IL PROBLEMA DELLA TESTA - archeologiafilosofica.it · dominio mercantile nel suo...

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IL PROBLEMA DELLA TESTA * da Tiqqun n. 2, 2001 La democrazia riposa su una neutralizzazione di antagonismi relativamente deboli e liberi: esclude ogni condensazione esplosiva. […] La sola società piena di vita e di forza, la sola società libera è la società bi o policefala che dà agli antagonismi fondamentali della vita uno sbocco esplosivo costante ma limitato alle forme più ricche. La dualità o la molteplicità delle teste tende a realizzare in un unico movimento il carattere acefalo dell’esistenza, perché il principio stesso della testa è riduzione all’unità, riduzione del mondo a Dio. Acéphale, n. 2-3, gennaio 1937 Prendo in considerazione tutte le gesta delle “avanguardie” nella loro presunta successione. Ne deriva un’ingiunzione, un comandamento. Un comandamento sul gesto con cui le colgo. Le “avanguardie” esigono d’essere trattate in un certo modo; non credo che siano mai state nient’altro, in fin dei conti, che questa esigenza, e la sottomissione a questa esigenza. * Nel giugno 2000 il museo di Bassano del Grappa (Veneto) organizzava una sorta di retrospettiva isterica di tutto ciò che la seconda metà del ventesimo secolo aveva potuto annoverare tra l’avanguardismo fumoso, dalla poesia nucleare alla Luther Blisset passando per il lettrismo e Fluxus. Un colloquio preliminare, sibillinamente intitolato “Fatticità dell’arte”, doveva dare a questa manifestazione una parvenza di giustificazione ideologica. Vi fu dunque mandata una giovane donna che vi lesse anonimamente il testo qui riprodotto. Nel mezzo della lettura due vecchi avanguardisti italiani tentarono di protestare contro tanta insolenza rivolta contro il museo e contro loro stessi, per uscire infine con gran clamore, annunciando che avrebbero ritirato le loro opere da questa inconcepibile esposizione.

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IL PROBLEMA DELLA TESTA*

da Tiqqun n. 2, 2001

La democrazia riposa su una neutralizzazione di antagonismi relativamente deboli e liberi: esclude ogni condensazione esplosiva. […] La sola società piena di vita e di forza, la sola società libera è la società bi o policefala che dà agli antagonismi fondamentali della vita uno sbocco esplosivo costante ma limitato alle forme più ricche. La dualità o la molteplicità delle teste tende a realizzare in un unico movimento il carattere acefalo dell’esistenza, perché il principio stesso della testa è riduzione all’unità, riduzione del mondo a Dio.

Acéphale, n. 2-3, gennaio 1937

Prendo in considerazione tutte le gesta delle “avanguardie” nella loro presunta successione. Ne deriva un’ingiunzione, un comandamento. Un comandamento sul gesto con cui le colgo. Le “avanguardie” esigono d’essere trattate in un certo modo; non credo che siano mai state nient’altro, in fin dei conti, che questa esigenza, e la sottomissione a questa esigenza.

* Nel giugno 2000 il museo di Bassano del Grappa (Veneto) organizzava una sorta di retrospettiva isterica di tutto ciò che la seconda metà del ventesimo secolo aveva potuto annoverare tra l’avanguardismo fumoso, dalla poesia nucleare alla Luther Blisset passando per il lettrismo e Fluxus. Un colloquio preliminare, sibillinamente intitolato “Fatticità dell’arte”, doveva dare a questa manifestazione una parvenza di giustificazione ideologica. Vi fu dunque mandata una giovane donna che vi lesse anonimamente il testo qui riprodotto. Nel mezzo della lettura due vecchi avanguardisti italiani tentarono di protestare contro tanta insolenza rivolta contro il museo e contro loro stessi, per uscire infine con gran clamore, annunciando che avrebbero ritirato le loro opere da questa inconcepibile esposizione.

Ascolto la storia delle Brigate Rosse, dell’Internazionale situazionista, del futurismo, del bolscevismo o del surrealismo. Rifiuto di apprenderla in modo cerebrale, tendo il dito alla ricerca di un contatto, non sento nulla. Anzi sì, provo qualcosa: la sensazione d’una intensità vuota. Guardo la sfilata delle avanguardie: si estenuano senza sosta nella tensione verso sé stesse. Le gesta storiche, le purghe, le rotture, i dibattiti di orientazione, le campagne d’agitazione, le scissioni, le esclusioni sono le tappe che conducono al loro aborto. Straziata tra lo stato presente del mondo e il suo stato finale verso cui l’avanguardia deve condurre il gregge umano, squartata nella tensione soffocante tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, perduta nell’auto-teatralizzazione organizzativa di sé, nella contemplazione verbale della propria potenza proiettata nel cielo delle masse e della Storia, non riuscendo mai a vivere niente se non attraverso la mediazione della rappresentazione già da sempre storica di ognuno dei suoi movimenti, l’avanguardia gira in tondo nell’ignoranza di sé che la consuma. E alla fine collassa, senza aver visto la nascita, ancor prima di essere giunta al suo inizio. La domanda più ingenua sulle avanguardie - quella che vuol sapere all’avanguardia di cosa, esattamente, si mettano - trova qui la sua risposta: le avanguardie sono prima di tutto all’avanguardia di sé stesse, e si inseguono.

Io parlo a titolo di partecipante al gioco che si sviluppa in questo momento attorno alla rivista Tiqqun. Non dirò “noi”, nessuno potrebbe parlare in nome di una avventura collettiva senza usurparla. Tutt’al più posso parlare in maniera anonima, non della ma nell’esperienza che faccio. L’avanguardia, in ogni caso, non sarà trattata come un demone esteriore da cui ci si senta sempre osservati. C’è dunque una maniera avanguardista di cogliere le “avanguardie”, o le loro gesta, che è la stessa cosa. Non ci si spiega altrimenti come mai gli studi, i saggi, le

agiografie e le varie considerazioni di cui sono oggetto possano così spesso lasciare quest’impressione di lavoro di seconda mano, di speculazione aggiuntiva. Ed è perché non sono altro che la storia d’una storia, perché ciò di cui discorrono è nella fattispecie già un discorso. Chiunque sia stato un giorno sedotto da una o dalle avanguardie in genere, chiunque si sia lasciato riempire dalla loro leggenda autarchica, non ha potuto non provare a

contatto di un qualunque profano un capogiro davanti al grado d’indifferenza degli uomini verso tutto ciò, al carattere impenetrabile di questa indifferenza e, soprattutto alla felicità insolente che i non iniziati osano comunque manifestare nella loro ignoranza. Il capogiro di cui parlo non viene da ciò che può separare due visioni divergenti della realtà, ma dallo iato tra due strutture distinte della presenza, l’una che riposa in sé stessa, l’altra che si è come sospesa in una proiezione al di là di sé. Da questo si capisce che l’avanguardia è un regime di soggettivazione, e in nessun caso una realtà sostanziale. Inutile precisare che per definire questo regime di soggettivazione si è dovuto, preliminarmente, estrarsene; e che colui che acconsente a questo allontanamento si espone alla perdita d’un gran numero di incanti, e di solito non tarda ad essere colto da una bruciante malinconia. L’universo scintillante, virtuoso delle avanguardie offre da questo punto di vista lo spettacolo di una idealità spettrale, di un cumulo fragile di antiforme. Costui può allora ritrovare qualche dolcezza in questa visione, in una sorta di ingenuità calcolata, fatta per dissipare le fitte nebbie del niente. A questa percezione sensibile delle avanguardie si associa il sentimento brutale della

nostra comune terrestritudine. Tre parole d’ordine In tutti i domini il regime di soggettivazione avanguardista si distingue per il ricorso alla “parola d’ordine”. La parola d’ordine è l’enunciato di cui l’avanguardia è il soggetto sottinteso. “Trasformare il mondo”, “cambiare la vita” e “creare delle situazioni” formano una trinità, la trinità più popolare delle parole d’ordine lanciate dall’avanguardia da più di un secolo. Si potrebbe notare con una certa malevolenza che nel frattempo nessuno ha trasformato il mondo, cambiato la vita e creato delle situazioni nuove, tranne il dominio mercantile nel suo divenire-imperiale, cioè il nemico dichiarato delle avanguardie; e che questa

rivoluzione permanente, l’Impero, nella maggior parte dei casi, l’ha condotta il più delle volte senza frasi. Ma se ci fermassimo qui sbaglieremmo obbiettivo. Quello Quello su cui ci si dovrebbe soffermare è piuttosto l’ineguagliabile potere di paralisi di queste parole d’ordine, la loro terribile potenza di siderazione. In ognuna di esse l’effetto dinamico atteso si inverte specularmente. L’avanguardia esorta l’uomo di massa, il Bloom, a prendere per oggetto qualcosa che già da sempre lo comprende - la situazione, la vita, il mondo – a porre innanzi a sé ciò che essenzialmente è tutto intorno a sé, ad affermarsi in quanto soggetto davanti al quale non ci sono né soggetto né oggetto, ma piuttosto ma piuttosto l’impossibilità di distinguere l’uno dall’altro. E’ strano che l’avanguardia non abbia mai più lanciato con così tanta violenza, come

negli anni ’10 e ’70 del Novecento, all’uomo della folla l’ingiunzione di essere un soggetto, cioé nel momento storico in cui le condizioni materiali dell’illusione del soggetto tendevano più drasticamente a sparire. Al tempo stesso questo mette chiaramente in luce il carattere reattivo dell’avanguardia. Quest’ordine paradossale non doveva in nessun modo avere l’effetto di gettare l’uomo occidentale all’assalto delle Bastiglie diffuse dell’Impero, ma piuttosto ottenere in lui una scissione, un trincerarsi dell’io nella schizofrenia, in un confine di sé in cui il mondo, la vita e le situazioni, per farla breve la sua esistenza si conoscono come fossero straniere, cioè come puramente oggettive. Questa costituzione precisa del soggetto, ridotto a contemplare sé stesso nel bel mezzo di ciò che lo circonda, può essere definita come estetica, nel senso in cui la venuta del Bloom corrisponde anche a un’estetizzazione generale dell’esperienza al di fuori del tessuto etico del vivere. Andare verso le masse piuttosto che partire da sé Nel giugno del 1935, il surrealismo tocca il limite estremo del suo progetto di formare l’avanguardia totale. Dopo otto anni passati a cercare di mettersi al servizio del Partito Comunista Francese, un pioggia un po’ troppo fitta di affronti gli fece prendere atto del suo definitivo disaccordo con lo stalinismo. Un discorso scritto da Breton , ma letto da Paul Eluard al “Congresso degli Scrittori per la difesa della Cultura” segnò dunque l’ultimo contatto importante tra il surrealismo e il PCF, tra l’avanguardia artistica e l’avanguardia politica. La conclusione è rimasta famosa: “Marx ha detto ‘Trasformare il mondo’, Rimbaud ha detto ‘cambiare la vita’: queste due parole d’ordine per noi sono una sola cosa.” Breton non formulava così solo il desiderio di un avvicinamento, ma esprimeva anche l’intima connessione effettiva tra l’avanguardismo artistico e l’avanguardismo politico, la loro comune natura estetica. Così come il surrealismo era teso verso il PCF, il PCF era teso verso il proletariato. Ne I militanti, scritto nel 1949, Arthur Koestler fornisce una testimonianza preziosa di questa forma di schizofrenia, di ventriloquia di classe che è familiare nel discorso surrealista, ma ritrovata meno spesso nel KPD dell’inizio degli anni ’30: “Un tratto particolare della vita del Partito, a quest’epoca, era il ‘culto del proletario’ e il disprezzo degli intellettuali. Era lo strazio e l’ossessione di tutti gli intellettuali comunisti venuti dalle classi medie. Ci tolleravano nel Movimento, ma non ci stavamo a pieno titolo: ci convincevano di questo giorno e notte. […] Un intellettuale non poteva mai diventare un vero proletario, ma il suo dovere era di avvicinarvisi il più possibile. Alcuni cercavano di riuscirci rinunciando alla cravatta, mettendosi dei maglioni da proletario e tenendosi le unghie nere. Ma una tale impostura da snob non era ufficialmente incoraggiata.” Aggiunge sul suo conto: “Finché non avevo fatto altro che soffrire la fame, mi consideravo come un rampollo della borghesia provvisoriamente declassato. Ma quando nel 1931 mi assicurai finalmente una situazione soddisfacente, sentii che era venuto il momento di ingrossare i ranghi del proletariato.” Se c’è dunque una parola d’ordine, di certo non formulata, ma cui l’avanguardia non è mai venuta meno è andare alle masse piuttosto che partire da sé.

Solitamente poi accade che l’uomo d’avanguardia, dopo essere andato verso le masse per una vita intera senza averle mai trovate - lì almeno dove le attendeva – consacri la sua vecchiaia a denigrarle. L’uomo d’avanguardia potrà allora facilmente prendere il posto dell’uomo dell’Ancien Régime e, col passare degli anni, imparare a fare un redditizio commercio del suo rancore. Avrà quindi alla fine vissuto sotto diverse latitudini ideologiche, ma sempre e immancabilmente all’ombra delle masse che si era inventato. Per essere assolutamente chiari La posta in gioco teorico-pratica del nostro tempo è il superamento della metafisica, o più esattamente la sua Verwindung, cioè un superamento che si compie restando presso. L’Impero designa l’insieme di forze che lavorano a scongiurare questa Verwindung, a prolungare all’infinito la sospensione epocale. La strategia più contorta messa al servizio di questo progetto, quella di cui bisogna sospettare dove si parla di “post-modernità”, è quella che spinge verso un sedicente superamento estetico della metafisica. Naturalmente, chi sa a quale metafisica aporetica la logica del superamento vorrebbe portarci, e dunque percepisce in che modo sornione l’estetica può servire ormai da rifugio alla stessa metafisica, la metafisica “moderna” della soggettività, indovinerà senza fatica dove si voglia esattamente arrivare con questa manovra. Ma qual è questa minaccia, questa Verwindung contro cui l’Impero concentra così tanti dispositivi? Questa Verwindung non è altro che l’assunzione etica della metafisica, e quindi, attraverso questa, dell’estetica in quanto sua forma ultima. L’avanguardia appare precisamente a questo punto, come centro di confusione. Da un lato l’avanguardia mira a produrre l’illusione d’un superamento estetico possibile della metafisica, ma dall’altro c’è sempre in lei qualcosa che l’eccede e che è di ordine etico, che dunque tende alla configurazione d’un mondo, si dà come ethos di una comunità. Questo elemento è il rimosso essenziale dell’avanguardia, e misura tutta la distanza che, per esempio nel primo surrealismo, separa la rue Fontaine dalla rue du Château. Così, dalla morte di Breton in poi, quelli che non hanno rinunciato a rivendicarsi come eredi del surrealismo tendono a definirlo come una “civiltà” (Bounoure) o più sobriamente uno “stile” sullo stesso piano del barocco, del classicismo o del romanticismo. La parola costellazione sarebbe forse la più giusta. E di fatto colpisce che il surrealismo non sia morto, quando era ancora vivo, della rimozione della sua propensione a farsi mondo, a darsi una positività. Delle mummie Fin dall’inizio del Novecento, non possiamo non riconoscere la Francia, e Parigi in particolare, come un ricco terreno di studio in materia di autosuggestione avanguardista. Ogni generazione sembra dover partorire dei nuovi prestigiatori che aspettano che al loro turno di trucchi li si faccia credere alla magia. Ma naturalmente, di generazione in generazione, i candidati al ruolo di Grande Simulatore si coprono di un nuovo strato di polvere e di pallore, a forza di mimare i mimi. E’ capitato, a me e

ai miei amici, di incontrare delle persone che si sono distinte per essere tra i più ridicoli aspiranti all’avanguardismo letterario in Francia. In verità non avevamo più a che fare con dei corpi: si trattava già di spettri, di mummie. Lanciavano all’epoca un Manifesto per laa rivoluzione letteraria. Atto giudizioso. Il loro cervello - tutte le avanguardie hanno il loro cervello – pubblicava il suo primo romanzo. Il romanzo si intitola La mia testa in libertà. Un cattivo romanzo. Comincia così: “Vogliono sapere dove ho messo il mio corpo.” Ma il problema dell’avanguardia è il problema della testa. Le ragioni dell’operazione e quelle della sconfitta Alla fine della Guerra dei Cent’anni si pone il problema di fondare una teoria moderna dello Stato, una teoria che concili i diritti civili e la sovranità reale. Lord Fortescue fu uno dei primi pensatori a tentare una fondazione simile, in particolare nel suo Dell’elogio delle leggi degliInglesi. Il celebre capitolo XIII di questo trattato contesta la definizione agostiniana del popolo - populus est coetum hominum iuris consensu et utilitatis communione sociatus: un popolo è un corpo fatto di uomini che riunisce l’assenso alle leggi e la comunità degli interessi - : “Un tale popolo non merita d’essere chiamato corpo poiché è acefalo, cioè senza testa. Perché, così come nei corpi naturali ciò che resta dopo una decapitazione non è un corpo, ma ciò che si chiama un tronco, così nei corpi politici una comunità senza testa non è in nessun caso un corpo.” La testa, secondo Fortescue, è il re. Il problema della testa è quindi il problema della rappresentazione, il problema dell’esistenza di un corpo che rappresenta la società come corpo, di un soggetto che rappresenta la società come soggetto – qui non c’è nessun bisogno di distinguere tra la rappresentazione esistenziale che è in gioco nel monarca o nel capo fascista e la rappresentazione formale del presidente “democraticamente” eletto. L’avanguardia non catalizza dunque solo la crisi artistica della rappresentazione – quella che rifiuta che “l’immagine sia il sembiante di un’altra cosa che rappresenta in sua assenza” (Torquemada), e che considera l’immagine in sé stessa come una cosa -, l’avanguardia si trova anche a far precipitare la crisi della rappresentazione politica formale, che mette sotto processo in nome della rappresentazione esistenziale delle masse, che l’avanguardia pretende di raffigurare. Facendo così, l’avanguardia supera effettivamente la politica o l’estetica classiche, ma le supera sul loro stesso terreno. L’esclusivo rapporto di negazione nel quale essa si pone nei confronti della rappresentazione è proprio quello che la trattiene nel girone di quest’ultima. Tutte le correnti che si richiamano alla democrazia diretta, in particolare all’avanguardismo consiliarista, traggono da qui il loro ostacolo principale: opporsi alla rappresentazione e attraverso questa stessa opposizione porre la rappresentazione al proprio cuore, non più come principio ma questa volta come problema. Mandato imperativo, delegati revocabili in ogni momento, assemblee autonome, ecc., c’è tutto un formalismo consiliarista che risulta dal fatto che è ancora alla questione classica del miglior governo che si vuole rispondere, e dunque al problema della testa. Con il favore di eccezionali circostanze storiche potrà sempre succedere che queste correnti arrivino a

superare la loro congenita anemia e allora questo sarà per rappresentare l’uscita dalla rappresentazione. Dopo tutto anche la politica ha diritto alle sue Meninas. L’operazione dell’avanguardia consiste dunque nel mettere il proprio corpo lontano di fronte a sé, per poi tentare invano di raggiungerlo. Quando le avanguardie vanno dalle masse o si degnano di immischiarsi negli affari del loro tempo, è sempre avendo avuto preliminarmente cura di distinguersene. Così è stato sufficiente che i situazionisti cominciassero ad avere qualcosa di simile a ciò che chiamavano “una pratica”, a Strasburgo, nell’ambiente studentesco, nel 1966, perché ricadessero poi brutalmente nell’operaismo, ma trent’anni dopo il collasso del movimento operaio. L’avanguardia come soggetto e come rappresentazione E’ strano, ma in fin dei conti naturale, che quelli che hanno come professione la glossa all’avanguardia, e che non sono mai a corto di un aneddoto formale sul

minimo gesto di chi ha vissuto per loro, cioè il ristretto manipolo degli avanguardisti del secolo, è curioso, dicevo, che questa gente sia tanto reticente sul destino dell’avanguardia in Russia tra le due guerre, cioè sull’unica realizzazione storica dell’avanguardia. La leggenda vuole che, dopo un periodo di tolleranza imbarazzata, negli anni ’20, una volta che i bolscevichi furono diventati staliniani, l’avanguardia politica abbia liquidato il fermento libertario e creativo dell’avanguardia artistica e abbia imposto tirannicamente la dottrina reazionaria, retrograda, volgare del “realismo socialista”. E in effetti è un racconto un po’ semplicistico. Nel 1914 crolla l’ipotesi liberale in quanto risposta al problema della testa. Quanto

all’ipotesi cibernetica bisognerà attendere fino alla fine della II Guerra Mondiale perché s’imponga. Questo interregno, che dura dal 1914 al 1945, sarà l’età dell’oro dell’avanguardia, dell’avanguardia in quanto progetto di risolvere altrimenti il problema della testa. Questo progetto sarà la ricreazione totale del mondo da parte dell’artista d’avanguardia, che si chiamerà poi più modestamente “realizzazione dell’arte” e sarà portato avanti, e in una maniera sempre più mistica, da tutte le correnti dell’avanguardia russa degli anni ’20, dal LEF all’Opoiaz, dal suprematismo al produzionismo passando per il costruttivismo. Si tratta di forgiare una nuova umanità per mezzo della modificazione radicale delle condizioni d’esistenza, “un’umanità bianca” ( Malevich). Ma poiché l’avanguardia era legata alla cultura tradizionale, e quindi al passato, da un rapporto di negazione, non poteva realizzare questo programma. Come Mosé, poteva solo portare questo progetto, ma non metterlo in pratica. Il ruolo di “architetto della nuova vita”, di “ingegnere dell’anima umana”, non le sarebbe mai toccato, proprio a causa di quel che la legava, anche solo nel rifiuto, all’arte antica. Questo progetto il Partito solo poteva realizzarlo; lui cui

l’avanguardia non smetteva di chiedere d’essere messa al lavoro, di essere utilizzata, di servire alla costruzione della nuova società socialista. Non era Majakovskij che senza malizia esigeva che “la penna sia comparata alla baionetta e che lo scrittore possa, come un qualunque altro imprenditore sovietico, render conto del suo operato al Partito sollevando ‘i cento tomi dei suoi scritti di Partito’”? Non ci si stupisca quindi che la decisione del Comitato Centrale del Partito del 23 aprile 1932 che annunciava la dissoluzione di tutti i gruppi artistici si stata accolta favorevolmente da una gran parte degli avanguardisti russi. Il Partito, in questo primo piano quinquennale, riprendeva come sua parola d’ordine il progetto estetico dell’avanguardia tale quale questa l’aveva formulato: “trasformazione di tutta la vita”. Fu così che in realtà la liquidazione dell’avanguardia, o per essere più precisi il suo suicidio, coincise con la realizzazione del suo programma. Perfetta astuzia della Storia: acconsentendo a reprimere e dunque a riconoscere le attività e le deviazioni estetiche dell’avanguardia come politiche, il Partito assumeva lui stesso il ruolo d’artista collettivo d’avanguardia, per cui il paese non era altro che la materia a cui avrebbe imposto la forma del suo piano generale d’organizzazione. “L’estetizzazione della politica, per la direzione del Partito, non era altro che una reazione alla politicizzazione dell’estetica da parte dell’avanguardia.” (Boris Groys, Stalin, opera d'arte totale) Così il Partito diventava la testa, la testa che in mancanza di corpo se ne sarebbe creato uno ex nihilo. La circolarità immanente della determinazione marxiana vuole che le condizioni d’esistenza determinino la coscienza degli uomini e che gli uomini creino da sé, anche se inconsciamente, le loro condizioni d’esistenza. In quest’ottica al Partito restava, per giustificare la sua pretesa demiurgica ad una ricostruzione totale della realtà, solo il punto di vista del Creatore sovrano, del soggetto estetico assoluto. Il realismo socialista, in cui si finge di vedere un ritorno ad una figurazione folkloristica o al classicismo, ma più in generale “la cultura staliniana, se la si considera nella prospettiva d’una riflessione teorica dell’avanguardia su sé stessa, appare piuttosto come la sua radicalizzazione e il suo superamento formale”. Il suo ricorso a degli elementi classici, aborriti dall’avanguardia, non fa altro che sottolineare la sovranità di questo superamento, di questo gran balzo nel tempo post-storico, dove tutti gli elementi estetici del passato possono essere egualmente presi in prestito, ma a profitto dell’utilità che vi trova una società totalmente inedita, senza contatti con la storia passata e quindi senz’odio. Tutto l’avanguardismo posteriore non rinuncerà più a questa prospettiva demiurgica, a questo progetto di rifusione totale del mondo; e quindi a costituirsi come soggetto sovrano, allo stesso tempo contemporaneo della sua epoca e separato da lei da una necessaria distanza estetica. La comicità crescente del fenomeno è certamente legata al fatto che gli aspiranti avanguardisti non si erano accorti che a partire dal 1945 l’ipotesi cibernetica, decapitando l’ipotesi liberale, aveva soppresso il problema della testa, e che quindi diventava ogni giorno più vano vantarsi di risolverlo. Gli ultimi assalti dell’avanguardismo furono colpiti da una grottesca inattualità da remake fallito. Probabilmente è questo che volevano dire gli autori della sola critica interna dell’Internazionale Situazionista apparsa a suo tempo, L’unico e la sua proprietà, quando scrivevano: “Tutte le avanguardie sono dipendenti dal vecchio mondo e ne

nascondono la decrepitezza con la loro giovinezza illusoria. […] L’Internazionale Situazionista è la giunzione delle avanguardie nell’avanguardismo. Ha confuso l’amalgama di tutte le avanguardie con la sintesi e la ripresa di tutte le correnti radicali del passato.” La brochure, pubblicata a Strasburgo nel 1967, era sottotitolata Per una critica dell’avanguardismo. Denunciava l’ideologia della coerenza, della comunicazione, della democrazia interna e della trasparenza, tramite cui si manteneva in sopravvivenza artificiale, a colpi di volontarismo, un gruppuscolo spettrale. L’avanguardia come reazione Nessuno dubita che il futurismo abbia contribuito in modo considerevole alla definizione contemporanea di avanguardia. E’ bene quindi riprenderne la lettura, ora che l’avanguardia non può essere altro che un oggetto di scherno o di commemorazione. “Noi dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra: […] La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!...Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell'impossibile?..il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell'assoluto, poiché abbiamo già creato l'eterna velocità onnipresente. Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. […] Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa.” Qui non si tratta assolutamente di fare dell’ironia, ancor meno di fare della morale, ma solamente di capire. Capire, all’occorrenza, che l’avanguardia nasce come reazione maschile al carattere inabitabile del mondo così come la Macchina Imperiale comincia a trasformarlo, come volontà di riappropriarsi del non-mondo della tecnica autonoma. L’avanguardia nasce come reazione al fatto che ogni determinazione è diventata, in seno alla fungibilità mercantile universale, una derisione. All’intollerabile marginalità umana nello Spettacolo, l’avanguardia risponde con la proclamazione, con la proclamazione di sé come centro; proclamazione che d’altro lato non abolisce, se non in modo illusorio, il suo carattere periferico. Da ciò la concorrenza forzata, la sindrome cronica del “sorpasso”, il feticismo tragi-comico della piccola differenza, che agitano l’universo minuscolo delle avanguardie, che offrono alla fine uno spettacolo indegno, che ricorda le terribili liti tra barboni, la sera, all’ora dell’ultimo metrò. Che l’avanguardia sia stata essenzialmente un affare di uomini deve essere capito in stretta relazione con questo.

Il movimento dell’avanguardia è ampiamente negativo, è la fuga in avanti, la marcia forzata della virilità classica in pericolo verso l’accecamento finale, in un’ignoranza di sé più sofisticata di quella che per così tanto tempo aveva distinto il maschio occidentale. La necessità di mediare il proprio rapporto a sé tramite una rappresentazione di sé - quella del proprio posto nella Storia politica o dell’arte, nel “movimento rivoluzionario” o più comunemente nel gruppo avanguardista stesso – corrisponde solo all’incapacità dell’uomo d’avanguardia ad ABITARE LA SUA DETERMINITA’, al suo reale acosmismo. La vuota affermazione di sé, la professione di originalità soggettiva lo sollevano dall’obbligo dell’assunzione della propria singolarità derisoria. Per singolarità bisogna intendere qui l’hic et nunc che non riguarda solo lo spazio e il tempo, ma la costellazione significante e l’evento. Ed è proprio perché questa singolarità non trova da nessuna parte l’accesso alla sua determinazione, al suo corpo, che l’uomo dell’avanguardia aspira alla più esatta e magistrale rappresentazione della vita, cioè a darle, assurdamente, il suo nome – ci si può così interrogare, al di fuori dell’ipotesi manageriale di un esercizio collettivo di autopersuasione, sul senso della constatazione situazionista “Le nostre idee sono in tutte le teste”: in che misura un’idea che è in tutte le teste può essere di chicchessia? Ma, felicemente per noi, il numero 7 di Internationale Situationniste ha l’ultima parola su questo enigma: “Siamo i rappresentanti dell’idea-forza della stragrande maggioranza”. Tutto ciò si adatta ammirevolmente con un hegelismo che altro non è che un’espressione tronfia dell’incapacità di assumere la propria singolarità nel suo carattere qualunque. Ricorderemo opportunamente, a questo proposito, l’inizio della Fenomenologia dello Spirito. Il suo gesto inaugurale, vero e proprio colpo di giocoliere monco, è la squalifica della determinità: “L’universale è dunque infatti il vero della certezza sensibile; […] quando io dico me, questo me singolare qui, dico in generale tutti i me”. Che l’implosione e la dissoluzione dell’IS coincidano con la possibilità storica di perdersi nel proprio tempo, di parteciparvi in modo determinante, è solo la sorte prevedibile di gente che si affrettò a scrivere sul maggio del ’68: “I situazionisti […] avevano da anni previsto esattamente l’attuale esplosione e il suo seguito. […] La teoria radicale è stata confermata” (Situazionisti e enragés nel movimento delle occupazioni). L’utopia dell’avanguardia non è mai stata altro che quella di un annichilimento finale della vita nel discorso, di una appropriazione dell’evento tramite la sua rappresentazione. Il suo utopismo risiede nel fatto che essa ha già da sempre confuso la storia e la filosofia della storia. Se quindi bisognasse caratterizzare il regime di soggettivazione avanguardista, si potrebbe dire che è quello della proclamazione pietrificante, quello dell’impotenza agitata. “L’oscura intimità del cavo della scarpa” (Martin Heidegger, Holzwege) Il primo settembre 1957, cioè poco prima della fondazione dell’Internazionale Situazionista, Guy Debord fa arrivare a Asger Jorn, il suo alter ego favorito di allora, una lettera in cui afferma la necessità di forgiare attorno alla loro impresa una “nuova leggenda”. L’“avanguardia” non designa dunque mai una positività determinata, ma sempre il fatto che una positività pretende: 1) di mantenersi nella negatività 2) di

aggiudicarsi da sé il proprio carattere di negatività, di “radicalità”, la sua essenza “rivoluzionaria”. Perciò l’avanguardia non ha mai un nemico sostanziale, benché faccia grande esibizione di inimicizie varie verso tale o talaltro; l’avanguardia si proclama solo nemica di questo o di quello. E’ questa la proiezione che opera al di là di sé stessa per farsi un posto, il posto che vuole nel sistema della rappresentazione. Naturalmente per fare ciò è necessario che l’avanguardia cominci a spettralizzare sé stessa, cioè a rappresentarsi in tutti i suoi aspetti, scoraggiando così il nemico dal farlo. Il suo modo di essere positivo è in fin dei conti una pura negatività paranoica, alla mercé di qualsiasi apprezzamento comune sul suo conto, del primo imbecille venuto, di un Bourseiller, per esempio. E’ per questo che le avanguardie danno così spesso una sensazione di incontro mancato, di assemblaggio precario e disparato di monadi in attesa di scoprire, attraverso tale o tale choc, la loro scarsa affinità, il loro intimo abbandono. Ed è per questo che in ogni avanguardia il solo momento di verità è quello della sua dissoluzione. C’è sempre, al fondo dei rapporti avanguardisti, questo sostrato di diffidenza, di inintaccabile ostilità che caratterizza la comunità terribile. Il suicidio di Crevel, la lettera di dimissioni di Vaneigem, la circolare di autodissoluzione di Socialisme ou Barbarie, la fine delle BR, sempre lo stesso nodo di dolore glaciale. Nell’ingiunzione, nel “si deve…”, nella proclamazione definitiva, risuona ugualmente la speranza che una pura negazione possa far nascere una determinazione, che un discorso, miracolosamente, faccia mondo. Il gesto dell’avanguardia non è quello giusto, perché nessuno può tendere verso “la pratica”, “la vita” o “la comunità”, per la semplice ragione che dentro queste cose ognuno vi è già da sempre, e che si tratta solo di assumere la pratica, la vita, la comunità tali quali sono, e di rendersi capace di tecniche proprie per modificarle. Lo stato delle cose è precisamente, nel regime di soggettivazione avanguardista, l’inassumibile. La questione del come Dopo il famoso “La poesia deve essere fatta da tutti. Non da uno” di Lautréamont, fino all’interpretazione data sul movimento del ’77 dalla sua ala “creativa” - l’“avanguardia” di massa - tutto testimonia la curiosa propensione dell’artista d’avanguardia a riconoscere nell’O.S. il proprio simile, il proprio fratello, il proprio vero destinatario. La costanza di questa propensione è tanto più curiosa, in quanto non è stata quasi mai ricambiata. Come se questa costanza non esprimesse altro che quella d’una cattiva coscienza, per esempio della “testa” per il suo corpo. In effetti c’è una solidarietà tra l’esistenza dell’arte in quanto sfera separata dal resto dell’attività sociale e l’instaurazione del lavoro come sorte comune dell’umanità. L’invenzione moderna del lavoro come lavoro astratto, sans phrase, come indifferenziazione sotto questa categoria di ogni attività, s’effettua secondo un mito: quello dell’atto puro, dell’atto senza come, che sarebbe interamente riassorbito nel suo risultato e il cui compimento esaurirebbe tutto il significato. Ancora oggi, lì dove il termine rimane impiegato, il “lavoro” designa tutto ciò che è vissuto nel disconoscimento imperativo del come. Ovunque la questione del come dei gesti, delle cose, delle parole è sospesa, non realizzata, dislocata, lì è il lavoro. Ora abbiamo pure

un’invenzione moderna dell’arte, simultanea e simmetrica a quella del lavoro. Un’invenzione dell’arte in quanto attività speciale, produttrice di opere e non di semplici merci. Ed è in questo settore che ormai si concentrerà tutta l’attenzione altrove negata al come, che sarà come raccolto tutto il significato perso dei gesti produttivi. L’arte sarà questa attività che, contrariamente al lavoro, non si esaurirà mai nel proprio compimento. Sarà la sfera del gesto incantato dove la personalità eccezionale dell’artista restituirà sotto forma di spettacolo al resto degli uomini l’esempio delle forme-di-vita che ormai a loro è interdetto assumere. Sarà così affidato all’Arte, al prezzo del suo silenzio e della sua complicità, il monopolio del come degli atti. L’instaurazione d’una sfera autonoma dove il come [comment] d’ogni gesto è incessantemente pesato, analizzato, commentato [comment/é], da allora non ha smesso di nutrire, nel resto dei rapporti sociali alienati, la proscrizione di ogni evocazione del come dell’esistenza. Lì, nella vita quotidiana, produttiva, “normale”, devono esserci solo atti puri, senza come, senza altra realtà che il loro bruto risultato. Nella sua desolazione il mondo non deve essere popolato che di oggetti che rinviano solo a sé stessi, non vengono alla presenza che a titolo di prodotti, non configurano altra costellazione della presenza che quella del regno che li ha fabbricati. Affinché il come di certi atti divenga artistico, è stato così necessario che il come di tutti gli altri atti cessi d’essere reale; e inversamente. La figura dell’artista d’avanguardia e quella dell’O.S. sono le figure polari, fantomatiche quanto solidali, della moderna alienazione. Il ritorno offensivo della questione del come se li trova di fronte come ciò da cui deve ugualmente guardarsi. Il mondo-non-più-mondo La parte innata di fallimento che determina un’impresa collettiva come avanguardia è la sua incapacità di fare mondo. Tutti gli exploits, tutte le azioni, tutti i discorsi dell’avanguardia non riescono mai a darle corpo; tutto accade nella testa di alcuni, dove l’unità e l’organicità dell’insieme si producono, ma solo per l’intellezione, cioè esteriormente. Luoghi comuni, armi, una temporalità propria, un’elaborazione condivisa della vita quotidiana e molte altre cose determinate sono necessarie perchè un mondo si crei. E’ dunque giusto che tutte le manifestazioni delle avanguardie finiscano al museo, poiché ci stavano già prima di esserci esposte. La loro pretesa sperimentale designa solo il fatto che un insieme di gesti, di pratiche, di rapporti - per trasgressivi che siano - non fanno mondo; il Wiener Aktionismus ne sa qualcosa. Il museo è la forma più evidente del mondo-non-più-mondo. Tutto ciò che

vi si trova risulta dallo strappo di un frammento, di un dettaglio, ad un ambiente organico. Ma la scheggia che dovrebbe suggerire questo universo perduto, da sola non ci riesce, sta lì, detrito malinconico di qualcosa che ha vissuto – ed in questo Heidegger si è gravemente sbagliato ne L’origine dell’opera d’arte; essere-opera non significa “installare un mondo”, ma tutt’al più evocarlo, portarne il lutto. Il museo non si limita a raccogliere le opere d’arte -e si vede qui come l’“opera d’arte” è già la morte dell’arte: perché una cosa prodotta all’origine come opera porta in sé il suo difetto di mondo e dunque la sua insignificanza destinale -, ma pretende anche, tramite la storia dell’arte, di ricostruire loro una casa astratta, di fare un mondo apposta per loro, in cui si ritroverebbero in buona compagnia come i nuovi ricchi s’incontrano nei loro club il venerdì sera, tra gente che ce l’ha fatta. Ma tra queste “opere d’arte” non c’è nulla a parte il discorso pedante della più frigida delle filosofie della storia: la storia dell’arte. Dico frigida perché è uguale in ogni punto alla valorizzazione capitalista. Cercate d’essere presenti! – Un’infelice confusione Da qualche anno a questa parte SI ha l’abitudine di attribuire all’avanguardia una complicità troppo visibile con la “modernità”; le SI rimprovera di condividere con quest’ultima un’idea un po’ sommaria della storicità, un culto del nuovo che sarebbe in fondo una fede nel Progresso. Ed è certo, in effetti, che l’avanguardia è teleocratica per essenza - che si sia potuto rappresentare la storia sinottica dei vari movimenti artistici e quella dei gruppuscoli politici radicali attraverso lo stesso tipo di grafica è qui più sorprendente di questa o quella assurda fissazione hegeliana comune, la morte dell’arte o la fine della Storia. Ma è prima di tutto tramite il modo di essere sensibile che lo storicismo delle avanguardie determina la loro auto-condanna: un modo di viversi come già da sempre postume. Si assiste così periodicamente a uno strano fenomeno: un’avanguardia occupa nel suo tempo una posizione più che marginale, anche se la occupa con la pretesa di esserne il centro. Il suo tempo passa, tutta la sua attualità si ritira. Ed è a questo punto che l’avanguardia esce allo scoperto, emerge dalla sua epoca come il suo sostrato più puro. Si opera allora una sorta di resurrezione dell’avanguardia - Debord e i situazionisti ne offrono un’illustrazione fin troppo esemplare, e prevedibile – questa resurrezione la fa passare per il cuore, la chiave della sua epoca, a volte per la sua epoca stessa. Alla base del regime di soggettivazione avanguardista si trova dunque una confusione tra la storia e la filosofia della storia, una confusione che permette a chi vi partecipa di prendersi per la storia stessa. Infatti tutto accade come se l’avanguardia, tagliandosi fuori dal suo tempo, avesse investito, e che fosse stata poi remunerata postumamente, in termini di considerazione storicista. La museificazione del mondo

Nel 1931, ne L’Operaio, Jünger scriveva: “Viviamo in un mondo che da un lato assomiglia in tutto e per tutto a un cantiere e dall’altro in tutto e per tutto a un museo”. Una decina d’anni dopo, Heidegger esponeva nel suo corso su Nietzsche

l’ipotesi del compimento della metafisica: “La fine della metafisica che si tratta di pensare qui è l’inizio della sua ‘resurrezione’ sotto delle forme derivate: queste lasciano alla storia propriamente detta e sorpassata delle posizioni metafisiche fondamentali, solo il ruolo economico di fornire i materiali da costruzione con cui, dopo averli trasformati in modo appropriato, il mondo del sapere sarà ricostruito a nuovo. […] Verosimilmente, siamo arrivati alla contabilizzazione delle diverse posizioni

fondamentali, dei loro elementi e dei loro concetti dottrinali.” Il nostro tempo è quello della ricapitolazione generale di tutta la storia passata. Il progetto imperiale di farla finita con la storia prende così la forma di una messa in storia di tutti gli eventi passati, e così li neutralizza. L’istituzione del museo non fa altro che realizzare in modo settoriale questo progetto di museificazione generale del mondo. Tutti i tentativi dell’avanguardia si sono svolti su questo teatro al tempo stesso reale e immaginario. Ma questa ricapitolazione è anche il dissiparsi dell’illusione storicista di cui vive l’avanguardia, con la sua pretesa di novità e di originalità assoluta. In un tale movimento in cui l’elemento del tempo si riassorbe nell’elemento del senso, dove tutta la storia trascorsa si raccoglie in una tipologia di posizioni tra le quali, non potendole approfondire tutte, dobbiamo imparare ad orientarci, assistiamo alla concrezione progressiva di costellazioni. Uomini come Aby Warburg, con le sue tavole, o Georges Duthuit, nel suo Museo Inimmaginabile, hanno iniziato a dar forma a tali costellazioni, a liberare in ogni estetica il suo contenuto etico. Coloro che ai nostri giorni avvicinano, anche con disinvoltura, il punk a certi circoli para-esistenzialisti del dopoguerra, poi a quelli del fermento gnostico dei primi secoli della nostra era, anche essi non fanno altro. Oltre la distanza temporale che ne allontana i punti di apparizione, ognuna di queste costellazioni comprende dei gesti, dei ritornelli, degli enunciati, delle consuetudini, dei modi di fare e delle forme-di-vita determinate, insomma una tonalità affettiva, una Stimmung propria. Mette insieme in modo fittizio i dettagli di un mondo, che reclama d’essere animato, abitato. Nel contesto in cui queste costellazioni si sono affermate e a fortiori oggi, il problema non è più, da tempo, di fare del nuovo, ma di fare mondo. Ogni cosa, ogni essere che viene in presenza porta con sé una data economia della presenza, configura un mondo. Partendo da qui, si tratta solo di abitare la determinità della costellazione in cui si dispiega già da sempre la nostra singolarità, secondo il nostro gusto derisorio, contingente, finito. Ogni rivolta che parte da sé, dal hic et nunc in cui riposa, dalle

inclinazioni che l’attraversano e dalla vita che desidera, va in questo senso. Il movimento del ‘77 in Italia resta, a questo titolo, una sconfitta aperta sull’avvenire. Realizzazione dell’avanguardia Uno dei libri più idioti sulle avanguardie della seconda metà del ventesimo secolo constatava, nel 1980, L’autodissoluzione delle avanguardie. L’autore René Lourau, il fondatore della comicissima “analisi istituzionale”, ometteva, naturalmente, l’essenziale, cioè di dire in cosa le avanguardie si sono dissolte. I più recenti progressi della nevrosi occidentale l’hanno poi confermato: l’avanguardia si è dissolta nella totalità dei rapporti sociali. La caratterizzazione ormai banale del nostro tempo come “post-moderno” non evoca altro, anche se è ancora un modo di purgare la modernità di tutto il suo aspetto pacchiano per salvarne il gesto fondamentale: quello del superamento. Non è un caso, a proposito, che il termine stesso di “post-modernismo” abbia fatto la sua prima apparizione nel 1934 nei circoli avanguardisti spagnoli. Così pure, la miglior definizione che Debord abbia dato dello Spettacolo - “un rapporto sociale tra delle persone mediatizzato da delle immagini” e che definisce ormai il rapporto sociale dominante, non fa che prendere atto della generalizzazione del modo d’essere avanguardista. Il Bloom è perciò colui per cui tutti i rapporti, con sé come con gli altri, sono completamente mediatizzati da delle rappresentazioni autonome. E’ il metropolitano alla moda che organizza la sua auto-promozione permanente, il cinico che minaccia a ogni istante di lasciarsi assorbire da una delle sue escrescenze discorsive o di scomparire in un abisso d’ironia bathmologica. La paranoia dell’avanguardia anche lei si è diffusa, in questo modo comune di mettersi nell’eccezione di sé stessi in ogni istante della vita; con questa generale disposizione a fabbricarsi la propria piccola telecomandata leggenda personale. Enzensberger non aveva affatto torto quando vedeva nel Bild-Zeitung la realizzazione compiuta dell’avanguardia, sia dal punto di vista della trasgressione formale che dell’elaborazione collettiva. Una certa dose di situazionismo sembra addirittura richiesta al giorno d’oggi per ogni impiego ben remunerato. Il tono particolare, radente, di questo intervento trova la sua ragione in un proposito: si voleva solo mettere a nudo la miseria umana dell’avanguardia e metterne in evidenza il significato etico. Epilogo Come epilogo non ci sembra superfluo evocare un punto di inversione dell’avanguardia. Acéphale, simbolo della folla senza capo, nomina uno di questi punti estremi. Acéphale tentò di rispondere al problema della testa. Tutta l’agitazione, tutta il gesticolare dell’avanguardia, che sia politica o artistica, Acéphale volle cancellarlo, cancellandosi, rinunciando a una forma d’azione “che non è altro che il rinviare a più tardi l’esistenza”. Acéphale fu dunque una società segreta esistenziale, una comunità elettiva che riuniva “gli individui veramente decisi

a intraprendere la lotta, a una scala infima all’occorrenza, ma nella via efficace in cui il loro tentativo rischia di diventare epidemico, [per] misurarsi con la società sul suo proprio terreno attaccandola con le sue proprie armi, cioè costituendosi loro stessi in comunità, e ancor di più, cessando di fare dei valori che difendono l’appannaggio dei ribelli e degli insorti, considerandoli al contrario come i valori primi della società che si vogliono vedere instaurati e come i più sociali di tutti, fossero pure un po’ implacabili. […] Alla costituzione in gruppo presiede il desiderio di combattere la società in quanto società, il piano di affrontarla come struttura più solida e più densa tentando di installarsi come un cancro in seno ad una struttura più labile e più lasca, anche se incomparabilmente più voluminosa.” (Caillois “Il vento d’inverno”) Le carte di Henri Dussat, membro di Acéphale, conservano un appunto datato 25 marzo 1938: “Tendere all’etica, ecco la risoluzione di ciò che riconosce, o di ciò che ha bisogno di riconoscere il cristiano come valore supremo. Altro è muoversi nell’etica.” Cercando esplicitamente di costituirsi come mondo, Acéphale non rompeva solo con l’avanguardia, ma s’impossessava anche di ciò che nell’avanguardia, era stato altro dall’avanguardia, altro da un discorso, cioè precisamente del desiderio che vi era abortito: “Da dopo la fine del periodo dada, il progetto d’una società segreta incaricata di dare una sorta di realtà agente alle aspirazioni che si sono in parte definite sotto il nome di surrealismo è sempre rimasto un oggetto di preoccupazione, o almeno sullo sfondo”, ricorda Bataille nella conferenza del Collège de Sociologie del 19 marzo 1938. Acéphale , comunque, non riuscì né a esistere né a contaminare. Malgrado il fatto che si fosse dotata di riti, di abitudini, di testi sacri e di cerimonie, la politica di proclamazione che all’esterno era scomparsa rimase all’interno; cosicché la parola d’ordine della comunità, della società segreta, finì per assorbire la comunità stessa. Non ci si seppe dare nemmeno

dei luoghi comuni, né uscire dalla figura classica della virilità, che si vieta la dolcezza della nuda vita. Acéphale fu quasi esclusivamente, e più sensibilmente del surrealismo per esempio, un affare d’ uomini. Acéphale non seppe neanche – ed è il colmo - fare a meno della testa, e non fu altro che la comunità del solo Bataille: così come scrisse da solo la genealogia, il “diario interno” che le diede la nascita, definì da solo i riti

di questo Ordine, così finì solo a implorare i suoi pallidi compagni di sacrificarlo ai piedi del suo albero sacro. “Era bellissimo, ma avevamo tutti la sensazione di partecipare a qualcosa che succedeva in Bataille, nella testa di Bataille” (Klossowski). Non sembra opportuno trarre una conclusione, ancor meno fare un programma, dopo ciò che è stato detto.

Da quello che so, un certo rapporto deve potersi stabilire col Comitato Invisibile; anche solo nel senso di una generalizzazione dell’insinuazione. Ma sia detto per inciso: non c’è nessun problema della testa, c’è solo una paralisi dei corpi, una questione del gesto.