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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II” FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA TESI DI LAUREA in STORIA DEL DIRITTO ROMANO IL PROCESSO CONTRO GESÙ Relatore Candidata Ch.mo Prof. Daniela Annunziata Francesco Amarelli matr. 131- 011332 ANNO ACCADEMICO 2006/2007

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI

“FEDERICO II”

FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA

TESI DI LAUREA

in

STORIA DEL DIRITTO ROMANO

IL PROCESSO CONTRO GESÙ

Relatore Candidata

Ch.mo Prof. Daniela Annunziata

Francesco Amarelli matr. 131- 011332

ANNO ACCADEMICO 2006/2007

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“Eppure Egli portava le nostre malattie e si era caricato dei nostri dolori; noi però lo ritenevamo colpito, percosso da Dio ed umiliato. Ma Egli è stato trafitto per le nostre trasgressioni, schiacciato per le nostre iniquità; il castigo per cui abbiamo la pace è caduto su di Lui e per le Sue lividure, noi siamo stati guariti”.

Is. 53:4,5.

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INDICE

Prefazione pag. 9

Capitolo I

La giurisdizione criminale in Italia e nelle province nel primo

secolo d.C.

§ I.1. Quaestiones perpetuae e principio di legalità pag. 12

nella tarda Repubblica

§ I.2. Il sistema del Principato pag. 18

§ I.3. Governo delle province e tradizione repubblicana pag. 22 § I.4. Giurisdizione e potere disciplinare: un confine pag. 25 ambiguo già in passato

§ I.5. Augusto e la realtà provinciale pag. 27

§ I.6. Iurisdictio, ius gladii ed imperium merum pag. 31

§ I.7. Il problema della giurisdizione in Giudea pag. 33

§ I.8. Il governatore e l’ordine pubblico: limiti pag. 36 al potere governatoriale

§ I.9. I delitti religiosi: problemi di competenza pag. 39

§ I.10. Sintesi conclusiva pag. 41

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Capitolo II

Fase preliminare: l’arresto di Gesù e l’interrogatorio presso Anna

§ II.1. L’arresto di Gesù nell’orto degli Ulivi: da chi pag. 45

fu compiuto e perchè § II.2. Il dibattito sugli esecutori dell’arresto e pag. 52 riflessioni sulla legalità formale di esso

§ II.3. Il dibattito sulla data del processo pag. 58

§ II.4. L’interrogatorio presso Anna: valore di inchiesta pag. 61

giuridico-preliminare o informale?

Capitolo III

Fase cognitiva: il dibattimento dinanzi al Sinedrio

§ III.1. Il sommo sacerdote Caifa ed il Sinedrio pag. 68

di Gerusalemme § III.2. Il dibattimento: le regole processuali pag. 72

§ III.3. L’interrogatorio dell’imputato e la pag. 76

condanna a morte da parte dei sinedriti

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Capitolo IV

Il deferimento al tribunale del procuratore

§ IV.1. Il comportamento del procuratore romano dinanzi pag. 86 alla giustizia indigena

§ IV.2. Il perchè di due processi indipendenti pag. 88

§ IV.3. Il processo dinanzi al governatore romano: regole pag. 92 procedurali § IV.4.“Deformazione” dell’accusa da parte del Sinedrio: pag. 101

da bestemmia ad alto tradimento § IV.5. Il primo interrogatorio dell’accusato da parte pag. 105 di Pilato

Capitolo V L’invio al tetrarca di Galilea e Perea

§ V.1. La “colpa” di Pilato pag. 110

§ V.2. La possibile ratio del deferimento ad Erode pag. 112

§ V.3. Il dibattito circa la storicità del racconto di pag. 117 Luca sulla pericope di Erode: il richiamo al diritto romano

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Capitolo VI

Il rinvio a Pilato ed il privilegium paschale

§ VI.1. Il privilegium paschale: origine ed aspetto pag. 124

giuridico

§ VI.2. L’imprudenza di Pilato e la scelta della folla: pag. 128

aspetti psicologici

§ VI.3. Il crimen laesae maiestatis pag. 132

§ VI.4. La lavanda delle mani pag. 134

Capitolo VII

Fase decisoria: flagellazione, “Ecce homo!” e condanna a morte

da parte di Pilato

§ VII.1. La flagellazione romana ed il dibattito sulla pag. 140

possibile ratio della flagellazione di Gesù

§ VII.2. L’ “Ecce homo!” e l’intimidazione degli pag. 143 Ebrei a Pilato

§ VII.3. Sentenza formale di condanna a morte? pag. 151

Il “bema” di Pilato

§ VII.4. L’esecuzione delle sentenze di condanna a morte pag. 157

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Capitolo VIII

Fase esecutiva: la crocifissione

§ VIII.1. L’infamia della crocifissione pag. 162

§ VIII.2. La “passeggiata ignominiosa”; il vituperio e pag. 167

la morte in croce di Gesù

§ VIII.3. Il crurifragium e la sepoltura pag. 173

Appendice I

La condanna a morte di Gesù:

Colpa dei Romani o degli Ebrei?

§ I.1. La critica di Lietzmann e Cohn alla pag. 178 ricostruzione “tradizionale” del processo § I.2. Il punto di vista ebraico di Cohn pag. 186 § I.3. Confutazione delle tesi di Cohn pag. 190

§ I.4. Le fonti: il testimonium flavianum ed il processo pag. 196

di Giacomo

§ I.5. Il processo di Gesù negli Atti degli Apostoli pag. 202

§ I.6. Conclusioni pag. 205

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Appendice II

Chi serve la democrazia e chi se ne serve?

Le riflessioni di Kelsen e Zagrebelsky sul processo “democratico”

contro Gesù

§ II.1. Il processo di Gesù, tragico simbolo della pag. 213

democrazia

§ II.2. La democrazia critica di Zagrebelsky pag. 218

§ II.3. Il Pilato democratico di Kelsen pag. 220

§ II.4. Cacciari su: “Che cosa è verità?” pag. 225

BIBLIOGRAFIA pag. 229

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Prefazione: La sentenza che cambiò la storia

L’imputato era famoso.

Si dichiarò innocente.

Mancavano le prove, ma fu condannato per ben due volte.

Su quali basi giuridiche?

Fu uno dei processi più brevi della storia, ma in assoluto il più

celebre che si ricordi ed il più discusso, oggetto di una sterminata serie

di rievocazioni, analisi, interpretazioni, sul piano religioso, letterario e

scientifico; durò solo tre giorni e si concluse con la condanna a morte

dell’imputato; un processo la cui ricostruzione resta di altissimo

interesse per la ricerca storico-giuridica, oltre che per le peculiarità

dell’imputato e dei capi d’accusa, anche per il controverso intreccio di

due diversi sistemi penali – quello ebraico, dipendente dal Sinedrio, e

quello romano, facente capo al governatore della provincia – informati

a differenti norme e procedure.

Inoltre, tale processo ricorda come a volte aspramente conflittuale

possa essere il rapporto tra diritto e giustizia, e come le ragioni della

democrazia, del rispetto della volontà popolare, possano andare contro

quelle della verità, come sottolineò Hans Kelsen, nel famoso saggio su

“Essenza e valore della democrazia”, rievocando la scelta del popolo a

favore di Barabba. In questa sede, osiamo unicamente rilevare,

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ricordando un’acuta osservazione1, che proprio la consapevolezza

della frequente, dolorosa discrasia tra ius e iustitia, esalta, nello studio

del diritto, il ruolo della memoria e, dunque, sollecita una riflessione

su cosa l’applicazione del diritto abbia significato e possa significare

nella vita degli uomini2. E poi, qualora anche si riesca ad agire

conformemente ai desideri, si tratterà soltanto di una goccia

nell’oceano. Sì! Ma, come scrisse Zagrebelsky3, che cosa d’altro ci è

dato di fare? Del resto, l’oceano non è fatto di gocce?

1 Amarelli-Lucrezi, 1999, pag. 230. 2 Amarelli-Lucrezi, 1999, pag. 244. 3 Zagrebelsky, 1995, pag. IV.

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Capitolo I

La giurisdizione criminale in Italia

e nelle province nel primo secolo d.C.

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I.1. Quaestiones perpetuae e principio di legalità

nella tarda Repubblica.

Prima di introdurre l’argomento processuale, ritengo che si

imponga, anzitutto, un discorso retrospettivo sulle forme della

giurisdizione criminale della prima età del principato, affinché meglio

si possa comprendere lo scenario giuridico del tempo, entro il quale,

poi, calare quello del processo in oggetto ed anche al fine di trattare il

fondamentale problema della competenza del Sinedrio in ordine alla

giurisdizione capitale.

Gli storici del diritto penale romano sono in massima parte

concordi nel ritenere che, verso la fine dell’età repubblicana, le

quaestiones perpetuae - tribunali permanenti presieduti dal pretore o

da un suo delegato - soppiantarono i tribunali straordinari (quaestiones

extraordinarie), presieduti per lo più dal console (attorniato dal

proprio consilium) e costituiti di volta in volta per la repressione di

determinati crimini a sfondo politico, dapprima in base a

senatusconsultum, poi in base a plebiscitum. Ciascuna legge istitutiva

di una singola quaestio, nel sanzionare come reato un determinato

comportamento, fissava la competenza di quella quaestio

(relativamente a quel solo reato) e la specifica disciplina processuale.

Conseguentemente, le nove quaestiones non procedevano secondo un

iter uniforme, sebbene in tutte, le funzioni di inchiesta e di sanzione,

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spettanti al pretore, venissero tenute distinte dalla funzione giudiziaria,

attribuita ad un collegio di iudices4.

Caratteristica fondamentale del processo era la sua natura

accusatoria: esso, infatti, aveva inizio per impulso di un privato

cittadino - non necessariamente il soggetto offeso dall’illecito - che,

manifestando la propria intenzione di agire nell’interesse della

comunità contro l’autore del reato, attraverso la postulatio, chiedeva al

pretore il riconoscimento del diritto di accusare in giudizio. Nel caso

in cui vi fossero stati più aspiranti al ruolo di pubblico accusatore, il

soggetto più idoneo veniva scelto in seguito ad un’apposita procedura

preliminare, la cd. divinatio.

Alla postulatio faceva seguito la vera e propria accusa, la nominis

delatio, che sfociava nell’emanazione da parte del magistrato del

provvedimento d’iscrizione dell’accusato nella lista degli imputati, la

nominis receptio. In seguito a tale iscrizione, l’accusatore acquisiva un

preciso ruolo processuale, che gli consentiva, tra l’altro, di citare

testimoni in giudizio e di concorrere con l’accusato alla formazione

del collegio dei giudicanti.

Siffatto modello processuale (caratterizzato da tendenziale

equilibrio tra accusa e difesa; ruolo neutrale del magistrato inquirente

e dei giudici; esigenza di rapportare sempre e comunque l’illecito da

sanzionare ad un’ipotesi criminosa, preventivamente stabilita dalla

legge, cd. principio di legalità) venne ampiamente idealizzato dai

costituzionalisti del secolo XIX, i quali, sui presupposti delle ricerche

4 Venturini, 1999, pag. 4.

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di Th. Mommsen, individuarono nel diritto romano della tarda

repubblica, un sistema idoneo a risolvere in maniera appagante, il

delicato problema dei rapporti tra Stato ed individui. In particolare, la

facoltà concessa ad ogni cittadino di promuovere la repressione dei

crimini nell’interesse dell’intera collettività, appariva pienamente

rispondente agli ideali propugnati dal pensiero liberale. Tuttavia, alla

più recente dottrina5 tale visione è apparsa opinabile: innanzitutto, si è

osservato che il principio di legalità, che si esprime essenzialmente

nell’irretroattività della norma penale, veniva fortemente limitato

dall’esistenza in epoca postsillana (I sec.a.C.), di quaestiones non

permanenti, istituite di volta in volta per la repressione di illeciti già

da tempo consumati; inoltre, la norma penale poteva considerarsi

determinata e tassativa solo in senso improprio: sia perché la

descrizione della figura di reato da essa effettuata non era così

minuziosa da impedire che uno stesso fatto ricadesse nella

competenza di quaestiones perpetuae diverse, sia perché i collegi

giudicanti erano investiti di poteri ampiamente discrezionali, che

consentivano di assolvere o condannare senza l’obbligo di motivare la

sentenza; infine, la recente dottrina non condivide la tesi secondo cui i

poteri discrezionali dei giudici incontrassero un limite invalicabile

nella previsione legislativa di pene fisse per ogni singolo illecito: ciò

accadeva, è vero, in molti casi (comunque da non generalizzare),

estrapolando dal relativo contesto il fin troppo noto assunto

5 Venturini, 1999, pag. 5.

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ciceroniano “damnatio…est iudicum, …poena legis”6 - “la pronuncia

di condanna fa capo ai giudici, mentre la pena consequenziale deriva

dalla legge” - ed assolutizzandone la portata.

Un altro problema si pone allorquando, partendo da un famoso

passo di Cicerone nel quale si afferma che “nocens, nisi accusatus

fuerit, condemnari non potest”7 - “il colpevole, se sottoposto ad

accusa, non può subire condanna”- si voglia affermare che le

quaestiones perpetuae potevano operare solo a condizione che fosse

esercitata l’accusa pubblica. Suddetta affermazione, infatti, mal si

concilia con il ruolo centrale o addirittura esclusivo che

contemporaneamente si vuole attribuire alle quaestiones perpetuae nel

sistema repressivo postillano: difatti, si osserva che risulta poco

credibile che la repressione di un grave crimine, rientrante nella

competenza di una quaestio, potesse essere subordinata ad un

condizionamento del genere. In effetti, la concorde opinione della

dottrina, secondo cui in età postsillana sarebbe venuto meno

l’esercizio della funzione giudiziaria da parte del collegio dei giudici e

sarebbe divenuto impossibile l’esercizio della provocatio ad populum

contro le pronunzie delle quaestiones e contro la coercitio - potere di

incarcerazione, fustigazione, irrogazione di multe - del magistrato,

inducono ad affermare che nella tarda repubblica la repressione

d’ufficio dei crimini si effettuasse senza la previsione di idonee

garanzie per l’imputato.

6 Sull., 63.

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Con tale convincimento concordano i risultati di un’ approfondita

indagine del Mantovani, il quale configura, in capo ai pretori preposti

alle diverse quaestiones perpetuae, un potere-dovere di indagare e

perseguire i reati di loro competenza: l’attività di repressione, dunque,

poteva non solo essere conseguenza dell’esercizio rei publicae causa,

ma derivare anche da autonoma iniziativa del singolo magistrato,

quindi, aver luogo in forme inquisitorie corrispondenti alla tradizione

delle quaestiones “unilaterali”, operanti nel secondo secolo8. Questo

punto di vista appare in buona misura attendibile ove lo si rapporti alla

realtà del primo secolo a.C. ed al sistema complessivo delle

quaestiones perpetuae. Infatti, la lex Sempronia de capite civis del 123

a.C. richiedeva, come unico presupposto di legittimità di ogni singola

quaestio promossa contro un cittadino romano, la preventiva

emanazione di un’apposita legge di autorizzazione, non disponendo

nulla, invece, a quanto è dato sapere, circa le regole di procedura che

ciascuna doveva seguire. Ciò significa, dunque, che non veniva

intaccata la possibilità che l’inquirente, solitamente un magistrato,

iniziasse d’ufficio un procedimento che ricalcava la struttura delle

precedenti quaestiones, presiedute da consoli o da pretori muniti di

consilia – pareri forniti da insigni giuristi – e attivate in seguito a

senatusconsultum o a plebiscito.

Come ha osservato il Venturini9, sarebbe da presumere che

l’avvento delle quaestiones perpetuae, determinando la

precostituzione di figure criminose corrispondenti a stabili aree di

8 Mantovani, 1989, pag. 112. 9 Venturini, 1999, pag. 7.

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competenza, deferite ai singoli praetores, non sia stato valutato quale

formale ostacolo al perpetuarsi di questa disciplina: fonti fededegne10

consentono, anzi, di riscontrare nella tarda repubblica un indirizzo

orientato ad interpretare la legge istitutiva della quaestio perpetua,

quale preventivo provvedimento autorizzatorio di quaestiones che, su

sollecitazione del senato, il pretore di essa titolare poteva

autonomamente promuovere. Particolare interesse suscita, per di più,

il fatto che esse risultano qualificate come extra ordinem, ossia in

termini analoghi a quelle che ragioni di particolare urgenza

suggerivano di far svolgere, nel rispetto del rito accusatorio, con

precedenza rispetto all’ordine naturale dei processi, di regola

determinato dalla cronologia della nominis receptio.

Il sistema delle quaestiones perpetuae, dunque, non era l’unico

applicato; accanto ad esso, un’autorevole dottrina11ha posto l’accento

sull’esistenza di un’attività punitiva esercitata dai magistrati con

finalità puramente repressive: i reati comuni, soprattutto se commessi

da individui di bassa condizione sociale, venivano generalmente puniti

dai tresviri capitales, i quali esercitavano un potere di polizia che

solitamente si esauriva nell’incarceramento anche per lunghi periodi e

solo di rado sfociava in un processo. Al cittadino, vittima di abusi

magistratuali, era concesso l’unico rimedio dell’appellatio ad un altro

giudice, esercitato nella speranza che quest’ultimo l’accogliesse

favorevolmente, mentre il rimedio della provocatio ad populum -

10 Cic., Mil.14. 11 Santalucia , 1999, pag. 95; sulle funzioni di polizia giudiziaria dei tresviri capitales , si veda Cascione, 1999, pp. 157 ss.

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appello al popolo riunito nei comizi - era disapplicato ed il potere dei

tribuni, reintrodotto nel 70 a.C. dalla lex Pompeia Licinia, di

sanzionare gli abusi dei magistrati attivando un processo di

perduellio, era scarsamente operativo.

Da quanto finora detto sembra doversi concludere che

nell’ordinamento della tarda repubblica, il consolidarsi del sistema

delle quaestiones perpetuae si era accompagnato allo sgretolamento

del complesso di garanzie (provocatio ad populum, attività giudiziaria

delle assemblee, controllo tribunizio sull’operato dei magistrati e

possibile attivazione di processi di perduellio), chiamate a

contemperare l’attività di sanzione. Così si era costituita una sorta di

doppia area di quest’ultima: una era occupata dai collegi giudicanti

senatorio-equestri e dal processo accusatorio; al di fuori di questo

recinto giurisdizionale, l’altra si esplicava in una giustizia affidata ad

iniziative di intrinseco carattere repressivo e discrezionale, condotte in

chiave di tutela dell’ordine pubblico12.

I.2. Il sistema del principato.

Ad Augusto si deve il perfezionamento del sistema delle

quaestiones perpetuae, le quali vennero aumentate di numero e

modificate nella composizione dei collegi giudicanti, attraverso

l’esclusione dei senatori. Con la lex Iulia iudiciorum privatorum del

12 Venturini, 1999, pag. 9.

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17 a.C., Augusto rese l’accusa pubblica più semplice e più omogenea

tra le diverse quaestiones.

Accanto a tale sistema di giustizia, si affiancò ben presto un altro

modello processuale, denominato solitamente cognitio extra ordinem

per distinguerlo da quello vigente in precedenza denominato ordo

iudiciorum publicorum, secondo la testimonianza del giureconsulto

severiano Paolo (D.48,1,8), il quale distinse l’ordo dalla cognitio extra

ordinem in base alle modalità di accertamento (probatio) dei crimini,

evidenziando, quindi, una differenziazione basata essenzialmente sulle

modalità della procedura, oltretutto, fatta propria anche dalla

giurisprudenza successiva. Come al riguardo è stato giustamente

affermato, la circostanza è ben comprensibile, considerando che la

cognitio extra ordinem risulta essersi abbastanza presto esplicata

anche in rapporto ad illeciti rientranti nella competenza di specifiche

quaestiones perpetuae e sostanziandosi di fatto unicamente

nell’adozione di una diversa procedura13.

Al pari del processo accusatorio delle quaestiones perpetuae,

anche la cognitio extra ordinem veniva attivata in seguito all’iniziativa

di un cittadino, delator, e prevedeva l’accertamento del reato

attraverso il dibattimento. Il delator era tenuto a fornire la prova dei

fatti denunziati e poteva svilupparli, avvalendosi delle tecniche

argomentative retoriche. In giudizio l’accusa veniva sostenuta da un

pubblico accusator. Dal canto suo, l’imputato conservava il diritto alla

difesa, che svolgeva personalmente o con l’ausilio di patroni.

13Venturini, 1999, pag. 11.

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La nuova procedura si differenzia, dunque, dal processo

accusatorio delle quaestiones perpetuae, essenzialmente sulla base di

tre elementi, quali la mancanza di un collegio di iudices formato con il

concorso dell’accusatore e dell’imputato; la mancanza, almeno in

origine, di non derogabili regole di procedura; l’irrogazione di una

pena, da parte dell’inquirente e del suo consilium, ispirata a criteri

discrezionali.

La cognitio extra ordinem rinveniva il proprio fondamento

nell’imperium del princeps, il quale svolgeva direttamente l’attività di

cognizione dell’accusa e del giudizio oppure la delegava a magistrati

o funzionari, appositamente creati. Dunque, la politica giudiziaria

augustea in ambito italico si presentava articolata su due direttrici di

massima, costituite l’una dal protrarsi delle quaestiones perpetuae e

l’altra dalla tendenza, da parte del principe, ad occupare, colmando

un’obiettiva lacuna, il vasto spazio che questo sistema aveva lasciato

scoperto. Inoltre, tale politica giudiziaria gettò le basi di un sistema di

garanzie procedurali: mentre le pronunzie delle quaestiones perpetuae

conservavano il carattere definitivo, nell’ambito dei processi extra

ordinem si diffuse la possibilità per il condannato di proporre

un’appellatio, volta non più, come in età repubblicana, a bloccare

semplicemente l’iniziativa sanzionatrice, bensì ad investire lo stesso

princeps della cognizione dei fatti che l’avevano provocata. In tal

modo, l’appellatio assunse una funzione simile a quella svolta in età

repubblicana dalle assemblee in seguito a provocatio ad populum, a

ciò conseguendo l’interscambio tra i due termini che si riscontra nelle

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fonti dell’età imperiale. Naturalmente, l’appellatio non si configurò

come un vero e proprio diritto del cittadino, dal momento che restava

a discrezione del principe accoglierla o meno.

Il fondamento giuridico delle cognitiones extra ordinem operanti a

partire dall’età augustea, si rinveniva sia nella tribunicia potestas, di

cui il princeps era stato investito a vita nel 23 a. C., sia, soprattutto,

nell’imperium, che egli poteva esplicare in ambito urbano ed

extraurbano. Infatti, come è stato acutamente osservato, il ius

tribunicium (assunto con il dichiarato proposito di valersene ad

tuendam plebem14), era fisiologicamente idoneo a consentirgli di

ricevere l’appellatio e di interporre il veto: nel caso di sanzione

disposta da funzionari, il ricorso al principe si traduceva, per di più,

nell’invocazione ad operare una verifica di merito, circa

l’espletamento di un’attività dispiegata in suo nome15.

Il ruolo di supremo garante della legalità veniva svolto dal principe

anche nei riguardi del potere di coercizione esercitato dai magistrati

da lui delegati: emblematica a tale proposito, è la lex Iulia de vi

publica et privata (19-16 a.C.), che puniva il funzionario imperiale

che avesse disposto la condanna a morte, la fustigazione o la tortura di

un cittadino romano, adversus provocationem16

, ossia senza tener

conto della provocatio (appellatio) al principe, effettuata dal cittadino

stesso17.

14 Tac., Ann. 1,2.15 Venturini, 1999, pag. 15. 16 D. 48,6,7. 17 Venturini, 1999, pag. 15.

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I.3. Governo delle province e tradizione repubblicana.

Narra Cassio Dione che alla divisione delle province in senatorie

ed imperiali, già presente nel 27 a.C.18, si accompagnò, nel 23 a.C., il

conferimento ad Augusto, una volta deposto il consolato, di un

imperium proconsulare maius, potere supremo, vitalizio, illimitato, di

carattere unitario, suscettibile di venire esercitato anche all’interno del

pomerio ed, a fianco ad esso, di un potere superiore a quello dei

magistrati e promagistrati operanti nelle regioni extraitaliche, fondato

essenzialmente sul comando militare19.

L’esercizio dell’imperium proconsulare maius si diversificava su

base territoriale, a seconda che si trattasse di province senatorie o di

province imperiali. Le prime continuavano ad essere governate da ex

consoli o da ex pretori che, nominati per un anno, assumevano il titolo

di proconsole e l’imperium sull’intero territorio provinciale. In queste

province, l’imperium proconsulare maius del principe si sostanziava

in un potere di controllo e di orientamento. Le province imperiali,

invece, erano governate da funzionari scelti dal principe a tempo

indeterminato, in qualità di mandatari di quest’ultimo, detti legati

Augusti pro praetore. Essi venivano personalmente insigniti

dell’imperium in occasione di eventi bellici. Particolari distretti,

confinanti con province ed a volte corrispondenti al territorio di stati

annessi, erano, invece, retti da vicari speciali di rango equestre,

denominati praefecti con riferimento alle loro competenze di carattere 18 Cass. Dio. 53,12,4-7; 53,32,5. 19 Venturini, 1999, pag. 16.

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militare ed, a partire - sembra - dall’età di Claudio, procuratores, con

titolatura che meglio evidenziava le concomitanti funzioni da essi

svolte in materia finanziaria. In questa situazione si trovò la Giudea,

allorché, nel 6 d.C., confinato Archelao a Vienna ed assegnati i suoi

territori al fisco imperiale20, ne assunse il governo “Coponio,

dell’ordine equestre, provvisto di ogni autorità su tutti i giudei21,

avendo ricevuto dall’imperatore poteri estesi fino a comprendere

quello di mettere a morte”22.

Analoga carica di praefectus Iudaeae rivestì, tra il 26 ed il 36 d.

C., Ponzio Pilato, da Tacito indicato come procurator, in ossequio

alla nuova denominazione corrente al suo tempo23. Compiti essenziali

del governatore di una provincia erano la tutela del suo ordine interno

e la difesa del territorio dai suoi nemici esterni. A tali scopi egli era

investito, da un lato, del comando dei contingenti militari romani o di

quelli alleati, di stanza sul territorio - utilizzabili non solo per le

campagne belliche vere e proprie, ma anche per reprimere iniziative di

carattere sovversivo o volte, comunque, a turbare gravemente l’ordine

costituito - e, dall’altro, di un’ordinaria attività di giustizia, suscettibile

di assumere forme e contenuti mutevoli. Comunque, è da ritenere che

le funzioni giurisdizionali svolte nelle province imperiali dai

governatori di nomina augustea, erano sostanzialmente simili a quelle

20 Ios. Flav., Bell. Iud 2,111. 21 Ios. Flav., Ant. Iud. 18,1,1. 22 Ios. Flav., Bell. Iud. 2,8,117.23 Tac., Ann.15,44.

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svolte nelle province senatorie dai proconsoli; entrambe

presumibilmente si ispiravano al sistema vigente in età repubblicana24.

Nei confronti dei cittadini romani, tuttavia, l’esercizio dell’attività

di giustizia incontrava un limite, costituito dal divieto che una lex

Porcia – probabilmente del II sec. a.C. – imponeva al magistrato di

condannarli a morte o a fustigazione: il magistrato era assolutamente

obbligato a far trasferire il colpevole a Roma, affinché ivi fosse

sottoposto a giudizio; nei confronti dei non cittadini - peregrini - è da

ritenere, in mancanza di fonti precise, che l’attività di giustizia degli

amministratori provinciali si differenziasse a seconda della lex

provinciae, della condizione della singola comunità e della sensibilità

del magistrato, sebbene quest’ultimo godesse di poteri di coercizione

in teoria illimitati25; ciò a prescindere dai casi nei quali egli non avesse

ravvisato l’esistenza di un proprio diretto intervento, teso a

salvaguardare la sicurezza della provincia. Quest’ultima circostanza,

spesso trascurata ed, in effetti, fondata su una distinzione tutt’altro che

cristallina, merita di essere approfondita.

24 Venturini, 1999, pag. 18. 25 Cic., Q. Fr.1,2,5.

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I.4. Giurisdizione e potere disciplinare:

un confine ambiguo già in passato.

Nelle orazioni accusatorie predisposte nel 70 a.C. da Cicerone

contro Verre, propretore di Sicilia nei tre anni precedenti, è data

notizia di procedimenti sommari, carcerazioni, crudeli torture ed

esecuzioni conseguenti ad attività delatorie ed anche a semplici

sospetti, nei confronti così di elementi servili, come di sudditi

provinciali, in ipotesi di supposta coniuratio e di affermata fellonia26.

Da un’attenta lettura delle suddette orazioni, emerge che le garanzie

previste a favore dei cittadini romani non erano effettive27.

Considerando più da vicino l’attività giurisdizionale esercitata da

Verre, va rilevato che essa presenta sia caratteristiche tipiche delle

cognizioni diffuse in ambito romano-italico prima dell’affermarsi

delle quaestiones perpetuae, sia caratteri propri di queste ultime. In

particolare, una forte analogia con la quaestio perpetua è riscontrabile

nel diffuso intervento del consilium, i cui membri erano formati a

totale discrezione del magistrato inquirente ed a volte erano investiti

di una vera e propria funzione giudicante. Figura assente era, invece,

l’accusator, quale promotore del giudizio.

Si deve, dunque, concludere nel senso dell’esistenza, nella realtà

provinciale, di giudizi criminali difficilmente riferibili ad una precisa

tipologia, ma provvisti, al contrario, di forme abbastanza varie, in

26 Verr. 2,5,10;23.27 Venturini, 1999, pag. 21.

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linea di massima arretrate rispetto all’evoluzione verificatasi in

materia nell’ambito urbano, ma nello stesso tempo anticipatrici, sotto

qualche profilo, del rito che sarà in seguito proprio della cognitio extra

ordinem e dipendenti in modo decisivo da scelte del governatore, il

quale, di fatto, godeva di ampia indipendenza nei confronti della lex

provinciae e delle consuetudini locali. D’altronde, l’inesperibilità

dell’intercessio nei suoi confronti, prodotta dall’assenza in loco di una

par maiorve potestas non poteva che contribuire ad accentuare la

discrezionalità delle sue scelte. A temperarla, intervenivano,

verosimilmente, la forza della prassi - di per sé tale da sconsigliare

innovazioni troppo incisive - ed una ragionevole cautela.

Come sottolineato dal Venturini, iniziative sgradite all’elemento

locale ed ai cittadini residenti nella provincia o, peggio ancora,

suscettibili di venir valutate come veri e propri abusi di potere,

potevano, infatti, rendere il governatore, una volta dimessa la carica,

bersaglio di attacchi giudiziari sul cui esito avrebbero pesato i sempre

mutevoli equilibri e disequilibri politici dell’Urbe28.

Assume, in questo senso, significato esemplare le vicenda

personale di Verre, al quale un consistente errore di valutazione in

proposito - giustificabile nel convulso contesto postsillano - valse a

conferirgli l’immagine convenzionale di immanis belua29

, ad opera

della non disinteressata oratoria ciceroniana rovesciatasi su di lui,

anche se è da chiarire che Cicerone sembra far discendere la di lui

responsabilità, non tanto dall’esecuzione in se stessa, quanto dalle sue

28 Venturini, 1999, pag. 23. 29 Verr. 2,5,109.

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27

forme, che avrebbero dovuto essere mitigate in seguito a verifica dello

status civitatis del giustiziando30.

I.5. Augusto e la realtà provinciale.

Fin dagli inizi del Principato, la giustizia criminale fu assorbita dal

governatore, al quale, in particolare, venne attribuito il potere di

infliggere le condanne capitali: circostanza, questa, peraltro sicura in

rapporto alla Giudea31, ma più incerta in rapporto a differenti

situazioni locali e, quindi, forse non generalizzabile32. Tuttavia, il

primo dei famosi editti di Augusto, indirizzati tra il 7- 6 a.C. alla

unitaria provincia di Cirenaica (odierna Libia) e Creta e scoperti nel

1926, ha reso nota l’esistenza, in quella zona, di quaestiones capitali,

che procedevano con rito accusatorio e con giudici romani. In esse, il

governatore svolgeva un ruolo analogo a quello che in Roma era

assunto dai praetores nelle quaestiones perpetuae. Con la sua riforma,

il principe dispose che il collegio giudicante fosse composto, salvo

diversa richiesta dell’accusato, per metà da non romani. Ai romani,

d’altra parte, era proibito l’esercizio dell’accusa in ordine all’omicidio

di un greco. Appare, dunque, indiscutibile l’esportazione in territorio

extra-italico di un omogeneo schema giudiziario, aperto all’iniziativa

di accusatori, sia romani che indigeni. 30 Verr. 2,5,168.

31Io. 18,31. 32 Venturini, 1999, pag. 24.

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Il quarto editto augusteo riservò al governatore la scelta tra il

condurre e decidere personalmente i giudizi capitali, civili o criminali,

oppure far intervenire un collegio di giudici. Tale disposizione

rappresentava una deroga alla norma generale, secondo cui la

decisione di ogni questione riguardante i greci, doveva essere deferita

dal governatore a giudici greci, purché non appartenenti alla stessa

comunità dell’attore; del convenuto; dell’accusatore o dell’accusato.

Va ad ogni modo sottolineato che l’editto non pregiudicava

l’autonomo potere del governatore di infliggere pene capitali ai

membri della popolazione greca, in quanto l’applicazione del rito

conforme dipendeva sempre da una scelta del governatore. Inoltre,

poiché quest’ultimo era da sempre titolare del potere di coercitio –

poteri di polizia, finalizzati a reprimere qualsiasi ribellione

all’imperium - è probabile che egli abbia irrogato sanzioni anche in

forma extragiudiziale, secondo una scelta che si imponeva comunque

in presenza di atti ostili nei confronti dello Stato romano e di gravi

turbative dell’ordine pubblico, ma sulla quale giocavano anche, con

ogni verosimiglianza, elementi quali la natura dell’illecito; la

manifesta colpevolezza; la situazione ambientale.

Gli editti richiamati dimostrano una già solida diffusione, nelle

province, di modelli giurisdizionali evoluti ed in armonia con quello

affermatosi a Roma. Le riforme di Augusto furono finalizzate

all’introduzione di criteri di amministrazione il più possibile uniformi

che, pur sempre nel rispetto dell’autonomia delle province, tendevano

ad assimilare proconsoli e legati Augusti, quali strumenti intermediari

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di un potere superiore, sovrapposto alle varie realtà. In una tale ottica,

ben si inquadra l’estensione ai legati Augusti pro praetore ed ai loro

collaboratori, delle norme della lex Iulia repetundarum del 59 a.C., la

quale non si limitava a sanzionare gli illeciti profitti, ma prevedeva

anche un’articolata serie di obblighi e di divieti, in funzione

cautelativa del corretto esercizio delle funzioni pubbliche.

La tesi del Mommsen33, secondo cui l’avvento del governo del

Principato, più energico di quello repubblicano, avrebbe avuto come

effetto immediato l’uniforme concentrazione, in capo ai governatori,

dell’amministrazione ordinaria della giustizia penale, oggi non viene

più condivisa da gran parte della dottrina34.

Si ritiene, piuttosto, che tale processo si sia protratto, alquanto

lentamente, durante tutto il I sec. d.C., per poi assumere caratteri più

definiti nell’età successiva. Probabilmente, esso si esplicò

inizialmente attraverso l’esercizio dei normali poteri di coercitio dei

governatori, ispirati a criteri di discrezionalità. Invalse, in tal modo,

l’uso, da parte dei governatori, di soffermarsi periodicamente nei

principali centri provinciali, per rendere giustizia in occasione di

appositi e preordinati conventus, il cui ricorrere è documentato, per la

provincia d’Asia, fin da epoca repubblicana. E’ presumibile che la

giurisdizione provinciale sia venuta così ad acquisire una più precisa

disciplina, sia attraverso la ricezione di forme analoghe a quelle

proprie della cognitio extra ordinem in ambito romano-italico (da

33 Mommsen, 1899. 34 Venturini, 1999, pag. 27.

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essa, per taluni aspetti anticipata); sia per effetto di costituzioni

imperiali, dirette a regolare punti particolari della procedura35.

Attraverso i mandata imperiali, la medesima attività raggiunse poi,

nel II sec., (e qui ci muoviamo sul terreno delle certezze) un più

compiuto, ancorché tuttora imperfetto, regolamento, relativo così alla

competenza per materia, come al sussistere di preclusioni. La

particolare entità della pena36e la personale qualità degli imputati37

determinavano, infatti, l’obbligo di devolvere al principe la cognizione

del caso, al fine di legare al principe stesso, i ceti dirigenti delle

collettività periferiche e, nel contempo, di esternare in modo tangibile

la subordinazione delle autorità periferiche nei confronti di lui38. La

devoluzione del giudizio al principe poteva, tuttavia, venire anche

adottata spontaneamente da queste ultime, al fine di evitare di

emettere, intorno a casi complessi, a situazioni di incerta rilevanza

criminale o nei confronti di personaggi noti, compromettenti

pronunzie. In questo senso, per esempio, risulta essersi regolato il

cauto Plinio, in occasione di un complesso caso, occorsogli durante un

conventus39, ricevendo da Traiano, appropriate istruzioni.

35 Venturini, 1999, pag. 28. 36 D. 48,22,6,1. 37 D. 48,19,27,1-2. 38 Venturini, 1999, pag. 28. 39 Ep.10,58;59.

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I.6. Iurisdictio, ius gladii ed imperium merum.

La persistente validità della lex Porcia e la valutazione del ius

gladii, quale strumento idoneo, di per sé, a sovvertire l’intera

disciplina e ad introdurre a favore dei governatori delle provincie

imperiali e senatorie una delega della giurisdizione capitale ordinaria

facente capo al principe, fu oggetto di dubbi da parte dello stesso

Mommsen che l’aveva sostenuta40. Del resto, le fonti di cui

disponiamo lasciano intravedere una situazione normativa

ampiamente variegata41. Difatti, in alcuni casi, i governatori tennero

estremamente conto delle garanzie connesse allo status di cittadino

romano: Plinio, pur essendo provvisto del ius gladii durante il governo

in Bitinia, fu molto attento ad inviare a Roma i cristiani di cittadinanza

romana42. In altri casi, i suddetti privilegi non vennero rispettati:

Galba, durante il suo governatorato in Spagna Tarraconese, fece

crocifiggere un tutore che aveva avvelenato il pupillo, ma, non appena

fu imperatore, punì il governatore Fonteio Capitone per aver inflitto la

medesima sanzione ad un condannato senza permettergli di adire il

tribunale imperiale43.

In effetti, dalle testimonianze forniteci da Dione e da Ulpiano44,

appare plausibile che il ius gladii si sia atteggiato ad una conferma

dell’incremento dei poteri di coercitio dei governatori, suscettibile di

40 Mommsen, 1899, pp. 130-145. 41 Venturini, 1999, pp. 33-34. 42 Acta Apost. 16,37-39. 43 Cass. Dio 64,2,3. 44 Ulp. 1 de off. proc. D. 1,16,6.

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esplicarsi ogni qualvolta fosse necessario preservare l’ordine nella

provincia e, quindi, anche in occasione di gravi turbative ed attentati

alla sua sicurezza. In altre parole, il ius gladii era prerogativa

rientrante nel merum imperium del governatore, diverso dal potere di

giurisdizione, poiché in grado di dar vita ad un’attività sanzionatrice

diretta ed immediata nei confronti di qualsiasi facinoroso, senza

distinguere, in linea di principio, se questi fosse stato cittadino o

peregrino, cioè tale da non consentire una formale distinzione fondata

sullo status dei colpevoli.

Così stando le cose, l’invio a Roma dell’imputato prima

dell’esercizio della cognizione costituiva, con probabilità, una misura

alla quale il governatore poteva addivenire anche in rapporto a non

cittadini, non solo in presenza di situazioni che coinvolgevano

personaggi di rilievo o investiti di funzioni pubbliche, ma anche nei

casi in cui l’incertezza poteva condurlo ad intravedere nell’ossequio

scrupoloso per il privilegio dei cives Romani, una misura atta a

salvaguardare la propria persona da spiacevoli o pericolose assunzioni

di responsabilità: ipotesi, questa, alla quale sono probabilmente da

ricondurre, così il trattamento del quale beneficiò San Paolo45, come

gli scrupoli di Plinio, ma non, spiacevolmente, quello che riguardò, o

meglio, avrebbe potuto riguardare Gesù Cristo46.

45 Acta Apost.16,37-39;22,25;29. 46 Venturini, 1999, pag. 36.

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I.7. Il problema della giurisdizione in Giudea.

Nel 6 sec. d.C., la Giudea divenne provincia romana ed il

governatore fu, così, la suprema autorità anche in campo giudiziario,

sia per la giurisdizione penale, sia per quella civile47. Giuseppe Flavio

ci racconta che quando il territorio di Archelao fu ridotto a provincia,

vi fu mandato Coponio, un membro dell’ordine equestre dei romani,

investito da Cesare anche del poter di condannare a morte48. Tuttavia,

anche dopo che la Giudea era divenuta provincia romana, dovette

rimanere rispettato il principio di lasciare almeno la giurisdizione

civile alle autorità locali ebraiche. In particolare, in questa zona ove

Roma aveva potuto apprendere quanto cara fosse l’osservanza dei

patrioi nomoi, essa doveva aver deciso di lasciare le istituzioni

amministrative locali, i giudici ed il diritto nazionale. L’autonomia sta,

appunto, ad indicare la concessione di vivere secondo le suae leges.

Infatti, si ritiene che la Giudea sia appartenuta a quella lista di paesi

cui venne restituito il proprio diritto: leges suas reddere. Pertanto, gli

abitanti si trovavano nella situazione di peregrini qui suis legibus

utuntur: essi vivevano secundum propriae civitatis iura.

I tribunali ebraici della Iudaea dovevano avere la competenza di

giudicare nelle vertenze tra ebrei ed ebrei, così come sappiamo che in

altri luoghi le controversie tra cittadini di una stessa città, erano

devolute al magistrato locale o al iudex peregrinus. E’ da supporre che

47 Mordechai Rabello, 1999, pag. 60. 48 Ios. Flav., Bell. 11,8,1,117.

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tale competenza sia stata riconosciuta anche nel caso in cui si fosse

trattato di una controversia tra ebrei e stranieri. Nonostante, infatti,

una certa dose di diffidenza che si deve avere per alcuni discorsi

apologetici in Giuseppe Flavio, non sembra che vi sia serio motivo per

dubitare dell’esattezza di una situazione di fatto descritta da

quest’ultimo, in ordine al discorso di Tito, generale romano, il quale,

interrogandosi sui possibili motivi che avevano spinto gli ebrei ad una

rivolta continua “fin quando Pompeo vi assoggettò”49, arriva alla

conclusione, secondo la quale ne fu causa la stessa mitezza dei

romani, i quali avevano loro concesso di abitare quella terra e di

essere governati da re nazionali, conservando, per di più, le patrie

leggi e la libertà di regolare discrezionalmente non solo i rapporti

interni, ma anche quelli con gli stranieri50.

La giurisdizione penale spettava esclusivamente all’autorità

romana. Non sappiamo come i re della Giudea avessero svolto la

giurisdizione penale e quale fosse la divisione di prerogative tra loro

ed il Sinedrio: consesso di cittadini che, in occasione di processi, il

sommo sacerdote del Tempio convocava al suo fianco, con funzioni

consultive; in sostanza, tale termine era il corrispondente del romano

consilium.

Un altro problema importante è quello dello ius gladii: Juster51

ritenne che fosse riconosciuto al Sinedrio il potere di condannare a

morte lo straniero che fosse entrato nel Santuario di Gerusalemme,

49 Ios. Flav., Bell.. VI,6,329. 50 Ios. Flav., Bell. VI,6,333-334. 51 Juster, 1914, pag. 112.

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foss’egli anche cittadino romano; ma, dalle fonti risulta che esecutori

della sentenza non erano né le autorità romane, né il Sinedrio, bensì la

pena di morte veniva eseguita da chi si trovava sul posto ed aveva

assistito all’infrazione del divieto.

Secondo l’interpretazione del Mommsen, l’espressione greca usata

da Giuseppe Flavio “méchri tu ktéinein”, stava a significare che a

Coponio fosse stato riconosciuto il ius gladii, ossia la facoltà di

punire con pena capitale i soldati (cittadini romani), che si trovavano

ai suoi ordini, senza che a questi fosse concessa la possibilità di

chiedere il trasferimento del relativo processo al tribunale di Roma52.

Questa congettura, tuttavia, non è apparsa condivisibile alla dottrina

più recente53, in quanto, come si è osservato, le truppe stanziate nella

provincia di Giudea, non erano numerose e per lo più, erano costituite

da milizie ausiliarie, reclutate tra la popolazione locale (Samaritani,

Siri, Greci); non si comprende allora per quale motivo, l’imperatore

avrebbe dovuto ravvisare la necessità di attribuire al prefetto, il ius

gladii. Alla luce di ciò, deve escludersi che con le parole “méchri tu

ktéinein”, Giuseppe Flavio intendesse riferirsi al ius gladii sui soldati

cittadini romani. Quindi, i “pieni poteri” di cui si parla nelle Antichità,

corrispondono con tutta evidenza al conferimento “anche del potere di

condannare a morte” di cui è parola nella Guerra giudaica; solo che

nelle Antichità è espressamente detto che le facoltà attribuite a

Coponio riguardavano i Giudei e non i Romani. Non si trattava, vale a

dire, di una concessione del ius gladii, bensì di quell’amplissimo

52 Mommsen, 1902, pag. 153. 53 Santalucia, 1999, pag. 89.

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imperium sui sudditi provinciali, di cui erano investiti gli altri

governatori di province, sia imperiali che senatorie (proconsules e

legati Augusti).

Dunque, in forza dei poteri demandatigli, il prefetto di Giudea

poteva esercitare la giurisdizione capitale sugli abitanti del luogo, a

sua piena discrezione, senza il beneplacito di altre autorità: in

particolare, senza il bisogno di un’autorizzazione preventiva da parte

del legatus della vicina provincia di Siria, al quale egli era subordinato

esclusivamente dal punto di vista militare54.

I.8. Il governatore e l’ordine pubblico:

limiti del potere governatoriale.

E’ fuor di dubbio, quindi, che Coponio, in virtù dell’imperium

conferitogli dall’imperatore, avesse pieno potere di vita e di morte sui

sudditi della Giudea55. Il problema è stabilire se anche i suoi

successori al governo di tale provincia, abbiano goduto di un analogo

potere. Purtroppo, non possediamo informazioni certe ed

inequivocabili, come quelle che ci fornisce Giuseppe Flavio,

relativamente a Coponio. Tuttavia, lo stesso storico ci narra numerosi

altri episodi, da cui è possibile ricavare che i poteri dei prefetti di

54 Santalucia, 1999, pag. 90. 55 Santalucia, 1999, pag. 91.

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Giudea si mantennero sostanzialmente inalterati, almeno per tutta la

metà del I sec.

Racconta Giuseppe Flavio che quando nel 44 d. C. era governatore

della Giudea Cuspio Fado, scoppiò una controversia di confine tra gli

abitanti della Peréa e quelli del territorio di Filadelfia. Allora Fado

fece catturare i tre capi dell’insurrezione, condannando due di loro

all’esilio ed uno a morte56. Non di meno, il suo successore, Tiberio

Alessandro, governatore dalla Giudea dal 46 al 48 d. C., fece

crocifiggere Giacomo e Simone, figli di Giuda il Galileo, che aveva

più volte incitato il popolo alla rivolta contro i Romani57 ed analoga

durezza ebbe il successivo Gessio Floro58. Tutte queste testimonianze

lasciano dedurre che il potere di condannare a morte gli abitanti della

provincia siano stati concessi dall’imperatore, non occasionalmente al

solo Coponio, ma a tutti i governatori. Probabilmente, agli inizi, tale

concessione avvenne formalmente, ma in prosieguo di tempo non fu

neppure più richiesta, divenendo implicita.

In forza dell’imperium di cui era investito, il governatore poteva

procedere con la massima discrezionalità nei confronti di tutti i delitti

che in qualche modo erano suscettibili di turbare l’ordine della

provincia. Le leggi a tutela della quiete e dell’ordine erano molto

severe e prevedevano durissime sanzioni. Ad esempio, la lex Iulia de

vi puniva con la crocifissione, con la condanna alle belve o con la

deportazione in un’isola, gli autori ed i fomentatori di sedizioni e

56 Ios. Flav., Ant. 20,1,1.4. 57 Ios. Flav., Ant. 20,5,2.102. 58 Ios. Flav., Bell. 2,14,9.306.

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rivolte. Naturalmente, il condannato aveva la possibilità di proporre

appello all’imperatore, ma tali appelli raramente venivano inoltrati a

Roma, poiché il governatore, a sua discrezione, poteva decidere di non

tener conto delle impugnazioni proposte da quei condannati, che per

motivi di pubblica sicurezza, dovevano essere puniti immediatamente

(autori di sommosse; capi di fazioni; briganti).

Solo nei confronti dei Romani residenti nella provincia, il

governatore doveva rispettare l’eventuale provocatio proposta contro

i suoi atti di coercizione capitale, altrimenti incorreva nelle gravi

sanzioni previste dalla lex Iulia de vi59

. Tuttavia, non tutti e non

sempre i reati commessi nella provincia rientravano nella cognizione

del governatore: a volte, risultava opportuno non celebrare il processo

nella provincia (soprattutto per evitare rivolte popolari), ma inviare il

condannato a Roma - quasi come se fosse stato un cittadino romano -

affinché fosse giudicato dall’imperatore; altre volte, al governatore

non era addirittura consentito esercitare la repressione: egli, infatti,

conosceva di quei reati che mettevano in pericolo l’ordine pubblico o

violavano le leggi criminali romane, ma non aveva competenza per

altri reati e, meno che mai, per i delitti religiosi contemplati dalla

legge ebraica60.

59 D. 48,6,7. 60 Santalucia, 1999, pag. 94.

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I.9. I delitti religiosi: problemi di competenza.

La comunità ebraica godeva di una particolare posizione in tutto

l’impero romano, poiché le erano stati riconosciuti propri poteri

giudiziari, oltre alla dispensa dall’obbligo del servizio militare e del

culto all’imperatore. Il Sinedrio esercitava la giurisdizione civile - e,

limitatamente, anche in materia penale - secondo le proprie leggi61.

Negli Atti degli Apostoli si legge che Pietro e Giovanni, pochi

giorni dopo la Pentecoste, sorpresi da alcuni sacerdoti a predicare alla

gente la parola di Cristo, furono arrestati e condotti dinanzi al

Sinedrio. Questo li lasciò andare, intimando loro, però, di cessare le

predicazioni. Gli Apostoli, tuttavia, furono dal Sinedrio condannati

alla fustigazione. Anche Saulo, prima di convertirsi, perseguitò, come

inviato del Sinedrio, i seguaci della nuova fede: si trattò di una

persecuzione feroce e violenta.

Dunque, sebbene la Giudea fosse stata ridotta a provincia romana,

il Sinedrio mantenne l’antica competenza a giudicare e condannare i

delitti di carattere religioso. Non poteva, però, infliggere la pena di

morte; infatti, come già ricordato in precedenza, in un acceso discorso

reso dall’imperatore Tito ai ribelli di Gerusalemme, egli, vantando le

straordinarie concessioni fatte dai Romani agli Ebrei, chiede: “Non

abbiamo noi consentito perfino di mettere a morte chiunque avesse

oltrepassato le barriere del Tempio, anche se si fosse trattato di un

61 Santalucia, 1999, pp. 96-97.

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Romano?”62; frase molto significativa, perché se Tito considera la

concessione del diritto di vita e di morte frutto della disponibilità e

della benevolenza romana verso il popolo ebraico, ciò significa che,in

linea generale, agli Ebrei non era consentito applicare la pena di morte

ai trasgressori della propria legge.

Altro indizio è contenuto nel Talmud, il quale ricorda che 40 anni

prima della distruzione del Tempio, avvenuta nel 70 d.C., gli Ebrei

furono privati del diritto, che precedentemente possedevano, di

pronunciare condanne a morte, e ciò riporta proprio all’epoca in

questione63.

In definitiva, al tempo di Gesù, il Sinedrio, pur potendo giudicare

su tutti i delitti di natura religiosa, non poteva infliggere la pena

capitale. Tra le pene che poteva comminare rientravano: la

fustigazione; i ceppi; la carcerazione, ma - è bene sottolinearlo - non

la pena di morte. Tuttavia, sebbene, in linea teorica, questa

ripartizione di competenze appaia netta, nella pratica poteva dar vita a

problemi: talvolta, accadeva che un illecito di natura religiosa si

traducesse in violazione dell’ordine pubblico. In tali casi, il

governatore doveva prendere conoscenza del caso ed eventualmente

punire il trasgressore. Ciò nonostante, l’autorità romana non gradiva

intervenire in questioni del genere: trattandosi pur sempre di

controversie riguardanti la legge ebraica, era facile fare passi falsi; una

decisione non gradita al popolo ebraico poteva scatenare le ire della

folla e generare tumulti ancora più gravi di quelli che si intendeva

62 Ios. Flav., Bell. 6,2,2.126. 63 Talmud Ier., Sanhedrin I 1/18°.

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reprimere64. La soluzione migliore era quella di dichiarare la propria

incompetenza ed affermare che si trattava di una questione puramente

religiosa. In alcuni casi, però, il governatore era costretto ad

intervenire ed a giudicare; ciò accadeva soprattutto quando l’accusato

aveva commesso un delitto che, secondo la legge ebraica, era

passibile di pena capitale: pena che il Sinedrio non poteva comminare.

In tali ipotesi, ai membri del Sinedrio non restava che tentare di

convincere il governatore che l’accusato aveva commesso un atto che,

non solo era contrario alla religione, ma anche all’ordine pubblico, la

publica disciplina, in modo da ottenere, ad opera del governatore, la

messa a morte del colpevole.

I.10. Sintesi conclusiva.

Possiamo, a questo punto, riepilogare i risultati dell’indagine svolta

nelle pagine precedenti.

Il governatore della Giudea era investito, per speciale concessione

imperiale -concessione che divenne col tempo consueta - di pieni

poteri in materia di repressione criminale. In forza di tali poteri, egli

aveva facoltà di conoscere e di punire, anche con la morte, tutti gli atti

giudicati socialmente dannosi; tutti quei delitti che ponessero a

repentaglio la pubblica disciplina, la sicurezza e la tranquillità della

provincia da lui amministrata.

64 Santalucia, 1999, pag. 99.

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Solo i delitti di religione non rientravano nella sua competenza e

costituivano, per antico privilegio, oggetto di persecuzione da parte

dell’autorità ebraica. Il Sinedrio, nell’esercizio dei suoi poteri di

repressione religiosa, aveva facoltà di applicare ai trasgressori le pene

del diritto penale ebraico, esclusa, però, la pena di morte. Il fatto che,

talvolta, i processi davanti al Sinedrio si concludessero con la

dichiarazione che l’imputato era “reo di morte”, non deve trarci in

inganno: ciò, infatti, non significava che esso era “condannato” alla

pena capitale, bensì che era “ritenuto meritevole” dell’estremo

supplizio. Si trattava, in altri termini, di una solenne proclamazione di

responsabilità, non di una sentenza di condanna.

Per giungere ad una vera condanna, i membri del Sinedrio

dovevano accusare il reo dinanzi al rappresentante dell’imperatore, e

così ottenere che quest’ultimo ne decretasse, con sentenza, la messa a

morte. Naturalmente, il governatore decideva in base alla legge

romana: quindi, gli accusatori, per raggiungere il loro scopo,

dovevano dimostrare che il comportamento sottoposto al suo giudizio,

non configurava un delitto religioso - o esclusivamente religioso - ma

un delitto contro l’ordine pubblico, un atto di ribellione contro

l’autorità di Roma. Il processo di Paolo è significativo al riguardo: le

accuse di carattere religioso, inizialmente mosse all’apostolo

dall’autorità giudaica, si trasformano, nel processo davanti al

governatore, in accuse di sedizione e di violazione della pubblica

disciplina; la condanna a morte è invocata dai Sinedriti, a norma della

legge romana.

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In conclusione, è lecito supporre che nel processo di Gesù, i fatti

non si siano svolti in modo diverso65, proprio in quella città che

portava nel suo nome, Jerushalaim (Ir hashalom = città della pace),

l’aspirazione per la pace66.

65 Santalucia, 1999, pp. 102-103. 66 Mordechai Rabello, 1999, pag. 63.

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Capitolo II

Fase preliminare: l’arresto di Gesù e

l’interrogatorio presso Anna.

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II.1. L’arresto di Gesù nell’orto degli Ulivi:

da chi fu ordinato e perché.

Gettate le basi di questo imponente edificio, si tenterà, di qui

innanzi, una ricostruzione delle tappe fondamentali del processo

attraverso un’analisi settoriale di ciascuna di esse, al fine di ottenere

un excursus più agevole, tale da portare ogni singolo tassello ad

inserirsi nel grande mosaico.

Nella notte tra il giovedì ed il venerdì, mentre con tre dei suoi

intimi attendeva alla preghiera sul monte degli Ulivi ad est di

Gerusalemme, Gesù venne arrestato da un distaccamento mandato dal

Sinedrio e guidato da Giuda, cui erano noti i luoghi e le persone67.

Quali persone o gruppi di persone si schierarono contro Gesù?68

Giovanni parla spesso in generale dei “Giudei”, ma è ovvio che, con

ciò, egli non intende tutti gli appartenenti al popolo ebraico

dell’epoca; ciò risulta, oltre che nel Vangelo di Giovanni, anche nei

Sinottici. Vengono singolarmente citati: i farisei, gli scribi, i sommi

sacerdoti, i sadducei, così come il Sinedrio, composto di sommi

sacerdoti, scribi ed anziani; inoltre compaiono, in due circostanze, gli

erodiani.

I farisei formavano un partito religioso-politico, che teneva alla più

stretta osservanza della legge e della tradizione avita, derivata da

67 Mc.14,43-52; Mt. 26,47-56Lc.22,47-53; Io. 18,21,11.68 Blinzler, 1966, pp. 62 ss.

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questa. Essi avevano una grande influenza sul popolo, soprattutto sul

ceto medio, ma avevano anche una parte importante nel Sinedrio,

poiché i capi dei farisei, gli scribi di formazione teologico-giuridica,

appartenevano a tale corporazione superiore.

Anche i sadducei, il partito della nobiltà sacerdotale e laica, dei

conservatori in religione e dei filoromani in politica, comprendevano

degli scribi; ma gli scribi che compaiono nel Nuovo Testamento sono

per lo più da considerarsi di tendenza farisaica. Quando nel Nuovo

Testamento si parla di sommi sacerdoti al plurale, bisogna intendere

non solo il Sommo Sacerdote in carica ed i predecessori in tale

funzione, ma anche gli addetti ai sacrifici in servizio stabile al

Tempio: essi erano di tendenza sadducea.

Il gruppo degli Anziani era formato dai capi della nobiltà laica di

Gerusalemme. Tutti gli appartenenti alla classe dirigente del paese

erano, dunque, ostili a Gesù: dapprima essi agivano, sembra, più come

singoli o a gruppi indipendenti; più tardi intervennero in quanto

membri del Sinedrio.

Gli erodiani69, infine, erano un partito favorevole alla casa di

Erode, numeroso soprattutto in Galilea, che aveva pure adepti tra i

farisei. Assecondati dagli erodiani, i farisei cercarono apertamente di

muovere il tetrarca Erode Antipa ad un’azione contro Gesù70, ma

l’unico passo che Antipa intraprese, fu quello di far giungere a Gesù,

sul finire della missione in Galilea, una minaccia di morte che in realtà

69 Mc.3,6;12,13. 70 Mordechai Rabello, 1999, pag. 48.

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equivaleva ad una sorta di velata proscrizione dal paese71. E’ degno di

nota che né lui, signore di Galilea, né Pilato, procuratore di Giudea,

abbiano in qualche modo seriamente attaccato Gesù, e che tutti gli

attacchi e tutti i complotti siano provenuti, piuttosto, da parte giudaica.

Ci si domanderà che cosa mai abbia unito nella lotta contro Gesù,

le tendenze ed i partiti ebraici, altrimenti così divisi tra loro:

innanzitutto, fu la grande popolarità di Gesù, che tutti i circoli direttivi

videro con inquietudine, malumore e gelosia72. Essi temevano una

scomparsa della loro influenza sulle masse, se non si fosse ostacolata

l’attività di Gesù; parlavano del pericolo che i Romani potessero

prendere pretesto dal movimento messianico, per eliminare l’ultimo

resto d’indipendenza ebraica, rappresentato dal governo sinedrile73.

Che i membri del Sinedrio pensassero veramente che i Romani

sarebbero intervenuti contro Gesù, è cosa opinabile, ma il timore di

perdere la loro onnipotenza, timore che si esprime nella loro

argomentazione, fu certamente uno dei motivi più forti della loro

ostilità verso Gesù. Considerazioni del genere, fondate su una politica

di potere, ebbero verosimilmente una parte importante anche nei

circoli preminenti non farisei. Questa gente aveva anche un’altra

ragione per prendersela con Gesù: la lotta di quest’ultimo contro gli

abusi del Tempio (cacciata dei profanatori), minacciava di far svanire

le ricche entrate che essi traevano dai commerci organizzati in quella

sede: come la tradizione rabbinica permette di sapere, soprattutto i

71 Lc. 13,31-33. 72 Mc.11,18; Io. 4,13. 73 Io. 11,48.

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membri della casa di Anna si dedicavano ad un fiorente commercio di

quanto avanzava dalle offerte, dandosi da fare come speculatori, privi

di scrupoli. L’aspra animosità dei farisei contro Gesù poggiava, oltre

che su considerazioni inerenti una politica di potenza, anche sul

dogmatismo religioso; la forma di religiosità di Gesù costituiva per

loro, un mondo assolutamente sconosciuto: Egli respingeva la

tradizione degli Anziani, della quale essi si vantavano tanto74;

disprezzava a parole ed a fatti le loro interpretazioni casistiche della

legge, che per essi erano sacre quanto la legge stessa75; tollerava

intorno a sé, peccatori, pubblicani e prostitute, tutta gente con cui

nessun fedele poteva avere a che fare senza contaminarsi76; parlava di

Dio e delle proprie relazioni con Lui in termini che essi credevano di

non poter interpretare altrimenti che come bestemmie77; Egli

conduceva una lotta senza quartiere contro ogni manifestazione

superficiale di religione intesa alla lettera e contro ogni bigottismo

raggelato in formalismo religioso, intaccando così i fondamenti della

loro vita. Sete di potenza, sete di guadagno e meschino fanatismo

religioso: ecco, secondo gli Evangeli, i moventi dei nemici di Gesù78.

La tradizione evangelica permette di conoscere, in certo qual

modo, la maniera ed i mezzi con cui i nemici di Gesù agirono contro

di Lui: pare che in un primo tempo si fossero accontentati di esigere

da Lui una giustificazione del suo comportamento79; poi si misero a

74 Mc.7,1-12. 75 Mc.3,2-5;2,27. 76 Mt. 11,19. 77 Io. 5,18. 78 Mordechai Rabello, 1999, pp. 49-50. 79 Mc.7,5;2,16.

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distogliere il popolo da Lui: si comincia a sospettare dei suoi miracoli,

come di opera diabolica; si reclama da Lui un miracolo spettacolare,

con la speranza di comprometterlo in caso di esito negativo; si spera di

renderlo ridicolo facendogli domande astruse; si cerca di fargli

prendere posizione in una questione controversa, per suscitare così un

partito contro di lui; gli si pone un problema d’attualità, la cui

soluzione lo dovrà mettere in conflitto o con l’opinione popolare o con

le autorità d’occupazione. Ma ecco ben presto gli attacchi più

pericolosi: si minacciano i suoi adepti di esclusione dalla sinagoga ed,

infine, si prende in considerazione anche la possibilità di sopprimere

Lui stesso80. A questo piano gli avversari gerosolimitani aderirono

solo dopo la guarigione dell’infermo alla piscina di Bethesda; i nemici

galilei dopo la guarigione di un malato nella sinagoga. Se con questo

si progettasse un’uccisione illegale, una specie di linciaggio, oppure la

consegna all’autorità competente in vista di un processo capitale, non

è del tutto chiaro; forse si tenevano in considerazione entrambe le

possibilità. Così pure si spiega che vari siano stati i tentativi d’arresto:

nella festa dei Tabernacoli e nella Dedicazione del tempio, come pure

dopo la cacciata dei profanatori da questo81 - che potevano essere

preludi ad un processo formale - e che, sempre in quel tempo, si

tentasse due volte di lapidarlo82(il che avrebbe senza dubbio

configurato un atto tumultuario di vendetta popolare). La profonda

80 Mc.8,11;Lc.11,53,Io. 8,5; Mc.3,6. 81 Io. 7,3; Mc.11,18. 82 Io. 8,59;10,3; cfr. Fabbrini, 1999, pag. 156.

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impressione che la personalità di Gesù suscitava nella massa del

popolo, impedì ogni volta l’esecuzione di questi piani.

Il piano tramato dai farisei e dagli erodiani in Galilea rimase

inattuato, presumibilmente perché il tetrarca, ammaestrato dal caso del

Battista, non se ne volle interessare seriamente. E’ probabile che il

fallito tentativo degli abitanti di Nazareth di precipitare il loro

compatriota dall’alto di una montagna, derivi piuttosto da

un’inimicizia personale e non da un complotto del partito fariseo.

Dopo la risurrezione di Lazzaro, il Sinedrio decise di fare arrestare

l’odiato predicatore e di mandarlo a morte con un procedimento

giudiziario regolare.

Nella seduta sinedriale, che aveva avuto luogo qualche tempo

prima di Pasqua, nella quale era stata decisa l’eliminazione di Gesù, al

sommo sacerdote Caifa spettò la parte principale. I farisei attirarono

l’attenzione sul pericolo che i Romani, nel caso di una diffusione

generale del movimento messianico, potessero togliere loro il dominio

del Tempio e del popolo, ma per quanto riguarda i provvedimenti da

prendersi contro Gesù, pare che fossero in un primo tempo indecisi.

Caifa, invece, freddo calcolatore e politico scaltrito, li rimproverò di

mancare di perspicacia e affermò senza remore che la morte di un solo

uomo fosse da preferirsi alla rovina di un intero popolo: naturalmente

il sommo sacerdote era soprattutto preoccupato che il potere suo e dei

suoi colleghi crollasse83.

83Io. 11,47-50.

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La sua opinione finì con il prevalere: due giorni prima della

Pasqua, fu convenuto che l’arresto di Gesù, per evitare disordini

popolari, dovesse avvenire di sorpresa e non “con chiassosa pompa”.

Il Vangelo di Giovanni parla anche di due altre decisioni dei sommi

sacerdoti: anche Lazzaro doveva, se possibile, venir eliminato, perché

per causa sua molti Ebrei erano passati a Gesù84; la popolazione, poi,

doveva essere invitata ad indicare il rifugio di Gesù, conoscendolo,

affinché si potesse procedere all’arresto85. Questo appello, comunque

fosse formulato, poteva in realtà significare una cosa sola: chi conosce

una possibilità di far arrestare Gesù senza dare nell’occhio, faccia il

piacere di dirlo.

Al bando di cattura ufficialmente emesso dal Sinedrio rispose uno

dei più intimi discepoli, Giuda Iscariota, il quale offrì ai membri del

Sinedrio di porre Gesù nelle loro mani, ricevendo volentieri da costoro

la promessa di una somma di denaro (secondo Mt.26,15, trenta denari

d’argento, il prezzo di uno schiavo). Giuda seppe al più tardi, giovedì

sera, che Gesù avrebbe passato la notte successiva in un giardino sul

monte degli Ulivi, ed abbandonò presto la sala della cena per

informarne quelli del Sinedrio e condurli sul luogo.

Ethelbert Stauffer non dubita che Giuda abbia tradito rivelando il

rifugio di Gesù al Getsemani, ma si domanda se in Giuda non si debba

vedere un agente segreto del Sinedrio e se non sia da pensare che

ormai da mesi avesse compiti di spia nei confronti di Gesù86. La più

84Io. 12,10. 85Io. 11,57. 86 Stauffer, 1956, pag. 320.

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antica tradizione accessibile a noi non sembra, tuttavia, di questo

parere: nella scena del patto87, che si svolse poco prima della Pasqua, i

membri del Sinedrio si mostrano sorpresi della proposta di Giuda;

d’altronde, le parole di Gesù durante l’ultima cena: “Uno di voi mi

tradirà”88, definiscono il tradimento di Giuda come un atto

appartenente ancora al futuro; infine, se tale interpretazione fosse

giusta, bisognerebbe attendersi una comparsa di Giuda come

testimone nel processo dinanzi al Sinedrio, cosa di cui non abbiamo il

minimo indizio.

II.2. Il dibattito sugli esecutori dell’arresto e riflessioni

sulla legalità formale di esso.

Gli Evangeli non dicono nulla sulle motivazioni giuridiche

dell’arresto di Gesù; si possono, quindi, ipotizzare come capi

d’accusa: la bestemmia; la profanazione del sabato; la divinazione e la

magia, eventualmente anche la pseudoprofezia89. Anche sui moventi

della riprovevole azione di Giuda, i resoconti tacciono. Forse Giuda si

era aspettato di vedere nel Cristo, un Messia nazionale-politico, il

restauratore del regno e del Trono di Davide, ed era stato

profondamente deluso in questa aspettativa.

87 Mc.14,1; cfr. Fabbrini, 1999, pag. 161. 88 Io. 13,21. 89 Deut.13,6;18,20;Mishnà,Sanh. X.

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Il colpo di mano notturno si svolge secondo i piani prestabiliti:

dopo che Giuda ha indicato Gesù mediante il bacio di saluto usuale,

gli uomini armati mettono subito le mani su colui che ricercavano90.

Gesù apostrofa con una parola amaramente ironica quell’insolito

spiegamento di forze predisposto contro di Lui, come contro un

malfattore, ma non oppone resistenza. I discepoli si danno alla fuga,

senza che alcuno impedisca loro di farlo91.

Per una chiara comprensione del processo, sarebbe molto

importante sapere esattamente chi fossero le persone che arrestarono

Gesù. In base all’antefatto, ci si può aspettare che si tratti di incaricati

del Sinedrio; ciò viene confermato da Marco, il quale osserva che “gli

uomini armati di spade e bastoni” erano mandati dai sommi sacerdoti,

dagli scribi e dagli anziani92. Anche il fatto, riferito da tutti gli

evangelisti, che Gesù fu condotto immediatamente presso i capi

ebraici, lo conferma. Quando Giovanni menziona i “servi dei sommi

sacerdoti e farisei”93, intende certamente uomini che erano al servizio

del Sinedrio e che furono da questo autorizzati a procedere all’arresto.

Benché il termine “turba” usato dai sinottici significhi folla, mucchio,

massa, non bisogna immaginarsi un’accozzaglia qualsiasi di irregolari,

perché, quando si tratta di arrestare un solo individuo disarmato e

deciso a non difendersi, una pattuglia di dodici armati può già essere

definita “un mucchio” di uomini. Non si deve, quindi, sopravvalutare

la forza numerica della truppa.

90 Fabbrini, 1999, pag. 161. 91 Mc.14,50. 92 Mc.14,43. 93 Io. 18,3.

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Se gli “sbirri” agivano per incarico e con pieni poteri del Sinedrio,

bisogna dire che appartenevano ad una formazione, nelle cui

attribuzioni doveva rientrare l’esecuzione degli arresti. Generalmente,

si pensa che si trattasse di una sezione della guardia del Tempio. Fuori

da tale recinto, essi venivano impiegati come corpo militare solo in

momenti particolari di crisi, come ad esempio sotto l’imperatore

Claudio, durante una guerra tra Samaritani e Galilei94, e durante la

guerra di Giudea, a quanto pare, per la guardia delle mura cittadine95.

Il Nuovo Testamento lascia intendere chiaramente che, a parte la

polizia del Tempio, il Sinedrio aveva a sua disposizione anche forze

proprie: esse avevano il compito di mantenere l’ordine pubblico in

città e nelle campagne, di eseguire arresti, di condurre gli accusati

dinanzi al tribunale, di custodire i prigionieri, di eseguire le sentenze

pronunciate dal tribunale ebraico (salvo le sentenze capitali). Dunque,

tra i componenti di queste milizie, bisognerà annoverare i “servi dei

sommi sacerdoti e dei farisei”, entrati in scena nel Getsemani96.

Il quarto evangelista, però, oltre a questi, fa partecipare anche un

altro gruppo all’azione in questione: egli ci informa che, oltre ai servi

del Sinedrio, Giuda avrebbe condotto nel giardino, anche la “speira”

con il “chiliarca”, che evidentemente la comanda97. Entrambe le

denominazioni fanno pensare, in primo luogo, alla guarnigione

romana acquartierata nella fortezza Antonia, che consisteva

normalmente in una coorte agli ordini di un tribuno militare. Sta di

94 Ios. Flav., Ant.20,6,2. 95 Ios. Flav., Bell.5,6,3. 96 Blinzler, 1966, pp. 71 ss. 97 Io. 18,3-12.

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fatto che la partecipazione di soldati romani all’arresto di Gesù, è

alquanto inverosimile: in primo luogo, è già sorprendente che nei

Sinottici non v’è traccia di un atto così importante; in base alla loro

testimonianza, il drappello incaricato dell’arresto mosse verso il

Getsemani, dal luogo di riunione del Sinedrio o comunque per

mandato del Sinedrio, e non dall’Antonia o per mandato del

procuratore. Inoltre, una “speira” constava di circa seicento uomini:

una formazione del genere era assolutamente fuori posto al

Getsemani. Si potrebbe, bensì, tradurre tale parola anche con

“manipolo” (reparto che contava da duecento a trecento militari), ma

egualmente si sarebbe trattato di uno spiegamento di forze

francamente eccessivo per arrestare in segreto un solo uomo.

La frase di Gesù: “Ogni giorno Io stavo tra voi nel Tempio ad

insegnare, e non mi pigliaste”98, mostra che coloro a cui Egli si

rivolgeva, o almeno i più importanti tra essi, erano Ebrei. Pilato,

all’insaputa e senza il benestare del quale, la coorte non poteva essere

impiegata, secondo il racconto evangelico non sapeva nulla del caso di

Gesù prima che questi fosse portato dinanzi al suo tribunale. Inoltre -

e non meno importante - se Gesù fosse stato arrestato con la

cooperazione di soldati romani, lo si sarebbe senza dubbio rinchiuso

immediatamente in un carcere romano e non, come tutti gli Evangeli

attestano, consegnato ai gerarchi ebraici. Ancora è da osservare che i

due termini in esame ricorrono nella traduzione greca dell’Antico

Testamento, detta dei Settanta, per indicare anche formazioni militari

98 Mc.14,49.

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giudaiche99 ed anche Giuseppe Flavio li adopera per indicare truppe

giudaiche (per esempio, i soldati agli ordini di Archelao)100.

Per tutti questi motivi, bisogna dunque escludere che milizie

romane partecipassero all’arresto101. Tuttavia, questo non prova che

Giovanni abbia commesso un errore storico: ci si può domandare,

infatti, se con le due espressioni citate, egli abbia proprio voluto

designare soldati romani. In ogni caso è falso, o per lo meno inesatto,

ripetere continuamente che Giovanni menzioni la partecipazione di

una “coorte romana”,infatti, egli non usa affatto l’aggettivo “romana”;

inoltre, se avesse pensato a milizie romane, non si capirebbe

assolutamente come egli abbia potuto perdere completamente di vista

questo gruppo così importante, o almeno particolarmente interessante,

nel seguito del suo racconto: infatti, nel cortile del Sommo Sacerdote,

subito dopo l’arresto, si trovano solo “gli schiavi ed i servitori”102,

cioè solo personale sottoposto ai capi ebraici, ed il reparto che

conduce Gesù da Pilato è composto solo da Ebrei.

In conclusione, mentre i Sinottici presentano chiaramente il

drappello incaricato dell’arresto come inviato, vale a dire autorizzato

dal Sinedrio, senza dare particolari sulla sua composizione, Giovanni

distingue due gruppi: quello di uomini appartenenti al tribunale o alla

polizia, mandati direttamente al Getsemani, dal luogo di riunione del

Sinedrio, e quello della guardia del Tempio, comandata dal suo capo,

99 Jossa, 2002, pag. 57. 100 Ios. Flav., Ant. 17,21. 101 Fabbrini, 1999, pag. 162. 102 Io. 18,18.

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che, a sua volta, per ordine del Sinedrio, venne condotta al Getsemani,

dal luogo dove era di stanza nel Tempio.

Pertanto non si può dubitare della legalità formale dell’arresto: le

milizie incaricate di ciò erano al servizio del Sinedrio, la massima

autorità indigena, col cui consenso ed ai cui ordini esse agivano. Se la

legge esigeva un mandato d’arresto scritto, si può dare per ammesso,

benché i testi tacciano al riguardo, che esso sia stato steso ed affidato

ad uno dei responsabili dell’azione, ad un agente del tribunale o al

comandante la milizia del Tempio. Uno straniero che non avesse la

cittadinanza romana e fosse sospettato di un delitto poteva essere

arrestato dalle autorità ebraiche anche in regime di procura, grazie alla

loro forza di polizia autonoma, poiché i compiti di polizia civile ed, in

gran parte anche quelli di polizia criminale nei confronti degli

stranieri, spettavano di regola, nelle province romane, alle autorità

indigene103. L’affermazione che il potere di arrestare un presunto reo

di un delitto capitale fosse, nella provincia, riservato al procuratore, è

senza alcun fondamento. Né alcunché indica che nell’arresto di Gesù,

le norme del diritto penale ebraico siano state violate: né l’ora

notturna, né il fatto che gli uomini fossero armati, possono qui avere

importanza.

In conclusione, si può rilevare che l’arresto di Gesù fu iniziativa

esclusiva delle autorità ebraiche: i poteri di arresto rientravano tra le

competenze dell’autorità locale e questa si preparava ad istruire un

103 Ios. Flav., Bell. 2,14,1.

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processo104. Dunque, è il governo giudaico, non quello romano, che ha

preso l’iniziativa. Il problema di Gesù è, infatti, un problema, interno

alla società giudaica del tempo, che non coinvolge direttamente le

autorità romane. Il Vangelo di Marco è in questo assolutamente

credibile105.

Quanto a Gesù, Egli protestò bensì in certo qual modo contro

l’arresto, ma senza definirlo illegale e sottolineandone piuttosto il

carattere paradossale: “Come contro un malfattore siete venuti con

spade e bastoni per pigliarmi. Ogni giorno Io stavo tra voi nel Tempio

ad insegnare, e non mi pigliaste”106.

II.3. Il dibattito sulla data del processo.

Una questione ancora dibattuta è quella che risulta dalla seguente

domanda: il primo Venerdì Santo cadde il 15 o 14 Nisan? Tutti gli

Evangeli sono d’accordo nel dire che il giorno della morte di Gesù era

un venerdì, ma questi divergono quanto alla data di esso. Secondo i

Sinottici, Gesù celebrò la cena pasquale il giovedì sera. La legge

fissava per questo pasto, la sera del 14 Nisan, cioè l’inizio del 15

Nisan. Il giorno della morte di Gesù sarebbe, quindi, il primo giorno

della festa di Pasqua, il 15 Nisan, ma, secondo Giovanni, Gesù

104 Fabbrini, 1999, pag. 162. 105 Jossa, 2002, pag. 59. 106 Mc.14,48.

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sarebbe stato crocifisso il giorno in cui gli Ebrei, di sera, celebravano

la cena pasquale: dunque, il 14 Nisan.

Questa nota divergenza ha dato spunto a numerosi tentativi di

conciliazione, nessuno dei quali può dirsi soddisfacente. Una tesi

interessante è quella sostenuta da Annie Jaubert107, poi ripresa da

Barbara Fabbrini108, secondo cui l’arresto sarebbe avvenuto addirittura

nella notte del martedì, contrariamente alla generale opinione secondo

cui Gesù fu arrestato nella notte del giovedì e crocifisso il venerdì. Per

questa cosiddetta cronologia dei tre giorni, la Jaubert adduce

l’argomento secondo il quale, come appare dal libro dei Giubilei, da

quello di Enoch, dallo scritto di Damasco e da alcuni testi della prima

grotta di Qumran, al tempo di Gesù, accanto al calendario lunare

ufficiale, esisteva anche un calendario solare, su cui si regolavano la

setta di Qumran ed i circoli ad essa legati; calendario secondo il quale

la Pasqua cadeva ogni anno di mercoledì. A tale calendario si

dev’essere attenuto anche Gesù, perché così si può spiegare la

divergenza tra i Sinottici e Giovanni, circa il giorno dell’arresto e,

quindi, della morte di Gesù. Dunque, stando alla ricostruzione della

Jaubert, quando i Sinottici dichiarano che l’ultima cena fu una cena

pasquale, hanno ragione; Gesù ha veramente celebrato una cena

pasquale prima della sua morte, e precisamente secondo il calendario

di Qumran, la sera del martedì (cioè secondo il modo di contare

ebraico, al principio del mercoledì). Quando d’altra parte Giovanni

informa che Gesù è stato crocifisso alla vigilia del giorno di Pasqua,

107 Jaubert, 1957, pp. 149-163. 108 Fabbrini, 1999, pag. 165.

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ha altrettanto ragione: egli pensa al calendario ufficiale, secondo il

quale il primo Venerdì Santo, era un 14 Nisan. In tal modo, prendendo

come base questa cronologia prolungata, si risolvono varie difficoltà

cui l’esegesi evangelica si trovava sinora di fronte109.

L’audace teoria della Jaubert ha avuto subito un’eco assai positiva

e parecchie adesioni, tra le quali (come già ricordato) anche quella

della Fabbrini110. Altri studiosi avanzarono qualche dubbio: si deve

ammettere che la nuova ipotesi merita una seria attenzione, ma se si

esaminano criticamente tutti gli argomenti addotti, si giungerà alla

conclusione che la cronologia tradizionale della Passione, è

decisamente meglio fondata: la cronologia dei tre giorni, presentata

nella Didascalia e sostenuta dalla Jaubert, è comparsa al più presto

nel II secolo ed è ispirata dalla preoccupazione di trovare nella storia

della Passione il fondamento del tradizionale digiuno settimanale del

mercoledì e del venerdì. Senza dubbio, sia i Sinottici, sia Giovanni,

testimoniano a favore della “cronologia di un giorno solo”. Ora,

poiché il resoconto della Passione, a differenza di altre parti degli

Evangeli, ci è stato, sin dal principio, trasmesso come un racconto

coerente e continuo, la cronologia della Passione secondo gli

Evangeli, non può venire respinta alla leggera. In conclusione,

l’asserzione che la cronologia dei tre giorni elimina una quantità di

difficoltà d’interpretazione, si dimostra, ad un esame più minuto,

inesatta o discutibile.

109 Jaubert, 1957, pp. 149-163.110 Fabbrini, 1999, pag. 166.

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II.4. L’interrogatorio presso Anna: valore di inchiesta

giuridico-preliminare o informale?

Gesù fu incatenato e condotto dal monte degli Ulivi in città; non lo

si condusse però subito dinanzi al Sinedrio, ma, come soltanto

Giovanni riferisce111, dapprima dal sommo sacerdote Anna, figlio di

Seth, il quale viene nominato, accanto a Caifa, altre due volte nel

Nuovo Testamento come sommo sacerdote112. In Giuseppe Flavio, che

lo chiama Ananos, egli appare come una delle personalità più notevoli

dell’aristocrazia sacerdotale di quei tempi113. L’ufficio di sommo

sacerdote gli fu affidato nel 6 d.C., dal governatore siro Publio

Sulpicio Quirino e poté essere da lui esercitato sino all’anno 15.

I contemporanei giudicarono Anna un uomo prediletto dalla sorte

per tanta potenza e tanti onori, ma la tradizione ebraica non si

pronuncia sempre in termini favorevoli sulla sua stirpe: prima di tutto

le si rimproverano denunce, intrighi ed un affarismo sconveniente.

Senza dubbio, Anna dovette i suoi grandi e durevoli successi, non solo

al fatto che, essendo ricco, egli poneva senza alcuno scrupolo la

propria ricchezza al servizio dei propri piani, ma anche ad un’

inconsueta energia ed a grandi doti diplomatiche. Così si spiega

perché nel Nuovo Testamento egli compaia sovente in primo piano,

nonostante già da molto tempo fosse stato sostituito nelle sua carica.

Se d’altra parte si continua a chiamarlo sommo sacerdote, si deve

111 Io. 18,12;19,24. 112 Fabbrini, 1999, pag. 162. 113 Ios. Flav., Ant. 20,9,1.

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tener presente che tale titolo restava anche a quanti non erano più in

funzione attiva.

Anna intraprese da solo l’interrogatorio di Gesù, sia pure in

presenza di servitori e forse anche di alcuni gerarchi. Il Sinedrio, in

quanto corpo costituito, si riunì solo più tardi, sotto la presidenza di

Caifa.

Non bisogna vedere in questa scena un’inchiesta preliminare

ufficiale: una cosa del genere era manifestamente ignota alla

procedura penale ebraica. Vari storici del diritto pensano che Anna

avesse iniziato l’interrogatorio nella sua qualità di presidente di uno

dei due tribunali minori, ancora in funzione a Gerusalemme. Questi

tribunali erano competenti per i reati minimi, ed Anna, riconoscendo

l’eccezionale gravità del caso, lo avrebbe trasmesso poi al gran

Sinedrio. Ciò non è affatto esatto: proprio il Sinedrio, infatti, e non un

tribunale locale di second’ordine, aveva deciso l’arresto di Gesù e il

suo perseguimento in sede penale per mezzo di un processo capitale;

poiché Anna era, egli stesso, membro del Sinedrio, doveva essere già

informato in precedenza dell’importanza straordinaria dell’affare.

Il primo interrogatorio non costituisce, dunque, un elemento

integrante del processo vero e proprio, ma ha carattere non ufficiale.

Sembra che ci sia indicato anche dalle parole di Io.18,13, dove egli

dice, al fine di giustificare la traduzione di Gesù da Anna: “… poiché

egli era suocero di Caifa, il quale era sommo sacerdote quell’anno”.

Ciò dovrebbe significare che alla base di tale traduzione stavano

motivi più di carattere privato, che giuridico: rimettendo

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provvisoriamente Gesù ad Anna, Caifa voleva ufficialmente

manifestare il suo rispetto per quest’ultimo ed, in realtà, calcolava che

l’esperienza e la scaltrezza dell’ex-sommo sacerdote, sarebbero valse

a procurargli il materiale di base per il processo dinanzi al Sinedrio114.

Inoltre, così si utilizzava vantaggiosamente l’intervallo di tempo

necessario per la convocazione regolare della corte di giustizia. Ad

ogni modo, il procedimento preliminare presso Anna non era motivato

dal fatto che gli Ebrei considerassero quest’ultimo, nonostante la sua

deposizione da parte dei Romani, come l’unico legittimo sommo

sacerdote; né è da pensare che Anna non volesse partecipare alla

seduta sinedriale come semplice membro, non potendo presiedere la

seduta; oppure che si volesse risparmiare al vegliardo l’uscita in una

notte fredda115. Allorché Giovanni aggiunge alla sua osservazione su

Anna: “Caifa era quello che aveva dato agli Ebrei il consiglio che era

meglio morisse un solo uomo per il popolo”116, egli vuole

manifestamente intendere che entrambi, il sommo sacerdote deposto e

quello in carica, giudicavano esser venuto il momento di passare dalle

parole, all’azione e di fare tutto il possibile per mettere Gesù, una

volta per tutte, nell’impossibilità di nuocere.

Ma lo scopo dell’udienza preliminare non fu raggiunto. Anna

interrogò il prigioniero sui suoi discepoli e sulla sua dottrina. Egli

voleva sentire dalla bocca stessa di Gesù perché quest’ultimo avesse

raccolto intorno a sé una schiera di seguaci e quali dottrine particolari

114 Blinzler, 1966, pag. 104. 115 Zahn, 1908, pag. 613. 116 Io. 18,14

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propagasse. Difatti, Gesù si distingueva fondamentalmente dai soliti

insegnanti, anche per il fatto che non discuteva al pari di essi e non

diffondeva cose imparate da altri, ma, sorpassando persino i profeti

dell’Antico Testamento, annunciava in modo nuovo la volontà di Dio

e con ciò manifestava una sicurezza di sé, inconcepibile per il pensiero

ebraico, al quale tutto ciò non poteva non apparire blasfemo. Forse

Anna, in quest’occasione, cercò di strappare al prigioniero una sorta

di confessione personale che aprisse la via all’imminente processo

giudaico. Il fatto che egli si interessasse anche dei discepoli, che

tuttavia all’atto dell’arresto non erano stati disturbati, indica forse che

egli voleva indurre Gesù a dare qualche spiegazione anche sul

movimento messianico da Lui provocato; spiegazione che si sarebbe

potuta poi utilizzare davanti al foro Romano. Egli pensava o fingeva

di pensare che Gesù avesse fondato una specie di società segreta con

dottrine e fini sospetti. Gesù respinge queste insinuazioni con serena

dignità. Egli rammenta il carattere assolutamente pubblico della sua

attività: “Io ho sempre parlato palesemente al mondo. Ho sempre

insegnato nella sinagoga e nel Tempio, dove s’adunano tutti gli Ebrei,

e nulla ho detto in segreto. Perché m’interroghi? Interroga quanti

udirono ciò di cui Io parlai loro. Ecco, quelli sanno che cosa ho

detto”117. Siccome Giovanni sa benissimo che Gesù occasionalmente

ha parlato anche ad un uditorio più ristretto, egli vuol, dunque, far

capire che Gesù, con l’affermazione di non aver mai parlato in

segreto, intendeva proclamare che tutto il contenuto del messaggio

117 Io. 18,20; cfr. Fabbrini, 1999, pag. 163.

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messianico era accessibile a chiunque e che, quindi, l’idea di una

congiura segreta o cose simili era assurda. Dal fatto che la

predicazione era pubblica, si deduce l’assoluta superfluità

dell’interrogatorio di Gesù, le cui parole sarebbero, dunque, state

accolte solo con diffidenza; poiché abbondavano i testimoni

auricolari, l’inquisizione si doveva attenere ad essi: l’audizione dei

testi fa parte di ogni interrogatorio regolare.

Un tono così libero e privo di timore era qualcosa d’inaudito nelle

aule dei tribunali ebraici. Come Giuseppe Flavio ci riferisce118, gli

imputati ebraici avevano cura di ispirare il loro atteggiamento ad un

servilismo completo. Essi si presentavano esageratamente umili e

timorosi nella parola e nel gesto, vestiti di nero e con i capelli in

disordine, cercando, in tutti i modi immaginabili, di suscitare la

compassione del giudice. Allo spirito limitato e sottomesso di un

militare di tribunale, la risposta di Gesù doveva, quindi, apparire

irriverente ed ingiuriosa. Poiché egli era sicuro di non incorrere in

nessuna ammonizione da parte del suo superiore, il soldato

schiaffeggiò con zelo servile l’imputato, dicendogli: “Così rispondi al

sommo sacerdote?”. Gesù subisce il rimprovero brutale, ma non senza

rinfacciarne con calma e chiarezza all’autore, il suo torto: “Se ho

parlato male, dimostrami il mio torto. Se ho parlato bene, perché mi

percuoti?”119. Non ci è detto come reagì all’accaduto il sommo

sacerdote.

118 Ios. Flav., Ant. 14,9,4. 119 Io. 18,23.

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L’interrogatorio si conclude con un nulla di fatto: Anna, che non

riesce ad acquisire alcuna prova nei confronti dell’accusato, fa

pertanto incatenare di nuovo Gesù e lo manda a Caifa, sommo

sacerdote in carica120.

120 Io. 18,24; cfr. Blinzler, 1966, pag. 106.

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Capitolo III

Fase cognitiva: il dibattimento dinanzi al

Sinedrio.

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III.1. Il sommo sacerdote Caifa ed il Sinedrio di

Gerusalemme.

Il dibattimento ebbe inizio durante la stessa notte: racconta Marco

che il personale di servizio, accampato nel cortile, manteneva acceso il

fuoco per difendersi dal freddo notturno121. A causa dell’ imminente

sorgere del sole, occorreva sbrigarsi. Del resto, di regola gli arrestati

venivano tradotti in giudizio immediatamente dopo l’arresto, poiché il

diritto penale ebraico sembra non aver conosciuto l’arresto preventivo

come istituzione normale122.

Da Caifa si trovavano “tutti i sommi sacerdoti, anziani e scribi”123,

riunite, quindi, esattamente le tre categorie che, secondo Giuseppe

Flavio, componevano il Gran Sinedrio. E’ dunque il tribunale supremo

ebraico che d’ora in poi si occupa di Gesù. Accanto al sommo

sacerdote in carica - presidente della seduta - avrebbero dovuto essere

presenti settanta membri124. L’osservazione di Marco, che “tutti” i

sinedriti erano convenuti presso Caifa, non va presa assolutamente alla

lettera: a quell’ora insolita alcuni potevano mancare; certamente, però,

la riunione raggiungeva il numero legale necessario per la validità

della decisioni: per questo scopo, secondo la Mishnà, bastava la

presenza di ventitrè membri.

Il solo partecipante all’assemblea che venga dagli Evangeli

indicato col suo nome, è, per l’appunto, il sommo sacerdote Caifa. 121 Mc.14,40. 122 Blinzler, 1966, pp. 111 ss. 123 Mc.14,53. 124 Mischnà, Sanh.1,6.

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Giuseppe, soprannominato Caiafa, com’è designato in Giuseppe

Flavio125, dev’essere stato un diplomatico consumato, se è vero che

egli riuscì a mantenersi al potere per 19 anni, dal 18 sino al 37 d.C.,

primato che in tutto quel secolo non fu raggiunto da alcun altro;

infatti, i procuratori romani cambiavano volentieri questi dignitari,

poiché volentieri approfittavano dell’occasione di una nuova

instaurazione per farsi offrire una gratifica dal candidato fortunato.

Anche Valerio Grato, procuratore della Giudea dal 15 sino al 26 d.C.,

e dal quale Caifa ottenne la carica e la dignità, doveva essere

corruttibile, poiché, infatti, i tre predecessori di Caifa non furono

lasciati in funzione più di un anno126.

Come Caifa127fosse solito procedere senza scrupoli contro tutto

quanto potesse minacciare la sua potenza politica, egli, tra l’altro,

mostrò nella seduta che condusse alla decisione ufficiale della

soppressione di Gesù. Di fronte ad un carattere di tal forza, il povero

figlio d’artigiano di Nazareth, non poteva imporsi, nemmeno quando

godeva ancora del favore popolare. Proprio perché minacciava di

sottrarre il popolo alla casta dominante, quest’ultimo dovette essere

sacrificato alla ragion di stato, come Caifa la intendeva.

Il collegio presieduto dal sommo sacerdote si compone di tre

gruppi: i sommi sacerdoti, gli anziani e gli scribi128.

Il primo gruppo comprende, innanzitutto, coloro che avevano

ricoperto in passato la carica di sommo sacerdote. Oltre a questi ex-

125 Ios. Flav., Ant.18,2,2. 126 Ios. Flav., Ant. 18,2,3. 127 Io. 11,50-53. 128 Blinzler, 1966, pp. 114 ss.

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sommi sacerdoti, almeno altri cinque grandi sacerdoti appartenevano a

questo gruppo: il capo del Tempio, il sorvegliante sacerdotale e tre

tesorieri del tempio stesso. Il più importante di questi alti funzionari

del culto era il primo: egli doveva assistere il sommo sacerdote nelle

solennità del culto ed aveva la massima autorità di polizia all’interno

del Tempio. E’ evidente che in questi ierocrati, assetati di potere,

laicizzati e senza coscienza, incapaci per ciò stesso di accostarsi al

mistero della personalità e del messaggio di Gesù, dobbiamo vedere i

suoi avversari più spietati e spregiudicati.

Il secondo gruppo del Sinedrio, gli anziani, rappresentava le

famiglie dei laici più influenti di Gerusalemme; sembra che si trattasse

soprattutto di ricchi proprietari terrieri. Uno di essi ci è noto per nome,

Giuseppe d’Arimatrea, che possedeva fuori dalla cinta della città un

terreno con giardino, dove sappiamo che egli fece seppellire Gesù.

Benché non sappiamo null’altro sui rappresentanti di questo secondo

gruppo, possiamo ammettere che l’aristocrazia laica non valesse in

media molto più di quella sacerdotale.

Il terzo gruppo, infine, era formato dai rappresentanti della

corporazione degli scribi: mentre i sommi sacerdoti e gli anziani

appartenevano tutti più o meno alla tendenza sadducea, per bocca

degli scribi, si faceva sentire nel governo la voce dei Farisei.

Quest’ultimi si erano guadagnati, con grandi lotte, l’accesso al

Sinedrio sotto la regina Alessandra-Salomè, nel 76 a.C., e, nonostante

alcuni rovesci di fortuna poco prima della morte di Erode I, avevano

saputo farvi valere sempre più la loro influenza. Se i sommi sacerdoti

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e gli anziani erano i rappresentanti della classe dominante dei

plutocrati, gli scribi erano gli avvocati della piccola borghesia, da cui

uscivano i più dei Farisei. Al tempo di Gesù, questi dovevano nel

Sinedrio avere già un notevole potere, di poco inferiore a quello dei

loro avversari sadducei ed è possibile che, anzi, li superassero in

fanatismo ed energia.

Già al primo tentativo di arrestare Gesù, i Farisei costituivano la

forza motrice129. Poiché guardavano con disprezzo sconfinato la

“gentaglia che non conosceva la legge”130, essi non avrebbero avuto

altro che un supremo disprezzo per il predicatore incolto di Nazareth

ed i suoi seguaci, se la sua lotta aperta contro di loro ed il suo

crescente successo tra la popolazione non avessero tramutato il loro

disprezzo in odio rabbioso. Ma, anche tra di loro v’erano uomini nei

quali il sentimento della verità e del diritto non erano morti: uno di

questi era Nicodemo, il quale, tra l’altro, aveva cercato in un’ora

notturna, un insegnamento presso Gesù131; più tardi, nonostante la sua

mitezza, aveva osato fare appello alla coscienza dei suoi colleghi

farisei: “La nostra legge giudica mai un uomo prima di averlo

ascoltato e di sapere ciò che fa?”. Gli risposero bruscamente: “Sei

forse anche tu di Galilea? Indaga e vedrai: dalla Galilea non sorge

alcun profeta”132. Quest’uomo, dopo la morte di Gesù, portò grandi

offerte per una dignitosa sepoltura della salma133. Oltre a lui,

129 Io. 7,32-47; cfr. Mordechai Rabello, 1999, pag. 49. 130 Io. 7,49. 131 Io. 3,1.31. 132 Io. 7,50-52. 133 Io. 19,39.

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conosciamo un altro scriba fariseo, che dev’essere stato allora membro

del Sinedrio: si tratta di Gamaliele I, celebre dottore della legge,

maestro del giovane Saulo di Tarso134.

III.2. Il dibattimento: le regole processuali.

Sulle modalità di svolgimento del dibattimento dinanzi al Sinedrio,

possiamo trarre qualche informazione dalla Mishnà, che forse riflette

in questi particolari tecnici, le condizioni antiche. Secondo essa,

dunque, i sinedriti sedevano in semicerchio su seggi sopraelevati per

potersi reciprocamente vedere135. Ai due lati dinanzi ad essi stavano

due scrivani di tribunale, i quali dovevano mettere a verbale tutti gli

argomenti portati pro o contro l’accusato. In mezzo sedevano

l’imputato ed i testimoni e dietro ad essi, disposti in tre file, stavano

gli allievi scribi, seduti per terra.

Solo dopo l’esposizione delle circostanze attenuanti, potevano

essere avanzate le aggravanti.

Nei processi capitali, l’assoluzione poteva essere pronunciata in

seguito ad una sola testimonianza favorevole all’accusato, mentre la

condanna esigeva le deposizioni concordi di almeno due testi136.

134 Act. 5,34-39. 135 Mishnà, Sanh. IV 3°. 136 Mishnà, Sanh. IV Id.; cfr. Fabbrini, 1999, pag. 170.

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Poiché quest’ultima disposizione era già fissata nell’Antico

Testamento137, essa fu certamente applicata nel processo a Gesù.

Secondo la relazione di Marco, il dibattimento contro Gesù ebbe

inizio con l’esame delle prove: “Tutto il Sinedrio cercava prove contro

Gesù per farlo morire”138. Che un verdetto di morte debba essere

emesso, è certo; invece, non è certo su che motivo esso debba basarsi.

Se non si parla di testimoni a discarico, il motivo sussiste nella

possibilità che essi mancassero del tutto, sia che non si fossero lasciati

entrare; sia che nessuno osasse prendere partito per l’accusato dinanzi

a coloro che notoriamente lo perseguitavano; sia, infine, che per

questa seduta notturna, convocata improvvisamente, non si fosse

potuto trovare un seguace di Gesù, pronto a testimoniare: i discepoli,

infatti, erano fuggiti. Se gli Evangelisti avessero saputo di qualche

testimonianza a discarico, sicuramente non l’avrebbero taciuta, poiché

una testimonianza del genere non solo avrebbe fornito un contrasto

efficace con la condanna finale, ma anche un prezioso punto di

partenza per l’apologetica cristiana.

Nel diritto processuale giudaico, che non conosceva un pubblico

accusatore, i testimoni servivano da accusa. Nonostante l’ora notturna,

essi erano già pronti: al pari dei sinedriti, essi avevano potuto esser

raggiunti facilmente, poichè l’arresto di Gesù era prevedibile almeno

dalla sera prima. Dalla loro pronta apparizione, si è dedotto, più volte,

che essi erano stati preparati o addirittura comperati dai sinedriti139;

137 Deut.17,6,19,15;Num.35,30; Ios. Flav., Ant. 4,8,15. 138 Mc. 14,55. 139 Gutzwiller, 1949, pag. 319.

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ciò ben si accorderebbe col ritratto di Caifa e compagni, ma non si può

provare; né si può dedurre molto dal fatto che, in conclusione, i

testimoni si rilevarono inutilizzabili per mancanza di accordo nelle

loro deposizioni: potrebbe esserci entrato anche un errore di regìa.

Si deve considerare che i testimoni dovevano rendere le proprie

testimonianze separatamente; oralmente; alla presenza dei giudici e

dell’accusato e che le loro dichiarazioni erano giudicate prive di

valore, se differivano anche nel minimo particolare.

Vennero dapprima chiamati ed ascoltati un gran numero di testi, di

cui altro non si sa, se non che le loro deposizioni furono discordanti e,

quindi, prive di validità.

A quali avvenimenti o a quali parole di Gesù questo gruppo di

testimoni si riferisse, non ci è, dunque, noto: si può pensare che si

parlasse di episodi come la cacciata dei profanatori dal Tempio o

l’ingresso in Gerusalemme o le presunte profanazioni del sabato,

oppure anche le affermazioni messianiche di Gesù stesso, ma, poiché

le fonti non ci offrono nessun elemento sicuro di partenza, è ozioso

fare ipotesi su questo punto.

Siccome i primi testimoni non avevano fatto bene la loro parte, ne

comparvero alcuni altri (secondo Matteo, due), sulla cui deposizione

siamo meglio informati, grazie ad un preciso riferimento esistente nel

Vangelo di Marco, in cui si attribuiscono loro queste affermazioni che

Gesù avrebbe pronunciato: “Io distruggerò questo tempio fatto da

mani d’uomo, ed in tre giorni ne fabbricherò un altro che non sarà

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fatto da mani d’uomo”140. Effettivamente, Gesù pronunciò un giorno

queste parole o altre simili; secondo il quarto Evangelista, il solo che

le riferisce nella storia dell’attività di Gesù, esse suonavano così:

“Demolite questo tempio, ed in tre giorni lo farò risorgere”141. Questa

frase sibillina, pronunciata davanti al Tempio di Gerusalemme fu

interpretata dai discepoli come riferita al tempio del corpo di Gesù

stesso142. I testimoni vogliono, naturalmente, intenderla come una

temeraria minaccia contro il santuario nazionale ebraico.

Se il testo di Marco riporta letteralmente la deposizione dei

testimoni e quello di Giovanni le parole di Gesù, gli accusatori

diedero, di queste ultime, una versione che sottolineava ancor

maggiormente la minaccia: “Io distruggerò…”, anziché “Demolite…”.

Questa imputazione era pericolosa, com’è dimostrato da un episodio

della vita di Geremia, il secondo (dopo Isaia) dei profeti maggiori (VI

secolo a.C.) che, avendo predicato contro il Tempio, fu minacciato più

volte dai sacerdoti143. Nel caso di Gesù, vi era l’aggravante che Egli,

almeno secondo l’affermazione dei testi o di uno di essi, non si

limitava a parlare di una catastrofe ventura, ma designava

espressamente se stesso come colui che l’avrebbe provocata. La

distruzione degli edifici destinati al culto era annoverata, in tutta

l’antichità, tra i delitti più gravi. Specialmente agli Ebrei, data la

posizione unica che il Tempio assumeva nella loro vita religiosa,

anche la sola minaccia di un attentato ad esso, doveva apparire come

140 Mc.14,58; cfr. Fabbrini, 1999, pag. 173. 141 Io. 2,19. 142 Io. 2,21. 143 Ier.26,1-19.

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un crimine degno di essere punito con la morte; un tribunale malevolo

poteva facilmente costruire su di essa un’accusa di bestemmia144. Se si

fosse giunti, in base a quest’accusa, ad un verdetto di colpevolezza, vi

sarebbe stata un’evidente ingiustizia, poiché, qualunque fosse stato in

origine il senso della frase sul Tempio, è chiaro che, durante la sua

attività pubblica, Gesù non ha certamente mai avuto l’intenzione di

distruggere o far distruggere l’edificio del Tempio. Nella profezia

riportata da Marco (13,1), Gesù non si sogna affatto di dire che Egli

stesso abbia intenzione di distruggere il Tempio.

Ma la sentenza di morte non si basò affatto su queste parole: Marco

dice espressamente che, anche in questo caso, le testimonianze erano

discordi - in che misura, non sappiamo - e che, perciò, non avevano

valore, sicché l’inchiesta dovette egualmente proseguire145.

III.3. L’interrogatorio dell’imputato e la condanna a

morte da parte dei sinedriti.

L’audizione dei testi non produce, dunque, il risultato sperato dai

giudici146; si passa, quindi, all’interrogatorio dell’imputato stesso.

Gesù deve prendere posizione di fronte alle accuse portate contro di

Lui: se Egli le riconosce fondate o ne riconosce almeno una, la

144 Lev.24,16. 145 Blinzler, 1966, pag. 121. 146 Fabbrini, 1999, pag. 174.

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discordanza tra le testimonianze è neutralizzata e si ha un solido punto

d’approdo per la condanna.

Il sommo sacerdote, come presidente della corte, procede

personalmente all’interrogatorio: dopo essere sceso nell’emiciclo dove

si trovano l’accusato con i testimoni, chiede all’imputato: “Non hai

nulla da rispondere a quanto questi attestano contro di te?”. Gesù non

lo degna di risposta, rifiutandosi di dare spiegazioni sui propri atti e

sulla propria dottrina, poiché le sue spiegazioni urterebbero sempre

contro l’incomprensione e l’ostilità dei presenti147. In ciò, si realizza in

pieno la profezia di Isaia: “Maltrattato ed umiliato, non aperse bocca.

Come un agnello condotto al macello, come pecora davanti ai suoi

tosatori, Egli non aperse bocca”148. Il suo ostinato silenzio toglie alla

corte la possibilità di ricavare alcunché dalle deposizioni dei testi.

Avendo constatato che il dibattimento è giunto oramai ad un punto

morto, Caifa si vede, suo malgrado, costretto a tentare di provocare

una decisione per via diretta. Dinanzi al sospetto che l’accusato

rivendicasse la dignità di Messia, il sommo sacerdote, che vuole farla

finita, pone a Gesù una domanda diretta sulla sua concezione di sé,

appunto, come Messia: “Sei tu il Messia, il figlio del Benedetto?”149.

L’espressione “figlio del Benedetto” - poiché il nome di Dio non

doveva essere pronunciato, Caifa lo sostituisce con una perifrasi - è

un’apposizione di “Messia” e ne ha, quindi, essenzialmente lo stesso

senso, cioè quello di titolo d’onore messianico. Siccome il popolo

147 Blinzler, 1966, pag. 122. 148 Is.53,7; Act.8,32. 149 Mc.14,; cfr. Jossa, 2000, pag. 90.

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ebraico attendeva un Messia puramente umano, la domanda di Caifa

sulla filiazione divina non può essere intesa in riferimento alla stessa

essenza divina; il sommo sacerdote vuole soltanto conoscere le pretese

messianiche di Gesù.

Il resoconto di Marco e di Matteo è disposto in modo tale che proprio

questa domanda appaia come il punto culminante del processo sino a

questo punto svoltosi; Matteo lo sottolinea facendo precedere la

domanda del sommo sacerdote da un solenne: “Io ti scongiuro pel Dio

vivo, di dirci…”150.

Non vi è dubbio che dalla risposta di Gesù dipenderà il successo o

l’insuccesso dei piani dei suoi avversari: se la risposta è “si”, essi

hanno vinto; se è “no”, possono dare un addio alle loro speranze. Ma

ciò significa che, se Marco e Matteo descrivono fedelmente

l’andamento del processo, e non v’è ragione di dubitarne, i sinedriti

erano decisi a considerare Gesù reo confesso, nel caso di risposta

affermativa; si proponevano, cioè, di considerare l’aperta e chiara

rivendicazione della dignità messianica, come un delitto capitale.

Per sfuggire a questa inevitabile conclusione, bisognerebbe

ammettere che la domanda del sommo sacerdote dovesse solo dare il

via ad un’ulteriore inquisizione, nel corso della quale si sperasse di

estorcere all’accusato qualche dichiarazione aggravante. Ma la

domanda di Caifa non dà affatto l’impressione di mirare a qualche

scopo lontano: essa non richiede nient’altro che un sì o un no. Gesù

sinora aveva taciuto; era poco probabile che si lasciasse

150 Mt.26,63.

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improvvisamente trascinare in un lungo dialogo. Il sommo sacerdote

cerca ora, dunque, di ottenere a forza una decisione immediata; per lui

la domanda posta all’imputato equivale alla richiesta di dichiararsi o

meno colpevole.

A quest’interpretazione si potrebbe obiettare che i sinedriti non

avrebbero avuto il diritto di prendere l’affermazione messianica di

Gesù come base per una condanna a morte; ma potremmo ragionare

in tal modo, solo se ci potessimo fondare sul presupposto che il

Sinedrio abbia pronunciato una sentenza equa ed obiettiva, vale a dire

che una questione di fatto, non può in ogni modo venir risolta con

considerazioni aprioristiche. E’ certo incontestabile che la corte

giudaica ha rispettato le forme legali nella valutazione delle

testimonianze, come affermato anche dalla Fabbrini151; ciò, però, non

significa che, anche nell’emissione della sentenza, essa si sia attenuta

alla lettera ed allo spirito della legge. Prendere per base di una

condanna a morte testimonianze nulle perché contraddittorie, sarebbe

stato un principio assai pericoloso; altro era, invece, dichiarare

l’imputato reo convinto di delitto capitale sulla base delle sue

ammissioni, qualora la legge o la consuetudine lasciassero una certa

elasticità per la definizione di siffatto reato.

Di fatto, la definizione di bestemmia, di cui si accusava Gesù, era

un qualcosa di estremamente elastico, ma il problema è ora di sapere

151 Fabbrini, 1999, pp. 172 ss.

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se anche la rivendicazione della dignità messianica era giudicata o

poteva essere giudicata come bestemmia152.

Varie considerazioni suggeriscono una risposta negativa: il Messia

atteso dagli Ebrei, non era un essere soprannaturale, ma un uomo; si

può, dunque, porre in dubbio che quella rivendicazione fosse sentita

già come una formale offesa a Dio. Ma, occorre soprattutto

sottolineare che gli Ebrei non intentarono un processo per bestemmia

a nessuno di coloro che in precedenza avevano rivendicato il titolo di

Messia: quest’argomento non è, dunque, del tutto convincente. Il solo

di cui sappiamo con certezza che si spacciò per Messia, Simon Bar

Kochba (132-135) visse in un’epoca in cui già il diritto penale

farisaico-mishnaico aveva cominciato a farsi strada e godette, oltre

che della simpatia del popolo, anche di quella di gran parte delle

autorità ebraiche, mentre Gesù, per la propria dottrina e la propria

azione, era entrato in conflitto insanabile con la classe dirigente.

A ciò si aggiunge un’altra circostanza: l’ebraismo attendeva dal

Messia che egli si legittimasse come tale. Un Messia prigioniero,

abbandonato dai suoi amici, ridotto all’impotenza e consegnato così

alla violenza dei suoi avversari, era, per esso, un’idea inaccettabile.

Un uomo che in simile situazione si presentava come Messia, come

detentore della massima dignità che Dio potesse conferire ad un

uomo, ai suoi occhi, non poteva essere che uno scellerato, il quale

osava schernire le grandi promesse di Dio al popolo della Sua

alleanza.

152 Blinzler, 1966, pp. 126-127.

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Se questo giudizio non si identificava ancora del tutto con l’accusa

di bestemmia, ne era, tuttavia, separato solo da un sottilissimo tratto

che tale tribunale era disposto a varcare senz’altro con tanto minor

difficoltà, quanto maggiori erano le sue prevenzioni contro

quell’Uomo. La domanda di Caifa è, dunque, proprio la domanda

decisiva. Tutto dipende, oramai, dalla risposta dell’imputato; dal fatto

che Egli affermi o neghi. Secondo i Sinottici, Gesù, durante tutto il

suo ministero, evitò di designarsi apertamente come Messia153; la sua

riservatezza era, evidentemente, motivata dal fatto che Egli non

voleva suscitare le speranze messianiche politico-nazionali dei suoi

contemporanei. Ora che sa di essere al compimento della Sua

missione, alla presenza dei legittimi, anche se increduli ed indegni,

reggitori del Suo popolo, Egli non esita a rispondere chiaramente alla

domanda postagli sulla Sua messianità: “Lo sono”154.

Vero è che la sua idea del Messia non aveva nulla di comune con

quella degli Ebrei, ma il sommo sacerdote non aveva posto la

domanda in riferimento ad una determinata idea di Messia, bensì

aveva semplicemente chiesto se Gesù affermasse di essere il Messia

promesso. Per Gesù, che sapeva di essere Colui che avrebbe

adempiuto le profezie messianiche, non v’era alcun motivo di ignorare

questa domanda di principio e, tanto meno, la sua autotestimonianza,

con la profezia corrispondente: “E voi vedrete il Figlio dell’uomo

assiso a destra della potenza, venire sulle nubi del cielo”155. Alludendo

153 Ps.110;Dan.7,13. 154 Mc.14,62; cfr. Fabbrini, 1999, pag. 176. 155 Mc.14,62.

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a due testi messianici dell’Antico Testamento, Egli fa prevedere il suo

ritorno onnipotente alla destra di Dio. Con ciò Egli va incontro ad

un’obiezione non direttamente espressa, ma, come già riferito,

prevedibile: la sua rivendicazione del titolo messianico mancava di

quella legittimazione divina che avrebbe eluso ogni dubbio. Alla fine

di questo eone, allorché sulle nubi del cielo al fianco di Dio, come il

Figlio dell’uomo rivestito di potenza e magnificenza, Egli si

manifesterà come il Messia agli uomini - anche a coloro che ora lo

stanno giudicando - in maniera convincente; allora gli increduli

avranno il “segno” di cui hanno sempre deplorato la mancanza.

Poiché anche gli Ebrei attribuivano al loro Messia, concepito come

un uomo, il seggio alla destra di Dio e la venuta sulle nubi del cielo,

non si può pensare che i sinedriti intendessero dalle parole di Gesù,

qualcosa di diverso dalla rivendicazione della dignità messianica e

non avevano bisogno di trovarvi null’altro: Gesù si è apertamente e

solennemente presentato come il Messia e, con ciò, ha fornito lo stato

di cose che essi erano decisi ad interpretare come bestemmia.

Così si giunge alla tempestosa scena finale, che Marco descrive

con le parole: “E il sommo sacerdote si stracciò le vesti ed esclamò:

“Che bisogno abbiamo più di testimoni? Avete udito la bestemmia.

Che vi pare? E tutti lo condannarono come reo di morte”156. Si è

sostenuto che la violenta reazione del sommo sacerdote sarebbe stata

la migliore prova dell’onestà dei suoi propositi, poiché, se egli avesse

sospettato o soltanto desiderato la professione di messianità da parte di

156 Mc.14,63.

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Gesù, non sarebbe stato sconvolto al punto da stracciarsi i paramenti

sacerdotali consacrati157. Quest’argomento è del tutto falso: Caifa non

poteva, in nessun modo, tralasciare quei gesti di lutto e indignazione,

sia che la sua irritazione fosse spontanea e sincera, sia che fosse

fittizia ed ipocrita158. Inoltre, non è ammissibile che in quella seduta

egli avesse indossato le vesti solenni di sommo sacerdote, perché gli

ornamenti sacerdotali, negli anni 6-37 d.C., furono custoditi dai

Romani nella fortezza Antonia e ne venivano tratti fuori solo per le

funzioni liturgiche nei giorni di festa; precisamente, secondo Giuseppe

Flavio159, sette giorni prima della festa o, al massimo, alla vigilia.

Stracciandosi le vesti, Caifa esprime, dunque, simbolicamente che

egli considera la dichiarazione di Gesù come una bestemmia. Questa

sua opinione si manifesta, poi, anche in termini chiari: “Che bisogno

abbiamo più di testimoni? Avete udito la bestemmia”. Egli vuol dire

che tutti i presenti sono testimoni auricolari di questa dichiarazione, il

cui carattere blasfemo è incontestabile per lui, e pensa anche per gli

altri membri del Sinedrio, così che la testimonianza d’altri è superflua.

Evidentemente, nessuno dei sinedriti solleva obiezioni contro questa

interpretazione delle parole di Gesù. Così, Caifa invita i suoi colleghi

ad emettere la sentenza: “Che vi pare?”. Per la bestemmia, la legge

mosaica prevedeva la morte per lapidazione160. I sinedriti si

pronunciano all’unanimità per la condanna a morte.

157 Husband, 1916, pag. 201. 158 Blinzler, 1966, pag. 131. 159 Ios. Flav., Ant. 18,4,3. 160 Lev.24,16.

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Poiché il diritto penale ebraico non conosceva ricorsi in appello, la

sentenza diventava immediatamente esecutiva, ma, al tempo di Gesù,

gli Ebrei non avevano il diritto di far eseguire una sentenza di morte;

solo il procuratore romano aveva la piena giurisdizione capitale, il

cosiddetto ius gladii161

. Per compensare, in certo senso, questa

“incapacità”, alcuni degli Ebrei si misero a maltrattare brutalmente il

condannato162: gli sputarono addosso; gli bendarono gli occhi; lo

percossero sul viso e lo invitarono ironicamente a “profetare”, a

riconoscere, cioè, nonostante gli occhi bendati, chi lo maltrattava. Ai

maltrattamenti inflitti a Gesù, secondo il testo di Marco, il quale

nomina come partecipanti attivi, dapprima “alcuni”, poi

espressamente “i servitori”, sembra abbiano partecipato anche membri

del Sinedrio.

La seduta si concluse con la decisione di tutto il Sinedrio di

rimettere Gesù - naturalmente con un atto d’accusa attentamente

pensato e formulato ad hoc - al procuratore romano163. Il termine

della seduta si ebbe al sorgere del giorno164.

161 Santalucia, 1999, pag. 96. 162 Mc.14,65. 163 Fabbrini, 1999, pag. 178. 164 Mc.15,1.

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Capitolo IV

Il deferimento al tribunale del procuratore.

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IV.1. Il comportamento del procuratore romano

dinanzi alla giustizia indigena.

Lo ius gladii era riservato al procuratore romano come all’unico

portatore dell’imperium165. Se ai sinedriti premeva che il giudizio di

morte pronunciato contro Gesù venisse applicato, si dovevano,

dunque, per forza rivolgere al procuratore.

A questo punto, sorgono diversi problemi che chiedono un

chiarimento: che cosa faceva il procuratore in un caso del genere?

Doveva senz’altro avallare e far eseguire ogni sentenza di morte

regolarmente emessa dal tribunale ebraico?166 Evidentemente no,

poiché se i Romani concedevano alle autorità locali il diritto di

giudicare liberamente un violatore della legge, ciò non significa

ancora che essi si prestassero anche a recitare la parte di esecutori

ubbidienti ai giudici ebraici; infatti, in Io.19,10, anche Pilato dice

all’accusato - che gli Ebrei ritengono convinto di un delitto capitale

secondo la loro legge - che egli possiede il potere di farlo giustiziare o

di rilasciarlo. Senza dubbio, i Romani si riservavano il diritto di

ratificare le condanne pronunciate dal tribunale ebraico, ma l’esercizio

del diritto di ratifica, non era possibile senza che il governatore si

fosse, dapprima, orientato egli stesso sul caso in questione ed, in

questo caso, si doveva, dunque, svolgere un nuovo processo dinanzi al

tribunale romano.

165 Santalucia, 1999, pag. 89-90. 166 Blinzler, 1966, pag. 217-218.

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Su quale giurisprudenza si fondava tale processo: sul diritto

romano o su quello ebraico? Spesso si è sostenuto che fosse in facoltà

del procuratore scegliere l’uno o l’altro; nel caso Gesù, il magistrato si

sarebbe basato sul diritto ebraico167. Ma è estremamente inverosimile

che un giudice romano si sia curato molto di tale diritto, che oltretutto

si fondava su principi del tutto diversi da quelli del diritto romano e la

cui applicazione corrente presupponeva una formazione erudita, della

quale certo nessun procuratore di Giudea era in possesso.

Quanto poco le autorità romane si interessassero alla legge

giudaica, si evince da tre incidenti, riferiti dagli Atti degli Apostoli:

allorché Paolo fu denunziato dagli Ebrei di Corinto al proconsole

Gallione, fratello del celebre filosofo Seneca, il romano respinse

l’accusa, dichiarando: “Se si tratta di discussioni su dottrina e nomi e

sulla vostra legge, vedetevela voi! Io mi rifiuto di esser giudice in

queste cose”168; alcuni anni più tardi, il tribuno Claudio Lisias, a

Gerusalemme, prese l’Apostolo sotto la sua protezione, allorché

constatò che le accuse elevate dagli Ebrei contro quel cittadino

romano si riferivano solo a contestazioni della legge ebraica, e non ad

un delitto che meritasse la pena di morte o il carcere secondo il diritto

romano169; nello stesso modo si comportò, a Cesarea, il governatore

Festo, il quale si disinteressò del caso di Paolo, quando si convinse

che le accuse contro di lui riguardavano solo divergenze ebraiche, e

167 Mommsen, 1899, pag. 136. 168 Act.18,15. 169 Act.23,29.

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non un reato perseguibile dalla legge romana: Festo dichiarò

laconicamente che di queste cose non si intendeva170.

Di fronte a tutto ciò, ci si richiama, a volte, alla concessione fatta

agli Ebrei dai Romani, di punire con la morte ogni pagano, anche

cittadino romano, che varcasse le barriere del Tempio; ma si tratta

manifestamente di una legge eccezionale, che proprio in quanto tale,

prova che l’autorità romana non teneva fondamentalmente conto del

codice penale ebraico. Inoltre, il culto ebraico godeva della protezione

della Stato Romano, così che le azioni dirette contro tale culto erano

punibili anche secondo il diritto romano. Così si spiega, ad esempio,

che il procuratore Cumano fece giustiziare un soldato romano che in

atto di scherno aveva stracciato un rotolo della Thorà171.

IV.2. Il perché di due processi indipendenti.

Il crimine che i sinedriti imputavano a Gesù, la bestemmia, non

costituiva una violazione degli usi “culturali”, quindi, non apparteneva

ai delitti che la legge romana perseguiva. I sinedriti avrebbero,

dunque, avuto poche probabilità di ottenere l’esecuzione di Gesù, se

avessero elevato contro di Lui, presso Pilato, l’accusa di bestemmia.

Essi potevano riuscirci soltanto se erano in condizione di convincere il

170 Act.25,18-20; cfr. Blinzler, 1966, pp. 217-218.171 Ios. Flav., Ant.20,5,4;Bell.2,12,2.

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governatore che Gesù aveva commesso un delitto degno di morte

secondo la legge romana172.

Effettivamente, nel processo che seguirà da qui innanzi, l’accusa di

bestemmia non ha più nessuna parte; al suo posto compare l’accusa di

alto tradimento. Dobbiamo, dunque, distinguere due processi

indipendenti: un processo religioso, dinanzi al Sinedrio, ed uno

politico, dinanzi al procuratore. Contro l’opinione che il processo

dinanzi a Pilato, rappresenti un processo formale, si potrebbe opporre

che gli Evangelisti non parlano abbastanza chiaramente di una

condanna di Gesù da parte di Pilato; infatti, Marco chiude la sua

relazione del processo con queste parole: “ Ora Pilato,…flagellato

Gesù, lo consegnò per essere crocifisso”173. Ma si deve tener conto,

qui, del linguaggio popolare degli Evangelisti, da cui non ci si può

aspettare un’esatta terminologia giuridica; dimostreremo, più avanti,

che la parole di Marco devono essere in realtà intese come una

perifrasi per designare la condanna.

Se, dunque, il dibattimento dinanzi a Pilato deve essere considerato

come un procedimento giudiziario a sé stante, indipendente dal

processo sinedriale, si impongono delle domande: il processo ebraico

ha, dunque, avuto un senso o un’importanza qualsiasi? Perché mai i

sinedriti avevano avviato e svolto un processo contro Gesù, se

sapevano in anticipo che una loro condanna a morte non aveva

praticamente nessun valore? Non sarebbe stato più semplice e,

considerando il prevedibile risentimento dei discepoli di Gesù, più

172 Blinzler, 1966, pag. 219; cfr. Fabbrini, 1999, pag. 180. 173 Mc.15,15.

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intelligente, sbrigare il caso esclusivamente davanti al tribunale

romano?

La prima risposta è che, proprio in quei tempi d’indipendenza

limitata, agli Ebrei stava molto a cuore di poter applicare il loro diritto

per quanto possibile, anche quando ciò avesse solo un significato

teorico, ed un giudizio di morte espresso da un tribunale ebraico non

era del tutto privo di valore pratico: esso costituiva già un mezzo di

esercitare una pressione morale sul giudice romano; ed,

effettivamente, gli Ebrei se ne servirono allorché, più tardi,

rinfacciarono a Pilato: “Noi abbiamo una legge e secondo questa legge

deve morire”174. In tal modo, i sinedriti potevano, per così dire,

giustificare agli occhi della loro propria coscienza, la spietatezza con

la quale sostenevano, dinanzi a Pilato, l’accusa contro Gesù,

coll’affermare che costui era, in ogni modo, un criminale, degno di

morte. Non ultimo motivo, la condanna a morte, fondata

esclusivamente sulla legge popolare locale, era un ottimo mezzo per

influire, contro Gesù, sull’opinione pubblica: il sorprendente

atteggiamento avverso che il popolo manifestò più tardi nei confronti

di Gesù, durante il processo dinanzi alla corte romana, ha

evidentemente la sua origine principale nel fatto che l’accusato,

condannato legalmente dal tribunale indigeno, non era più considerato

degno di alcun riguardo. Si vede, ancor più chiaramente, quanto fosse

importante l’influsso esercitato sulla pubblica opinione, da una

sentenza sinedriale, in quanto le grida della folla al processo romano

174 Io.19,7.

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sono da ritenersi acclamazioni, di cui il giudice doveva tener conto,

per quanto possibile.

La coesistenza di un processo romano e di uno ebraico, non deve

essere tacciata alla leggera di nonsenso giuridico, come hanno fatto,

per esempio, il Rosadi175 e l’Husband176. Certo, secondo il diritto

romano, nessuno poteva essere processato due volte per lo stesso

reato, ma questo principio giuridico, in sé buono, mira evidentemente

al caso normale di due istanze giuridiche entrambe romane, non

limitate nella loro competenza. Inoltre, nel caso di Gesù, il secondo

processo aveva per oggetto un reato diverso da quello del primo.

Quanto al problema del perché mai gli Ebrei abbiano intentato un

loro proprio processo a Gesù, si deve anche considerare che,

evidentemente, essi, in principio, non vedevano ben chiaro su quali

fondamenti giuridici avrebbero costruito la sentenza di morte in

itinere177. Essi tentarono, dapprima, di confonderlo per mezzo di

testimoni, alcuni dei quali riferirono le sue espressioni sul Tempio. Se

si fosse potuto provare che Egli avesse veramente minacciato un

attentato al Tempio, allora i sinedriti avrebbero potuto sperare che il

procuratore avallasse e facesse eseguire senz’altro la sentenza ebraica

basata su tale accusa, poiché, in tal caso, Gesù sarebbe stato punibile,

anche secondo la legge romana, per violazione della prescrizione sulla

protezione degli edifici cultuali. Al contrario, non si poteva prevedere

con certezza che il dibattimento dinanzi al Sinedrio avrebbe posto in

175 Rosadi, 1926, pp. 56-63. 176 Husband, 1916, pp. 79-90. 177 Blinzler, 1966, pag. 221.

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luce proprio una bestemmia, priva di interesse per il giudice romano,

di modo che un nuovo processo sarebbe stato necessario. Ora, gli

Ebrei hanno fatto di necessità virtù e con grande abilità hanno

trasformato i pretesi motivi religiosi, posti a base del loro processo, in

reato politico, al quale il tribunale romano non poteva restare

indifferente178. Questa trasformazione dell’accusa faceva parte,

probabilmente, della decisione di deferire Gesù a Pilato, cui Marco

allude in 15,1.

IV.3. Il processo dinanzi al governatore romano:

regole procedurali.

Mentre il Sinedrio rappresentava un collegio di giudici, il

governatore romano era un giudice unico. Gli assistenti (assessores)

ed accompagnatori (comites), che per regola gli si affiancavano, non

avevano alcuna potestà giuridica e fungevano solo da consiglieri. Il

dibattimento, che per principio era pubblico, veniva introdotto, in

parte dall’accusa, presentata da un privato - danneggiato o comunque

interessato - in parte dall’inchiesta della magistratura. L’adduzione

delle prove non era legata ad un momento formale; valeva, piuttosto,

il principio della libera valutazione delle prove. Come tali, si

consideravano particolarmente le dichiarazioni dell’imputato e quelle

dei testi. Il dibattito si iniziava con l’appello delle parti: dapprima

178 Blinzler, 1966, pp. 220-221; cfr. Fabbrini, 1999, pag. 180.

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l’accusante presentava la propria accusa; poi l’accusato, la propria

difesa. Nel processo civile, in cui mancava la deposizione delle parti,

l’accusato veniva interrogato dalla magistratura. Quando la collezione

delle prove era terminata, un araldo ne dava l’annuncio179. Dopo aver

deliberato con i suoi assistenti, il giudice “dall’alto del tribunale”,

emanava la sua sentenza, che doveva essere immediatamente eseguita.

I procuratori della provincia di Giudea, risiedevano in Cesarea

Marittima180. Quando in circostanze speciali, soprattutto nelle

solennità ebraiche, si recavano a Gerusalemme, essi scendevano al

palazzo d’Erode che si trovava nell’angolo nord-occidentale della

città. Del procuratore Gessio Floro, si sa con certezza che egli vi abitò

e rese giustizia sulla piazza pubblica, dinanzi all’edificio181. Gli

Evangeli chiamano il luogo del dibattito romano contro Gesù, “il

pretorio”, ciò che in queste circostanze può significare soltanto “la

residenza ufficiale del governatore”.

La discussa questione circa il luogo in cui si deve cercare il

pretorio di Pilato, cioè se esso sia da identificare con la fortezza

Antonia, posta a nord-ovest del Tempio o con il palazzo di Erode,

deve essere risolta in favore della seconda ipotesi. Il palazzo era stato

costruito da Erode il Grande e decorato lussuosamente. Giuseppe

Flavio, che vide l’edificio e fu testimone anche della fine di quelle

magnificenze in cenere e rovine, ne dà una particolareggiata

179 Blinzler, 1966, pag. 223. 180 Ios. Flav., Ant 18,3,1; Bell.,2,9,2. 181 Ios. Flav., Bell.2,14,8.

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descrizione in Bell.2,14,8. Dunque, questo palazzo fu il teatro degli

avvenimenti drammatici che condussero alla condanna finale di Gesù.

Se Pilato si trovava a Gerusalemme proprio per la Pasqua, ciò era

dovuto, innanzitutto, allo scopo di impedire o reprimere disordini o

eccessi tra le masse popolari, che in quei giorni confluivano da ogni

parte. Che Cumano ed i procuratori che lo precedettero fossero, a

questo scopo, presenti alle feste pasquali in Gerusalemme, ci viene

attestato da Giuseppe Flavio in Ant.20,5,3.

I Romani solevano iniziare i procedimenti giudiziari subito dopo il

sorgere del sole, come attestato da Seneca in De ira 2,7,3: “Haec tot

milia ad forum prima luce properantia quam turpes lites, quanto

turpiores advocatos habent!”. Questo poteva essere, per i membri del

Sinedrio, una ragione in più per protrarre il loro processo ebraico

ancora nella notte, rilevandosi, in tal modo, un ulteriore argomento da

contrapporre alla tesi della Jaubert, sulla cronologia dei tre giorni182.

Allorché, presumibilmente verso le sei del mattino, la loro seduta

fu terminata, essi fecero legare di nuovo Gesù183, poiché doveva venir

condotto per la città. Essi, che finora avevano fatto da giudici,

contavano di comparire davanti al governatore in veste di accusatori,

in parte, certo, anche di testimoni: perciò condussero essi stessi il

prigioniero alla dimora ufficiale del procuratore.

Così si giunse all’incontro tra Gesù e Pilato; incontro di importanza

storica mondiale. A differenza degli altri procuratori di Giudea, dei

quali spesso non sappiamo nulla più del loro nome, su Pilato siamo

182 Cfr. Fabbrini, 1999, pag. 166. 183 Mc.15,1.

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minuziosamente informati. Nell’anno 40 d.C., il re Erode Agrippa I

descrive in una lettera al suo imperiale amico e protettore Caligola, la

persona e l’opera di Pilato con tali parole: “Egli era di carattere

inflessibile e spietatamente duro. Al suo tempo in Giudea,

dominavano corruzione, violenza, ruberie, oppressione, umiliazione,

continue esecuzioni senza processo e sconfinata, intollerabile

crudeltà”184.

Pilato, che arrivò in Giudea nell’anno 26 come quinto procuratore

romano e che resse questo incarico per 10 anni, mostrò il pugno agli

Ebrei sin dall’arrivo. Sino a quel momento, le truppe romane avevano

evitato, per riguardo ai sentimenti religiosi degli Ebrei, di inalberare,

all’atto dell’entrata in Gerusalemme, bandiere od insegne con

l’immagine dell’imperatore. Ciò dovette sembrare una debolezza fuori

posto al nuovo funzionario, il quale fece entrare le truppe di notte con

tutte le insegne spiegate. Allorché gli abitanti di Gerusalemme e dei

dintorni, il giorno dopo videro lo spiacevole imbroglio, si posero in

grande agitazione: in vere e proprie schiere affluirono a Cesarea, dove

il romano risiedeva e lo supplicarono di togliere quei simboli dalla

città santa e di rispettare il diritto dei loro Padri. Cinque giorni e

cinque notti rimasero dinanzi al palazzo del procuratore, ma Pilato

dichiarò che li avrebbe fatti massacrare se avessero persistito nelle

loro richieste, offensive per l’imperatore. Al sesto giorno, finalmente,

egli li avviò all’ippodromo, dove teneva in segreto un reparto di

truppa sempre pronto. Quando gli Ebrei, quivi giunti, continuarono ad

184 Philo, Leg. Ad Caium 38.

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assalirlo con le loro suppliche, egli fece cenno ai soldati, i quali

circondarono a spade sguainate la folla; ma l’effetto fu tutt’altro

rispetto a quello che il novellino si aspettava: come seguendo una

parola d’ordine, gli Ebrei si prostrarono col viso a terra, denudarono il

collo e gridarono che preferivano essere ammazzati, piuttosto che

sopportare quella trasgressione della loro legge. Così, a Pilato non

rimase altro che cedere ed ordinare che le insegne di guerra fossero

tolte dalla città185.

Più tardi, in circostanze analoghe, egli suscitò di nuovo una

ribellione del popolo contro di lui: meno per onorare Tiberio, che per

affliggere il popolo, fece collocare nel palazzo di Erode, a

Gerusalemme, degli scudi votivi dorati che non portavano proprio

l’effigie, bensì il nome dell’imperatore. Seguirono rimostranze di

notabili ebrei, tra i quali anche quattro figli di Erode. Poiché il

procuratore rimase sordo, gli ebrei si rivolsero all’imperatore Tiberio,

il quale, dopo aver manifestato al suo testardo funzionario il proprio

malcontento, gli ordinò di togliere gli scudi da Gerusalemme e di

esporli nel tempio di Augusto a Cesarea 186. Il terzo scontro di cui ci

sono giunti i particolari, fu causato dal prelevamento di denaro dal

tesoro del Tempio, compiuto da Pilato per la costruzione di una

conduttura che portasse l’acqua a Gerusalemme. Qui, quando le

proteste si fecero più impetuose, i soldati, ad un segnale convenuto,

185 Ios. Flav., Bell.2,9,2 ; Ant.18,3,1. 186 Philo, Leg. ad Caium 38.

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estrassero i randelli di sotto alle tuniche e cominciarono a menarli

senza pietà sulla moltitudine, causando anche molte morti187.

Un altro fatto di sangue riferentesi a Pilato viene menzionato di

sfuggita nel Nuovo Testamento: secondo tale notizia, egli avrebbe

fatto massacrare un gruppo di Galilei nel vestibolo del Tempio,

durante il sacrificio188.

Infine, il suo brutale modo di procedere contro i Samaritani, costò

a Pilato il suo ufficio e la sua dignità: nel 36 d.C., uno pseudoprofeta

samaritano si impegnò a mostrare ai suoi adepti le sacre suppellettili

che Mosé avrebbe sepolto sul monte Garizim e perciò schiere di

Samaritani armati si riunirono ai piedi del monte. Pilato inviò subito

sul luogo un forte contingente di truppe e fece attaccare l’assemblea;

chi non fuggì, fu ucciso o fatto prigioniero ed i più ragguardevoli tra i

prigionieri, vennero, più tardi, giustiziati. I Samaritani, che non erano

per nulla ostili alla dominazione romana, si lagnarono con il legato di

Siria, Vitellio, il quale, poco dopo, chiamò il violento funzionario a

Roma, affinché si giustificasse ed affidò l’amministrazione di Giudea

ad un certo Marcello189.

Per quanto concerne l’origine di Pilato, sembra che egli

appartenesse probabilmente all’antica stirpe sannita dei Ponzii, che si

era gloriosamente distinta nelle guerre sannitiche contro Roma. Un

membro di tale famiglia, Ponzio Aquilio, aveva preso parte

all’uccisione di Cesare; altri Ponzii pervennero, sotto Tiberio, al

187 Ios. Flav., Ant.18,3,2. 188 Lc.,13,1. 189 Ios. Flav., Ant.18,4,1.

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consolato. Pilato apparteneva, dunque, per nascita alla classe dei

cavalieri. Contemporaneamente a lui, si trovava in Giudea, sua

moglie, il cui nome era Procura. Dapprima, non era permesso alle

mogli dei governatori di seguire i mariti nelle province, ma dopo

Augusto, questo divieto era caduto in disuso190.

Potrebbe sembrare strano che Tiberio avesse affidato il governo

della Giudea proprio ad un funzionario apertamente mal disposto

verso gli Ebrei. Probabilmente, dietro a questa nomina, c’era il nemico

degli Ebrei, Seiano, il quale, come onnipotente prefetto della guardia

dal 23 d.C., dirigeva la politica imperiale ed era responsabile anche di

altri provvedimenti antisemitici191.

L’orientamento antiebraico dell’imperatore finì con la caduta e

l’esecuzione di Seiano il 18 ottobre del 31. Anche per la

determinazione dell’anno di morte di Gesù, si è cercato di utilizzare la

data della caduta di Seiano. Allorché il destituito Pilato rientrò a

Roma, Tiberio era appena morto (morì, infatti, il 16 marzo del 37).

Le ulteriori vicende del giudice di Gesù restano oscure; sembra che

egli sia morto di morte non naturale (forse per suicidio, allo scopo di

sfuggire alla condanna che lo minacciava sotto Caio; o per mano del

carnefice; o, quanto meno, in terra d’esilio).

L’immagine di Pilato che ci viene dai racconti evangelici della

Passione, sembra essere in contrasto insanabile con quella che Filone

e Giuseppe Flavio ci danno del suo carattere e delle sue azioni. Se

Pilato fu veramente, come sostengono i menzionati autori, un mostro

190 Tacitus, Ann.3,33. 191 Philo, Leg. ad Caium 24.

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crudele e sanguinario, riesce difficile credere che egli abbia avuto

degli scrupoli a mandare al patibolo un provinciale insignificante

come Gesù; e se veramente egli era di una brutalità così inflessibile,

non si capisce bene come mai, alla fine, si sia lasciato intimidire e

indurre a pronunciare una condanna. In realtà, i due scrittori ebraici

danno di Pilato un ritratto del tutto unilaterale: se quel funzionario

fosse stato così corrotto, senza coscienza e crudele, come essi lo

descrivono, Tiberio non lo avrebbe lasciato a quel posto per dieci

anni. L’atteggiamento di Giuseppe Flavio e soprattutto di Filone nei

confronti di Pilato è senz’altro ostile: essi rievocano solo fatti ed

episodi tali da porre il procuratore in cattiva luce e gonfiano i suoi

misfatti veri o presunti.

Sarebbe tuttavia sbagliato voler intendere la narrazione evangelica

come se Pilato, nel suo tentativo di salvare Gesù, fosse guidato,

innanzitutto, da considerazioni di giustizia e di umanità. Il suo modo

d’agire era determinato, essenzialmente, proprio da quel suo

antisemitismo attestato anche da Filone e Giuseppe Flavio192. Dato che

disprezzava gli Ebrei e coglieva con piacere ogni occasione per far

loro sentire quel suo disprezzo, egli assumeva, a priori, un

atteggiamento d’opposizione ogni volta che si pretendeva di fargli

condannare e giustiziare senz’altro il prigioniero che gli veniva

rimesso. La sua resistenza e diffidenza dovettero rafforzarsi, allorché

constatò che l’accusato doveva esser messo a morte proprio per quel

delitto politico. I rappresentanti di quel popolo recalcitrante e ribelle

192 Blinzler, 1966, pag. 235; cfr. Fabbrini, 1999, pp. 190-191.

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volevano dargli a bere che agivano per puro lealismo verso Roma!

Pilato non aveva bisogno di molto acume per capire che la richiesta

dei Sinedriti doveva avere tutt’altri motivi: volevano liberarsi di un

individuo diventato fastidioso e lui, il funzionario romano, doveva

servire da strumento a questo scopo. Così la resistenza di Pilato alla

pretesa giudaica diventa comprensibile. Certamente, egli si dovette

confermare in questo atteggiamento, allorché, nell’interrogatorio,

conobbe un po’ meglio Gesù e dovette constatare che non aveva

nemmeno lontanamente a che fare con un mestatore politico.

Se Pilato, infine, capitolò nonostante tutto, ciò non è affatto in

contrasto con la durezza e l’ostinazione dipinte da Filone e da

Giuseppe Flavio, perché già l’esito dell’episodio delle insegne militari

ci dice che egli era capacissimo di far macchina indietro non appena

una resistenza ulteriore si dimostrasse inutile e pericolosa. I tentativi

di contrapporre il ritratto di Pilato fatto da Filone193e da Giuseppe

Flavio194, a quello dei racconti evangelici e, con ciò, di invalidare

quest’ultimi, è, quindi, inammissibile195.

193 Philo, Leg. ad Caium 38. 194 Ios. Flav., Ant.18,4,1. 195 Blinzler, 1966, pag. 235.

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IV.4. “Deformazione” dell’accusa da parte dei sinedriti:

da bestemmia ad alto tradimento.

Giunti davanti al pretorio, i sinedriti fecero consegnare il

prigioniero al governatore dagli uscieri del tribunale. Essi stessi non

entrarono nell’interno dell’edificio, poiché con ciò si sarebbero attirati

un’impurità che li avrebbe resi inidonei alla consumazione

dell’agnello pasquale196; allorché Pilato, cui queste particolarità rituali

degli Ebrei erano certamente familiari, uscì per incontrarli.

Tra lui ed i capi ebraici si svolse un breve dialogo, che Giovanni

riporta come segue:

- Che accusa portate contro quest’uomo?

- Se costui non fosse un malfattore, non l’avremmo rimesso nelle tue mani.

- Pigliatelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge.

- Noi non possiamo dar morte ad alcuno197.

Il procuratore, dunque, domanda, secondo la regola, in che consiste

l’accusa contro Gesù. A ciò, gli Ebrei rispondono con asprezza

sorprendente. Perché la domanda li mette a disagio? All’inizio

dell’interrogatorio di Gesù, Pilato si mostra perfettamente al corrente

del nocciolo dell’accusa, benché l’Evangelista non dica che gli Ebrei

avessero informato a riguardo, il procuratore. Se ne deve concludere

che, all’atto della consegna di Gesù, quegli era già stato informato

oralmente o per iscritto di che cosa lo si imputava. L’accusa suonava:

Egli pretende essere il re degli Ebrei; perciò, la domanda di Pilato ai

196 Io. 18,28. 197 Io. 18,29-31; cfr. Fabbrini, 1999, pag. 191.

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sinedriti ha un senso particolare: egli vuole indurli ad esprimersi più

chiaramente sull’imputazione; si aspetta, a quanto pare, che essi citino

un reato definito, di cui il cosiddetto pretendente al trono si sia reso

colpevole. Consegnando ai Romani Gesù come “re dei Giudei”, gli

accusatori avevano formulato un’accusa che non lasciava nulla a

desiderare quanto a chiarezza e che doveva essere colta a volo da

qualunque giudice romano. Che essi mirino all’esecuzione di Gesù,

non è da loro detto subito espressamente, per quanto lo lascino

intravedere col designare Gesù come “delinquente”.

Il procuratore pensa (o finge di pensare) che non si tratti di delitto

passibile di morte ed incita gli Ebrei, quindi, a giudicare l’accusato

secondo la loro propria legge: essi potevano benissimo giudicare

liberamente in processi non capitali. Se Pilato sospettava che essi

miravano alla morte di Gesù, le sue parole avevano, naturalmente, un

sottinteso ironico: egli doveva sapere altrettanto bene quanto loro che

gli Ebrei non possedevano più lo ius gladii. Così i sinedriti sono

costretti a scoprire le carte: essi vogliono giustiziare Gesù, ma non vi

sono autorizzati, avendo perduto la pienezza della giurisdizione

capitale. Ora, dacché sa che gli Ebrei vogliono la morte di Gesù,

Pilato acconsente ad entrare nel merito del caso e comincia ad

interrogare il prigioniero.

Secondo la concorde testimonianza dei quattro Evangelisti, la

prima domanda che Pilato rivolse a Gesù fu: “Sei tu il re dei

Giudei?”198. Questa domanda mostra che, già in anticipo, il

198 Mc.15,2; Mt. 27,11;Lc. 23,3; Io. 18,33.

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procuratore era stato messo a conoscenza di un’accusa da parte degli

Ebrei in questo senso; ciò deve essere accaduto, come si è detto, al

momento dell’introduzione di Gesù nel pretorio199.

Luca pone all’inizio del suo resoconto sul processo, la

presentazione dell’accusa da parte dei sinedriti e, con ciò, senza

dubbio riproduce fedelmente la realtà storica dei fatti, sia ch’egli

attinga qui ad una fonte particolare, sia che chiarisca semplicemente il

racconto, più specifico, di Marco; ed ha pure senz’altro ragione nel

dare a quest’accusa un contenuto puramente politico: un’imputazione

di questo genere viene presupposta anche dagli altri Evangelisti,

allorché essi prestano a Pilato, nella sua domanda sulla pretesa di

messianità, una formulazione politico-giuridica. L’espressione “re dei

Giudei” è la forma secolarizzata, trasferita sul piano profano-politico,

per Messia o per il titolo messianico di “re di Israele”, già per suo

conto rivestito di una tinta politica un po’ più marcata. Il motivo dei

sinedriti è chiaro come il sole: al delitto religioso della bestemmia il

procuratore non si sarebbe interessato, mentre non poteva restare

indifferente all’accusa che Gesù pretendesse di essere il re dei Giudei.

Considerando l’aspirazione del popolo ebraico alla libertà ad

all’indipendenza, aspirazione ben nota ai Romani, il procuratore

doveva vedere in tale rivendicazione, un tentativo di rovesciamento

del regime, dunque, di alto tradimento.

Non dovrebbe essere necessaria nessuna prova per dimostrare che

con questa deformazione dell’accusa i sinedriti hanno coscientemente

199 Blinzler, 1966, pag. 248.

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compiuto un falso grossolano: essi dovevano sapere che il titolo “re

dei Giudei”, specialmente nel concetto del funzionario romano,

significava qualcosa di essenzialmente diverso dalla qualifica di

Messia che Gesù aveva per sé professata. Proprio per tale motivo, essi

lo avevano bollato come bestemmiatore, perchè la sua messianità

sembrava carente di conferme provenienti da manifestazioni esteriori

di potenza, ed era, dunque, di natura interiore, apolitica, spirituale.

Essi avevano condannato Gesù nel loro processo perché non

corrispondeva alla loro idea messianica esteriore, colorita di

nazionalismo; ora lo volevano saper condannato dal tribunale pagano

per le rivendicazioni che Egli avrebbe sollevato proprio nel senso del

loro ideale nazionale di Messia200.

Comunque si voglia giudicare l’atteggiamento dei gerarchi, nella

prima fase puramente ebraica del processo, alla tattica che essi

spiegarono davanti al tribunale del procuratore, non si può, nemmeno

con la miglior volontà, accordare la scusante della buona fede

(dovendosi, così, necessariamente dissentire dall’opinione del Cohn, il

quale, da ebreo qual era, e per questo palesemente desideroso soltanto

di scagionare le autorità giudaiche dalla responsabilità primaria della

morte di Gesù, arriva a scrivere che la dirigenza ebraica avrebbe avuto

un interesse vitale solo ad una cosa: ad impedire la crocifissione di un

ebreo ad opera dei Romani, ed, in particolare, la crocifissione di un

ebreo che godeva dell’amore e dell’attaccamento del popolo! 201).

200 Blinzler, 1966, pag. 248. 201 Cohn, 1997, pag. 151.

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IV.5. Il primo interrogatorio dell’accusato da parte di

Pilato.

Gesù non poteva rispondere con un puro e semplice “sì” alla

domanda del procuratore, poiché nulla era più lontano da lui che la

rivendicazione di un regno terreno e secolare; non poteva, però,

nemmeno rispondere di “no”, poiché, grazie alla coscienza della

propria messianità, Egli si sapeva, in certo senso, veramente re dei

Giudei. Perciò, rispose affermativamente, ma con una riserva che

alludeva alla particolare sua concezione della regalità: “Tu lo dici”202.

Se in questa formula vi fosse stata un’affermazione decisa, illimitata,

Pilato avrebbe dichiarato chiusa l’inchiesta e pronunciato la

sentenza203. Al contrario, con quella risposta, Pilato doveva dare la

parola agli accusatori per potersi meglio orientare: i sommi sacerdoti

colsero l’occasione per inasprire le loro accuse.

Soltanto l’Evangelista Luca ci fornisce particolari al riguardo. I

sinedriti, sin dall’inizio, presentarono tre capi d’accusa: Gesù avrebbe

sollevato il popolo; avrebbe trattenuto il popolo dal pagare la tassa

imperiale; si sarebbe spacciato per il Messia-re. Allorché Pilato, dopo

l’interrogatorio di Gesù, restava ancora indeciso, essi ritornarono sul

primo punto d’accusa: “Egli poneva in rivolta il popolo con il suo

insegnamento, avendo incominciato dalla Galilea, sino a qui”204. Dei

tre punti, il secondo è una menzogna manifesta: dopo la prova della

202 Mc.15,2. 203 Blinzler, 1966, pp. 248-249. 204 Lc.23,5.

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pericope del denaro dell’imposta, Gesù si è allontanato chiaramente

dagli ambienti nazionalistici, che incitavano a rifiutare il tributo205.

Anche l’accusa di sobillazione del popolo è uno svisare i fatti, in

quanto il movimento religioso provocato da Gesù non rivestiva alcun

carattere politico206.

Dopo aver sentito i sommi sacerdoti, Pilato invitò l’imputato a

prendere posizione. Con sua meraviglia, costui rinunciò a pronunciarsi

sulle accuse.

E’ cosa certa che Pilato, dopo l’interrogatorio di Gesù e

l’esposizione d’accusa dei sinedriti, non credeva ad una colpa

dell’imputato207. La cosa ci colpisce! E’ pur vero che, per Marco, il

procuratore aveva riconosciuto che i sommi sacerdoti agivano per

invidia; si potrebbe anche pensare che l’antisemita Pilato volesse

mostrare ai capi ebraici quanto poco gli importasse della loro

testimonianza; tuttavia, il comportamento del procuratore resta

enigmatico. Gesù si era proclamato, se pure con una lieve restrizione,

Messia-re; aveva rifiutato di giustificarsi quanto alle altre accuse.

Stando così le cose, era difficile per Pilato poter contestare

ostentatamente la colpa dell’imputato.

Dal fatto che Gesù desse un senso circoscritto alla sua confessione,

Pilato non poteva ancora dedurre che Egli non pensasse ad un regno

politico. Se, tuttavia, il Romano alla fine esprime la convinzione che

l’imputato non è reo di alto tradimento, ciò significa che egli deve

205 Mc.12,13-17. 206 Io. 6,15. 207 Lc.23,4;Mc.15,5,9.

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aver appurato qualcosa della natura particolare delle rivendicazioni

regali di Gesù. Infatti, secondo il brano giovanneo208, Gesù, nel corso

di un dialogo col proprio giudice all’interno del pretorio, gli avrebbe

spiegato la natura spirituale-religiosa della sua regalità (dialogo che

ritengo importante riportare testualmente, al fine di una maggior

comprensione dei termini, pressoché vaghi, dell’accusa romana - se di

accusa romana si possa già parlare - e di quelli della difesa). Alla

domanda se Egli fosse il re dei Giudei, Gesù rispose: “Tu lo dici da te

o altri te l’ha detto di me?”. Ribattè Pilato: “Sono forse Giudeo? La

tua gente ed i gran sacerdoti ti consegnarono a me. Che hai fatto?” Ed

ora Gesù spiega la sua rivendicazione di regalità, sotto forma

negativa: “Il regno mio non è di questo mondo. Se il mio regno fosse

di questo mondo, certo i miei ministri avrebbero combattuto perché

non fossi dato in potere de’ Giudei; ma il mio regno non è di

quaggiù”.

Pilato riconosce giustamente che Gesù, indirettamente, risponde in

modo affermativo alla sua domanda: “Dunque tu sei un re?”Gesù

risponde con un “sì” esplicito e spiega la sua idea di regalità, dal lato

positivo: “Tu lo dici, Io sono re. Io per questo sono nato e per questo

son venuto nel mondo, a rendere testimonianza alla verità. Chi è dalla

verità, ascolta la mia voce”. La sua pretesa alla sovranità come re si

perfeziona nel fatto che Egli annuncia la rivelazione divina e conduce

alla vittoria la causa di Dio.

208 Io. 18,33-38; cfr. Fabbrini, 1999, pag. 191.

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A questo punto, Pilato interrompe il colloquio con lo scettico

interrogativo: “Che cosa é verità?”. Ma, se anche non può capire

l’idea di un regno della verità, pure il procuratore è convinto che

quest’uomo non è un delinquente politico. Egli lo ritiene un sognatore

innocuo ed, in fondo, degno di compassione209. Dunque, dichiara ciò,

subito dopo, agli Ebrei: “Io per me non trovo in Lui colpa alcuna”210.

209 Blinzler, 1966, pag. 251-252. 210 Io.18,38; Lc.23,4.

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Capitolo V

L’invio al tetrarca di Galilea e Perea.

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V.1. La “colpa”di Pilato.

Dopo essersi convinto dell’innocenza dell’accusato, Pilato avrebbe

dovuto immediatamente rilasciarlo; non lo fece, e da ciò si origina la

sua colpa. Egli cercò, è vero, di liberare Gesù, ma sempre solo per vie

traverse211. Evidentemente, considerata la caparbietà mostrata dai

sinedriti, egli riteneva arrischiato prenderli di petto con un reciso

rigetto della loro denuncia. Sapeva, per esperienza, quanto spiacevole

potesse divenire, anche per uomo del suo rango, il fanatismo ebraico;

probabilmente era anche chiaramente cosciente del fatto che la sua

posizione, dopo le irregolarità già commesse, non era delle più solide.

Comunque, gli mancavano le qualità essenziali di buon giudice:

fedeltà alle proprie convinzioni, fermezza, inflessibilità.

In tutto, egli fece tre tentativi più o meno decisi per strappare Gesù

agli accusatori. Al primo tentativo fu indotto dalla dichiarazione degli

Ebrei che Gesù portava il popolo alla rivolta col suo insegnamento,

incominciato in Galilea e continuato sino ad allora. Alla parola

Galilea, Pilato s’informa se Gesù sia di lassù.

Potrebbe a questo punto esservi una contraddizione con Lc.2,1,

secondo cui Gesù nacque a Betlemme, ma Pilato s’informa del

domicilium, non dell’origo212

. Sentendo che così è, e che Gesù è

suddito del tetrarca Erode Antipa, che in occasione della Pasqua

211 Blinzler, 1966, pag. 253. 212 Blinzler, 1966, pag. 254 nt. 3.

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proprio in quel momento si trova a Gerusalemme, decide di deferire

l’accusato a quest’ultimo213.

Di un viaggio a Gerusalemme in occasione di una festa ebraica,

parla anche Giuseppe Flavio214. Che i motivi per cui il Tetrarca si

recava a Gerusalemme per la Pasqua dell’anno 30 fossero puramente

religiosi, è difficilmente credibile.

E’ assai più probabile un motivo politico: poiché nell’ultima festa

pasquale (29 d.C.) militari romani avevano attaccato pellegrini

galilei215, il sovrano galileo, questa volta, poteva avere ritenuta

indispensabile la sua presenza personale a Gerusalemme.

Pilato non era obbligato a compiere questo deferimento, ma vi si

decise spontaneamente, certo nella speranza di liberarsi di quello

scomodo caso giudiziario. Comunque, ne aveva il potere, poiché la

competenza di Antipa, principe di clientela romana, rivestito di alta

autorità giudiziaria, concorreva con la sua, quanto ad istanza personale

ed, almeno in parte, anche in quanto forum delicti commissi216

. Inoltre,

sembra che egli si ripromettesse da quest’atto di cortesia diplomatica,

un buon effetto sui suoi rapporti con Antipa, allora piuttosto tesi;

difatti, l’accaduto ebbe come risultato, almeno, di rendere amici da

quel giorno i due potentati217.

213 Lc.23,6-12. 214 Ios. Flav., Ant. 18,5,3. 215 Lc.13,1. 216 Mommsen, 1899. 217 Blinzler, 1966, pag. 255; cfr. Miglietta, 1999, pag. 143.

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V.2. La possibile ratio del deferimento ad Erode.

Che cosa si attendeva Pilato da Erode: un’assunzione diretta del

processo oppure solo un parere? Le opinioni sono discordi. Che Pilato

si aspettasse solo un parere da parte del tetrarca territoriale di Gesù,

potrebbe essere provato dal fatto che Erode difficilmente aveva il

diritto di esercitare la giustizia in una città non appartenente al suo

territorio. Se per principio era vietato ai governatori di esercitare

qualsiasi funzione di tipo ufficiale fuori dai confini della loro

provincia, secondo il giureconsulto Paolo (D. 1,18,3): “Praeses

provinciae in suae provinciae homines tantum imperium habet, et hoc

dum in provincia est: nam si excesserit, privatus est ”, si deve pensare

che anche al tetrarca di Galilea, non fosse permesso di esercitare la

giustizia nell’ambito della provincia di Giudea. Ma, si potrebbe anche

pensare che eccezioni a questa regola fossero tollerate e che il sovrano

di Galilea potesse giudicare nel suo palazzo di Gerusalemme gente del

suo territorio, se il procuratore di Giudea gliene dava espressamente

procura. Soprattutto, però, si può ammettere che Pilato contasse che

Erode volesse giudicare l’accusato dopo il suo ritorno, nella propria

provincia. Comunque, sulla base dei Vangeli, sembra più sostenibile

l’opinione che Pilato non volesse semplicemente un parere, ma

sperasse in una liquidazione della faccenda da parte di Erode218.

Il procuratore voleva, come si è già detto, liberarsi di quel

fastidioso processo; quindi, un parere, quale che fosse, gli serviva solo

218 Blinzler, 1966, pag. 255 e nt. 7.

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a metà. Appare decisiva, a questo proposito, una dichiarazione di

Pilato alla fine dell’episodio: allorché più tardi Gesù gli fu ricondotto,

egli dichiarò che Erode non aveva trovato in Lui alcuna colpa, visto

che glielo aveva rimandato indietro219. Dunque, dal rinvio di Gesù da

parte di Erode, Pilato desume che questi lo considera innocente; ma

Pilato non potrebbe ragionare così, se al tetrarca avesse richiesto solo

un parere, poiché, in questo caso, Gesù avrebbe dovuto essergli

comunque rimandato. Le parole del procuratore significano, dunque,

che se Erode avesse ritenuto l’accusato colpevole, non l’avrebbe

rimandato indietro, ma trattenuto per fargli - allora o più tardi - il

processo.

Se Pilato sperava che Erode facesse uso del suo potere

giurisdizionale ed avocasse a sé il processo di Gesù, ci si deve

chiedere, ulteriormente, quale sentenza il romano avrebbe potuto

aspettarsi da Erode. Sembra che egli contasse su di un’assoluzione:

egli stesso non era convinto dalle accuse ed era prevedibile che ad

Erode non si presentassero argomenti molto più solidi. Al contrario,

una difficoltà non irrilevante è in contrasto con l’ipotesi che Pilato

contasse su una condanna da parte di Erode: sarebbe stato

assolutamente sciocco, da parte del Romano, passare ad altri un

processo riguardante un preteso ribelle contro il proprio imperatore,

per di più, prevedendo, da parte del nuovo giudice (mal disposto

contro di lui), l’emissione di una sentenza di colpevolezza!

219 Lc.23,15.

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Miglietta220 ritiene che si sia trattato di una richiesta, da parte di

Pilato, di un parere sui fatti: Pilato intese, come giudice, venire a

conoscenza degli elementi caratterizzanti la condotta di Gesù, in

quanto l’accusa era di “sollevare il popolo, cominciando dalla

Galilea”, territorio rientrante nella iurisdictio di Erode; ed inoltre,

come politico, riconciliarsi con il proprio vicino. Egli non condivide

l’opinione secondo cui Pilato abbia voluto scaricare definitivamente la

risoluzione del caso al tetrarca di Galilea, poiché se si fosse trattato

della richiesta di un parere “definitivo”, Pilato non avrebbe poi potuto

procedere alla condanna di Gesù, ma avrebbe dovuto assolverlo, dal

momento che Erode non aveva trovato alcuna colpa a suo carico; in

fin dei conti, niente impediva a Pilato di inserire incidentalmente nel

corso del processo, la richiesta di un consulto ad Erode, circa il

fondamento delle imputazioni in capo all’accusato, giacché esistevano

certo le norme procedurali, ma l’organo di applicazione e quello di

controllo spesso coincidevano. Questo potrebbe essere il caso, in

esame, di Luc.23,6-12., senza dover in esso necessariamente scorgere

un “concorso di competenze” tra il foro della prefettura e quello della

tetrarchia; ipotesi quest’ultima che risponderebbe ad eccessiva rigidità

dogmatica. Dunque, nell’invio ad Erode, può benissimo vedersi un

“atto di cortesia” tra poteri, motivato dal tentativo di recuperare

un’amicizia221.

Dunque, dal palazzo di Erode Gesù fu condotto da un drappello di

guardie, cui si unirono anche membri del Sinedrio, al palazzo degli

220 Miglietta, 1999, pag. 124. 221 Miglietta, 1999, pp. 144-145.

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Asmonei, situato poco lontano, dove era solito abitare Erode Antipa

quando si tratteneva a Gerusalemme. Contro Gesù, la cui attività,

almeno agli inizi, si svolgeva nella regione del lago di Genesaret,

dunque, in territorio prevalentemente Galileo, Antipa non pervenne

mai seriamente.

Ora, per la prima ed ultima volta, sovrano e suddito s’incontrano

faccia a faccia: quello, uomo di mondo, alla soglia della vecchiaia,

indifferente dal punto di vista religioso, almeno da quando era stato

educato nella capitale del mondo pagano, amante degli edifici

sontuosi, dei banchetti opulenti e di ogni altra specie di godimento;

diplomatico astuto, tale però da essere lasciato in secca da tutta la sua

astuzia, quando lo sopraffacesse una passione sensuale. Quell’altro,

figlio di un artigiano della piccola Nazareth, giovane e serio,

apparentemente incolto ed inesperto del mondo, un suddito come tanti

altri, indegno di qualsiasi particolare attenzione se non si

raccontassero strane cose sui suoi fatti e detti. Ed ecco proprio la

caratteristica di questo principe frivolo: egli s’interessa dapprima solo

di quel fenomeno d’uomo che ha dinanzi e sembra dimenticarsi

totalmente della ragione per cui Gesù gli è stato condotto. Con un

profluvio di parole, egli lo incalza per sapere qualcosa di più sulle sue

forze misteriose e per essere, se possibile, egli stesso testimone di un

miracolo. Egli metteva Gesù sullo stesso piano dei saltimbanchi e

giocolieri, che, allora, usavano rallegrare il pubblico di corte.

Non ci si deve, dunque, immaginare questo principe come un

sinistro inquisitore, ma, piuttosto, come un individuo capriccioso,

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vanaglorioso, leggero. Comunque, la sua fiumana di parole trovò

orecchie sorde: egli aveva certamente creduto che l’individuo

implicato in un processo così preoccupante, sarebbe stato subito

condiscendente, al fine di guadagnare il suo favore. Gesù rimase

freddo e muto; il suo silenzio è, anche qui, il silenzio grandioso,

sublime del servo di Dio che soffre tacitamente222.

Solo a questo punto, il tetrarca si rammentò dell’affare giudiziario

da sbrigare. Si offerse la possibilità ai sommi sacerdoti e scribi

presenti, di esporre le loro accuse; ciò che essi fecero

abbondantemente e senza alcun dubbio nel senso che ci è già noto dal

processo dinanzi al governatore. Ma su Antipa, per maldisposto che

fosse, tutto ciò non fece alcun effetto. Soltanto un capo d’accusa, egli

trovò degno d’attenzione: la pretesa di Gesù alla dignità regale223. Ciò

di cui il cupo sospettoso Erode il Grande non fu capace, riuscì al

figlio, più agilmente vivace e dotato di una vena di ironia:

quest’ultimo si divertì di quella pretesa; allorché, l’Evangelista dice

che Erode, con i suoi soldati, abbandonò Gesù al disprezzo ed allo

scherno.

La scena termina con una parodia della pretesa alla regalità di

Gesù: Erode fece rivestire Gesù di una veste pomposa e lo rinviò

conciato da re di burla a Pilato. Rinviando l’imputato, egli faceva

intendere che rifiutava di occuparsi dell’affare; mascherandolo, che

riteneva l’uomo più ridicolo, che pericoloso!

222 Is. 53,7. 223 Blinzler, 1966, pag. 258.

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V.3. Il dibattito circa la storicità del racconto di Luca

sulla pericope di Erode: il richiamo al diritto romano.

Poiché l’episodio di Erode viene menzionato solo dall’Evangelista

Luca, alcuni studiosi, quali Miglietta224, si sono chiesti se si tratti di un

episodio effettivamente accaduto, quindi, di un episodio storico

oppure se si tratti di un inserimento tematico, operato da Luca. A ben

vedere, la tesi della storicità dell’invio di Gesù al tetrarca di Galilea,

disposto da Pilato, parrebbe trovare un fondamento nell’ambito del

diritto criminale romano: fondamentale a tale proposito, è un responso

del giurista Celso, operante nel secondo secolo d.C., il quale, in lib.37

dig., D.48,3,11 (= Pal.*264), afferma:

“Non est dubium, quin, cuiuscumque est provinciae homo, qui ex custodia

producitur, conoscere debeat is, qui ei provinciae praeest, in qua [ provincia]

agitur. Illud a quibusdam observari solet, ut, cum cognovit et constituit, remittat

illum cum elogio ad eum, qui provinciae praeest, unde is homo est: quod [ex

causa] faciendum est ”.

Il testo inizia affermando la regola certa (“non est dubium, quin…”),

secondo cui è tenuto a giudicare di un crimen (“cognoscere debeat”),

a prescindere dalla residenza dell’imputato (“cuiuscumque est

provinciae homo”), il magistrato la cui competenza (“is, qui ei

provinciae praeest”) è data dal luogo nel quale il soggetto è stato

catturato (“homo, qui ex custodia producitur”) ed in cui si svolge il

complesso degli atti di repressione criminale (“in qua provincia

224 Miglietta, 1999, pp. 115-121.

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agitur”).“L’agitur” di Celso, va correttamente interpretato nel senso

di “si agisce”; “si procede processualmente alla repressione”.

Nel frammento di Celso, alla regola di diritto segue la descrizione

dell’eccezione, menzionandosi l’usanza di taluni magistrati (“a

quibusdam observari solet = taluno è solito osservare”), dopo aver

proceduto all’interrogatorio dell’imputato (“cum cognovit = quando

ha preso cognizione”) ed aver emesso la sentenza (“…et constituit = e

quando ha deciso”), di disporre il deferimento dell’accusato, al

magistrato del luogo di provenienza di quest’ultimo (“ad eum, qui,

provinciae praeest, unde is homo est = a colui che è preposto alla

provincia da cui viene l’uomo”), provvedendo ad allegare una

relazione degli atti processuali (“remittere cum elogio”). La

remissione, probabilmente, avveniva per la pena oppure per l’esigenza

di celebrare un nuovo processo per altri crimini commessi nel

territorio d’origine o per l’esecuzione di disposizioni patrimoniali.

Ciò nonostante, Miglietta225 ritiene comunque azzardato

individuare nell’invio di Gesù ad Erode, un equivalente della

“remissio” di cui parla Celso: gli elementi caratterizzanti la

“remissio”, ossia i requisiti tecnico-giuridici richiesti dal responso

celsino, mancano del tutto nel racconto di Luca. Egli afferma che,

innanzitutto, il passo di Celso richiede un’attività connessa al

“cognoscere et constituere” da parte del magistrato, per poter attuare

la remissione. Nel racconto di Luca, invece, il prefetto Pilato dispone

il rinvio di Gesù, non appena udito che questi appartiene alla

225 Miglietta, 1999, pp. 122-123.

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“potestas” di Erode e, quand’anche si fosse iniziata la “cognitio”,

dal Vangelo appare fuori di dubbio che non vi è stata ancora alcun

“constituere” da parte del magistrato romano: la sentenza sarà

emessa dopo il ritorno di Gesù dal palazzo di Erode e dopo il

tentativo di scambio con Barabba; in secondo luogo, Luca non fa

alcuna menzione di un “elogium” (relazione del processo), da parte

di Pilato; in terzo luogo, Luca afferma che Erode era presente

anch’egli a Gerusalemme, che era un luogo appartenente alla

“potestas” di Pilato, per cui, in tale città, il tetrarca non avrebbe

potuto esercitare alcuna forma di giurisdizione, né, tanto meno, di

giudizio e di condanna.

Sembrerebbe, allora, che Luca, affermando che Pilato inviò Gesù

ad Erode “perché anche quest’ultimo si trovava in quei giorni a

Gerusalemme”, abbia voluto dire, tra le righe, che il rinvio non ci

sarebbe stato se Erode fosse stato lontano, ossia nella terra di sua

competenza; inoltre, Erode rimanda a sua volta Gesù da Pilato, e ciò

non pare essere previsto nel responso di Celso; ancora, Miglietta

rileva che se la ratio dell’invio fosse stata da rinvenire

nell’applicazione dell’istituto celsino della “remissio”, Pilato

avrebbe dovuto attenersi alle conclusioni del tetrarca, il quale, non

riscontrando in Gesù alcuna colpa, lo rimandò nuovamente al

prefetto della Giudea e, quindi, astenersi dal pronunciare una

sentenza di condanna. Invece Pilato, che pur condivideva con Erode

la convinzione circa l’innocenza di Gesù, condannò quest’ultimo a

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morte; infine, sempre secondo il Miglietta226, il diritto criminale

romano vigente prima di Celso, riconosceva la competenza

giudiziaria del governatore del luogo in cui era stato commesso il

crimine e non del luogo d’origine del reo, rifacendosi egli ad un

passo del giurista Ulpiano227, contenuto nel Digesto, in cui si riporta

un rescritto dell’imperatore Antonino Pio, che recita in tal modo:

“Idem imperator rescripsit servos ibi puniendos, ubi deliquisse

arguantur, dominumque eorum, si velit eos defendere, non posse

revocare in provinciam suam, sedi ibi oportere defendere, ubi

deliquerint”.

In esso è stabilito che gli schiavi debbano esser processati nel luogo in

cui siano stati accusati di aver commesso il crimine e che se il loro

padrone, che risiede in un’altra provincia, intenda accollarsi l’onere

della loro difesa, non potrà ottenere l’invio del colpevole nella

provincia della propria residenza, ma dovrà difenderli recandosi nel

luogo ove si svolge il processo, cioè ove essi hanno commesso il

crimine.

Dunque, per Miglietta i dubbi circa l’autenticità o meno del

racconto di Luca permangono, a differenza di Blinzler228, il quale

ritiene che il patrimonio personale di notizie del terzo Evangelista

presenta una serie di brani, la cui attendibilità storica è assolutamente

fuori discussione.

In conclusione, vorremmo affermare che invano si cercano

tendenze apologetiche od antigiudaiche nella pericope di Erode: il

226 Miglietta, 1999, pag. 126. 227 Ulpianus, lib.7 de off.proc.,D.48,2,7,4 (=Pal.2186). 228 Blinzler, 1966, pp. 260-261.

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sostenere che con essa, Luca intendesse far ricadere la colpa di Pilato

su Erode, vale a dire sulla parte ebraica, è un grossolano travisamento

dello stato reale dei fatti. Quanti ritengono inverosimile che

l’Evangelista potesse aver avuto notizia di quanto era accaduto nel

palazzo gerosolimitano del tetrarca, devono tener presente che, tra i

primi cristiani, v’era più di una persona vicina alla corte del sovrano

di Galilea: tra le discepole di Galilea, vi era una Giovanna, il cui

marito, un certo Huza, era un impiegato di Antipa229; nella comunità

cristiana d’Antiochia - ben nota a Luca, poiché è probabile ch’egli

fosse di questa città - un amico di gioventù del tetrarca Erode, di nome

Manaen, ebbe un certo rilievo230.

Ancora, se si considera che l’Evangelista ha dedicato la sua opera

ad un’alta personalità, dunque particolarmente interessata alle

faccende di corte, si comprende perché, a differenza degli altri

Evangelisti, egli abbia introdotto nel suo racconto della Passione,

l’episodio di Erode, benché questo non abbia alcun significato, in

ordine al risultato finale del processo. Infine, lo stesso Luca dichiara

all’inizio del suo Vangelo, di voler attuare un’indagine accurata e

scientifica su ogni avvenimento, in modo da fornire, sin dall’inizio,

una conoscenza esatta degli eventi. Sarebbe, dunque, alquanto strano

che l’autore del Vangelo, dopo aver dichiarato il suo intendimento di

esporre la verità dei fatti, abbia, poi, inventato di sana pianta

229 Lc.8,3. 230 Act.13,1.

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l’episodio dell’invio di Gesù ad Erode, col rischio di essere

eventualmente poi smentito da qualche testimone oculare231.

231 Blinzler, 1966, pag. 260.

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Capitolo VI

Il rinvio a Pilato ed il privilegium paschale.

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VI.1. Il privilegium paschale: origine ed aspetto giuridico.

Ricondottogli Gesù e ripreso il dibattimento, Pilato era ancor meno

disposto di prima a credere nella colpa dell’imputato ed a cedere alle

insistenze degli accusatori ebrei232, ma, anziché decidere risolutamente

per la liberazione, egli cercò di nuovo di raggiungere il suo scopo per

vie traverse233.

Secondo gli Evangelisti, gli Ebrei avevano il diritto di chiedere, in

occasione della Pasqua, la liberazione di un prigioniero234. L’origine e

l’aspetto giuridico di quest’amnistia vengono spiegate variamente: per

il Mommsen e l’Husband, si doveva trattare soltanto del diritto

spettante al giudice penale, nei processi dinanzi al magistrato, di

lasciar cadere il procedimento235.

Dal fatto che i giuristi romani del terzo secolo cristiano, parlano

solo di un diritto di grazia dell’imperatore236e del senato, ma tacciono

di un simile diritto del governatore, potrebbe dedursi che il diritto

d’amnistia del procuratore doveva basarsi su una speciale facoltà

trasferitagli dall’imperatore. Ma si potrebbe, al contrario, anche

pensare che la situazione giuridica del III secolo rappresenti il risultato

di un processo di sviluppo collegato con l’espandersi della potenza

imperiale e che, al tempo di Gesù, il governatore di Giudea possedesse

ancora il pieno potere di decisione nei confronti dei sudditi provinciali

232 Lc.23,13-15. 233 Blinzler, 1966, pp. 273-275. 234 Mc.15,6;Io. 18,39. 235 Mommsen, 1899, pag. 453; Husband, 1916, pag. 270; 236 D. 48,19,31 : “Ad bestias damnatos favore populi praeses dimittere non debet: sed si eius

roboris vel artificii sint, ut digne populo Romano exhiberi possint, principem consulere debet”.

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passibili di pena capitale, così da poterli, a suo giudizio, far giustiziare

o liberare.

Assai spesso, d’altronde, la storicità di questo costume riferito

dagli Evangelisti, venne messa in discussione, soprattutto

richiamandosi al fatto che Giuseppe Flavio non riferisce nulla di un

uso del genere (come più volte già riferito). L’esegesi conservatrice

cercò, però - basandosi su certi paralleli giuridici - di dimostrare

almeno la possibilità di quell’uso: anzitutto, ricordò il costume

romano di togliere ai prigionieri le catene e di metterli in libertà, in

occasione della festa dei lectisternia237

. In realtà, nel caso evocato da

Livio sembra trattarsi di grazia collettiva, mentre qui ci troviamo in

presenza della liberazione di un singolo condannato; ma anche per

questo si è addotto un parallelo nel sistema giuridico romano, e

precisamente l’uso di graziare e liberare singoli prigionieri, quando il

popolo lo richiedeva a gran voce.

Tale prassi è ben illustrata da un papiro pubblicato per la prima

volta nel 1906, contenente il protocollo di un procedimento giudiziario

svoltosi dinanzi a Settimio Vegeto, governatore d’Egitto nell’86 della

nostra era. Allora Vegeto dichiarò all’imputato Fibione, che aveva

fatto arrestare il suo preteso debitore e le donne della famiglia di

costui: “Tu avresti meritato la frusta, poiché di testa tua, hai

imprigionato un uomo dabbene e donne. Ma io ti abbandonerò alla

folla e così ti tratterò umanamente”238. Se si prescinde dal fatto che qui

non si tratta di una regolare amnistia festiva, il caso è del tutto analogo

237 Livius,5,13,8. 238 Pap.flor.61,59.

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a quello biblico: il governatore libera un malfattore per desiderio del

popolo; le parole “io voglio abbandonarti alla folla”, indicano che il

governatore libererà l’uomo, se il popolo lo chiede.

Se questo esempio dimostra almeno come si potè arrivare

facilmente all’usanza narrata negli Evangeli, un passo sinora poco

notato nel trattato Pesachim della Mishnà, ci dà la prova del fatto che

in Gerusalemme dev’esserci effettivamente stata l’usanza di liberare

uno o più detenuti, in occasione della Pasqua239. Si tratta del trattato

mishnaico Pesachim VIII 6a; la situazione supposta nella Mishnà è la

seguente: un Israelita, il quale si trovi detenuto in un carcere romano

di Gerusalemme, ha fondati motivi di sperare, ma non di esser certo,

di venir rilasciato poco prima della sera di Pasqua. Questo caso,

essendo affiancato nel trattato Pesachim da casi d’altro genere

periodicamente ricorrenti, deve essere stato normale, tale da ripetersi

regolarmente ogni anno, prima del 15 Nisan.

Se noi riteniamo, accanto a ciò, quanto gli Evangeli riferiscono e

permettono di dedurre, ne risulta una situazione perfettamente

corrispondente: Barabba, un Israelita detenuto dai Romani a

Gerusalemme, spera di essere rilasciato ancor prima della sera di

Pasqua, poiché può contare che i suoi amici lo reclameranno a causa

dell’amnistia di Pasqua240. La liberazione, però, non è ancora sicura,

poiché non dipende semplicemente dalle suppliche degli amici del

prigioniero, ma anche dalla volontà del procuratore. Da Pesachim VIII

239 Bove, 1999, pp. 205-206. 240 Blinzler, 1966, pag. 276.

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6a viene, dunque, effettivamente confermata l’usanza menzionata

dagli Evangeli.

Il diritto romano conosce due forme di amnistia, la abolitio, cioè il

rilascio di un prigioniero non ancora giudicato241, e la indulgentia, la

grazia di un condannato242. Ciò che Pilato aveva in programma nel

caso di Gesù e che accordò alla fine a Barabba, corrispondeva

evidentemente alla prima forma: in quello stadio del processo, Gesù

non era ancor stato condannato dal tribunale romano, e lo stesso

sembra dovesse essere per Barabba, il quale viene indicato non come

condannato, ma semplicemente come prigioniero243.

E’ dubbio se Pilato abbia o meno precisato il carattere giuridico

dell’amnistia che intendeva concedere a Gesù, allorché egli fece la sua

proposta; forse lasciò appositamente in sospeso la questione. Ciò che

ai suoi occhi era una abolitio, dagli Ebrei poteva essere considerata

una indulgentia, vale a dire un indiretto riconoscimento del giudizio

da essi pronunciato contro Gesù; ciò spiegherebbe particolarmente

bene la speranza del procuratore di giungere, per tale via, al proprio

scopo244.

241 Codex 9,42; D. 48,16. 242 Codex 9,42. 243 Mc.15,7; Mt. 27,16; Lc. 23,19-25. 244 Blinzler, 1966, pag. 276.

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VI.2. L’imprudenza di Pilato e la scelta della folla:

aspetti psicologici.

Mentre Pilato trattava di nuovo con i gerarchi, una folla

proveniente dalla città bassa si radunò davanti al pretorio per fare uso

del suo diritto di supplica. Con ciò, il processo dinanzi a Pilato entrò

in una nuova fase: se sino a quel momento, accanto al romano ed

all’accusato, protagonisti dell’affare erano i sinedriti, d’ora in poi, si

fa sentire sempre più l’influenza della massa245. Dapprima, l’arrivo di

quella gente non parve inopportuno al procuratore: egli vi scorse una

nuova possibilità di salvare Gesù e cominciò ad avviare le trattative

per l’amnistia, nel senso da lui auspicato, coll’offrire alla folla, la

grazia e la liberazione di Gesù, che egli, per metà ironico e per metà

pensando al desiderio dei convenuti, chiama loro re: “Volete che io vi

dia libero il re dei Giudei?”246.

A lui non poteva sfuggire che l’insistenza della casta sacerdotale

nel voler Gesù giustiziato, non rispondeva in nessun modo ad un

improvviso lealismo nei riguardi dello Stato Romano, ma piuttosto a

motivi d’interesse puramente egoistico: poteva, perciò, sperare che il

popolo, cui tali motivi dovevano essere estranei, avrebbe seguito la

sua proposta. Tuttavia, il suo modo di procedere fu un errore carico di

conseguenze: anzitutto, Pilato non calcolò che la moltitudine,

tendenzialmente autonoma, dovendo scegliere tra un’eventualità

245 Blinzler, 1966, pp. 278-279. 246 Mc.15,9.

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proposta da lui ed un’altra proposta dai sinedriti, mai e poi mai

avrebbe scelto il suo partito. Inoltre, egli prese in considerazione la

possibilità che la folla, allorché si presentò a lui, si fosse, magari, già

messa d’accordo su uno dei candidati. La narrazione di Marco qui è

poco chiara; tuttavia, è probabile che si debba intendere nel senso che

la moltitudine mirasse, sin da prima, alla liberazione di Barabba.

Come già accennato, il proporre di propria iniziativa Gesù come

candidato all’amnistia, senza aver dapprima ascoltato la folla, fu, da

parte di Pilato, un’enorme malaccortezza: i sommi sacerdoti risposero

al nuovo tentativo di elusione da parte del procuratore, con

l’indirizzare immediatamente la folla contro il Nazareno ed in favore

di Barabba. Quest’ultimo si era reso colpevole di omicidio durante

una rivolta, ed era stato arrestato dai Romani insieme ai suoi complici.

Su questa rivolta, della quale Marco parla come di un fatto noto, non

abbiamo maggiori particolari.

Alcuni esegeti pongono l’avvenimento in relazione con Lc.13,1 e

lo identificano con lo scontro, riferito da Giuseppe Flavio247, che ebbe

origine dall’affare del tesoro del Tempio; ma si tratta di induzioni del

tutto arbitrarie.

Sicuramente il “brigante”248 Barabba era, nonostante il suo delitto, un

personaggio popolare, una specie di eroe della libertà, altrimenti gli

astuti sinedriti non se ne sarebbero serviti nel loro gioco contro

Gesù249. Ad ogni modo, Barabba non doveva avanzare pretese di

247 Ios. Flav., Ant. 18,3,2. 248 Io. 18,40. 249 Bove, 1999, pag. 206.

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messianità, altrimenti il procuratore, nella sua proposta, non avrebbe

chiamato Gesù semplicemente “il re dei Giudei”.

Grazie alla loro consapevole e previdente mobilitazione della folla,

i sinedriti riuscirono nel loro scopo: la moltitudine si decise contro

Gesù e richiese, a Pilato, Barabba. Decisione gravida di conseguenze!

Sinora soltanto i sinedriti si erano sforzati di ottenere la morte di

Gesù; ora la sua sorte era posta per un istante nelle mani del popolo;

questo lo abbandonò e si pose, con ciò, volontariamente, anche se

sotto la spinta di influenze esterne, dalla parte dei nemici mortale di

Gesù. Solo a questo punto il cerchio dei colpevoli della morte di Gesù

si allarga: dalla piccola casta di capi, ad una porzione più vasta della

popolazione di Gerusalemme.

Il brusco mutamento nella disposizione d’animo del popolo è

considerato, spesso, un problema psicologico, come trattato anche da

Zagrebelsky, nella sua opera sul tema in esame (“Il ‘Crucifige!’ e la

democrazia”)250. Come accade che quelle persone, le quali appena la

domenica precedente avevano acclamato Gesù come Messia, durante

il processo, siano d’un tratto divenute i suoi nemici dichiarati?

L’attività dei membri del Sinedrio e la popolarità di Barabba spiegano

molte cose, ma non tutte. La folla avrebbe potuto reclamare Barabba e

poi disinteressarsi di Gesù. L’invocazione “Dacci Barabba!”, non

significa ancora “Crocifiggi Gesù!”.

Come giunse, dunque, tale folla a far sua la richiesta di morte dei

sinedriti? Da varie parti si ritiene che gli osannanti della domenica

250 Zagrebelsky, 1995, pag. 93.

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delle palme, non fossero né gli stessi uomini, né gli stessi gruppi che il

Venerdì Santo gridarono “Crucifige!”. Allora, si sarebbe trattato

soprattutto di pellegrini Galilei giunti per la festa, ora della plebe

indifferente della metropoli. Questa distinzione potrebbe essere

essenzialmente esatta, ma poiché i pellegrini Galilei, immediatamente

prima della festa principale, si trovavano ovviamente ancora in città, e

poiché non potevano ignorare tutti il processo pubblico condotto

contro il compatriota da essi festeggiato, resta il problema di sapere

perché non c’è notizia di alcuna presa di posizione favorevole a Gesù

da parte di un gruppo del popolo251. Forse i suoi adepti erano delusi

perché Egli non poneva finalmente in atto i loro sogni messianico-

nazionalistici? Anche questo fattore può entrare in gioco, ma non è del

tutto credibile che questa delusione possa aver tramutato di colpo

l’entusiasmo precedente, in avversione mortale.

In conclusione, riteniamo che il raffreddamento radicale dell’animo

popolare, sopravvenuto durante la notte, ha la sua origine principale

nel fatto della condanna di Gesù da parte del tribunale indigeno: nel

cuore del popolo, il rispetto per la legge santa data da Dio, era troppo

radicato affinché esso potesse dare la propria simpatia ad un uomo sul

quale questa legge, tramite i suoi legittimi custodi ed interpreti, aveva

gettato l’anatema. Così, per i sinedriti fu facile guadagnare le folle alla

loro parola d’ordine spietata252.

251 Fabbrini, 1999, pag. 172. 252 Blinzler, 1966, pag. 280.

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VI.3. Il crimen laesae maiestatis.

Il rifiuto della sua proposta non sembra aver soltanto sorpreso, ma

veramente sconcertato il procuratore. Almeno, il suo contegno

ulteriore manca persino di quel resto di dignità ed energia di

magistrato, dimostrate sino ad allora. Per lui, ora che aveva constatato

che il popolo non avrebbe a nessun costo rinunciato a Barabba, non

v’era che una via: doveva seguire la volontà del popolo e poi, una

volta allontanatosi questo con il suo eroe, continuare e portare a

termine l’affare di Gesù come gli sembrava giusto; ma, invece di

separare nettamente le due questioni giuridiche, egli continuò a

discutere con la massa, a proposito di Gesù.

Fu così che pose alla volontà popolare, che richiedeva Barabba, la

domanda fiacca ed imbelle: “Che devo dunque fare di colui che

chiamate il re dei Giudei?”253. Egli sperava, a quanto pare, che la

massa, contrariamente alla casta dirigente, non avrebbe insistito a

reclamare la morte di Gesù, accontentandosi di qualche castigo più

mite… ma si sbagliava. La sua imprudente domanda ebbe subito in

risposta un assordante “Crocifiggilo!”254. Ciò che capi e popolo

esigono è la morte e, precisamente, la morte crudele ed ignominiosa

della croce romana; Gesù dev’essere dichiarato colpevole di alto

tradimento e punito con tutto il rigore della legge contro i traditori, la

lex Iulia maiestatis. Il reato di alto tradimento fu riconosciuto, con

253 Mc.15,12. 254 Mc.15,13.

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ogni probabilità, essenzialmente nella rivendicazione della dignità

regale da parte di Gesù255.

Dei molti delitti che nelle raccolte giuridiche di Giustiniano

vengono calcolati come crimen laesae maiestatis, nessuno corrisponde

in modo formalmente esatto a quello che si rimproverò a Gesù, ma

quanto fosse facile fabbricare un delitto di lesa maestà da una

rivendicazione del titolo regale, è dimostrato dai tre esempi che

seguono: “Maiestatis autem crimen illud est, quod adversus populum

Romanum, vel adversus securitatem eius committitur”256

= E’

colpevole di lesa maestà, chi in generale compie un’azione diretta

contro il popolo romano o contro la sua sicurezza; “Quive privatus

pro potestate magistratuve quid sciens dolo malo gesserit”257

= In

particolare, un privato cittadino che intenzionalmente e dolosamente

eserciti le funzioni di un impiegato statale; “… utve ex amicis hostes

populi Romani fiant”258

= Inoltre, chi, con malvagia intenzione, fa sì

che amici del popolo romano divengano nemici .

L’alto tradimento era delitto capitale e veniva punito, secondo la

condizione del reo, con la croce; con l’abbandono alle belve del circo

o con la deportazione su un’isola259. Per i provinciali privi di

cittadinanza romana, si era soliti scegliere il primo tipo di morte;

proprio nella provincia della Giudea, le esecuzioni sulla croce erano

abituali260. L’ultima grande tragedia del genere, prima della morte di

255 Bove, 1999, pag. 206. 256 Ulp. D.48,4,1; cfr. Blinzler, 1966, pp. 281-282. 257 D.48,4,3 (Marciano). 258 D.48,4,4 (Scevola). 259 D.48,19,38,2 (Paolo). 260 Cantarella, 1999, pag. 213.

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Gesù, ebbe luogo dopo la scomparsa di Erode il vecchio (4 a.C.); essa

fu repressa senza pietà dal legato di Siria, Quintilio Varo, il quale fece

crocifiggere duemila Ebrei261.

VI.4. La lavanda delle mani.

Coloro che gridavano “Crocifiggilo!” davanti al pretorio, devono,

quindi, essersi resi colpevoli dell’orrenda sorte a cui essi stessi

stavano per abbandonare Gesù. Per il procuratore, un tale contegno

degli Ebrei nei confronti di qualcuno della loro stessa razza era

incomprensibile. Quel funzionario, benché per nulla esemplare nel

resto, aveva tuttavia sufficiente senso giuridico per essere conscio che

una punizione deve essere proporzionale alla colpa. A malincuore,

quindi, chiede agli Ebrei di indicargli il delitto di alto tradimento che

fa meritare a quel Galileo, la più crudele di tutte le punizioni: “Che ha

fatto dunque di male?”262. Ma la plebe è già stanca di discutere;

imbaldanzita dalla visibile incertezza del giudice, essa ne ignora con

freddo disprezzo la domanda, per ripetere sempre e soltanto la propria

imperiosa richiesta: “Crocifiggilo!”263.

Ora, Pilato paga l’errore commesso nel mettersi a discutere con il

popolo; quell’imperdonabile errore tattico lo ha cacciato in una

situazione dalla quale egli non sarà in grado di uscirne. Con i sinedriti

261 Ios. Flav., Ant.17,10,10. 262 Mc.15,14a. 263 Mc.15,14; cfr.Zagrbelsky, 1995, pag. 83.

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avrebbe potuto liberarsene, ma col popolo eccitato non poteva lasciar

perdere e passare all’ordine del giorno. Ora non si trattava più

semplicemente del giudice, era anche e soprattutto il politico che

doveva prendere una decisione, e senza indugio.

Si è trovato strano che Pilato non abbia fatto ricorso al sistema, di

cui poteva disporre secondo la procedura romana, di un

aggiornamento del processo allo scopo di approfondire le indagini, ma

egli si era precluso da sé questa via d’uscita, con la sua infelice tattica

d’interrogare il popolo.

In definitiva, a Pilato non restava nient’altro che capitolare dinanzi

alla volontà decisa della moltitudine fanatica, così come aveva già

capitolato un tempo, nell’ippodromo di Cesarea264. Il fatto che, questa

volta, abbia ceduto passo per passo, potrebbe, tuttavia, anche

accettarsi, se proprio da ciò non risultasse ancor più chiaro il ritratto

penoso di un giudice romano, violatore del diritto per mancanza di

coraggio, di prudenza e di forza di carattere. Per accontentare la

plebaglia, egli liberò Barabba e dispose la flagellazione di Gesù265.

Matteo soltanto aggiunge, a questo punto, due piccoli episodi

drammatici: mentre Pilato, assiso sul seggio curule, trattava con gli

Ebrei per l’amnistia, ricevette un messaggio da sua moglie: “Non ti

immischiare nelle cose di quel giusto: oggi in sogno ebbi a soffrir

molto per causa di lui”266; verso la fine del brano, si dice: “Allorché

Pilato vide che non approdava a nulla e che il tumulto si faceva

264 Blinzler, 1966, pp. 282-283; cfr. Bove, 1999, pp. 208-210. 265 Mc.15,15; Io. 19,1. 266 Mt. 27,19.

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sempre maggiore, prese dell’acqua e si lavò le mani innanzi al popolo,

dicendo: “Io sono innocente di questo sangue; pensateci voi”. E tutto

il popolo replicò: “Il sangue di lui ricada su noi e sui nostri figli!”267.

Le due scene sono strettamente legate: se Pilato, nella prima, è

ammonito da sua moglie a non rendersi colpevole, nella seconda egli

simboleggia la sua innocenza con la parola e con il gesto. Matteo cita i

due episodi senz’altro per sottolineare, nello stesso tempo, l’innocenza

di Gesù e la colpevolezza degli Ebrei. Egli, passando dalla

presentazione storica alla valutazione storico-teologica, non usa la

parola “massa di popolo”, “moltitudine”, ma l’espressione “tutto il

popolo”, “ la nazione intera”, così riproducendo il punto di vista della

chiesa antica quanto al problema della colpevolezza: per essa, gli

Ebrei dinanzi al pretorio erano i rappresentanti di quella nazione che

aveva ripudiato il proprio Messia e con ciò stesso attirato su di sé il

giudizio di Dio.

Il racconto evangelico concernente il privilegium paschale è stato

spesso considerato dalla critica degli Evangeli, come un’aggiunta

leggendaria; “un miracolo di immaginazione”, come afferma Lucio

Bove268(il quale si è schierato “contro” tale asserzione), “poiché

nessun documento, nessuna relazione, nessuno storico dell’antichità lo

menziona mai”. Appare dubbio che tale giudizio sia giustificato, se si

riconosce che le due scene non potevano interessare altri Evangelisti

se non Matteo: infatti, i resoconti evangelici del processo di Gesù

hanno evidentemente come scopo principale, quello di mostrare i

267 Mt. 27,24. 268 Bove, 1999, pag. 203.

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fattori decisivi per l’esito del processo; perciò Marco e Luca (ed in

parte, per motivi spirituali, anche Giovanni), potevano esimersi dal

menzionare le scene secondarie, prive di significato a questo riguardo;

al contrario, a Matteo, che scrive per i cristiani d’origine giudaica,

importa moltissimo di chiarire ai suoi lettori la mostruosa colpa del

loro popolo.

In effetti, questi episodi non contengono nulla che sia storicamente

impensabile: si dà il caso di poter provare che ai governatori romani

dopo Augusto, era concesso di portare con sé la moglie in

provincia269, e siamo informati da altra fonte di nobili romane che

nutrivano interesse per la religione giudaica, ad esempio, Poppea,

moglie di Nerone, era una donna “timorata di Dio”270e quasi tutte le

donne, in Damasco, simpatizzavano con la religione ebraica271.

Inoltre, la cerimonia della lavanda delle mani è, sì, un costume

tipicamente ebraico, ma non era, però, sconosciuto ai pagani e si può,

inoltre, ammettere benissimo che Pilato qui si sia uniformato ad un

uso ebraico per farsi chiaramente capire da tutti gli Ebrei, che, nella

maggioranza, non capivano il greco parlato da lui, considerando anche

che egli fosse giunto oramai ad una certa conoscenza delle cerimonie

ebraiche, avendo già trascorso, al tempo del processo di Gesù, quattro

anni interi in Giudea272.

A seguito dell’analisi delle suddette fonti (evangeliche, storico-

giuridiche ed indirette), Bove giunge, con acuto inquadramento

269 Tac., Ann. 1,40.270 Ios. Flav., Ant. 20,8. 271 Ios. Flav., Bell.2,20,2. 272 Blinzler, 1966, pag. 286.

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dogmatico273, alla conclusione che la contestuale liberazione di

Barabba secondo la consuetudine antica e rispettata, si pose come una

rigorosamente logica conclusione dell’incidente (in senso tecnico-

processuale) introdotto (d’ufficio) da Pilato nella sua funzione di

giudice unico e definitivo 274.

273 Miglietta, 2001, pag. 490. 274 Bove, 1999, pag. 210.

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Capitolo VII

Fase decisoria: flagellazione, “Ecce homo!” e

condanna a morte da parte di Pilato.

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VII.1. La flagellazione romana ed il dibattito sulla

possibile ratio della flagellazione di Gesù.

La flagellazione romana veniva inflitta in maniera barbara: il

condannato era spogliato, legato ad un palo o colonna275, a volte anche

semplicemente gettato a terra e colpito da parecchi torturatori, sino a

che questi erano stanchi e la carne del condannato cadeva in brandelli

insanguinati276.

Nelle province, questo compito spettava ai soldati277; essi si

servivano, a questo scopo, di tre differenti arnesi di tortura: per i

liberi, si usavano le verghe; per i militari, i bastoni; per gli schiavi si

adoperavano di solito flagelli o fruste278, le cui cinghie di cuoio,

spesso, erano fornite di un pungiglione o di vari pezzi d’osso disposti

a catena o di palle di piombo279. Quest’ultimo strumento si usò per

Gesù. Contrariamente al diritto ebraico, quello romano non fissava un

numero massimo di colpi. Non c’è da meravigliarsi sentendo che

durante questa procedura, che soltanto eccezionalmente veniva inflitta

come pena capitale, spesso i disgraziati crollavano morti280.

Secondo Cicerone, Gaio Verre, governatore di Sicilia (73-71 a.C.),

faceva applicare la flagellazione in modo particolarmente disumano:

275 Plaut., Bacch.IV,7,24: “Abducite huc intro atque adstrigite ad columnam fortier”. 276 Cantarella, 1999, pp. 216-217. 277 Suet., Caligula 26.278 D.48,19,10. 279 Codex Theodos., 8,5,2.280 D.48,19,8,3: “Plerique dum torquentur deficere solent”.

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“Moriere virgis” (Morirai sotto le verghe), avrebbe gridato un giorno

ad un accusato, consegnandolo ai littori281.

Giuseppe Flavio riferisce che egli stesso, nella Tarichea Galilea,

fece flagellare alcuni suoi avversari fino a che le loro viscere furono

visibili282.

Anche il caso del profeta di malaugurio Jesus bar Hanan, fatto

flagellare dal procuratore Albino durante la festa dei Tabernacoli

nell’anno 62 d.C. finché apparvero le sue ossa, lascia intendere che

cosa significhi quella breve parola greca del Vangelo di Marco283.

Perché Pilato decise d’infliggere a Gesù quello spaventoso

tormento?284 I primi Evangelisti non danno alcuna risposta a tale

domanda; stando alla narrazione personale di Giovanni, invece, il

Romano si risolse a questo provvedimento, perché vedeva in esso

l’ultima possibilità di salvare Gesù.

La flagellazione aveva presso i Romani scopi diversi: si deve

distinguere la flagellazione come tortura inquisitiva285; come pena di

morte (fustuarium, prevalentemente punizione militare)286; come

castigo indipendente, decretato da organi di polizia287e come preludio

all’esecuzione capitale, a pena di morte sentenziata (flagellazione

prima della crocifissione)288. Nel caso di Gesù, la flagellazione fu

disposta da Pilato come punizione indipendente; non era una tortura

281 Philo, In Flaccum 10. 282 Ios. Flav., Bell. 2,21,5. 283 Mc.15,15. 284 Blinzler, 1966, pp. 294-295. 285 Act.22,24. 286 Horat., Sat.I 2,41: “Ille flagellis ad mortem caesus”.287 Pap. Flor. 61,59. 288 Ios. Flav., Bell.,2,14,9.

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per forzare una confessione, né la pena collaterale che preludeva alla

crocifissione: la condanna a morte sopravvenne solo più tardi. Pilato

aveva capito che non sarebbe riuscito a cavarsela senza dare nessun

castigo a Gesù; egli provava ancora ripugnanza all’idea della

crocifissione e così si decise per la flagellazione, nella speranza che

gli Ebrei si sarebbero accontentati di questa pena draconiana e

avrebbero receduto dalla loro pretesa.

E’ chiaro che la base giuridica di questa decisione non era l’accusa

di alto tradimento, che poteva essere punita solo con la morte e non

con una pena minore. Con quale crimen leve Pilato abbia motivato

l’ordine di eseguire la flagellazione o se, addirittura, questa

motivazione vi fu, noi non sappiamo. Bisogna escludere che il

procuratore avrebbe voluto dare agli Ebrei l’impressione di essere ora

deciso a crocifiggere Gesù, infatti, dato che egli non aveva ancora

pronunciato una condanna a morte, gli Ebrei non potevano intendere

la flagellazione come il preludio della crocifissione. Inoltre, Pilato

avrebbe dovuto sapere che dopo la flagellazione, gli Ebrei avrebbero

insistito nella loro richiesta con ancor maggior irritazione e caparbietà.

Come egli intendesse e volesse intesa questa pena, ci viene

indicato dalle parole che Luca gli attribuisce due volte: “Io gli

infliggerò un castigo e poi lo libererò”289. Ad ogni modo, se Pilato,

benché ritenesse Gesù innocente lo sottopose a quella pena crudele,

289 Lc.23,16,22.

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bisogna dire che egli venne imperdonabilmente meno al proprio

dovere di giudice290.

VII.2. L’ “Ecce homo!”291 e l’intimidazione degli Ebrei a

Pilato.

Gli Evangeli tralasciano la descrizione del crudele supplizio ed,

allo stesso modo, non dicono nulla di preciso sul luogo in cui questo si

svolse. Solitamente, si ammette che la flagellazione sia avvenuta sotto

gli occhi della folla, sulla piazza antistante il pretorio; proprio sulla

stessa piazza, infatti, il procuratore Gessio Floro fece fustigare,

trentasei anni dopo, gli Ebrei allora condannati; ma, in quest’ultimo

caso, le circostanze erano pur diverse292da quelle ricorrenti nel caso di

Gesù: Floro non poteva fare a meno di ritenere necessaria una

flagellazione pubblica, al fine di minacciare ed intimorire il popolo ed,

inoltre, nel suo caso, la flagellazione preludeva senza alcun dubbio

alla crocifissione293.

Allorché Gesù fu flagellato, la condanna a morte non era ancora

stata pronunciata, e Pilato non aveva alcun motivo di volere un

supplizio pubblico per intimorire la folla. Secondo la narrazione

290 Blinzler, 1966, pag. 296. 291 Io. 19,5. 292 Ios. Flav., Bell. 2,14,9. 293 Blinzler, 1966, pp. 296-299.

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giovannea, risulta quasi certo che Gesù non venne flagellato sulla

piazza, bensì nell’interno del pretorio294.

Nell’esecuzione del castigo, i soldati dovettero tormentare Gesù

con tutta la ferocia spietata che erano soliti porre nel loro sanguinario

ufficio: nel cammino verso il patibolo, Egli non era più in grado di

portare da sé la croce.

La fustigazione dell’uomo che si dichiarava “re dei Giudei” fece

gran colpo fra i militi della coorte acquartierata nel pretorio. Una volta

inflitta, essi colsero con gioia l’occasione di dare sfogo alla loro

grossolana arroganza verso un rappresentante eminente dell’odiato e

disprezzato popolo ebraico. Essi sapevano dal dibattimento che Egli si

pretendeva re e così si misero a schernire la sua regalità, in una

smaccata mascherata295: gli si gettò addosso un mantello rosso,

verosimilmente la clamide tolta ad un littore; gli si pose in mano una

canna e gli si cacciò in testa una corona intrecciata coi rami di una

qualche specie di acanto. Dopo che Gesù fu così mascherato da re

vassallo, i soldati presero a rendergli beffardo omaggio col gridargli:

“Salute re dei Giudei” e col prostrarsi dinanzi. Il saluto rammenta

l’“Ave, Caesar!” dei Romani; la prostrazione in segno d’omaggio, la

cosiddetta proskynesis, faceva parte dei requisiti essenziali del culto

ellenistico al sovrano; quanto agli sputi indirizzati dai soldati a Gesù,

ciò potrebbe essere stato una parodia del bacio d’omaggio in uso in

Oriente. Per pura brutalità, invece, essi maltrattarono Gesù,

percuotendolo anche con la canna e coi pugni. Benché gli Evangeli

294 Io. 19,1. 295 Mc.15,16-20; Io.19,2; cfr. Zagrebelsky, 1995, pp. 83-88.

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non lo dicano espressamente, si deve pensare che, durante tutta la

scena dell’oltraggio, Gesù fosse seduto: il re riceve assiso sul trono

l’omaggio dei sudditi.

Allorché Gesù, con la sua buffonesca mascheratura da re, fu

ricondotto a Pilato, il quale si era nel frattempo trattenuto nel pretorio

(forse assistendo anche alla scena del dileggio nel cortile interno),

questi uscì di nuovo verso la folla per annunciare la riapparizione

dell’accusato: “Ecco, ve lo meno fuori, affinché intendiate che io non

trovo in lui colpa alcuna”296. Ciò che egli intendesse con queste

parole, non è del tutto chiaro. Dal fatto che il procuratore fa continuare

il dibattimento, devono gli Ebrei concludere che il Romano non

intende associarsi al loro punto di vista oppure quest’ultimo vuol dire:

dal travestimento sotto cui vi mostrerò l’accusato, potete vedere che io

lo ritengo un personaggio da farsa e non un delinquente degno di

morte? La seconda interpretazione sembra da preferirsi di gran lunga:

Pilato, a quanto sembra, ha tollerato la sconveniente buffonata della

soldatesca, perché sperava, presentando Gesù nel suo costume

grottesco, di convincere la moltitudine che quest’ultimo era

assolutamente inoffensivo297. Se questa interpretazione è esatta, allora

è certo anche il senso delle parole con cui Pilato accompagnò l’uscita

di Gesù sulla piazza: Ecce homo!(Ecco l’uomo!)298. Questo non è

principalmente un appello all’umanità. Certo la vista dell’accusato

così malridotto, che portava sul corpo le tracce recenti dei sanguinari

296 Io. 19,4. 297 Blinzler, 1966, pp. 300-301. 298 Io. 19,5.

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maltrattamenti sofferti, doveva sconvolgere o almeno calmare un po’

gli animi divampanti di odio, ma a Pilato qui importa soprattutto

dimostrare l’innocuità del supposto pretendente al trono; egli si

aspetta che, alla vista di quella caricatura di re, la folla prenda sul

ridere anche la pretesa al trono, come pure l’accusa su di essa fondata.

Ma, di nuovo Pilato si dimostra cattivo psicologo: vi è un grado di

accanimento, nel quale si perde ogni senso di umorismo e si è

inaccessibili ad ogni moto di pietà. Lungi dall’essere impressionati

dall’aspetto di Gesù, i sommi sacerdoti ed i loro accoliti gridarono,

implacabili come prima, “Crocifiggilo, crocifiggilo!”299. Con ciò,

anche il terzo tentativo di salvataggio, fatto dal governatore, era

fallito.

Esasperato dal nuovo insuccesso, Pilato replicò agli Ebrei: “Allora

prendetelo voi e crocifiggetelo, poiché io non trovo colpa alcuna in

lui!”300. Naturalmente, il procuratore non intende seriamente

trasmettere agli Ebrei il potere di condannare e giustiziare Gesù; la

crocifissione non era affatto prevista nel diritto penale ebraico, né

Pilato si prende gioco dell’impotenza dei Giudei, ai quali era stata

sottratta la libertà di giurisdizione capitale. Le sue parole, che

ammettono formalmente una cosa inammissibile, non sono che un

rabbioso rifiuto della pretesa ebraica.

Poiché la folla ha reclamato “Crocifiggilo!”, Pilato motiva il suo

rifiuto con la propria convinzione dell’innocenza di Gesù301. Ponendo

299 Io. 19,6a. 300 Io. 19,6b. 301 Zagrebelsky, 1995, pag. 93.

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in discussione questa giustificazione, gli Ebrei si richiamano alla loro

legge, per la quale Gesù sarebbe un reo degno di morte: “Noi abbiamo

una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto figlio

di Dio”302. Per la prima ed unica volta, viene fuori l’accusa di

bestemmia che stava alla base della condanna loro propria. Forse

intendono lasciar cadere, come priva di ogni possibilità, la loro accusa

di delitto politico e sostituirla d’ora in poi con l’altra? Niente affatto!

Il nuovo argomento doveva solo rafforzare la loro propria accusa: se

anche il procuratore non era tenuto ad occuparsi di accuse puramente

religiose, egli doveva pur venire incontro, per quanto possibile, ai

sentimenti ed ai desideri religiosi della popolazione. Gli Ebrei

vogliono, dunque, indurre il Romano, il quale ritiene che Gesù sia un

uomo innocuo, a considerare con altri occhi la loro accusa,

provandogli che, secondo la loro legge, quell’uomo merita la morte303.

Le loro parole devono dargli la convinzione che il loro contegno è

determinato non da odio ed invidia, ma solo dallo zelo per la legge304.

La notizia che Gesù si era proclamato figlio di Dio fece una grande

impressione su Pilato: e se quell’accusato fosse veramente stato un

essere superiore? Per l’antichità pagana, il pensiero che le divinità si

manifestassero in forma umana, non era affatto irrealizzabile. La

personalità di Gesù, la sua tranquilla umiltà ed il suo silenzio avevano,

evidentemente, ispirato sinora al procuratore, non soltanto meraviglia,

302 Io. 19,7. 303 Lev. 24,16. 304 Blinzler, 1966, pag. 302; cfr. Fabbrini, 1999, pag. 194.

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ma anche un certo qual timore. Questo senso di paura adesso

aumentava.

Così, egli ricondusse Gesù nell’interno del pretorio per interrogarlo

sul mistero della sua personalità: “Donde sei tu?”305, cioè sei di origine

terrestre o celeste? Gesù non diede risposta. Già durante il primo

interrogatorio, Egli aveva testimoniato abbastanza chiaramente al

giudice pagano la propria missione divina, senza ottenere nulla più

che una scettica alzata di spalle. Il mistero della sua personalità era

accessibile soltanto alla fede.

Il silenzio di Gesù indispose Pilato: per rompere questi indugi, egli

rammentò a Gesù che lui, il giudice, poteva disporre della vita

dell’imputato: “Non mi parli? Non sai che ho il potere di liberarti,

come ho il potere di crocifiggerti?”306. Di rimando, Gesù significò al

procuratore che la potestà di cui egli credeva di potersi vantare, era

una potestà di una specie particolare: “Tu non avresti alcun potere su

di me, se non ti fosse dato dall’alto”307. Queste parole non vogliono

dire, come spesso si sente spiegare, che l’autorità dello Stato è fondata

in Dio, fonte di ogni autorità (pensiero che Paolo sviluppa in Rom.

13,19); Gesù corregge, piuttosto, il sentimento ingenuo di potenza che

prova il procuratore, il quale è convinto di poter disporre della vita o

della morte di Gesù per il semplice fatto di rivestire, in quel luogo ed

in quel momento, la massima autorità. Non i diritti ed i mezzi terreni,

spettanti al detentore dell’autorità statale gli hanno dato il potere su

305 Io. 19,8-11. 306 Fabbrini, 1999, pag. 194. 307 Io. 19,11a.

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Gesù, ma una disposizione “dall’alto”, vale a dire la volontà

misteriosa di Dio; senza tale volontà, Pilato non sarebbe mai stato in

condizione di sedere in tribunale a giudicare il figlio di Dio. Nel piano

divino della redenzione, il funzionario romano è scelto, invece, per

mettere Cristo in croce, e se anche egli a ciò si ribella, dovrà cedere,

non potendo sottrarsi alle esigenze del piano divino e nemmeno alle

costrizioni d’ordine terreno, cioè, in questo caso, soprattutto alle

richieste degli Ebrei ed alla sua personale insufficienza308. “ …Perciò

chi mi ha consegnato nelle tue mani, ha maggior peccato”309: poiché

Pilato agisce contro Gesù non per impulso proprio, ma nell’esercizio

dei poteri particolari conferitigli da Dio, egli è meno colpevole degli

Ebrei, i quali sollecitano, solamente per odio e malvagità, la morte del

figlio di Dio.

Pilato comprese l’allusione al potere concesso dall’alto, nel suo

senso giusto, come risposta indiretta alla sua domanda donde Gesù

venisse. Così, interruppe l’interrogatorio, deciso a liberare il

misterioso prigioniero310. Ma, egli non riuscì a portare a compimento

il suo proposito, infatti, non appena gli Ebrei si accorsero che il

procuratore stava per ignorare definitivamente le loro richieste, essi

giocarono la loro ultima e più importante carta: “Se lo liberi, non sei

amico di Cesare; chiunque si fa re, si oppone a Cesare”311. Essi si

spingono, dunque, sino a minacciare Pilato apertamente di denuncia

all’imperatore.

308 Blinzler, 1999, pp. 304-305. 309 Io. 19,11b. 310 Io. 19,12a. 311 Io. 19,12b.

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Grottesca situazione! Il massimo funzionario imperiale di Giudea

deve lasciarsi accusare di scarsa fedeltà all’imperatore, dai

rappresentanti di una nazione nella quale covava da per tutto un odio

ardente contro la tirannide romana come in nessun’altra provincia. Per

insensata che potesse sembrare questa minaccia al governatore, egli

non poteva farsi alcuna illusione quanto alla capacità degli Ebrei di

fare sul serio: un parallelo storico, ci viene riferito da Giuseppe

Flavio, secondo il quale, il procuratore Floro temeva che gli Ebrei lo

accusassero presso l’imperatore312.

Quanto alle conseguenze fatali che questo passo avrebbe avuto per

lui, va rilevato che se il governatore fosse stato denunciato a Roma per

aver rilasciato un uomo di cui era provato che si proclamasse re dei

Giudei, egli sarebbe fatalmente caduto, presso il tribunale imperiale,

in grave sospetto di negligenza ed infedeltà, nonché di

favoreggiamento nei confronti di elementi avversi all’impero ed

all’imperatore.

Data la situazione, gli sarebbe stato difficile levarsi da quell’accusa,

così che avrebbe potuto aspettarsi di venire trattato e punito anche

come colpevole di lesa maestà313; infatti, in quel genere di cose, Roma

colpiva a fondo, senza riguardo alcuno. Proprio dell’imperatore

Tiberio, si riferisce che di nulla egli si preoccupava più seriamente,

312 Ios. Flav., Bell. 2,14,3. 313 Fabbrini, 1999, pag. 195.

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che della sicurezza del regime monarchico, e nulla puniva più

spietatamente che i pretesi delitti di lesa maestà314.

Così, sotto quest’infame minaccia ebraica, la resistenza di Pilato

crollò: maggiore della sua soggezione dinanzi alla personalità

ammantata di mistero dell’accusato, era la sua paura del cupo e

sospettoso imperatore; più importante dell’inviolabilità del diritto, gli

apparve la sua sicurezza personale315.

VII.3. Sentenza formale di condanna a morte? Il “bema”

di Pilato.

Pilato fece condurre fuori dal pretorio il prigioniero, salì sulla

tribuna e si assise sul seggio di giudice316per pronunciare il suo

giudizio pubblicamente, alla presenza dell’imputato e degli accusatori:

giudizio che non corrispondeva alla sua convinzione di giudice, ma

che la minaccia degli Ebrei aveva reso inevitabile.

Amareggiato per la parte infamante impostagli, egli diede, però,

alla sua sentenza una formulazione che doveva per forza ferire gli

Ebrei: anziché dire, riconoscendo la colpa dell’accusato: “Egli si è

fatto re dei Giudei”, Pilato si serve delle parole ironiche: “Ecco il

vostro re!”317. Quest’ultimo agisce, dunque, come se riconoscesse le

314 Suet., Tiberius 58: “Iudicia maiestatis atrocissime exercuit”; Tac., Ann. 3,38: “…addito

maiestatis crimine, quod tum omnium accusationum complementum erat”. 315 Blinzler, 1966, pp. 309-310. 316 Io. 19,13. 317 Io. 19,14.

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rivendicazioni regali di Gesù che ora deve condannare come colpevole

contro lo Stato: questo alto traditore è il vostro re. Allorché la

moltitudine inviperita gridò: “Via, via, crocifiggilo!”, il procuratore

raccolse il loro grido per imprimere a fondo nella coscienza e nella

memoria della massa, con una domanda apparentemente ironica, che

la sentenza di morte sul punto di essere pronunciata, lo era per loro

esclusiva, espressa esigenza, e, quindi, ricadeva sotto la loro

responsabilità: “Ho io da crocifiggere il vostro re?” 318. Ma anche i

gerarchi restano fedeli alla loro parte: immediatamente parano il colpo

con parole piene di significato sottinteso: “Noi non abbiamo altro re

che Cesare!” 319.

Solo allora Pilato proclamò la pena per il crimine già da lui

constatato; il crimen laesae maiestatis veniva punito con la morte e,

nelle province, di regola, con la croce. Il genere della pena di morte

doveva essere precisato dal tribunale romano. Normalmente, la

condanna alla crocifissione suonava: “Ibis in crucem!”320(Andrai sulla

croce), oppure: “Abi in crucem!”321 (Vattene in croce).

E’ vero che gli Evangelisti non dicono espressamente che Pilato

abbia pronunciato una sentenza di morte formale; da ciò, molti

studiosi hanno dedotto che la sua decisione non fosse un’emissione di

sentenza in senso proprio, ma un ordine di esecuzione, in

riconoscimento della sentenza sinedriale, o magari un abbandono

318 Io. 19,15a. 319 Io. 19,15b; cfr. Fabbrini, 1999, pag. 195.320 Petronius, Sat. 137.321 Plaut., Mostell. III 2,163.

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dell’accusato agli Ebrei, fuori da ogni formalità322. Quest’ultima

opinione (di Rosadi), non è condivisibile, poiché si fonda sul

presupposto che negli Evangeli fossero esattamente riportati tutti i

fatti giuridici essenziali del processo, ma con ciò si misconosce

totalmente il carattere proprio di essi, che non dovevano essere una

registrazione protocollare, ma, in primo luogo, dovevano fornire la

prova del significato che quegli avvenimenti rivestono nell’economia

della salvezza323.

Nemmeno Giuseppe Flavio nelle sue opere riporta una sola volta i

termini letterali delle sentenze di condanna, e neppure il fatto della

proclamazione formale di esse. Come sarebbe erroneo dedurre da ciò

che si trattasse, in tali casi, di esecuzioni senza sentenza, altrettanto

ingiustificato è trarre una conclusione del genere, dal fatto che nei

resoconti evangelici manca una menzione espressa della sentenza di

morte nel processo dinanzi a Pilato. Dunque, se veramente, come

sostiene il Rosadi324, le ultime parole di Pilato fossero consistite nella

domanda “Ho io da crocifiggere il vostro re?”, sia l’esecuzione della

crocifissione da parte di militari romani, sia la notifica del capo

d’accusa nel cartello sopra la croce, il titulus, sarebbero

incomprensibili; da entrambe queste considerazioni, si deve per forza

dedurre che Pilato condusse la cosa sino alla fine.

Insostenibile è anche l’opinione che il procuratore abbia esaminato,

sul piano amministrativo, la precedente sentenza ebraica e ne abbia,

322 Rosadi, 1949, pag. 220. 323 Blinzler, 1966, pp. 312-313. 324 Rosadi, 1949, pag. 220.

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infine, semplicemente ordinato l’esecuzione: a prima vista, è vero, a

sostegno di essa si potrebbe invocare l’espressione usata da tutti gli

Evangelisti nel riferire la decisione finale di Pilato: “Egli consegnò

Gesù, perché fosse crocifisso”. Giovanni aggiunge alla parola

“consegnò”, anche il dativo di termine “loro” (agli Ebrei), mentre

Luca dice “in loro balìa”325. Come dimostra il seguito della Passione,

non gli Ebrei, ma soldati romani diedero effetto all’esecuzione: il

“consegnare” non è, dunque, inteso in senso concreto, ma traslato; ciò

che Luca lascia comprendere già con la sua aggiunta. L’espressione

“Egli consegnò” sottolinea il fatto che Pilato, con la sua decisione,

seguì il volere degli accusatori ebraici; se tale decisione fosse poi la

convalida di un giudizio ebraico oppure una sentenza indipendente, da

quell’espressione non è chiarito. Forse gli Evangelisti l’hanno scelta

apposta perché viene usata nel testo di Is. 53,6-12, a proposito delle

sofferenze mortali del servo di Dio: per la tradizione cristiana

primitiva, la prova che, in questa decisione, si era compiuta la profezia

dell’Antico Testamento326, era assai più importante che non lo stabilire

se la decisione del procuratore fosse una condanna a morte formale o

meno.

Tutto ciò premesso, non mancano, però, indizi per affermare che

Pilato pronunciò effettivamente una sentenza giudiziaria. Già le

notizie riferite da Giuseppe Flavio e da Tacito, e l’allusione alla

condanna a morte romana in Lc. 24,20, sono da intendersi piuttosto in

325 Mc. 15,15; Mt. 27,26; Io. 19,16; Lc. 23,25. 326 Is. 53,6-12.

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questo senso, sebbene esse non giungano per se stesse a risolvere la

questione.

Un solido sostegno ci è offerto da quanto riferisce l’Evangelista

Giovanni, secondo cui Pilato emise la sua decisione “dall’alto di una

tribuna” (“epì bèmatos”)327

. Difatti, sembra certo che i dibattimenti

dinanzi al tribunale romano costituivano un nuovo processo capitale

indipendente. In questo caso, però, la condanna a morte doveva venir

proclamata dall’alto della tribuna, mentre tutte le altre sentenze e

disposizioni potevano venir emanate de plano328

.

E’ impensabile che Pilato si sarebbe installato sul seggio curule, se

avesse dovuto soltanto convalidare il giudizio ebraico ed ordinarne

l’esecuzione. Tutti gli Evangeli mostrano chiaramente che egli

pronunciò la propria sentenza solo dopo un’aspra lotta con gli

accusatori ebraici: secondo Io.19,12, fu la massiccia minaccia ebraica

di una denuncia all’imperatore a spuntarla. In uno stato d’animo

simile, nulla dovette essere più lontano dal Romano che l’intenzione

di proclamare, con particolare solennità, una decisione che gli era stata

imposta. Se egli salì sulla sedia curule, lo fece, dunque, perché ciò era

parte essenziale della procedura; in altre parole, perché doveva

pronunciare una condanna a morte.

Che effettivamente egli vi sia salito, è attestato, oltre che dalla

chiara indicazione di Giovanni, anche da una notazione in Matteo: se

qui viene, infatti, riferito che già durante il processo il procuratore si

327 Io. 19,13. 328 Mommsen, 1899, pag. 447; cfr. Blinzler, 1966, pag. 314.

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era installato sul tribunale329, resta escluso che egli abbia emanato la

sentenza finale de plano. Certo, l’Evangelo di Giovanni tradisce a sua

volta lo sforzo di sminuire la parte di responsabilità dei Romani

nell’esecuzione di Gesù, ma proprio per questo egli merita fede

quando, nonostante tutto, riferisce che dall’alto della tribuna, vale a

dire in perfetta forma legale, Pilato decise che Gesù fosse messo in

croce come re dei Giudei.

A ciò si aggiunge che il capo d’accusa con cui il procedimento

termina dinanzi a Pilato, è diverso da quello su cui era basata la

sentenza ebraica: nel processo sinedriale, Gesù era stato dichiarato

colpevole del reato di bestemmia; il delitto che formò l’oggetto

dell’interrogatorio davanti al tribunale romano e di cui, infine, Gesù fu

anche dichiarato colpevole, era il reato politico di alto tradimento330.

Pilato apre il dibattimento con la domanda: “Sei tu il re dei Giudei?”.

Egli non chiede: “Sei tu il Messia, figlio di Dio?”, come sarebbe

indicato se egli dovesse riesaminare il giudizio ebraico. Nel verdetto

di colpevolezza, che Pilato emette alla fine del dibattito, egli indica

l’imputato come “re dei Giudei”, ma, quel che più conta, proprio

questo titolo di colpa politica appare nell’iscrizione sopra la croce, che

viene attestata da tutti e quattro gli Evangeli.

Mentre, dunque, nel procedimento sinedriale si fa questione solo di

un delitto religioso, il giudice romano si occupò, dal principio alla

fine, di stabilire se sussistesse un delitto politico. La diversità delle

due accuse non è annullata dal fatto che, per caso, entrambe potevano

329 Mt. 27,19; cfr. Blinzler, 1966, pag. 314. 330 Bove, 1999, pag. 206; cfr. Fabbrini, 1999, pag. 193.

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essere ricondotte ad un solo ed identico atto, cioè alla rivendicazione,

da parte di Gesù, della dignità di Messia, figlio di Dio: la circostanza

che il titolo di Messia aveva anche un contenuto politico era

importante nella misura in cui offriva agli Ebrei una comoda via per

portare l’accusa dinanzi a Pilato; ma il procedimento davanti a Pilato

non si sarebbe svolto altrimenti ed il rapporto reciproco tra i due affari

non andrebbe altrimenti giudicato, se il Sinedrio avesse condannato

Gesù, non per le sue affermazioni messianiche, ma per qualche altra

dichiarazione blasfema (per esempio, per aver pronunciato

sacrilegamente il nome di Dio). Se nel processo romano si trattava di

un’accusa del tutto differente da quella del processo ebraico, la

decisione del procuratore non può essere stata la convalida

amministrativa del giudizio di morte pronunciata nel procedimento

degli Ebrei, ma soltanto una sentenza indipendente, risultante da un

nuovo procedimento giudiziario, basato sul diritto romano.

VII.4. L’esecuzione delle sentenze di condanna a morte.

Da quanto esaminato, si può ritenere, dunque, che le parole “Egli

lo consegnò perché fosse crocifisso”331, vanno intese nel senso che

Pilato condannò a morte Gesù. Se gli Evangelisti si fossero interessati

al lato giuridico dell’avvenimento, avrebbero scritto: “Egli lo

331 Mc. 15,15.

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condannò a morire crocifisso” oppure, con discorso diretto: “Egli

proclamò: Ibis in crucem!” .

Il giudizio aveva immediatamente forza di legge e non aveva

bisogno dell’approvazione imperiale. In linea di principio, contro la

sentenza di un delegato imperiale si poteva, è vero, interporre appello

all’imperatore, ma tale possibilità era spesso, e probabilmente anche

nel caso di Gesù, esclusa a priori proprio dalla delega, che aveva

innanzitutto lo scopo di alleviare il tribunale imperiale332.

Il giudice fissava, secondo il proprio avviso, il termine di

esecuzione della pena: di regola, la sentenza veniva applicata

immediatamente dopo la sua emissione333e nelle province si saranno

probabilmente fatte poche eccezioni; nel caso di Gesù, Pilato deve

avere ritenuto inopportuno un rinvio dell’esecuzione, anche in

considerazione dell’atteggiamento minaccioso degli Ebrei. La

prescrizione di un intervallo minimo di dieci giorni tra l’emissione e

l’esecuzione di una condanna a morte, decretata dal Senato nel 21

d.C., non valeva per i processi dinanzi al governatore, ma soltanto per

le sentenze di morte, pronunciate dal Senato stesso334.

L’esecuzione era predisposta mediante l’ordine del governatore ad

un ufficiale o ai soldati di condurre via il condannato. Il distaccamento

incaricato dell’esecuzione, a cui Gesù fu affidato, era costituito da

quattro soldati, al comando di un centurione335. Poiché i procuratori

332 D. 49,2,1,4: “Interdum imperator ita solet iudicem dare, ne liceret ab eo provocare”; cfr. Venturini, 1999, pp. 14-15. 333 Tac., Ann. 3,51. 334 Tac., Ann. 3,51; Suet., Tiberius 75; Dio C., 57,20,4. 335 Io. 19,23.

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non disponevano di legioni, ma solo di truppe ausiliarie, poteva

trattarsi, dunque, di membri di una coorte ausiliaria. Le truppe

ausiliarie del procuratore di Giudea si reclutavano nella popolazione

non ebrea della Palestina, cioè principalmente tra i Siri ed i

Samaritani, i quali erano, per lo più, nemici accaniti degli Ebrei.

In luogo del manto di porpora che Gesù portava dalla scena

dell’oltraggio, i soldati gli restituirono le sue vesti336. Di solito, i

condannati a morte venivano condotti svestiti al luogo esecuzione,

perché, per istrada, venivano fustigati, mentre portavano le travi337.

Forse questo costume non fu seguito per Gesù, dato che questi era già

stato flagellato; ma fors’anche i Romani evitavano in ogni modo, in

Giudea, di condurre per la città, un delinquente svestito, dato che, per

gli Ebrei, ciò era indecente: un ulteriore privilegium iudaicum.

In nessun luogo si dice che la corona di spine gli sia stata tolta,

ragion per cui, già nel II-III sec., era opinione corrente che Gesù fosse

morto con la corona di spine in capo. Pilato aveva tollerato quella

mascherata solo perché sperava di poter dare, con ciò, una piega

migliore alla situazione dell’accusato338; ora la speranza era svanita, e

certamente ai soldati romani non era, d’altronde, permesso deridere

pubblicamente l’Ebreo.

Dalla flagellazione, che precedeva sempre la crocifissione, ci si

astenne, perché Gesù vi era già stato sottoposto. Una ripetizione del

supplizio avrebbe certamente causato la sua morte, ed agli Ebrei,

336 Mc. 15,20a. 337 Valerius Max., 1,7,4 : “ …verberibus mulctatus sub furca ad supplicium”; cfr. Cantarella, 1999, pag. 215. 338 Io. 19,4.

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invece, premeva molto che Egli morisse sulla croce, come “maledetto

da Dio!”339.

339 Deut. 21,22-23.

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Capitolo VIII

Fase esecutiva: la crocifissione.

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VIII.1. L’infamia della crocifissione.

“Nomen ipsum crucis absit non modo a corpore civium

Romanorum, sed etiam a cogitatione, oculis, auribus.”= Il nome

stesso di croce deve restare lungi, non solo dal corpo dei cittadini

romani, ma anche dai loro pensieri, dai loro occhi e dal loro orecchio:

così esclamò una volta, il massimo oratore romano, Marco Tullio

Cicerone340.

Che la crocifissione sia uno dei più orrendi castighi inventati dalla

crudeltà umana, era cosa unanimemente riconosciuta già dagli antichi.

Lo stesso Cicerone la chiama altrove “la più crudele e spaventevole

pena di morte”341; Tacito parla della “pena di morte degli schiavi”342;

Giuseppe Flavio, del “più miserando tra tutti i generi di morte”343ed il

giurista Callistrato, della “massima pena” a cui si può paragonare solo

quella d’esser bruciati vivi344.

La triste nomea di aver inventato o almeno di aver per primi

applicato ufficialmente e frequentemente questo genere d’esecuzione,

viene attribuita, a quanto pare, ai Persiani345. Forse essi si servirono di

questo metodo perché la terra consacrata ad Ormuzd non doveva

essere contaminata dal corpo di un giustiziato.

Più tardi, si trova la croce come sistema di esecuzione all’epoca di

Alessandro Magno; presso i sovrani diadochi e, soprattutto, presso i 340 Cic., Pro Rabirio 5,16; cfr. Cantarella, 1999, pag. 215. 341 Cic., In Verrem II 5,64,165. 342 Tac., Hist. 4,11. 343 Ios. Flav., Bell, 7,6,4. 344 Callistratus, Dig, 48,19,28.345 Herod. 1,128; Thuc., 1,110,3.

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Cartaginesi. Da Cartagine, la crocifissione venne importata a Roma,

dove veniva inflitta ai grandi criminali: ladri sacrileghi, disertori e,

soprattutto, rivoltosi e rei di alto tradimento346.

Nelle province romane, questa pena era uno dei mezzi principali

per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza e, specialmente la

storia dell’inquieta provincia di Giudea, conobbe innumerevoli

esecuzioni di questo genere: intorno al 46 d. C., il procuratore Tiberio

Alessandro, ebreo rinnegato e nipote del celebre filosofo Filone, fece

crocifiggere entrambi i figli (Giacomo e Simone) di Giuda Galileo,

capo di bande partigiane347; Ummidio Quadrato, governatore di Siria

intorno al 52-53 d. c., mise in croce tutti i sobillatori fatti prigionieri in

Samaria dal procuratore Cumano348; Giuseppe Flavio definisce

innumerevole la quantità degli insorti che il procuratore Felice inviò

sulla croce durante la sua procura dal 52 al 60 d.C.349, mentre l’ultimo

procuratore, Gessio Floro (64-66), inflisse questa pena persino a

cavalieri romani di origine giudaica350.

Durante l’assedio di Gerusalemme, cinquecento e più ebrei prigionieri

vennero giornalmente crocifissi in tutte le posizioni possibili dinanzi

alla città, tanto che, alla fine, vennero a mancare il legno per le croci e

lo spazio per innalzarle351.

346 D. 48,13,6. 347 Ios. Flav., Ant. 20,5,2. 348 Ios. Flav., Bell. 2,12,6. 349 Ios. Flav., Bell. 2,13,2, Ant. 20,6,2. 350 Ios. Flav., Bell. 2,14,9. 351 Ios. Flav., Bell. 5,11,1.

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Ai cittadini romani, questa pena infamante non poteva essere

inflitta352, ma ben spesso, specialmente all’epoca della decadenza

dell’impero, accadeva che governatori tirannici non si curassero del

divieto, come dimostra l’esempio di Gessio Floro oppure ancor prima,

in età repubblicana, quello ben noto del famigerato Verre, che, da

governatore di Sicilia, fece crocifiggere in riva allo stretto di Messina,

un cittadino romano con lo sguardo rivolto alla costa italiana, a

dimostrargli, con raffinata crudeltà, l’inutilità della sua cittadinanza.

Il diritto penale ebraico non conosceva la crocifissione: l’affissione

al palo, che secondo il diritto ebraico veniva applicata agli idolatri ed

ai bestemmiatori dopo la lapidazione, non era una pena di morte, ma

una pena addizionale, inflitta dopo che la morte era già sopravvenuta e

che doveva servire solo a bollare il giustiziato coma maledetto da Dio,

secondo Deut. 21,23: “Chiunque venga appeso al palo, è maledetto da

Dio”. L’ebraismo estese questa parola anche ai crocifissi; dunque, se

la crocifissione già agli occhi del mondo pagano era la pena di morte

più ignominiosa e disonorevole, per gli Ebrei dell’epoca di Gesù, chi

veniva crocifisso era per di più considerato anche maledetto da Dio.

Questa particolare concezione religiosa, deve essere presa in

considerazione, al fine di capire perché mai gli Ebrei esigessero per

Gesù proprio la morte sulla croce.

La crocifissione veniva eseguita in vari modi, secondo le

circostanze ed anche secondo il capriccio dei carnefici. L’opinione

molto diffusa, secondo cui il condannato sarebbe stato fissato sulla

352 Cic., In Verrem II 5,62,162-165; cfr. Cantarella, 1999, pag. 214.

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croce già pronta, è certamente inesatta. Il procedimento era il

seguente: il condannato veniva spogliato e dopo inflitta la

flagellazione - che nel caso di Gesù era già avvenuta - veniva

inchiodato con le braccia aperte, steso a terra, al legno trasversale che

egli stesso aveva dovuto portare sino al luogo del supplizio353. La

traversa veniva poi issata con il corpo ed assicurata al palo infisso

verticalmente nel terreno, e sul palo venivano poi inchiodati i piedi.

Un ceppo di legno, fissato circa a metà del palo, sosteneva il corpo

stesso; i resoconti antichi non parlano di un sostegno per i piedi, il

cosiddetto sedile.

La croce formata dal palo verticale, detto stipes, e dalla traversa,

detta patibulum, aveva la forma di una T (crux commissa) oppure di

un + (crux immissa o capitata)354

.

L’altezza della croce variava: per lo più, superava di poco l’altezza

di un uomo, così che i piedi del crocifisso quasi toccavano terra; sotto

Domiziano, la fine del famigerato bandito Laureolo, che era caduto

vittima delle belve, fu rappresentata nell’anfiteatro col far sbranare da

un orso un condannato appeso ad una vera croce355; tra le strane

passioni di Nerone, v’era quella di avvolgersi nella pelle d’una belva e

così aggredire e tormentare crudelmente persone crocifisse356. In

entrambi questi casi, la croce doveva essere bassa. Talvolta, però, per

qualche motivo speciale - sia per impedire una morte rapida provocata

dalle bestie, sia perché il delinquente fosse visibile il più lontano

353 Artemid., Oneir. 2,56. 354 Blinzler, 1966, pp. 330-332; cfr Cantarella, 1999, pag. 215. 355 Mart., Spectac. 7. 356 Suet., Nero. 29.

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possibile - si sceglieva una croce alta, detta sublimis; così, Cesare

Galba in Ispana, fece affiggere un assassino condannato a morte, il

quale si era appellato alla propria cittadinanza romana, ad una croce

particolarmente alta e dipinta di bianco357. Anche la croce di Gesù

dev’essere stata più alta del normale, poiché il soldato gli tese la

spugna della pozione, non con la mano, ma con una canna358. Si può,

dunque, dedurre che i piedi venissero a trovarsi circa ad un metro dal

suolo. Così si comprende anche l’apostrofe scherzevole dei sommi

sacerdoti che stavano ai piedi della croce: “Che dunque scenda adesso

dalla croce!”359; in ogni modo, Gesù fu veramente, come aveva

preannunciato, “innalzato” in croce360.

Il condannato veniva assicurato alla croce, a volte con corde, a

volte con chiodi, talora con entrambi361. Che Gesù fosse inchiodato, si

ricava dai racconti della Risurrezione, secondo i quali Gesù mostrò

agli Apostoli, i segni dei chiodi sulle sue mani362. Anche i piedi furono

inchiodati e, precisamente, ognuno separatamente363. Le sofferenze

fisiche erano, in tal caso, maggiori che non per le corde, ma di regola

duravano meno, perché la morte veniva accelerata dalla maggior

perdita di sangue. Se, a quanto dicono antiche testimonianze, alcuni

357 Suet., Galba 9. 358 Mc. 15,36. 359 Mc. 15,32. 360 Io. 3,14; 8,28; 12,32-34. 361 Sull’essenzialità e tipicità dell’uso dei chiodi, si veda Cantarella, 1999, pp. 220-222. 362 Sul dibattito concernente “Le mani o i polsi?”, si veda Cantarella, 1999, pp. 222-223. 363 Sul dibattito concernente lo stipes: “uno o due chiodi per i piedi?”, si veda Cantarella, 1999, pp. 223-225.

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crocifissi a volte morivano solo dopo qualche giorno, si trattava senza

dubbio, di condannati avvinti alla croce con le corde364.

Se per qualche ragione si voleva accelerare la morte di un

crocifisso, gli si spezzavano gli arti inferiori con sbarre di ferro: il

cosiddetto crurifragium365

.

VIII.2. La “passeggiata ignominiosa”; il vituperio e la

morte in croce di Gesù.

Gli avvenimenti intercorsi tra la condanna e la morte di Gesù, nella

misura in cui sono rilevanti ai fini di un giudizio sul processo, si

presentano, in base ai racconti evangelici ed a testimonianze unanimi

extrabibliche, come segue: dal pretorio, cioè dal palazzo di Erode,

Gesù, insieme a due altri condannati, fu condotto dal drappello di

esecuzione, al luogo del supplizio. Secondo il costume ebraico e

romano, le esecuzioni avevano luogo fuori dall’abitato366; il posto in

cui Gesù fu crocifisso, si trovava oltre le mura, ma vicino ad esse367 e

si chiamava Golgotha = Cranio; si trattava di un luogo che,

evidentemente, da lontano rammentava un cranio, dunque, di una

collina o di una roccia tondeggiante e nuda. La maggior parte degli

archeologi ammette che questo luogo si trovi entro l’odierna chiesa

del Santo Sepolcro. Sin laggiù, dunque, Gesù doveva portare la sua 364 Blinzler, 1966, pag. 332. 365 Mommsen, 1899, pag. 920; cfr. Cantarella, 1999, pag. 225. 366 Lev. 24,14; Num. 15,35; Bell. 4,6; Plaut., Miles glor. II 4; cfr. Cantarella, 1999, pag. 215. 367 Io. 19,20.

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croce, cioè la trave trasversale, il patibulum368

; e lo fece per un tratto

effettivamente, ma ben presto, i soldati costrinsero un uomo che

sopraggiungeva dalla campagna, un certo Simone di Cirene, a togliere

a Gesù quel carico ed a portarlo sino al luogo dell’esecuzione369. Se ne

deduce che Gesù era già troppo indebolito dalla flagellazione patita,

per poter trascinare Egli stesso il legno.

Sulla via del patibolo, il delinquente recava appeso sulle spalle, un

cartello, una tavoletta imbiancata a calce, il titulus, sulla quale era

iscritta la causa poenae, la motivazione della condanna, poiché chi

assisteva all’esecuzione, doveva sapere da quali comportamenti

astenersi, se voleva evitare una sorte analoga370. Sotto Marco Aurelio,

un cristiano di nome Attalo, venne condotto intorno per l’anfiteatro di

Lione, con una tavola recante le parole latine: “Hic est Attalus

christianus”371

: la colpa di quell’uomo consisteva, dunque,

nell’essersi confessato cristiano. Se l’esecuzione avveniva per croce, il

cartello con l’iscrizione della colpa, alla fine dell’esecuzione, veniva

fissato bene in vista, sulla croce stessa.

Nel caso di Gesù, il cartello fissato sulla croce, portava, in lettere

nere o rosse su un fondo bianco, l’iscrizione: “Gesù di Nazareth, re

degli Ebrei”372. Affinché fosse intesa dal maggior numero possibile di

persone, quest’iscrizione era redatta in tre lingue: aramaico, latino e

greco373. Il testo di ques’ultima era opera di Pilato, il quale voleva

368 Cantarella, 1999, pag. 217. 369 Mc. 15,21. 370 Suet., Calig. 32; Dio Cass. 54,3,7; cfr. Cantarella, 1999, pag. 217.371 Eus., Hist. Eccl. V 1,44.372 Io. 19,19. 373 Io. 19,20.

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irritare gli Ebrei, mediante la maligna redazione dei motivi di

condanna; ed, infatti, essi ne furono immediatamente urtati: i sommi

sacerdoti si presentarono al procuratore per ottenere che al posto di “re

degli Ebrei”, si facesse scrivere “Egli ha detto: Io sono il re degli

Ebrei”. Ma, stavolta, il Romano fu inflessibile: con un laconico “quel

che ho scritto, ho scritto”, egli congedò i postulanti374.

E così, con la carne a brandelli, il patibulum sulle spalle ed il

titulus al collo, il condannato compiva la “passeggiata ignominiosa”,

che lo conduceva al luogo dell’esecuzione375.

Al pari della flagellazione, anche la passeggiata ignominiosa

poteva essere, sia una pena autonoma, sia una pena accessoria alla

sentenza capitale. Come dice il nome con cui viene indicata, essa

consisteva in un percorso che il condannato era costretto a compiere

attraverso la città, esposto allo sguardo dei concittadini ed alla

vergogna che ne derivava. Ma, nel caso di Cristo, avvenne un fatto

straordinario: se era abituale, o quantomeno se poteva accadere, che i

condannati fossero accompagnati al patibolo dal pianto dei parenti più

stretti, la “passeggiata” di Cristo fu seguita da una vera e propria folla

di amici e seguaci: “Lo seguiva gran moltitudine di popolo e di donne

che si lamentavano e lo piangevano”, scrive Luca376.

E’ anche vero che, accanto agli amici, stavano i soldati ed un gran

numero di spettatori, tutt’altro che ben disposti nei suoi confronti377.

Per antica usanza, ai carnefici spettava quanto veniva lasciato dal

374 Io. 19,21. 375 Cantarella, 1999, pag. 218. 376 Lc. 23,27. 377 Cantarella, 1999, pag. 219.

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giustiziato (si intendono solo le spolia o pannicularia, cioè ciò che il

giustiziato portava indosso)378. I quattro soldati si spartirono, dunque,

le vesti di Gesù; la sottoveste, il chitone simile ad una camicia, era

tessuto in un sol pezzo e senza cuciture, ragion per cui, i soldati non la

tagliarono in quattro, ma la tirarono a sorte.

Una parte di tale folla, tra cui soprattutto membri del Sinedrio, si

diffuse in sarcasmi spietati sul Messia, appeso impotente in croce; si

alluse anche ironicamente alla frase di Gesù sul Tempio, di cui si era

discusso nel processo ebraico: “Eh! Tu che distruggi il Tempio di Dio,

ed in tre giorni lo riedifichi, salva te stesso e scendi dalla croce!379.

Secondo Luca, anche i soldati ed uno dei ladroni, compagni di

crocifissione, si unirono agli scherni.

Secondo la tradizione talmudica380, donne rispettate di

Gerusalemme usavano dare ai condannati a morte, prima

dell’esecuzione, una bevanda stupefacente per renderli meno sensibili

alle sofferenze; con tale usanza caritatevole, esse si attenevano alla

parola dell’Antico Testamento: “Date una bevanda inebriante a colui

che è votato alla morte”381. Anche a Gesù, giunto sul Golgotha, venne

offerto - probabilmente da donne ebree e non dai soldati romani,

trattandosi di costume ebraico - un narcotico, nella fattispecie, vino

misto a mirra382, ma Egli lo rifiutò: voleva soffrire in piena coscienza i

tormenti che lo attendevano.

378 Blinzler, 1966, pag. 337. 379 Mc. 15,29. 380 Sanh. 43a. 381 Prov. 31,6. 382 Mc. 15,23.

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Gli Evangelisti non ci descrivono il comportamento di Gesù

durante le sofferenze della morte; questo è solo accennato nelle notizie

sulle estreme parole del crocifisso383. Secondo Marco e Matteo, Gesù

immediatamente prima di spirare pronunciò ad alta voce, le

sconvolgenti parole di preghiera del Salmo 22: “Eloi, Eloi! Lama

sabachthani?”- Mio Dio, mio Dio! Perché mi hai abbandonato?384. L’

attimo della morte fu, poi, preceduto da un grido inarticolato385. Luca

tramanda tre frasi di Gesù sofferente sulla croce: l’intercessione per i

suoi carnefici, formulata durante o subito dopo la crocifissione:

“Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno”; la promessa

al ladrone pentito: “In verità ti dico, oggi sarai con me in Paradiso”, ed

il grido della morte: “Padre, nelle tue mani rimetto il mio Spirito!”386.

Secondo Giovanni, Gesù, dall’alto della croce, affidò l’uno all’altro

sua madre ed il discepolo prediletto; più tardi chiese da bere: “Ho

sete!” e, dopo che fu porta la spugna imbevuta di poska,

immediatamente prima di esalare lo Spirito, gridò: “Tutto è

compiuto!”387. L’esegesi tradizionale giustappone tutte queste

espressioni tramandateci, mettendo insieme così le sette ultime parole

del Cristo in croce.

Quel che è chiaro, è che Gesù restò pienamente cosciente sino

all’ultimo e che i pensieri del morente erano rivolti al Padre celeste.

Durante l’ora nona, poco dopo le tre, Gesù rese lo Spirito388.

383 Blinzler, 1966, pp. 339-340. 384 Cantarella, 1999, pag. 226. 385 Mc. 15,34-37. 386 Lc. 23,34-46. 387 Io. 19,26. 388 Mc. 15,34-37.

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Il medico Pierluigi Baima Bollone sostiene che la morte di Gesù fu

dovuta ad una pluralità di fattori, tra cui la fatica, il dolore, lo shock e

la disidratazione, a cui si sovrappongono l’asfissia meccanica da

crocifissione ed, alla fine, un’ischemia cardiaca terminale, del tutto

attendibile in un soggetto lungamente provato, disidratato e, quindi, in

una situazione di sangue iperdenso, iperviscoso e povero o privo di

ossigeno. Proprio un episodio ischemico di questo genere, provoca

facilmente un’intensissimo dolore, un grido ed una morte, quali quelli

descritti nei Vangeli389.

Questa morte senza precedenti (Matteo e Luca enumerano

espressamente anche i prodigi naturali che la seguirono, poiché anche

il creato era in lutto: eclisse di sole e terremoto390), fece sul centurione

romano, che stava di fronte al crocifisso a sorvegliare l’esecuzione (e

poteva perciò seguire esattamente tutte le fasi del dramma),

un’impressione così travolgente che egli esclamò: “Veramente

quest’Uomo era figlio di Dio!”391. Tali parole costituiscono il primo

giudizio emesso, dopo la conclusione del processo, sul processo

stesso, da parte non interessata: furono una solenne dichiarazione

dell’innocenza del giustiziato e, come tali, un solenne “J’accuse”

contro i suoi giudici.

389 Baima Bollone, 2003, pp. 56-70. 390 Mt. 27,54; Lc. 23,47. 391 Mc. 15,39.

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VIII.3. Il crurifragium e la sepoltura.

Data l’importanza che gli Ebrei annettevano alla sepoltura, non

desta meraviglia il fatto che la prima iniziativa per l’allontanamento

dei tre crocifissi dal Golgotha sia venuto da parte giudaica.

L’Evangelista Giovanni, il quale solo ce ne dà notizia, sottolinea

l’urgenza di tale misura, accennando che il sabato (dunque, il primo

giorno della festa di Pasqua, che al calar del sole stava per iniziare),

era “un grande sabato”392. Egli vuol dire che, secondo Deut. 21,23, si

temeva una “contaminazione del paese” per i cadaveri lasciati esposti

la notte; ciò che, in certi casi, avrebbe escluso parecchi Ebrei dalla

partecipazione alla festa rituale.

Gli Ebrei, cioè verosimilmente alcuni membri del Sinedrio,

presentarono, perciò, richiesta al procuratore di far eseguire sui tre

condannati, il crurifragium393

, affinché le tre salme potessero poi

essere asportate. Pilato non aveva alcun motivo per respingere la

domanda, perciò i soldati romani andarono ed uccisero entrambi i

ladroni, crocifissi insieme a Gesù, fracassando loro, con clave di ferro,

le ossa delle gambe. Ma, per Gesù, essi vi rinunciarono, avendo

constatato che era già spirato. Tuttavia, per essere più sicuri che Egli

non venisse, eventualmente, deposto dalla croce, avendo in sé ancora

una scintilla di vita, uno di essi lo trafisse vicino al cuore, con una

392 Io. 19,31. 393 Mommsen, 1899, pag. 920; cfr. Cantarella, 1999, pag. 225.

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lancia. La fuoriuscita di sangue ed acqua gli dimostrò che la morte era

davvero sopraggiunta394.

Secondo la concorde testimonianza dei quattro evangelisti, la

deposizione di Gesù dalla croce e la sua inumazione, furono intraprese

da un certo Giuseppe d’Arimatrea395. Di solito, quest’operazione

spettava ai parenti ed amici intimi, ma dei parenti, all’infuori di sua

madre, si trovavano allora in Gerusalemme, al massimo i “fratelli” di

Gesù ed, evidentemente, questi, proprio come gli Apostoli ed i

discepoli, ad eccezione di Giovanni, si tennero nascosti per paura396.

In questa situazione, c’era bisogno di un uomo cui non mancassero

decisione, coraggio ed influenza: Giuseppe d’Arimatrea rispondeva a

questi requisiti. Egli era membro del Sinedrio ed, inoltre, era un Ebreo

pio, in nostalgica attesa del tempo della salvezza e persino un

discepolo di Gesù, che, per verità, teneva segreta questa sua qualità

per timore degli Ebrei. Giuseppe si decise a richiedere al procuratore

romano il cadavere di Gesù, per potergli rendere gli estremi onori397.

Questa richiesta costituiva un rischio, perché sarebbe stata per forza

considerata come un’adesione alla idee del condannato-giustiziato; ma

Pilato la accolse egualmente di buon grado, mostrandosi solo sorpreso

della morte relativamente rapida di Gesù, facendo poi mettere a

disposizione la salma398. Giuseppe non agiva da solo, infatti, viene

menzionata espressamente la partecipazione di un altro membro del

394 Io. 19,32-34. 395 Mc. 15,42-46: Mt. 27,57-60; Lc. 23,50-53; Io. 19,38-42; cfr. Cantarella, 1999, pag. 226. 396 Mc. 14,50. 397 Cantarella, 1999, pag. 227. 398 Io. 19,38.

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Consiglio, Nicodemo, il quale portò una mistura di mirra ed aloe di

circa cento libbre ( kg. 32,7).

Dopo che il corpo di Gesù fu avvolto in panni di lino freschi, lo si

portò nel sepolcro, che, come i Sinottici ci riferiscono, era scavato in

una roccia. Il morto venne disposto su di un banco di pietra o in

un’arca di pietra e l’entrata, per metterlo al sicuro dagli animali, fu

chiusa con un grosso masso. La tomba di Gesù era nuova e non aveva,

sino ad allora, accolto alcun cadavere. Giovanni, che annetteva tanta

importanza al fatto che vita, passione e morte di Gesù si svolgessero

secondo un piano divino eterno, esprime qui questa convinzione: se

Gesù non è stato sepolto nel cimitero dei delinquenti, in una località

più discosta dalla città, ma in un dignitoso sepolcro particolare, ciò

avvenne per decreto di Dio, che aveva stabilito in modo adeguato, il

giorno e l’ora della sua morte, così, per altro, adempiendosi la

profezia di Isaia 53,9: “Gli avevano assegnato la sepoltura con gli

empi, ma alla sua morte fu posto col ricco, perché non aveva

commesso alcuna violenza e non c’era stato alcun inganno nella sua

bocca”. La ristrettezza di tempo spiega anche perché gli Ebrei non

sollevarono obiezioni contro la deposizione di Gesù in una tomba di

tutto rispetto.

Poiché, secondo le leggi del tempo, la consegna del cadavere di un

giustiziato per lesa maestà e la sua dignitosa sepoltura non erano

affatto la regola, specialmente allorché la richiesta non proveniva da

un parente, questa circostanza conferma in pieno il quadro che di

Pilato ci danno gli Evangelisti: soltanto se è esatto che Pilato non

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considerava Gesù un delinquente politico e che ne aveva pronunciato

la condanna a malincuore, si spiega che egli abbia consentito alla

riconsegna del cadavere, senza porre alcuna condizione o

imposizione399.

Finisce così la storia del processo e condanna a morte di Gesù ed

inizia quella delle conseguenze di essi e delle relative ripercussioni

giuridiche, politiche e sociali.

399 Blinzler, 1966, pag. 359.

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Appendice I

La condanna a morte di Gesù:

Colpa dei Romani o degli Ebrei?

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I.1. La critica di Lietzmann e di Cohn alla ricostruzione

“tradizionale” del processo.

Contro la ricostruzione del processo che potremmo definire

“tradizionale”, sono state mosse numerose obiezioni; quest’ultime

muovono tutte dalla constatazione inoppugnabile che Gesù è stato

messo a morte dai Romani, non dai Giudei, e riguardano non il

processo davanti a Pilato, la cui realtà - presupposto giuridico

essenziale della condanna alla crocifissione - non viene messa in

dubbio da nessuno (quella che eventualmente può essere messa in

dubbio, e lo è stata più volte, è soltanto la sua natura formale di

processo), ma il processo davanti al Sinedrio giudaico. Fu Juster400,

nel 1914, a sostenere per primo che, poiché il Sinedrio al tempo di

Gesù aveva ancora il potere di condannare a morte, se Gesù non fu

lapidato, ma crocifisso, sono stati evidentemente i Romani, non i

Giudei a processarlo e condannarlo; la narrazione del processo davanti

al Sinedrio, da parte di Marco, sarebbe, dunque, assai poco credibile.

Da allora, molte altre obiezioni sono state avanzate contro il

racconto di Marco; le più forti rimangono ancor oggi, quelle poste

dallo storico berlinese della chiesa antica Hans Lietzmann, nell’ormai

lontano 1931401, ma riprese più volte ed in vario modo, soprattutto da

una storiografia ebraica “comprensibilmente desiderosa di scagionare

le autorità giudaiche dalla responsabilità primaria della morte di

400 Juster, 1914, pag. 102. 401 Lietzmann, 1931, pp. 313-322.

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Gesù”, così scrive - con mia piena condivisione - Giorgio Jossa402. Tra

gli esponenti di questo indirizzo storiografico, ricordiamo Winter, che

si basa su un’analisi accuratissima - ma troppo rigida e radicale - dei

testi evangelici, dal punto di vista esclusivo della storia delle forme, e

sulla sua scia, più di recente, Chaim Cohn403, il quale si rifà ad un

largo - e senz’altro discutibile - riferimento alla letteratura rabbinica

ed alle sue regole procedurali, ma, come affermato da Remo Martini,

dando l’impressione di discutere di processo romano, senza

un’adeguata conoscenza dei vari sistemi processuali, che oltretutto si

susseguirono nel corso del tempo404.

Siffatte obiezioni sono, sostanzialmente, quattro: anzitutto, si rileva

che al processo di Gesù davanti al Sinedrio, non ha assistito alcuno dei

suoi discepoli. Come Marco stesso deve ammettere, solo Pietro ha

seguito il Maestro nella casa del sommo sacerdote, rimanendo, però,

in cortile con i servi, ma nessun discepolo ha visto e sentito quel che

succedeva all’interno del Sinedrio. Il racconto di Marco non potrebbe,

quindi, ritenersi attendibile, perché non poggia su una testimonianza

oculare o auricolare.

La seconda obiezione poggia sulla considerazione che il testo in

esame405è incastonato in quello del rinnegamento di Pietro. Sembra,

dunque, suggerire un’inserzione successiva da parte dell’Evangelista;

questo carattere “redazionale” del testo, toglierebbe credibilità alla sua

402 Jossa, 2002, pag. 63. 403 Cohn, 1997, pp. 147-160; per le tesi di Cohn, si vedano §I.2; §I.3. 404 Martini, 2003, pag. 543 ss; cfr. Jossa, 2002, pag. 72. 405 Mc.14,55-65.

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narrazione, che non appare fondata su una tradizione storica vicina

agli avvenimenti406.

Altra obiezione è che Mc.15,1 accenna ad una riunione mattutina

del Sinedrio, in cui si doveva solo decidere la consegna di Gesù ai

Romani e che non presenta, quindi, il carattere di procedimento

giudiziario, rispetto a cui, quella notturna narrata in Mc.14,55-65,

appare come un doppione. Ciò confermerebbe il carattere di

inserzione tardiva del racconto precedente del processo, che potrebbe

essersi sviluppato a partire, appunto, da questa scarna notizia, fornita

dalla tradizione.

Infine, più importante di tutto, non sarebbe vero (come sostenuto

da Juster407) che all’epoca del processo contro Gesù (circa il 30 d.C.),

il Sinedrio non aveva più il potere di mettere a morte408. Molti

elementi (primi tra tutti, l’uccisione del cristiano “ellenista” Stefano

per ordine del Sinedrio, narrata da Luca negli Atti degli Apostoli409, ed

il privilegio concesso ai Giudei dai Romani di uccidere lo straniero

che oltrepassasse le barriere del Tempio), provano il contrario. Se,

quindi, i sinedriti avessero veramente processato e condannato Gesù,

come vuole Marco, non lo avrebbero consegnato al prefetto romano,

per la crocifissione, ma lo avrebbero messo a morte essi stessi (con la

pena della lapidazione).

Ciascuna di queste obiezioni è apparsa confutabile: che i discepoli

di Gesù non abbiano assistito al processo davanti al Sinedrio, anche se

406 Jossa, 2002, pag. 64. 407 Juster, 1914, pag. 113. 408 Jossa, 2002, pag. 64. 409 Act.7,54.

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vero, è probante, giacché ben avrebbero potuto informarsi,

sicuramente conoscendo qualcuno dei sinedriti (si ricorda il già

menzionato Giuseppe d’Arimatrea); per loro, era troppo importante

sapere come si erano svolti realmente gli avvenimenti, perché non

facessero ogni sforzo in questo senso.

La seconda obiezione non ha maggior valore: che il racconto del

processo davanti al Sinedrio sia incorniciato da quello del

rinnegamento di Pietro, non vuole dire che costituisca un’inserzione

tardiva. L’incastro degli episodi trasmessi dalla tradizione appartiene

alla tecnica letteraria di Marco, il quale spesso interrompe una

narrazione per inserirne un’altra, volendo evidentemente contrapporre,

con questa tecnica compositiva ed in quella sede, la debolezza di

Pietro alla forza di Gesù. Se di un episodio si volesse contestare la

storicità, questo sarebbe, in effetti, il rinnegamento di Pietro, non il

processo di Gesù. Ma non c’è motivo di negare la realtà di nessuno dei

due fatti410.

Le altre due obiezioni, anche se più rilevanti, neppure sembrano

molto fondate. Non è vero, infatti, che Mc.15,1 faccia apparire

Mc.14,55-65, come un doppione e confermi, quindi, il carattere di

inserzione tardiva del racconto del processo. Nella sua forma attuale,

il passo di Marco non parla, infatti, di un’altra riunione del Sinedrio,

ma soltanto dell’esito di quella notturna. Secondo Jossa, l’espressione

del Vangelo va tradotta, non “tenuto consiglio”, ma “preparata una

410 Jossa, 2002, pag. 65.

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decisione”, “approntata una delibera”411. Dunque, per Marco, si tratta

della conclusione del processo tenuto dai sinedriti nel corso della notte

e protrattosi fino all’alba. Certo, con quell’ “E subito”, la sutura con il

brano precedente appare molto labile e tipicamente marciana. Rivela,

quindi, la mano dell’Evangelista: Marco vuole riprendere il filo del

racconto, interrotto col rinnegamento di Pietro. Dunque, non è detto

che il racconto del processo notturno sia stato costruito da Marco sulla

base di un’interpretazione erronea dei dati della tradizione, bensì

significa soltanto che Marco ha dato unità e continuità ad episodi che

potevano avere in origine (cioè nella tradizione raccolta da Marco),

natura e collocazione diverse. Una maggior distinzione tra una fase

istruttoria, condotta personalmente dal sommo sacerdote Anna nella

sua abitazione, ed una fase propriamente processuale, dinanzi a “tutto

il Sinedrio” e nel suo luogo abituale di riunione (che dovrebbe essere

comunque sempre nel palazzo di Caifa, nella città alta), è certamente

possibile, ma non cambia la sostanza della cose, perché almeno da

Mc.14,60 (cioè la prima domanda del sommo sacerdote, fatta da Caifa,

levandosi “in mezzo” all’assemblea, quindi, evidentemente nel

Sinedrio disposto in circolo, come prescrive la Mishnà per i

procedimenti dinanzi alla corte rabbinica di giustizia e come doveva

essere regola per il Sinedrio già al tempo di Gesù), si evince che

quello è stato di certo un processo (che si conclude per lui, con un

giudizio di condanna).

411 Jossa, 2002, pag. 66.

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L’obiezione più seria (ma, in realtà, neppure essa decisiva) rimane

quella relativa ai poteri giudiziari del Sinedrio giudaico nel periodo

della dominazione diretta dei Romani, quindi, dal 6 al 66 d.C., (già in

parte trattata al capitolo I ). In effetti, l’incompetenza del Sinedrio di

Gerusalemme ad emettere, o almeno ad eseguire, sentenze capitali,

non è affermata soltanto da Gv.18,31 (“A noi non è consentito mettere

a morte nessuno”), ma anche da Giuseppe Flavio, il quale, nelle sue

due opere maggiori, scrive che, quando, nel 6 d.C., la Giudea divenne

provincia romana, vi fu mandato da Augusto un procuratore (in realtà

sappiamo dall’iscrizione di Cesarea, che si trattava di un prefetto)

dell’ordine equestre, di nome Coponio, con tutti i poteri, compreso

quello di “mettere a morte412. Questo sembra significare che, con la

riduzione della Giudea a provincia romana, la competenza sui reati

capitali commessi dai sudditi non era più del tribunale locale del

Sinedrio, ma del governatore romano413. E’ vero che l’affermazione di

Giuseppe riguarda soltanto il momento dell’istituzione della nuova

provincia ed i poteri del suo primo prefetto, Coponio, ma non abbiamo

alcun motivo per pensare che le stesse prerogative non siano state

riconosciute anche ai successivi prefetti. Il potere di mettere a morte di

questi magistrati provinciali, non è altro, infatti, che un aspetto di

quell’imperium sui sudditi che essi esercitavano, in quanto governatori

per delega del principe414. Ciò trova conferma in quello che sappiamo

dalle fonti dell’organizzazione normale delle province, dove, se è vero

412 Ios. Flav., Bell. 2,117; Ant. 18,2. 413 Jossa, 2002, pag. 66. 414 Venturini, 1999, pag. 34; Santalucia, 1999, pag. 103.

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che i romani usavano lasciare una certa autonomia agli organi locali di

governo, è anche vero che non rinunciavano mai al loro potere di

controllo, riservandosi, in generale, il diritto di condannare a morte. I

pochi casi che si citano in contrario hanno tutti una spiegazione: oltre

al privilegio concesso ai giudei di mettere a morte lo straniero che

oltrepassasse le barriere del Tempio, che non riguarda comunque la

competenza del Sinedrio, ricordiamo l’uccisione di Stefano, il leader

dei cosiddetti ellenisti della comunità primitiva di Gerusalemme, che,

per quello che si può capire dal racconto degli Atti degli Apostoli, non

sembra l’esecuzione di una condanna emessa dal Sinedrio dopo un

regolare processo, ma è, quasi certamente, un caso di giustizia

sommaria da parte della folla.

Ulteriori conferme dell’incompetenza del Sinedrio in materia

capitale provengono invece da altre tre testimonianze, quali il racconto

dell’esecuzione, che ebbe luogo nel 62 approfittando dell’assenza del

governatore romano, di Giacomo, fratello di Gesù, da parte del

Sinedrio, presieduto da Anano415; esecuzione che, secondo Giuseppe

Flavio, provocò le rimostranze dei farisei presso il re Agrippa II ed il

procuratore romano Albino e la destituzione, da parte del re Agrippa,

del sommo sacerdote, perché evidentemente proprio ritenuta illegale;

ancora, l’affermazione del cosiddetto Rotolo del Digiuno, Megillat

Ta’anit (un elenco di giorni particolarmente lieti per i Giudei ed in cui,

perciò, ad Israele è proibito digiunare), secondo cui “il 22 del mese di

Elul, cioè all’inizio della guerra giudaica, si riprese ad uccidere i

415 Ios. Flav., Ant.20,200-203.

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malfattori”416, diritto che, quindi, in precedenza i Giudei avevano

evidentemente perduto. Abbiamo, infatti, un’ulteriore testimonianza

documentata del fatto che il Sinedrio del tempo di Gesù non aveva il

diritto di esecuzione capitale: quella del Talmud di Gerusalemme,

secondo cui “40 anni prima della distruzione del Tempio di

Gerusalemme417, il diritto di pronunciare le sentenze capitali è stato

tolto agli israeliti”.

Sembra a questo punto abbastanza debole l’ipotesi del Cohn,

secondo cui il Sinedrio non avrebbe processato Gesù, ma avrebbe

cercato di salvarlo, convincendolo a non manifestare le sue pretese

messianiche, in quanto basata su una sfiducia pregiudiziale

sull’attendibilità dei Vangeli (salvo a valersi spesso, e per particolari

insignificanti, di Giovanni al solo scopo di opporlo a Marco) e sul

ricorso costante alla documentazione rabbinica418. La ratio che

sostiene il Cohn nell’ affermare la tesi della competenza del Sinedrio è

quella di dimostrare che, giacché siffatta corte aveva tutti i presupposti

giuridici per condannare Gesù e non lo ha fatto, allora il suo intento

era quello, per l’appunto, di salvarlo, e da qui, negare la responsabilità

storica degli Ebrei, per addossarla pienamente ai Romani, da lui

definiti, “carnefici”419.

Se le cose stanno così, si rivela esatta la conclusione a cui pervenne

Blinzler nella sua fondamentale monografia, secondo la quale

mancherebbero testimonianze significative ed inoppugnabili in favore

416 Megillat Ta’anit, cap.6. 417 Sanh.1,18a;7,24b. 418 Jossa, 2002, pag. 72. 419 Cohn, 2000, pag. 111.

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della libertà di giudizio degli Ebrei, negli ultimi sei decenni del

secondo Tempio. Tutto quanto sappiamo, è una conferma, in parte

sicura, in parte verosimile, della dipendenza del Gran Consiglio dai

Romani, esattamente com’è presupposto dagli Evangeli420.

I.2. Il punto di vista ebraico di Cohn.

Pertanto il lavoro, cui si è fatto richiamo, del Cohn merita qualche

ulteriore approfondimento: si tratta di una ponderata ricerca che si è

venuta ad aggiungere alla già lunga lista di scritti apparsi, anche negli

ultimi decenni, sul processo contro Gesù. In particolare, l’opera di

Cohn rientra nel filone di contributi ispirati alla “comprensibile”

preoccupazione di scagionare il popolo ebraico dalla responsabilità

che, sulla scia dei Vangeli, gli è stata storicamente addossata per

quella condanna a morte e per quella crocifissione. Autorevole

magistrato ebraico, Chaim Cohn, recentemente scomparso, giurista e

storico del diritto, pubblicò già nel 1968 una prima monografia in

lingua ebraica, cui seguì, tre anni dopo, con molti ampliamenti, una

seconda in inglese, di cui, solo nel 2000, è apparsa una versione

italiana, a cura di Gustavo Zagrebelsky, dal titolo “Processo e morte di

Gesù. Un punto di vista ebraico”.

Secondo il Cohn, non ci sarebbe stato alcun processo ebraico, ma

solo un processo promosso e celebrato dai romani per il crimen laesae

420 Blinzler, 1966, pag. 214; cfr. Santalucia, 1999, pp. 98-102.

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maiestatis; un processo che si concluse con la condanna a morte di

Gesù, eseguita dai romani stessi. Gli ebrei - capi dei sacerdoti, anziani,

farisei, dottori della legge, gente comune di Gerusalemme - non

svolsero, perché non avrebbero comunque potuto svolgere, alcuna

parte nel processo romano, né per accusare Gesù, né per costringere

Pilato a condannarlo. Di conseguenza, il processo si svolse

regolarmente, come tutti i processi romani di allora, nei quali era in

gioco la vita di un uomo sospetto di sedizione nei confronti

dell’autorità costituita. Il Sinedrio, riunito la notte precedente nella

casa del sommo sacerdote, convocato in modo del tutto inusuale, per

uno scopo altrettanto straordinario e non di natura giudiziaria, svolse

in extremis il tentativo di convincere Gesù - contro il quale non aveva

motivi e, meno che mai, motivi mortali di inimicizia - ad abbandonare

le sue rivendicazioni messianiche, al fine di rendere difendibile la sua

posizione, altrimenti irrimediabilmente compromessa, nel processo

che si sarebbe celebrato la mattina seguente, davanti al governatore

romano421.

Zagrebelsky scrive422che tali conclusioni, ad apprenderle così, sono

sorprendenti; trova applicazione il metodo, definito da Christian

Wiese (autore della Postfazione) della contestualizzazione, consistente

nell’incentrare l’analisi dei materiali di informazione storica sulla loro

attendibilità, alla luce dell’ambiente culturale, religioso e politico nel

quale e per il quale i Vangeli sono stati scritti e sulle finalità che

muovevano gli Evangelisti. Qui, l’uso che se ne fa è radicale, più che

421 Zagrebelsky, 2000, pp. XIV-XV. 422 Zagrebelsky, 2000, pp. XV-XVI.

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meramente interpretativo - come usato dagli autori che accettano la

veridicità delle fonti evangeliche - e porta a rigettare, come prive di

attendibilità sul piano storico, quelle tradizioni che, nel contesto in cui

sono venute a formarsi, appaiono dettate da cause o da fini esterni e

sopravvenuti, che alterano il carattere dei Vangeli come

documentazione storicamente attendibile. In questo modo, vengono

ritenute prive di fondamento storico, e quindi accantonate, le notizie

che si dimostrano essere proiezioni retrospettive di norme ed usi

giudiziari seguiti al tempo e nei luoghi in cui gli Evangelisti

scrivevano, ma non al tempo e nel luogo in cui gli avvenimenti si

svolsero. Si passano al setaccio, con particolare severità, da un lato, i

passi evangelici in cui si manifesta un pregiudiziale atteggiamento

antiebraico, che in Gesù, certamente non esisteva - atteggiamento

attribuito alle prime esigenze fondative di un’identità cristiana

alternativa all’ebraismo - e, dall’altro, quelli in cui traspare l’esigenza

politica delle prime comunità cristiane, nel mondo romano, di

alleggerire, o negare - colpevolizzando gli Ebrei - le responsabilità di

Pilato, nella messa a morte del fondatore della loro fede.

Questo è talora un modo di procedere sul filo del rasoio, che

potrebbe portare in sé il rischio di scartare ingiustificatamente

elementi della narrazione evangelica, sulla base di una sorta di petitio

principii: il loro contenuto antiebraico potrebbe, infatti, essere effetto,

ma anche causa della nuova fede. Su questo piano, la tesi espressa con

grande nettezza da Cohn - che, per la verità, anche nell’intenzione,

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resa palese dal titolo apposto alla seconda parte del libro (Che cosa

potrebbe effettivamente essere accaduto) - è piuttosto solo un’ipotesi!

I rapporti tra ebraismo e cristianesimo possono uscirne trasformati,

ma non è dato sapere come: se con esiti amichevoli o nuovamente

ostili tra le due religioni. Nel mondo ebraico è prevalente la tesi che

l’ebraismo basti a se stesso, che non ci sia bisogno del cristianesimo

affinché esso sappia chi è; ma non si potrebbe escludere che si

verifichi una “riappropriazione” ebraica, che, a sua volta, comporti

un’espropriazione alla rovescia, attraverso il trasferimento integrale

della figura e della predicazione di Gesù, dal campo cristiano, al

campo ebraico. Tale libro, come non deve togliere validità alle

proposizioni della fede cristiana sul piano che è loro proprio, così non

attribuisce un plusvalore alla contestazione di esse che provenga dal

mondo ebraico e se accadesse di dover ammettere che le sue rationes

siano irrinunciabili, non ci sarebbe altro da fare che concludere per il

suo carattere inesorabilmente anti-cristiano.

La conclusione cui giunge Zagrebelsky è quella secondo cui

l’unica cosa che davvero rileva è andare continuamente ridefinendosi

alla luce della verità che si assume di possedere e da cui ci si sente

posseduti. In questo procedere, la storia non assegna parti di vincitore

e di vinto, perché c’è sempre e solo un posto per una figura che

appartiene ad un mondo completamente diverso: quella di chi

continuamente si interroga e si mette in discussione. E se si vuole che

ciò valga per il mondo cristiano, allora deve valere, altrettanto, per

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quello ebraico, alla luce di quanto stupendamente dice il Salmo 62: “

Una parola ha detto l’Eterno, due ne ho udite”423.

I.3. Confutazione delle tesi di Cohn.

Nell’accingerci ad una valutazione critica dei risultati della ricerca

del Cohn, giova premettere che tale indagine cerca abilmente di

valorizzare il Vangelo di Giovanni rispetto ai Sinottici, al fine di

scagionare il popolo ebraico dalla responsabilità della condanna di

Gesù, giacché in esso non si farebbe alcun cenno al processo davanti

al Sinedrio.

Va anche detto che il Cohn esagera nello sfruttare una singola

espressione greca, spèira, adoperata nel medesimo IV Vangelo a

proposito di coloro che sarebbero venuti ad arrestare Gesù, intesa

secondo uno solo dei suoi possibili significati, quello di coors,

indicante un’unità dell’esercito romano, al fine di ricavare la tesi

secondo la quale l’arresto stesso sarebbe stato eseguito dai Romani, e

ciò in quanto preordinato e voluto dagli stessi; il che sarebbe tanto più

credibile, in quanto, appunto, non potuto nascondere da un

Evangelista, pur così preoccupato di incolpare gli Ebrei.

Partendo da tale assunto, non meraviglia che egli arrivi, addirittura,

ad ipotizzare424che il Sinedrio, avendo avuto soltanto in consegna

423 Zagrebelsky, 2000, pag. XXXII. 424 Cohn, 2000, nt. 66.

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provvisoriamente Gesù dai soldati romani, si sarebbe, sì, riunito nella

notte, ma semplicemente per cercare di convincere il medesimo a

trovare il modo di sfuggire alla minaccia che gli proveniva da parte

romana, senza peraltro riuscirci, donde il celebre gesto del sommo

sacerdote che si sarebbe strappato le vesti. Il Cohn, infatti, arriva a

sostenere che la dirigenza ebraica avrebbe avuto un interesse vitale

solo ad una cosa: impedire la crocifissione di un ebreo che godeva

dell’amore e dell’attaccamento del popolo. Per essa era, quindi,

essenziale poter assecondare l’opinione pubblica e convincere il

popolo di non aver avuto la minima parte in tutta la faccenda, ma,

anzi, di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per evitare la tragedia.

L’unica via attraverso la quale il Sinedrio poteva forse impedire che

Gesù fosse condotto a morte, consisteva nell’ottenere un’assoluzione

o una sospensione della pena, sotto riserva della sua buona condotta.

Per arrivare ad una siffatta assoluzione, era necessario convincere

Gesù a non riconoscersi colpevole secondo l’accusa e, quindi, cercare

testimoni che potessero provare la sua innocenza. Quanto alla

sospensione della pena per il caso in cui fosse stato riconosciuto

colpevole, lo si doveva convincere a promettere che non si sarebbe

mai più immischiato in attività che costituivano tradimento. Il

Sinedrio non aveva altre possibilità, poiché Gesù era stato dato in

custodia al sommo sacerdote, solo in base alla promessa che lo si

sarebbe consegnato la mattina dopo per il processo romano. Se Gesù

fosse stato consegnato nelle mani del governatore romano, ciò avrebbe

significato un’ammissione di fallimento da parte del Sinedrio ed il

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riconoscimento della sua incapacità di garantire il diritto e di

mantenere l’ordine425.

Cohn spiega la riunione notturna del Sinedrio, ritenendo che se una

qualsiasi cosa poteva essere fatta per salvarlo, la si doveva fare

immediatamente, perciò bisognava interessarsene anche di notte ed

anche in un giorno di festa. Che venissero, dunque, per favore,

immediatamente; ed essi vennero tutti, immancabilmente426.

Inoltre, secondo Cohn, se il Sinedrio respinse i testimoni come

falsi, era perché mosso dall’intento di salvare Gesù, e quindi dotarlo

dell’accertamento giudiziale della sua innocenza, almeno per

insufficienza ed inammissibilità di prove; ergo: “se il sommo

sacerdote quella notte si tracciò la vesti, fu a causa del dolore di non

riuscire a far comprendere a Gesù, il suo punto di vista e, dunque,

della sua afflizione, poiché Gesù ostentatamente si rifiutava di

collaborare e risolutamente si incamminava verso il suo rovinoso

destino. In realtà, il sommo sacerdote tutto voleva, fuorché una

confessione dell’accusato, desiderando, al contrario, che Gesù

rinunciasse alle sue pretese messianiche o almeno assumesse un

atteggiamento reticente in proposito. Ottenne esattamente l’opposto e

questo fu il motivo del suo dolore. I sinedriti conoscevano il loro

governatore e non si facevano illusioni. Dovendo Gesù comparire

davanti al giudice, poiché non avrebbe abiurato formalmente e

solennemente alle sue rivendicazioni, non c’era alcuna speranza che

scampasse la morte; non in forza di una condanna da parte loro, ma

425 Cohn, 2000, pp. 151-154-155. 426 Cohn, 2000, pp. 156-157.

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soltanto sulla base della decisione che il governatore avrebbe preso

contro di lui. Così solo si spiegherebbe il grido improvviso: “E’ reo di

morte!”; esso è la naturale e spontanea reazione alle parole

pronunciate da Gesù, poiché esse suggellavano il suo destino nel

processo imminente, dal quale nessuno scampo sembrava oramai più

fattibile427.

Il Cohn, tra l’altro, non solo mette in dubbio la veridicità storica

della condanna di Gesù da parte del Sinedrio per bestemmia, ma anche

la ricostruzione evangelica del processo svoltosi davanti al

governatore romano, nel quale si sforza di negare ogni coinvolgimento

degli Ebrei.

Lasciando comunque da parte le sue argomentazioni in proposito,

specie per quanto riguarda l’affermazione secondo cui Gesù non

avrebbe pronunciato alcuna “bestemmia secondo la legge ebraica”428,

il Martini429 si ritiene costretto a segnalare come il Cohn dia

l’impressione di discutere di processo romano, senza un’adeguata

conoscenza dei vari sistemi processuali, che oltretutto si susseguirono

nel corso del tempo: pare evidente, infatti, che quando (volendo

escludere che il Sinedrio avesse svolto un interrogatorio “su

commissione dei Romani”), afferma che “nel procedimento penale, il

diritto romano non prevedeva alcun interrogatorio preliminare,

neanche nei giudizi per i delitti capitali”430, e cita in appoggio il

Mommsen, egli non si rende conto che quest’ultimo stava parlando

427 Cohn, 2000, pp. 174-176. 428 Cohn, 2000, pag. 169. 429 Martini, 2003, pag. 545. 430 Cohn, 2000, pag. 146 e nt. 57.

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del processo ordinario delle giurie popolari (quaestiones) difficilmente

applicabile in provincia, dove si era andata sviluppando, già con

Augusto, la cd. cognitio extra ordinem, nella quale il governatore non

solo interrogava, ma cercava e valutava le prove e poi condannava o

assolveva l’imputato. Così, egli arriva ad attribuire al Mommsen, un’

opinione erronea al riguardo431.

Lo stesso dicasi di quando il Cohn scrive che un collegio di

accusatori o accusatori plurimi non erano ammessi, basandosi su un

testo di Ulpiano, relativo alle “actiones populares”, che non

riguardavano il processo criminale432; oppure quando egli fa

riferimento alle pene previste per gli accusatori nel caso in cui

quest’ultimi non riuscissero a far condannare gli accusati, trascurando

il fatto che esse erano state introdotte molto più tardi da Costantino433.

Anche più avanti, del resto, il Cohn crede di poter affermare

un’altra regola: quella per cui i governatori avrebbero sempre

giudicato in segreto; uso che, a suo dire, solo nel IV e V secolo gli

imperatori avrebbero cercato di abolire, e ciò in conflitto esplicito con

l’interpretazione mommseniana secondo cui, come sembra oramai

certo, quegli imperatori avevano semplicemente ribadito il principio

della trattazione pubblica dei processi, o meglio, si potrebbe dire con

Santalucia, avevano cercato di limitare l’abbandono del medesimo

principio nella prassi del tardo impero434.

431 Cohn, 2000, pag. 147 e nt. 59. 432 Cohn, 2000, pag. 147 e nt. 61. 433 Cohn, 2000, pag. 148 e nt. 63. 434 Mommsen, 1889, pag. 259; Santalucia, 1991, pag. 283.

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Pur dovendosi rinunciare ad ogni discussione incentrata sulle fonti

talmudiche, riteniamo di dover segnalare l’importanza del testo di una

barayta - cioè gli insegnamenti e dicta del periodo mishnadico che non

furono inclusi nella Mishnà, della metà del II sec. d.C., dallo stesso

Cohn menzionato435 - contenente per lo meno il ricordo, ancorché

generico ed ambiguo, di un “Gesù (il nazareno), che, avendo traviato e

sedotto Israele, venne appeso la vigilia di Pasqua”. Di esso il Cohn

cerca, naturalmente, di sbarazzarsi, perché potrebbe implicare

un’esecuzione di Gesù da parte degli Ebrei.

Tra le ultime asserzioni di Cohn, vi è, addirittura, quella di spiegare

con il “loro amore per Gesù”, la preoccupazione degli Ebrei di

chiedere a Pilato (e questo è per il Cohn, l’unico momento nel quale

affrontarono il governatore nella vicenda di Gesù) l’autorizzazione a

spezzare le gambe al crocifisso, per abbreviarne compassionevolmente

le sofferenze: “ …e così gli Ebrei, andando in processione a supplicare

Pilato solo per Gesù, avevano in mente un atto di grazia e di pietà”436.

Potremmo rispondere: ma se fosse stato vero cotanto amore per Gesù,

allora perché oggi, come doveva essere al tempo del processo, gli

Ebrei non si dicono, nella gran parte di essi, cristiani ed, invece, lo

siamo più noi, “romani-gentili”?

Conclusivamente, riteniamo che le tesi del Cohn non sono in grado

di resistere ad un’analisi critica ed accurata; ritornando all’assunto

espresso al principio di questo intervento, esse si dimostrano essere

mosse dalla “comprensibile” (ma, non giustificabile, se a discapito

435 Cohn, 2000, pag. 160. 436 Cohn, 2000, pag. 282.

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della verità e della verità storica) preoccupazione di scagionare il

popolo ebraico, dalla responsabilità che gli è stata storicamente

addossata per quella condanna e per quella croce!

I.4. Le fonti: il testimonium flavianum ed il processo di

Giacomo.

E’ irrinunciabile soffermarci su alcune fonti che potrebbero

consentirci qualche considerazione circa il problema della

responsabilità ebraica o romana per la condanna di Gesù, e che si

possono desumere da una fonte storica quasi coeva, cui, ovviamente,

non manca di far riferimento, per altri aspetti, anche il Cohn. Si tratta

degli scritti (Guerra Giudaica ed Antichità Giudaiche) del famoso

storico ebreo che, accanto al nome originario di Giuseppe, aveva

assunto anche quello romano di Flavio, per aver conseguito la

cittadinanza romana, dopo essere caduto prigioniero dei Romani, al

tempo di Vespasiano (a più riprese, già citato nel corso di siffatta

redazione)437.

437Martini, 2003, pp. 543 ss; Martini ha rilevato che l’analisi delle fonti in esame si presenta tanto

più necessaria, se si considera che, sulla base anche di esse, il medesimo Cohn, alla fine del

capitolo XII da lui dedicato alle “Fonti non cristiane”, arriva a dichiarare “nullo” il risultato

complessivo al quale le medesime porterebbero sul processo e sulla crocifissione di Gesù,

ancorché allo scopo di potervi fondare l’irragionevole affermazione, secondo cui:

“Accidentalmente o deliberatamente, la strada risultò spalancata per l’affermarsi di un monopolio

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In effetti, neppure da una storia come quella di Giuseppe Flavio,

dove pure si danno anche notizie spicciole al livello quasi di cronaca,

si ricava molto di più, in modo diretto, circa il processo di Gesù, di

quanto in modo scarno, come al solito, ci dice lo storico romano

Tacito438, il quale, sul finire del I secolo, accennava, parlando di

Nerone, ad una setta di fanatici portatori di una rovinosa superstitio, il

cui fondatore Cristo sarebbe stato crocifisso dal governatore Ponzio

Pilato, al tempo di Tiberio. Nel libro XVIII delle Antichità Giudaiche,

si viene, infatti, a fare un discorso un po’ più circostanziato, ma

sempre molto sintetico, intorno a Gesù, della cui genuinità per di più,

si è fortemente dubitato da parte di molti studiosi, secondo i quali in

tale famigerato testimonium flavianum, sarebbero state operate diverse

manipolazioni, in quanto non sarebbe possibile credere che Giuseppe

Flavio, il quale, come attestato da Origene, non ammetteva la divinità

di Gesù, possa aver scritto i paragrafi che un centinaio d’anni più tardi

sarebbero stati letti dal biografo di Costantino, il vescovo Eusebio di

Cesarea, nei quali, a proposito di Gesù, dopo una già significativa

allusione implicita alla sua divinità, contenuta nella frase “un uomo,

ammesso che si possa chiamare uomo”, si afferma a tutte lettere che

“Egli era il Cristo” (o christòs outos en), e si aggiunge che i suoi

seguaci, già presentati come “amanti della verità”, non lo avevano

abbandonato neppure dopo la sua condanna a morte, essendo Egli

“riapparso vivo nel terzo giorno” (trìten ècon emèran pàlin zòn).

cristiano di tutte le testimonianze, di tutti i resoconti e loro trasmissione, insieme agli obiettivi

dettati dalla politica e dal pregiudizio cristiano”. 438 Tac., Ann. 15.44.

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Orbene, per quanto riguarda il processo di Gesù, in questo

discutissimo passaggio delle Antichità, c’è solo un veloce accenno, in

una proposizione dipendente, che si sostanzia di due attestazioni: una

relativa alla condanna alla croce da parte di Pilato (che trova riscontro

nel già ricordato testo di Tacito) ed una, invece, che sembrerebbe

alludere quanto meno alla denuncia (tale essendo il significato di

endeixis nel linguaggio giuridico greco) da parte degli Ebrei. Come è

evidente, questo accenno, ancorché molto schematico, avrebbe una

notevole importanza, qualora la frase in cui è contenuto, che in sé e

per sé non parrebbe ispirata a qualche particolare preconcetto, fosse da

riportare ad uno storico ebreo, come Giuseppe Flavio.

Sempre nelle Antichità giudaiche, al libro XX, si narra

un’interessante vicenda processuale che, nel 62 d.C., avrebbe

riguardato Giacomo, “fratello di Gesù, detto il Cristo” (tou legomenou

Christoù), e che, sia pure di riflesso, è utile anche per ricostruire il

vero e proprio processo di Gesù439. Qui, si parla del nuovo gran

sacerdote, Ananos, uomo temerario e ardito di temperamento,

appartenente per di più alla setta dei Sadducei, più duri di tutti quando

dovevano giudicare qualcuno, il quale era stato nominato alla sua alta

carica nel momento di passaggio tra il precedente governatore della

Palestina Festo ed il successore Albino. Approfittando proprio del

fatto che il previo procuratore era morto ed il nuovo non aveva ancora

preso possesso della sua carica (era ancora per strada: eti katà ten

odòn), Ananos aveva, infatti, riunito il Sinedrio e condotto davanti ad

439 Jossa, 2002, pp. 131-140.

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199

esso il già ricordato Giacomo insieme ad altri ed, avendo promosso

contro costoro l’accusa di atti contrari alla legge (paranomesànton

kategorìan), li aveva mandati a morte per lapidazione (parèdoke

leusthesomènous). Allora, ci viene riferito che quanti erano tra le

persone più assennate ed osservanti della legge, si erano

profondamente indignati per questa vicenda ed avevano fatto

segretamente ricorso al re Erode Agrippa II - re appunto dal 50 al 93

d.C. - affinché impedisse ad Ananos di tenere per il futuro un simile

comportamento, ma anche che altri si erano rivolti al nuovo

procuratore Albino, informandolo che Ananos non aveva il potere di

convocare il Sinedrio senza il suo consenso. Mentre Albino aveva

scritto ad Ananos, minacciandolo in modo generico di fargli pagare il

suo comportamento, il problema era stato ad ogni modo risolto dallo

stesso re Agrippa, rimuovendo costui dalla carica di sommo sacerdote

e nominando al suo posto, un altro che - si osservi - si chiamava

anch’egli Gesù, figlio di Damnaeo.

Orbene, se è vero che questo Giacomo di cui si parla, era

effettivamente il capo della comunità cristiana di Gerusalemme, dal 44

d.C. (come ammette anche il Cohn440), par verosimile che qui si

avesse a che fare con un processo intentato, appunto, contro alcuni

seguaci di Gesù, ed è interessante constatare che costoro erano stati

mandati a morte dal Sinedrio, anche se contro questa condanna alcuni

avevano protestato, al punto da provocare la deposizione del sommo

sacerdote.

440 Cohn, 2000, pag. 300.

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Dalla fonte in esame emerge che, mentre alcuni si erano rivolti al

re, lamentando un’irregolarità che non ci appare chiaramente, altri si

erano rivolti al governatore, adducendo un motivo preciso, ossia

l’illegittimità della riunione del Sinedrio senza il suo consenso, motivo

la cui fondatezza sembrerebbe oltretutto confermata dalla circostanza

che il sommo sacerdote aveva, in effetti, approfittato del fatto che

ancora non era arrivato il nuovo governatore e che quello vecchio era

morto, per procedere direttamente contro Giacomo e gli altri (come ci

attesta, senza commenti, lo storico, il che potrebbe comportare che

anch’egli ritenesse irrituale una tale procedura in un momento come

quello).

Questa vicenda non è senza importanza, poiché potrebbe

rappresentare una conferma dell’incompetenza del Sinedrio ad

emettere ed eseguire, da solo, sentenze di condanna a morte;

incompetenza affermata da autorevole dottrina (Blinzler, Martini e

Santalucia, a tal punto che quest’ultimo parla del caso di Giacomo,

come di un abuso di potere) che ha creduto, per questa strada (e

basandosi, tra l’altro, sull’attestazione di Giovanni 18,21, che fa dire

agli Ebrei: “A noi non è consentito mettere a morte nessuno”), di poter

attribuire la condanna di Gesù, solo formalmente ai Romani,

riconducendola sostanzialmente agli Ebrei, che, per l’appunto, si

sarebbero avvalsi del governatore come braccio esecutivo. Per ora

quel che conta è rilevare che il sommo sacerdote Ananos aveva

trovato il modo di accusare e far condannare dal Sinedrio, alcuni

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discepoli di Gesù, anche se trentadue anni dopo il famoso processo

che vide coinvolto quest’ultimo.

Quali sono le considerazioni che possono trarsi dall’analisi di

questi vari paragrafi della opere storiche di Giuseppe Flavio? La prima

riguarda l’importanza che avrebbe l’accenno, pur molto sommario, ad

una condanna di Gesù da parte di Ponzio Pilato, su iniziativa degli

Ebrei. Anche a prescindere da ciò, è lecita una seconda

considerazione, ossia che, probabilmente, sempre gli Ebrei, se

avessero potuto farlo, avrebbero provveduto a processare direttamente

Gesù, come il loro sommo sacerdote arrivò a fare, trent’anni più tardi,

con Giacomo ed i suoi compagni, per quanto la lapidazione di costoro,

disposta dal Sinedrio, possa essere andata incontro, sia a censure per

vizi di forma, dal punto di vista dei Romani, o per meglio dire, di

alcuni Ebrei che si appoggiavano ai Romani, sia a critiche nel merito,

da parte dei più sensibili tra i medesimi Ebrei; critiche che portarono

alla destituzione dello stesso sommo sacerdote, da parte del re

Agrippa. La terza considerazione è che, sicuramente, Gesù era stato

condotto davanti a Pilato, in seguito ad una “denuncia” da parte degli

Ebrei, i quali, inoltre, sempre trent’anni più tardi, non ebbero difficoltà

a portare davanti al governatore Albino, senza nemmeno averlo

processato per proprio conto, un altro Gesù, figlio di Anania, il quale

aveva procurato loro fastidi molto minori, ripetendo il grido profetico

“Guai a Gerusalemme”; in tale vicenda, il governatore, senza subire

evidentemente alcuna pressione da parte sia dei “capi” del popolo, che

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202

dei “magistrati” locali, chiuse tutta la faccenda, liberando il profeta di

sventura.

Infine, non si può certo mettere completamente da parte - anche se

dispiace - un coinvolgimento, nella responsabilità della condanna a

morte di Gesù, almeno di alcuni tra gli Ebrei del tempo, non essendo

sufficiente ad escluderlo riconoscere con il Cohn, che si trattò di “una

condanna penale romana, eseguita da carnefici romani”441.

I.5. Il processo di Gesù negli Atti degli Apostoli.

Negli Atti degli Apostoli, generalmente, come responsabili della

morte di Gesù vengono indicati gli Ebrei. Si concede che questi non

abbiano proceduto essi stessi all’esecuzione, ma si siano serviti degli

“empi”, ossia dei Romani pagani. Si lascia anche ripetutamente

intendere che la decisione finale circa l’esecuzione o il rilascio, era

nelle mani di Pilato. Se si rimprovera la morte di Gesù a gruppi

determinati nell’ambito del popolo ebraico, si tratta soprattutto dei

membri del Sinedrio: essi hanno crocifisso Gesù, lo hanno infisso alla

croce ed in tal modo ucciso; essi furono i traditori ed assassini di Gesù

e sono a conoscenza del fatto che anche gli Apostoli li fanno

responsabili di tutto ciò. Ma, il cerchio dei colpevoli è maggiore:

insieme ai capi ebraici, per due volte, negli Atti degli Apostoli,

vengono posti sullo stesso piano, gli abitanti di Gerusalemme e, talora,

441 Cohn, 2000, pag. 231.

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contro questi ultimi soltanto si arriva a lanciare l’accusa che essi

abbiano crocifisso ed ucciso Gesù442.

Solo allorché il predicatore paleocristiano ha dinanzi a sé un

uditorio pagano, come, per l’appunto, Pietro a Cesarea, egli parla degli

Ebrei in generale come di coloro che affissero e giustiziarono Gesù in

croce. Ma, in tal passo, neppur si annette importanza al fatto che

fossero gli Ebrei i responsabili della morte di Gesù: l’affermazione

“essi lo hanno giustiziato” è generica e potrebbe anche essere tradotta

con “Egli fu giustiziato”; soltanto il contesto induce a ritenere gli

Ebrei come soggetto della frase. Quest’ultima osservazione aiuta a

valutare esattamente la frequenza e, talora, la durezza delle accuse

sollevate dagli Apostoli contro gli Ebrei. Queste accuse non sono

certo espressione di un atteggiamento fondamentalmente antisemita,

altrimenti avrebbero, anche e soprattutto, una parte nell’istruzione dei

pagani. D’altronde, tutti gli Apostoli provenivano essi stessi

dall’ebraismo e ne erano fieri. Le loro parole severe e spesso taglienti

sulle lista del debito d’Israele, si devono, piuttosto, interpretare come

una parte della missione presso gli Ebrei. Il missionario

paleocristiano, il quale voleva conquistare l’ebraismo incredulo,

doveva, per primissima cosa, portare i Giudei a riconoscere la loro

grande colpa storica. Egli predicava, dunque, la penitenza e doveva,

perciò, servirsi di formule efficaci e penetranti. Così, si comprende

come gli Apostoli, convinti della principale colpevolezza morale dei

circoli ebraici nella crocifissione di Gesù, dichiarassero, ignorando la

442 Blinzler, 1966, pp. 409-411.

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parte di colpa dei Romani: “Voi, sinedriti, voi, abitanti di

Gerusalemme, avete crocifisso, ucciso, giustiziato, assassinato Gesù di

Nazareth”443. Ma proprio perché ai predicatori premette convertire il

popolo ebraico e non respingerlo, conquistarlo per Cristo e non

diffamarlo dinanzi al mondo, essi trovavano talora anche parole

concilianti: non solo dinanzi al popolo di Gerusalemme, ma persino

dinanzi ai sinedriti, viene detto che essi hanno agito per ignoranza, che

essi non hanno riconosciuto Gesù.

Espressioni di tal sorta possono quasi essere intese come se esse

dovessero assolvere gli Ebrei almeno dalla colpa soggettiva; ma si

pensa certo, qui, ad un’ignoranza colpevole, poiché d’altra parte si

sottolinea che Gesù era stato accreditato presso gli Ebrei da parte di

Dio mediante atti di potenza, miracoli e segni, che Iddio aveva

compiuto per sua mano, in mezzo a loro444. La concessione

dell’ignoranza è ancora in funzione del discorso penitenziale: deve far

intendere chiaramente che, nonostante tutto, la via alla remissione è

ancora aperta. In certo senso, ciò vale anche per le dichiarazioni che

parlano della croce voluta da Dio, in quanto esse la caratterizzano

come parte essenziale del piano di salvezza eterna o come conforme

alla Scrittura. Anche queste constatazioni non vogliono negare la

colpa storica degli Ebrei che vi parteciparono, ma solo aprire loro la

strada alla penitenza.

A mezzo delle argomentazioni succitate, abbiamo, inoltre, altre

risposte alle congetture del Cohn, il quale ha qualificato “come

443 Act. Apost 4,10. 444 Blinzler, 1966, pag. 415.

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tendenzioso e con intento sostanzialmente antisemita”445 lo scrivere

degli Evangelisti, ritenendo che costoro si sarebbero preoccupati di

non far adirare di più i Romani nei confronti dei cristiani, sicché

sarebbero stati indotti a scagionare questi ultimi, addossando agli

Ebrei la responsabilità della condanna di Gesù. In tal modo,

intendiamo respingere tali ulteriori riflessioni apologetiche dell’autore

ebreo.

I.6. Conclusioni.

Dunque, giungiamo conclusivamente alla domanda di cui al titolo

di questo capitolo: la condanna a morte di Gesù si può ritenere ‘colpa’

dei Romani o degli Ebrei? Chi si applica a giudicare il processo di

Gesù in quanto evento storico-giuridico, quale esso si può ricostruire

dai resoconti evangelici della Passione, giunge al medesimo risultato

dei predicatori paleocristiani: la responsabilità principale cade sugli

Ebrei446. Bisogna, tuttavia, finirla con un’accusa che sino ai nostri

tempi viene ancor sempre sollevata contro i giudici ebraici di Gesù.

Non si può provare, anzi, è del tutto inverosimile, che il Sinedrio nel

procedimento contro Gesù abbia violato le forme legali: tanto

l’arresto, quanto il dibattimento furono manifestamente in completo

accordo con la legge allora vigente.

445 Cohn, 2000, pag. 319. 446 Blinzler, 1966, pag. 417.

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E’ opinabile solo che la condanna pronunciata dal Sinedrio sia stata

giuridicamente ineccepibile, vale a dire che i sinedriti, col dichiarare

blasfema l’autoaffermazione messianica di Gesù, abbiano emesso un

giudizio corrispondente alla loro convinzione ed al codice penale in

vigore. Si ritiene che una corte che giudicasse con coscienza e

spassionatamente, anche non prestando fede alle rivendicazioni

messianiche di Gesù, avrebbe almeno dovuto avere dei dubbi sulla

reale sussistenza del fatto delittuoso. Se, nonostante ciò, tutto o

almeno quasi tutto il Sinedrio votò per la colpevolezza, si arriva a

concludere circa una forte prevenzione dei giudici contro l’accusato.

Inoltre, l’attitudine malevola dei sinedriti appare chiaramente nel

successivo sviluppo degli eventi. Essi hanno accusato Gesù dinanzi al

procuratore romano come re degli Ebrei, cioè come pretendente al

trono ebraico. Quest’accusa non era semplicemente una “traduzione”,

ma una deformazione cosciente posta alla base della loro sentenza.

Riconoscendo che con l’accusa di bestemmia davanti al tribunale del

governatore non avrebbero ottenuto nulla, essi diedero a questa una

forma politica, benché non potessero ignorare che Gesù non aveva

mai connesso alcuna idea di sovversione politica al suo ideale

messianico; né la sua autoaffermazione dinanzi al Sinedrio, né il suo

atteggiamento altrove dava appiglio ad un’insinuazione del genere.

Infine, che agli avversari ebrei di Gesù, non il diritto, sia pure

falsamente inteso, stesse a cuore, ma l’eliminazione di Gesù, si deduce

dalla loro premura intesa ad evitare da parte di Pilato, una sentenza

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libera e conforme all’ordine, intimidendolo con minacce e

costringendolo, quindi, a pronunciare una sentenza di condanna.

Gli Ebrei colpevoli constano di due gruppi: i membri del Sinedrio e

la massa dei manifestanti contro Gesù. Se ci si chiedono i motivi della

implacabile inimicizia del primo gruppo contro Gesù, negli Evangeli

si trovano tre risposte: in primo luogo, i capi ebraici videro nella

popolarità di Gesù un pericolo per la loro propria autorità sul popolo;

essi, e soprattutto elementi sadducei del Sinedrio, credevano di dover

temere, nel caso di un’ulteriore diffusione del movimento di Gesù, un

intervento dei Romani e, con ciò, la perdita della relativa indipendenza

che restava alla nazione; Gesù si era guadagnato l’avversione e l’odio

dei sinedriti e, specialmente, degli scribi di tendenza farisaica, con

l’originalità del suo messaggio religioso. L’inimicizia mortale contro

Gesù da parte dei circoli ebraici dominanti ha, dunque, motivi

egoistici di potere politico, nazionali e religiosi.

La folla popolare fece causa comune con i sinedriti dinanzi al

tribunale romano, chiedendo tumultuosamente l’esecuzione di Gesù.

Evidentemente, si trattava soltanto di abitanti di Gerusalemme; la loro

colpa è minore di quella dei sinedriti, poiché essi intervennero nel

processo, non spontaneamente, ma solo sotto la pressione dei loro

capi. Ad ogni modo, che la loro complicità non sia tuttavia cosa da

nulla, si deduce dal fatto che, senza di essi, non si sarebbe pur giunti

ad una condanna da parte di Pilato. Ciò che spinse la massa a

sollevarsi contro Gesù, dovette essere soprattutto il rispetto della legge

nazionale, che aveva bollato l’accusato come criminale degno di

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morte. Se nelle prediche apostoliche si concede agli Ebrei di

Gerusalemme ed ai loro capi, l’attenuante di aver agito per ignoranza,

con ciò si vuol dire solamente che, se gli Ebrei avessero saputo che

Gesù era il Messia ed il Figlio di Dio nel vero senso della parola, essi

non avrebbero promosso il suo annientamento. Con questo essi non

vengono assolti da ogni colpa, perché la loro ignoranza era sintomo di

incredulità ed incredulità nonostante l’esperienza di “atti di potenza,

miracoli e segni” equivale, secondo la dottrina del Nuovo Testamento,

a colpa e peccato.

Accanto agli Ebrei, il procuratore romano Ponzio Pilato è

responsabile dell’esecuzione di Gesù447. Il suo modo di trattare l’affare

di Barabba potrà, bensì, esser qualificato di malaccortezza e non come

un modo d’agire propriamente colpevole; ma colpevole egli si rese,

per il fatto che, nonostante la sua convinzione dell’innocenza

dell’accusato, lo fece flagellare ed, infine, lo condannò persino alla

croce. Come attenuante, ha la circostanza che egli compì entrambe

queste cose, sotto la pressione dei fanatici Ebrei, per quanto il giudice

debba porre il diritto al di sopra del proprio interesse personale.

Stanno a suo discarico, anche i ripetuti sforzi intesi ad ottenere la

liberazione di Gesù. Benché egli abbia proclamato la condanna di

Gesù, che portava con sé l’esecuzione immediata, la sua colpa è, tutto

sommato, minore di quella degli Ebrei; opinione questa che

447 Blinzler, 1966, pag. 419.

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l’Evangelista Giovanni mette già in bocca a Gesù stesso: “…perciò

chi mi ha consegnato nelle tue mani, ha maggior peccato”448.

Se si indaga solo sulla partecipazione giuridica formale degli Ebrei

e dei Romani all’esecuzione di Gesù, si deve, dunque, rispondere che

entrambi i gruppi ebbero parte press’a poco uguale nella cosa, perché

dagli uni come dagli altri fu pronunciata una condanna a morte;

quanto alla misura della colpa rispettiva, quella degli Ebrei, da quanto

si è detto, è certo preponderante. La morte di Gesù sul Golgotha, vista

storicamente, non fu, dunque, il risultato inevitabile di certe

circostanze tragiche, non un semplice errore giudiziario e nemmeno

un “assassinio formalmente privato”449, come afferma il Rosadi, ma

“un assassinio giudiziario”450, come definito da Blinzler oppure, se si

vuole, si può parlare di un “assassinio politico-religioso, mediante

abuso di giustizia”.

Si è parlato spesso di deicidio. Si deve notare che il Nuovo

Testamento non rivolge un’accusa di questo genere né al Sinedrio, né

al procuratore. Poiché i nemici di Gesù mancavano della capacità di

penetrare profondamente nel mistero dell’essenza di Gesù, la loro

azione non fu il delitto formale di deicidio. La colpa, secondo la legge

eterna, porta con sé giudizio e castigo. Il Nuovo testamento parla

spesso del futuro giudizio di Dio sui responsabili della morte di Gesù.

Non è sempre chiaro se si tratti di un giudizio nel tempo o del giudizio

448 Io. 19,11. 449 Rosadi, 1904, pag. 222. 450 Blinzler, 1966, pag. 420.

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alla fine dei tempi451. Tra coloro sui quali cadrà il giudizio che causerà

la loro rovina sono nominati i capi ebraici452, così come gli abitanti di

Gerusalemme in quel tempo ed i loro figli453. La distruzione di

Gerusalemme fu almeno una parte di questa condanna454. Pur tuttavia

Gesù, durante la sua agonia, pregò per il perdono dei suoi carnefici:

“Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno!”455. Anche

questa preghiera parla dell’ignoranza dei nemici di Gesù, ma non dice

che essi abbiano agito erroneamente senza colpa; se non vi fosse stata

colpa, non vi sarebbe stata necessità d’intercessione. La preghiera

presuppone la colpa dei responsabili della morte di Gesù, ma si

appella alla misericordia di Dio per ottenere il perdono dei colpevoli.

Ed ora ci azzardiamo a dare un parere sulla richiesta moderna di

una revisione del processo di Gesù, da parte dell’Ebraismo odierno (di

cui è stato destinatario, appunto, anche Chaim Cohn): la richiesta avrà

ottime intenzioni, ma è completamente senza senso. Essa riposa, come

si è stabilito, sul presupposto che la condanna a morte pronunciata dal

Sinedrio fosse giuridicamente invalida a causa d’innumerevoli errori

di forma, e che proprio questo giudizio avesse portato

immediatamente all’esecuzione del Signore. Entrambi i presupposti

sono, come si è visto, inesatti. Una revisione del processo da parte

degli Ebrei dovrebbe muoversi su tutt’altro terreno che quello

giuridico e, precisamente, sul terreno della fede456. Con ciò tocchiamo,

451 I Thess. 2,16; Apoc. 1,7. 452 Mc. 12,9. 453 Lc. 23,28; Mt. 27,25. 454 cfr. Mt. 22,7. 455 Lc. 23,34. 456 Blinzler, 1966, pag. 421; cfr. Fusco, 2000, pp. 604-606.

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però, un problema, che è già fuori dal punto di vista storico-giuridico,

il solo che qui deve essere trattato. E’ comunque opportuno

sottolineare che il punto di vista puramente storico, per giustificato e

necessario che sia, resta superficiale ed unilaterale, se non è

completato da quello teologico-spirituale. Alla luce della fede nella

Redenzione, il tragico evento del Golgotha prende dimensioni e

profondità completamente nuove e, soprattutto, la questione sulla

colpevolezza diventa una domanda rivolta alla propria coscienza.

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Appendice II

Chi serve la democrazia e chi se ne serve?

Le riflessioni di Kelsen e Zagrebelsky sul

processo “democratico”contro Gesù.

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II.1. Il processo di Gesù, tragico simbolo della

democrazia.

Gustavo Zagrebelsky si occupò del processo contro Gesù,

pubblicando, nel 1995, un oramai famoso libro457, nel quale trattò,

specificamente, il significato dell’episodio del grido della folla dinanzi

a Pilato, quando questi chiese chi, la stessa folla, volesse che fosse

liberato, profittando del privilegium paschale, in occasione, per l’

appunto, della festa di Pasqua: Gesù o Barabba? La folla, inviperita

dall’ennesimo tentativo del Romano di liberare Gesù - anche se

sempre per vie traverse - e, soprattutto, strumentalizzata dai gerarchi

ebraici, attraverso l’autorevolezza che da essi e dallo stesso diritto

ebraico, emanato da Dio, si rifletteva sul popolo, gridò, dicendo:

“Crucifige!”458 (“Crocifiggilo, crocifiggilo!”), preceduto da: “A morte

costui, e liberaci Barabba”459.

Da qui egli ha tratto spunto per una riflessione sul processo a Gesù

quale tragico simbolo di come si possa strumentalizzare la decisione

popolare e, conseguentemente, sull’essenza e significato della

democrazia, ed in specie dei suoi limiti. In questa occasione

l’eminente costituzionalista richiama e mette in discussione molte

delle affermazioni che Hans Kelsen aveva espresso nel suo saggio,

titolato “Essenza e valore della democrazia”460.

457 Zagrebelsky, 1995, pp. 93-97; cfr. Bove, 1999, pp. 208-210. 458 Lc. 23,21. 459 Lc. 23,18. 460 Kelsen, 1920, pp. 55-56.

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Fin dall’inizio del suo fortunato opuscolo, l’Autore si pone e pone

a noi stessi una domanda discriminante: la democrazia è un fine o un

mezzo? Chi la ritiene un fine, la serve; chi un mezzo, se ne serve,

finché gli serve.

La distinzione è qui chiara in astratto, ma subdola in concreto: il falso

amico, l’approfittatore pericoloso è, infatti, sempre l’avversario e

l’accusa è sempre ritorta.

La posta è grande, la questione è reale, ma per renderla intelligibile

e produttiva, lo Zagrebelsky si rifà a categorie precise, da lui stesso

proposte, allo scopo di poter uscire dal moralismo e dalla confusione

che il moralismo sempre fomenta nelle cose politiche. Le tre visioni

della democrazia, da lui qualificate rispettivamente come dogmatica,

scettica e critica, vorrebbero essere un contributo a questa

chiarificazione. Ad esse, corrispondono tre mentalità, tre visioni del

mondo, che hanno una grande importanza per le cose politiche e

costituzionali: il dogmatico non vede che la verità alla quale tutti

devono aderire; lo scettico, la realtà alla quale bisogna piegarsi; il

critico, invece, si fa strada responsabilmente tra le possibilità. A

questo punto, possiamo rispondere all’interrogativo iniziale: solo

coloro che hanno una visione critica della democrazia, la

concepiscono come fine. Gli altri non possono che considerarla come

mezzo e non sono, perciò, suoi veri amici!

Per chiarire le sue asserzioni, Zagrebelsky fa riferimento a ciò che

egli definisce “uno dei grandi simboli, un simbolo tragico della

democrazia: il processo di Gesù e la sua condanna in seguito ad un

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pronunciamento popolare”, sostenendo che il contenuto paradigmatico

della narrazione di quell’evento è particolarmente utile in una

discussione sulla democrazia come mezzo e come fine: in testi tra i

più grandiosi, commoventi e, nella loro solo apparente semplicità,

densi di contenuto della letteratura di tutti i tempi, troviamo, infatti,

descritti vividamente gli atteggiamenti strumentali che possono tenersi

nei confronti della decisioni popolari.

Egli ricorda che si era determinato un conflitto tra Pilato, il

procuratore romano della Giudea, ed il Gran Sinedrio di

Gerusalemme, la massima autorità ebraica. La posta in gioco era la

vita di Gesù. Tra l’imposizione di una decisione unilaterale, la

liberazione di Gesù con un atto d’imperio che al procuratore era

certamente consentito, e la resa ai notabili del Sinedrio che

chiedevano la conferma della condanna a morte da essi già

pronunciata, Pilato scelse un’altra possibilità ed aprì una procedura

“democratica”, appellandosi al popolo”461. La decisione finale fu presa

nel crescendo impressionante di fanatismo del “Crucifige!”, urlato

dalla folla.

Che cosa vedere in questo grido? Per lo spirito dogmatico, un

argomento insormontabile contro la democrazia: la verità non può

essere lasciata alla determinazione del numero; lo spirito scettico,

invece, non vi vede nulla, resta indifferente: solo così, egli dice, la

democrazia, cioè l’accettazione del responso popolare, è possibile.

461 Zagrebelsky, 1995, pag. 3.

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Secondo Zagrebelsky, sia il dogmatico, sia lo scettico possono

convivere con la democrazia, ma solo servendosene, non servendola.

Nella narrazione evangelica, il Sinedrio rappresenta lo spirito

dogmatico: Gesù deve morire, perché minaccia la fede e le istituzioni

ebraiche: “Un uomo solo muoia per la nazione”462, aveva sentenziato

Caifa, ben prima che si aprisse il processo. Una difesa di Gesù non vi

poteva essere, perché Egli era condannato già prima di comparire

davanti al Sinedrio; la sua soppressione era richiesta dal dogma, ma

per eseguire la condanna, occorreva la cooperazione dell’autorità

romana, di Pilato. Quest’ultimo, però, esitava; anzi, si pronunciava

chiaramente per il prigioniero, non riuscendogli di vedere dove fosse

la sua colpa, ma era minacciato dal Sinedrio: “se liberi costui - che si è

proclamato Re ed incita a non pagare le imposte - non sei amico di

Cesare”463. Inoltre, la folla premeva; l’ordine pubblico era in pericolo;

era in forse la stessa autorità del procuratore; occorreva trovare una

via d’uscita. Il Sinedrio, per vincere l’avversione di Pilato; Pilato, per

conoscere quale era l’umore della folla, provocarono il plebiscito. Il

primo, per dogmatismo; il secondo, per realismo, cioè per

opportunismo, dunque per opposti motivi: Coincidentia

oppositorum464

. Il Sinedrio voleva piegare le resistenze di Pilato,

scatenando la forza della folla contro di lui; Pilato, alla fine, voleva

sapere da che parte portasse quella forza, per potervisi adeguare ed

462 Io. 11,50. 463 Io. 19,12. 464 Zagrebelsky, 1995, pag. 79.

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evitare di assumere posizioni impopolari e pericolose per sé

medesimo.

Noi conosciamo questi usi strumentali della democrazia. Li

vediamo all’opera, sia quando la volontà popolare viene scagliata

contro l’avversario per tacitarlo, sia quando la si “sonda”, per meglio

neutralizzarla. Insomma, chiamando il popolo ad esprimersi, in

entrambi i casi, non lo si fa nel suo interesse, ma in quello di chi lo usa

e, per blandirlo, dice “vox populi, vox dei”465

: una formula che, solo

apparentemente, è il massimo omaggio alla democrazia, perché

nasconde sempre la volontà di approfittarne.

Se riflettiamo sulle caratteristiche di questo popolo, scopriamo che

esso è instabile: pochi giorni prima, ha acclamato Gesù come Re dei

Giudei ed adesso vuole crocifiggerlo. Inoltre, questo popolo è privo di

qualunque convinzione fondamentale ed è mosso solo dal suo

interesse immediato (i miracoli, che, però, Gesù da qualche tempo gli

nega). Si tratta di una folla non che agisce, ma che reagisce ed, inoltre,

è aizzata; di una folla omogenea come un’anima sola, che non conosce

dissenso perché i potenziali oppositori sono privi di mezzi per

esprimersi o sono troppo terrorizzati per farlo. Ancora, è una folla

priva di discussione, perché il responso deve essere immediato e,

perciò, emozionale e non razionale. Probabilmente, non è nemmeno a

conoscenza dei termini della questione e degli interessi in questione:

non sa di fare il gioco d’altri.

465 Zagrebelsky, 1995, pag. 103.

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Possiamo allora dire che quello non era un popolo, era una massa,

una plebe e, da qui, dobbiamo interrogarci su noi stessi, popolo della

nostra democrazia: l’instabilità, la seduzione dell’interesse, la

manovrabilità, la carenza di regole e di rispetto per la diversità,

l’emotività, l’alienazione - tutte caratteristiche negative delle società

di massa, studiate da gran tempo - non sono divenute oggi, si chiede

Zagrebelsky466, più evidenti che mai? E, con questo, non è più

presente che mai il rischio di una democrazia che si riduce a semplice

strumento di chi meglio sa utilizzare, come già fu nella crisi

democratica degli anni ’20 e ’30, quando divenne la strada spianata

per veri totalitarismi?

II.2. La democrazia critica di Zagrebelsky.

Il contrario di tutto questo dovrebbe essere la democrazia critica,

in quanto la democrazia non dovrebbe essere un mezzo in mano ad

altri, ma un fine, una condizione di tutti i cittadini. Quella che

Zagrebelsky definisce, per l’appunto, “critica” non è tronfia, sicura di

sé; è circospetta, rifiuta ogni lusinga alla sua infallibilità come un

tentativo interessato di seduzione e, quindi, è sempre pronta a ritornare

sulle sue decisioni per correggerle, a fare autocritica per imparare dai

suoi errori; rifugge dalle decisioni irreversibili467 (come la condanna a

morte di qualcuno), perché da queste non si potrà tornare indietro; è 466 Zagrebelsky, 1995, pp. 104-105. 467 Zagrebelsky, 1995, pag. 108.

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attenta alle regole ed ai diritti di tutti, perché crede che tutti abbiano

qualcosa da poter portare nella comune ricerca delle possibilità; non

considera il governo della maggioranza, né come privilegio della

verità, né come sopraffazione della forza, ma come l’onere cui i

cittadini chiamano col voto, dicendo: “Ti sei candidato al governo?

Dai prova di quel che sai fare”.

Chi difenderà una democrazia siffatta dalle sue

strumentalizzazioni? Non principalmente i governanti. L’arena della

politica è quella del potere e delle ideologie (oggi, più del potere, che

delle ideologie), cioè dell’uso strumentale del governo. Coloro i quali

si impegnano in politica, lo fanno per questo. E’ difficile che la pianta

della democrazia critica cresca da quelle parti. Tenere le mani sulla

democrazia come valore è il compito di quanti non vivono né di, né

per la politica, ma sono, tuttavia, interessati alla sua qualità. E’ il

compito della società civile e, perciò, non deve stupire se le forze

intellettuali che essa produce, siano per natura orientate alla diffidenza

nei confronti dei governanti; di tutti i governanti di turno, in quanto in

tutti sussiste la medesima vocazione opportunistica - esplicita o

implicita - nei confronti della democrazia.

Dopo averne fatto l’elogio, dobbiamo chiederci se la democrazia

critica ci assicura contro le aberrazioni, le decisioni di cui dovremmo

pentirci, come quella dell’anno 33 dopo Cristo? Per nulla, ma almeno

ci impone di essere guardinghi e - cosa molto importante - aiuta tutti

ad evitare di credersi infallibili, come in una repubblica di angeli che

contemplano la verità.

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D’altra parte, però, ci impedisce anche di cadere nell’indifferenza

nichilista di una repubblica di demoni che, non credendo in nulla, si

ritengono autorizzati a tutto. Vorremmo forse di più, ma è già

qualcosa. Forse è il massimo a cui può aspirare chi non è angelo e non

vuol diventare diavolo468.

II.3. Il Pilato democratico di Kelsen.

La teorizzazione del Pilato democratico è di un maestro di filosofia

del diritto e della politica: Hans Kelsen469. Essa muove, soprattutto,

dal celeberrimo passo del Vangelo di Giovanni470, che narra del

dialogo tra Gesù e Pilato sulla verità e di cui lo stesso Kelsen scrisse

che tale narrazione, nella sua lapidaria semplicità, è tra le cose più

grandiose che la letteratura mondiale abbia prodotto e che, senza

volerlo, diventa un tragico simbolo dell’antagonismo tra assolutismo e

relativismo471: Gesù, l’assolutista, perché conosceva - anzi, era - la

verità; Pilato, il relativista, perché l’ignorava.

L’episodio narrato da Giovanni, ripetutamente invocato dal

pensiero antidemocratico per dimostrare a quale scandalo si può

468 Zagrebelsky, 1995, pag. 108. 469 Kelsen, 1920, pp. 55-56. 470Io. 18,37-38: “Io sono nato per questo e per questo sono venuto al mondo: per rendere

testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Gli disse Pilato: “Che

cos’è la verità?”. Detto questo, (senza attendere una risposta, che considerava, in ogni caso,

insensata), uscì di nuovo dai Giudei”.471 Kelsen, 1920, pag. 55.

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arrivare rimettendosi alla forza dei numeri (l’assassino Barabba

preferito al figlio di Dio; la libertà per il primo ed la croce per il

secondo), viene da Kelsen rovesciato nel suo significato, divenendo

l’apologia della democrazia, in quanto egli scrisse che Pilato, poiché

era un relativista scettico e non sapeva che cosa fosse la verità - la

verità assoluta in cui quell’uomo credeva - agì in modo democratico,

con assoluta coerenza, rimettendo la decisione del caso, al voto del

popolo. Secondo Kelsen, per coloro che credono nel figlio di Dio e re

dei Giudei come testimone della verità assoluta, questo plebiscito è

certamente un serio argomento contro la democrazia, ma gli scienziati

della politica (che Kelsen afferma di rappresentare), invece, saranno

costretti ad accettare quest’argomento solo ad una condizione: di

essere tanto sicuri della propria verità politica, da imporla, se

necessario, con lacrime e sangue; di essere tanto sicuri di tale verità,

quanto lo era il Figlio di Dio”472.

Dunque, secondo Kelsen, l’interpretazione tradizionale di Pilato,

simbolo della codardia dell’uomo di governo, e quella di Pilato,

simbolo della democrazia, non sono alternative. Al contrario: sono

perfettamente compatibili l’una con l’altra. Anzi, si può affermare che

il Pilato democratico fornisce la base ed, addirittura, nobilita il Pilato

codardo. Se non esiste la verità e se la logica della democrazia è solo

quella dei numeri, come potremmo rimproverare a Pilato di essersi

piegato all’urlo dei più? Di non aver ordinato di sgombrare la piazza?

Di non aver salvato Gesù? La codardia di Pilato in questa logica

472 Kelsen, 1920, pag. 56.

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“democratica”, ci appare diversamente: non vizio, ma virtù. L’unica

“verità”, per uno spirito scettico, è la forza della realtà; nella specie, la

folla che grida. E così, l’ipocrisia della lavanda delle mani diventa

simbolo veritiero dell’essenza del comportamento politico

autenticamente democratico. “Non io, ma voi l’avete voluto, ed io

sono al vostro servizio. Che volete di più?”.

Zagrebelsky obiettando alle riflessione di Kelsen, osserva che non

c’è bisogno di dire quanto questa “visione autentica della

democrazia”, sia ripulsiva; una visione per la quale non varrebbe la

pena non solo di sacrificare se stessi, ma nemmeno di sacrificare un

poco del proprio tempo. Eppure, si potrebbe facilmente negare che

essa sia un atteggiamento che si è largamente fatto strada nelle nostre

società? Non è vero che la “democrazia di Pilato” sta facendo scuola

ed appare, anzi, fonte strategica d’ispirazione per uomini singoli e

gruppi politici?473.

Carenza d’idee direttive (per non dire d’ideali o d’ideologie),

presentata come lo strumento per mettersi democraticamente in

sintonia, in realtà per più facilmente blandire ed ottenere il favore

degli elettori e, così, conquistare o mantenere il potere; eliminazione

dalla contesa politica, d’ogni elemento simbolico d’identificazione

sociale e programmatica e sostituzione con vuoti segni, puramente

emotivi; liquidazione dei centri stabili d’elaborazione politica, quali

partiti, e sostituzione con più volatili strutture culturali di stampo

giornalistico, adatte per la cosiddetta comunicazione politica

473 Zagrebelsky, 1995, pag. 113.

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(comunicazione di cosa?), sono tutti passaggi per ottenere la massima

plasticità del ceto “politico”, nell’adeguarsi agli “umori” che salgono

dalla società, costantemente tenute sotto osservazione, tramite

moderne tecniche demoscopiche.

Conclusivamente, quest’adattabilità viene esibita come la massima

dote democratica e, se non è piena, si denuncia un difetto di

democrazia. Nulla per Pilato alla fine sarebbe valso tanto da mettere a

rischio la propria tranquillità, la propria fortuna, il favore della folla, la

benevolenza dei potenti. In una parola: il proprio interesse. La legge

fondamentale di Pilato, come della scettico in generale, è proprio

questa: l’interesse, come fine e le circostanze (anche la vita degli altri,

come semplice “circostanza”), come mezzi. Il potere ed il governo,

intesi come fini, non possono che richiedere la relativizzazione di tutto

il resto. In questo senso, Pilato che volta le spalle a chi potrebbe dirgli

qualcosa sulla verità, non è privo di una sua coerenza, perfino di una

certa grandezza.

Non sarebbe giusto, allora dire con Kelsen, che per Pilato una cosa

valeva un’altra e ch’egli si è comportato da democratico, proprio

perché non ha preso alcun partito e si è rimesso al popolo. Egli ha

preso partito, solo che la vita di Gesù valeva quanto quella di Barabba,

cioè niente, perché al di sopra dell’una e dell’altra, c’erano le esigenze

superiori del potere e del governo: ecco il suo partito.

Pilato può, allora, esser visto come colui che impersona l’ethos

essenziale di ogni comportamento autenticamente ed integralmente

ispirato alle ragioni dell’uomo di Stato, consapevole dei suoi doveri e

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capace di far tacere se medesimo, di fronte a quelli. Anch’egli può,

dunque, essere accomunato a tutti gli altri personaggi del dramma che

rappresentano la propria parte, la propria vocazione e che meritano il

riconoscimento che è dovuto a chi sta con integrità nel ruolo che gli è

assegnato. Cosicché, l’attenzione non dovrebbe concentrarsi sui

caratteri morali di Pilato, ma sui caratteri del ruolo di procuratore: non

l’uomo, ma il funzionario, è qui in questione. Contro la

rappresentazione usuale dell’uomo tiepido, debole, vile e legato al suo

meschino interesse, può stare la comprensione di Pilato, come il

politico puro, quello per cui il potere ed il governo sono il fine e tutto

il resto, verità e giustizia, scadono a puri mezzi, utili, inutili o dannosi,

a seconda delle circostanze474. Quasi un machiavellico ante litteram:

“Pilato adunque, volendo soddisfare alla moltitudine, liberò loro

Barabba. E, dopo aver flagellato Gesù, lo diede loro in mano, per

essere crocifisso”475. “Volendo soddisfare alla moltitudine”: ecco,

forse, l’elemento essenziale per questa comprensione politica di

Pilato. Soddisfare alla moltitudine era, in quel momento, una necessità

per non tradire il compito che gli era assegnato come procuratore in

Giudea476.

Ancora si ripropone l’interrogativo: Pilato democratico? Per nulla.

Per andare dietro al favore popolare ed assecondare il popolo, non è

affatto necessario essere dei democratici. Si può, all’opposto, essere

dei perfetti autocrati. Alla fine, Pilato è più vicino allo spirito

474 Zagrebelsky, 1995, pag. 78. 475 Mc. 15,15. 476 Zagrebelsky, 1995, pag. 79.

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popolare, di quanto non lo sia Gesù, come profeta: i profeti che

vengono a “mettere il fuoco in terra”477, sono messi a morte dalla

folla, a preferenza degli autocrati che si sforzano di blandirla.

II.4. Cacciari su: “Che cosa è verità?”478.

Massimo Cacciari, sollecitato nel corso di un’intervista pubblicata

di recente a rispondere all’interrogativo su quale sia il “valore” della

verità479, interpreta la domanda che Pilato rivolse a Gesù, riportataci

da Io.18,38, come se lo stesso Pilato si interrogasse e dicesse:

Insomma, come posso giungere alla “verità”? Cacciari sostiene che

questo sia il primo significato da attribuire alla celeberrima frase di

Pilato; significato che emerge con evidenza solo se si fa mente alla

situazione in cui essa viene pronunciata (un processo) ed alla cultura

di chi la pronuncia.

Vera è la rappresentazione adeguata al fatto o alla natura delle cose

e Pilato non può accettare quale “realtà” abbia il regno di quello strano

ebreo (tanto meno, se Egli sia Figlio di Dio!). Ma, qui avviene il

corto-circuito fatale: la domanda di Pilato muove da un’idea di verità,

cui nessuna parola di Gesù potrebbe corrispondere! I Giudei che lo

accusano possono, invece, comprendere la natura della sua parola, ma

ne vedono anche, in uno, il carattere “eversivo” rispetto alla tradizione

477 Lc. 12,4; cfr. Zagrebelsky, 1995, pag. 79. 478 Io. 18,38. 479 Cacciari, 2007, pp. 28-29.

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che ritengono propria missione difendere. Il fondamento comune da

cui partono questi “fratelli divisi”, è il senso biblico del termine

“verità”: vera è la Parola di Dio, vera è la sua promessa,

intramontabile la sua fedeltà al popolo che ha eletto; vero è l’agire

conforme a quella parola. La verità viene fatta; il credente agisce

secondo la verità, facendola, cioè obbedendo a ciò che la Verità ha

ordinato. Così, la parola di Gesù stesso è vera, poiché viene dalla

Verità, e non perché sia una “forma”che si adegua ad un fatto, che lo

rappresenta compiutamente. Se si fosse limitato a testimoniare questo,

Gesù non sarebbe mai stato trascinato di fronte al giudizio

(impossibile) di Roma. Egli non afferma soltanto che il Logos del

Padre è la Verità, né che la Sua Verità va fatta; Egli non predica

soltanto tutto ciò che predicano anche i suoi successori (e che è

incomprensibile a Pilato, ma non costituisce per lui, alcun motivo di

condanna); Egli non si limita a rendere testimonianza della Verità, né

pretende solo di conoscerla. Certo che anche la conosce, certo che

anche l’ha ascoltata dal Padre ed ora l’annuncia, ma la “misura” di

questa conoscenza e di questo annuncio è straordinaria ed affatto

“scandalosa”.

Con perfetta consapevolezza, il Gesù di Giovanni afferma di essere

la Verità, che la Verità coincide con la sua realtà storica ed umana.

“Aletheia” è la sua stessa persona; la Verità si è pienamente svelata,

nella pienezza dei tempi, facendosi carne. Il Padre lo si adora (e,

anzi, lo si vede) in questo volto, nella verità del suo apparire, del suo

manifestarsi, del suo Evento. L’ora escatologica promessa è questa!

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“Io sono”, ripete continuamente il Gesù di Giovanni: la Verità del

Padre esiste in me e chi crede che Io sia la Verità (non che la

testimonio soltanto, non solo che la “rappresento”), sarà salvo, ossia

vivrà, potrà dire “che è”, come lo dice il Figlio, come lo dice Colui

che ha vinto la morte!480. Ed, allora, la giusta domanda di Pilato

sarebbe stata : “Chi” e non “cosa” è verità?

Riassumendo i contributi degli autori esaminati, possiamo dire

conclusivamente che il popolo entrò in scena solo quando e come altri

decisero, in una vicenda che, ad esso, sfuggiva integralmente, perché

mossa da fuori. Non solo: l’autorità aristocratica del Sinedrio e quella

autocratica di Pilato, che prima della consultazione popolare,

traballavano, ne furono rafforzate. Si trattò, dunque, di una

mobilitazione popolare a favore dei detentori del potere, di una partita

in cui il popolo giocava una parte nell’interesse altrui. Non era un

attore, era una pedina, anche se, forse, si illudeva addirittura d’essere

il protagonista. Questo è, per l’appunto, l’uso strumentale della

“democrazia”481.

La vicenda di Gesù dimostra come possa esserci un’alleanza,

apparentemente impossibile, tra l’assolutismo del dogma ed il

nichilismo della scepsi, e come questa alleanza possa assumere

esteriormente un aspetto “democratico”. Al dogma (il Sinedrio),

interessa la sostanza della decisione, rivestita della forza popolare; al

potere scettico (Pilato), alla fine, interessa solo la forza popolare, per

poterla blandire, adeguandosi. Finché non la si metta in discussione, la

480 Cacciari, 2007, pag. 29. 481 Zagrebelsky, 1995, pag. 81.

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sostanza della decisione non interessa: scetticamente, una decisione

popolare vale l’altra. Per entrambi - il dogma e la scepsi - vi sono

molte possibilità d’intendersi, quando si tratta di ingannare il popolo.

Qui, c’è probabilmente un significato paradigmatico universale della

vicenda di Gesù. Non, dunque, la rinuncia alla verità, che conduce

solo a vacuo potere, ma nemmeno l’opposto, il governo della verità,

che porta a tronfia intolleranza. Nella rappresentazione evangelica,

Pilato ci ammonisce dei rischi della scetticismo; Gesù, che rompe il

silenzio solo per proclamare di essere la Verità482, ma di non essere

venuto per regnare in questo mondo483, ci ammonisce del rischio del

contrario: di pretendere noi di fare quello che neppure Lui volle fare.

A ciascuno e, soprattutto, all’uomo politico, spetterebbe la ricerca

della verità, alimentata dal dubbio; la ricerca umile, tenace, paziente e

circospetta di chi sa bene che non ci sarà dato, in questa vita terrena,

di svelarla e, tanto meno, di realizzarla integralmente.

Allora, è d’obbligo ripetere l’interrogativo: Chi è il democratico?

Gesù o Pilato? Alla fine di questa ricostruzione, noi vorremo dire, in

condivisione con Zagrebelsky, che l’amico della democrazia - della

democrazia critica, quella nobile, così come intesa da quest’ultimo - è

piuttosto Gesù, colui che, silente fino alla fine, invita al dialogo ed al

ripensamento484; Gesù che tace, aspettando “fino alla fine”, è per noi

la Verità!

482 Io. 18,37. 483 Io. 18,36. 484 Zagrebelsky, 1995, pp. 119-120.

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