iterazione della forma) non coordinil’esecuzione, attivato il metronomo che ci ricorda (modello) dov’è il tempo nel quale inseriamo inostri colpi (quantità della memoria), avvertiamo un senso di fuga. Il tempo scappa, scivola via, nonriusciamo a trattenerlo. Nel momento in cui decidiamo di dividerlo, di pensarlo non come un flussocontinuo ma come successione d’attimi divisi ed ordinati come quantità veniamo sovrastati dallasua potenza. Ci sentiamo inadeguati al modello formale e solo tramite un’educazione, una pratica eun costante esercizio possiamo centrare il bersaglio e conformarci alla struttura propostanell’esempio.

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La seconda considerazione, è quella che ci dice che, sino a quando ascoltiamo il metronomo percercare di catturare il tempo modello, i nostri colpi rimangono totalmente inespressivi. Nell’atto disentire ascoltiamo il modello tendendo ad esso. Quest’atto che tende al limite esterno esclude unascolto interiore, sopprime l’intenzione di libertà della necessità interiore. È una lotta tra con-formismo, l’assumere una forma strutturalmente e farla propria, e la necessità espressiva, l’esseredel soggetto. Il clic del metronomo ci ricorda un tempo-oggetto che in questo caso funge dabersaglio, è lì per essere colpito, centrato ogni volta che c’è. Se noi rallentiamo i battiti delmetronomo allontaniamo il bersaglio, lo spazio vuoto aumenta, il rallentamento dilata l’operazionemnemonica del buon percussionista e rende più difficile l’esecuzione. Un tempo lento ha bisogno dimaggiore memoria quantica. Vi è una differenza di carattere esistenziale tra un tempo lento e untempo veloce.29

La terza considerazione, che più facilmente ci ricorda il concetto di successione e il carattere didipendenza del tempo A è che, disattivando il metronomo, un improvviso senso di libertà cipervade. Ci siamo finalmente sbarazzati di quel battito che ricorda la nostra inadeguatezza ad untempo matematico, che limita la nostra espressività, la nostra voglia di battere ineducatamente sultamburo. Risulta da queste semplici considerazioni estrapolate da un esercizio di pratica strumentale comeil concetto di tempo sentito esternamente, così come è stato precedentemente analizzato, sia nellasua processualità come tempo e nullità, sempre accompagnato da un’istanza di scadimento chetende a rompere, a spezzare la vita in attimi che possono solo essere colpiti o mancati. Disattivandoil metronomo rompiamo il modello temporale e facciamo un passo verso l’improvvisazione. Bisognerebbe svincolarsi anche dalla struttura formale, nel nostro esempio i paradiddles, peravvicinarci all’improvvisazione pura, ma di questo ce ne occuperemo più avanti quando risulteràchiaro come il concetto di campo improvvisativo assuma una valenza strutturale all’interno dellagenesi dell’improvvisazione. Ora, per condurre il confronto con la seconda accezione temporaleproposta assumiamo la stessa struttura formale ricordando che essa ci fornisce esclusivamente untermine di paragone empirico.30

29 La durata della nota sta all’impostazione del metronomo come il tempo modello alla quantità della memoria.Aumentando la fetta di tempo da riempire proporzionalmente aumentiamo il senso di disagio. Qui si nota come, mentreper un tempo molto veloce la difficoltà nel tenerlo sia fisiologica e quindi essenzialmente “corporea”, per uno lento è lamente che entra in gioco, la quantità mnemonica. La nostra mente ha uno spazio vuoto più largo da considerare,dobbiamo ricordarci dove batte il clic del metronomo e nel contempo dobbiamo anche aspettarlo.30 L’assunzione dei paradiddles come struttura formale per l’analisi del tempo B potrebbe risultarecontraddittoria.. I paradiddles sono una classica struttura formale riferita ad un modello, e poco hannoa che fare con l’atto improvvisativo. Di qui la contraddizione. Ma è pure ovvio che non possiamo fareun salto nel vuoto. Per capire ad analizzare il processo improvvisativo ci dobbiamo avvicinare ad essogradualmente e con strumenti che ci diano la possibilità di svelarne l’essenza poco a poco. Sorge alloraun problema che ci aiuta a riflettere sulle strutture formali. Potremmo così sintetizzarlo: il processoimprovvisativo è anteriore o posteriore rispetto alla forma in ambienti altamente specializzati comequello musicale? Il buon percussionista ha già in sé la risposta: bisogna prima possedere un robustatecnica per poter accedere a una seria improvvisazione. Questo però vale per lo più all’interno dellanostra cultura occidentale, in cui la dinamica storica ha un peso rilevante nella genesi di un qualsiasiprocesso. La formazione musicale (soprattutto quella istituzionale) è sostanzialmente adeguamento aforma e modello. Dunque per un musicista così formato il termine improvvisazione pura significa unpuro nulla. Senza modello esterno il più delle volte non esiste Musica, con la ‘M’ maiuscola. Essa èconoscenza di forme e strutture, evoluzione di pratiche strumentali. È questo il motivo che ci fa partireda una forma per approdare lentamente al processo di visione. Per nostra impostazione culturale èdifficile operare senza obbiettivo. È ovvio che la prima difficoltà nell’operare senza forma e senzamodello consiste nell’essere senza obiettivo. La realtà dell’improvvisazione è a-sistematica.

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TEMPO B

Nell’analisi empirica del tempo B sulla struttura formale dei paradiddles usiamo semplicementela regola di relazione. Questa lega, a livello percettivo, gli infiniti battiti che possiamo sviluppare apartire dall’ uno elevandoli a ritmo. Poniamo l’uno all’interno del nostro esempio per avere un primoprocesso di visione che, se pur non creando un campo improvvisativo, ci aiuta nella suacomprensione. Dunque non esaminiamo il flusso temporale caratteristico di una improvvisazione,che vedremo con maggior attenzione quando prenderemo in considerazione delle improvvisazionireali di artisti, come ad esempio Free Jazz di Ornette Coleman, ma cerchiamo di mostrare comel’inserimento dell’uno, anche all’interno di una struttura formale, ne caratterizzi fortementel’espressività e la renda più familiare, elevandola a ritmo ciclico. È un semplice esercizio praticoche se eseguito ci aiuta a comprendere l’oggettività di un tempo esterno, nel primo caso, e lapersonalizzazione che ne possiamo ricavare quando iniziamo a giocarci e gli aggiungiamo qualcosadi nostro, dall’interno verso l’esterno, come nell’esempio che ora presentiamo. Riprendiamo lanostra struttura formale:

Fig. 5

Accentiamo ogni quarto e evidenziamo ancor più il primo quarto della battuta con un colpo digrancassa. Eseguendo ora lo stesso esercizio di prima ma con questi nuovi accenti e il colpo digrancassa che assume la valenza di uno all’interno della figurazione proposta noteremo come vi siaun’intenzione diversa nel tempo. Anche il semplice battere metronometrico, se accentato, esce dallamonotonia e si propone come un ritmo ciclico elementare. Ora, se eseguiamo l’esercizio proposto,noteremo che è più facile. Abbiamo inserito, con il colpo di grancassa un’invariante che dall’infinitoscorrere dei battiti pone in essere l’ uno, che in questa particolare accezione assume la valenza diessenza ritmica costituendosi come centro del ciclo ritmico. Il tempo ora si fa ritmo, acquista unacadenza, trova una sua elementare giustificazione espressiva. Questo ci aiuta anche nella suapercezione, si avverte una circolarità, un ritorno. Per addentrarci nella comprensione di un ritmopossiamo considerare questo secondo aspetto che l’aver posto l’ uno, la nostra invariante, propone inambito percussivo: potremmo definirlo il tema del ritorno. Allarghiamo la nostra indagine allamusica indiana e rimanendo in ambito temporale vediamo cosa ci dice a riguardo Viram Jasani:31

“L’esecutore può costruire una composizione per conto proprio o suonare un brano tradizionalesecondo il suo particolare stile o, magari, secondo quello per cui va celebre il suo maestro.Questo brano avrà una certa lunghezza temporale, il che consente a chi suona la tabla diimprovvisare senza che venga meno il ciclo…a un certo punto tornerà al suo punto di partenza efinirà le sue improvvisazioni proprio in quel punto di enfasi32…e poi sarà lui a tenere il ciclo e io

31 Musicista indiano che esprime le proprie considerazioni sull’improvvisazione nel testo di Derek Bailey,L’improvvisazione - sua natura e pratica in musica , Arcana Editrice, Milano 1982, pag.32.32 Corsivo mio.

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sarò libero di improvvisare e ci alterneremo; ed è lì che si tende a suonare frasi più veloci mentrel’atmosfera ristagna, il che può sembrare una contraddizione…ma così è la musica indiana, pienadi contraddizioni, temo”.

Il Tala, termine che in sanscrito indica il palmo della mano, è il ciclo su cui viene suonata laseconda parte del raga. Il tala è una delle caratteristiche principali della musica indiana, sebbene dalpunto di vista ritmico rivesta maggior importanza il laya:33

“ Una parte importante di tutta la musica indiana idiomatica è costituita dal ricorso allasensazione del ritmo, al senso di movimento in avanti contrapposta alla comprensionematematica del ritmo.34 Nella musica indiana tutto ciò costituisce il laya. Questo termine vienegeneralmente inteso come se indicasse il tempo complessivo di un brano; in verità è molto più diquesto. È l’impeto ritmico, la sua pulsazione. Del musicista che dimostra eccezionale sensoritmico e il cui lavoro rileva grande facilità e disinvoltura ritmica si dice che ‘ha un buonlaya’.L’origine della parola è connessa con la fede indù nel ritmo onnicomprensivodell’Universo, personificato da Shiva, signore della danza. Il vocabolario della musica classicaoccidentale non possiede un equivalente per laya, poiché non è in grado di riconoscerel’esistenza di un tale elemento o tende a ignorarla”.

Il laya riferito all’uno ci può dare un buon esempio del farsi di un improvvisazione all’internodel ciclo ritmico. L’ uno con la regola di relazione si pone come invariante del campoimprovvisativo:

Fig. 6

Si crea un ciclo temporale intorno all’uno, in cui sarò libero di improvvisare qualsiasi variazioneritmica ma sempre all’interno della durata del ciclo. Altro esempio empirico in cui possiamorilevare facilmente un’enfasi dell’ uno è nei tempi dispari di facile esecuzione:35 sono naturalmenteciclici. La mancanza di un colpo che pareggia i conti con il nostro semplice battere e levare crea unacadenza naturale che acquista una dinamica sferica, rotolante, in contrapposizione con lo svilupporettilineo di un tempo pari.

33 Ivi, pag. 3034 Corsivo mio. Si noti come questa dicotomia renda l’idea di ciò che è stato definito come tempo interno e tempoesterno.35 Basti pensare ad un semplice valzer in 3/4, come si evince nell’esempio che segue. Questo è il tempo dispari più usatoall’interno della nostra cultura e non presenta particolari difficoltà. Vi sono poi molti tempi dispari come 7/8 – 9/8 –ecc… che presentano una forma più complessa e richiedono una maggior conoscenza da parte del percussionista.

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Fig. 7

Questa partitura per batteria è un breve estratto di una trascrizione semplificata di un celebrebrano di Max Roach, uno dei più celebrati percussionisti e compositori di jazz. La particolarità diquesto brano, che Max Roach esegue in assolo, è dovuta al fatto che il percussionista si preoccupadi tenere, con estrema indipendenza, un semplice ritmo di “valzer” con la grancassa e il charleston,che crea una base costante per tutta l’esecuzione, mentre con il resto dei tamburi e dei cembaliesegue delle variazioni, spesso improvvisate che, in questo particolare contesto, non sono soloritmiche ma assumo anche un carattere melodico. Questo brano, “ drums also valzer”, è un chiaroesempio di come un ritmo dispari molto lineare come un 3/4, col suo incedere ciclico intornoall’uno, ci dia percettivamente il senso del ritorno, da una parte, e delle sovrapposizioni ritmichedall’altra. È giustamente famoso proprio per elevare la batteria non solo a macchina ritmica maanche a strumento solista, capace di produrre un articolazione di melodie e discorsi. È inoltreinteressante osservare come l’ascolto di questo assolo ci renda bene l’idea di un ritmo che è nella“musica” ma che, in un certo qual modo la precede, come prima accennato riguardo ai “tamburiparlanti”. Infatti, la creazione di un “discorso” nel ritmo e sopra di esso sembra portarci proprio aquel “linguaggio di linguaggi” proprio della percussione.

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Nella poliritmia36 abbiamo un altro esempio di come sia necessaria la regola di relazione all’ uno:

Fig. 8

è dunque facile rilevare, in questi semplici esercizi di poliritmia, la combinazione di un tempobinario con uno in tre. Per “apprendere” percettivamente la concatenazione di questi tempi siprovino ad eseguirli: si noterà, allora, come l’uno in questa accezione si dia come punto diriferimento essenziale per la comprensione della sovrapposizione temporale, in cui i ritmi di diversanatura, qui composti, creano un alternanza dei battiti che può trovare una sua giustificazione sole seè chiaro il punto d’inizio del ciclo ritmico. Nella pratica percussiva e anche nel Jazz viene spesso usato durante l’improvvisazione un modotemporale che viene definito per consuetudine tre nel quattro. Spesso accade duranteun’improvvisazione che il musicista, per stimolare ed arricchire la sua esecuzione, suoni all’internodi una composizione in tempo binario come se fosse in un tempo ternario. Allora si crea un senso disospensione, di parzialerottura del tempo. Fondamentale diventa aver ben presente l’ uno, l’invariante che al termine dellenostre variazioni riporta nell’insieme. È il punto di riferimento, ciò che permette al percussionistadi rientrare dopo aver eseguito le sue variazioni nel tempo originario della composizione e diritrovarsi con gli altri esecutori. Vediamo dunque come, pur non creando un flusso temporale e nonimprovvisando in toto un ritmo, la semplice operazione di porre l’uno all’interno di una strutturaformale semplice e lineare, (e con pochi esempi di improvvisazioni all’interno di un ciclo ritmico) ciaiuti ad appropriarcene e così a intuire quella particolare accezione temporale che è stata definitatempo interno.

§ 6. Il concetto di campo improvvisativo

In chiusa a questo primo capitolo sul tempo, in cui ci siamo preoccupati di definire come esso siponga all’interno di un processo improvvisativo, diventa rilevante il concetto di campoimprovvisativo. Prima l’abbiamo definito come il luogo dell’improvvisazione, lo spazio che essa

36 Un poliritmo è una combinazione di due o più ritmi di diversa natura, ad esempio un tempi in 3/4 insieme ad untempi in 4/4. È in realtà una sovrapposizione “architettonica” che tende ad arricchire il ritmo.

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occupa in rapporto al limite esterno. Dobbiamo ora ampliare questo importante concetto in quantonostro unico elemento strutturale. Il campo improvvisativo, che per comodità chiameremosemplicemente campo, non è costitutivamente legato al tempo, è un concetto spaziale che apre unacornice in cui inseriamo gli elementi ed i materiali per l’improvvisazione. Porre l’uno nel campo èun’atto che ci obbliga a considerare l’improvvisazione sempre come positiva per tutto ciò cheinerisce alla preliminare definizione degli elementi che la compongono come limite esterno e checon un processo volontario delimita la cornice, lo spazio ad essa dedicato. Siamo noi che prima didare avvio a un’improvvisazione scegliamo la cornice in cui essa avviene. È una sorta diregolamentazione, vi è sempre uno stato d’ordine preliminare. Con una analogia spaziale, se noivolessimo improvvisare un disegno e dar libero gioco alle nostre energie creative in totale assenzadi un “qualcosa” da ritrarre dovremmo sempre compiere queste operazioni: scegliere uno spazio sucui disegnare (sia esso una tela, una parete di casa o un piccolo foglio), decidere quali materialiusare (pennelli, matite, colori, carboncini ecc…). Dunque all’inizio scegliamo uno spazio37 da occupare con i nostri materiali, e anche nel casofossimo colti da “improvvisa” voglia di creare useremmo ciò che è lì, a disposizione, come nel casodi un acquazzone improvviso:38 ciò che è alla mano e che ci consente di trasformare la nostranecessità interiore in atto creativo. Ora capiamo che la trasformazione che avviene all’interno delcampo in un processo improvvisativo è sempre e solo mia, ed è questa una forza peculiaredell’improvvisazione. Il mondo agisce già come forma e modello dall’esterno, l’atto del disegnareha inconsapevolmente assunto il campo che gli è proprio e delimitato il suo spazio strutturalmente.La necessità interiore come forza rinnovatrice che vuole far suo il mondo spingerà per allargare iconfini del campo delimitati dal limite esterno. Questo ci permette anche di traslare dalla musica,ora considerata in quanto miglior mezzo per curiosare tra le pieghe del tempo, alla vita, a quellaangolatura, quella particolare visione del mondo che è l’improvvisazione. Abbiamo poc’anzi definito l’improvvisazione come un processo a-sistematico, e così in realtà è;ma il luogo in cui avviene, e questa è un’importante differenza, è l’elemento che ci consente unaggancio con la volontarietà dell’atto. Il campo improvvisativo è sempre scelto dal soggetto,39 che nedelimita i contorni proprio attraverso quel limite esterno contro cui più tardi si troverà a lottare.Dunque essa non è totalmente inconsapevole perché gli elementi costitutivi del limite esterno,forma e modello partecipano all’improvvisazione come strutture che ne delimitano lo spazioiniziale. Questa è la struttura in seno al campo, la cornice che all’avvio di un processo che comeabbiamo visto ha nella necessità interiore il suo motore definisce volontariamente il luogo in cuiessa avviene. Dunque le “gabbie”, le forme e i modelli da cui l’improvvisatore cerca di evaderesono proprio l’elemento che generando attrito permettono per contrapposizione di definirel’improvvisazione stessa. È per questo che possiamo dire che l’improvvisazione ha una struttura.Semplicemente ora possiamo dire che: la struttura dell’improvvisazione è il campo. Il campo èl’elemento spaziale dell’improvvisazione, in questa accezione ci permette di definire gli oggetti checostituiscono l’involucro, la struttura esterna. Questo secondo punto ci rende comprensibile come il

37 Steve Lacy, virtuoso americano di sax soprano, negli anni 50’ e nei primi 60’ del secolo scorso ha vissuto a NewYork, e in quel periodo è stato parte di molti dei processi di cambiamento dell’epoca e che portarono a quello che piùtardi si è definito come “free jazz” inteso come corrente musicale. Queste le sue parole in un’intervista radiofonica: “Da una parte c’erano tutti i musicisti accademici, gli hard boppers e quelli della Prestige e della Blue Note che facevanocose con una leggera tendenza progressista. Ma quando entrò in scena Ornette (Coleman), allora fu la fine delle teorie.Ricordo che in quei giorni disse, cercando con cura le parole: «Quello che abbiamo è una certa quantità di spazio e cisi può mettere dentro tutto quel che si vuole». Quella fu la rivelazione.” Da Derek Bailey, op. cit., pag. 122.38 Vedi esempio a pag. 239 Quando diciamo che il campo improvvisativo è sempre scelto dal soggetto bisogna considerare che vi è unagradazione che parte da una inconsapevolezza del campo in cui il termine improvvisazione non ha alcun senso, a gradisuperiori (esempio dell’acquazzone improvviso) in cui sò di improvvisare ma senza alcuna premeditazione fino adarrivare ad un grado di piena consapevolezza (come avviene nella musica) in cui penso l’improvvisazione prima dieseguirla.

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campo venga definito mediante la costituzione di una struttura esterna mentre esso rimane vuotointernamente. Soltanto quando vi poniamo l’uno, l’atto primo, diamo inizio al processo. Ecco chepossiamo distinguere come il processo improvvisativo sia a-sistematico, immanente nel tempo,occupante uno spazio vuoto che via via si carica di significati in base alla regola di relazioneall’uno; il campo che lo delimita mediante acquisizione degli elementi del limite esterno invece neforma la struttura. È una struttura che interviene dall’esterno, questa è la sua particolarità. È comeun guscio vuoto su cui interviene il mondo che agisce mediante forma e modello mentre dall’internovi è una spinta che tende a dilatarne le pareti.

Fig. 9 CAMPO IMPROVVISATIVO

cornice

zero

uno

Per comprendere meglio il campo improvvisativo, così come abbiamo fatto per il processotemporale, proveremo ora ad analizzare brevemente da un angolatura “improvvisazionista” unaparticolare modalità di pittura che sicuramente ha radici profonde nell’atto di libera creazioneistantanea: l’action painting di Jackson Pollock. Ci siamo orientati sul pittore americano perché èinnegabile, nella sua arte, una processualità e uno spontaneismo difficilmente rinvenibile in altraforme di pittura. Aggiungiamo inoltre che l’action painting muove nello stesso sostrato (l’Americadegli anni cinquanta/sessanta) culturale dell’improvvisazione musicale che esamineremo conattenzione nel proseguo della nostra indagine, come già ricordato: Free Jazz di Ornette Coleman.Inoltre, possiamo ben dire che un sentimento di affinità fosse sicuramente avvertito da Colemanstesso, in quanto sulla copertina di Free Jazz troviamo, per l’appunto, un quadro di Pollock, WhiteLight.

§ 7. L’action-painting e il processo improvvisativo

“Il talento di Pollock è vulcanico. Ha fuoco. È imprevedibile. È indisciplinato. Dilaga inuna prodigalità minerale non ancora cristallizzata. È lavico, esplosivo, caotico. I giovaniartisti, soprattutto in America, sono troppo preoccupati dell’opinione altrui. Ci servono

Luogo interno dell’improvvisazione: è come unguscio vuoto che ha nell’uno l’atto primo e nellanecessità interiore la sua forza dinamica

Limite esterno: qui agisce il mondo come forma e modello, delimita lo spazio e sceglie i materialiper la trasformazione

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giovani che dipingano per un impulso interiore senza dare ascolto al critico o allo spettatore;pittori che rischino di sbagliare una tela per fare qualcosa a modo loro. Pollock è uno diquesti”. 40

Lo stile di vita di Pollock,41 similmente a quello di Coleman, è indissolubilmente legato al fareartistico, all’essere “dentro la tela” così come per Ornette al suonare “emozionalmente”, cercando ilproprio suono. Quando Pollock sostiene di voler “velare l’immagine” è possibile cogliere l’eco della 40 Queste sono parole di James-Johnson Sweeney, durante la presentazione alla personale di Pollock, in “Art Of ThisCentury”, novembre 1943. In Elena Pontiggia , Jackson Pollock – lettere, riflessioni, testimonianze, Edizioni SE,Milano 1991, pag. 58.41 Paul Jackson Pollock nasce il 28 gennaio del 1912 a Cody, nel Wyoming. I genitori sono di origine irlandese eJackson è l’ultimo di cinque fratelli. Nello stesso anno la famiglia si trasferisce a San Diego, in California: è il primo diuna serie di trasferimenti in vari paesi californiani. Jackson incontra molte difficoltà a scuola, e nel 1928 lascia laRiverside High School e si iscrive alla Manual Arts School, dove studierà con Schwankovsky, che gli fa conoscere lateosofia e Krishnamurti. Fonda una rivista studentesca dai contenuti fortemente polemici nei confronti delle autorità edelle tradizioni provocando la sua espulsione dalla scuola. Nel 1929 lavora col padre nel Gran Canyon, in Arizona e inCalifornia in rilevamenti geologici e topografici per costruzioni ferroviarie. Si reiscrive alla Manual Arts School. Hamodo di conoscere il lavoro dei muralisti messicani, rimanendo impressionato da Rivera e Orozco. Nel 1930, tra gravidifficoltà finanziarie (sono gli anni terribili del crollo di Wall Street del 1929) si trasferisce a New York e si iscriveall’Art Student League, nei corsi serali tenuti da Thomas Hart Benton, già frequentati dal fratello. Pollock,approfittando del fatto che in quel periodo Benton sta lavorando con Orozco, ha modo di conoscerlo. Nel 1931/32attraversa un paio di volte gli Stati Uniti “coast to coast” in autostop. Intanto si interessa anche di scultura. Nel 1933muore suo padre. Lascia la Arts Students League nel 1935, mantiene buoni rapporti di amicizia con Benton, che lo aiutaanche economicamente. È chiamato a collaborare nel W.P.A. (Work Project Administration), l’organismo statale ideatoda Roosevelt nell’ambito del New Deal, per promuovere commitenze pubbliche per gli artisti. Siquieros apre uno studiosperimentale a New York e chiama anche Jackson e suo fratello Sanford a lavorare con lui. Jackson incontra la pittriceLee Krasner, sua futura moglie, a una serata organizzata dal sindacato degli artisti. Nel 1937 comincia il trattamentopsichiatrico contro l’alcoolismo; espone in qualche collettiva e conosce il critico John Graham. Viene arrestato perubriachezza. Nel 1939 si sottopone ad un trattamento contro l’alcoolismo al New York Hospital, successivamente entrain analisi con un terapeuta junghiano, Handerson, che utilizzava i suoi disegni a scopo terapeutico. Realizza piatti dirame. Nel 1940 gli vengono commissionati dei disegni e in ottobre è nuovamente riassunto al W.P.A.. Nel dicembre del1942 presenta Fiamma (del 1937) al Metropolitan, nell’ambito della mostra collettiva “artisti per la vittoria”. L’annosuccessivo conosce Peggy Guggenheim, che invita lui e Motherwell a realizzare dei collages per una mostra nellapropria galleria “Art of This Century”. I due artisti lavorano assieme nello studio di Pollock. A novembre del 1943tiene la sua prima personale, presentata da J.J. Sweeney, nella galleria della Guggenheim, che prima gli commissionaun contratto e una grande pittura murale per la sua casa. Si tratta di Murale, (ora all’Università dello Iowa), in cui lefigure embrionali e mitologiche delle opere precedenti si sciolgono in ritmi lineari e quasi astratti. Il critico ClementGreenberg scrive un articolo su di lui su “The Nation”. Nel 1944 su consiglio del critico Alfred Barr, il Museum ofModern Art di New York compra La lupa; è il suo primo quadro in un museo. Nel 1945 espone in una mostra al Clubdi Chicago e inaugura la seconda personale all’ “Art of This Century”. In ottobre si sposa con Lee e si sposta nel LongIsland, in una casa acquistata grazie ad un prestito di Peggy Guggenheim. Nel 1947 il suo modo di dipingere prendeconsistenza, esegue i primi drippings (sgocciolature), opere dipinte lasciando sgocciolare il colore su una tela stesa sulpavimento. Poi una terza personale sempre nella galleria della Guggenheim. Questa sarà l’ultima personale che farà conlei, che si sposterà per un periodo a Venezia. Jackson firmerà un contratto con Betty Parson, che durerà fino al 1952.Sei delle sue opere sono presentate l’anno successivo alla biennale di Venezia (della collezione Guggenheim); Jacksoncontinua a sperimentare il dripping, utilizzando miscugli di colore, sabbia, vetro frantumato e altri materiali eterogenei.Nel 1950 si unisce al gruppo degli “Irascibili”, che comprende quasi tutti i protagonisti della scuola di New York, daDe Kooning a Motherwell, da Newman a Baziotes, Gottlieb, Stamos, Rothko, Hofmann, Reinhart. Alla Biennale diVenezia, nel padiglione Americano, espone Numero 1, Numero 12, Numero 23. Hans Namuth realizza un film sul suolavoro. In questo periodo si sottopone a terapie di gruppo e a cure chemioterapiche contro l’alcoolismo. Tende adabolire i colori concentrandosi sul bianco e nero. Espone all’Art Club di Chicago e da Betty Parson. Nel 1952 primapersonale in Europa, presso la galleria parigina di Paul Facchetti. Ma inizia un periodo sempre più oscuro, dipingemeno, nell’estate del 1954 una frattura alla caviglia aggrava la sua inattività. Si sottopone a cura omeopatica ed èseguito per un periodo dallo psicologo Leonard Siegel. Si aggrava il suo stato depressivo per l’incapacità di dipingere.Nel 1956 sua moglie Lee parte per Parigi per un viaggio progettato da tempo, Pollock intreccia una relazione con unastudentessa d’arte, Ruth Kligman. Tre settimane più tardi, l’undici agosto, mentre accompagna Ruth e un’amica ad unconcerto guidando in stato di ubriachezza, si schianta contro un albero e muore.

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lotta che vedremo darsi nella analisi di Free Jazz e che si riassume nel continuo e mai risoltoscontro tra limite esterno e necessità interiore. Queste due componenti, che abbiamo delineato comecostitutive all’interno dei processi improvvisativi, si individuano nell’essere, la prima, forma emodello (nel caso della pittura ben rappresentate dalla rappresentazione oggettuale) e, la seconda,l’istanza dell’artista a superarla, trasfigurarla ed evolverla in qualcosa che abbiamo visto devescaturire dall’interno. Così sembra essere anche in Pollock. Tutto può risolversi in una concezionedello spazio che tende a modificare i luoghi “consueti”, (ad esempio Pollock supera lo spazio dellatela sul cavalletto per arrivare a dipingere sul pavimento,42 avendo modo di muoversi liberamenteattorno al suo lavoro) per dar luogo ad un nuovo modo di dipingere, che si concretizza nella action-painting. Qui è interessante la similitudine fra ciò che noi abbiamo chiamato processoimprovvisativo e il suo “modo” di dipingere, che si caratterizza per essere azione e movimento,acquistando una particolare valenza temporale altrimenti mancante nelle forme più tradizionali dipittura. Lo stesso termine che abbiamo usato per l’improvvisazione –processo– viene propostoall’interno del sito della National Gallery of Art, Washintong D.C,43 in cui possiamo trovareinteressanti documenti sul pittore. Qui si usa proprio il termine process per illustrare il singolaremodo di dipingere di Pollock, e ricordiamo l’iniziale accenno sul fatto che all’interno di unaimprovvisazione la nozione di processo entri in competizione con quella di struttura. Dunquecerchiamo di capire qual’è lo “spazio” in cui questo processo avrà luogo e, considerando lo spazio,comprendere come si prefiguri il campo improvvisativo. Su questo tema, Roberston accentua il fatto che Pollock stava creando uno spazio nuovo,indivisibile dalle immagini e dai procedimenti tecnici. Per Busignani, che lo definisce in modo piùcomplesso (negazione dello spazio nel non–spazio materico)44 lo spazio a cui perviene Pollock èraggiunto fin dall’inizio e di getto, come condizione germinale della sua sperimentazione pittorica enon come risultante di una progressione stilistica. E, proprio a riguardo del tema dello spazio, questo autore riporta l’interessante opinione diTomassoni, a cui accenniamo:

“Azione è ciò che si fa e, insieme, il risultato: per Pollock significa muoversi, trascorrere,sostare, tornare indietro, dibattersi. È intuitivo come questa prospettiva abbia il suopresupposto nello spazio, giacchè se si può dare spazio senza azione non può darsi mail’ipotesi contraria. Si tratta naturalmente di uno spazio che, anche se tradotto in pittura, non èquello astratto della geometria neoplastica, strutturato e riducibile a teorema; né uno spaziopsicologico che visualizzi una dimensione interiore; e neppure, come si vedrà, un’entitàpercettiva valida per orientare l’esperienza. Esso è senza dubbio legato fortemente allafenomenologia della percezione, ma è, soprattutto, uno spazio esistenziale in quantostrettamente inerente all’azione, al gesto dell’artista e a alla consistenza materiale della suapittura. È qualcosa che si percepisce in natura, un concetto acritico che sorge immediatamentedalla sensazione, da un’intuizione immediata. Per Pollock assume una dimensione necessariae necessitata perché la sua arte si strumenta come estensione fisica. Dispiegando la propriaazione convulsa entro un’effettiva dimensione spaziale che egli affronta sempre frontalmente,

42 Rileviamo dunque come si prefiguri il campo improvvisativo, preparando uno spazio che, superato il limite delcavalletto, garantisca la massima libertà d’azione. Dunque movimento e spazio per muoversi diventano prerequisitiindispensabili per il processo creativo. La funzione strutturale del campo improvvisativo è allora proprio quella chepermette il darsi di questa particolare “azione” e dunque essa non si prefigura, ad esempio, come elemento formale eregolativo di un particolare modo di pittura, ma bensì come spazio e materiali atti a contenere un particolare movimentotemporale.43 All’indirizzo internet http://www.nga.gov/feature/pollock/pollovkhome.htlm possiamo consultare una breve madettagliata documentazione dell’opera di Pollock. La cosa più interessante, però, è che oltre a fornire una succintavisione d’insieme sul pittore è stato inserito in questo sito anche un breve video illustrante il processo pittoricodell’artista (realizzato da Hans Namuth nell’estate del 1950). Qui possiamo ascoltare le parole pronunciate direttamenteda Pollock illustrare il suo lavoro.44 Alberto Busignani, op. cit., pag. 34.

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anela allo spazio allo stesso modo che chi soffoca cerca disperatamente l’aria. Ma dire che lapittura di Pollock ha la sua origine nello spazio non equivale a dire che essa formuli un’ipotesispaziale o arrivi a determinare un concetto di spazio: lo spazio è soltanto un presuppostod’esistenza, una constatazione di ordine fisico che permette all’artista di realizzareun’esperienza mondana”. 45

Vediamo che la connotazione che Tommasoni imprime alla spazialità di Pollock è “esistenziale”,è un qualcosa di immediato e convulso, un presupposto d’esistenza necessario. Dunque sicomprende come la funzione strutturale dello “spazio”, nella pittura di Pollock sia necessariamentelegata all’azione e dunque al tempo, al flusso creativo dall’interno dell’artista verso ilmondo/ambiente originando così una processualità che a sua volta spoglia la nozione di struttura deipossibili formalismi. Questo essere direttamente collegata con l’azione, porta Tommasoni aformulare un’altra acuta osservazione, che ci propone direttamente un’angolatura in cui lo spazio,come condizione esistenziale, diventa la premessa per lo svolgimento del processo temporale:46

“Ma, se l’orizzonte spaziale di Pollock è quello dell’esistenza fisica, dal momento chel’esistenza si realizza nella coscienza del vivere e del continuare a vivere, subito si pone unarelazione strettissima fra questo spazio e il tempo, in quanto coordinate che danno luogo allacondizione concreta dell’esperienza. Il tempo puro, come successione ordinata di istanti senzadurata, la cui apprensione è la somma degli istanti e della loro relazione, non esiste, sembradire Pollock con Whitehaed; il tempo mi è noto come un’astrazione effettuata sul fluire deglieventi empirici, sul divenire di accadimenti che sono in relazione tra loro. Il fluire e il relazionarsi degli eventi può definirsi come un processo che accade e passa instretta connessione con l’estensione: così una durata è entrata nell’altra”. 47

E, subito in relazione al tempo, ecco che risalta l’accezione che è propria del processoimprovvisativo: il fluire, l’idea di un flusso temporale. Questa idea è ugualmente ripresa daRobertson, mentre sottolinea che “spontaneità e immediatezza rappresentano infatti l’alta conquistadi Pollock”, ribadisce che “lo stile vibrante e la proiezione del gesto nel colore sono trasformate nelflusso48 del tempo e dello spazio, e istantaneamente registrate”. 49 Vediamo allora partecipare al farsipittorico di Pollock elementi che sono di casa all’interno dei processi improvvisativi, quali lacreazione spontanea e immediata all’interno di un flusso temporale che ne registra lo svolgimento.La differenza, semmai, è che il colore sulla tela permane, il quadro prende sostanza e simaterializza, rimanendo e occupando lo spazio che gli è proprio. Questo farà sì che Pollock intuisca la continuità del suo lavoro “there is no accident, just there isno beginning and no end”50 a differenza del lavoro di Coleman, che costruendosi esclusivamente sulsuono e nel tempo non lascia traccia se non nelle “copie” che provengono dalla registrazione.Mentre nella pittura l’originale segna il tempo con una costruzione materica, che si sostanzializzaall’interno del processo creativo “istantaneo”, nella musica, vedremo, c’è un inizio ed una fine. Ilsuono originale scorre insieme al tempo, enfatizzando l’improvvisazione musicale come unicostrumento reale in possesso dell’artista. Ugualmente però, la processualità dell’evento si dà in

45 Ivi.46 L’idea che si evince da queste concettualizzazioni è una traccia che non può che riflettere la stessa matrice cheabbiamo visto inerire all’improvvisazione: da una parte un concetto spaziale, il campo improvvisativo, che è condizionenecessaria e premessa per l’esperienza dell’artista; dall’altra il processo improvvisativo, come sviluppo temporale di ciòche era in “potenza” e che finalmente si dispiega in atto e azione.47 Ivi.48 Corsivo mio.49 Bryan Robertson, op. cit., pag. 35.50 Riportiamo dalla descrizione che lo stesso Pollock fa del suo lavoro nel film girato su di lui da Hans Namuth nel1950. Abbiamo già precisato che parte del film è visibile in internet al sito del National Museum of Art, WashingtonD.C. – www.nga.gov/feature/pollock/process3qt.html- .

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ambedue i casi, sia nell’ action-painting che nel processo improvvisativo. Potremmo allora pensareche la musica, e tanto più l’improvvisazione musicale, appartengono alla categoria dell’ineffabile, edire con Vladimir Jankélévitch, che la “musica è un atto in un senso ancor più drastico edrammatico” 51 e che ha tutta la luce di ciò che muore giovane, senza il diritto di invecchiare, maneanche di oscurarsi con passare del tempo. Abbiamo già ricordato che il termine action-painting fu coniato dal critico americano HaroldRosenberg a seguito di una conversazione che ebbe con Pollock, il quale sosteneva la supremaziadell’atto pittorico in sè, come sorgente di magia. Similmente a Free Jazz, dove i musicisti creavanocon i loro strumenti affreschi sonori caratterizzati dall’istantaneità ed emozionalità che solol’improvvisazione poteva garantire, così Pollock crea una “tecnica” che gli permette di dipingere“direttamente”, di essere nella pittura, nella tela:

“Mi piace lavorare su una grande tela. Mi sento più a casa, è più facile su una grande area.Avendo la tela sul pavimento mi sento più vicino, più partecipe alla pittura. In questo sensoposso camminare intorno ad essa, lavorare su tutti e quattro i lati ed essere nel quadro,similmente ai pittori indiani di sabbia (Navaho) dell’ovest. Qualche volta uso un pennello, maspesso preferisco usare un bastone. A volte verso la vernice direttamente sulla tela. Mi piaceusare la (tecnica) della sgocciolatura. Uso anche la sabbia, il vetro tagliato, ciotoli, stringhe,chiodi o altro materiale estraneo. Il metodo è lo sviluppo naturale di un bisogno. Io voglioesprimere ciò che sento piuttosto che illustrarlo. La tecnica è semplicemente un mezzo perarrivarci. Quando dipingo ho una nozione generale riguardo a cosa faccio. Posso controllare ilflusso della pittura. Non c’è casualità, semplicemente non c’è un inizio ed una fine. A volteperdo un dipinto ma non ho timore dei cambiamenti… di distruggere l’immagine. Poiché undipinto ha una sua vita propria, io provo a lasciarla vivere”. 52

Rosenberg ci ricorda che “il nuovo stile fu guardato per un certo periodo con estrema diffidenza,e a volte apertamente rigettato, da non pochi critici americani ed europei”. 53 Veniva consideratol’opposto assoluto delle concezioni umanistiche, avvertito come ultimo soffio del dadaismo, comeatto di negazione totale. In ultimo, la mancanza della figura, di immagini definite lo catalogavanocome “incapace ad assolvere la funzione di comunicare”. 54 Robertson ci ricorda però che questicritici erano legati a vecchi schemi di giudizio, esprimendo il parere che nel corso della storiadell’arte gli artisti autentici hanno puntato verso un’arte di rivelazione piuttosto che dicomunicazione, nell’accezione comune del termine. Qui si sofferma per sottolineare come il passatoed il presente devono necessariamente fondersi all’interno dell’opera d’arte, e che questa sintesi èspesso compiuta involontariamente dall’artista, “fra una tradizione esistente e la sua reazione adessa”. 55 Qui l’artista aggiunge il “sentimento del suo tempo”, 56 la consapevolezza del suo presente,onde “in quell’atto di rivelazione, il passato si combina col presente ad un livello tanto fantastico daessere previsto anche il futuro”. 57

51 Vladimir Jankélévitch, La musica e l’ineffabile , Bompiani, Milano 2001, pag. 68.52 Come già ricordato queste parole sono pronunciate direttamente da Pollock all’interno del film girato da HansNamuth nell’estate del 1950. È interessante ascoltarle direttamente al sito della National Gallery of Art insieme ad unbreve spezzone del filmato di cui sopra (www.nga.gov/feature/pollock/process/3.html). Questi pensieri di Pollock sonocomunque rinvenibili nella maggior parte delle monografie a lui dedicate come una delle più significativetestimonianze del suo modo d’intendere la pittura, come in: Bryan Roberston, op. cit., pag. 194 o in Bernice RoseJackson Pollock, Works on Paper, The Museum of Modern Art, New York, 1969, pag. 66, o ancora in Elena Pontiggia,op. cit., pag. 78.53 Bryan Robertson, op.cit., pag. 36.54 Ibidem.55 Ibidem.56 Ibidem.57 Ibidem.

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Come osserveremo anche per Free Jazz, la totale e assoluta libertà che queste opere esprimonourta il senso formale e il bisogno d’ordine del fruitore; anzi stimolano, affermano all’oppostoproprio l’emergere dell’inconscio, spesso direttamente voluto dallo stesso Pollock: “ but when youare working out of your unconscious, figure are bound to emerge”.58

D’altronde la stessa affermazione del pittore americano possiamo trovarla in un’intervistapubblicata in Arts and Architecture, nel febbraio del 1944, dove Pollock, riferendosi ai “buonipittori moderni europei”, dice che: “sono rimasto particolarmente colpito dal loro concetto che lafonte dell’arte è l’inconscio”. 59 Possiamo trovare testimonianza del fatto che l’inconscio sia un temaricorrente anche in un’intervista di William Wright, 60 del 1951, dove Pollock sottolineal’importanza del lavoro che parte da “dentro” riassumendo il suo metodo di lavoro:

“ Ci sono state molte polemiche e commenti sul suo metodo pittorico. Vuole dirci qualcosa inproposito?Penso che nuove esigenze richiedano nuove tecniche. E gli artisti moderni hanno trovatonuovi modi e nuovi mezzi per affermare le loro idee. Mi sembra che un pittore moderno nonpossa esprimere la nostra epoca, l’aviazione, l’atomica, la radio, nelle forme del rinascimentoo di un’altra cultura passata. Ogni epoca ha la propria tecnica.Vuole dire che anche il profano e il tecnico devono saper interpretare le nuove tecniche?Sì, di conseguenza. Intendo dire che non si avrà più un’impressione di estraneità e siscopriranno i significati più profondi dell’arte moderna.Immagino che ogni volta che un profano l’avvicini, le domandi come si deve guardare unquadro di Pollock o un altro quadro moderno, cosa si deve cercare. Come si può imparare adapprezzare l’arte moderna?Penso che non si debba cercare, ma guardare passivamente – cercare di ricevere quello che ilquadro ha da offrire e non avere un soggetto o un’aspettativa preconcetta.È esatto dire che l’artista dipinge partendo dall’inconscio e che la tela deve agire comel’inconscio dell’osservatore?L’inconscio è un’elemento importante dell’arte moderna e penso che le pulsionidell’inconscio abbiano grande significato per chi guarda un quadro”. 61

In questa prima batteria di domande vediamo come Pollock colleghi il lavoro dell’artista alproprio tempo, in un certo senso confermando le parole di Robertson prima riportate quandoaccenna al “sentimento del suo tempo” come sintesi tra un passato che si configura nella tradizionee la reazione dell’artista contemporaneo ad essa. La stessa logica, lo stesso bisogno vedremo essereanche di Coleman,62 nell’atto di affrancarsi dalle regole formali della musica “tradizionale” percreare il suo linguaggio. In queste ulteriori risposte di Pollock sul lavoro dell’artista sembra quasi dileggere alcune suggestioni che saranno anche in Coleman:

“Pollock, gli artisti classici avevano un mondo da esprimere, e lo facevano rappresentandogli oggetti del loro mondo. Perché l’artista moderno non fa la stessa cosa?Mah, l’artista moderno vive in un’epoca meccanica e abbiamo mezzi meccanici perrappresentare gli oggetti della natura: i film, le foto. L’artista moderno, mi pare, lavora per

58 Bernice Rose, Jackson Pollock – Works on paper, The Museum of Modern Art, New York 1969, Published inassociaton with the Drawing Society, Inc. pag. 66.59 Dalle risposte di Pollock ad un questionario, pubblicate in Arts and Architecture, vol. LVI, New York, febbraio 1944.Anche nella già citata monografia del Robertson, a pag. 193.60 Da un’intervista a Pollock di William Wrigth, estate 1951, per la stazione radio di Sag Harbor. In Elena Pontiggia, op.cit., pag.79.61 Ibidem. Il corsivo si riferisce alle domande di W.Wrigth.62 Di certo il tema dell’inconscio non era sfuggito a Coleman, che nel disco “ Ornette! ”(1962) ha intitolato quattrobrani in maniera criptica, ma che si spiegano facilmente: W.R.U. sta per With Relation To The Unconscious, T.&T. perTotem & Taboo, C.& D. per Civilization And His Discontents, R.P.D.D. per Relation Of The Poet To Day Dreaming,tutti testi fondamentali di Sigmund Freud.

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esprimere un mondo interiore; in altri termini: esprime l’energia, il movimento e altre forzeinteriori.Possiamo dire che l’artista classico esprimeva il suo mondo rappresentando gli oggetti,mentre l’artista moderno rappresenta l’effetto che gli oggetti fanno su di lui?Si. L’artista moderno lavora con lo spazio e il tempo, ed esprime i suoi sentimenti piuttostoche illustrarli”. 63

Il richiamo ad esprimere i propri sentimenti, all’energia e al movimento, la necessità interioreche come forza pulsionale tende e spinge dall’interno verso l’esterno, sono comune territorio perambedue gli artisti. Sia Coleman che Pollock muovono da un bisogno interiore, da un’esigenza diliberarsi delle costruzioni formali che vincolano la loro espressività. In seguito trasformano ciò cherimane della tradizione in un recipiente, in un contenitore che sia sufficientemente grande e spaziosoper ricevere l’irruenza dell’atto artistico immediato, che sia pittura o musica. Possiamo forse darragione a Robertson quando avvertiva della necessità dell’artista americano di muoversi su di unampio spazio, ricalcando l’immagine di un grande paese con distanze infinite. Certo è che siaColeman che Pollock si “allargano”, dilatano i confini della tradizione, il primo raddoppiando ilquartetto e componendo un unico brano di trentasette minuti circa, il secondo dipingendo per terrasu grandi tele, che, non di rado, sono state definite “eroiche”. Due concetti fondanti dell’improvvisazione partecipano in modo decisivo alla costruzione delleopere dei due artisti: l’idea di flusso, che abbiamo visto essere l’accezione temporale propriadell’improvvisazione, e il tema della libertà, della necessità interiore di trovare uno spazio ove iconfini sono distanti, vicini solo a quello spazio esistenziale che coincide col vissuto dell’artista.Sarà questo “dentro” a trasformare la tela, in quella zona che abbiamo chiamato campoimprovvisativo. Questa, che già abbiamo brevemente descritto, è data dal differente risultato diquelle due “azioni” così simili. I colori si depositano e materializzano un dipinto, l’originalepermane e anzi è finalmente compiuto proprio nel momento in cui l’azione cessa, e sarà allora,quando il pittore avrà smesso di dipingere che il fruitore potrà accostarsi all’opera. È forse perquesto che Pollock ci parla di una mancanza di un vero inizio e di una vera fine, perchéquand’anche la sua azione cessa l’opera permane, come dice, “ha una sua vita propria”.Diversamente accade con la musica, dove l’opera è fruibile autenticamente solo nel momento in cuil’artista la esegue, ma immediatamente cessa ogni qual volta si smette di suonare. Qui abbiamosempre un inizio ed una fine, un prima e un dopo. È questa una differenza di grado all’interno deirispettivi modi di fare arte, che sottolinea le particolarità e le differenze, ma l’atto, il gesto sulcampo, con la sua processualità e il suo fluire, sono patrimonio comune dei due artisti, così comel’istanza di libertà che essi promuovono e da cui nasce la necessità di uno spazio ampio, affrancatoda vincoli formali:

“ritorniamo al problema della tecnica, che molti oggi trovano importante. Può dirci come hasviluppato la sua tecnica, e perché dipinge così?A mio avviso, la tecnica si elabora naturalmente a partire da una necessità, e da questanecessità l’artista trae nuovi modi di esprimere il mondo che lo circonda. Io uso metodidiversi dalle tecniche pittoriche tradizionali. Oggi risulta strano, ma non penso che sia davverodiverso. Io dipingo per terra, ma non è una cosa anomala, gli orientali lo facevano.Come applica il colore sulla tela? Mi pare di capire che lei non adopera i pennelli o cosesimili?Il colore che uso è quasi sempre liquido e molto fluido. Utilizzo i pennelli più come bastoniche come veri e propri pennelli. Il pennello non tocca la superficie della tela, resta al di sopra.Può spiegarci il vantaggio dell’uso di un bastone o del colore liquido invece del pennellosulla tela?

63 Ivi, pag. 80.

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Mi permette di essere più libero, di aver maggior libertà di movimento intorno alla tela, diessere più a mio agio”. 64

Che vi sia un legame fra l’improvvisazione e la tecnica sviluppata da Pollock lo si evince dallacaratterizzazione che l’artista stesso dà alla sua pittura. Potremmo già dedurlo dal ricorre deltermine stesso, “azione”, che in entrambe le definizioni denota l’aspetto pragmatico di un qualcosache si fa, di una pratica che non si rapporta e che non ha alcun legame con la teoria, ma che trova lasua essenza semplicemente nel “farsi” qui e ora. Qui egli ha delineato un modo di dipingere chel’affrancasse dalla figura per avvicinarlo alla propria interiorità, si da poter esprimere quello che luichiama inconscio. Ma, similmente al musicista che “studia” l’improvvisazione per poter meglioritagliare lo spazio necessario e i materiali da usare nelle performance, Pollock raffina la tecnicadell’ action-painting. Il dripping, le grosse tele da due metri per cinque, lavorare sul pavimento, i materiali adatti perquel tipo di “azione”: vetro frantumato, sabbia, lacci, chiodi e via dicendo. Se nell’atto di dipingerepossiamo dire che vi è l’invito a un approccio fenomenologico, all’andare dentro la teladirettamente,65 senza precedenti costruzioni, allo stesso modo Pollock nega la presenza del caso66

nell’uso dei materiali. Come un buon musicista egli è padrone dei suoi movimenti purimprovvisando le note.

Il fatto che vi sia un "esperienza" che sottostà alla processualità delle azioni dei due artisti denotacome vi sia lo sviluppo di una "tecnica" che consente il fluire dell'atto creativo. Infatti proprioquesto eleva le "improvvisazioni" a un più alto grado di coscienza. Qui possiamo vedere edosservare come ci si rivolga alla creazione istantanea ritagliando uno spazio esistenziale ove essapuò aver luogo. Il campo improvvisativo, che è l'elemento spaziale dell'improvvisazione, è cercatoed individuato a monte della seconda grande categoria costituente questa pratica, il processoimprovvisativo, ovvero, ormai lo sappiamo, quel particolare flusso temporale. Queste due componenti principali dell'improvvisazione sono sicuramente contenute nell'ActionPainting di Pollock, e con esse gran parte delle costanti che sempre partecipano alla trasformazionedell'esistente, alla nuova suggestione che ogni improvvisazione afferma. Dunque vi è un campo improvvisativo per Pollock, che è dato proprio dal particolare spazio chelui chiede per dipingere: la grossa tela stesa per terra, il contatto col pavimento che resiste epermette i suoi movimenti, i quattro lati da percorrere ed usare indifferentemente. E poi i materiali, isuoi materiali: la vernice commerciale, il vetro frantumato, bastoni, chiodi, sabbia, e tanti altriestranei alla normale pittura. Si evince come la funzione strutturale del campo improvvisativo si diain quanto esso si prefigura come “cornice”, appositamente predisposta dall’artista performante pergarantire al suo interno quella particolare libertà di movimento propria di un processo di creazioneistantanea. Dunque in questa accezione, all’interno di un improvvisazione, la struttura non èqualcosa che “regola” ma più semplicemente, svuotata proprio di quelle stesse norme chedefiniscono un “modo”, è ciò che porta, il limite di un confine neanche troppo preciso liberato daciò che appartiene all’esterno. Vi è un processo temporale nella sua azione pittorica che porta fortemente in sé l'idea del flusso,quella particolare accezione che permette la massima espressività esistenziale, dall'interno versol'esterno, e che è propria dell'improvvisazione. Ugualmente troviamo il tema della libertà, del poteresprimere se stessi, "ciò che si è", incondizionatamente. E questo sempre in antitesi con latradizione. Dunque anche le categorie del limite esterno, forma e modello come limiti e resistenze

64Ibidem.65 Nella stessa intervista di W. Wrigth alla domanda se eliminava qualsiasi studio preparatorio Pollock risponde: “Si,affronto la pittura come affronto il disegno; cioè direttamente. Non lavoro partendo da un disegno, non faccio schizzi, odisegni, o studi di colore preparatori; penso che oggi più la pittura è immediata e diretta, più sono numerose lepossibilità di arrivare a esprimere la propria idea”. Ivi, pag. 82.66 Dice Pollock : “ non utilizzo il caso, perché nego il caso”. Ivi, pag. 81.

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alla necessità interiore dell'artista si evincono chiaramente nel superamento della figura, nellaliberazione, nell'esplosione di quel mondo interiore che Pollock associava all'inconscio, che vienemesso direttamente sulla tela. Direttamente, come il pittore chiaramente afferma, senza schizzipreparatori o particolari progetti alle spalle. Tutto questo ci fa pensare e ci dice che non solo le similitudini, ma che in realtà le stessecategorie costituenti l'improvvisazione così come noi l'abbiamo caratterizzata concorrono a definirelo stesso processo dell'action painting. Si tratta, qui come in Free Jazz, di gradi più elevatid'improvvisazione, ove la casualità è respinta a fronte di una necessità esistenziale che hadefinitivamente bisogno di sbarazzarsi della forma e del modello, per poter semplicemente essere.Questo fa sì che l'artista si costruisca un campo improvvisativo, uno spazio personale risultantedall'esperienza che ha la funzione di contenitore rispetto ad un contenuto che si sostanzializza nelflusso creativo istantaneo. È dunque e sempre la libertà all'interno dei processi creativi, che imprimeil proprio marchio. Che vi sia una differenza fra il suono di Coleman e il colore di Pollock lonotiamo più nel prodotto finale che non nel suo crearsi: il primo è direttamente nel tempo, ha uninizio ed una fine e come il tempo passa, non rimane. Il secondo, invece, ha una sua vita propria,alla fine del processo creativo rimane e acquista un’esistenza a sè. Non siamo comunque soli nell’avvertire matrici comuni fra musica, jazz e action-painting.Rosenberg dice che Numero 32, opera di Pollock del 1950 “dovrebbe essere considerato uncapolavoro del XX secolo: il moto perpetuo di una linea sferzante che ha, nella sua freddamuscolosità, qualcosa della natura improvvisatrice del jazz” 67 e che “ i ritmi incostanti del jazzsono profondamente radicati nella coscienza americana e influenzano molte espressionistilistiche”. 68

E a riguardo dell’ action-painting, dice Allan Kaprow: “ Noi riconosciamo il valore di questa innovazione perché l’artista aveva compresoperfettamente come realizzarla. Utilizzando un principio iterativo, affidato a pochi intensielementi che si modificano senza sosta, grazie all’improvvisazione, come spesso avviene nellamusica orientale69, Pollock ci dà una unità totale e nello stesso tempo ci coinvolgenell’immediatezza delle sue scelte personali”. 70

Riassumendo brevemente, l’improvvisazione nel suo svolgersi è stata divisa in due fondamentalicategorie: tempo improvvisativo e campo improvvisativo. La temporalità in questa accezione sicarica di significati particolari soprattutto in relazione al concetto di flusso temporale e alleconsiderazioni emerse dalla disamina dello stesso. Abbiamo visto come il ritmo pulsante all’internodi un’improvvisazione (si consideri qui il termine nella sua accezione più ampia) sia semprefortemente soggettivo, scollato da un tempo oggetto (come il metronomo) e portatore di una spintache, a partire dalla necessità interiore, si configura come un istanza di libertà. Abbiamo esaminatoquesti concetti empiricamente con l’aiuto del buon percussionista rilavendo come all’interno deltempo improvvisativo vi sia una processualità che, a partire dall’ uno, dall’atto primo che da inizioall’improvvisazione in base (percettivamente) alla regola di relazione lega tutti i successivi attimiformando una sequenza, un movimento fluido che è stata chiamato, come ormai sappiamo, flussotemporale. La forza dinamica che muove questo processo e ne fa da motore è una tensione, unaspinta pulsionale che abbiamo detto essere la necessità espressiva interiore come intenzione dilibertà che fa da ponte, collega la temporalità con il luogo in cui essa avviene, il campoimprovvisativo.

67 Bryan Robertson, op. cit., pag. 148.68 Ibidem.69 Corsivo mio.70 Testimonianza di Allan Kaprow; in Elena Pontiggia, op.cit., pag. 125.

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Il concetto di campo improvvisativo si affianca a questa processualità e la definiscestrutturalmente: il campo improvvisativo è la struttura dell’improvvisazione. Importante è osservareil luogo dell’improvvisazione, la cornice in cui essa si dà proprio perché i significati degli attiimprovvisativi vengono a costituirsi in relazione e spesso in contrapposizione con gli elementispaziali che la ospitano. È per questo che abbiamo delineato come elemento strutturaledell’improvvisazione il limite esterno, ovvero il mondo che agisce dall’esterno come forma emodello e che si contrappone alle forze dinamiche dell’improvvisazione delineandone lo spazioiniziale. Dunque le costanti “spaziali” che compongono il campo improvvisativo e che ci servirannoper analizzare esecuzioni e performance artistiche le possiamo gerarchicamente riassumerle incornice, limite esterno e mondo come forma e modello. Abbiamo poi un luogo internodell’improvvisazione, che sappiamo essere un involucro, un guscio vuoto in cui inizierà il processotemporale sotto la spinta delle forze dinamiche della necessità espressiva interiore. Possiamo dunque affermare che il campo improvvisativo è la cornice che si presenta all’inizio diogni improvvisazione, è ciò che fornisce i materiali per la trasformazione e che dà la possibilitàall’improvvisatore di mutarli, di rendere proprio prima il tempo e di dilatare e colorare lo spazio poi,come abbiamo visto in Pollock e come avviene in musica durante una perfomance di jazz, quandol’esecutore imprime il proprio vissuto nello strumento e nelle note che da esso sono prodotte,impossessandosi dell’ambiente in cui suona. Per un’ascoltatore attento spesso in questo contesto sipuò aver l’impressione di una reale trasfigurazione, si percepisce la volontà e la spinta dellanecessità espressiva dell’esecutore che lotta e cerca di possedere ciò che gli sta innanzi, che è lì, allamano. In questa accezione lo spettatore è parte del campo, è lì per lasciarsi impressionare dalmusicista e dai suoi tempi, può aprirsi al suo mondo onirico e sognare con lui a occhi chiusi olottare contro la violenza e la rabbia delle sue note, può godere o spaventarsi ma mai rimarràindifferente, l’improvvisazione ha una forte personalità e tocca sempre chi ne è partecipe, anche sesolo con il rifiuto. Difficilmente possiamo fare altro di fronte a della musica totalmente improvvisata, o ci piace o ciinfastidisce, ma non sarà mai un sottofondo piacevole per le nostre serate con amici. Questo ci facapire come il tema della libertà sia il vero tema della necessità espressiva interiore, e della liberaimprovvisazione tutta. Ornette Coleman racconta: “Una volta ho suonato per dieci minuti a un congresso di architettiamericani dove era in corso un dibattito dedicato alla “Bellezza” e io ero stato chiamato arappresentare il brutto”. 71 Da queste parole di Ornette Coleman possiamo capire comel’improvvisazione che abbiamo detto non conformarsi a forme o modelli dati a priori non si ponganeppure il problema del gusto o della bellezza in senso estetico. L’improvvisazione non è mai per,non è mossa dal compiacimento e non ha finalità esterne determinate né tanto meno si pone ilproblema di piacere. Questo perchè se si sottoponesse a delle regole estetiche perderebbe ciò che maggiormente lacontraddistingue: la libertà e l’autenticità. Infatti, all’interno di quel guscio vuoto che primaabbiamo trattato nella nozione di campo proprio questo vi troviamo. La libertà dell’improvvisatoreè la condizione essenziale dell’improvvisazione stessa, è la possibilità di movimento e di creazioneistantanea come processo distintivo della stessa che la rende unica ed irripetibile. Dunque l'internodel guscio è un’isola di libertà che l’improvvisatore difende coi denti e che tramite la forzapulsionale della necessità espressiva interiore spinge e gioca contro il limite esterno, cercando didilatarne i confini. Una buona improvvisazione spesso è proprio quella che riesce ad avere unrespiro più ampio rispetto al suo punto di partenza, è quella che ha conquistato più libertà, che hascoperto e allargato i confini dell’isola in cui si trovava costretta nel momento in cui l’uno ha datovita al processo, quella che ha fatto una nuova scoperta e che gioisce per il piacere che questo nuovo

71 Ornette Coleman, sassofonista, è uno dei padri del cosidetto free jazz, corrente musicale di cui ci occuperemodiffusamente nel prossimo capitolo. Nato a Fort Worth (Texas), nel 1930, rilasciò questa affermazione in un’intervistaraccolta e tradotta da Melvin Van Pleebles, in “Jazz magazine”, n. 125, dicembre 1965, pag. 30.

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suono gli procura. L’improvvisazione è fortemente legata all’atto della scoperta e possiamo dire chenella sua libertà l’improvvisatore è come un ricercatore che sperimenta in continuazione nuovemescolanze di suoni senza porsi il problema del gusto. Dunque anche la libertà partecipa all’improvvisazione in maniera costitutiva assumendo però aseconda dei contesti, o meglio del campo in cui avviene l’atto improvvisativo, particolari e semprediversi significati. Il tema della libertà potremmo dire essere lo spirito dell’improvvisazione , comequalcosa di ineffabile che sempre l’accompagna in maniera mutevole. Sappiamo che questa libertàha anche due facce: se per un verso ci slega da ogni obbligo formale, dall’altro è sempre come unsalto nel vuoto. Questo vuoto, quel luogo interno dove abbiamo detto trovarsi la necessitàespressiva interiore come forza dinamica in seno all’improvvisazione è anche la sede della libertàall’inizio di ogni processo improvvisativo. È certo che si presenta come un vuoto da riempire e,come tutto ciò che è “libero” non ci dà percorsi obbligati, ma per contro non offre neanche puntid’appoggio. L’improvvisatore quando inizia la sua esecuzione guarda sempre quel vuoto e ci sibutta.72 Seguiamo con attenzione le parole di Steve Lacy:

“ Sono attratto dalla improvvisazione per via di qualcosa che, a mio avviso, ha grandeimportanza. Si tratta di una freschezza, di una qualità particolare, che si può ottenere soloimprovvisando; qualcosa che sfugge alla scrittura. Ha qualcosa a che fare con l’idea del‘limite’. Stare sempre sul confine con l’ignoto, pronti al salto. E quando si parte, dietro cisono tutti gli anni di preparazione e si è ricchi della propria sensibilità ma è sempre un saltonell’ignoto e ci sono gli strumenti che si sono preparati ma è sempre un salto nell’ignoto. Secon quel salto si trova qualcosa, allora quello per me ha un valore più grande di qualsiasi cosasi possa preparare. Ma rimane legato anche a quello che si può preparare, specie per come tipuò condurre ‘sul limite’, come dicevo prima. Quello che scrivo serve ad arrivare con certezzaa quel punto, di modo che sia possibile poi trovare il resto. In realtà è proprio ‘il resto’ quelloche mi interessa veramente e credo che quello costituisca la sostanza del jazz”. 73

La libertà è come uno spirito leggero che accompagna tutte le improvvisazioni, è l’anima stessadell’improvvisatore che la chiede per potersi esprimere senza limiti formali e che nel contempo nedesidera sempre di più. È per questo motivo che la necessità espressiva interiore come forzadinamica all’interno del processo improvvisativo è stata chiamata istanza di libertà, è ciò chel’esecutore sempre chiede, la possibilità di partecipare a quel mondo e di trasformarlo istante dopoistante, in un continuo processo creativo.

Schematizziamo ora le costanti individuate in modo da aver sempre un chiaro quadro diriferimento per l’analisi e l’interpretazione dei processi improvvisativi. Di seguito vedremo poicome nel free jazz ( soprattutto analizzando il lavoro di Ornette Coleman che porta lo stesso nomedella celebre “corrente musicale” degli anni sessanta) le categorie e le relative costanti individuateci consentano un nuovo approccio metodologico per una disamina di performance improvvisativedate.

73 Derek Bailey, op.cit., pag.125.

37Fig. 10

PROCESSO IMPROVVISATIVO

Tempo improvvisativo Campo improvvisativo

Visualizziamo semplicemente le due categorie principali del processo improvvisativo. Al tempoimprovvisativo appartengono le costanti che si troviamo nella colonna di sinistra, e che, a partiredalle considerazioni fatte sul tempo interno, (quindi di un movimento che originariamente vadall’interno verso l’esterno), si generano nell’uno per sostanziarsi tramite la regola di relazione nelflusso temporale. Nella colonna di destra gli elementi strutturali che compongono il campo improvvisativo che,abbiamo detto, essere lo spazio che l’improvvisazione occupa. Qui possiamo rinvenire le scelte fattedall’improvvisatore, soprattutto nel caso di improvvisazioni altamente specializzate, come nellamusica. Il collegamento fra le due categorie è garantito dall’istanza di libertà dell’improvvisatore,dalla sua necessità espressiva che, come forza dinamica, occupa lo spazio e dà, con l’uno, l’avvio alprocesso.

Tempo interno

Uno

Regola di relazione

Flusso temporale

Cornice

Luogo interno

Limite esterno

Forma e modello

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PARTE SECONDA

§ 1. Free jazz

Esamineremo ora, sulla scorta delle categorie individuate, una celebre e liberissimaimprovvisazione di Ornette Coleman. Introduciamo brevemente il contesto in cui si attua: lacorrente musicale soprannominata free jazz, che nasce e si sviluppa nella seconda metà del secoloscorso. Con il free jazz, le regole dell’improvvisazione della grande orchestra vengono radicalmenteeliminate. Si registra un ritorno all’improvvisazione collettiva e il “solista”, se ancora si può direche esista, è semmai una guida all’improvvisazione, il cui suono è poco “sopra” quello dei suoicompagni. In realtà i musicisti free sono tutti solisti. Non c’è più una “gerarchia”, non è piùpossibile ravvisare degli spazi delimitati per le improvvisazioni come negli “standard” ma,piuttosto, l’improvvisazione è l’anima e la struttura stessa del free. Assoluto spontaneismo e liberacircolazione di idee e di suoni divengono il carattere determinante dell’improvvisazione collettiva.Ciò che risulta immediatamente nel free jazz rispetto alla tradizione è l’intenzione di svincolarsi daogni etichetta e da ogni lineamento del jazz abituale, le cui regole e consuetudini i musicisti freehanno tutta l’aria di voler rompere, circostanza evidente nella strutturazione dei brani, nellautilizzazione degli strumenti e nei rapporti fra gli stessi, nelle concezioni ritmiche nonché neldialogo del musicista con il suo pubblico e con gli altri musicisti. Il free mira a rifare suoi glielementi neri della musica afroamericana e nello stesso tempo si apre totalmente a ogni possibilearricchimento. In contrapposizione alla linea melodica, che nel jazz solitamente è rintracciabile nei“temi”, 74 vi è una rivalorizzazione dell’improvvisazione che in un certo qual modo giustifica anchel’appellativo free posto davanti a jazz. Il free jazz è dunque un jazz “libero” ove libero è sinonimo dirottura, di un essere al di fuori delle strutture e delle forme della tradizione che l’ha preceduto e chepone l’enfasi sulla possibilità dell’artista/musicista di esprimersi in maniera personale. Sappiamopoi che anche altri significati saranno partecipi del senso di free jazz o della new thing, la nuovacosa.75 Oltre a rivestire un modo nuovo di suonare e intendere il jazz, questo movimento sarà anchelegato, da alcuni dei suoi musicisti più rappresentativi, ai tumultuosi anni sessanta. Rivoluzionenera, affermazione della nuova sinistra americana, crescita del dissenso interno negli Stati Uniti e ilfiorire della cultura underground:76 tutto ciò crea una vasta rete di intrecci che collegano questonuovo modo d’intendere la musica con la situazione reale vissuta dal musicista e il suo desiderio diemancipazione, non solo dalle restrittive forme musicali imposte dalla commercializzazione, maanche con una nuova e più consapevole visione di sé, una ricerca di un’autonomia e di unavalorizzazione del proprio passato più remoto come valore culturale. Questo essere inadeguato ad 74 Classicamente con “tema” nel jazz s’intende la melodia caratteristica e distintiva di una composizione, comunementeracchiusa nelle trentadue battute della canonica forma AABA.75 Soprannome vagamente ironico con cui veniva chiamata questa “nuova musica”.76 Portatori proprio di una visione sociale e politica del free jazz sono Carles e Comolli con il loro testo, già citato, Freejazz/ black power. Osservano gli autori:“il free jazz, partito dalla reazione alle forme colonizzate del jazz e dalla ricercadi riferimenti con le musiche africane, è giunto a configurarsi come contestazione più globale dei valori culturali dellaciviltà occidentale e come costruzione di una musica afroamericana specifica e attività musicale in funzione di arterivoluzionaria al servizio della rivoluzione”. Dunque sembra questo l’appiglio per l’insorgere della critica bianca,l’avvertire l’evento “free” come pericoloso e direzionato a svincolare i neri da un sistema non puramente musicale maanche sociale. Alla base di queste convinzioni ci potrebbe essere il “leit-motiv” che accompagna lo scritto e che insostanza afferma che la cultura nera o è rivoluzionaria o è complice. Sembra allora che la storia del jazz sia un lungopassaggio di complicità sofferte e che il jazz mostri di essere vivo proprio in queste sue impennate: nel rigetto e nellaresistenza all’ideologia bianca dominante all’interno del sistema capitalistico. Il free jazz sembra a loro essere la migliorespressione di questo stato di cose, una musica di “difficile consumo e di difficile ascolto”, e per chi volesse ascoltarlas’impone l’atto di umiltà di un avvicinamento franco e diretto, senza presunzioni, annullando anche ogni pretesa disuperiorità. Cfr. P.Carles J.L. Comolli, op.cit., nella prefazione di Giorgio Merighi.

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un ascolto “leggero” ha come effetto un allontanamento ed un rifiuto da parte degli ascoltatoriormai abituati ad un “certo” ordine nelle esecuzioni.Il free invece balza improvviso ed imprevedibile, ogni performance è diversa dalla precedente e letracce scritte sono pressoché inesistenti o per lo più degli appunti, linee melodiche che vengonopresto memorizzate dai musicisti. Il free è un linguaggio concreto che non nasconde leinsoddisfazioni e i tormenti, ma che, spesso, ne ripropone le sofferenze. L’ascolto di un concerto difree jazz innanzitutto e perlopiù ci sorprende in prima battuta per l’andamento temporale,apparentemente rotto e discontinuo. Rashied ali77 ci dice che il ritmo nel free non è percepito con la testa e nemmeno tanto “contato”:

“non viene sentito neppure con i sensi, bensì, prima di ogni altra cosa viene sperimentato eprovato attraverso il corpo. Questa non è una constatazione astratta dell’arte, ma una realtàche ha una sua completezza. Il ritmo è riferito alle funzioni del corpo; lo swing al battito delcuore, il pulsare veloce e vibrante del free è legato ai battiti del polso. Dietro a ciò sta ancoraun battito del cuore che fa da motore trainante. Bisogna essere precisi. Non si vuol dire chenel free la pulsazione avesse preso il posto del battito cardiaco: la pulsazione è unadimensione aggiuntiva, accanto al battito del cuore che è irrinunciabile. All’interno di questasituazione fondamentale fra i batteristi del nuovo jazz si possono riconoscere un’infinità distili assolutamente personali, come nei primi anni del jazz.” 78

Similmente a Rashied Ali si esprime un altro grande batterista di quegli anni, Andrew Cyrille:79

“ Swing è la reazione fisica naturale del corpo umano ai suoni, che portano l’uomo a muovereil proprio corpo senza eccessivi sforzi…in senso astratto lo swing è un sound del tuttoprevedibile e integrato, che produce una grande sensibilità spirituale dell’essere, unaspiritualità tangibile, quasi magica…il sapere che sta succedendo e succede in ogni momentoqualcosa di metafisico.” 80

L’aspetto “metafisico” che spesso assume il free è un’altra suggestione su cui si ci potrebbesoffermare. Proprio questa rottura di una continuità temporale, la mancanza di un’armonizzazioneben presente e continua rendono il free una musica sì cruda, nei suoi modi e nelle suemanifestazioni, ma proprio perché “altra”, anche veicolo verso mondi nuovi e iperuraniani, comeaccade con Sun Ra.81 Il tempo e la temporalità che sappiamo assumere un’importanza fondamentalenel processo improvvisativo iniziano nel free a delinearsi come fortemente soggettivi. I batteristi inprimis confermano questa volontà di aderire a un vissuto che si fa tempo nell’esecuzione stessa, maipredeterminato e sempre aperto a qualsiasi nuova istanza musicale. La dinamica temporale imprimeun movimento spesso rotto e discontinuo, il batterista (o percussionista che sia) nel free si eleva aduna maggior completezza. A lui non è richiesto solo il semplice portare, scandire e mantenere iltempo, con quel carattere oggettivo che ne evidenzia la facciata “ballabile”, come accadeva nelle 77 Batterista, nasce a Philadelphia nel 1935 e appare sulla scienza nel 1965 in un quartetto di John Coltrane. Musicistadall’intensità bruciante e molto dinamico, in possesso di un preciso controllo tecnico del suo strumento.78 Joachim Ernst Berendt, Fotostoria del jazz, op.cit., pag. 245.79 Nato nel 1939 a Brooklyn, Cyrille è diventato famoso per aver partecipato alla Cecil Taylor Unit. Musicista “colto”ha studiato anche alla Juillard School di New York musica percussiva.80 J.E. Berendt, Fotostoria del jazz, op.cit., pag. 246.81 Per Sun Ra e i suoi musicisti fare musica, in quel particolarissimo modo, ha il valore e il significato di un rito magico,che consente l’evasione nei cieli della fantasia dalla disumanità alienante della vita nel ghetto. L’orchestra diventa cosìun’arca autosufficiente (la radice di arkestra - nome coniato da Sun Ra per la sua orchestra- è ark), in cui si mantiene ilcontatto con la divinità restando lontani dalle miserie di un mondo maledetto. L’armonia, la cui mancanza èdolorosamente patita dagli abitanti del ghetto, viene cercata al di fuori della realtà per essere vissuta nell’illusoriadimensione di una sacra rappresentazione. Non può meravigliare che quell’armonia – in termini musicali – appaia atanti incomprensibile: “la mia musica è naturale, ma al di fuori di questo pianeta. – ha dichiarato Sun Ra – io nonconsidero questo pianeta come un pianeta di vita…questa non è vita, è morte mascherata da vita.” Dall’intervista ParlaSun Ra, a cura di Giacomo Pellicciotti, in “Musica Jazz”, febbraio 1974.

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orchestre di swing. Anche all’interno delle improvvisazioni della grande orchestra di swing, neglispazi assegnati e definiti delle performance, il collante che legava e permetteva un rientro all’internodella composizione proposta era il tempo. Com’è nostra opinione invece, nell’improvvisazione iltempo precede e giustifica l’improvvisazione stessa e il suo carattere istantaneo. Mentre nell’orchestra di jazz esso fungeva da “appoggio” e il batterista aveva la funzionespecifica di dare e tenere il tempo stesso all’orchestra, limitando così le sue possibilità espressive,nel free più genuino la parola libero assume particolare rilevanza proprio in funzione del suocarattere temporale. Il batterista è libero, svincolato dall’esigenza di dover “dare e tenere” un tempo,ha la possibilità di costruire linee melodiche senza preoccuparsi del “battito metronometrico”,dell’accelerare o rallentare un tempo battuto da un capo orchestra. Questa nuova funzione, questosuo essere parificato agli altri strumentisti e legittimato anche sotto il punto di vista melodico,ampliano le sue possibilità e elevano la sua figura. Nel free jazz vedremo spesso i batteristi ampliareenormemente la loro strumentazione in cerca di nuove sonorità e che di rimando sovente anche glialtri strumentisti divengono percussionisti. A differenza di quanto accadeva prima, parecchiesaranno le formazione jazzistiche capitanate da batteristi. Caso esemplare di questo nuovo modo d’intendere la performance musicale, in cui anche ilconfine sullo strumento perde valore proponendo invece una circolarità fra gli strumentisti stessi è l’Art Ensamble of Chicago. 82 Questa formazione, di grande impatto scenico,sviluppa la sua musica in modo estremamente originale, mischiando a volte suoni di sirene(similmente a quanto avveniva in Edgar Varèse, il cui anelito alla libertà dalla tonalità potrebbe averragione d’essere anche nel free) con lunghe parti percussive a cui partecipa tutta la band. Percostruire queste ricche e colorite improvvisazioni i musicisti dell’Art Ensamble of Chicago usanouna varietà timbrica e sonora che necessita di una gran quantità di strumenti, il che rende le loroesibizioni, accompagnate anche da un mascheramento dei musicisti stessi, pari a una vera e propriarappresentazione. La libertà assume innanzitutto pregnanza temporale, per poi rivestire il successivo affrancamentodalla tonalità e, come abbiamo già accennato, caricarsi di quei significati “rivoluzionari” che aitempi del loro esordio vengono così ritratti da Morgenstern, critico di “Down Beat”: 83

“La new thing è un’espressione d’insoddisfazione per lo status quo, un rifiuto di accettare leconvenzioni correnti, un assalto, spesso furioso, al presente e a gran parte del passato. Ma,nello stesso tempo, è avvertibile nel suo fondo un romantico anelito alla gioia,all’accettazione, e a quella cosa indefinibile che si chiama libertà. È spesso prolissa in modoesasperante, verbosa, indisciplinata e caotica. Ma è anche, spesso, capace di produrre momentidi rara bellezza, di grande intensità, di surrealistico umorismo, e di quella esaltantecomunicazione fatta qui e ora che costituisce il fascino del jazz. Ma è jazz? Alcuni deifondamentali elementi mancano. C’è poco di ciò che abbiamo imparato a riconoscere comeswing. Spesso non c’è traccia di quella organizzazione formale che si ritrova in quasi tutto iljazz: sezione ritmica e strumenti melodici, assoli contrapposti ai collettivi, tempo regolare e

82 All’Art Ensamble of Chicago appartengono il bassista Malachi Favors, il sassofonista Joseph Jarman, il trombettistaLester Bowie e il sassofonista Roscoe Mitchell. È proprio quest’ultimo, (nato a Chicago nel 1940 e membro fondatoredell’AACM “Association for the Advancement of Creative Music” assieme a Richard Abrams ed un’altra trentina dimusicisti) a dar vita nel 1965 all’Art Ensamble of Chicago. Dice Berendt che a suo avviso non esiste nessun altro jazzensamble che abbia mai disposto di così tanti colori musicali. Durante gli spostamenti i musicisti portavano con séinteri camion di strumenti. I musicisti erano poi tutti polistrumentisti: Mitchell suona ad esempio i sassofoni contralto,tenore e basso, il clarinetto, il flauto, l’ottavino, il piffero, il glockenspiel, lo steel drums, le congas, i goongs, i cembalie così via…83 Prestigioso magazine americano dedicato alla musica jazz. “Down Beat” oggi ha anche un sito internet(www.downbeat.com) molto aggiornato ove è possibile documentarsi e accedere a vecchi articoli pubblicati dallarivista. Inoltre, cosa molto utile nella musica, è offerta anche la possibilità di ascoltare in file Real audio o Mp3 granparte degli artisti che hanno fatto la storia di questa musica.

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così via. Ciò non di meno il suono e il feeling sono spesso del tipo peculiare al jazz a noiormai familiare, ed è sicuro che non si tratta di musica classica, qualunque significato sivoglia dare a questa ambigua espressione. Qualunque cosa sia (e si ha spesso la sensazioneche gli stessi musicisti non sappiano bene ciò che hanno fra le mani: è un flusso musicale, sesi vuole definirlo in qualche modo), non le si deve fare torto facendo paragoni ingiustificati.Accusare un batterista di non avere swing, nel senso che chi lo critica ha in mente, è scorrettoe senza costrutto. Pretendere aderenza a moduli formali che i musicisti evidentementerespingono è altrettanto sciocco che accusare un pittore informale di non rappresentare larealtà.” 84

Notiamo come da queste parole del critico americano vi siano tre punti che esaltano il caratterequasi utopistico del free. Innanzitutto la già discussa libertà, a cui l’autore dell’articolo dà unacoloritura “romantica” che non ci sentiamo di sottoscrivere in toto. Troviamo invece moltopregnante la definizione che si vede quasi costretto a fare, nel momento in cui usa la parola “ flussomusicale” cercando una adeguata specificità che comunque tende a fuggire dalle classichecaratterizzazioni. Altro punto che ci pare molto centrato è il rifiuto di moduli formali e laconseguente comprensione che ciò non costituisce un “difetto”, ma bensì una prassi ben definita econsapevole.Abbiamo quindi individuato tre punti di convergenza, (libertà, flusso musicale e rifiuto di moduliformali) come caratterizzanti il free nelle parole di Morgensten. Questi punti di convergenzapossono ugualmente essere rinvenibili nei pensieri dei batteristi free per ciò che riguardaesclusivamente il tempo e si possono anche trovare, seppur mischiati in tutto ciò che concorre allavita, nelle biografie dei principali fautori di questa musica.85 Il free, come tutto il jazz, ma inmaggior misura, collima e si fonde con il vissuto del musicista. Se ci si sofferma sulle biografie deisuoi esponenti è possibile notare come questa triade, libertà, l’idea di un flusso musicale nuovo esignificante ed il rifiuto dei vecchi moduli consolidati nella tradizione jazzistica, siano comuni atutti. Dunque l’idea di ricerca si muove non solo attraverso uno studio e una reinterpretazione, unasperimentazione diretta sullo strumento e sul suono, ma anche nella diretta prova dell’esistenza,spesso altalenante e travagliata, fatta di continui alti e bassi, diffidenze e spostamenti, girovagare dauna città all’altra dell’America cercando di diffondere, in ultimo, un amore per la musica comemezzo espressivo ed artistico libero, incontaminato, soprattutto dalle forme della musica bianca. Questa triade, così l’abbiamo definita, dobbiamo ora annotarla per poter in seguito riprendere ilfilo del discorso quando, durante l’analisi stretta di una brano musicale useremo questi concetti perriportarci alla disamina teorica effettuata sul processo improvvisativo:

a) libertàb) flusso musicalec) negazione di forme e modelli.

Il free jazz è stato e tuttora rimane una delle massime espressioni dell’improvvisazione inmusica. Un long playing in particolare, ed il suo “compositore” sono riconosciuti come l’artefice delmanifesto di questa new thing e il titolo stesso dato a quello storico evento ne sottolinea il contenuto“Free Jazz: A Collective Improvisation By The Ornette Coleman Double Quartet”. Sarà proprioquesto lavoro che prenderemo in esame per centrare la nostra tesi su dati di fatto.

84 Da The October Revolution: two views of the avant garde in action, in “Down Beat”, 19 novembre 1964.85 Vedi come la lettura di biografie di grandi jazzisti free sia densa di avvenimenti e pensieri che concorrono epartecipano sullo sfondo proprio di questi tre concetti.

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§ 2. Ornette Coleman

Se il vissuto del musicista free partecipa e si esprime insieme alla musica dell’improvvisatorestesso nel momento in cui il suono si “fa”, (e qui dobbiamo ricordare come la musica siainnanzitutto e perlopiù una prassi), diventa interessante dare uno sguardo alla vita di OrnetteColeman, prima di addentrarci nell’analisi musicale di Free Jazz:

“Quando ho sentito Ornette per la prima la prima volta ho sentito la felicità che generava. Erauna delle cose che amavo di più della sua musica. Era così libero, nonostante le terribiliesperienza passate per il modo di suonare. Non capivo come la gente non riuscisse adascoltarlo… Quando diceva “swing” non intendeva il vecchio “swing”: usava la parola“swing” più o meno come per dire suonare liberamente, suonare quello che si è veramente.” 86

Questa è l’impressione che il batterista Edward “Ed” Blackell 87 ricava dai primi incontri conColeman, intorno al 1950, a cui rimarrà legato a lungo sia come amico che come musicista. Ornette Denard Coleman nasce nel Texas a Fort Worth, il 9 marzo 1930. Inizia lo studio del saxalto nel 1944 e cinque anni dopo suona in orchestre di “rhythm&blues”. Alla fine di una tournéenegli Stati Uniti si ferma qualche mese a New Orleans e poi si stabilisce a Los Angeles. Non riescea vivere solo degli ingaggi musicali e per integrare fa diversi lavori fra il quali il lift di ascensore perdue anni e mezzo. Si racconta che spesso si presentava con il proprio strumento in qualche localenella speranza che i musicisti lo lasciassero suonare un po’ con loro, ma a volte non gli riusciva di“prendere neppure una nota”. Si fece la fama di musicista “molto stonato”, che non sapeva neppurecosa fossero gli accordi. Non abbandona mai lo studio della musica, lui che ha imparato a suonarecome autodidatta e attraverso l’esperienza fatta nelle orchestre. Attraverso molte fatiche e spessoanche diverse umiliazioni un po’ per volta la sua musica prende consistenza fino ad affermarsi comemanifesto di un nuovo modo d’intendere il jazz.Di seguito, brevemente, le tappe significative della carriera del sassofonista. Il bassista RedMitchell, udita una composizione di Coleman nel corso di una prova, lo presenta a Lester Konig,direttore della casa discografica Contemporary, che nel 1958 e nel 1959 gli consente di realizzare lesue prime incisioni con Don Cherry alla tromba. Grazie a John Lewis, pianista e leader del ModernJazz Quartet, Coleman ottiene una borsa di studio che gli consente di seguire i corsi della scuola dijazz di Lenox. Nonostante l’interesse dei suoi primi dischi, non riesce a ottenere gli ingagginecessari per il mantenimento di un regolare complesso. Per la casa Atlantic, registra una serie dialbum che costruiscono l’estetica del free jazz. Poi due anni di inattività musicale (1962/1964) e ilsuccessivo ritorno in pubblico. Accompagnato dal bassista David Izenon e dal batterista CharlesMoffett, improvvisa al sax alto ma ora usa anche il violino e la tromba. Scioglie il trio e si dedicaalla composizione. Alcune sue opere vengono suonate e registrate da una grande orchestra classica(vedi Skies Of America). Propone diverse formazioni, in cui parteciperà anche il figlio dodicenne(Denardo, batterista) e poi nuovamente con Charlie Haden, Dewey Redman e Ed Blackewll. Vienericonosciuto come uno dei principali fautori del free jazz, e alla fine degli anni ’60 la sua fama èconsolidata.

86 Michele Mannucci, Ornette Coleman, (Jazz people) Nuovi Equilibri, Roma 2000, pag. 1287 Ed Blackwell, nato nel 1927 a New Orleans, fu batterista e amico di Coleman per lunga data e partecipò all’incisionedi Free Jazz, nel 1960.

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§ 3. Analisi del campo improvvisativo di Free Jazz

Free Jazz - a collective improvisation by the Ornette Coleman Double Quartet88 è stato registratoin un’ininterrotta presa di registrazione di 36 minuti e 23 secondi. Questa performance si puòascoltare esattamente com’è stata suonata in studio, senza manipolazioni posteriori. Già l’ideadell’orchestrazione è fuori dell’ordinario, sono proposti due quartetti composti dai seguentimusicisti:

Ornette Coleman, sax altoDonald Cherry, pocket trumpetScott LaFaro, bassBilly Higgins, drumsposto sul canale sinistro dell’impianto stereofonico,Eric Dolphy, bass clarinetFreddie Hubbard, trumpetCharlie Haden, bassEd Blackwell, drumsposto invece sul canale destro.

Proporremo ora un ascolto, e conseguentemente una prospettiva di lettura di Free Jazz, che faràcapo a ciò che abbiamo definito come campo improvvisativo e processo temporale nel primocapitolo. Questa rotazione di prospettiva disinveste dal piano puramente musicale e si preoccupamaggiormente di cercare le costanti che in linea teorica abbiamo visto sempre partecipare alprocesso improvvisativo. La nostra ricerca non può che cominciare proprio dall’esame del campo improvvisativo comespazio dedicato all’atto improvvisativo stesso: precedentemente abbiamo affermato che l’unicoelemento strutturale che possiamo rilevare in seno ai processi improvvisativi è costituito dalla loronatura “spaziale”, dalla definizione di una cornice che delimiterà lo spazio e i materiali che di voltain volta saranno usati dall’improvvisatore. In Free Jazz il campo improvvisativo delinea unacornice molto chiara: la scelta del tipo di orchestrazione e lo spazio che il doppio quartetto guidatoda Coleman assume come proprio. Abbiamo precedentemente definito il campo improvvisativocome il luogo in cui l’improvvisazione si dà, considerando una gradazione che, a partiredall’inconsapevolezza dell’atto, ci conduce a un grado più elevato in cui l’improvvisazione èperentoriamente voluta. Free Jazz è stato scelto come esempio per analizzare le componentiindividuate all’interno di un processo improvvisativo perché qui l’improvvisazione divieneprotagonista: essa è volutamente cercata come elemento primo di un fare artistico che, abbiamovisto nella breve “biografia” di Coleman, cerca sempre lo sguardo emozionale.Non è rinvenibile in questa composizione una partitura che ci consenta un’analisi musicologica estrutturale della musica di Ornette, né noi la vorremmo. Free Jazz offre un ascolto estremamenteduro, difficile, che sicuramente non si preoccupa di essere gradevole all’orecchio dell’ascoltatorema che, piuttosto, cerca una strana forma di “sincerità” da chi questa musica la suona. Lasoddisfazione peraltro, il godimento in essa sembra proprio essere da quella parte, da chi suona 88 Titolo originale del Long Playing. Per l’analisi di Free Jazz ci siamo basati sull’edizione Atlantic 1364 (ora Atlantic8122-72397-2) rimasterizzata in Compact Disc per ottenere un più preciso riferimento cronografico. Nel confrontocompiuto dallo scrivente la versione rimasterizzata non presenta alcuna differenza sostanziale rispetto a quella su vinile.Precisiamo che la versione rimasterizzata in Compact Disc di Free Jazz è uno dei cinquanta titoli scelti dalla Atlanticper commemorare il suo cinquantesimo anniversario. Questa collana, chiamata “Atlantic original sound”, ha laparticolarità di aver mantenuto il suono originale, la stessa copertina e le stesse note delle corrispondenti versioni invinile. Per quel che riguarda la registrazione di Free Jazz è importante rilevare che ciò che si sente è perfettamenteuguale a ciò che fu suonato in studio, come riportato sul disco: “without any splicing or editing”. In copertina WhiteLigth di Jackson Pollock, per gentile concessione del gallerista Sydney Janis.

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come se stesse “parlando, ridendo, piangendo,” piuttosto che darsi all’altro sotto forme edulcorate.Così, anche solo a un primo sguardo, ci accorgiamo di come i concetti individuati (libertà, flussomusicale e rottura di forme e modelli) sono già dentro questa composizione per esprimerne ilcarattere più autentico, la sua ingenua natura, avulsa dalla morsa standardizzante del commercio.Proprio qui sta uno dei primi significati di questa incisione degli anni ‘60, nell’idea di una libertàquasi totale che trova solo nel campo improvvisativo i suoi elementi strutturali. L’analisi di Free Jazz ci consente di avvicinare il concetto d’improvvisazione, oggetto dellanostra indagine, alle categorie individuate come sue costituenti, campo improvvisativo e tempoimprovvisativo. Riflettere sull’improvvisazione e soprattutto sull’area dove l’atto spontaneo simanifesta, ci conducono su una strada che comunque ha una sua tradizione, la quale in ultimo èsempre il qui e ora, la libertà creativa, il suono immediato. Quello che cerchiamo di rilevare,dall’analisi di ciò che in realtà vorrebbe esistere solo nel momento in cui si fa, è chel’improvvisazione non solo è un qui e ora, a volte un gesto riparatore, altre una necessità perliberare la mente dalle gabbie del “conosciuto”, ma, spesso, (soprattutto in musica e in quellemanifestazioni dove essa acquista una specializzazione) una vera e propria “visione del mondo”. 89 Èproprio analizzando il campo improvvisativo che compiamo un passo verso questa accezione. Ilcampo è la struttura dell’improvvisazione. Stabiliamo ora le corrispondenze fra i concetti rilevatiprecedentemente e Free Jazz. Abbiamo visto che le componenti fondamentali del campoimprovvisativo sono tre:

a) la corniceb) il limite esternoc) il luogo interno.

Alla cornice abbiamo attribuito la funzione di delimitare lo spazio occupatodall’improvvisazione in base alla composizione che le forze originarie dell’atto improvvisativoassumono. Dunque la cornice è risultante della composizione assunta da limite esterno e luogointerno. Il musicista ha uno spazio vuoto per la propria espressività che lotta contro il mondoesterno che lo limita, con forma e modello. È nella definizione di una cornice per la propriaimprovvisazione che l’autore sceglie lo spazio e i materiali. Il limite esterno sappiamo essere costituito da forma e modello, fattori che agiscono dall’esternoe premono delimitando lo spazio che il musicista cerca di ricavare per la propria improvvisazione.Ricordiamoci di aver sottolineato che forma e modello partecipano all’improvvisazione comeelementi strutturali, che ne delimitano lo spazio iniziale dall’esterno. In questa accezione essi, permaggior chiarezza, sono la forza contraria, conservativa, che si oppone alla libertà circoscrivendonei confini.Il luogo interno è lo spazio iniziale, è quello che abbiamo detto essere come un guscio vuoto, libero,in cui, tramite l’uno come atto primo e la necessità interiore come sua forza dinamica, prende avvioil processo improvvisativo, di natura essenzialmente temporale. Esso è delimitato dal limite esterno.

89 Osserviamo che nei campi in cui l’improvvisazione raggiunge gradi elevati di consapevolezza, come in quelloproposto o anche in altre forme artistiche, in cui il suo uso è massiccio, essa non sia unicamente un qualcosa che accadequi e ora, sebbene con tutte le sue implicazioni, ma piuttosto una scelta, un orientamento che privilegia il libero fluiredegli accadimenti piuttosto che un preciso indirizzamento verso un obbiettivo. D’altronde, come vedremo, la creativitàin un certo qual modo necessita di tale libertà, di uno spazio suo proprio. Questi non è solamente legato all’arte, mapotremmo dire alla vita culturale in genere. Questo atteggiamento “improvvisazionista” possiamo sovente trovarlonell’idea che ci prefiguriamo pensando al “riposo”. Il concetto di “riposo” esprime allora proprio l’allontanamentodall’obbiettivo e il ripristino di un naturalità coincidente con i nostri ritmi interni.

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§ 4. La cornice

Osserviamo come viene ricavata la cornice in Free Jazz: innanzi tutto la strumentazione, il doppioquartetto, assolutamente inusuale per una formazione jazzistica. Abbiamo un “tutto doppio”, un saxalto di Coleman a cui fa eco il clarinetto contrabbasso di Dolphy, la pocket trumpet di Cherry e latromba più conservativa di Hubbard, i due contrabbassisti, Haden e LaFaro e i due batteristi,Blackwell e Higgins. Nelle liner notes di Free Jazz Martin Williams dice a riguardo del doppioquartetto: “questa è la forma del brano”, esprimendo così la sua convinzione che la scelta deimateriali, dunque della orchestrazione, per questa improvvisazione sia in realtà l’improntadeterminante che Coleman ha voluto assegnare a Free Jazz. Ma la nostra analisi ci obbliga adandare più in profondità per ricavare come la scelta del doppio quartetto sia già una scelta di“libertà” in cui si esprime tutta la forza del titolo assegnato da Coleman a questa suaimprovvisazione. Abbiamo detto che la cornice è composta dallo spazio scelto dall’improvvisatore edai materiali che vengono usati per la performance. Ora, se ci soffermiamo a riflettere e, all’internodell’analisi proposta, soprattutto ad ascoltare ciò che accade durante l’esecuzione del brano,possiamo visualizzare la scelta di questa particolare orchestrazione e la disposizione nello spaziocome segue:

Fig. 11 CORNICE

Anche dal posizionamento nei canali stereofonici rileviamo la stessa impostazione: alla sinistrapossiamo ascoltare il quartetto di Coleman mentre alla destra abbiamo quello di Dolphy. Questastrategia adottata da Coleman accentua la qualità emozionale della composizione, ponendo in attouna dialettica fra gli strumentisti che si “fronteggiano” cercando di accentuare ed enfatizzare un

Registratori posizionati su “ on” ad libitum…

COLEMAN DOLPHY

CHERRY HUBBARD

LAFARO HADEN

HIGGINS BLACKWELL

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dialogo quasi umano, un faccia a faccia che durante l’improvvisazione richiama a un confrontodiretto ed immediato, a un chiamarsi e rispondersi. Questa dialettica all’interno di Free Jazz ciinteressa particolarmente: in prima istanza la sua spazializzazione rende particolarmente evidentecome la cornice sia in realtà l’unico costrutto all’interno del brano, come essa sia pensataconsapevolmente, a monte, proprio per favorire il processo improvvisativo e il continuo richiamoalla creatività e all’immaginazione dell’artista.

Il processo creativo, sappiamo, può essere anche sterile. Un’improvvisazione libera, come quellaproposta in Free Jazz sicuramente aveva la sua maggior difficoltà proprio nell’assenza di forme estrutture creanti un ordine ben definito e uno spazio specifico per ogni musicista. La libertà può perassurdo porci anche di fronte al dilemma del silenzio, all’attimo vuoto in cui l’immaginazione e lacreatività si spengono e in cui, in libere improvvisazioni come Free Jazz, non si hanno appoggi.L’accesso al mondo interno emozionale e la sua profusione espressionista da parte dell’artista nonsono “automatici”, si tratta di entrare in stratificazioni dell’essere che spesso trovano la loropossibilità di esistenza nel mondo solo ed unicamente attraverso performances artistiche e che,proprio per la loro particolare aderenza all’intimo “vero” dell’esecutore non sono così accessibili esicuramente non sempre disponibili.

L’impostazione del doppio quartetto e il suo modo di fronteggiarsi assumono all’interno dellacornice un carattere strutturale: per assurdo si potrebbe affermare che comunque una forma c’è, eche questa è rinvenibile proprio nella scelta dei materiali e nella loro spazializzazione. Questo“modo” è di reciproco aiuto e di continuo stimolo alle varie improvvisazioni che via via sisusseguono, come ad esempio nell’assolo di Hubbard, che si avvia timidamente e che, a seguito diun intenso lavoro di tessitura degli altri strumentisti s’infiamma verso 6:20. 90 Dunque questadialettica assunta con l’impostazione del doppio quartetto permette ai musicisti di sostenersireciprocamente durante le improvvisazioni, ma ha anche un’altra importante funzione: quella diessere una novità, una sperimentazione innovativa.

L’idea di libertà si manifesta forte proprio nella rottura con la tradizione: è difficile immaginareun doppio quartetto che suona contemporaneamente e oltre a tutto improvvisando. Questostratagemma evidenzia subito la particolarità di Free Jazz e il bisogno di differenziarsi da ciò che loprecede, ha un immediato e forte richiamo all’idea del nuovo e taglia con ciò che per Coleman harappresentato un limite e una chiusura, nonché, spesso e volentieri, un motivo d’emarginazione. Civengono ora in mente i capi orchestra che lo consideravano troppo stonato per suonare, e chiaddirittura lo pagava per non suonare. Ecco che allora il doppio quartetto è un tutto pieno propriocontro quella “visione” musicale, contro il conservatorismo e contro la forma standardizzata che iljazz aveva nuovamente assunto dopo la riforma del bepop e successivamente, soprattutto nella WestCoast, con il cool jazz.

È l’affermazione della propria identità che viene simboleggiata, nella libertà esecutiva enell’assunzione di una formazione inusitata creata appositamente per sostenere questa visione.Dunque il rappresentare la cornice con le sue contrapposizioni come forma del brano ci rendeun’idea specifica di come può essere pensata un’improvvisazione musicale o, se vogliamo, di comediventi rilevante il carattere di consapevolezza all’interno di quella stratificazione che abbiamo vistoprocedere da una gradazione in cui l’improvvisazione semplicemente “avviene”, a quella in cui visono delle specifiche decisioni. Nella cornice troviamo la scelta dei materiali, abbiamo un questo eun quello, una tavolozza di colori che pensiamo confacenti al nostro bisogno espressivo. Un doppioquartetto è una scelta che inevitabilmente conduce a sonorità particolari e ha in sé un’aggressivitàmaggiore, sviluppa maggior potenza. Di fatto, acquista immediatamente una valenza disorientante,caotica. Spesso ha una piega fastidiosa, basta avviare il brano per avvertire una forte sensazione dirigetto, sembra quasi un avviso, i primi sei secondi di Free Jazz si presentano totalmente econsapevolmente sovversivi, quasi urlassero: “non ascoltateci!” 90 I riferimenti al brano sono “cronometrici”, nel senso che per evidenziare le parti più rilevanti indicheremo i minuti e isecondi corrispondenti nel display del lettore compact disc.

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La definizione del campo improvvisativo e della cornice al suo interno è ciò che imprime il sensoe dona il significato al susseguente processo. È la scelta artistica, drastica ma non definitiva, è lapresa di posizione “ragionata”, il lato logico che fa sempre e comunque valere il suo peso perdialogare con l’altro. Certo così possiamo affermare che Coleman ha scelto la via emozionale, hapreferito l’espressività all’ordine. Ma dobbiamo prestare attenzione, tutte le ulteriori considerazioniestetiche che potremmo fare riguardo a Free Jazz si macchierebbero di un ascolto che, come sempreaccade, segue il gusto e cerca particolari e illuminanti significati anche dove non ci sono. In questasede, se cerchiamo di evitare il tranello “musicologico” e la forma descrittiva, dobbiamo ridurreall’osso ciò che abbiamo di fronte. L’operazione per capire cos’è il campo improvvisativo e lacornice a esso riferente è essenziale: osservare la scena al momento zero. Ridurre all’essenza ilpalco del teatrino con i suoi personaggi.

Lo zero è tutto ciò che precede la temporalità del processo improvvisativo, è logicamente lascena prima dell’uno. L’uno è il tempo che prende possesso del campo e che conseguentementeinizia il processo come improvvisazione; è qui che si avvia la particolare concezione temporale cheabbiamo chiamato tempo interno, o soggettivo, in cui entrano in gioco l’espressività e la creativitàdel musicista. Qui il vissuto comanda un tempo “altro”, soggettivizzato dalla fantasmatica delmusicista performante se stesso nella sua rabbia, nel suo dolore, nella sua gioia e passione; tuttoquesto non è logico, non è un “discorso” dai confini precisi e dettagliati ma piuttosto un flussoemozionale, l’emergere di ciò che solitamente proprio nel discorso non troverebbe spazio esignificato, un sogno liberato dal confine del ricordo e vivente nella veglia dell’ascoltatore, cheproprio come a un sogno deve badare, prestando attenzione a non scivolare nelle trappole delsignificato.

La cornice è un confine temporale che divide il tempo interno dal tempo esterno ed è rinvenibilenell’attimo zero; lo zero è tutto ciò che precede il flusso temporale, la scena che si dà primadell’uno. Nello zero possiamo vedere cosa l’improvvisatore ha scelto consapevolmente. Questaconsiderazione sull’esistenza di zero e uno ci fa riflettere: è qui che troviamo i due tempi, le dueparticolari accezioni già indagate all’inizio del nostro lavoro. Nello zero l’oggettività domina eimprime il suo marchio a ogni istante, il reale è stabile e conseguente: è la zona di confine del tempoesterno, gli ultimi attimi in cui è rinvenibile questa temporalità. Nel tempo esterno posso fare dellecontrattazioni, posso decidere e accordarmi con altri e partecipare alla messa in scena di unprogetto. Lo zero è in un qual certo modo il tempo esterno prima della sua trasfigurazione, porta consé il tempo oggettivo, quello del metronomo e ugualmente quello dell’orologio, per intenderci, dovegli uomini lottano per l’esistenza e dove Coleman a fatica cerca di costruire delle oasi di libertàespressiva. Il campo improvvisativo è la costruzione di un area strutturale in cui il tempo subisceuna spinta emozionale e una valorizzazione soggettiva; l’uno simboleggia proprio questamodificazione temporale, è una spinta qualitativa, esistenziale, che si appropria del campoimprovvisativo attraverso il darsi del flusso temporale interno del soggetto. La cornice delimitaquesto spazio iniziale, in cui è stato risucchiato il tempo oggettivo e dove non vi sono altro che imateriali scelti dall’improvvisatore; l’accuratezza con cui si sceglie il vuoto sta alle possibilitàespressive ed improvvisative del musicista. Risulta evidente che la cornice è un confine fra zero euno, fra due concezioni temporali. Ed è proprio osservando la scena al momento zero che rileviamola struttura consapevole, le scelte fatte e gli accordi presi: dopo vi sarà creazione istantanea, flussotemporale, per l’appunto, improvvisazione.

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Fig.12

La cornice separa le due concezioni temporali. Per capire la funzione strutturale del campoimprovvisativo noi dobbiamo osservare la scena quando essa si trova al momento zero, cioè primache l’uno segni l’avvio della nuova concezione temporale e dunque che il flusso temporale internodell’artista performante si impossessi del campo improvvisativo. Questo è simile nella musica“organizzata” di tradizione occidentale al momento in cui il direttore d’orchestra alza la bacchetta eguarda gli orchestrali, conta il tempo che sarà padrone dell’esecuzione musicale e dà avvio allacomposizione. Quel breve attimo prima che inizi l’esecuzione ci rende la scena che è stata, in uncerto qual modo, pensata dal compositore: possiamo così vedere lo spazio e i materiali scelti perquella composizione (l’orchestrazione, gli esecutori, ect.) e così intuire, prima che inizi la musica,se si tratta di un concerto per pianoforte e orchestra o di una sinfonia dell’epoca classica. Qui però,nel momento in cui il tempo musicale diventa padrone della scena, abbiamo un percorso costruitosulle note e una partitura che ci guida, e questa semplice considerazione non c’illumina certo sultipo di esecuzione che stiamo per ascoltare, (è presumibile che quando ci si avvia a teatro si sappiacosa si ascolterà) ma denota la differenza fra il tempo esterno nel suo ultimo istante, lo zero, e unanuova temporalità che ad esso si sostituisce, il tempo musicale. Dunque bisogna osservare ladifferenza fra le due temporalità e comprendere che una temporalità che possa dirsi iniziata hasempre una zona di confine che la separa da ciò che la precede. È questa zona che osserviamo, in unimprovvisazione, per ricavare da essa ciò che strutturalmente è stato predisposto dall’artista, perché,al contrario di ciò che avviene se noi stessimo per ascoltare una sinfonia classica, in cui l’attocreativo precede l’esecuzione musicale, (la creazione musicale è già data ed è esistente, scritta, su diuna partitura) nell’improvvisazione i due momenti si fondono ed essa trae la sua specificità proprioda quel flusso temporale fondatosi sull’affrancamento da ogni determinazione aprioristica,necessario per la creazione sull’estro del momento. La cornice separa le due temporalità descritte, lo

Tempo esterno

Cornice zero

uno

Tempo interno

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zero in un atto improvvisativo è un angolo di visuale privilegiato che ci permette di rinvenirel’unico costrutto predisposto dall’artista: lo spazio e i materiali scelti per la performance. Simile è anche il tempo del sogno per ciò che riguarda la demarcazione di un confine tra tempointerno ed esterno. Quando dormiamo la percezione del tempo cessa e nel sogno un altro mondoappare, in esso non c’è il ticchettio preciso dell’orologio e i contorni della parola tempo sonoindefiniti, un’attimo o dieci ore possono essere la stessa cosa proprio perché la quantizzazione perdedi significato e tutto il mondo è nostro: nel sogno siamo soli e il tempo è un vertice personale chenon ammette intrusioni. Solo ciò che abbiamo impostato prima, nello zero, può riportarci conprecisione nella realtà, con l’urlo secco della sveglia che ci dice che ora è. La cornice nel campoimprovvisativo è una linea di demarcazione fra due temporalità che se osservata allo zero consentelo svelamento della struttura e la definizione di un’area specifica. Se vogliamo cercare una strutturain Free Jazz dobbiamo guardare la scena al momento zero, al prima, e allora vediamo emergere ilcampo improvvisativo con il doppio quartetto che si fronteggia, i registratori lasciati scorrere a ruotalibera; percepiamo il modulo emozionale e il tema della libertà, gli strumenti come materiali prontia colorare il quadro e soprattutto l’idea di un tempo fluido, personale. Questi materiali nello spazio del campo, più pochi accordi presi da Coleman con gli altrimusicisti come gli “unisoni armonici” 91 e i brevi “temi” che delimitano e lanciano gli assolo dei varistrumentisti sono presenti allo zero. Qui siamo nel prima, nell’attimo che precede la lungaimprovvisazione e qui troviamo una struttura, per quanto essenziale possa essere, in Free Jazz.Questa struttura dà un colore precipuo al brano, partecipa in maniera sostanziale all’evolversi delleidee creative e in potenza contiene i germogli emozionali che daranno vita alle singoleimprovvisazioni. Questo ci fa affermare che il campo improvvisativo è la strutturadell’improvvisazione. La cornice è la linea di demarcazione fra lo zero e l’uno.

§ 5. Il limite esterno

Sappiamo che il limite esterno è il mondo come forma e modello che agisce contro l’istanza dilibertà dell’improvvisatore. Abbiamo dunque due concetti, forma e modello, in riferimento al nostro improvvisatore, Coleman. Quello che riassumiamocome limite esterno è un’opposizione “sentita” dall’improvvisatore come una forza conformista, cheattraverso il mantenimento di una forma consolidatasi nel tempo e all’interno di una tradizione miraa conservarne le strutture fondamentali. Possiamo dire che il limite esterno assume tutte le caratteristiche inerenti alla nozione di“paradigma” e che, attraverso modelli appositamente predisposti trasmette il sapere nozionistico alui pertinente. Non che ci sia qualcosa di male nel limite esterno se non questo suo carattere difissità che, soprattutto in ambiti accademici, sembra voler fare dell’ortodossia e dell’aderenzacompleta ai modelli proposti la nota di maggior eccellenza. Spesso questo porta a unasolidificazione delle strutture della forma fino a eliminare come impure tutte le possibili variazioni emodificazioni, assumendo un tono dogmatico, categorico ed altero. Ci riesce bene proporrel’esempio dell’attuale sistema tonale come paradigma inossidabile all’interno della comunità deimusicisti a partire dal secolo ventesimo. Molti sono stati i musicisti, anche in ambito accademico, a partire per esempio da Varèse oCage92, che hanno cercato vie d’uscita da un modello che sembra limitare le possibilità sonore e che 91 Gli unisoni armonici sono, come si può ascoltare sin dall’inizio di Free Jazz (precisamente da 7’’a 20’’) una speciedi accordatura fra i vari musicisti che esprime il carattere emozionale di una “sintonia”. Coleman ricorda che ogni fiatoha la propria nota da suonare e che debbono fare in modo che il risultato non sia tanto un’armonia ma piuttosto un“unisono”…92 Dice Edgard Varèse: “Dimenticate il pianoforte! Abbiamo bisogno di un approccio alla musica che sia nuovo e piùsemplice. Lo sviluppo dell’arte è stato frenato da una serie di restrizioni tecniche che oggi non ha più senso. Non sideve dimenticare che la divisione dell’ottava in dodici semitoni è puramente arbitraria: non c’è ragione di continuare atollerare una simile limitazione. Così come il pittore riesce ad ottenere diverse intensità e diverse gradazioni

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si pone come musica per tutti e a tutti i livelli. Allargare questa concezione al rumore, o al purosilenzio ambientale, usare l’ I-Ching93 e dunque impiegare il caso all’interno di un’opera che siprefigura come indeterminata sono comunque operazioni, atti che ribadiscono il limite di una formae la necessità di evolverla. È opinione comune oggi l’immediata identificazione della musica con lesette note della scala temperata, senza peraltro domandarsi né come ci siamo arrivati, né se esistanomusiche altre, ossia musiche che “suonino” al di fuori di quelle sette note. Per Ornette Coleman il limite esterno era rappresentato dalla forma e dalla tradizione del jazzconsolidatasi al momento della registrazione di Free Jazz. Così è anche per noi. Potremmo chiedercie indagare, come ad esempio hanno fatto Carles e Comolli,94 sulle ragioni ultime che hanno portatotanti musicisti jazz a cercare una rottura con la tradizione proprio nel free, e di lì risalire attraversoun visione forse più sociologica che non musicologica ai problemi sociali dei neri americani, comein parte abbiamo esposto all’inizio del precedente capitolo, ma quest’angolo di lettura sarebbedepistante per la nostra indagine e ci porterebbe inevitabilmente molto lontano dai problemi inerentiall’essenza dell’improvvisazione. Abbiamo tracciato un’asciutta biografia di Coleman, perevidenziare come il vissuto reale dell’artista sia sempre e comunque determinante; questo ci haaiutato a comprendere la via emozionale scelta da Ornette. Non vogliamo però cadere nei tranellisociologici massificando il lavoro che abbiamo scelto di esaminare, Free Jazz, dunque ciproponiamo di rimanere nei limiti che sappiamo essere quelli delle categorie individuate. Il limite esterno è forma e modello, la forma in questo contesto abbiamo detto essere ilparadigma dominate all’interno di una tradizione, il modello la sua rappresentazione tipica. Noi

cromatiche, il musicista può ottenere diverse vibrazioni sonore senza conformarsi necessariamente al tradizionale tonoe semitono ma variando, in sostanza, da una vibrazione all’altra. Se vogliamo sfruttare a fondo l’arte dei suonidobbiamo andare alla ricerca di mezzi espressivi totalmente nuovi. Senz’altro, su questa strada, dovremmo dimenticareil pianoforte, con tutte le restrizioni tecniche che esso ci impone, senza che questa debba essere considerata unaproposta iconoclasta. Se la mettiamo a confronto con le altre arti, la musica risulta estremamente antiquata, nei suoimezzi espressivi. Siamo in attesa di un nuovo Guido d’Arezzo che faccia fare alla musica un passo avanti. Èinteressante osservare, comunque, che sotto un profilo puramente tecnico il problema è già ben impostato.” E. Varèse,Il suono organizzato, op. cit., pgg. 51-52. Così anche John Cage, altro grande innovatore del secolo scorso, si esprime a riguardo del suo brano silenzioso4’33”, dove si sottolinea il bisogno di liberare la musica dall’eccessiva invadenza dell’intenzionalità e delle preferenzeindividuali: “Penso che forse il mio pezzo migliore, o almeno quello che preferisco, sia 4’33”, il pezzo silenzioso. Èformato da tre movimenti, e in nessuno di essi vi sono suoni. Ho voluto liberare il mio lavoro dalle mie simpatie eantipatie, perché ritengo che la musica dovrebbe essere libera dai sentimenti e dalle idee del compositore, ho sentito esperato di aver condotto altre persone a sentire che i suoni dell’ambiente in cui vivono costituiscono una musica che èpiù interessante della musica che potrebbero ascoltare in una sala da concerto. (…) Sin dagli anni quaranta pensai allamusica come a un mezzo per cambiare la mente (…). Presi a considerare l’arte non come qualcosa che consistesse inuna comunicazione dall’artista al pubblico, ma piuttosto come un’attività dei suoni nella quale l’artista trovasse unmodo per lasciare che i suoni fossero se stessi.(…) Il giudizio di valore, quando viene formulato, non esiste al di fuoridella mente, bensì soltanto all’interno della mente che lo produce. Quando diciamo: questo è buono e questo è cattivo,decidiamo di eliminare certe cose della nostra esperienza. Suzuki ci diceva che lo zen ci chiede di attenuare questogenere di attività dell’ego e di accrescere l’attività che consente il resto della creazione.(…) Decisi che avrei raggiuntoquesto scopo con un mezzo tanto rigoroso quanto lo starsene seduti a gambe incrociate, ossia l’uso delle chanceoperations, e lo spostamento della mia responsabilità dal fare delle scelte al porre delle domande”. Michele Porzio,Metafisica del silenzio - John Cage, l’Oriente e la nuova musica , Auditorium, Milano 1995, pag. 112.

93 L’ I-CHING, o Libro dei mutamenti, è un antico testo cinese di divinazione. Cage afferma che l’azione sperimentale èquella il cui risultato è imprevedibile, di qui l’uso dell’I-Ching come operazione casuale per introdurrel’indeterminazione, (vedi Music of Changes, 1951 o Music for piano, 1952-56).94 Significativa a riguardo è la citazione di Archie Sheep con cui Carles e Comolli iniziano il primo capitolo del lorotesto: “Il jazz è uno dei più significativi contributi sociali ed estetici dell’America. Certi l’accettano per ciò che è: uncontributo significativo, profondo, per l’America in quanto è contro la guerra; contro quella del Vietnam; perché è perCuba, è per la liberazione di tutti i popoli. È questa la natura del jazz. Senza andare a cercare molto lontano. Perché?Perché il jazz è una musica essa stessa nata dall’oppressione, è nata dall’asservimento del mio popolo.” P. Carles J.L.Comolli, op. cit., pag.13.

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possiamo rilevare qual era il limite esterno nel momento zero, cioè possiamo fare una mappa cheindividui cosa si trovava al di fuori della cornice come forma e modello che si opponeva alla libertàcercata dal doppio quartetto, in un certo qual modo le “anomalie” rispetto al paradigma:

Fig. 13

Tradizione = STANDARD

Brano un quartetto

Strumento convenzionale Ritmica stabile

Se osserviamo questa semplice figura, possiamo notare come ciò che è esterno alla cornice siopponga all’istanza di libertà rappresentata da ciò che invece nella cornice è contenuto. Innanzi tutto la forma dello standard di jazz95 come modello per le esecuzioni e le varieinterpretazioni, che codifica attraverso una struttura specifica tema/chorus improvvisativi

95 Vediamo come il pezzo I Got Rhythm di George Gershwin sia la base di una delle progressioni diaccordi più popolari dell'era bebop. Viene generalmente soprannominata "rhythm changes". Suirhythm changes si possono applicare numerose modifiche. Molti dei pezzi basati su questaprogressione sono suonati in tonalità di Si bemolle, e a tempi molto veloci, spesso sopra ai 200battiti al minuto. Questi brani hanno una struttura a 32 battute di tipo A A B A basata sul seguenteschema:

A || Bbmaj7 G7 | Cm7 F7 | Bbmaj7 G7 | Cm7 F7 | | Fm7 Bb7 | Ebmaj7 Ab7 | Dm7 G7 | Cm7 F7 ||

A || Bbmaj7 G7 | Cm7 F7 | Bbmaj7 G7 | Cm7 F7 | | Fm7 Bb7 | Ebmaj7 Ab7 | Cm7 F7 | Bbmaj7 ||

B || Am7 | D7 | Dm7 | G7 | | Gm7 | C7 | Cm7 | F7 ||

A || Bbmaj7 G7 | Cm7 F7 | Bbmaj7 G7 | Cm7 F7 | | Fm7 Bb7 | Ebmaj7 Ab7 | Cm7 F7 | Bbmaj7 ||

Riportiamo questo schema come esempio di una classica struttura accordale su cui si inserivano levarie improvvisazioni dei jazzman. Questo può renderci un’idea di cosa Coleman avvertiva comelimitante per il suo particolare modo di esprimersi, della forma e del modello che danno luogo allimite esterno. La dilatazione che una simile struttura subirà in Free Jazz è massima, rimanendo inultimo solo l’idea dello spazio che essa rappresenta.

NO-standardUn brano ad libitumDue quartetti contemporaneamenteUna sax di plasticaUna pocket trumpetUn clarinetto contrabbassoRitmica “doppia”

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(solitamente AABA) una forma, è avvertita come limitante e obsoleta da Ornette. Interessante ènotare però come qui s’innesti una dialettica fra ciò che ha rappresentato una regola e ciò che tendea superarla. Per Ornette in Free Jazz l’improvvisazione deve essere libera, deve lasciare spazioall’espressività e alla creatività del musicista: la regola, il modello formale va superato. Ma ciò chetende a superare la regola stessa può sembrare la stessa regola estremamente semplificata.Affrancandosi dalla struttura si è costruita la possibilità di una maggiore libertà all’interno dellacornice, ma è proprio nella dialettica contro la regola che dall’esterno preme che il “nuovo” trova ilsuo limite.Spieghiamoci: in Free Jazz lo schema del brano di jazz così come usualmente era costruito “salta” ein sua vece prende corpo il free. Ma ascoltando la composizione avvertiamo comunque, anche se ladilatazione è massima, temi e “giri” d’improvvisazione come in uno standard che si susseguonoall’interno del collettivo. L’unisono armonico 96 ha la funzione di scandire i momenti improvvisativiche assegnano di volta in volta il “chorus” a un musicista. Tutti hanno il loro spazio, che mediamente copre i cinque minuti per i fiati, escluso Ornette cheoccupa uno spazio doppio, di dieci minuti circa, lanciato da un vero e proprio tema. Classicamente,come avviene in uno standard, gli assolo della ritmica si trovano alla fine della composizione, primai due contrabbassisti e poi i percussionisti. Alle percussioni è stato assegnato uno spazio più breve,di soli tre minuti circa per ciascuna. Ciò che rileviamo è che Free Jazz, pur se libero da unacostruzione armonica e dalla classica forma AABA propria dello standard, ne ricalca in ultimo unaspecie di “apertura”. L’ossatura ideale, uno scheletro spoglio e asciutto, è stato dunque mantenuto,così com’è avvertibile anche nel tempo della composizione, che non è totalmente rotto ediscontinuo, ma che piuttosto presenta un doppio incrocio, il quartetto di Dolphy batte un tempo e laritmica del quartetto di Coleman lo “moltiplica”, lo esegue a una velocità doppia, ma comunquesempre in sincronia. Qui troviamo la funzione ideale del limite esterno. Forma e modellopartecipano sempre e comunque in via conservativa, contrappongono una resistenza al nuovo che siriassume nell’assegnazione di uno spazio che ha il proprio limite in ciò che della forma e delmodello non è al momento zero eliminabile. La mediazione in Free Jazz parte da particolarità97 che nello schema abbiamo visto essere esternealla cornice:standard come paradigma,concetto di brano,strumento convenzionale,il quartetto come formazione tipica,ritmica stabile. Ora possiamo ricavare cosa ad esse si sostituisce acquistando maggior libertà rispetto al già datocome forma e modello all’interno del campo improvvisativo. In luogo dello standard comeparadigma abbiamo un apertura formale che svuota la struttura AABA dai classici giri accordali eche ha unicamente la funzione di ripartire le sezioni d’improvvisazione; rispetto al brano giàformato, ossia con un suo tempo d’esecuzione definito, vi sono due registratori che lavorano “adlibitum”e dunque una dilatazione temporale che contiene tutto ciò che vi poteva stare in quello

96 L’unisono armonico è una breve parte musicale di pochi secondi in cui i fiati eseguono delle note lunghe, chevagamente assomiglia ad una accordatura fra i vari strumenti, dove Coleman intona per primo e gli altri fiati seguono.Voluta da Coleman all’inizio di ogni singola improvvisazione ha per l’appunto il compito di demarcare le varie aree diassolo. Il nome, “unisono armonico”, è coniato dallo stesso Coleman in riferimento alle sue convinzioni teoriche“armolodiche”, ossia una concezione molto personale e mai realmente definita della musica su cui l’artista basa le sueperformance.97 Queste potrebbero essere molte di più, essendo compresi nel limite esterno tutto ciò che si contrappone all’istanza dilibertà dell’improvvisatore (ad esempio il sistema tonale). L’importante qui non è definire la quantità all’interno dellanozione, ma il modo in cui esso opera. Questi cinque esempi sono semplici e chiari e ci consentono di delineare come illimite esterno agisce.

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spazio, delimitato materialmente dai 35/40 minuti di un disco in vinile; anche per gli strumenticlassici abbiamo piccole modificazioni, Ornette suona in uno strano sassofono bianco di plastica eDon Cherry con una pocket trumpet. La formazione poi è quell’inusitato doppio quartetto“dialettico” di cui abbiamo già parlato, che ha per compito l’improvvisazione collettiva. Diconseguenza anche la ritmica è stravolta: è possibile ascoltare per tutta la composizione il pulsare didue tempi differenti, ma sempre collegati da un rapporto di 1/2. Possiamo dunque ricavare questosemplice schema:

limite esterno Free Jazz

Standard come paradigma Apertura formale

Concetto di brano Dilatazione temporale, due registratori“ad libitum”

Strumenti convenzionali Sax di plastica, pocket trumpet

Un quartetto Doppio quartetto

Ritmica stabile Incrocio temporale

Sotto la colonna del limite esterno troviamo le manifestazioni della forma mentre in Free Jazz viè ciò che a quelle manifestazioni si oppone. Il primo è al di fuori della cornice, il secondoall’interno. Vediamo quindi dispiegate nel campo improvvisativo coppie di forze/termini che sioppongono in via dialettica e che assumono la funzione di premesse, essendo così concepibili almomento zero, dunque l’istante prima dell’avvio del processo temporale e dell’improvvisazione difatto. Il fare, la prassi improvvisativa e musicale dopo l’uno, userà questi concetti per l’esecuzione ela ricerca, alimentata dalla necessità interiore dell’essere performante se stesso nel campo. Bisognasempre considerare come queste due temporalità, lo zero e l’uno, appartengano l’una al tempoesterno e l’altra al tempo improvvisativo. Lo zero ci permette di scrutare la disposizione e le sceltedell’improvvisatore, ci dà questo privilegio non perché il tempo in senso proprio arresti il suo corsorisucchiando il divenire e gli infiniti attimi che incessantemente si susseguono, ma perché segna unconfine, un contorno preciso e stabile fra il tempo oggettivo e il tempo improvvisativo. La musica notoriamente è arte temporale, si manifesta nel tempo mostrando ciò che il gestoproduce, creando onde che similmente a tutti gli stati dell’acqua fluiscono e scorrono come il fiumeeracliteo. Ma essa è tempo nel tempo, è una costruzione che si sovrappone al tempo oggettivato e necrea uno nuovo che non godrà di un divenire continuo, per essere invece racchiusa tra un inizio euna fine. L’essere del musicista, come quello dell’ascoltatore, si misura sempre con questo confine,con l’inizio e con la fine e nella musica sa che nel dopo non è rinvenibile più nulla se non il ricordo:non vi sarà una tela da osservare o una fusione, un monoblocco di bronzo da percorrere ruvidamentecon le mani, ma solo l’eco di suoni. L’improvvisazione nella musica è l’esperienza di tempo altroenfatizzata, perché creata istantaneamente. L’uno è la soglia che ci ribalta in questa nuovatemporalità, in questo nuovo stato dell’essere che va trasformando e mutando attraverso il flussointerno del musicista performante il tempo comune, creando nuove suggestioni: un tempo nuovo,fortemente soggettivo ed emozionale che porta il marchio del mio. Qui l’artista performante dice: “questo è mio!” . In questa trasformazione temporale dal “condiviso” al “mio” vediamo tutte legradazioni della necessità interiore esprimersi in un – IO SONO! – così come lo percepiamo

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chiaramente dall’intenzionalità di Coleman e più semplicemente dalla sua biografia. Ma percompiere questo salto temporale è necessario un tempo nel tempo: nella consapevolezza dellacreazione è possibile rinvenire il solco che divide il prima e il dopo, lo zero e l’uno. Questo confineesiste in tutto ciò che l’arte progetta e diventa massiccio e reale nella prassi musicale, tanto piùnell’improvvisazione. Il limite esterno è il paradigma in cui le forze conservative mantengono la forma consolidatasulla tradizione ed esistente innanzi tutto e perlopiù nel tempo zero. Così diventa chiaro che rilevarecosa c’è nel campo improvvisativo è come guardare il confine tra la costa e il mare: esso è bendelineato, sulla terra abbiamo le nostre cose, le certezze e le costruzioni fatte, vi poggiamosaldamente e di lì possiamo osservare il mare. Nel mare invece dobbiamo buttarci, per esplorare econoscere: ascoltando l’inizio Free Jazz sembra proprio che Coleman si sia lanciato senza alcunaesitazione.

§ 6. Il luogo interno

Ultimo elemento del campo, il luogo interno è necessariamente l’altra faccia del limite esterno.Questo dualismo è già stato in parte esaminato descrivendo il limite esterno; il luogo interno è comeun guscio vuoto, è lo spazio che l’improvvisatore crea sotto la spinta della necessità interiore e dovel’uno darà l’avvio al processo improvvisativo contrapponendosi alle forze conservative. Peresaminare cosa si riferisce a questa categoria in Free Jazz dobbiamo eseguire le stesse operazionifatte per le due categorie precedenti, cornice e limite esterno e dunque tornare sempre a quellatemporalità oggettiva, lo zero. Osserviamo la scena cercando l’essenzialità e tenendo ben presenteche il luogo interno è la sede dinamica del processo improvvisativo: qui troviamo la necessitàinteriore come spinta pulsionale verso la libertà. Questa però è presente ma inattiva, fino a che l’unonon darà il via alla performance. Dunque all’interno del guscio essa è ora contenuta ma in potenza,mentre gli spazi acquisiti nella lotta col limite esterno sono rinvenibili nelle scelte in parte giàesaminate e che ora riproponiamo, ma viste dall’interno:apertura formale,dilatazione temporale - due registratori “ ad libitum”,sax di plastica – pocket trumpet,doppio quartetto,incrocio temporale. Abbiamo già rilevato che questi cinque particolarità non esauriscono tutto ciò che l’istanza dilibertà chiede per potersi esprimere, e che essi fungono solo da “portavoce”. Ciò che sta alla base diqueste scelte è l’istanza di libertà che l’improvvisatore sempre chiede e che Coleman ha semprecercato nelle sue composizioni. Nelle note di copertina del primo disco Something Else!!!! TheMusic of Ornette Coleman, la parola freedom appare già carica di significati:

“ Se io non lego agli accordi schemi armonici già pronti, il musicista che in quel momento hal’idea migliore può scegliere una soluzione propria, uscendo così da un cliché abituale eproponendo una direzione migliore. Io mi fido e gli vado dietro. Anche il batterista puòcontribuire a cambiare direzione, perché può modificare le frasi dando loro una strutturaritmica diversa, ad esempio, aumentando così la mia libertà di suonare”. La libertà, è questo che cerca Ornette Coleman: “ penso che un giorno la musica sarà moltopiù libera. Allora lo schema armonico di un brano sarà dimenticato e il brano stesso sarà ilproprio schema, e non saremo costretti a forme convenzionali. La creazione della musica ènaturale come l’aria che respiriamo. Credo che la musica sia una cosa veramente libera, e lapuoi fare in qualunque modo ti faccia piacere”. 98

98 Michele Mannucci ,op. cit., pag. 22.

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Il tema della libertà risalta spontaneo senza chiederci di giustificarne ulteriormente l’esistenza.Preoccupiamoci invece di quanto Coleman afferma sostenendo che il brano stesso sarà il proprioschema, e non saremo costretti a forme convenzionali. Qui è la contrapposizione fra l’istanza dilibertà e il limite esterno. La forma convenzionale costringe il musicista ad adottare dei modelli,degli schemi che lo vincolano a percorsi obbligati che sono vissuti come restrittivi. Possiamocontrapporre, nel pensare a una proposizione come non saremo costretti a forme convenzionali dueesemplificazioni di modi d’essere all’interno della comunità dei musicisti: l’Aderente el’Improvvisatore. L’Aderente è cresciuto con una prospettiva musicale formatasi sulla forma e sul modello; hastudiato le regole in modo ortodosso, ha faticato ore e ore sullo strumento per portare a compimentogli esercizi che gli permettono di avere una “professionalità”. E’ nato all’interno di una struttura chenon ha mai pensato di modificare ma, piuttosto, di difendere e perfezionare, secondo il paradigmadominante. Ha costruito un “ se” facendo in modo che vi sia il minimo scarto ammissibile fra lapropria musicalità e quella ammessa dalla comunità, cercando di diventare un perfetto interprete,secondo i modi e le forme canoniche. Lui cerca di aderire senza strappi alla forma, è conservatore dinatura e spesso ridicolizza l’ingenuo tentativo dell’Improvvisatore di sovvertire o rinnovare leregole esistenti. Ormai a suoagio su strutture e modelli riconosciuti, consapevole del fatto che il suo sapere è quello accettato(ciò che perlopiù si trova all’interno della tonalità) e che questo gli facilita la sua possibilità diesistenza come musicista professionista, continuerà la sua ricerca all’interno del paradigma.L’Aderente è il portatore della conoscenza e del sapere musicale letterato ma, proprio per questo,poco incline a sue possibili modificazioni. L’Improvvisatore gioca sull’altra sponda del fiume. Ornette Coleman e con lui tutti i musicistiche hanno partecipato al farsi del jazz, alla sua crescita e rinnovamento rientrano in questacategoria. Ma, così come loro, tutti i musicisti che insofferenti alle regole hanno comunque provatoa formulare sostanziali modificazioni all’interno di questa comunità, muovono dal desiderio dirinnovamento. L’Improvvisatore ha però in più il gusto per l’istante, il senso per l’indeterminato. Ciò chechiede e che noi troviamo nel luogo interno è la possibilità di essere libero non solo dalle regole,che abbiamo visto dilatarsi ma comunque permanere, ma anche e soprattutto dal tempo degli altri,dal tempo comune, dalla costruzione oggettiva. Visitando il sito Internet della Harmolodic neigiorni del settantesimo compleanno di Coleman si leggeva : “Non ho mai cercato di suonare lamusica del mio tempo. Ho sempre cercato di pormi fuori dal tempo”.99

Ora, tenendo ben presente come il tema della libertà si sostanzializzi all’interno della praticaimprovvisativa, possiamo capire come il punto da cui siamo partiti, dunque la forma convenzionalecitata in precedenza da Coleman, sia qualcosa da cui ci si deve affrancare, per dar luogo ad una sortadi naturalità musicale. Questo Coleman lo fa in Free Jazz sostituendo la forma convenzionale conuna apertura che come abbiamo visto, in base alle sue convinzioni armolodiche, serve proprio acreare quegli spazi che saranno usati per le varie improvvisazioni. Dunque l’apertura formale èl’eliminazione di schemi accordali e usa l’unisono armonico come traccia ricorrente per assegnarespazi improvvisativi; ma è anche e soprattutto ciò che Coleman contrappone alla formaconvenzionale dall’interno, lo “stratagemma” che usa per creare lo spazio necessario per dar vitaalle performance dei vari musicisti. Lo stesso uso dei registratori “aperti”come idea di “brano”, lasciando che il tutto scorra inmaniera spontanea, senza limitazioni, se non quelle fisiche legate alla durata del disco, richiama aun uso del tempo come flusso ininterrotto e dunque più personale, interno. Non vi è l’idea formale

99 All’indirizzo internet http://www.harmolodich.com troviamo il sito ufficiale di Ornette Coleman. Qui è possibiletrovare delle indicazioni sulla “harmolodic philosophy”, personalissima visione musicale del musicista americano. Inappendice ne riportiamo un breve estratto.

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del brano e una sua costruzione strutturale che ne codifichi i tempi ed i momenti più significativi,ma piuttosto il contrario, lo sforzo per mantenere sempre viva l’improvvisazione slegando il piùpossibile la musica dalle regole e dalle convenzioni, in un certo senso destrutturando. A riguardocitiamo dal libro di Mannucci un episodio accaduto il primo luglio del 1997, non molto tempo fa:

“ Parigi (Cité de la Musique), 1 luglio: al pianoforte Joachim Kuhn, al contralto (alla tromba,al violino) Ornette Coleman. Alla fine di un pezzo, Ornette si volta verso le quinte. Ne esce unuomo dai capelli bianchi, in sala qualcuno riconosce Jacques Derrida. Egli si dirige verso laparte anteriore della scena dove sembrano aspettarlo un microfono e un leggio: «Cosasuccede? (e voltandosi verso il sassofonista) What’s happening? What’s going to happen,Ornette, now, right now? (poi verso il pubblico) cosa mi succede, qui, adesso, con OrnetteColeman?…» quel che succede è, dal fondo della sala, un misto di fischi, urla e insulti chenon aspetteranno né ascolteranno il controcanto del sax. Derrida accelera, abbrevia, poiscompare. Spazio alla musica, e solo alla musica. Ma il musicista e il filosofo, suo invitato,cosa avevano cercato di dire? Coleman: «Conoscevo in particolare le sue ricerche sulla decostruzione. Ma non l’avevoinvitato per discutere un argomento preciso, volevo che potesse far condividere ciò chedesiderava…per me comunicare attraverso l’arte, la cultura, la tecnologia ecc., è un mezzo perrendere la vita più facile alle persone che non hanno accesso a certe cose, per mancanza disoldi o altro. Non ho mai pensato in termini di classe ma semmai di territori, e questa nuovacomunicazione lega tutti questi territori, al di là delle comunicazioni a cui siamo abituati». Derrida: «Conoscevo l’importanza del suo lavoro, un po’ del suo percorso…per certi versinoi non abbiamo niente in comune, apparteniamo a due spazi culturali differenti. Ciònonostante, credo alla verità di una certa necessità di questo incontro, che da una parte è deltutto artificiale, aleatorio, e dall’altra non del tutto privo di significato… Dai discorsi confusi,dai tratti grossolani della mia ombra che ha percepito, ha sentito che quello che facevorappresentava una certa marginalità, rottura, che noi avevamo delle cose da condividere, ecredo che sia vero, malgrado la distanza infinita… ho preparato dunque un testo, difficile dacomporre: era necessario che mi rivolgessi a lui, che non capisce il francese, e quello cheavrebbe contato per lui era il mio tono, e lui avrebbe risposto a quel tono. Mi ha quindiguidato l’indirizzarmi simultaneamente a lui e al pubblico, su un certo tono, un certo ritmo,che gli avrebbe permesso di rispondermi, sia di suonare contemporaneamente a me. Avevocercato di organizzare un piccolo testo teatrale, in inglese e in francese, con una tensionesospesa che avrebbe approdato a sua madre – nel corso della nostra conversazione, mi avevacolpito questa frase di sua madre: ‘tu vuoi essere pagato per la tua anima’. Oltre ai segni ditono, di ritmo, al fatto che vi fossero più voci, molti elementi pre-musicali, volevo abbordare,annodare a un modo mio un certo numero di temi da analizzare: l’improvvisazione, temipolitici, come il suo rapporto con il mercato, partendo da ciò che mi aveva detto»” . 100

Questo strano incontro tra filosofia e improvvisazione “ malgrado la distanza infinita” sembravoler anche soffermarsi sul fatto che, come Derrida ricorda, “ avevamo delle cose da condividere” eche queste forse si trovino proprio in un comune sentimento di “ rottura”. Che dunque la formastessa di un brano travalichi quello che la tradizione ha sempre presentato come contenitore ideale,che vi sia una destrutturazione della forma e del modello, che come residuo rimanga di essi ciò chenon era eliminabile, risulta evidente dall’esame del campo improvvisativo. Questa parentesi ci poneil problema e nel contempo ci dà modo di osservare come Ornette Coleman in Free Jazz lo risolve:con i due registratori lasciati su “on”, liberi di catturare qualsiasi cosa accada, senza limitiprestabiliti se non quelli della quantità di musica che un vinile poteva allora contenere. L’idea è 100 M. Mannucci, op. cit., pag. 138.

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quella del superamento del concetto di brano per un’apertura al continuo flusso musicale,dall’interno verso l’esterno. In questo senso il luogo interno è lo spazio che ospita l’inizio di questanuova libera temporalità, che attraverso l’uno avvierà la prassi improvvisativa. Così anche il sax di plastica bianca usato da Coleman ha una valenza tutta propria. Innanzi tuttoè possibile sentire come la voce di questo strumento sia più singolarmente “umana” , come riesca aconnotarsi bene nelle idee colemaniane di un dialogo fra gli strumenti come se fossero persone cheridono, scherzano e piangono, in un continuo gioco di rimando. Ma questo sax bianco esprimecome Coleman sia spinto da un estremo desiderio di originalità, da una ricerca che anche quipossiamo ben dire vada nella direzione che si contrappone assolutamente alla forma e al modello.Spesso l’imitazione la fa da padrona nei musicisti, si cerca il più possibile di suonare come i modellidel momento. Schiere di giovani apprendisti passano ore e ore per riuscire a imitare la frase di untale strumentista, ascoltano tutto ciò che da li viene proposto con totale ammirazione e in devozioneassoluta, e il termine Maestro, che in musica ha una sua valenza ben specifica, racchiude il senso diqueste affermazioni. La spersonalizzazione in luogo dell’imitazione, una strana forma di ortodossia religiosa sidiffonde intorno a dei “modi” di suonare o “toccare” uno strumento musicale. Come tenerlo,l’impostazione, le singole particolarità che compongono ogni specifico strumento musicale e la suatecnica vengono idealizzate in nome dei maestri di quegli stessi “oggetti”. Feticismo? Sicuramenteil rapporto musicista/strumento è un nodo freudiano in cui molto Es trova calda dimora. Ma Coleman non ha un maestro. Afferma subito il suo desiderio di libertà anche in ciò che saràla sua voce nel mondo: il sax bianco di plastica ha l’originalità necessaria per farsi portatore ebandiera della sua tormentata vicenda. Anche qui Coleman afferma fortemente un “io sono”: iosono questo suono diverso da tutti, e la mia voce non sarà un imitazione o un modellarsi suglistereotipi forniti dalla tradizione ma bensì un suono umanizzato, libero ed emozionale. Anche quidunque resistenza al limite esterno come forma e modello e ritrovamento nel luogo interno di unospazio per l’originalità. Così anche l’analisi del doppio quartetto esaminata all’interno del campo improvvisativo econsiderata dalla prospettiva del luogo interno si fa portatrice delle stesse istanze di libertà eoriginalità che il sax bianco di plastica esprime, solo con maggior risonanza. È un suono diversoquello del doppio quartetto, un’esperimento mai provato che si discosta profondamente dallatradizione; è un’originalità in grande dall’impatto immediato e disorientante, volutamente eccessiva,difficile da ascoltare. Lo spazio cercato al momento zero è quello che deve necessariamente contenere questeanomalie, questi suoni liberi che non propongono una piacevolezza e un senso estetico che sirichiami al bello, ma bensì la realtà del vissuto del musicista che dà voce agli strati profondi delproprio essere lì dove la parola perde il senso e dove solo il suono, liberato dalla necessaria graziama ridondante di verità può finalmente balzare alla luce. In tutto questo la differente concezionetemporale, l’incrocio proposto in Free Jazz è nel luogo interno al momento zero solo un’intenzione.Sappiamo che il tempo si avrà dopo, quando dischiuse le porte alla perfomance inizierà la danzadell’improvvisazione. Nel campo, nell’osservazione che noi possiamo fare attraverso la lente chedall’interno scruta le possibili valenze è possibile solo sussumere un’intenzione chiusa fra l’inizio eil divenire della musica. Il tempo improvvisativo sarà quello che seguirà l’uno, e sarà quellatemporalità di secondo grado che determinerà la dinamica dell’improvvisazione stessa. Il luogo interno è la sede dell’uno al momento zero, quindi prima che la temporalità che si avviadopo l’uno ne abbia preso possesso. In Free Jazz è quello spazio in cui Coleman colloca tutte lepiccole e grandi scelte e soluzioni ricavate dall’esigenza di libertà espressiva. Tutte queste sono lestesse che lottano contro il limite esterno, e in definitiva sono lo spazio e i materiali che possiamoosservare disposti sul campo improvvisativo. Con questo affermiamo che i materiali e lo spazioscelti per Free Jazz sono consapevolmente predisposti per creare le possibilità di un nuovo tempo inmusica, un tempo che permetta una maggiore libertà e che affranchi il più possibile i musicisti dai

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vincoli che la loro tradizione comporta. Free Jazz cerca di far questo imprimendo il marchio delcollettivo all’improvvisazione e per realizzarlo si solleva in una nuova temporalità in cui ritroviamol’eco delle parole di Coleman, “ non ho mai cercato di suonare la musica del mio tempo. Ho semprecercato di pormi fuori dal tempo”, come la necessità interiore di creare un tempo altro, un tempoche gode dell’elevazione che la musica dona a esso ma che vuole fortemente umanizzarsi per nonfalsificare l’espressività del musicista performante se stesso. Per questo vengono stravolte le semplici regole della musica, l’armonia non va più bene cosìcome un tempo strutturato diventa troppo vincolante; l’improvvisazione deve godere dei frutti chepossono germogliare proprio dall’affrancamento dalla regola e solo in questa libertà trova il suosenso originario. Il pensare l’improvvisazione si risolve proprio nelle scelte che possiamo osservaresul campo improvvisativo, è questa consapevolezza delle premesse dell’improvvisazione che dàaccesso alla libertà come sostrato ineludibile per l’atto creativo, autenticamente, dall’interno versol’esterno. Qui l’artista specializza un’area della propria esistenza rendendola fertile per la libertà, ritagliapreventivamente degli spazi a seconda del sentimento di fiducia nella capacità di possedere ciò chegli serve per muoversi, agire su di essa. Noi sempre improvvisiamo qualcosa in una linea che va dalsemplice al complesso: nella musica l’artista ha esperienza dell’improvvisazione, se ne ricorda e inun certo qual modo la “studia”, se ne appropria; questa esperienza gli serve per dar luogo a quellepremesse che troviamo disposte sul campo al momento zero. Così, se pur strano, appare che anchenell’improvvisazione, così come nella dialettica, le premesse hanno la loro funzione. In Free Jazz imateriali sono una trasposizione della lingua che i musicisti hanno deciso di parlare, e lo spazioassume il ruolo di contenitore.

§ 7. Il balzo – il tempo improvvisativo

Definite le premesse di Free Jazz con l’analisi del campo improvvisativo, ascoltiamorapidamente l’esecuzione di Coleman, rilevandone principalmente l’aspetto temporale. Una voltadato lo spazio da occupare, l’improvvisazione è innanzi tutto e perlopiù un processo temporale;attorno al tempo, come nucleo e motore dinamico dell’atto continuamente creante se stesso, ècostruito un dialogo che Coleman ama rappresentare come “emozionale”. Il parlarsi in modovolutamente libero e dunque sgrammaticato, lontano dai canoni estetici che vedono nel concetto dieuritmia il “bello”, è una nota peculiare di questa performance. Tutto il magma fluido e caoticodelle voci degli strumenti del doppio quartetto di Free Jazz, in ultimo, sottosta al regime del tempo.Il tempo improvvisativo è la categoria principale dell’improvvisazione. Tracciamo una cronologia della performance ed iniziamo a seguirla come farebbe il musicologoleggendone la partitura, tenendo sempre presente che Free Jazz è solo un esempio e che quello chemaggiormente ci interessa è l’atto improvvisativo in sé. Il nostro occhio sarà rivolto al costituirsifenomenico dell’improvvisazione e agli elementi costitutivi che sempre partecipano al processo insé. In musica, e all’interno della disamina di Free Jazz, questo significa che il carattere temporale èdecisivo rispetto all’armonia, o all’armolodia. 101 Dunque più che le note, gli accordi o gli unisoni,pur fondamentali sotto un’aspetto prettamente musicologico, sarà il tempo a farla da padrone. Questa considerazione iniziale ha lo scopo di anticipare l’importanza che il tempo rivesteall’interno dell’atto improvvisativo: il tempo dell’improvvisazione è sempre un tempo nuovo, untempo nel tempo racchiuso tra un inizio ed una fine, che deliberatamente si svuota dei contenutioggettivi e reali. È attraverso questo “fare spazio”, che fa da filtro per la libertà, premessaindispensabile per il gioco della creazione istantanea, che il tempo giustifica la sua trasfiguratapresenza come tempo “altro”. D'altronde, la catena che maggiormente lega l’essere alla sua finitezza 101 Concezione musicale propria di Coleman. Vedi allegato in appendice.

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è proprio quella consapevolezza del tempo e del suo scorrere. Sollevarci dalla pesantezzadell’oggettività temporale, dalla realtà che la vita comunque si consumi nel tempo e che la regolache esso ci impone è ineludibile, è la sfida che in ultima istanza l’improvvisazione accoglie, anchesolo per ritagli, piccoli frammenti temporali. Il più delle volte noi possiamo godere della sensazionedi libertà proprio attraverso le pieghe dell’improvvisazione, negli attimi di sospensione in cui nienteè deciso se non il fatto che non c’è niente da decidere: lasciare che il flusso temporale scorra senza ilnostro continuo controllo. Giocare su di esso, creare liberamente forme, colori e suoni, esprimereciò che di più arcaico giace nel nostro animo così come sorge spontaneo, parlare con l’altro masenza definire un oggetto; è questo il tempo che l’improvvisatore vuole.

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TABELLA CRONOLOGICA DI FREE JAZZ

Tempo Evento sonoro

00:00

00:07

00:20

05:12

05:24

05:40

09:42

09:53

10:05

19:55

00:00

00:12

05:46

05:54

10:16

10:26

14:12

14:21

15:43

15:51

16:56

17:05

17:28

Inizio free – totale libertà, tutti gli strumenti improvvisanoUnisono “armonico” – primo unisono che introduce l’assolo diDolphy

Assolo di Dolphy

Secondo unisono, fine assolo di Dolphy, lancio assolo diHubbardFree con piccolo unisono in coda

Assolo di Hubbard

Terzo unisono, fine assolo di Hubbard, lancio assolo diColemanTema che introduce l’assolo di Coleman

Assolo di Coleman

Fine assolo di Coleman e azzeramento del counter cheoriginariamente corrisponde alla fine del lato A del longplaying –Atlantic 1364

Seconda ripetizione del tema che introduce l’assolo di DonCherryAssolo di Cherry

Quarto unisono armonico e inizio assolo ritmica

Assolo di Haden

Quinto unisono

Assolo di LaFaro

Free più sesto unisono in coda

Assolo di Blackwell

Settimo unisono

Assolo di Higgins

Free

Ottavo unisono e sfumando in coda

Fine

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Quando ascoltiamo questa composizione di Ornette Coleman, quello che rileviamo è l’iniziale sensodi smarrimento che l’impatto sonoro apparentemente disorganizzato dei vari strumenti comporta. Èpossibile che la gran parte degli acquirenti di questo disco all’inizio abbia pensato di aver spesomale i propri soldi. Diciamolo subito, Free Jazz non sarà mai un piacevole sottofondo né unamusica rincuorante da ascoltare dopo le battaglie quotidiane. Non è una composizione “domenicale”e non è neppure una musica che ambisce al carattere “colto” e che può svelarci arcane manovre delcompositore. Free Jazz è una musica irritante e dal carattere fortemente egoistico102 che non è innessun modo pensata per piacere: bisogna sforzarsi per ascoltare con attenzione cosa accade inquesta registrazione. Semplicemente intendiamo che se, cerchiamo una grammatica della musicache ci dia una pur vaga chiave di lettura della composizione, rimaniamo a terra. Dobbiamo andaredritti verso il suono, alla sua essenza, se vogliamo che Free Jazz ci dica qualcosa; dobbiamocomportarci come il negativo di una pellicola fotografica e lasciarci impressionare da ciò cheascoltiamo, senza avanzare pretese su regole musicali o estetiche. La teoria musicale qui non ciserve e neppure una conoscenza profonda della tradizione jazzistica potrebbe soccorrerci. Fatte queste semplici premesse, analizzeremo lo sviluppo temporale del processo improvvisativodi Free Jazz in base alla tabella cronologica che abbiamo riportato poco sopra. Le analisi sui legamifra i concetti definiti nel primo capitolo e l’opera di Coleman, (contrariamente a quanto è stato fattoper il campo improvvisativo, dove il concetto ha “preceduto” l’analisi individuandone la categoria,e dunque siamo partiti dalla categoria di campo improvvisativo a cui conseguentemente inerisconole costanti di cornice, limite esterno e luogo interno) saranno discusse sulla base dell’andamentotemporale della registrazione. Ancora una volta nel processo improvvisativo è il tempo che ci conduce e precede, anticipando ilconcetto, come è giusto che sia nell’improvvisazione. È solo ascoltando il fluire della musica neltempo, che possiamo capire che il tempo stesso si è trasformato e ha subito una modificazione chelo ha reso nuovo e personale.

§ 8. Il tempo improvvisativo interno

Ciò che bisogna comprendere a fondo, in Free Jazz e nella musica improvvisata tutta, è l’idea diflusso temporale. Quando diciamo che i musicisti sono “liberi”, e qui ci riferiamo principalmentealla sezione ritmica, (che tradizionalmente nel jazz è composta da basso e batteria), intendiamo lalibertà da quel “modo” di portare e conoscere il tempo che abbiamo esaminato nel primo capitolo,definendolo tempo A, tempo esterno. Questo è il tempo che viene imposto, staccato da un capoorchestra o da un direttore e che ha dei valori definiti, legati al battito metronometrico che ne misurala divisione. In esso troviamo le battute (che definiscono che tipo di tempo useremo, 4/4 – 3/4 ecc.,e su cui si costruiscono i “giri” di accordi su cui il brano si posa), e i valori (per esempio d=60, chestabiliscono quale sarà la velocità di esecuzione in base al solito parametro del metronomo, in cuiovviamente il valore 60 rappresenta i battiti al minuto e d la durata della nota). Questo tempo, con lasua tradizionale notazione, è il tempo musicale che viene usato nella musica scritta e costituisce lagrammatica orizzontale indispensabile per la costruzione e la scrittura di partiture musicali.

102 “Down Beat” pubblica due recensioni del disco, in una di queste John A. Tynan arriva al punto di chiedersi: “ Dovefinisce la nevrosi e inizia la psicosi?”. In M. Mannucci, Op. cit., pag. 41.

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Prima di introdurci nella divisione accennata tra tempo improvvisativo e tempo esterno,(vedendo come essa si sostanzializza in Free Jazz) dobbiamo però, per chiarezza, ricordare che amonte dell’inizio del processo temporale abbiamo già trovato un confine che divide duetemporalità: quello che separa il tempo zero dall’uno. Il tempo zero è ciò che inerisce al campoimprovvisativo, che abbiamo definito come il tempo reale e condiviso, il tempo oggettivo in sensoproprio, fermato l’istante prima che il processo inizi. Questo ci consentiva di osservare il campo e dirilevarne gli elementi costitutivi, definendo così l’unica struttura in seno all’improvvisazione, lospazio da essa occupato al momento zero e i materiali scelti per la performance. Passato questoconfine entriamo nel tempo improvvisativo. Ci entriamo con l’uno, l’atto primo dell’artista cheavvia il processo e prende pieno possesso del campo. Dunque è con l’uno che facciamo il primobalzo verso l’improvvisazione. Questo diviene comprensibile perché, per dare avvio a quellacontinua trasformazione che è propria della prassi improvvisativa, dobbiamo creare una zona liberada vincoli formali, dove poter essere immediatamente creativi in un movimento che va dall’internoverso l’esterno, dal soggetto all’ambiente. Com’è possibile trasformare un suono, un ritmo, se il suosignificato primo rimane sempre tale, se nell’udirlo e nel costruirlo, nel fare quella nota ci èimpossibile vedere oltre la stessa? Immaginare una possibilità di esistenza oltre ciò che già ci è datoè partecipazione a un tempo che è avanti al tempo reale, che per contro riconosce e afferma il purodato empirico. È così che inizia la trasformazione creativa, immaginando un tempo che è avanti eper questo mio, personale. È l’immaginare, il sognare che prende forma attraverso l’attoimprovvisativo, divenendo suono. La capacità dell’improvvisatore sarà quella di riuscire a vedere ilsuono diversamente da come le forme standardizzate lo presentano: la sua personale capacitàimmaginativa di usare un “ la” o un “ re”, non come due note definite e inserite in un sistemanormativo, che regola i rapporti che possono essere costituiti e creanti armonia e melodia, ma bensìun suono liberato dalla sua definizione e immaginato nuovo, riplasmato, in grado di esprimerel’intenzionalità del musicista qui e ora.

Il primo legame da spezzare, per operare questa rivalutazione del suono, è quello che legal’artista con il tempo reale, oggettivo. Abbiamo quindi una prima divisione; in questo senso bisognaabituarsi a riflettere sul tempo come se esso si presentasse a noi sotto forma di anelli concentrici, gliuni interni agli altri.

Il tempo musicale, quello organizzato nella prassi e nella teoria di questa disciplina è sicuramenteun tempo “altro” rispetto al tempo reale. Ha un maggior grado di sottigliezza e riesce ad esprimere etrasmettere ordine agli eventi sonori. Certamente si prefigura come già ricordato nelle prime battutedi questa ricerca con le parole di Clifton : “può essere considerato come principio ordinatoredell’esperienza. Esso è una relazione tra le persone e gli eventi che esse percepiscono” 103. Contieneil silenzio e la musica contemporaneamente. Possiamo anche dire di esso che è soggetto agenerazione, ogni qual volta il direttore d’orchestra, nell’atto dell’alzare la bacchetta, imprima perl’appunto un tempo alla musica. Ugualmente quando il compositore scrive all’inizio di unmovimento, per esempio, “adagio”. Questo tempo è dunque contenuto all’interno del divenire, deltempo in grande come sua specializzazione, è già un’umana personalizzazione che ha rubato altempo in grande l’idea di infinità per racchiudersi tra l’inizio e la fine di una “sinfonia”. Il tempo che troviamo all’interno del processo improvvisativo è un’ulteriore accezione, è un’altramodificazione che a sua volta reagisce alla rigida struttura del tempo musicale, avvertita comelimitante. Prima di definire con precisione i concetti proposti, visualizziamo con un semplicediagramma queste temporalità:

103 Thomas Clifton, Music as heard. A study in Applied phenomenology, Yale University Press, New Haven 1983, pag.53.

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Fig. 14

Tempo zero

Tempo in grande

Divenire

Il “tempo in grande” è il divenire, la forma in cui si dà lo scorrere continuo e inarrestabile deifenomeni; possiamo semplicemente dire di esso che non conosciamo l’inizio e la fine, che ècontinuamente compreso tra un prima e un poi, o che kantianamente è una categoria a prioridell’intuizione sensibile. In ogni caso il suo scorrere è fluido, indeterminato; su di esso si adagia ilcerchio del tempo zero, che altro non è che lo stesso “tempo in grande” ma fermato, fotografato inquell’attimo che precede il cambio di temporalità, quella contenente il tempo musicale. Il tempozero è rappresentato come un cerchio perché ha già la funzione di contenitore, in quanto contiene,essendo per essenza costitutiva divenire, le altre due temporalità. Non è però un tempo chiuso,determinato, (per questo è rappresentato con punti aperti) il che significa che non ha una vitapropria, con sue valenze particolari, se non quella di essere un’immagine che si crea, quandofotografiamo la scena nell’attimo che precede l’atto improvvisativo. Per intenderci, abbiamo dettoessere quel tempo in cui osserviamo il campo improvvisativo, rilevandone gli elementi costitutivi. Ètutto ciò che precede l’uno. Se, per esempio, ci fossimo recati ad un concerto di musica classica, iltempo zero è composto da quei pochi attimi che precedono l’inizio del primo movimento, quando ildirettore d’orchestra alza la bacchetta e il brusio in sala scema. Dunque lo zero è prima dell’uno,dell’uno musicale: nel nostro esempio l’attimo che precede il tempo musicale, dove il musicistainizierà a contare le battute.

Tempo musicale

Tempo improvvisativo

uno

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Il tempo musicale ha invece una vita propria. Esso sì è chiuso fra un inizio e una fine, ha un suoproprio linguaggio, una semantica, dei valori determinati e precisi. È una nostra costruzione, ordinae lega l’insieme delle note nel loro scorrere. Per far questo in ultimo divide il tempo in grande intante piccole parti, matematicamente. La sua unità di misura è il semplice metronomo. Questo fa sìche il suo “cerchio” sia chiuso e ben definito, perché il tempo musicale si erge come forma emodello per tutti gli eventi sonori che in esso saranno contenuti. È una vera e propria grammaticache costituisce il paradigma temporale all’interno della comunità dei musicisti. Il tempo improvvisativo (sempre all’interno di un ambito musicale, nel nostro caso in Free Jazz)è a sua volta contenuto all’interno del tempo musicale, ma in modo più sottile. In quest’accezione iltempo musicale contiene il tempo improvvisativo in quanto diviene limite esterno perl’improvvisatore: è la forma e il modello a cui il musicista si contrappone. È il paradigma da cuil’improvvisatore vuole fuggire, dove l’istanza di libertà lotta per un ulteriore mutamento, per unatrasformazione della forma e del modello in una ulteriore amalgama che gli permetta maggioripossibilità di movimento. Se ci trovassimo in un teatro per ascoltare del free jazz, del tempomusicale sentiremo ben poco; esso sarebbe rinvenibile solo nelle sue forme più grossolane, cioècome un contenitore che ha un inizio e una fine, che contiene della musica e forse, a tratti, del ritmo.Ma certo non ascolteremmo un’ordinata esecuzione ben suddivisa in battute dove le varie parti si“incastrano”, seguendo il pensiero del compositore. Quel che troviamo nell’improvvisazione, efinalmente ci siamo arrivati, è invece l’idea di flusso temporale . Più simile al divenire, ha unoscorrere sobbalzante e un po’ disordinato, imprevedibile. Se dovessimo visualizzarlo esso sarebbepiù simile a tutti gli stati di un fiume con i suoi mille e imprevedibili risvolti, cascatelle, lame eimprovvise piccole rapide. Certo, all’apparenza molto disordinato, ma sicuramente più “naturale”rispetto al tempo musicale in senso proprio. Questi somiglia più ad una canale costruito da un bravoingegnere, con argini e chiuse, una equilibrata regimentazione delle acque e così via. Dunque ècome se il fiume musicale del tempo improvvisativo lottasse per affermare la propria libertà, adispetto dell’intrinseco bisogno della natura umana di regolamentare, dare una forma all’incederedel tempo. Rimane ancora un ultimo punto da chiarire, la collocazione dell’uno. Nel diagramma vediamoche i cerchi si “toccano” sul confine in prossimità dell’uno. Il tempo zero coincide con gli altri duesolo nell’uno, mentre il tempo musicale e quello improvvisativo hanno una maggiore affinità,essendo tutti e due contenitori di eventi sonori. L’uno partecipa a tutte e tre le temporalità, ma nonal tempo in grande. Possiamo dire che esso è interpretabile come un concetto generalissimo, inquanto è elemento costitutivo di tutte le temporalità che possono dirsi “iniziate”. È partecipe di tuttele gradazioni temporali che si appoggiano al divenire, al tempo in grande, e di cui possiamo dire chevi è un inizio e una fine. È proprio di ogni ciclicità temporale, vi è un primo giorno di primavera eun primo giorno di vita. Dunque l’uno sta sempre sulla linea di confine, perché è proprio la suapresenza, la sua funzione di uno, di dar corso alle cose, che crea un tempo nel tempo. La differenza, all’interno delle nostre temporalità, è nella valenza che assume rispetto a ciò chegli segue. Nel tempo zero l’uno è solo confine, esiste in quanto segna il confine con il tempo nuovo,essendo il tempo zero, come il divenire, senza particolari contenuti. Se non ci fosse l’uno non cisarebbe neanche lo zero, ma solo divenire. L’uno nel tempo zero esiste solo in conseguenza ad esso.È mettendo l’uno che valorizzo lo zero. Nel tempo musicale esso è in certo senso “aritmetico”. Il musicista inizia a contare le battute apartire da esso, e ad esso fa riferimento per leggere e seguire la partitura. Si sa che i musicisticontano sempre, l’uno qui è distintivo del carattere vincolante e normativo della musica. Si pensi aduna lezione di solfeggio, in primis l’insegnante vi batterà il tempo seguendolo con il movimentodella mano, 1-2-3 e 4… Nel tempo improvvisativo l’uno invece è soggetto alla regola di relazione, che abbiamo giàtrovato nella prima parte. L’improvvisatore non può suonare con un’idea del tempo“matematizzata”, divisa e spezzata com’è l’organizzazione dello stesso all’interno della tradizione

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musicale occidentale. È qui che l’idea di flusso musicale, che a partire dall’uno si sostanzializzanella continua modificazione e trasformazione del suono, prende corpo. Dunque l’uno è sempreidentico a se stesso, ma assume diversi significati a seconda di ciò che lo segue, ed è sempre,inderogabilmente, posto sul confine. Ricordiamo ora come abbiamo definito il tempoimprovvisativo: flusso temporale generato dal tempo interno del soggetto, proprio di un processodi creazione istantanea e rinvenibile nell’area specificata come campo improvvisativo.

PARTE TERZA

§ 1. Breve ascolto di Free Jazz. Da 00:00 a 00:20 – L’uno

Esaminato il carattere strutturale del campo improvvisativo e fatte le necessarie distinzionitemporali, proponiamo ora un breve ascolto del brano musicale in esame seguendo la tabellacronologica esposta in precedenza. Ecco dunque che premendo il tasto on sul lettore CD da 00:00 a00:07 sentiamo un’improvvisa massa di suoni assalirci e schiaffeggiarci, è come una sveglia chesuona e che ci richiama dalla comoda condizione del tempo reale, in cui tutto è perlomenoaccettabile e condivisibile. È l’ uno, la messa in campo della prassi improvvisativa, la presa dipossesso del campo da parte dei musicisti che reclamano il loro spazio. Il senso di fastidio che siavverte all’inizio di Free Jazz è significante del mutamento temporale, è la sensazione che siavverte al passaggio del confine tra zero e uno, fra le due temporalità. È un disagio straniante perchéci conduce direttamente e senza tanti fronzoli al tempo di Coleman, al suo sentire e modellare untempo personale, che sappiamo non essere il nostro.

Ma in che modo questa nuova temporalità costruisce il salto temporale? Sul confine e appena unpasso più avanti, troviamo ciò che abbiamo sempre designato come il primo attodell’improvvisazione e che sappiamo essere l’uno. Questo concetto, attraverso quella che è statachiamata la regola di relazione, stabilisce l’avvio di un processo che legherà ad esso tutta la catenadei successivi atti creativi e che avrà un’andamento sinusoidale, un movimento a “onde” semprecrescente, che darà luogo a vari apici, climax, prefigurandosi come flusso temporale.104

Sentiamo come Coleman apre questa nuova musica: puro free, i primi sette secondi sono totale elibera improvvisazione senza ritegno, ogni strumento parte cavalcando un tempo che comunquesembra già in corsa, lanciato verso il primo imbuto del brano. Free Jazz inizia libero e veloce perpoi conchiudersi nel primo unisono armonico, da 00.07 a 00.20. Qui Coleman guida l’insieme dellevoci: è possibile sentire il suo sassofono anticipare gli altri musicisti di una breve frazione di tempo,per poi dar vita all’unisono armonico, a questa strana forma di laccio, che unisce l’iniziale caos perdar spazio all’assolo di Dolphy. Da questi primi venti secondi di Free Jazz rileviamo innanzi tutto eperlopiù l’istanza di libertà che si concretizza nella violenza dei primi sette secondi come unannuncio, come la bandiera del free105 che urla al mondo la rabbia e il desiderio di rivalsa dei

104 Ricordiamo che il flusso temporale è quella particolare accezione temporale che si sviluppa a partire dal tempointerno in un processo improvvisativo. Avremo modo in questo capitolo di capire meglio come si forma.105 È opinione comune considerare questo disco come il “manifesto” del free jazz inteso come “corrente musicale” acavallo dei tumultuosi anni’60. Arrigo Polillo pensa che: “Tre incisioni, in particolare, possono essere considerate dellepietre miliari (del free jazz). Free Jazz, prima di tutto: una liberissima e lunghissima improvvisazione di un doppioquartetto – quello di Ornette Coleman (responsabile dell’audace esperimento) più quello di Dolphy – che deve essereconsiderato il primo, e molto felice, esempio del rivoluzionario jazz degli anni’60, nel quale l’improvvisazione non èpiù fondata su temi e su sequenze di accordi e su cui le concezioni estetiche e le regole armoniche accettate dai jazzmendelle precedenti generazioni ebbero scarsissima incidenza. Poi My Favorite Things, che impose all’ammirazione delpubblico internazionale la torrenziale, ubriacante, appassionata eloquenza di John Coltrane. Il quale prese dal quel

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musicisti, come vittoria del caos sopra la regola. Ma ecco che subito dopo una nuova forma didisciplina compare, le singole voci urlanti sono ricondotte su un unico binario, Coleman lancia unsegnale della sua leadership e raccoglie nell’unisono il doppio quartetto, quasi volesse dire checomunque un’ordine c’è, che i musicisti sanno dove incontrarsi.

Il tempo che introduce l’ascoltatore in Free Jazz, è staccato da Higgins come un “velocissimo” eanche durante l’unisono permane tale. Le considerazioni ritmiche all’interno dell’improvvisazionesono molto importanti perché, come abbiamo già evidenziato, è proprio nel tempo che il processoprende corpo. Cercando di comprendere cosa accade nel piano ritmico/temporale stabiliamo lamisura del grado improvvisativo. Ad esempio, qui possiamo subito comprendere come l’uno, ilprimo battito che viene scandito dai musicisti e che sposta il tempo da zero a uno, si ponga subito incontrapposizione con il limite esterno. Ascoltando questo nuovo tempo, capiamo immediatamenteche Coleman ha rotto i legami con la forma e il modello e che non contento vuole affermare subitola prassi improvvisativa. Qualsiasi persona, poco incline a sperimentazioni di avanguardie artistiche,dopo i primi venti secondi di Free Jazz direbbe che questa non è musica. Avvertirebbe la mancanzadelle regole canoniche, che fanno si che la musica sia pari ad un evento temporale in cui i suonisono organizzati secondo un indice di gradevolezza.

All’inizio ciò che ci colpisce è quindi il problema della forma e delle regole conseguenti. Aquesto Ornette Coleman ha dedicato un lungo percorso fatto soprattutto di prassi, di esperienzespesso spiacevoli ed emarginanti che nel corso della sua crescita artistica l’hanno portato a costruirsiun proprio linguaggio, spesso in antitesi con tutto ciò che lo precedeva. In questo, lo stimolorivoluzionario ha un peso che non è quello che nasce da situazioni esterne (e con ciò intendiamo lasituazione sociale e politica del musicista nero americano, l’epoca di Malcolm X e della presa dicoscienza del proprio background culturale), ma sempre quella necessità interiore che porta l’artistaa cercare la propria espressività in maniera genuina e naturale, scollegandola dalla strutturaesistente. In questo consiste l’iniziale emarginazione di Coleman, che poi è la stessa provata da tuttii grandi innovatori, anche in ambiti più “colti” come accadde ad esempio a Varèse, che a sua voltasi scontrò con la tradizione e avvertì le stesse esigenze di libertà dalle forme e dai modellicanonici.106 Coleman tende a modificare il proprio linguaggio rispetto al linguaggio conosciuto dallacomunità a lui più vicina, quella dei musicisti di jazz, e questo lo si evince dai long playing chehanno preceduto Free Jazz. Anche i loro titoli oltre a, ovviamente, la musica, denotano la tendenzaal cambiamento, alla trasformazione che personalizza il mondo e che lo rende mio. Vediamobrevemente in questa tabella i dischi più significativi che hanno preceduto Free Jazz e cui abbiamoaccennato nella traduzione dell’articolo di Tynan. 107

momento il posto di Charlie Parker come voce guida degli uomini del jazz. Infine Freedom now suite, di Max Roach, incui la musica jazz volle offrire un contributo alla lotta di liberazione del popolo afro-americano, facendosi per la primavolta veicolo di una veemente protesta, di una perentoria richiesta di giustizia”. A. Polillo, op. cit., pag. 257.

106 Abbiamo già visto come Varèse sia insofferente alla limitazione del “pianoforte” e dunque del sistema tonale. Egli,come Coleman, si scontra pure con la necessità di avere un luogo dove rappresentare le sue composizioni, che avendoun carattere fortemente innovativo, suscitano spesso diffidenza. Per attuare questo intento fonda la Lega Internazionaledei Compositori, nel 31 maggio 1921, a New York, con l’amico Carlos Salzedo. Scrive, nel manifesto: “Morire è unprivilegio di chi è sfinito. I compositori contemporanei rifiutano di morire: hanno compreso la necessità di unirsi e dicombattere insieme per il diritto di ciascuno alla certezza di una libera e adeguata esecuzione dei propri lavori. Daquesta volontà è nata la Lega Internazionale dei Compositori.” E. Varèse, op. cit., pag. 40.107 Oltre a questi Long Playing e soprattutto a partire da metà maggio del 1959 fino al dicembre del 1960, Colemanregistra anche altre composizioni, come ad esempio To Whom Who Keeps A Record, che però sarà pubblicato inGiappone solo nel 1975. Altri tredici brani registrati attorno al 2 Agosto del 1960 scompariranno invece nell’incendiodei magazzini dell’Atlantic.

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Someting Else!!!! The Music of Ornette ColemanTomorrow is The QuestionThe Shape of Jazz To ComeChange of The CenturyThis is Our Music

Contemporary 1958 feb- mar.Contemporary 1959 gen-mar.Atlantic 1959 maggioAtlantic 1959 ottobreAtlantic 1960 luglio-agosto

È impossibile non cogliere in queste copertine l’eco del pensiero di Coleman, in cui tutto tende aindicare il mutamento di prospettiva verso un’indirizzo soggettivo e la proposta di una musicanuova. Ebbene la musica nuova si concretizza in Free Jazz nella sua accezione più intensa edelirante, ma già in The Shape Of Jazz To Came abbiamo un segnale forte del cambiamento. Laformazione di questo disco è ideale per le sue composizioni, i musicisti che suonano saranno glistessi di Free Jazz, a esclusione di Charlie Haden, sempre presente nel disco ma che in Free Jazzaccompagna il quartetto di Dolphy. Qui Coleman fa finalmente la sua musica. Le strutturearmoniche invitano alla libertà dai legami con gli accordi, la metrica non deve segnare il tempo, masuggerirlo con mobilità continua, la forma semplice del bop e quella perfetta del cosiddetto hardbop o del jazz bianco della California esplodono. Ogni pezzo ha una personalità propria: l’assolo dicontrabbasso apre e chiude la malinconica Lonely Woman, invitando all’ascolto in un universoespressivo conchiuso e circolare. Per mantenere in equilibrio le esecuzioni i musicisti non hanno piùla facilitazione dei patterns (gli schemi armonico melodici), devono ascoltarsi e reagiresimultaneamente. È il principio dell’armolodia, destinato a diventare caratteristico del mondo diColeman.

Nelle liner notes di copertina dell’album prodotto dall’Atlantic troviamo interessanti commentidi Martin Williams.108 Questi, sottolinea di non essere l’unico a credere che quello che Coleman stafacendo con la sua musica sia nuovo ed autentico, citando due esempi, Percy Heat, bassista delModern Jazz Quartet, che riferendosi a Ornette dice: “Quando ho ascoltato per la prima voltaOrnette e Don (Cherry) mi sono chiesto – cosa stanno facendo? – ma quasi immediatamente mihanno colpito. In un primo tempo sembrava di ascoltare Charlie Parker; è eccitante e diverso, equando realizzi che è veramente un nuovo approccio capisci che loro suonano veramente dellavalida musica”. 109 Come lui anche John Lewis, direttore e pianista della stessa formazione affermache la musica di Coleman è: “l’unica cosa veramente nuova nel jazz a partire da Charlie Parker”.Williams, trova che quello che Ornette suona è molto bello, avendo la qualità di spingersi oltre finoa toccare le persone dell’audience singolarmente. Le sue melodie sono inconsuete, ma non hannoniente della durezza delle sperimentazioni fortemente solipsistiche. Accenna al fatto che perColeman è quasi impossibile discutere della sua musica senza suonare: “la musica è per il nostrofeeling”, gli ha raccontato Coleman, sostenendo che il jazz potrebbe provare a esprimere più tipi difeeling. E lui li conosce bene, sono le risorse e la sorgente della sua musica.

Per Williams, Coleman sapeva che ciò che faceva non era tutto composto da lui, non loinventava, ed era in un certo senso consapevole che qualcuno lo ispirava. Com’è necessario agliinizi di un innovatore, egli non era dispiaciuto di suonare qualsiasi cosa la sua musa gli suggerisse.D’altronde Coleman sosteneva di non sapere come sarebbe stato il suono prima di iniziare a suonaree prima che tutti avessero suonato, e che dunque gli riusciva difficile parlarne. Le basi di questo“modo” innovativo di Coleman, Williams le vede nella negazione delle strutture classiche del jazz,nella libertà che si trova quando si esce dalla forma accordale che limiterebbe le possibilitàespressive del musicista. Williams dice che Ornette può lavorare oltre gli accordi e gli intervalli,che questa è una ricerca di Ornette, il quale sostiene che “per realizzare ciò io posso fare errori…

108 Critico di “The Jazz Review” e co-editor del long playing. Martin Williams è anche l’autore delle note di copertina diFree Jazz.109 Liner notes di Martin Williams in The Shape Of jazz To Came, Atlantic 1317

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quello che vorrei realizzare è un’ordine in quello che faccio”. Si leggono inoltre sulle note dicopertina (che Coleman aveva chiesto a Gunther Schuller, compositore e musicista, conoscitore siadel jazz che della musica classica, nonché critico jazz e istruttore alla “ School of Jazz and Music” diLennox, in Massachussetts-) alcuni consigli per la redazione di questo long playing.110 Schuller fa suColeman le osservazioni che seguono:

“Forse l’elemento più rilevante nella concezione musicale di Ornette è una totale ecompleta libertà. La sua ispirazione musicale opera in un mondo sgombro da metri e battute,dai convenzionali cambiamenti di accordi e dai modi convenzionali di suonare il sassofono.Tali ‘limitazioni’ pratiche non hanno sopraffatto la sua musica; semplicemente non sonoesistite per lui. A dispetto di ciò – o meglio, a causa di questo – lui suona con una profondalogica interiore. Non una banale facciata logica, questa si basa su sottigliezze di reazione, susottigliezze di tempismi e colori che costituiscono, io credo, una tranquilla novità nel jazz,mai apparsa così pura e diretta. Il linguaggio musicale di Ornette è il prodotto di un uomomaturo che deve parlare attraverso la sua musica. Ogni nota sembra essere nata al di fuori diuna necessità esterna comunicativa. Io non penso che Ornette suoni come molti musicisti dijazz suonano. La musica in lui è molto profonda anche per questo, e tutte queste qualità sonosorprendenti perché non sono solo pervase da un profondo amore e conoscenza del jazztradizionale, ma sono la prima nuova realizzazione di tutto quello che è implicito nella musicadi Charlie Parker.” 111

Qui vediamo come il problema dei modelli e delle strutture appare marginale rispetto ai bisogniespressivi. Abbiamo detto che il primo approccio all’ascolto di Free Jazz ci conduce direttamente alproblema della forma, giustificato dalla sua totale assenza nei primi sette secondi del brano.Troviamo concordanza con il quadro che Schuller, che ha avuto occasione di osservare e discuterecon Coleman a lungo sul suo operato, traccia. Questo mette in risalto le due categorie che abbiamoosservato nel processo improvvisativo, la necessità interiore e l’ istanza di libertà. Quando si parladi Coleman pare che l’impressione predominante sia quella di un uomo che “deve parlare con la suamusica”, e che essa si dia con “profonda logica interiore”. Dedurre da ciò, quello che in ultimoabbiamo chiamato necessità interiore, ci sembra logica conseguenza. Questa forza dinamica muovel’improvvisatore verso la necessità di esprimere un’interiorità piuttosto che rifarsi su modelliesterni; essa è rinvenibile anche nell’unicità del suo modo di suonare il sassofono, cosa che ancheSchuller rimarca. Alla base di questa necessità noi poniamo l’istanza di libertà. Essa è il fulcro chealimenta la forza dinamica della necessità interiore. Schopenahuer sosteneva che la fame e il sessosono le due forze che alla fin fine muovono gli esseri umani. Noi diciamo che è il bisogno dilibertà, invece, ciò che muove l’improvvisatore. “Forse l’elemento più rilevante nella concezionemusicale di Ornette è una totale e completa libertà”, dice Schuller; noi gli crediamo e aggiungiamoche essa, la libertà, è anche qualcosa di più di una “concezione”, di fatto è il sostrato che genera ealimenta la necessità interiore che spinge e tende verso la “decostruzione”.

Diventa così comprensibile come l’inizio di Free Jazz sia un’amalgama informe che procede eavanza con prepotenza, esso ci informa di ciò che nel titolo del long playing è già esplicito: io suonoper la libertà, o meglio, io suono la libertà. Che poi essa appaia bella o brutta, diventa secondariorispetto all’esigenza di ritrovare se stessi nel linguaggio che ci è più affine. È importantecomprendere come questa operazione di spoliazione di forma e struttura accenni ad un’arte che non 110 Ricordiamo l’articolo di Tynan e il periodo che Coleman, con Don Cherry, aveva passato con Schuller a Lennox.Coleman lavora e studia con Schuller anche poco prima di incidere Free Jazz. Ricorda Mannucci: “Con Schuller,Ornette ha anche cercato di studiare lettura e notazione musicale […] Gunther Schuller è, all’epoca, un’abile cornistache ha passato dieci anni nella Metropolitan Opera Orchestra, scritto un’opera da Il processo di Kafka e collaborato conJohn Lewis e Miles Davis negli ultimi brani poi raccolti in Birth Of The Cool, con Davis e Gil Evans in Porgy AndBess, con Charles Mingus. […] Ornette Coleman suona in due dei quattro brani del disco intitolato John Lewis PresentsContemporary Music: Jazz abstractions. Composition by Gunther Schuller & Jim Hall”. M. Mannucci, op. cit., pag. 37.111 Liner notes di Martin Williams in The Shape Of jazz To Came, Atlantic 1317. Osservazioni di Gunther Schuller.

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tende più ad imitare, aristotelicamente, le forme del mondo. Essa aggira la barriera della mimesisperchè comprende di essere inadatta a “rappresentare” e, anzi, chiede proprio di affrancarsi daquesto vincolo, poiché in ultimo l’istantaneità è l’atto della libertà che possiede ed è possedutadall’artista performante. La creazione qui e ora non può rappresentare ma solo essere se stessa. Èper questo che il campo improvvisativo prepara uno spazio che può solo essere vuoto.

Qui si esprime tutta l’incertezza del tempo, del divenire, l’assenza di un percorso preordinato, lamancanza di una partitura. D'altronde ritroviamo, proprio dopo aver rinnegato la forma e il modello,una particolare accezione della “struttura in grande”, del tempo, l’idea di un suo fluire contrappostoalla metrica e alla divisione in battute. Il processo improvvisativo è innanzitutto processotemporale. Vi abbiamo già accennato nella presentazione della cronologia di Free Jazz,preoccupandoci di rilevare come essa sarà l’asse portante delle nostre considerazioni. Vorremo ora,a partire da una prima attenta analisi temporale di Free Jazz, sostanziare le nostre argomentazioni.

§ 2. Da 00:20 a 05:12 – Il ritmo di Free Jazz e l’assolo di Dolphy

Riprendiamo l’ascolto di Free Jazz ed esaminiamo come la ritmica faccia propria l’idea di flussotemporale. In Free Jazz abbiamo due sezioni ritmiche: una composta da LaFaro al basso e Higginsalla batteria, che suona con il quartetto di Coleman; l’altra con Haden al basso e Blackwell allabatteria, che fa capo a Dolphy. I due quartetti sono stati registrati “stereo”, con l’accortezza dimettere le sezioni in canali separati, il che vuol dire che la ritmica composta da LaFaro/Higgins sipuò ascoltare sul canale sinistro, mentre Haden e Blackwell sul destro. Questo stratagemma ci aiutaa comprendere il lavoro svolto dalle due sezioni, che così possiamo ascoltare separatamente,vedendo come in ultimo s’intersechino vicendevolmente, tessendo una fitta trama ritmica chefluisce ininterrottamente dall’inizio alla fine del brano. La prima considerazione che bisogna fare, ascoltando Free Jazz, è che il ritmo, comunque,rimane, c’è; in questo evento non troviamo la completa messa al bando di una “cadenza” in unqualche modo regolare, i batteristi portano un tempo e anche i bassisti vi ricamano intorno. In altremanifestazioni del free, in altri concerti o registrazioni, spesso il ritmo viene completamentespezzato, non è presente alcuna ciclicità, nulla che richiami ad un incedere cadenzato, ma si hapiuttosto un rullare quasi continuo: improvvisi colpi di cembali, tempi veloci e poi improvvisamentelenti. Il batterista fa e disfa in continuazione, suona lo strumento come se stesse rinnegando la suafunzione principale, per usarla come la tavolozza di un pittore: crea sfumature o colori forti eaccecanti e il tutto si muove continuamente, ininterrottamente. Questo modo di suonare costituiscel’accezione più genuina di quello che sarà poi il free jazz inteso come “corrente” musicale. Nel nostro Free Jazz, invece, non c’è mai una rottura ritmica in senso proprio. In questo sensopossiamo evidenziare come il tempo come principio ordinatore dell’esperienza rimanga in essereanche in questo brano, certo dilatato e scomposto112 La sezione che ora chiameremo S, (Higgins eLaFaro sul canale sinistro) si presenta all’ascolto in modo più indeterminato, meno sostanziale epresente della sezione D (Haden e Blackwell sul canale destro). Se noi ascoltiamo il branodividendo le sezioni, (ascoltando solo un canale dell’impianto stereofonico) all’inizio la sezione Sstacca un tempo molto veloce, che sembra non aver un ritmo, ma che ritroveremo intorno a 01:20più definito e regolare, quando LaFaro regolarizza il suo modo di presentarsi con un walkingbass113 molto veloce che accompagna Higgins. Dunque l’inizio può essere come quel puro free dicui abbiamo parlato prima; la sezione S improvvisa un

112 Risulta evidente la lotta fra ciò che abbiamo chiamato il limite esterno e la necessità interiore dell’artista. Un residuodella forma permane come principio ordinatore sostanziandosi in una ritmica libera ma comunque ciclica e regolare,garantendo così un “ordine” negli assolo dei musicisti e una sorta di linearità nell’esecuzione.113 Il walking bass è il caratteristico modo che ha il contrabbassista di suonare lo swing.

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tempo veloce e aleatorio che non prende una forma precisa fino a quando, usciti all’unisonoarmonico, Dolphy non inizia il suo assolo. La sezione D rimane più bassa in prima battuta, si senteun sottofondo di tamburi e durante l’unisono armonico Haden suona il contrabbasso con l’archetto.Dopo l’unisono armonico, proprio all’inizio dell’assolo di Dolphy, la sezione D prende un tempodefinito, di media velocità, che sarà mantenuto per tutto il brano, perlomeno fino agli assolo dellesezioni ritmiche stesse. Qui la ritmica si solidifica per lasciare spazio alle note di Dolphy, ma prende due strade diverse.La sezione D ha uno swing “regolare”, che assomiglia molto al normale modo di accompagnare unaqualsiasi improvvisazione jazzistica. Certo, è assolutamente presente nel modo possente e ricco diportare il tempo di Blackwell l’idea di dialogo, di risposta ai richiami degli altri strumentisti.Possiamo sentire come non manchi mai il battito in levare, il suono del charleston che accompagnail cembalo accentando il tempo debole, leggermente terzinato che contraddistingue lo swing. Maassieme ad esso e sopra questo Blackwell ricama un movimento continuo, piccole rullate, accenti eimprovvisi colpi di grancassa, risposte e progressioni con gli altri strumentisti, che accennanosignificativamente ad una libertà di espressione, di partecipazione della batteria non solo più comestrumento “accessorio” e delegato al semplice compito di tenere il tempo, ma come pienamenteammesso alla costruzione della musica in tutte le sue colorazioni. Più regolare èl’accompagnamento di Haden, vera e propria costante ritmica durante l’assolo di Dolphy; possiamosentirlo in questa parte suonare molto pulito e costante, scandendo un tempo quasi metronometrico,in piena contrapposizione con il ruotare continuo di tutto ciò che gli si crea intorno. Haden in questaparte è il vero fulcro temporale di Free Jazz, regolare e costante, con solo una minima variazione a04:50, si propone in maniera dialettica nel gioco creante se stesso di Free Jazz, rappresenta l’ordinein contrapposizione al caos emozionale dell’improvvisazione. La stessa cosa non si può dire della sezione S. Abbiamo ascoltato come nei primi sette secondidel brano essa sia completamente free, ricordandoci quella totale rottura del tempo a cui abbiamogià accennato. Possiamo capire meglio il suo ruolo solo quando la sezione D regolarizza il suobattito. Se prima ci appariva fuori da un ritmo, aleatoria e sospesa nel tempo, quando la sezione Dentra nello swing, in modo decisamente costante, capiamo che essa batte un ritmo doppio rispetto aquesta. L’approccio a un ritmo definito della sezione S è più tardo e aleatorio rispetto alla D.Higgins sin dalle prime battute della composizione è velocissimo, e lo sarà fino alla fine di FreeJazz. Sembra un treno in corsa, libero, senza schemi, che viaggia lanciato alla massima velocità. Ilsuo suono è più fine e delicato rispetto a quello di Blackwell. Lavora molto sui cembali e i tamburi,quando ci sono, sembrano quasi sfiorati; tutto ciò rende questa sezione apparentemente più free,meno legata al ritmo e più libera di dar sfogo ai propri impulsi. Questa sembra essere anchel’impressione di Martin Williams, 114 ma a nostro parere è solo una parvenza di libertà: questasezione esegue un gran lavoro di compressione e spinta del ritmo, si colloca esattamente al doppiodel tempo battuto dalla sezione D e corre incessantemente per tutta la durata di Free Jazz. Questo èl’ incrocio temporale, la diversa valenza ritmica che le due sezioni eseguono. È preferibile, se si vuolcomprendere il lavoro svolto, ascoltarle singolarmente: prima una sul rispettivo canale del nostroimpianto stereofonico e poi, conseguentemente, l’altra. Può darsi che si abbia l’impressione diascoltare due brani e questa è una delle principali diversità che rinveniamo fra i due quartetti: ilquartetto di Dolphy, con la ritmica D ha un incedere “swingante e un sapore più “classicheggiante”,il suo ritmo più lento e uniforme risulta essere familiare, tant’è che si potrebbe quasi battere il piede,per seguire il tempo, come accade all’ascolto di un classico brano di jazz. Il quartetto di Coleman è invece poco rassicurante. Il suo ritmo ci sembra inafferrabile e fino aquando, intorno a 1:20, LaFaro non regolarizza in un velocissimo walking bass il suo modo disuonare, (che comunque spesso trasformerà nel corso di Free Jazz in brillanti nonché insolitetrasgressioni), non è percepibile se non con un attento ascolto. La perizia tecnica di questi duemusicisti è sublime. Higgins è instancabile e LaFaro, che pure sarebbe un jazzista più tradizionale, 114 Cfr. liner notes di Free Jazz.

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continua a presentare invenzioni fino all’apoteosi dei due bellissimi assolo di contrabbasso, chetroveremo in coda a Free Jazz. Quando, eseguito l’esperimento di un ascolto separato dei due quartetti, rimixiamo il tutto, eccoche si presenta l’essenza di Free Jazz nella sua particolarità: l’improvvisazione collettiva . Unchiamarsi e rispondersi legato da quell’idea dialettica di cui abbiamo già accennato e che ben siesprime nelle differenze e contrapposizioni ritmiche delle due sezioni. Un tempo e il suo doppio,uno cammina e l’altro corre, un “contenitore” e un “contenuto”. Questi due ritmi si affrontano e sistimolano, ma sono due facce della stessa medaglia, nascono ambedue dallo stesso uno e lì, nellaciclicità ritmica che porta sempre con sé l’idea di un ritorno al primo battito del ciclo, si ritrovano.In definitiva è lo stesso tempo suonato in due accezioni diverse, è un incrocio temporale fra unritmo e il suo doppio, che si slega e si sovrappone ma che s’incontra sempre nell’uno, e questo saràpiù chiaro all’inizio degli assolo delle sezioni ritmiche. Tutto ciò fa si che da questo impasto ritmicone esca per l’appunto chiara la sensazione di flusso temporale. Non vi è un tempo musicaledominante, che stabilisce parametri, imposto dall’esterno, che uniforma e regola con precisione gliinterventi e le pause dei suonatori. Al suo posto c’è un complesso, sobbalzante ritmo medio/veloce,continuamente rinnovato e pulsante, forse meno gradevole per l’orecchio dell’ascoltatore assuefattoad un jazz regolamentato dalla tradizione, ma sicuramente più reale e vicino alla necessità interioredel musicista che lo esegue. In effetti Free Jazz non è una musica fatta per… non si preoccupa delbello ma piuttosto di smarcare l’esecutore e dirgli: qualsiasi cosa può andar bene. L’assolo di Dolphy è proprio questo, il suo strumento parla come una voce, le inflessioni, ilgracchiare deformato o l’improvvisa raffica di note del suo clarinetto basso ci ricordano che lorovogliono “suonare come se parlassimo, ridessimo, piangessimo”. È un modo personale che esprimecon il suono la capacità della musica di andare oltre la parola. È un dire che ha un senso solo nellalibertà dell’improvvisazione, che non può trovare traduzione nei termini del linguaggio, in sensoproprio, ove l’aderenza del termine al concetto specifica la parola usata. Questo tipo di riflessione,se così la possiamo chiamare, si è liberata dall’obbligo della definizione, di dire “è questo”, dirispondere alla domanda “che cos’è?”, perché l’improvvisazione non definisce nulla, e di fatto noncrea nulla di nuovo, ma trasforma incessantemente. L’assolo di Dolphy scorre velocemente es’inalbera verso la fine, a 04:30, quando progressivamente i fiati intervengono in un crescendo cheaccompagna all’unisono armonico, che inizia a 05:12, inframmezzato da una breve parte diimprovvisazione totale che conduce all’assolo di Hubbard.

§ 3. Da 05:24 a 19:55 – L’assolo di Hubbard e l’assolo di Coleman

A 05:24 si chiude il secondo unisono armonico che segna l’inizio dell’improvvisazione diHubbard. Anche in questa parte di Free Jazz l’accompagnamento ritmico rimane fluido, con le duesezioni che continuano ininterrottamente nella loro corsa, una al doppio dell’altra. All’inizio del suoassolo Hubbard sembra cercare un’espressività che si integri con l’andamento del brano. A 06:30,poco alla volta, inizia uno scambio reciproco molto vivace, in cui intervengono tutti i fiati e che sisviluppa fino a 07:05, quasi si volesse sostenere l’assolo di Hubbard e stimolarlo ulteriormenteall’improvvisazione. Questo lavoro di continua tessitura, da parte degli altri fiati, interviene a“onde” durante l’assolo di Hubbard. Egli rimane isolato per brevi periodi per poi essere coinvoltonell’improvvisazione collettiva, con tutti i fiati, che arriva, cresce e scompare ciclicamente fino a09:42, punto in cui troviamo il terzo unisono armonico. Nell’economia del brano è dunquefacilmente riscontrabile come il meccanismo dell’unisono armonico divida lo stesso in sezioni.Queste sono via via assegnate ai musicisti come spazi per le loro improvvisazioni, in cui lostrumentista di “turno” guida e conduce con il proprio assolo, l’andamento generale

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dell’improvvisazione collettiva. Possiamo quindi riscontrare tre formule base che ricorronoall’interno del brano:

-l’unisono armonico,-brevi frammenti di free totale, generalmente all’inizio o in coda all’unisono armonico,-le sezioni improvvisative vere e proprie.

A queste si aggiunge il tema, parte significativa e peculiare di Free Jazz, che ricorre soltantoall’inizio e alla fine dell’assolo di Coleman. Ora siamo proprio arrivati a 09:53, al tema di Free Jazzche per la prima volta è suonato da Ornette e che prelude al suo assolo. È un tema corto, unamelodia appena abbozzata che, diversamente da come avviene in uno “standard”, in cui il tema èall’inizio e alla fine di ogni composizione, qui sembra quasi perdersi nell’andamento del brano. Ineffetti apre e chiude solo la sezione improvvisativa di Coleman, come per assegnare una valenzaparticolare al suo assolo, che ha una un’importante differenza temporale rispetto alle sezioni deglialtri strumentisti. Coleman di fatto occupa il doppio del tempo per la sua improvvisazione rispettoagli altri strumentisti, ed è l’unico che dispone di quasi dieci minuti. Questo privilegio è dovuto alfatto che Coleman è il leader della formazione, nonché l’ideatore di questo progetto musicale. FreeJazz è sì un’improvvisazione collettiva, ma è soprattutto una concezione musicale, un modo diproporre il jazz e la musica che fa capo alle ricerche di Coleman. In questo lungo assolo abbiamomodo di ascoltare il suono distintivo del suo sassofono che, liberato dagli schematismi di forme piùtradizionali, interpreta la propria libertà. A monte vi è la capacità di essere riuscito a crearsi unmondo amichevole ritagliato su misura. Diventa ora interessante per le nostre considerazionileggere cosa dice Gunther Schuller, quando recensisce una nuova edizione dell’album, 37 anni dopola sua apparizione:

“ Free Jazz, naturalmente, ha fatto strada a tutta una nuova fase nello sviluppo del jazz, unafase che in un certo modo è stata considerata una rivoluzione “tranquilla”, spesso rigettatacome una pura e semplice intelligibile cacofonia, ma benvenuta da molti altri come unanuova direzione nel jazz. Se il jazz è sempre stato la musica della libertà e dell’espressioneindividuale, allora Free Jazz ha rappresentato un ulteriore passo in avanti per allargare questoconcetto. La premessa era che se si poteva fare a meno dei vincoli delle costrizioni formali, (ledodici battute del blues, le trentadue battute della forma standard AABA e le classicheprogressioni di accordi) allora qualcuno avrebbe potuto anche esprimere liberamente isentimenti interiori, completamente libero, sbottonato, limitato solo dal proprio talento e dallapropria immaginazione.Questo non era per tutti, naturalmente, e tuttora non è per tutti. Ci sono musicisti che nonriescono a maneggiare una tale quantità di libertà; questa grande libertà necessita di unagrande responsabilità, disciplina, obbligandosi a incanalarla in una coerente, magnificaespressività. Questo significa essere padroni del proprio strumento, in modo da poter dareistantaneamente avvio alle idee musicali o, nell’improvvisazione collettiva, a reagireistantaneamente ad altre idee musicali, completandole, cambiandole, contrastandole.” 115

È facile intuire dalle parole di Schuller come libertà, immaginazione ed espressione, sianonecessarie per avere l’indispensabile reattività che l’improvvisazione richiede. Aggiunge che lalibertà che troviamo all’interno di un campo improvvisativo non è “per tutti”. In sintonia con lanostra analisi, che, ricordiamo, sottolineava come ci si debba “buttare” all’interno di un vuotonell’improvvisazione, in cui la mancanza di punti di riferimento può essere disorientante, Schullersottolinea che per “manipolare”, per dare avvio alla trasformazione del materiale sonoro, all’internodel campo improvvisativo, sia comunque necessario un senso di “responsabilità” che incanalil’emozionalità, rendendola massimamente espressiva. L’atto di legare ogni istante in un flussocontinuo e ininterrotto è per noi la regola di relazione, ciò che, in ultima istanza, crea quel 115 Gunther Schuller, Ornette Coleman Double Quartet, Free Jazz (Deluxe Edition), liner notes.

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particolare movimento ad onde che troviamo nello sviluppo di un improvvisazione. Nei dieci minutidi assolo di Coleman dobbiamo prestare particolarmente attenzione a come tutto si svolga ruotandoattorno a questi parametri: l’idea di flusso temporale, di un movimento ad onde dall’interno versol’esterno; la responsabilità dell’improvvisatore, che lo rende reattivo e massimamente espressivo,istantaneo. L’idea è colta e subito ripresentata, e qui, all’interno dei dieci minuti di Colemanpossiamo ascoltare diverse volte questo incedere. Schuller non si ferma qui, ribadisce la qualità dei musicisti del doppio quartetto e propone unasuggestione avvertita non solo da lui ma anche da altri musicisti e critici: la libera improvvisazionee concetti musicali apparentati strettamente con una simile visione musicale emergonosingolarmente in diverse aree.116 In realtà sottolinea una sorta di legame epocale fra le necessità deimusicisti di qualsiasi formazione, (Schuller si muove fra l’area classica e quella jazzistica)evidenziando come il bisogno di affrancarsi dalle forme e dai modelli fosse “simply in the air”.117

Interessante è poi vedere come Schuller ha suddiviso questa composizione:118

“La forma di Free Jazz comprende sei sezioni suonate senza interruzioni. Per segnare econdurre ogni nuovo cambio di sezione, Coleman usa tre diverse idee introduttive, tutte moltoconcise:1) una metallica, atonale, polifonica fanfara, udibile al vero inizio della performance e alcune

volte verso la fine;2) un sostegno atonale, un insieme di molte voci corali che esegue una serie di note;3) un tema all’unisono composto da Coleman. Questi sono i soli tre elementi predeterminati in tutti i trentasette minuti di Free Jazz. Tuttoil resto è improvvisato senza altro materiale provato: ognuno è rigorosamente se stesso. Perquanto riguarda la forma complessiva e la durata di ognuna di queste sei sezioni, sono statedirette ad hoc da Coleman che, simile ad un maestro percussionista in un insieme dipercussionisti dell’Africa occidentale segnala quando finire una sezione e dare inizio ad unnuovo segmento. Questo buon modo di lavorare è fatto in larga parte da questi otto musicistiche aprono la loro sensibilità all’ascolto e all’interazione reciproca.” 119

Le tre formule riscontrate da Schuller, sono in sintonia con quelli che poc’anzi abbiamo rilevatocome elementi peculiari di Free Jazz. Il punto uno è ciò che noi abbiamo definito come free totale,il due è l’unisono armonico e il tre è il tema che introduce e conclude l’assolo di Coleman. L’unicadifferenza è che noi abbiamo preferito evidenziare le sezioni improvvisative come segmentimaggiormente ciclici rispetto al tema che invece ricorre solo due volte. Ma in questo senso si trattasolo di una differenza “notazionale”, che non altera il significato della “costruzione” del brano, chevede piccoli frammenti ragionati opporsi alle lunghe sezioni improvvisative. Che il tutto siafunzionale alla visione emozionale di Coleman, di una musica dove l’improvvisatore è stimolato aesprimere la sua particolare creatività all’interno di questo continuo rimbalzare di idee musicali nonpuò sfuggire a Schuller, che rimarca l’importanza del concetto di “tessitura”, per lui molto vicino aicollettivi polifonici del jazz di New Orleans.120

116 In sostanza Schuller rimarca le analogie che abbiamo già in parte rilevato accenando a Varèse o a Cage.117 Cfr. liner notes Free Jazz (deluxe version).118 Ibidem.119 Ibidem.120 Citiamo da Polillo: “Benchè in materia esistano testimonianze discordanti, non è troppo difficile come fosse lamusica suonata dalle fanfare marcianti nei primi anni del Novecento: i dischi incisi a New Orleans in epoca posteriore,ma di carattere ancora arcaico, le descrizioni di chi le sentì, i raffronti e le deduzioni che è posibile azzardare ciconfermano che doveva trattarsi di un miscuglio piuttosto rozzo fra la musica bandistica di origine europea (italiana,tedesca, francese), il ragtime – che era fondato su un tempo di marcia- e gli spirituals. […] I più suonavanosemplicemente, a orecchio. Anche per questo si abbandonavano volienteri alla improvvisazione e variavanosensibilmente i testi musicali.” A. Polillo, op. cit., pag. 79.

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Le osservazioni temporali di Schuller sono invece abbastanza limitate, com’è di consuetudinenella maggior parte dei critici. Si sofferma solo sul tempo per sottolineare il raddoppio temporaleche, come abbiamo già visto, divide le due sezioni ritmiche:

“I due bassisti, LaFaro e Haden, evidentemente decidono presto che Haden potrebbe muoversinel mezzo e sul registro basso e sul tempo di base, mentre LaFaro a sua volta si muoverebbesul registro alto e raddoppiando il tempo, un modo ordinato per tenersi fuori da altre vie, unatattica che mantengono per quasi tutta la performance”. 121

Viene rimarcato l’incrocio temporale, ma Schuller non si interessa ulteriormente al tempo e nonpropone altri spunti in merito. Si sofferma invece sull’assolo di Coleman, dopo aver brevementeanalizzato quelli di Dolphy e Hubbard:

“Un’altra catena di suoni sostenuti, stridenti e dissonanti prepara l’unisono che introduceall’assolo di Coleman. Se ho facilmente rilevato come Dolphy sia a suo agio in questo mondoatonale, era per distinguerlo da Coleman, che non è mai stato (o è) un vero musicista atonale.Coleman è un lamentoso Texas Blues player che frequentemente si libera dai lacci dellatonalità con irregolari ma sentite modulazioni e ornamenti microtonali. Coleman èindubbiamente il più convincente, persuasivo, assertivo musicista in questo ottetto (doppioquartetto); è anche molto swingante, meravigliosamente assieme ai due compagni di lungadata, Billy Higgins e Charlie Haden. La musica diventa realmente viva nel segmento diColeman, anche – significativamente– la più lunga delle sei sezioni.Coleman conduce armoniosamente nel suo segnale di unisono accompagnato alla stessamaniera da Don Cherry. Lui suona da solo per un momento (con la sezione ritmicanaturalmente) ed eventualmente si unisce agli altri fiati. Avvisa di come, poco dopo, Cherry eColeman alimentino qualsiasi altra idea.” 122

Questa descrizione può essere preziosa perché individua come Coleman non sia totalmenteatonale, e in ultima analisi free, così come non lo è anche il tempo all’interno della composizione.Abbiamo già visto che Free Jazz si basa su un incrocio temporale e non su una completadestrutturazione del tempo, e qui viene rimarcato anche il legame sottile che Coleman mantiene conla tradizione. Un filo invisibile che asserisce l’idea di una trasformazione piuttosto che quella di uncompleto rigetto, che invece sarà fatta propria da altri esponenti del movimento free. L’assolo di Coleman è dunque il più lungo di Free Jazz. Bisogna innanzitutto dire che non èpossibile parlare di “assolo” in senso stretto, perché, come magistralmente accade in questa sezionedel brano, il solista è più un conduttore, ha una funzione “maieutica” nei confronti dei compagni.Egli stimola, chiama, risponde, inoltra i percorsi sonori per poi arrestarsi di colpo e rispondere alrichiamo improvviso di un altro strumento. La concezione che imperava all’interno di uno standarddi jazz “classico”, che dunque vedeva nel solista e nella sua parte di assolo un unico fuoco centrale acui gli altri si avvicinavano assecondando lo svolgersi della musica, che divideva fra un solista edegli “accompagnatori”, non è certo ciò che troviamo in Free Jazz, e tanto meno all’internodell’assolo di Coleman. Qui il solista è più un propositore di idee, un conduttore che all’interno diun dibattito musicale stimola la conversazione con continue provocazioni, lasciando che questeemergano dagli strati più profondi della propria emozionalità, libere dai vincoli della forma e delmodello. È il concetto di tempo interno, che con l’immagine mentale di un “serpenteimprovvisativo” propone un incedere a onde, un fiume tortuoso che avanza ingrossandosi semprepiù per via dell’affluire di mille rivoli e che alla fine raggiunge un apice, un climax che però non èmai definitivo, perché mai predeterminato, mai strettamente organizzato. È piuttosto l’emotivitàcollettiva che cresce e sviluppa una potenza sonora sotto l’egida di Coleman, il solista di turno che 121 Gunther Schuller, Ornette Coleman Double Quartet, Free Jazz (Deluxe Edition), liner notes.122Ivi.

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guida questi apici lungo il suo assolo, come ad esempio accade da 16:30 a 17:00 in cui,nuovamente, più suoni si mischiano, crescono e svaniscono. A 19:55 questa sezione finisce ericordiamo che originariamente qui si chiudeva anche il primo lato del long playing di Free Jazz,con la fine dell’assolo di Ornette Coleman.

§ 4. Il lato due: gli assolo di Cherry e delle sezioni ritmiche

Il secondo lato inizia con la ripetizione del tema che abbiamo già sentito aprire, a 09:53, lasezione che abbiamo appena trattato. Qui azzeriamo anche noi il nostro conteggio temporale,attendendoci alla cesura che si poteva riscontrare originariamente e che imponeva l’atto manuale di“girare” il disco. Partiamo dunque con l’assolo di Don Cherry che, come quelli che lo hannopreceduto, a esclusione di quello di Coleman, occupa quasi cinque minuti. Questa parte è moltobella e possiamo sentire come Cherry sia già pienamente maturo per questa musica; non è difficileavvertire che, a differenza di Hubbard, (appena ventiduenne all’epoca di Free Jazz) Cherry abbiagià una forte personalità coadiuvata dalla lunga esperienza con Coleman. Con la sua pocket trumpetha una sonorità unica e in certi momenti molto lirica, sempre altamente espressiva. La “voce” diquesta piccola tromba ha una presenza fortemente mistica, che in un certo qual modo indica lastrada che il musicista prenderà in seguito, abbracciando una musica universale con forti colorazioniorientali, spesso influenzata dalla musica indiana. A 05:46 troviamo il quarto unisono armonico equi inizia un segmento molto particolare di Free Jazz: gli assolo della sezione ritmica. Particolare rilevanza assumono i due contrabbassisti, che nel loro spazio creano una sonorità e un“ambiente” assolutamente unico all’interno del disco. Sembra quasi di entrare in questo mondocolemaniano da una porta secondaria, ove il tumulto e la frenesia improvvisamente si placano, ibatteristi smorzano i loro tamburi, Blackwell usa le spazzole, i fiati tacciono in rispettoso silenzio.Prima è il turno di Haden, a 10:16, poi il quinto unisono armonico irrompe e apre la sezione diLaFaro. Ma i due contrabbassisti lavorano sempre insieme, si ascoltano e si rispondono e congrande creatività e immaginazione aprono finestre impensabili all’interno del tumultuoso Free Jazz.Questo accade con particolare intensità da 11:10 a 12:20, poco dopo l’inizio dell’assolo di LaFaro,quando il contrabbassista, con notevole tecnica e grande sensibilità, costruisce con la complicità diHaden una parentesi espressiva molto romantica, armonica, che promette una riconciliazione colmondo dei suoni organizzati. Questa particolarità, ovvero la sensazione che la corsa di Free Jazz sembri arrestarsi davanti agliassolo dei due contrabbassisti, ha una ragione temporale. Di fatto è nell’arresto temporaneodell’incrocio temporale, che sinora ha accompagnato tutte le sezioni precedenti che avvertiamo unsostanziale cambiamento. E come potrebbe essere diversamente, se, all’arrestarsi o al diminuired’intensità del ritmo, noi rimanessimo indifferenti. Certo, anche questo particolare ci ricorda come ilprocesso improvvisativo si nutra di tempo e trovi principalmente in esso i mezzi espressivi pervariare le sue possibili colorazioni. La struttura ritmico/temporale cambia e noi respiriamo conmaggior facilità, i due contrabbassisti ci danno più tempo per ragionare, ci sembrano piùamichevoli. Dopo questa sezione di Free Jazz, dedicata agli assolo dei due contrabassisti, a 14:12 irrompe unbreve momento free seguito a ruota dal sesto unisono armonico. Questi annuncia che,canonicamente (infatti lo schema di fissare gli assolo della sezione ritmica alla fine del brano èconsuetudine negli standard), la parola passa ai batteristi. Tutti e due eseguono delle sezioni moltocorte, di poco più di un minuto ciascuno. La prima è occupata dall’assolo di Blackwell, che usamolto i tamburi e crea una dimensione che Coleman definisce “tridimensionale”. Infatti, per lui ilsuono della batteria di Blackwell non propone soltanto ritmo e continue variazioni su di esso, ma si

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arricchisce di linee melodiche, quasi fosse in grado di usare note definite. La cesura che divide i duebatteristi arriva a 15:43, il settimo unisono armonico che introduce Higgins. I cembali, con il lorotimbro più sospeso e leggero rispondono ai tamburi. Higgins rimane aereo e sempre molto veloce,come del resto ha fatto per la maggior parte del brano. Sembra che lo spazio occupato dai batteristi,che come abbiamo evidenziato è notevolmente minore rispetto a quello degli altri strumentisti, nediminuisca l’importanza come solisti. Possiamo supporre che realmente la necessità di assegnaremaggior spazio alle batterie, nell’economia dell’intero Free Jazz, abbia giocato a sfavore di una loroparificazione rispetto agli altri strumentisti. Dobbiamo sempre ricordarci che il “vinile” non potevamaterialmente contenere un’ulteriore dilatazione del brano. Ma sicuramente la scelta, se purinfluenzata da queste considerazione, è stata anche artistica. Il tempo, ed in esso la batteria comeportatrice di un ritmo che ne scandisce il fluire, è sempre presente lungo tutto il corso del brano. Inquesto possiamo osservare che anche i due batteristi non si danno mai il “cambio”, suonano ognunoseguendo il proprio tempo senza mai arrestarsi se non in qualche breve istante durante gli assolo deicontrabassisti. La funzione di sostegno, di imprimere un ritmo, di propulsore tendentecontinuamente in avanti è svolta da Blackwell e da Higgins incessantemente in tutte le sezioni diFree Jazz, a differenza degli strumenti puramente melodici che entrano ed escono continuamentedal brano. Questa diversa funzione fa sì che le batterie avvertano una minor esigenza di “assolo”rispetto ai fiati, i quali, invece, possono esprimersi pienamente soltanto nei rispettivi segmenti. Anche se l’orchestrazione decisamente inconsueta di Free Jazz spacca con la “tradizione”, inqueste considerazioni sulla funzione degli strumenti e negli spazi a loro assegnati non possiamo farea meno di notare una traccia della “tradizione”, un’eco del limite esterno che assegnapreventivamente ad ogni strumento una funzione specifica. Free Jazz ora è arrivato alla fine: a 16:56 un’ultimo free richiama l’ottavo unisono armonico cheva sfumando in coda. A 17:28 termina il brano.

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CONCLUSIONI

Abbiamo esordito sottolineando come, all’interno di un improvvisazione, la nozione di strutturaentri fortemente in competizione con quella di processo. Se teniamo a mente questa sempliceproposizione, rileggendo il lavoro proposto, quel che emerge è che il tempo improvvisativo è unflusso soggettivo libero ed emozionale che tende a far tabula rasa di ogni residuo normativo ma,nella lotta che si pone fra esso e le “forme e i modelli”, qualcosa rimane, necessariamente. Questa èla struttura dell’improvviso, un contenitore ineliminabile che, in forme evolute d’improvvisazione ècercato e voluto quale spazio libero e avuslo da costrizioni formali, atto a prefigurarsi come sostratofertile per un processo di creazione istantanea. Sarà certo proprio questo processo di creazione istantanea a rendere il tempo dell’improvviso edin esso la performance artistica, ma ciò è in un certo qual modo possibile proprio perché a monte èstato creata quella “cornice” di libertà che abbiamo chiamato campo improvvisativo. Dunquestruttura e processo giocano sul limite della transitorietà. Com’è emerso dalla lettura in questaindagine non abbiamo voluto addentrarci su annose questioni di carattere estetico o musicologico,(come, ad esempio, quella che chiede quanto si possa essere autenticamente creativi e quanto invececi si trovi di fronte il limite della ripetitività), ma piuttosto ci siamo preoccupati di rendere dignitosala categoria dell’improvviso. Ma perché, torniamo a chiederci, l’improvviso ci sta così a cuore?Forse perché acquistandone consapevolezza riteniamo che questa categoria, anche al di là di ambitiartistici ove esso ha ricavato una sua propria connotazione, non possa più essere considerato comequalcosa che semplicemente accade, un evento spesso fastidioso, un contrattempo seccante daovviare in un qualche modo. Esso non è la negazione della scienza o del pensiero e tanto meno unpasticcio abbozzato senza alcuna premeditazione, un rifugio per inetti e autodidatti. Crediamo, diconverso, che l’improvviso sia una categoria fondante la nostra esperienza mondana, dotata di unaspecificità e certo di una temporalità ben definita, passibile di studio e ricerca. Inoltre, è da notarecome paradossalmente, in un mondo in cui la globalizzazione e le autostrade informatiche nonché lavelocità e relativa importanza delle informazioni la fanno da padrona, proprio l’improvviso ne esca,in un qual certo modo, rafforzato. In un pianeta in cui in tempo reale è possibile l’accesso ad ognievento particolare, l’improvviso è come una mina vagante, pronta a mutare, profondamente, lastruttura su cui si adagia. La ricerca presentata si è avvalsa dell’esperienza di artisti e delle “arti” perguardare tra le pieghe dell’improvviso e rinvenire delle costanti che potessero dar luogo ad unadisamina analitica di questa categoria. Vogliamo però ricordare come l’improvviso si dia spessoanche nelle nostre esperienze mondane e con ciò ancora una volta rilevare come, le strutture che ciportano, siano sempre e sempre di più in competizione con la temporalità di un possibile eventoimprevisto. Riassumiamo ora sinteticamente le ipotesi formulate sul processo improvvisativo.L’improvvisazione è un processo di carattere eminentemente temporale. Essa ha due categoriefondamentali: il campo improvvisativo e il tempo improvvisativo..a) Il campo improvvisativo è la struttura dell’improvvisazione . Importante è osservare il luogo

dell’improvvisazione, la cornice in cui essa si dà proprio perché i significati degli attiimprovvisativi vengono a costituirsi in relazione e spesso in contrapposizione con gli elementispaziali che la ospitano. È per questo che abbiamo delineato come elemento strutturaledell’improvvisazione il limite esterno, ovvero il mondo che agisce dall’esterno come forma e

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modello e che si contrappone alle forze dinamiche dell’improvvisazione delineandone lo spazioiniziale. Dunque le costanti “spaziali” che compongono il campo improvvisativo e che ci sonoservite per analizzare esecuzioni e performance artistiche le possiamo gerarchicamenteriassumerle in cornice, limite esterno e mondo come forma e modello. Abbiamo poi un luogointerno dell’improvvisazione, che sappiamo essere un involucro, un guscio vuoto in cui inizieràil processo temporale sotto la spinta delle forze dinamiche della necessità espressiva interiore.Possiamo dunque affermare che il campo improvvisativo è la cornice che si presenta all’iniziodi ogni improvvisazione, è ciò che fornisce i materiali per la trasformazione e che dà lapossibilità all’improvvisatore di mutarli .

.b) Il tempo improvvisativo. La temporalità, in questa accezione, si carica di significati particolari

soprattutto in relazione al concetto di flusso temporale e alle considerazioni emerse dalladisamina dello stesso. Abbiamo visto come il ritmo pulsante all’interno di un’improvvisazione(si consideri qui il termine nella sua accezione percussiva) sia sempre fortemente soggettivo,scollato da un tempo oggetto (come il metronomo) e portatore di una spinta che, a partire dallanecessità interiore, si configura come un istanza di libertà. Abbiamo esaminato questi concettiempiricamente con l’aiuto del buon percussionista rilevando come all’interno del tempoimprovvisativo vi sia una processualità che, a partire dall’ uno, dall’atto primo che da inizioall’improvvisazione in base (percettivamente) alla regola di relazione lega tutti i successiviattimi formando una sequenza, un movimento fluido che è stata chiamato, come ormaisappiamo, flusso temporale. La forza dinamica che muove questo processo e ne fa da motore èuna tensione, una spinta pulsionale che abbiamo detto essere la necessità espressiva interiorecome intenzione di libertà che fa da ponte, collegando la temporalità con il luogo in cui essaavviene, per l’appunto il campo improvvisativo. Dunque il tempo improvvisativo è unaparticolare accezione temporale propria dell’improvvisazione che si contraddistingue per essereun flusso temporale generato dal tempo interno del soggetto, proprio di un processo dicreazione istantanea e rinvenibile nell’area specificata come campo improvvisativo .

c) Essa ha un orientamento soggettivo, perché basandosi sul tempo interno produce un movimentoche, similmente a tutti gli atti creativi, parte dal nostro personalissimo mondo interno, a volteinconscio, verso il mondo/ambiente. Dunque dall’interno verso l’esterno, dal soggetto versol’ambiente.

d) L’improvvisazione è tanto più libera quanto più è consapevole . Abbiamo visto esserci unagradazione, all’interno degli atti improvvisativi, fra ciò che semplicemente accade, cogliendociogni volta di sorpresa, e la consapevolezza di volere un’area libera per la propria espressività,come ci hanno dimostrato Coleman e Pollock. Dunque anche la libertà partecipaall’improvvisazione in maniera costitutiva assumendo però a seconda dei contesti, o meglio delcampo in cui avviene l’atto improvvisativo, particolari e sempre diversi significati. Il tema dellalibertà potremmo dire essere lo spirito dell’improvvisazione , come qualcosa di ineffabile chesempre l’accompagna in maniera mutevole. Sappiamo che questa libertà ha anche due facce: seper un verso ci slega da ogni obbligo formale, dall’altro è sempre come un salto nel vuoto.Questo vuoto, quel luogo interno dove abbiamo detto trovarsi la necessità espressiva interiorecome forza dinamica in seno all’improvvisazione è anche la sede della libertà all’inizio di ogniprocesso improvvisativo.

e) Il senso del movimento che si contrappone a quello dello spazio, come abbiamo sempre detto, lanozione di processo che entra in competizipone con quella di struttura, è un ulteriore elementoproprio di un improvvisazione. Questo ci ha aiutato a comprendere come, per avereconsapevolezza di un atto improvvisativo, sia indispensabile guardare al tempo zero. Lo zero è

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tutto ciò che precede la temporalità del processo improvvisativo, è logicamente la scena primadell’uno. L’uno è il tempo che prende possesso del campo e che conseguentemente inizia ilprocesso come improvvisazione; è qui che si avvia la particolare concezione temporale cheabbiamo chiamato tempo interno, o soggettivo, in cui entrano in gioco l’espressività e lacreatività del musicista. La cornice è un confine temporale che divide il tempo interno (o flussotemporale) dal tempo esterno ed è rinvenibile nell’attimo zero; lo zero è tutto ciò che precede ilflusso temporale, la scena che si dà prima dell’uno. Nello zero possiamo vedere cosal’improvvisatore ha scelto consapevolmente, il residuo strutturale. Questa considerazionesull’esistenza di zero e uno ci fa riflettere: è qui che troviamo i due tempi, le due particolariaccezioni già indagate all’inizio del nostro lavoro. Nello zero l’oggettività domina e imprime ilsuo marchio ad ogni istante, il reale è stabile e conseguente: è la zona di confine del tempoesterno, gli ultimi attimi in cui è rinvenibile questa temporalità. Nel tempo esterno posso faredelle contrattazioni, posso decidere e accordarmi con altri e partecipare alla messa in scena di unprogetto. Lo zero è in un qual certo modo il tempo esterno prima della sua trasfigurazione, portacon sé il tempo oggettivo, quello del metronomo e ugualmente quello dell’orologio. Il campoimprovvisativo è la costruzione di un area strutturale in cui il tempo subisce una spintaemozionale e una valorizzazione soggettiva; l’uno simboleggia proprio questa modificazionetemporale, è una spinta qualitativa, esistenziale, che si appropria del campo improvvisativoattraverso il darsi del flusso temporale interno del soggetto. La cornice delimita questo spazioiniziale, in cui è stato risucchiato il tempo oggettivo e dove non vi sono altro che i materialiscelti dall’improvvisatore; l’accuratezza con cui si sceglie il vuoto sta alle possibilità espressivedell’improvvisatore. Risulta evidente che la cornice è un confine fra zero e uno, fra dueconcezioni temporali. Ed è proprio osservando la scena al momento zero che rileviamo lastruttura consapevole, le scelte fatte e gli accordi presi: dopo vi sarà creazione istantanea, flussotemporale, per l’appunto, improvvisazione. Dunque nello zero abbiamo il residuo strutturale,nell’uno l’inizio della processualità.

Le ipotesi sopra riassunte come risultato di questa ricerca a nostro avviso devono avere unvalore non tanto come “prospettiva sistemica” sull’improvvisazione, (peraltro improbabile, vista lanatura dell’oggetto) ma, piuttosto, come punti di orientamento che consentano di individuare deiluoghi d’incontro e di discussione critica intorno all’improvvisazione stessa. Crediamo che siaproprio attraverso il continuo tentativo di comprensione dell’atto improvvisativo in sé, dunque dellesue componenti, che sia possibile avvicinare l’evanescente improvviso e, in un certo qual modo,percepirne l’essenza.

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Discografia

Album di Ornette Coleman in ordine cronologico123

• Something Else!!!! / Ornette Coleman: Contemporary S-7551, Los Angeles, febbraio-marzo,1958. Ornette Coleman(as), Don Cherry(tp), Walter Norris (p), Don Payne (b), BillyHiggins(d).

• Coleman Classics Vol. 1 / Ornette Coleman: Improvising Live "Hillcrest Club", Los Angeles,ottobre-novembre, 1958. Ornette Coleman(as), Don Cherry(tp), Charlie Haden(b), BillyHiggins(d), Paul Bley(p).

• Tomorrow Is The Question! / Ornette Coleman: Contemporary S 7569, Los Angeles, gennaio-febbraio-marzo1959. Ornette Coleman(as), Don Cherry(tp), Red Mitchell(b), Percy Heath(b),Shelly Manne(d).

• The Shape Of Jazz To Come / Ornette Coleman: Atlantic SD1317, Hollywood, CA,maggio1959. Ornette Coleman(as), Don Cherry(tp), Charlie Haden(b), Billy Higgins(d).

• *Lenox School Of Jazz. S.O.J. /AA.VV.: Royal Jazz Live, Lenox, Massachussetts, Agosto1959.Ornette Coleman(as), Don Cherry(tp), Kent McGarity(tp,b-tb), Steve Kuhn(p),Ron Brown(p),Larry Ridley(b), Barry Greenspan(d).

123 Questa discografia su Ornette Coleman riporta in ordine cronologico i dischi pubblicati direttamente a suo nome.Abbiamo segnalato con un’asterisco le sue partecipazioni a lavori di altri musicisti o a opere collettive comprese inquesto elenco. Pur essendo sufficientemente completa, questa discografia non è esaustiva del lavoro di Coleman.

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• Change Of The Century / Ornette Coleman: Atlantic 1327, Hollywood, CA, ottobre, 1959.Ornette Coleman(as), Don Cherry(tp), Charlie Haden(b), Billy Higgins(d).

• This Is Our Music / Ornette Coleman: Atlantic 1353, New York, luglio, 1960. OrnetteColeman(as), Don Cherry(tp), Charlie Haden(b), Ed Blackwell(d).

• *Jazz Abstractions / Gunther Schuller: Atlantic 1365, New York, dicembre1960. OrnetteColeman(as), Eric Dolphy(as,fl,b-cl), Eddie Costa(vib), Bill Evans(p), Jim Hall(g), ScottLaFaro(b), Gunther Schuller(arr,cond), Altri.

• Free Jazz / Ornette Coleman: Atlantic 1364, New York, 21 dicembre 1960. OrnetteColeman(as), Don Cherry(tp), Charlie Haden(b), Ed Blackwell(d), Billy Higgins(d), ScottLaFaro(b), Eric Dolphy (bcl), Freddie Hubbard (tp).

• Ornette! / Ornette Coleman: Atlantic 1378, New York, gennaio 1961. Ornette Coleman(as), DonCherry(tp), Scott LaFaro(b), Ed Blackwell(d).

• Ornette On Tenor / Ornette Coleman: Atlantic 1394, New York, marzo 1961. OrnetteColeman(ts), Don Cherry(tp), Jimmy Garrison(b), Ed Blackwell(d).

• The Art Of The Improvisers / Ornette Coleman: Atlantic SD1572, New York, maggio 1959 -marzo 1961. Ornette Coleman(as), Don Cherry(tp), Charlie Haden(b), Jimmy Garrison(b),ScottLaFaro(b), Ed Blackwell(d), Billy Higgins(d).

• Twins / Ornette Coleman: Atlantic SD 1588, maggio 1959 - marzo 1961. Ornette Coleman(as),Charlie Haden(b), Scott LaFaro(b), Ed Blackwell(d), & Others.

• To Whom Who Keeps A Record / Ornette Coleman: Atlantic P10085, dicembre 1959 - luglio1960. Ornette Coleman(as), Don Cherry(tp), Charlie Haden(b), Ed Blackwell(d).

• Beauty Is A Rare Thing / Ornette Coleman: Atlantic/Rhino (6CDs),maggio 1959 - marzo1961.

• Town Hall 1962 / Ornette Coleman: ESP 1006,"Town Hall", New York, dicembre 1962. OrnetteColeman(as,tp,vln), David Izenzon(b), Charles Moffett(d).

• Chappaqua Suite / Ornette Coleman: CBS Columbia 66203(2LP), New York, giugno 1965.Ornette Coleman(as,ts), David Izenzon(b), Charles Moffett(d), Pharoah Sanders.

• An Evening With O.C. / Ornette Coleman: Polydor 623246/2(2LP), "Fairfieldld Hall", Croydon,agosto 1965. Ornette Coleman(as,tp,vln), David Izenzon(b), Charles Moffett(d).

• Who's Crazy, Vol. 1 / Ornette Coleman: Atmosphere IRI5006, Paris, novembre 1965. OrnetteColeman(as,tp,vln), David Izenzon(b), Charles Moffett(d,per).

• Who's Crazy, Vol. 2 / Ornette Coleman: Atmosphere IRI5007, Paris, novembre 1965. OrnetteColeman(as,tp,vln), David Izenzon(b), Charles Moffett(d,per).

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• The Paris Concert / Ornette Coleman / Sonny Rollins: Magnetic Live "Salle de la Mutualite",2nd Set, Paris, Frame, novembre 1965. Ornette Coleman(as,tp,vln), David Izenzon(b), CharlesMoffett(d).

• Live At The Tivoli / Ornette Coleman: Magnetic Live Tivoli, novembre1965.OrnetteColeman(as,tp,vln), David Izenzon(b), Charles Moffett(d).

• At The Golden Circle Vol.1 / Ornette Coleman: Blue Note BLP4224, "Gyllende Cirklen"Stockholm, dicembre 1965. Ornette Coleman(as,tp,vln), David Izenzon(b), Charles Moffett(d).

• At The Golden Circle Vol.2 / Ornette Coleman: Blue Note BLP4225, "Gyllende Cirklen"Stockholm, dicembre 1965. Ornette Coleman(as,tp,vln), David Izenzon(b), Charles Moffett(d).

• Lonely Woman Trio '66 / Ornette Coleman: No Label BAT-1/4(4LPs) Copenhagen, aprile1966. Ornette Coleman(as,tp,vln), David Izenzon(b), Charles Moffett(d).

• The Empty Foxhole / Ornette Coleman: Blue Note BLP4246, New York, settembre 1966.Ornette Coleman(as,tp,vln), Charlie Haden(b), Denardo Coleman(d,per).

• The Music Of Ornette Coleman / Ornette Coleman: RCA LPM2982, New York, marzo 1967.Ornette Coleman(tp,comp).

• *New And Old Gospel / Jackie McLean: Blue Note BLP4262, New Jersey, marzo 1967. JackieMcLean(as), Ornette Coleman(tp), LaMont Johnson(p), Scott Holt(b), Billy Higgins(d).

• *Head Start / Bob Thiele: Flying Dutchman FDS104, New York, luglio 1967. OrnetteColeman(as), David Izenzon(b), Charlie Haden(b), Charles Moffett(d).

• The Unprecedented Music Of O.C. / Ornette Coleman: Joker UPS2061, Live, Rome, febbraio1968. Ornette Coleman(as,tp,shanai), David Izenzon(b), Charlie Haden(b), Ed Blackwell(d)

• Live In Milano 1968 / Ornette Coleman: JazzUp JU310[CD],live, Teatro Lirico Milano 1968.Ornette Coleman(as), David Izenzon(b), Charlie Haden(b), Ed Blackwell(d).

• *Plastic Ono Band / Yoko Ono: Apple SAPCOR17,VACK-5370[CD] Royal Albert Hall,London, febbraio 1968. Yoko Ono(voc), Ornette Coleman(tp,vln), David Izenzon(b), CharlieHaden(b), Ed Blackwell(d).

• New York Is Now / Ornette Coleman: Blue Note BST84287, New York, aprile-maggio 1968.Ornette Coleman(as,tp,vln), Dewey Redman(ts), Jimmy Garrison(b), Elvin Jones(d), MelFuhrman(vcl).

• Love Call / Ornette Coleman: Blue Note BST84356,New York, aprile-maggio 1968. OrnetteColeman(as,tp,vln), Dewey Redman(ts), Jimmy Garrison(b), Elvin Jones(d).

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• Ornette At 12 / Ornette Coleman: Impulse! A9178. New York, giugno 1968. OrnetteColeman(as,tp,vln), Dewey Redman(ts), Charlie Haden(b), Denardo Coleman(d).

• Crisis / Ornette Coleman: Impulse! A9187, Live, "New York University", marzo 1969. OrnetteColeman(as,vln), Don Cherry(tp,indian-fl), Dewey Redman(ts), Charlie Haden(b), DenardoColeman(d).

• Man On The Moon / Growing Up. / Ornette Coleman:Impulse! 45-275, New York, giugno1969. Ornette Coleman(as), Dewey Redman(ts), Charlie Haden(b),Ed Blackwell(d),EmanuelGhent (syn).

• Broken Shadows / Ornette Coleman: Moon MCD022[CD], Live "Bilzen Fectival" Belgium,agosto 1969. Ornette Coleman(as,tp), Dewey Redman(ts,arabic,oboe), Charlie Haden(b), EdBlackwell(d).

• Friends And Neighbors / Ornette Coleman: Flying Dutchman FDS123,74321477952[CD], Live"Prince Street" New York, febbraio 1970. Ornette Coleman(as,tp,vln), DeweyRedman(ts,arabic,oboe), Charlie Haden(b), Ed Blackwell(d).

• *And His Friends / Louis Armstrong: Flying Dutchman FDC12009, New York, maggio 1970.Louis Armstrong(vcl), Ornette Coleman(cho), Billy Harper(ts), James Spaulding(reeds), OliverNelson(arr,comp) & Others.

• Science Fiction / Ornette Coleman: CBS Columbia KC31061, New York, settembre 1971.Ornette Coleman(as), Gerard Schwarg(tp), Carmon Fornarotto(tp), Bobby Bradford(tp), DeweyRedman(ts), Charlie Haden(b), Ed Blackwell(d), Asha Puthli(vcl), David Henderson(poet).

• European Concert / Ornette Coleman: Unique Jazz UJ13,Black Bird-Barna/Nonumber[CD],Live "Berlin Philharmonic" Berlin, novembre 1971.Ornette Coleman(as), DeweyRedman(arabic,oboe), Charlie Haden(b), Ed Blackwell(d).

• Broken Shadows / Ornette Coleman: CBS Columbia FC38029, New York, settembre 1972.Ornette Coleman(as), Don Cherry(pocket-tp), Dewey Redman(ts), Bobby Bradford(tp),CharlieHaden(b), Billy Higgins(d), Ed Blackwell(d), Jim Hall(g), Cedar Walton (p),Webster Armstrong(voc) and a Woodwind Quintet.

• Paris Concert / Ornette Coleman: Trio PA7169 (2LPs),Paris, febbraio 1966 & novembre 1971.Ornette Coleman(as,tp,vln), David Izenzon(b), Charles Moffett(d), Dewey Redman(ts), CharlieHaden(b), Ed Blackwell(d).

• Dancing In Your Head / Ornette Coleman: Horizon 21,POCM5044[CD], Joujuka, Morocco,gennaio 1973 & Paris, dicembre 1976. Ornette Coleman(as), Bern Nix(g), Charles Ellerbee(g),Rudy MacDaniel(b), Shannon Jackson(d), Robert Palmer(cl), Musicians of Joujouka

• The Belgrade Concert / Ornette Coleman: Jazz Door JD12112[CD], Live, Belgrade, novembre1971. Ornette Coleman(as), Dewey Redman(ts), Charlie Haden(b), Ed Blackwell(d).

• Skies Of America / Ornette Coleman: CBS Columbia KC31562, London, maggio 1972. OrnetteColeman(as,comp), Dewey Redman(ts,oboe), Charlie Haden(b), Ed Blackwell(d), DavidMeasham(cond) With London Philharmonic Orchestra.

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• J For Jazz Presents O.C. Broadcasts / Ornette Coleman: J For Jazz JF803, Prob. "ArtistsHouse" New York, settembre 1972. Ornette Coleman(as), Don Cherry(tp), Dewey Redman(ts),Charlie Haden(b), Ed Blackwell(d).

• Body Meta / Ornette Coleman: Artists House AH1,HARMOLODIC531 916-2[CD], Paris,dicembre 1976. Ornette Coleman(as), Bern Nix(g), Charles Ellerbee(g), JamaaladeenTacuma(b), Shannon Jackson(d).

• Of Human Feelings / Ornette Coleman: Antilles ANLP2001, New York, aprile 1979. OrnetteColeman(as), Bern Nix(g), Charles Ellerbee(g), Jamaaladeen Tacuma(b),Denardo Coleman(d),Calvin Weston(d).

• Opening The Caravan Of Dreams / Ornette Coleman: Caravan Of Dreams CDP85001,settembre 1983. Ornette Coleman(as,tp,vln), Bern Nix(g), Charles Ellerbee(g), JamaaladeenTacuma(b), Al MacDowell(b), Denardo Coleman(d), Sabir Kamal (d,per).

• Prime Time/Time Design / Ornette Coleman: Caravan Of Dreams CDP85002, novembre 1983.Ornette Coleman(comp), Gregory Gelman Ensemble.

• *Song X / Pat Metheny & Ornette Coleman: Geffen 924096, New York, dicembre 1985, OrnetteColeman(as,vln), Pat Metheny(g,g-syn), Charlie Haden(b), Jack DeJohnette(d), DenardoColeman(d).

• In All Languages / Ornette Coleman: Caravan Of Dreams CDP85008(2LP), New York, febbraio1987. Ornette Coleman(as,tp), Don Cherry(tp), Charlie Haden(b), Billy Higgins(d), BernNix(g), Charles Ellerbee(g), Jamaaladeen Tacuma(b), Denardo Coleman(d).

• Virgin Beauty / Ornette Coleman: CBS Portrait PRT44301, 1987/88. OrnetteColeman(as,tp,vln), Jerry Garcia(g), Bern Nix(g), Charles Ellerbee(g),Al MacDowell(b), ChrisWalker(b), Denardo Coleman(d), Calvin Weston(d).

• Live at Jazzbuehne Berlin '88 / Ornette Coleman: Repertoire RR4905[CD]Berlin, giugno 1988.Ornette Coleman(as,tp,vln,ld), Bern Nix(g), Charles Ellerbee(g), Al MacDowell(b), ChrisWalker(b), Denardo Coleman(d), Calvin Weston(d), Ken Wessel(g),Chris Rosenberg (g), BadalRoy (tablas).

• Naked Lunch / Ornette Coleman: Milan 262732[CD], London, agosto 1991. OrnetteColeman(as), Barre Phillips(b), Denardo Coleman(d), Haward Shore(cond), The LondonPhilharmonic Orchestra.

• Tone Dialing / Ornette Coleman & Prime Time: Harmolodic/Verve,POCJ-1299[CD], NewYork, 1994/95. Ornette Coleman(as,tp,vln), Badal Roy(tab,per), Ken Wessel(g), ChrisRosenberg (g), Dave Bryant(key), Bradley Jones(b),Al MacDowell(b), Chris Walker(b),Avenda Ali(voc ), Denardo Coleman(d).

• Sound Museum - Hidden Man / Ornette Coleman: Harmolodic/Verve,POCJ-1331[CD], NewYork, 1994 . Ornette Coleman(as,vin,tp), Geri Allen(p), Charnett Moffett(b), DenardoColeman(d).

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• Sound Museum -Three Women / Ornette Coleman: Harmolodic/Verve,POCJ-1332[CD],NewYork, 1994. Ornette Coleman(as,vin.tp), Geri Allen(p), Charnett Moffett(b), DenardColeman(d), Denardo + Lauren Kinhan, Chris Walker(voc) .

• *Colors / Ornette + Joachim Kuhn:Harmolodic/Verve,POCJ-9625[CD], Live From Leipzig,Germany, agosto 1996. Ornette Coleman(as,vin,tp), Joachim Kuhn(p)

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