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IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’ NELLA RIFORMA DEL TITOLO V DELLA COSTITUZIONE di Luigi Salvaggio INDICE - Introduzione ……………………………………………………..... Pag. 3 - Parte prima: Il quadro Costituzionale del 1948 1.1 L’ordinamento amministrativo italiano nell’ambito della Costituzione entrata in vigore il 1° Gennaio 1948 ……………. 1.2 La forza innovativa del quadro costituzione del 1948 ………... 5 13 - Parte seconda: I lenti, difficili e contraddittori processi riformatori dei primi quattro decenni dell’esperienza repubblicana 17 2.1 Le difficoltà e le lentezze nelle attuazioni delle innovazioni contenute nel quadro originario del nuovo sistema costituzionale 17 2.2 Il bilancio dei primi decenni di esperienza repubblicana e l’inizio della crisi della “prima Repubblica”. La transizione e i nuovi tentativi di riforma ………………………………………………. 22 - Parte terza: I nuovi processi riformatori della XIII legislatura 3.1 La XIII legislatura e l’avvio di un nuovo duplice processo rifor- matore ………………………………………………………….... 28 3.2 La riforma “Bassanini” nel quadro del processo riformatore della XIII legislatura …………………………………………………... 34 3.3 I caratteri contenutistici della riforma Bassanini ………………... 43

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IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’

NELLA RIFORMA DEL TITOLO V DELLA COSTITUZIONE

di

Luigi Salvaggio

INDICE

- Introduzione ……………………………………………………..... Pag. 3

- Parte prima: Il quadro Costituzionale del 1948

1.1 L’ordinamento amministrativo italiano nell’ambito della

Costituzione entrata in vigore il 1° Gennaio 1948 …………….

1.2 La forza innovativa del quadro costituzione del 1948 ………...

5

13

- Parte seconda: I lenti, difficili e contraddittori processi

riformatori dei primi quattro decenni dell’esperienza repubblicana

17

2.1 Le difficoltà e le lentezze nelle attuazioni delle innovazioni

contenute nel quadro originario del nuovo sistema costituzionale

17

2.2 Il bilancio dei primi decenni di esperienza repubblicana e l’inizio

della crisi della “prima Repubblica”. La transizione e i nuovi

tentativi di riforma ……………………………………………….

22

- Parte terza: I nuovi processi riformatori della XIII legislatura

3.1 La XIII legislatura e l’avvio di un nuovo duplice processo rifor-

matore …………………………………………………………....

28

3.2 La riforma “Bassanini” nel quadro del processo riformatore della

XIII legislatura …………………………………………………...

34

3.3 I caratteri contenutistici della riforma Bassanini ………………... “ 43

1

3.4. Ancora sulle caratteristiche essenziali della riforma Bassanini ... “ 48

- Parte quarta: Le innovazioni costituzionali della XIII legislatura .. “ 56

4.1 Le riforme contenute nelle leggi costituzionali n.1 del 1999 e

n.3 del 2001 ……………………………………………………

56

4.2 Le caratteristiche innovative della riforma del titolo V della

Parte II della Costituzione ……………………………………..

58

- Parte quinta: Il Principio di Sussidiarietà ………………………… “ 72

5.1 L’origine e le tre radici del Principio di Sussidiarietà …………. “ 72

5.2 Il Principio di Sussidiarietà nella riforma del titolo V della

Costituzione …………………………………………………….

76

5.2.1 Le funzioni amministrative ………………………………. “ 82

5.2.2 L’autonomia dei comuni e delle province ……………….. “ 89

5.2.3 Il potere sostitutivo ………………………………………. “ 99

5.3 Il Principio di Sussidiarietà e i suoi riflessi sul piano dell’Ordi-

namento Comunitario …………………………………………..

103

- Conclusioni ………………………………………………………... Pag. 110

- Appendice “ 114

Legge 18 Ottobre 2001 n.3

Titolo V della Costituzione a confronto

- Bibliografia ……………………………………………………….. “ 130

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INTRODUZIONE

Non può negarsi che oggi, in Italia il principio di sussidiarietà sia

un principio alla moda. Il quale, non solo, suscita un notevole interesse

scientifico, testimoniato da una produzione dottrinale in crescita

esponenziale, ma riceve i suoi primi riconoscimenti della legislazione.

La sua scoperta è stata, tuttavia, una scoperta tardiva, la quale è

coincisa con l’elaborazione e con l’introduzione dell’art.3B del Trattato

di Maastricht (oggi art.5 Trattato CE). Precedentemente il principio di

sussidiarietà era stato praticamente assente dal dibattito scientifico e

politico. Le due sole eccezioni sono costituite da uno studio di Egidio

Tosato dal 1959 e da un importante ordine del giorno in Assemblea

Costituente a firma di Giuseppe Dossetti, che, peraltro, non venne messo

in votazione. In quest’ultimo – in particolare – si trova il tracciato dei

maggiori temi evocati dal principio. Ci si riferisce: al riconoscimento

della precedenza assiologia della persona umana rispetto allo Stato e

della destinazione di questo al servizio di quella; al riconoscimento della

socialità di tutte le persone (le quali – si precisa – sono destinate a

completarsi ed a perfezionarsi a vicenda, mediante una reciproca

solidarietà economica e spirituale, collocandosi in varie comunità

3

intermedie disposte secondo una naturale gradualità: comunità, familiari,

territoriali, professionali, religiose, eccetera); infine, alla precisazione

che lo Stato possa intervenire al solo fine di sopperire alle inadeguatezze

delle comunità predette.

Ma – come si è detto – tali anticipazioni sono rimaste prive di

seguito nel dibattito politico e dottrinale. Con la conseguenza che,

quando il tema è stato riproposto dal Trattato di Maastricht, il principio

di sussidiarietà poteva apparire un’assoluta novità.

In questo contesto vedremo come il principio di sussidiarietà si è

sviluppato e come si è arrivati alla costituzionalizzazione di questo

principio attraverso una radicale riforma del titolo V della Costituzione

che è stata attuata da una legge costituzionale approvata dalla Camera

dei deputati il 28/2/2001 e del Senato l’8-3-2001, in seconda

deliberazione, a maggioranza assoluta, quindi pubblicato sulla G.U. del

12-3-2001, n.59, in vista della richiesta di un referendum popolare

(<<Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione>>).

Tale riforma è entrata in vigore dopo il referendum costituzionale

tenutosi il 7-10-2001, non avendo il provvedimento ricevuto i due terzi

dei voti dalle Camere ed essendo stata presentata richiesta di referendum,

secondo quanto previsto dall’art.138 della Costituzione.

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PARTE I

IL QUADRO COSTITUZIONALE DEL 1948

1.1 L’ordinamento amministrativo italiano nell’ambito della

Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948

L’ordinamento amministrativo italiano è profondamente mutato nel

corso dell’ormai lungo periodo di vigenza della Carta repubblicana.

Va peraltro detto che già la stessa Costituzione repubblicana, fin

dalla sua entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, implicava profonde

innovazioni rispetto all’ordinamento precedente.

Per quanto qui ci interessa queste innovazioni riguardavano

innanzitutto l’art.5 della Costituzione, che stabiliva, come tutt’ora

stabilisce, che “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e

promuove le autonomie locali, attua nei servizi che dipendono dallo

Stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i principi

e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del

decentramento”.

A questa norma, che costituisce, anche in quanto principio

fondamentale dell’ordinamento costituzionale, il caposaldo del nuovo

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ordinamento fondato dalla Costituzione del 1948, si accompagnava poi il

titolo V della Costituzione che all’art.114 stabiliva che “La

Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”. L’art. 115

stabiliva poi che “Le Regioni sono costituite in enti autonomi con

propri poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”.

L’art. 128, a sua volta, prevedeva che “Le Province e i Comuni sono

enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della

Repubblica che ne determinano le funzioni”.

Per quanto riguarda poi il potere legislativo delle Regioni l’art.117

stabiliva al primo comma che esse avevano potere legislativo soltanto

nelle materia enumerate dallo stesso art. 117 e che comunque dovevano

esercitare tale potere concorrente “nei limiti dei principi fondamentali

stabiliti dalle leggi dello Stato e semprechè le norme stesse non siano

in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni”.

Stabiliva inoltre, al secondo comma, che “le leggi della Repubblica

possono demandare alla regione il potere di emanare norme per la

loro attuazione.

Infine l’art.118 Cost., nel definire le competenze amministrative

delle Regioni, stabiliva che “spettano alle Regioni funzioni

amministrative per le materie elencate nel precedente articolo, salvo

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quelle di interesse esclusivamente locale, che possono essere

attribuite dalle leggi della Repubblica alle Province, ai Comuni o ad

altri enti locali”. Il medesimo articolo stabiliva poi, ai commi due e tre,

che “lo Stato può con legge delegare alle regioni l’esercizio di altre

funzioni amministrative” e che “la Regione esercita normalmente le

sue funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni o

ad altri enti locali, o avvalendosi dei loro uffici”.

La Costituzione prevedeva inoltre, all’art116, l’esistenza di cinque

Regioni a statuto speciale il cui statuto era (ed è tutt’ora) approvato con

legge costituzionale e, all’art. 123, l’attribuzione a tutte le Regioni del

potere di approvare un proprio statuto secondo un procedimento e con un

ambito di competenza strettamente definito dalla Costituzione stessa.

Fino all’entrata in vigore della recente visione costituzionale del

titolo V della parte II della Costituzione, avvenuta con due successive

leggi costituzionali (la l. cost. n.1 del 22 novembre 1999 “Disposizioni

concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e

l’autonomia statuaria delle regioni” e, soprattutto, la l. cost. n.3 del 18

ottobre 2001 “Modifiche al titolo V della parte II della Costituzione”

tutto l’ordinamento italiano, sia sotto il profilo del sistema delle fonti (e,

in particolare, del ruolo della legge statale e della legge regionale), sia

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sotto il profilo dell’attribuzione e dell’esercizio delle funzioni

amministrative era dominato dalle disposizioni appena richiamate.

In questo contesto non vi era alcun dubbio che la legge statale, e

quindi anche gli atti con forza di legge dello Stato, specificatamente

previsti e disciplinati nell’art. 76 (leggi delega e decreti legislativi

delegati) e nell’art.77 (decreti legge), avessero un ruolo assolutamente

centrale nel sistema complessivo e soprattutto avessero, a livello

immediatamente subcostituzionale e col solo vincolo dei limiti stabiliti

dalla Costituzione, una “competenza generale”. Il che significa che,

salvo quanto potesse rientrare nelle competenze del legislatore regionale

ex art. 117, e sempre che il potere del legislatore regionale fosse

esercitato nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello

Stato (le cosiddette leggi-cornice), spettava sempre e solo alla legge

statale (e eventualmente agli atti con forza di legge dello Stato)

disciplinare in ogni materia, senza alcun limite che non fosse, appunto,

quello del rispetto delle disposizioni costituzionali.

Una situazione analoga si registrava anche per quanto riguardava il

potere amministrativo, e dunque anche le fonti regolamentari connesse

all’esercizio delle funzioni e delle competenze proprie del potere

esecutivo e comunque dell’amministrazione statale.

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Sulla base di quanto stabilito dall’art. 118 Cost. nel testo qui

riportato, era infatti pacifico che alle Regioni spettassero solo le

competenze amministrative nelle materie in cui avevano competenza

legislativa (e sempre che esse non fossero di interesse esclusivamente

locale e perciò attribuite da leggi della Repubblica direttamente ai

Comuni, Province o altri enti locali). Per altro verso, anche le ulteriori

competenze amministrative che le Regioni potessero eventualmente

esercitare erano in ogni caso limitate rigorosamente a quelle che fossero

ad esse esplicitamente demandate dalle leggi della Repubblica.

Quanto ai Comuni e le Province le loro competenze amministrative

erano specificatamente elencate e indicate dalle leggi generali della

Repubblica alle quali spettava anche definire i principi che regolavano la

loro autonomia. Ulteriori competenze potevano poi essere attribuite (e si

sostenne anche che “dovevano” essere attribuite) dalle leggi regionali ai

sensi dell’art. 118 uc., così come le leggi della Repubblica potevano

sempre “sottrarre” competenze amministrative alle Regioni nelle materie

di loro competenza legislativa, per assegnarle invece ai Comuni, alle

Province e agli altri enti territoriali in virtù del carattere di interesse

esclusivamente locale delle funzioni stesse.

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In ogni caso non vi era alcun dubbio che anche le competenze

amministrative di Comuni e Province in tanto sussistessero in capo a

questi enti in quanto fossero esplicitamente attribuite o delegate ad essi

dalle leggi generali della Repubblica, o dalle leggi della Repubblica e

dalle leggi regionali ex art. 118. In assenza di tale specifiche attribuzioni

o deleghe, né i Comuni né le Province né gli altri enti territoriali poteva

esercitare competenze o funzioni amministrative.

Dunque, anche sul piano delle funzioni amministrative (e più

generalmente della ripartizione del potere esecutivo legato all’attività di

esecuzione delle leggi) non vi era dubbio alcuno che la competenza

generale fosse assegnata allo stato e al potere esecutivo e

amministrativo dello Stato. Quello proprio o delegato dalle Regioni e

dei Comuni e delle Province era invece, necessariamente enumerato e

comunque non suscettibile di una propria autonoma “forza espansiva”,

se non, al massimo, sul piano di una generica tutela, anche col ricorso a

attività di diritto privato, degli interessi generali delle rispettive

comunità.

In conclusione, nel sistema costituzione che è rimasto in vigore fino

alle recenti leggi di revisione costituzionale già ricordate sul piano del

potere legislativo e genericamente normativo quanto sul piano delle

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funzioni e competenze amministrative lo Stato (e quindi il Parlamento, il

Governo e l’Amministrazione statale) erano titolari di una competenza

generale dotata di una propria intrinseca forza espansiva. Le competenze

legislative e amministrative delle Regioni, così come quelle

amministrative che spettavano (e si poteva in un certo senso dire

“dovevano spettare”) a Comuni, Province e enti territoriali costituivano

ambiti e sfere limitate e definire di materie e si ponevano essenzialmente

come un “limite” alla competenza generale del legislatore, del potere

esecutivo e dell’amministrazione statale.

In questo contesto era assolutamente coerente col quadro

complessivo quanto disposto dall’VIII disposizione transitoria della

Costituzione laddove, al secondo e terzo comma, specificava che

“leggi della Repubblica regolano per ogni ramo della pubblica

amministrazione il passaggio delle funzioni statali alle regioni: fino a

quando non si sia provveduto al rinnovamento e alla distribuzione

delle funzioni amministrative fra gli enti locali, restano alle Province

e ai Comuni le funzioni che esercitano attualmente e le altre di cui le

regioni deleghino loro l’esercizio”. Al terzo comma, infine, quella

medesima disposizione stabiliva “Leggi della Repubblica regolano il

passaggio alle Regioni di funzionari e dipendenti dello Stato, anche

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delle amministrazioni centrali, che sia reso necessario dal nuovo

ordinamento”.

12

1.2 La forza innovativa del quadro costituzionale del 1948

Come già si è detto all’inizio del paragrafo precedente,

l’ordinamento costituzionale qui ricostruito comportava comunque

innovazioni molto profonde rispetto al sistema precedente.

Esso infatti prevedeva comunque l’esistenza di Regioni dotate di

un proprio potere legislativo e di proprie competenze amministrative e

dava a Comuni, Province e enti locali, una forte copertura costituzionale

che si estendeva fino a garantire ad essa, tramite l’intervento del

legislatore, una sfera di competenze “protetta” anche verso la possibile

pervasiva penetrazione delle Regioni.

In questo senso il nuovo ordinamento si configurava come

caratterizzato da un forte pluralismo istituzionale e da un altrettanto forte

articolazione regionale e territoriale, legata anche a una valorizzazione

costituzionale garantita delle autonomie locali e quindi, attraverso di

esse, delle comunità locali.

Da questo punto di vista, la ribadita centralità del legislatore

statale e dell’amministrazione statale veniva comunque ad essere

collocata in un quadro in cui il potere legislativo era pur sempre

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condiviso con le Regioni, titolari anch’esse di tale potere, sia pure nei

limiti e con le restrizioni che si sono già richiamate.

L’amministrazione, d’altro canto, pur restando incentrata

sullo Stato dal punto di vista della competenza generale, veniva ora

ad essere costituzionalmente incardinata anche sugli enti (e quindi

sui governi e gli apparati) regionali e sul sistema degli enti territoriali.

Tutto questo non poteva non avere influenze e conseguenza anche

molto forti sul sistema italiano.

Conseguenze che, tanto in linea teorica in via concreta,

sembravano imporre con tutta evidenza anche un ripensamento profondo

del sistema legislativo e soprattutto del sistema amministrativo che aveva

caratterizzato fino ad allora la costruzione dell’Italia unita come Stato

accentrato e centralizzato.

Uno stato che si era costruito in forma fortemente accentrata anche

per corrispondere alle esigenze specifiche e particolari, legate al nostro

processo storico di unificazione nazionale (si pensi in particolare, in

questo senso, alla difficoltà di fondere l’Italia meridionale e l’ex Regno

delle Due Sicilie con le altre parti del Paese e all’esigenza di dare

rapidamente vita a un Regno “forte” capace di competere sulla scena

mondiale dell’imperialismo allora dominante e delle lotte di potenza fra

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Stati – nazione). Una linea centralistica, questa, che aveva poi trovato

durante il periodo del regime fascista un suo ulteriore rafforzamento e

consolidamento anche ideologicamente orientato.

Per un altro verso poi, e collocandosi in una prospettiva più ampia,

non va neppure dimenticato che del nuovo quadro costituzionale la

spinta all’innovazione e, in un certo senso, anche al ripensamento del

ruolo dello Stato sia come legislatore che come amministrazione è stato

fin dall’inizio legato anche alle nuove, e forti, caratteristiche di una

Costituzione fortemente ispirata a valori di solidarietà e a una linea

di intervento statale e pubblico finalizzato ad assicurare “azioni

positive” e “forti trasformazioni” nella società italiana. Su questo

piano la Costituzione italiana, così come altre Costituzioni del medesimo

periodo, ha registrato anche forti spinte e impegni a carico del legislatore

e, in generale, del potere pubblico. Un fenomeno questo che non poteva

non spingere a forti innovazioni anche nel ruolo e nel contenuto stesso

della “legge”, da un lato, dell’“amministrazione” dall’altro. Il forte e

netto orientamento, chiarissimo in Costituzione, ad assicurare a tutti di

poter usufruire dei servizi essenziali e la protezione positiva dei diritti

sociali non poteva non incidere anche su un ripensamento profondo del

ruolo del potere pubblico e del suo modo di riorganizzarsi. Riflessione

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che, a sua volta, non poteva essere legata anche all’innovazione concessa

al pluralismo legislativo, amministrativo e politico-rappresentativo

legato alla nuova articolazione in senso pluralistico e autonomistico

dell’ordinamento complessivo.

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PARTE II

I LENTI, DIFFICILI E CONTRADDITTORI PROCESSI

RIFORMATORI DEI PRIMI QUATTRO DECENNI

DELL’ESPERIENZA REPUBBLICANA

2.1 Le difficoltà e le lentezze nelle attuazioni delle innovazioni

contenute nel quadro originario del nuovo sistema

Il processo di attuazione della Costituzione e, per quanto qui ci

interessa il connesso processo di riforma dell’amministrazione e di

costruzione di un ordinamento pluralista profondamente radicato

nel rafforzamento del sistema regionale e locale contenuto nelle nuove

previsioni costituzionali, è stato tuttavia molto lento.

Vi sono molte diverse ragioni che spiegano perché, eccezion fatta

per quanto riguarda le Regioni a statuto speciale (la cui istituzione è

legata a specifiche e particolarmente rilevanti ragioni storico-politiche),

l’attuazione dell’ordinamento regionale è stata rinviata fino al 1970. Così

come vi sono non meno rilevanti ragioni che possono spiegare perché i

molti tentativi di formare l’amministrazione statale e soprattutto,

l’amministrazione provinciale e comunale, avviati a più riprese fin dai

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primi anni cinquanta, non abbiano raggiunto risultati apprezzabili per

molti e molti decenni.

Il quadro politico internazionale (caratterizzato dalla guerra

fredda) e il quadro politico interno (caratterizzato da un lento e difficile

processo di allargamento delle frontiere della maggioranza politica di

governo dalle coalizioni centriste fino alle coalizioni centrosinistra e

infine, nella seconda metà degli anni settanta, alla ricerca di nuovi

equilibri che in qualche modo coinvolgessero anche il maggior partito di

opposizione, il PCI, nella conduzione complessiva del Paese) sono i due

aspetti fondamentali, che attraversando e segnando i primi trenta anni

dell’esperienza repubblicana, hanno profondamente condizionato anche

l’evoluzione del sistema istituzionale e costituzionale del nostro Paese.

L’istituzione delle Regioni, avvenuta soltanto all’inizio degli anni

settanta, diede comunque una spinta non irrilevante all’avvio di un

processo di riforma e di trasformazione del sistema costituzionale e

amministrativo del Paese. Processo che, peraltro, si collegò in modo

evidente anche col non meno rilevante processo riformatore che

caratterizzò in quegli anni e negli anni immediatamente precedenti molti

settori dell’ordinamento: dalla scuola media alla nazionalizzazione

dell’energia elettrica; dalla riforma della legislazione sui rapporti di

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lavoro al susseguirsi di riforme rilevanti in materia di pubblico impiego;

fino a toccare anche le strutture di governo, con l’istituzione di nuovi

Ministeri il ridisegno di alcune strutture governative, a partire dai

Comitati interministeriali, per arrivare anche alla riforma di alcuni fra i

più rilevanti enti pubblici economici e non economici.

Per quanto a noi interessa, tuttavia, va detto che l’attuazione delle

Regioni, avvenuta attraverso la l.n. 108 del 1968, la l.n. 281 del 1970, e

i decreti del 1972, non incise in misura significativa sul ruolo e sul

carattere di fondo del sistema degli enti territoriali e sostanzialmente

avvenne secondo criteri e modalità che furono ampiamente e

generalmente considerate insoddisfacenti.

Quello che successivamente fu definito come il “primo

decentramento” avvenne dunque in un’ottica ancora fortemente

centralistica e sulla scia di una sostanziale diffidenza per l’innovazione

conseguente all’istituzione delle Regioni.

Il processo di riforma dell’ordinamento riprese tuttavia quasi

subito dopo la prima attuazione dell’ordinamento regionale. Fu infatti

approvata una nuova legge di delega al Governo per il completamento

dell’ordinamento regionale, la l. n. 382 del 1975, in attuazione della

quale fu poi emanato il decreto delegato n. 616 del 1977.

19

Si ebbe così quello che fu poi definito come il “secondo

decentramento” e questa volta le riforme e i mutamenti indotti

toccarono in misura significativa lo stesso sistema degli enti territoriali

che si vede assegnate nuove e importanti competenze, anche per limitare

il trasferimento stesso delle competenze, e dei conseguenti beni e risorse,

in favore delle Regioni.

Non vi è dubbio tuttavia che anche in questo più favorevole

contesto i vincoli costituzionali, specialmente in ordine al potere

legislativo delle Regioni e ai limiti impliciti o espliciti posti dalla

Costituzione ai poteri amministrativi ad esse attribuiti pesarono non

poco.

Anche il secondo decentramento dunque innovò solo parzialmente

il sistema complessivo. E questa volta questo fatto dipese

essenzialmente dai limiti posti dallo stesso sistema costituzionale.

Alla fine degli anni settanta peraltro le Regioni entrarono in quello

che fu definito un “cono d’ombra”, dal quale non sarebbero uscite se non

durante la XIII legislativa, quando prese avvio la riforma Bassanini.

D’altro canto anche la riforma organica del sistema comunale e

provinciale, sempre auspicata e ricercata sin dagli anni cinquanta, non

ebbe migliore sorte.

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Salvo alcuni interventi già ricordati e legati all’assegnazione a

questi enti di compiti e funzioni “sottratte” alle Regioni e salvo alcune

leggi destinate in particolare ad ampliare gli strumenti di partecipazione

e le competenze degli enti territoriali, e specialmente dei Comuni, in

materia di servizi sociali e assistenza sanitaria, il sistema comunale e

provinciale restò sostanzialmente immodificato e dunque oggettivamente

arretrato. E dunque anche sotto questo profilo il processo riformatore

indotto dal nuovo quadro costituzionale apparve insoddisfacente.

In questi medesimi anni cominciò peraltro a svilupparsi anche una

forte spinta all’innovazione sia nell’ordinamento costituzionale che

nell’ordinamento statale propriamente inteso.

Anche in connessione con l’avvio di una nuova fase nelle

coalizioni di centro sinistra cominciarono spinte forti verso progetti di

riforme costituzionali, da un lato; verso riforme particolarmente incisive

in alcuni settori strategici del sistema amministrativo e di governo,

dall’altro.

Peraltro, mentre le riforme costituzionali non riuscirono mai ad

avere successo e fecero registrare numerosi e ripetuti tentativi falliti, il

processo di riforma delle strutture amministrative e di governo ebbe

sorte migliore, sfociando in particolare in misure incidenti sui

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procedimenti amministrativi, sull’organizzazione amministrativi e sulla

stessa struttura del governo e della presidenza del Consiglio. La l. n. 400

del 1988 costituì in questo senso un punto di approdo importante.

Proprio in questo periodo, e specialmente alla fine degli anni

ottanta, si assistette anche a una importante duplice innovazione: a) nel

sistema delle amministrazioni locali, da un lato; b) nel sistema del

raccordo tra amministrazione e cittadini, dall’altro.

La l. 142 del 1990, legge di riforma del sistema comunale e

provinciale, segnò infatti un’innovazione molto rilevante, concludendo

positivamente un processo avviato da molti anni e per molti anni mai

concluso. Al contempo l’approvazione della l. 241 del medesimo anno

costituì anche un punto di approdo importante di un processo riformatore

delle modalità di azione delle attività amministrative facenti capo ai

diversi soggetti dell’ordinamento.

2.2 Il bilancio dei primi decenni di esperienza repubblicana e l’inizi

della crisi della “prima Repubblica”. La transizione e i nuovi tentativi

di riforma

Se si guarda dunque a quanto accadde in Italia almeno fino al 1990

si deve registrare che mentre da un lato la riforma regionale restò

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confinata in limiti e in orizzonti piuttosto modesti da un altro lato il

processo riformatore del sistema, pur registrando sconfitte importanti sul

piano dei tentativi di riforma costituzionale, raggiungeva invece risultati

significativi sia sul piano della riforma delle strutture

dell’amministrazione centrale sia sul piano della riforma del sistema

comunale e provinciale. Le Regioni, invece, entrate in un cono d’ombra

fin dal 1978, restavano sostanzialmente prigioniere della gabbia

costituzionale e in qualche misura erano lasciate da parte del processo di

innovazione che si è cercato di descrivere.

Con l’inizio degli anni novanta il sistema italiano entra in una

grave difficoltà politica e istituzionale che raggiunge una soglia di crisi

molto elevata con la fine della X legislatura (1987-1992) e l’avvio della

XI legislatura (1992-1993).

Durante questo periodo, che è destinato a prolungarsi poi fino alla

XIII legislatura, si assiste innanzitutto al fatto che a più riprese si torna a

cercare di approvare una riforma organica della Costituzione, registrando

sempre continui e ripetuti insuccessi, sia con le vicende della

Commissione Bicamerale De Mita – Jotti, prima, sia con l’interruzione

delle attività della Commissione Speroni, poi.

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Da un altro lato e per un altro verso si assiste invece a un processo

di riforma del sistema politico-rappresentativo, perseguito e realizzato

essenzialmente attraverso la modifica delle leggi elettorali (si cambia la

legge elettorale comunale e provinciale; si cambiano le leggi elettorali di

Camera e Senato; non si cambia invece, almeno fino al 1995, la legge

elettorale delle Regioni).

Infine riprende in misura molto rilevante, specialmente durante il

primo governo Amato, il processo di riforma di settori strategici

dell’ordinamento amministrativo e dell’ordinamento pubblico italiano.

E’ proprio durante il governo Amato che si avvia il processo riformatore

che si concluderà col governo successivo presieduto da Ciampi, e che

vedrà la riforma del rapporto di pubblico impiego e la netta separazione

fra responsabilità politica e amministrazione (d. l. n. 29 del 1993); una

riforma sanitaria con l’introduzione dell’ICI; innovazioni significative e

penetranti nel sistema dei controlli, con la riforma della Corte dei Conti

e l’ampliamento delle competenze proprie di questo organo.

Del resto l’importanza delle riforme dell’amministrazione

innescate in quel periodo è testimoniata dal fatto che esse segnarono a

lungo anche gli anni successivi e condizionarono non poco anche la

stessa XIII legislatura.

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In sostanza, se guardiamo a quelle legislature e soprattutto agli

anni che vanno dalla fine della X (1992) fino all’inizio della XIII

(1996), possiamo registrare i seguenti fenomeni: a) il ripetuto

fallimento di ogni tentativo di avviare una riforma organica della

Costituzione; b) il forte mutamento intervenuto nel sistema politico,

anche a livello regionale e locale, dovuto sia a fattori squisitamente

politici (la crisi legata alla delegittimazione di Tangentopoli) sia a fattori

istituzionali (le nuove leggi elettorali adottate); c) la ripresa incisiva di

un processo riformatore di quelli che allora venivano definiti come i

“rami bassi” dell’ordinamento che estese e portò avanti la riforma

dell’amministrazione pubblica, specialmente centrale e statale, già

avviato negli anni precedenti; d) la sostanziale, perdurante, incapacità di

incidere profondamente sul rapporto tra Stato, da un lato, Regioni e

sistema degli enti territoriali dall’altro. Incapacità, quest’ultima, che

massima rispetto al rapporto tra Stato e Regioni (le Regioni

continuavano a restare nel loro “cono d’ombra”), fu rilevante anche

rispetto agli enti territoriali, che videro sì modificato e irrobustito il loro

ruolo politico e di rappresentanza (specialmente grazie all’elezione

diretta dei sindaci), ma non poterono registrare un analogo e significativo

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incremento delle loro funzioni amministrative e delle loro competenze

sostanziali.

In altri termini il periodo che andò dalla fine della X legislatura

sino all’inizio della XIII legislatura si chiuse lasciando irrisolti molti

problemi. Tra questi, soprattutto, e di particolare rilevanza, quelli

connessi a un ripensamento e a una ridefinizione dei rapporti tra

Stato, da un lato, Regioni e sistema delle autonomie territoriali e

locali, dall’altro.

Non solo. Proprio l’esperienza maturata in quegli anni dimostrò

senza ombra di dubbio che senza significative innovazioni costituzionali

e comunque senza avere il coraggio di superare i limiti formali e

sostanziali e comunque senza avere il coraggio di superare i limiti

formali e sostanziali posti dall’ordinamento costituzionale vigente non

era possibile dar vita a un compiuto salto di qualità in un senso che già si

comincia a definire “federale” ma che più correttamente sarebbe potuto

essere qualificato come orientato a garantire il pluralismo reale dei

soggetti titolari di competenze legislative e amministrative e un coerente

e forte sistema di articolazione policentrica dell’ordinamento

complessivo.

26

Per altro verso, come è ben noto, proprio in quegli anni e

particolarmente a cavallo fra la XII legislatura (iniziata col primo

governo Berlusconi e terminata col governo Dini) e l’avvio della XIII

legislatura, il problema di un “salto di qualità” in senso federale del

sistema complessivo si pose in modo sempre più incisivo e penetrante in

tutti i settori dello schieramento politico e formò oggetto comunque, in

modo più o meno netto ma sempre molto significativo, dei programmi

elettorali di quasi tutti i partiti e schieramenti che si contendevano il

consenso elettorale.

27

PARTE III

I NUOVI PROCESSI RIFORMATORI DELLA XIII

LEGISLATURA

3.1 La XIII legislatura e l’avvio di un nuovo duplice processo

riformatore.

All’inizio della XIII legislatura il problema di avviare un forte

processo di riforma del sistema complessivo e soprattutto di puntare a

superare i limiti posti dal sistema costituzionale vigente fu iscritto fin dal

primo momento all’ordine del giorno del governo dell’epoca. Al

medesimo tempo, fin dall’avvio della legislatura in Parlamento, si pose il

problema se fosse o meno possibile avere un tentativo di riforma

organica della Costituzione e in particolare della sua parte II. Non va

infine dimenticato che, come si è già ricordato, l’urgenza di dare una

risposta concreta alle nuove esigenze di federalismo era avvertita in

misura maggiore o minore in tutte le parti dello schieramento politico ed

era posta con speciale forza da alcuni movimenti politici, prima fra tutti

la Lega Nord che proprio nel settembre del 1996 tenne a Venezia una

manifestazione particolarmente incisiva su questi temi.

28

Sta di fatto che nell’estate del 1996, nei primi mesi della XIII

legislatura, si verificarono due fenomeni di grande rilievo istituzionale e

di grande importanza per quanto qui ci interessa.

Il primo consistette nel fatto che tra i primissimi atti del governo

Prodi vi fu, ad iniziativa dell’allora Ministro per la funzione pubblica e

per gli affari regionali Bassanini, la presentazione di due disegni di

legge, destinati a diventare poi la l. n. 125 del 15 maggio 1997 intitolata

“misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei

procedimenti di decisione e di controllo” e la l. n. 59 del 15 marzo

1997 recante “delega al Governo per il conferimento di funzioni e

compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della PA e per la

semplificazione amministrativa”, successivamente modificata con la

medesima l. n. 127 del 1997, con la l. n. 191 del 1998 e con la l. n. 50

del 1999.

A questi due disegni di legge deve poi essere aggiunto il disegno

di legge ad iniziativa del Ministro Napoletano e del sottosegretario

Vigneti, presentato sempre dal governo Prodi nel settembre del 1996 e

destinato a diventare alcuni anni più tardi la l. n. 205 del 1999 e a

confluire poi nel T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali

approvato con il d. legs N. 267 del 2000.

29

Il secondo fenomeno fu la presentazione ad iniziativa

parlamentare, e la rapida successiva approvazione nelle due prescritte

letture, di quella che sarebbe diventata la l. cost. 24 gennaio 1997 n. 1,

istitutiva di una Commissione parlamentare per le riforme costituzionali

(quella che sarebbe stata poi la Commissione bicamerale D’Alema).

Se guardiamo a questo complesso insieme di disegni di legge, al

rilevante numero di disposizioni che essi contenevano e al significato di

“sistema” che essi avevano, possiamo constatare con una certa facilità

che la XIII legislatura si è aperta operando, per quanto qui ci

interessa, su un duplice binario.

Da un lato infatti il Governo si preoccupò immediatamente di

presentare una serie di disegni di legge destinati a: a) avviare

immediate misure di riforma del sistema amministrativo regionale e

locale e delle procedure più rilevanti che lo caratterizzavano (l. n. 127

del 1997); b) ad avviare un processo di riforma ordinamentale dei

Comuni e delle Province destinato a dare completezza e innovazione alla

stessa L. 142 del 1992, mettendola fra l’altro in asse con la intervenuta

(1993) riforma del sistema elettorale comunale e provinciale che aveva

condotto all’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia; c)

ad avviare, tramite delega del Parlamento una amplissima opera di

30

riforma complessiva dell’amministrazione italiana che avesse il suo

“fuoco” da un lato nell’obiettivo di instaurare quello che fu definito

come il “federalismo amministrativo a Costituzione invariata” e

dall’altro nell’obiettivo di riformare profondamente anche

l’amministrazione centrale dello Stato, l’organizzazione del Governo e il

sistema scolastico nonché di condurre a un ulteriore stadio di

perfezionamento le riforme già avviate nel 1993 (specialmente in materia

di impiego pubblico) e di dar vita a una generale opera di delegificazione

e di semplificazione.

Da un altro lato il Parlamento, e di comune intesa

maggioranza e opposizione, decisero di dare nuovamente vita a una

Commissione bicamerale per le riforme costituzionali che avesse

come proprio scopo principale quello di procedere a una riforma

organica e complessiva della parte II della Costituzione, finalizzata in

primo luogo a introdurre anche a livello costituzionale una forma

accettabile e moderna di “federalismo” o quanto meno di “reale

articolazione policentrica dell’ordinamento repubblicano”.

Questi due fenomeni devono naturalmente essere tenuti presenti

entrambi, anche perché l’uno ha influito in modo rilevante sull’altro.

31

Infatti fino a che la Commissione bicamerale per le riforme

costituzionali ha continuato a lavorare (e cioè fino all’inizio di giugno

del 1998) anche il Governo e la maggioranza parlamentare dell’epoca

hanno operato, sia nella formulazione della l. n. 59 del 1997 che

nell’esercizio delle deleghe ricevute sulla base di quella stessa legge,

nella ragionata e fondata convinzione che si trattasse comunque di

anticipare, a livello di legislazione ordinaria e di riforma dei “rami bassi”

dell’ordinamento, un processo riformatore che avrebbe poi potuto e

dovuto trovare la sua piena copertura e stabilizzazione costituzionale in

una coerente riforma della Costituzione.

Proprio questo aspetto e questa specifica convinzione spiegano del

resto alcune parti particolarmente innovative contenute nella l. n. 59 del

1997 e rendono ragione del complesso disegno riformatore adottato,

specialmente nel Capo I, dedicato appunto all’instaurazione del c.d.

federalismo amministrativo a Costituzione invariata.

Com’è noto, e come si è già richiamato, la vicenda della

Commissione bicamerale per le riforme costituzionali presieduta dall’on.

D’Alema non ha avuto sorte più felice di quelle che l’avevano preceduta

sulla stessa strada nel corso di altre legislature. Anch’essa, come le altre,

ha dovuto interrompere i propri lavori a seguito del verificarsi

32

dell’impossibilità concreta di procedere a realizzazione la riforma col

consenso necessario. La fine della XIII legislatura si è incaricata poi di

sanzionare la definitiva soppressione.

Le vicende legate al fallimento della Commissione bicamerale

D’Alema hanno peraltro pesato non poco sull’esercizio stesso delle

deleghe contenute nella l. n. 59 del 1997. Esse infatti hanno posto le

riforme realizzate in materia di ridefinizione dei rapporti e dei poteri tra

Stato, Regioni e autonomie locali sotto la spada di Damocle di una

supposta (e forse esistente) illegittimità sino a che, proprio alla fine della

XIII legislatura la già citata riforma del titolo V della parte II della

Costituzione contenuta nella l. cost. n. 3 del 2001 ha messo

definitivamente al riparo l’attuazione data alla l. n. 59 del 1997 e ne ha

stabilizzato caratteristiche e modalità.

In ogni caso non vi è dubbio che l’interruzione del disegno

riformatore della Costituzione legale al fallimento della Commissione

bicamerale D’Alema ha inciso parecchio anche sulle modalità stesse di

attuazione della riforma legislativa in senso federalista sviluppata a

Costituzione invariata e ne ha in qualche modo accentuato i limiti e gli

aspetti problematici.

33

3.2 La riforma “Bassanini” nel quadro del processo riformatore della

XIII legislatura

Per quanto riguarda più specificatamente le riforme Bassanini e in

particolare, ovviamente, la l. n. 59 del 1997 e le successive leggi di

modifica e integrazione, devono essere preliminarmente sottolineati i

punti seguenti:

a) la l. n. 59 del 1997 si è configurata come una legge delega,

finalizzata essenzialmente a dare al governo il potere di emanare

decreti delegati al fine di sviluppare una vastissima attività di

innovazione e riforma all’intero sistema amministrativo italiano

nonché per incidere in modo rilevantissimo; a’) sul sistema delle

fonti; b’) sulle strutture di governo dello Stato; c’) sulle modalità

di collegamento fra Stato, Regioni e sistema delle autonomie

locali;

b) l’attività di riforma delineata nella l. n. 59 del 1997 ha avuto fin

dall’inizio almeno tre diverse caratteristiche; a’) ridefinire i

rapporti e la distribuzione delle competenze fra lo Stato, le

Regioni e il sistema delle autonomie locali, realizzando quello che

è stato definito, al medesimo tempo, come il “terzo

decentramento” (dopo quelli del 1970-72 e del 1975-77) e come il

34

“massimo federalismo amministrativo a Costituzione invariata”

(ma in realtà cercando anche di anticipare una riforma

costituzionale che si riteneva in corso); b’) riformare,

coerentemente col federalismo amministrativo da realizzare, la

riforma della Presidenza del Consiglio, dei Ministeri e in generale

degli enti pubblici nazionali, conducendo a termine in tal modo

anche il processo riformatore delle strutture del Governo centrale,

della Presidenza del Consiglio e dei Ministeri già avviato con la l.

n. 400 del 1988 e ripreso, senza sufficiente successo, durante il

primo governo Amato e il governo Ciampi; c’) completare le

riforme amministrative di struttura già avviate durante il decennio

precedente e in particolare quelle relative al rapporto del pubblico

impiego (di cui si è voluta la definitiva privatizzazione), alla

struttura e il ruolo della dirigenza pubblica, alla formazione dei

funzionari e dei dirigenti pubblici e le relative modalità di

selezione e di carriera; d’) rivedere le modalità di organizzazione e

di funzionamento di alcuni ambiti specifici dei servizi pubblici e

della disciplina pubblicistica di alcuni settori economici, quali i

trasporti e in genere l’organizzazione del commercio e dei

pubblici servizi, mirando anche ad avviare massicci fenomeni di

35

rilocalizzazione delle funzioni fra Stato e Regioni nonché di

privatizzazione e di delegificazione di alcuni settori

precedentemente a forte caratterizzazione pubblicistica; e’)

realizzare la semplificazione delle procedure e delle regole che

presiedono all’attività amministrazione italiana in particolare,

anche attraverso la ricerca di forme nuove di privatizzazione di

alcuni settori precedentemente a forte carattere pubblicistico; f’)

riformare il sistema scolastico italiano, organizzandolo sulla base

di una rete di istituzioni scolastiche dotate di autonomia

funzionale ed estendendo anche all’organizzazione scolastica il

regime delle autonomie funzionali già introdotto per le Università

e per le Camere di commercio (in quanto tale difeso e tutelato

dallo stesso capo I della l. n. 59 anche nel quadro dell’avviata

riforma in senso federalista dell’ordinamento italiano).

c) Il processo riformatore delineato nella l. n. 59 del 1997, e

articolato attraverso i suoi diversi capi con riguardo ai diversi

settori e profili appena evidenziati, si è configurato fin dall’inizio

come un processo intrinsecamente organico e intimamente

coerente in tutte le sue parti. In particolare è stato molto forte fin

dall’inizio il collegamento fra la riforma relativa alla definizione

36

dei rapporti e alla ridistribuzione delle competenze fra Stato,

Regioni ed enti territoriali (il federalismo amministrativo a

Costituzione invariata, appunto) e la riforma del Governo e delle

strutture centrali dello Stato. Anche la tempistica della riforma,

costruita in modo che prima si dovessero attuare le deleghe in

materia di ridistribuzione della competenza fra i diversi soggetti

dell’ordinamento (federalismo amministrativo) e solo dopo, a

riforma federalista definita, si dovesse porre mano alla riforma del

Centro (e cioè delle strutture di governo e dell’amministrazione

centrale), corrispondeva a un disegno strategico molto preciso. Un

disegno secondo il quale la stretta connessione fra l’una e l’altra

parte del processo riformatore di un sistema amministrativo

complesso e al tempo stesso strettamente connesso imponeva

necessariamente che prima si dovessero ripensare gli equilibri fra

Centro (Stato) e soggetti periferici (Regioni e enti territoriali) e

solo dopo si potesse realizzare una coerente e funzionale riforma

del Centro.

d) Il processo riformatore legato alla l. n. 59 del 1997 si è presentato

fin dall’inizio come un processo di riforma di amplissime

ambizioni di altrettanto vasti obiettivi. Un processo finalizzato sì,

37

per un verso, a realizzare il massimo federalismo amministrativo

possibile operando solo a livello di legislazione ordinaria, ma

finalizzato anche per un altro verso a completare tutti i diversi

aspetti degli itinerari riformatori dell’amministrazione italiana già

avviati negli anni, e talvolta nei decenni precedenti, e che si

volevano finalmente mettere definitivamente a regime.

e) La l. n. 59 del 1997 aveva inoltre lo scopo di accelerare

l’innovazione sia nell’amministrazione propriamente intesa che

nel sistema delle fonti. Di qui la spinta decisiva alla definizione di

procedure e strutture permanenti finalizzate alla delegificazione e

alla semplificazione. Di qui la previsione della legge annuale di

semplificazione come strumento permanente di intervento

nell’ambito della legislazione. Di qui, infine, la forte spinta

all’attuazione di innovazioni anche strutturali nonché

all’introduzione di nuovi e massicci programmi di

informatizzazione e di ammodernamento delle regole e delle

procedure dell’attività amministrativa, specialmente di quella

rivolta a garantire servizi ai cittadini.

f) L’ultimo aspetto che merita di essere sottolineato riguarda infine il

fatto che la l. n. 59 del 1997, pur facendo della riforma dei rapporti

38

e della distribuzione delle competenze amministrative tra Stato,

Regioni e sistema delle autonomie locali, il punto di partenza

“strategico” dell’intero processo riformatore messo in atto, non

interveniva direttamente nell’organizzazione interna e nelle

caratteristiche strutturali delle Regioni, delle Province e dei

Comuni in quanto tali. Il processo riformatore di Comuni e

Province, pure avviato anch’esso nella XIII legislatura e

finalizzato a “mettere in asse” l’organizzazione e la struttura di

questi enti con le innovazioni già introdotte dalla l. 142 del 1990 e

soprattutto dalla nuova legge elettorale e dell’elezione diretta del

Sindaco e del Presidente della provincia, era infatti in parte

affidata alla l. n. 127 del 1997 (legge che non conteneva deleghe al

Governo ma norme sostanziali finalizzate ad interventi di

immediata e evidente rilevanza, quali, ad esempio, la ridefinizione

del sistema dei controlli), ed in parte era rimessa invece al disegno

di legge Napoletano-Vigneri che, come si è già ricordato fu

presentato nel mese di settembre di quel medesimo 1996 in cui

furono presentati i disegni di legge che sarebbero poi diventati la l.

n. 59 e la l. n. 127 del 1997. Analogamente la l. n. 59 non

dedicava particolare attenzione né conteneva specifiche deleghe,

39

in ordine alla riforma dell’organizzazione interna delle Regioni e

ai rapporti fra i suoi organi. Questa materia infatti, come si è

ricordato, era in larga misura disciplinata direttamente dalla

Costituzione ovvero rimessa agli Statuti regionali e in ogni caso il

legislatore del 1997 ritenne che dovesse essere tutta rimessa al

processo di riforma costituzionale da svolgersi nell’ambito della

Commissione bicamerale per le riforme costituzionali.

Tutti gli elementi qui richiamati devono essere tenuti ben presenti

quando si voglia analizzare e capire a fondo il processo riformatore che

ha caratterizzato la XIII legislatura sul terreno delle riforme

amministrative.

Si è trattato infine di un processo estremamente articolato e

complesso, che ha prodotto un numero molto elevato di decreti delegati e

che ha riguardato pressoché tutti i settori della P.A.

Se è vero, dunque, che quel processo riformatore si è caratterizzato

fin dall’inizio per il fatto di voler fare una spinta forte nella direzione di

una più solida articolazione policentrica del sistema amministrativo

italiano, è vero anche che esso si è posto fin dall’inizio un obiettivo

massimamente ambizioso: quello di riformare l’intera

amministrazione italiana, passando in modo organico, e

40

tendenzialmente generalizzato, dal modello di un’amministrazione

tutta centralistica quale quella introdotta in periodo cavourriano, in

preparazione e in accompagnamento del processo di unificazione

dell’Italia, a un’amministrazione tutta fondata su una forte

articolazione pluralistica e su un robusto sistema di amministrazioni

policentriche, collegate alle Regioni e a un sistema di enti territoriali

politicamente rappresentativo e strutturalmente dotato di ampie

competenze e poteri.

Infine deve essere tenuto presente anche il fatto che tutto il

processo riformatore legato alla l. n. 59 del 1997 ha avuto due

caratteristiche molto specifiche e sostanzialmente anche fortemente

innovative.

La prima caratteristica innovativa è stata quella di puntare sulla

costruzione di due strutture forti di raccordi con le Regioni e con gli

enti territoriali, da un lato; di raccordo col Parlamento nazionale,

dall’altro.

Alla Conferenza Stato, Regioni, Province autonome fu infatti

aggiunta la Conferenza Stato, città e autonomie locali nonché la

Conferenza Unificata vista come struttura complessa, composta dei

membri delle altre due Conferenze. Queste tre strutture costituirono (e

41

costituiscono tutt’ora) uno strumento forte di collegamento fra il

Governo centrale e il sistema delle regioni e degli enti territoriali. Uno

strumento di raccordo e di collegamento la cui attività e le cui

competenze, disciplinate da quello che fu il primo decreto delegato

adottato in attuazione della l. n. 59 (il d. legs.vo n. 281 del 1997), furono

essenziali durante tutto il processo di attuazione del Capo I della l. n. 59

del 1997.

La seconda caratteristica innovativa non meno rilevante fu quella

di prevedere una apposita Commissione bicamerale (la c.d.

“bicameralina” presieduta dall’on. Cerulli Irelli), alla quale fu affidato

il compito di garantire un raccordo permanente tra Governo, come

soggetto delegato, e Parlamento, come soggetto delegante, per tutto

quanto ha riguardato il processo di attuazione della l. n. 59 del 1997.

Entrambe queste innovazioni di struttura (ma anche di

procedimento) si sono mostrate strategicamente essenziali perché hanno

potuto consentire un’attuazione della l.n. del 1997 sostanzialmente

condivida e comunque fortemente caratterizzata da quelli che, con

lessico moderno, potremmo definire nuovi strumenti di governance

dell’intero processo riformatore.

42

Da ultimo va sottolineato anche la l. n. 59 previde fin dall’inizio la

possibilità di adottare, entro termini predefiniti (in genere un anno)

decreti correttivi degli stessi decreti delegati di riforma già adottati

nell’esercizio della delega. Questa previsione, che ha consentito

un’attività molto rilevante di “aggiustamenti successivi”, ha fortemente

caratterizzato tutto il processo riformatore, dando ad esso un carattere

fortemente pragmatico e anche molto modernamente flessibile, ma

scontando anche una ulteriore produzione normativa e l’ingenerarsi

spesso di un clima di “provvisorietà” non utile a una rapida e convinta

incrementazione della riforma.

3.3 I caratteri contenutistici della riforma Bassanini

Si tratta ora di esaminare più da vicino il processo riformatore

innescato dalla l. n. 59 del 1997 relativamente alla ridistribuzione delle

competenze e delle funzioni (ma conseguentemente anche dei beni e

delle risorse) dallo Stato al sistema delle Regioni e delle autonomie

locali.

43

La normativa che ci interessa è sostanzialmente contenuta in due

grandi “corpi normativi”: il capo I della l. n. 59 del 1997 e il d. legs.vo n.

112 del 1998.

Il capo I della l. n. 59 del 1997 contiene, all’art.1, la delega al

Governo per l’emanazione di uno o più decreti legislativi volti a

conferire alle Regioni e agli enti locali, ai sensi degli artt. 5, 118 e 128

della Costituzione, funzioni e compiti amministrativi.

In tal modo si chiarisce subito che con la l. n. 59 del 1997 si vuol

dar luogo a quello che è stato definito come il “terzo decentramento”, e

dunque a una nuova e ulteriore fase di trasferimento o conferimento di

funzioni dallo Stato alle Regioni e alle autonomie locali.

Quello che conta, però, è che il medesimo art. 1 stabilisce al

secondo comma che “sono conferite alle Regioni e agli enti locali,

nell’osservanza del principio di sussidiarietà di cui all’art. 4 comma 3

lettera a) della presente legge…. Tutti i compiti amministrativi relativi

alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive

comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi

localizzabili nei rispettivi territori… esercitare da qualunque organo o

amministrazione dello Stato, centrali o periferici, ovvero tramite enti o

altri soggetti pubblici”. Il terzo e il quarto comma del medesimo art. 1,

44

infine, elencavano le materie e i compiti esclusi dal conferimento di cui

al secondo comma: materie e compiti per i quali le competenze

amministrative restavano dunque comunque riservate allo Stato o ai

soggetti che erano esplicitamente indicati dalle norme, quali ad esempio

le Università e le Camere di commercio. In queste materie e nell’ambito

di questi compiti, dunque, le funzioni amministrative relative restavano

sottratte al trasferimento o al conferimento alle Regioni e agli enti

territoriali, mentre per ogni altra funzione amministrativa doveva trovare

attuazione appunto il comma secondo. Venivano poi stabiliti, all’art. 4,

molti e specifici vincoli e criteri che il legislatore delegato (e cioè il

Governo) doveva seguire nell’attuazione del trasferimento e del

conferimento delle funzioni amministrative alle Regioni e agli enti

territoriali. Fra questi vincoli vi erano: a) l’obbligo di “definire

tassativamente le funzioni e i compiti da mantenere in capo alle

amministrazioni statali (art. 3 comma 1 lettera a); b) l’obbligo di indicare

“nell’ambito di ciascuna materia, le funzioni e i compiti da conferire alle

Regioni anche ai fini di cui all’art.3 della legge 8 giugno 1990 n. 142 (la

legge di riforma dei Comuni e delle Province approvata appunto

all’inizio degli anni novanta) e osservando il principio di sussidiarietà di

cui all’art.4 comma 3 lettera a) della presente legge, o da conferire agli

45

enti locali territoriali o funzionali ai sensi degli artt. 128 e 118 della

Costituzione, nonché i criteri di conseguente e contestuale attribuzione e

ripartizione tra le Regioni, e tra queste e gli enti locali, dei beni e delle

risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative” (art. 3 comma 1

lettera b)),

Veniva stabilito inoltre che “il conferimento avviene entro il

periodo massimo di tre anni, assicurando l’effettivo esercizio delle

funzioni conferite”.

Fra i criteri che il legislatore delegato doveva seguire indicati

all’art.4, vi erano, oltre al principio di sussidiarietà, anche: a) il

principio di completezza; b) il principio di efficienza e di

economicità, anche con la soppressione delle funzioni e dei compiti

divenuti superflui; c) il principio di cooperazione; d) il principio di

responsabilità e unicità dell’amministrazione, con la conseguente

attribuzione ad un unico soggetto delle funzioni e dei compiti connessi,

strumentali e complementari, e quello della identificabilità in unico

soggetto anche associativo della responsabilità di ciascun servizio o

attività amministrativa; e) il principio di omogeneità; f) il principio di

adeguatezza, in relazione all’idoneità organizzativa

dell’amministrazione ricevente a garantire anche in forma associativa

46

con altri enti, l’esercizio delle funzioni; g) il principio di

differenziazione nell’allocazione delle funzioni in considerazione delle

diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e

strutturali degli enti riceventi, h) il principio della copertura

finanziaria e patrimoniale dei costi per l’esercizio delle funzioni

amministrative; l) il principio di autonomia organizzativa e

regolamentare e di responsabilità degli enti locali nell’esercizio delle

funzioni e dei compiti amministrativi ad essi conferiti.

Quando al principio di sussidiarietà, considerato, come si è visto,

essenziale nel sistema della l. n. 59, esso era definito dall’art.4 comma 3

lettera a) in modo tale da comportare “l’attribuzione della generalità dei

compiti e delle funzioni amministrative ai Comuni, alle Province e alle

comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali,

associative e organizzative, con l’esclusione delle sole funzioni

incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità

pubbliche anche al fine di favorire l’assolvimento di funzioni e di

compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e

comunità, alle autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai

cittadini interessati”.

47

Il d. legs.lvo n. 112 del 1998, intitolato “Conferimento di funzioni

e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni e agli enti locali, in

attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997 n. 59” ha poi dato

attuazione alla delega di cui all’art. 1 della l. n. 59, prevedendo al suo

interno un complicato, ma efficace meccanismo, per l’individuazione in

concreto, e settore per settore, delle funzioni da trasferire o conferire

invece agli enti territoriali. Col medesimo decreto legislativo sono state

stabilite anche le modalità di trasferimento dei beni e delle risorse

relative alle funzioni trasferite o conferite.

Al termine della XIII legislatura era in sostanza possibile

affermare che, soprattutto per la parte relativa alla realizzazione del c.d.

“federalismo amministrativo” (ma in verità anche nelle altre parti, e

soprattutto in quella relativa alla riforma del Governo e dei Ministeri) la

riforma amministrativa avviata con la l. n. 59 del 1997 aveva trovato una

sostanziale completa attuazione.

3.4. Ancora sulle caratteristiche essenziali della riforma Bassanini

Come risulta abbastanza chiaramente da quanto si è riportato, le

caratteristiche essenziali della riforma Bassanini sono consentite nel fatto

48

di operare un massiccio e rilevantissimo trasferimento di funzioni

amministrative e di connessi beni e risorse dall’amministrazione statale

verso le amministrazioni regionali e locali.

Non solo: la riforma Bassanini, forzando ai limiti del possibile (e

forse anche in parte passandoli) i vincoli costituzionali, ha elencato le

materie e i compiti che restavano riservati all’amministrazione dello

Stato o alle amministrazioni nazionali o locali operanti in regime di

autonomia funzionale o in altre posizioni specificatamente previste dalla

legge di delega, e ha stabilito che ogni altra funzione amministrativa e

ogni altro compito non esplicitamente mantenuto in capo allo Stato

dovesse obbligatoriamente essere di competenza delle Regioni o degli

enti territoriali.

Ancora: al fine di assegnare le funzioni alle Regioni ovvero agli

enti territoriali ha introdotto per la prima volta in modo esplicito

nell’ordinamento italiano il principio di sussidiarietà.

In particolare, sul piano della c.d. “sussidiarietà verticale” (e cioè

come criterio di assegnazione delle funzioni ai diversi livelli territoriali

di governo) il principio introdotto nella riforma, formulato utilizzando

per la verità una norma complessa e complicata, è stato costruito in

modo da affermare che la generalità dei compiti e delle funzioni

49

amministrative deve spettare ai Comuni, alle Province e alle Comunità

montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali e organizzative,

mentre ai livelli superiori, che in questa logica è la sola Regione perché

le competenze amministrative dello Stato e delle amministrazioni

centrali sono limitate alle materie e ai compiti elencati dalla legge di

delega stessa, spettano solo le funzioni non compatibili con le

dimensioni territoriali e associative e organizzative proprie dei Comuni,

delle Province e delle Comunità montane.

Sul piano, invece, della c.d. “sussidiarietà orizzontale” (sul piano

cioè della ripartizione delle competenze assegnate fra ambiti

amministrativi pubblici ed eventuali soggetti privati comunque

configurati), la norma è stata costruita in modo piuttosto ambiguo e non

del tutto immediatamente comprensibile. Essa tuttavia esclude che ai

privati spettino tutte le funzioni e i compiti che essi possono svolgere

“meglio” (e cioè in modo più efficiente) dei soggetti pubblici, come era

invece affermato nel testo inizialmente presentato dal governo prima

delle successive modifiche intervenute in Parlamento. Stabilisce invece

che nell’applicazione del principio di sussidiarietà si deve operare

“anche al fine di favorire l’assolvimento di funzioni e compiti di

rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità.

50

Infine, non vanno trascurati gli altri numerosi principi prima

richiamati. Principi che si affiancano a quello di sussidiarietà e che

concorrono, ciascuno per la sua parte e soprattutto tutti insieme

considerati, a definire un interessante e complesso quadro di riferimento

di una riforma che non vuole limitarsi a una pura, anche se importante,

operazione di trasferimento di funzioni e competenze dal soggetto

centrale Stato ai soggetti periferici Regioni ed enti territoriali, ma mira

anche a definire i criteri di guida di un’amministrazione moderna e

dunque attenta all’efficienza, all’efficacia, alla responsabilità, all’unicità,

all’omogeneità e all’adeguatezza delle competenze assegnate ai diversi

soggetti titolari di funzioni e compiti amministrativi.

Il limite intrinseco alla riforma Bassanini è stato comunque il forte

condizionamento derivante dal quadro costituzionale vigente al momento

in cui la riforma è stata pensata e attuata.

Anche se è vero tutta la riforma è stata pensata immaginando di

“anticipare” una riforma costituzionale “promessa” e dunque, per certi

aspetti, operando ai limiti massimi consentiti dal sistema costituzionale

in vigore, è pur sempre vero che le norme costituzionali allora vigenti, e

qui ampiamente richiamate nei primi paragrafi, hanno costituito un

51

vincoli insormontabile al contesto complessivo nel quale la riforma si è

dovuta muovere.

Di conseguenza tutto il processo riformatore qui richiamato ha

operato sempre e soltanto a livello amministrativo, e pur forzando al

limite del possibile il quadro costituzionale in vigore, non ha comunque

inciso (né avrebbe potuto o voluto farlo) sulla ripartizione delle

competenze legislative e in generale normative tra Stato, da un lato, le

Regioni, i Comuni e le Province dall’altro.

Anche se è vero che, per il complesso sistema costituzionale e

delle fonti che caratterizzava allora il nostro sistema costituzionale,

l’attribuzione di funzioni amministrative nuove e più ampie alle Regioni

aveva anche come effetto di ampliare di conseguenza il loro potere

legislativo, così come l’attribuzione di nuove funzioni e compiti agli enti

territoriali poteva determinare anche un connesso ampliamento dei loro

poteri regolamentari, resta pur sempre vero che con quella riforma non si

è potuto in alcun modo incidere sulla ripartizione costituzionale dei ruoli

dei diversi legislatori, né sulla competenza generale propria del

legislatore statale.

Di conseguenza, e proprio perché nel quadro della riforma

Bassanini il legislatore statale ha mantenuto una non contestata

52

competenza generale, in via di principio lo Stato, anche sul piano

amministrativo, ha pur sempre mantenuto la possibilità di veder

assegnata alla propria amministrazione ogni competenza che il

legislatore statale, innovando e modificando la stessa riforma Bassanini,

ritenesse in futuro attribuire ad essa.

In sostanza, nel contesto di questa riforma, e proprio perché essa

ha dovuto muoversi dentro il quadro costituzionale allora vigente, il

legislatore statale ha mantenuto comunque la competenza generale a

legiferare, col solo vincolo delle norme contenute in Costituzione. Di

conseguenza almeno potenzialmente, lo Stato ha mantenuto anche il

potere di assegnare in qualunque momento, attraverso le leggi,

all’amministrazione statale o a soggetti amministrativi nazionali ogni

funzione amministrativa che il legislatore statale ritenesse opportuno.

E’ per questo, d’altro canto, che si è più volte sottolineato il fatto

che senza una adeguata riforma costituzionale (quella riforma

costituzionale che la l. n. 59 del 1997 dava per sicura ed imminente e che

poi il fallimento della Commissione bicamerale D’Alema ha invece

allontanato) tutto il sistema legato alle leggi Bassanini correva un

duplice rischio; a) il rischio di essere in un certo senso non pienamente

compatibile col quadro costituzionale vigente, ove questo fosse stato

53

interpretato e applicato in modo rigorosamente restrittivo; b) il rischio di

essere comunque una riforma “instabile” perché sempre modificabile e

revocabile in tutto o in parte con semplice legge statale ordinaria. Ed è

per questo che la maggior parte degli studiosi più attenti, a cominciare

dallo stesso Ministro Bassanini, hanno costantemente messo in rilievo la

necessità che comunque questa riforma potesse trovare una “copertura” e

una “stabilizzazione” costituzionale attraverso una adeguata riforma

della Costituzione stessa.

In ogni caso non si può negare che il processo riformatore

sviluppatosi durante la XIII legislatura, e qui richiamato per sommi capi,

abbia costituito comunque la più grande riforma amministrativa

introdotta in Italia dalle leggi di unificazione amministrativa della

seconda metà dell’ottocento in poi. Una riforma che, in ogni caso e quali

che siano stati i suoi limiti, ha cercato finalmente di dare attuazione al

massimo di quanto possibile, al dettato costituzionale e di sviluppare un

coerente e organico sforzo di innovazione e di ammodernamento del

nostro sistema amministrativo. Né va dimenticato il fatto,

particolarmente importante e innovativo, che costituisce la caratteristica

più rilevante di questa riforma: quello cioè di aver compiuto per la prima

volta dal secolo scorso, uno sforzo coerente e coordinato per

54

ammodernare tutta l’amministrazione italiana, non limitandosi ad

intervenire solo sull’amministrazione statale o solo sul sistema degli enti

pubblici nazionali o solo sul sistema di governo regionale e locale ma

cercando invece di delineare un processo riformatore ad ampio spettro e,

nello stesso tempo, profondamente innovativo e intrinsecamente

coerente in tutte le sue diverse parti.

55

PARTE IV

LE INNOVAZIONI COSTITUZIONALI DELLA XIII

LEGISLATURA

4.1. Le riforme contenute nelle leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3

del 2001

Anche se le vicende legate al fallimento della Commissione per le

riforme costituzionali avrebbero potuto far ritenere che la XIII legislatura

fosse destinata a concludersi ancora una volta senza alcuna sostanziale

innovazione costituzionale, negli ultimi due anni di quella legislatura si

sono avute alcune riforme particolarmente incisive.

Fra queste, che tra l’altro hanno riguardato anche la riforma della

norma costituzionale in materia di “giusto processo” e le norme legate al

riconoscimento del diritto di voto agli italiani all’estero, vanno ricordate

specificatamente le leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001, già

richiamate nel primo paragrafo. Queste due leggi, insieme considerate,

hanno infatti pressoché totalmente innovato il titolo V della parte II della

Costituzione e hanno dato vita a un sistema costituzionale

profondamente nuovo e tale da consentire di dire che oggi è tutto

l’ordinamento italiano ad essere profondamente modificato.

56

Oggi dunque ci troviamo di fronte ad una fase del tutto nuova

della nostra vicenda costituzionale. Una fase nella quale anche il

processo riformatore del sistema amministrativo italiano, appena

realizzata attraverso la l. n. 59 del 1997 e tutti gli atti normativi da essa

derivati, dovrà essere ripensato e ricalibrato.

Infatti, se è vero che per un verso la riforma Bassanini ha

trovato nella riforma del titolo V della parte II della Costituzione

quella “copertura” e quella “stabilizzazione” costituzionale che

precedentemente le mancava, è vero anche che, per le ragioni che si

esporranno nei paragrafi successivi, la riforma costituzionale ha

modificato profondamente sia la posizione dello Stato, e soprattutto

del legislatore e dell’amministrazione statale, che quella delle

Regioni, e soprattutto del legislatore regionale. Inoltre la stessa

posizione dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane è mutata

in modo rilevante e questi enti hanno assunto oggi una posizione

costituzionale assai più forte e rilevante che per il passato. Posizione,

questa, che, attraverso il nuovo testo dell’art. 118 Cost., incide anche

direttamente sull’ambito delle competenze amministrative che ad essi

devono essere attribuite o conferite.

57

Vale dunque la pena di esaminare in dettaglio le principali

innovazioni introdotte nell’ordinamento italiano dalle due leggi

costituzionali precedentemente richiamate.

Così come è ormai ovviamente necessaria una puntuale e

approfondita conoscenza del nuovo testo costituzionale in tutte le sue

diverse parti e norme. Anche in quelle parti e norme, cioè, che in questa

sede non vengono prese esplicitamente e puntualmente in esame perché

meno immediatamente collegate all’analisi che qui si sta sviluppando.

4.2. Le caratteristiche innovate della riforma del titolo V della parte II

della Costituzione

Il primo, e fondamentale aspetto innovativo contenuto nelle linee

di riforma costituzionale, riguarda il nuovo testo dell’art.1 14 Cost., e in

particolare del primo e del secondo comma, secondo i quali “la

Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città

metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le

Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti,

poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”.

58

E’ evidente la profonda innovazione introdotta da questa norma.

Oggi Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato sono

tutti, e in modo paritario, elementi costitutivi della Repubblica. Una

repubblica che, dunque, non coincide più con lo Stato ma lo

ricomprende insieme a tutti gli altri enti territoriali indicati nella

norma.

Né questa sostanziale parità fra i diversi soggetti è messa in crisi

dal fatto che solo Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni siano

definiti enti autonomi, mentre nulla si dice dello Stato che dunque pare

restare titolare della sovranità. Prevale infatti, e con tutta evidenza, la

posizione di parità legata al fatto che tutti questi diversi soggetti sono

egualmente definiti, e al medesimo titolo, elementi costitutivi della

Repubblica.

Il secondo elemento di grande novità è costituita dal nuovo testo

dell’art. 117 Cost.. Secondo la nuova formulazione di questa

disposizione “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle

Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti

dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Si tratta di

una disposizione estremamente innovativa sotto un duplice profilo. Il

primo riguarda la assoluta parificazione della potestà legislativa

59

statale e di quella regionale, che hanno i medesimi vincoli e i medesimi

limiti e dunque si configurano ormai come fonti pariordinate e distinte

tra loro solo per i diversi ambiti di competenza. Il secondo profilo

riguarda il fatto che, grazie a questa disposizione, l’ordinamento

comunitario entra a far parte a pieno titolo del nostro ordinamento

giuridico complessivamente considerato e si pone, alla stessa stregua

della Costituzione stessa, come vincolo e limite immediato e diretto

alle leggi statali e regionali.

Ma non basta

Il nuovo testo dell’art. 1117 contiene molte ulteriori innovazioni di

grande rilevanza. La prima riguarda il fatto che, in base al secondo

comma dell’art. 117, la competenza legislativa esclusiva dello Stato è

ora limitata a un elenco di 17 materie o settori.

Per quanto riguarda poi le materie, certamente numerose,

ricompresse nella competenza concorrente, il terzo comma dell’art. 117

stabilisce con nettezza che “nelle materie legislative concorrenti spetta

alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione

dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.

Infine il quarto comma dell’art. 117 stabilisce che “spetta alle Regioni la

60

potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente

riservata alla legislazione dello Stato”.

La lettura di queste disposizioni chiarisce senza ombra di dubbio

che nel nuovo sistema costituzionale lo Stato, il legislatore statale e la

legge statale, hanno perso ormai la competenza generale. In questo

nuovo quadro la legge statale ha competenze rigidamente definite e

limitate. Le competenze di carattere esclusivo nelle materie indicate nel

secondo comma dell’art. 117; le competenze a determinare i principi

fondamentali (e solo questi) nelle materie di legislazione concorrente; in

ogni caso competenze delimitate rigidamente sia per le materie che per i

limiti e i vincoli che le caratterizzano.

Per contro oggi sono le Regioni e i legislatori regionali ad essere

titolari della competenza generale (e residuale) giacché, come si è

appena detto, il quarto comma dell’art. 117 stabilisce “spetta alle

Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non

espressamente riservata alla legislazione dello Stato.

E se è vero, com’è stato rilevato, che alcune materie in cui è

stabilita la competenza esclusiva del legislatore statale si configurano

come “materie trasversali” e dunque persavie di ampi settori

dell’ordinamento (si pensi ad esempio alla concorrenza e alla

61

determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti

civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale),

è vero anche che comunque ormai il legislatore statale ha sempre e solo

competenze rigidamente definite e determinate, sia per la materia che per

competenza.

Questa innovazione ha conseguenze molto rilevanti e su tutto

l’ordinamento.

La legge regionale, che oggi diventa la sola fonte legislativa a

competenza generale e residuale, ha infatti una competenza territoriale

definita (il territorio della Regione, appunto).

Dunque, nel nuovo sistema non esiste più la legge come fonte

normativa subcostituzionale dotata di un potere unificante

nell’ambito delle materie regolate e disciplinate dalla legge stessa.

Ormai solo la Costituzione e i vincoli comunitari e internazionale si

pongono come elementi unificanti in quanto vincolanti tutti i

legislatori e efficaci nei confronti di ogni fonte normativa e su tutto il

territorio nazionale. Le fonti legislative subcostituzionali hanno invece

tutte una competenza definita, o poiché limitata sotto il profilo delle

materie che possono disciplinare o del contenuto che esse possono avere

62

(le leggi statali) o perché comunque limitate dall’ambito territoriale di

competenza (le leggi regionali).

Il terzo elemento di profonda innovazione attiene all’attribuzione

del potere regolamentare.

L’art. 117 sesto comma stabilisce infatti con chiarezza che “La

potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione

esclusiva, salvo delega delle Regioni. La potestà regolamentare spetta

alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città

metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina

del’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.

Oggi dunque, sulla base di questa disposizione, lo Stato (e quindi

anche il Governo e i Ministri) possono emanare regolamenti solo nelle

17 materie ricompresse nell’elenco del secondo comma dell’art. 117

Cost. In ogni altra materia, e dunque anche in tutte quelle di competenza

concorrente il potere regolamentare è ormai passato alle Regioni.

Soggetti, questi ultimi, che peraltro hanno nelle medesime materie anche

la competenza legislativa e quindi sono del tutto liberi di definire come

ritengono meglio la “frontiera” tra legge regionale (ma lo stesso anche

per la legge statale che sia stata vigente al momento di entrata in vigore

della riforma costituzionale e fino a che la legge regionale non

63

intervenga a innovare la fonte legislativa) e regolamento (regionale, ma

anche regolamento statale eventualmente vigente al momento

dell’entrata in vigore della riforma costituzionale).

Infine, sulla base di questa medesima disposizione si amplia anche

il potere regolamentare di Comuni, Province e Città metropolitane.

Potere che ora si estende a tutta la normativa di organizzazione e di

svolgimento delle funzioni ad essi attribuite.

Se solo si pensa a quale sia stata fino ad oggi l’incidenza

sull’esercizio delle funzioni amministrative regionali o locali dei

regolamenti statali adottati nell’ambito della competenza generale del

legislatore e dell’amministrazione statale fondata dal vecchio sistema

costituzionale, ci si può rendere facilmente conto della porta

dell’innovazione intervenuta. Portata che si configura come una sorta di

vero e proprio “terremoto”, particolarmente difficile da gestire, tanto più

in un periodo come quello attuale nel quale, si attesa di una puntuale e

con coordinata piena attuazione della riforma, tanto il Governo che i

Ministri continuano ad approvare regolamenti in materie che

probabilmente sono ormai sottratte al potere regolamentare dello Stato.

Fenomeno questo che peraltro sembra essere in qualche modo collegato

anche alla difficoltà che le Regioni sembrano avere ad esercitare un

64

potere regolamentare che sinora hanno esercitato in modo molto ridotto,

limitate come erano finora alla possibilità di adottare regolamenti solo

nelle limitate materie in cui avevano anche competenza legislativa.

Il quarto elemento di profonda innovazione contenuta nella

riforma del titolo V della parte II della Costituzione riguarda la

ripartizione delle competenze amministrative fra i diversi soggetti che, ai

sensi del primo comma del nuovo articolo 114, costituiscono oggi la

Repubblica.

Nella nuova formulazione l’art. 118 stabilisce infatti al primo

comma che “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo

che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città

metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà,

differenziazione e adeguatezza”.

Al secondo comma l’art. 118 stabilisce poi che “I Comuni, le

Province e le Città metropolitane sono titolari di funzione amministrative

proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale secondo le

rispettive competenze”, norma questa che va coordinata anche con

quanto previsto dall’art. 117 secondo comma lettera p) secondo il quale

spetta alla competenza esclusiva del legislatore statale disciplinare

65

“legislazione elettorale”, organi di governo e funzioni fondamentali di

Comuni, Province e Città metropolitane”.

Va infine tenuto presente che l’art. 118 quarto comma stabilisce

che “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono

l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento

di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

Naturalmente è tutt’altro che facile armonizzare questo

complessivo quadro normativo. Non mancano infatti ombre e difficoltà

interpretative, soprattutto per quanto riguarda la distinzione fra “funzioni

proprie” di Comuni, Province e Città metropolitane di cui all’art. 118

comma 2 e “funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città

metropolitane”, di cui all’art. 117 comma secondo lettera p).

Tuttavia non vi è alcun dubbio che nel nuovo sistema lo Stato ha

del tutto perso quella competenza generale all’esercizio delle funzioni

amministrative non esplicitamente assegnate ad altri soggetti

dell’ordinamento che aveva invece nel precedente quadro costituzionale.

Se qualche soggetto ha oggi la competenza generale questo è caso mai il

Comune, anche se tale competenza generale, intesa come competenza

residuale, è circondata di limiti e condizioni.

66

In ogni caso quello che è certo è che oggi l’attribuzione delle

competenze amministrative ai diversi soggetti di cui all’art. 114 primo

comma Costituzione spetta in modo paritario, e ciascuno per il suo

ambito di competenza, tanto al legislatore statale quanto al legislatore

regionale.

Non solo. Poiché il legislatore statale ha competenza legislativa

delimitata e quello regionale no, la competenza ad assegnare funzioni

amministrative è “limitata” per il legislatore statale e invece generale,

salvo appunto l’esistenza della competenza del legislatore statale, per il

legislatore regionale,

Naturalmente quest’ultima considerazione deve essere temperata

dal fatto che comunque spetta alla competenza esclusiva dello Stato la

determinazione delle funzioni fondamentali dei Comuni, Province e Città

metropolitane. Tuttavia la rilevanza dell’innovazione introdotta dal

nuovo sistema non può essere né ignorata né considerata in modo

riduttivo.

Di particolare rilevanza sono poi i criteri introdotti dall’art. 118

Cost. e ai quali sia il legislatore statale che quello regionale devono

attenersi nell’insegnare le funzioni amministrative ai diversi soggetti.

67

Il primo criterio è quello che le funzioni amministrative possono (e

devono) essere assegnate a soggetti diversi dai Comuni (soggetti che

vanno dalle Province fino allo Stato) quando questo sia necessario al fine

di assicurare l’esercizio unitario. Tuttavia il legislatore statale e

regionale, nell’apprezzare le esigenze di carattere unitario che di volta in

volta possono giustificare o imporre l’attribuzione delle funzioni

amministrative a uno dei soggetti elencati nel primo comma dell’art. 118

diversi dai Comuni, devono attenersi a tre principi precisi: a) il principio

di sussidarietà, innanzitutto; b) il principio di differenziazione, in

secondo luogo; e) il principio di adeguatezza, in terzo luogo.

E’ evidente che nella nuova formulazione dell’art. 118 vi è un

riflesso forte di quanto previsto nell’art. 4 della l. n. 59 del 1997, e che

dunque anche per questa parte l’innovazione costituzionale si configura

anche come una sorta di “stabilizzazione”, almeno potenziale, della

riforma Bassanini.

In ogni caso va sottolineato che con questa formulazione da un

canto si introduce definitivamente, anche a livello costituzionale, il

principio di sussidarietà verticale come elemento regolatore della

distribuzione delle funzioni e delle competenze fra i diversi livelli

territoriali di amministrazione, e da un altro canto si costituzionalizzano

68

anche i principi di differenziazione e di adeguatezza come principi

costituzionali di ottimizzazione della distribuzione e delle assegnazioni

di funzioni amministrative.

Il principio di differenziazione consente e impone infatti di

attribuire le funzioni amministrative non per “classi di enti” (alle

Province, e dunque a tutte le Province; ai Comuni, e quindi a tutti i

Comuni) ma solo a quegli enti che ai diversi livelli, per dimensione di

popolazione e quantità di risorse, possono adempiere alle funzioni

assegnate. Il principio di adeguatezza, poi, ribadisce e qualifica il

principio di differenziazione e impone comunque sempre un

collegamento fra le funzioni che si intendono assegnare o conferire e la

capacità dei soggetti destinatari di assolvere con la dovuta efficacia ed

efficienza.

L’altro elemento sul quale merita richiamare l’attenzione è quello

contenuto nell’ultimo comma dell’art. 118.

Con questa disposizione, infatti, si introduce una sorta di principio

di sussidiarietà orizzontale dal quale discende il dovere per tutti i

soggetti di cui all’art. 114 della Costituzione di favorire “l’autonoma

iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività

di interesse generale”. Peraltro questa non è formula chiarissima nel suo

69

contenuto, così come non lo era il principio di sussidiarietà orizzontale

implicitamente formulato nella lettera ) del primo comma dell’art. 4 della

l. n. 59 del 1997.

Naturalmente il nuovo articolato del titolo V della parte II della

Costituzione contiene molte altre norme di grande rilevanza.

Fra queste norme vanno segnalate almeno: a) il nuovo testo

dell’art. 119 Cost. che contiene una complessa normativa finalizzata a

garantire a tutti i soggetti dell’ordinamento complessivo le risorse

necessarie per adempiere alle proprie funzioni; b) il nuovo testo dell’art.

120 Cost., che prevede un potere di sostituzione del Governo rispetto a

tutti gli organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e

dei Comuni nei casi e alle condizioni stabilite dalla norma stessa; c) il

nuovo testo dell’art. 125 Cost. che abroga definitivamente ogni forma di

controllo, stabilizzando e completando anche per questa parte quanto già

stabilito dalla l. n. 59 del 1997 e dai successivi atti normativi legati

all’attuazione della l. n. 127 del 1997; d) il testo dell’art. 11 della l. cost.

n.3 del 2001 che prevede l’allargamento della Commissione bicamerale

per le questioni regionali con rappresentanti delle Regioni e delle

autonomie locali e affida a questa Commissione un ruolo particolare in

tutti i procedimenti legislativi statali nell’ambito dell’art. 117 e dell’art.

70

119 della Costituzione; e) il nuovo testo dell’art. 123 Cost. non solo nella

parte in cui prevede, al quarto comma, che “in ogni Regione, lo statuto

disciplina il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di

consulenza fra Regioni e gli enti locali”.

71

PARTE V

IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’

5.1. L’origine e le tre radici del Principio di Sussidiarietà

Il termine sussidiarietà deriva dal latino subsidium e nella

terminologia militare romana stava ad indicare le truppe di riserva che

rimanevano dietro al fronte, pronte a intervenire in aiuto alle corti che

combattevano nella prima acies. In relazione alla sua applicazione

sociale, i primi cenni di una riflessione su un principio analogo sono già

presenti nel pensiero aristoteliano e vengono poi ripresi e rielaborati da

San Tommaso come elemento di una netta concezione del bene

comune, come risultato di una pluralità di apporti in un contesto

comunitario, solidaristico e non conflittuale, all’interno del quale alla

personalità umana è offerta la possibilità di svilupparsi.

In prima luce nella costruzione del bene comune era quindi posto

il soggetto umano, considerato però bisognoso di un subsidium: le

formazioni sociali, il gruppo e in subordine il pubblico potere, che risulta

così al contempo utile e limitato.

Il Principio di Sussidiarietà è giunto sino a noi lungo tre filoni

fondamentali: la dottrina sociale della Chiesa, esplicitata soprattutto

72

nell’Enciclica «Quadragesimo anno» del 1931, il pensiero liberale, la

riflessione e l’elaborazione in materia di federalismo.

Si tratta di tradizioni eterogenee, le quali pongono alla base del

principio valori diversi, o comunque non pienamente sovrapponibili.

La dottrina sociale della Chiesa fonda la sussidiarietà sul primato

etico della persona rispetto allo Stato, il quale deve lasciar sviluppare

spontaneamente le articolazioni della società senza pretendere di

assorbirle1.

Il tema da esso evocato e, quindi, quello dei limiti dell’azione

legittima dello Stato: un tema centrale, che spiega –ad esempio –

l’immediato interesse dimostrato dalla dottrina costituzionalistica per

l’Enciclica sopra citata.

Il pensiero liberale pone al centro della sua elaborazione la libertà

individuale. Un’enunciazione molto efficace di questa impostazione si

rinviene – ad esempio – in una lettera che Thomas Jefferson scrive nel

1816. Nella quale si delinea un assetto organizzativo, che dalla fattoria –

e cioè, dalla realtà che il proprietario può controllare direttamente –

giunge alla «grande repubblica nazionale», passando attraverso una

1 Questo il passo dell’Enciclica maggiormente rilevante al riguardo: «Siccome è illecito togliere agli

individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità

così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori

comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della

società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in

maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle».

73

progressione di istanze via via più ampie, tenute insieme al principio in

forza del quale l’istanza superiore può intervenire soltanto laddove

quella inferiore non sia in grado di provvedere2 .

Considerandosi l’iniziativa economica privata uno dei principali

corollari della libertà umana, uno degli ambiti, in cui – secondo questa

prospettiva – il principio di sussidiarietà deve trovare applicazione è

quello dei rapporti economici. Di qui, l’attenzione al tema del rapporto

Stato-mercato. Secondo la versione liberale della sussidiarietà, i diretti

interventi dello Stato in economia si giustificano solo se il mercato non è

in grado di operare efficientemente.

Il terzo filone è costituito – come si è detto – dalla riflessione sul

federalismo.

Nella letteratura di lingua tedesca, ad esempio, si sottolinea

frequentemente che il federalismo adempie – tra l’altro – ad una

funzione garantistica.

2 La citazione è tratta dalla lettera indirizzata da Thomas Jefferson e Joseph C. Cabell il 2 febbraio

1816 (T. Jefferson, Il decentramento del potere, n Acquarone (a cura di), Antologia degli scritti

politici di Thomas Jefferson, Bolgona 1961, 109), nella quale è anche evocata la tematica del

federalismo. In essa, in particolare, si legge: «E’ dividendo e suddividendo la grande repubblica

nazionale in queste repubbliche minori da un estremo all’altro della gerarchia, finchè si giunga

all’amministrazione da parte di ciascuno individuo nella propria fattoria, attribuendo ad ognuno la

direzione di ciò che il suo occhio riesce a sorvegliare direttamente, che tutto verrà realizzato per il

meglio (…) Io sono convinto che, se l’Onnipotente non ha decretato che l’uomo non debba mai essere

libero (e sarebbe bestemmia il crederlo), si scoprirà che il segreto consiste nel farsi egli stesso

depositario dei poteri che si riferiscono a lui, nella misura in cui è capace di esercitarli, e nel delegare

soltanto quelli che sono al di là delle sue capacità, mediante un processo sintetico, a gradi sempre più

elevati di funzionari, in modo da conferire sempre meno poteri a mano a mano che i delegati

rappresentano sempre più un’oligarchia».

74

Si osserva che il potere quanto più è concentrato tanto più è

pericoloso.

L’immagine che, in modo più eloquente, illustra questa idea è

quella della «stanza dei bottoni», della quale il potere politico può

impadronirsi per governare totalitariamente la società, Di qui, la diffusa

interpretazione del federalismo come tecnica di divisione verticale del

potere. Di qui, ancora, l’idea che, nell’economia di un sistema federale,

l’allocazione delle funzioni debba avvenire in base al principio di

sussidiarietà: riservando al centro i soli compiti che la periferia non sia in

grado di svolgere.

La fondatezza di questa lettura in chiave garantistica del

federalismo ha trovato eloquenti conferme nella drammatica storia

tedesca di questo secolo. E’, infatti, noto che uno dei primi atti della

politica costituzionale del nazionalsocialismo, è consistito

nell’abolizione del federalismo: cioè, di uno dei caratteri strutturali del

costituzionalismo tedesco. Ed è altrettanto noto che subito dopo la guerra

le forze alleate hanno esercitato pressioni sulla Germania perché

ritornasse – come poi è avvenuto – alla sua tradizione federale.

Ma il rapporto federalismo – sussidiarietà presenta anche un’altra

faccia. Si tratta di un motivo sviluppato soprattutto in Svizzera, dove si

75

sottolinea che il federalismo è espressione di una democrazia più

compiuta di quella propria degli Stati unitari centralizzati. Si osserva,

infatti, che l’ambito più ridotto è quello più facilmente controllabile dai

cittadini. I quali sono in grado di partecipare più attivamente ed

intensamente alla vita del proprio comune che a quella dello Stato. Onde

– tra l’altro – l’idea che la sussidiarietà sia strettamente legata alla

democrazia ed assolva anche ad un’essenziale funzione pedagogica: di

pedagogia civile.

5.2. Il principio di Sussidiarietà nella riforma del titolo V della

Costituzione

La revisione del titolo V fa espressamente riferimento al principio

di sussidiarietà nell’art. 4, divenuto il nuovo art. 118 Cost. e nell’art. 6

del progetto, divenuto il nuovo art. 120 Cost.

L’art. 118, 1° comma, ridisegna le funzioni amministrative,

attribuendone la titolarità, in via generale, ai comuni, salvo che non siano

conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, secondo il

principio di sussidiarietà. Tale disposizione svolge il profilo verticale

della sussidiarietà, consacrando a livello costituzionale quell’ampio

76

processo che, a partire dalla legge n. 59/1997. ha segnato una tappa

essenziale con il d.lgs. n. 112/1198.

Insomma, in una logica che potremmo definire di federalismo

amministrativo, al comune, e cioè all’ente pubblico territoriale più vicino

ai cittadini, compete la generalità delle funzioni e dei compiti

amministrativi.

L’ultimo comma del’art. 118 invece impegna Stato, regioni, città

metropolitane, province comuni a favorire “l’autonoma iniziativa dei

cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse

generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Viene qui in evidenza

la variante “orizzontale” del principio in esame, e cioè si afferma che

anche le attività di interesse generale, e pertanto non solo quelle di

interesse privato o particolare, possono essere svolte dalla cosiddetta

società civile.

La Repubblica (termine con cui la Costituzione designa l’insieme

di Stato-apparato e Stato comunità) deve promuovere l’assunzione di

responsabilità oggettivamente pubbliche sia da parte dei singoli sia da

parte delle formazioni sociali. Si richiama qui l’idea che, nell’ottica di

una sussidiarietà che non voglia contraddire i principi del personalismo e

dello Stato sociale, la solidarietà non può essere prerogativa esclusiva

77

dello Stato, bensì deve divenire dimensione costitutiva della libertà e dei

diritti, e dunque dovere inderogabile dei cittadini stessi, resi responsabili

della costruzione della comunità nel suo complesso.

L’art. 120, 2° comma, infine, prevedendo il potere sostitutivo del

governo centrale di fronte ad inadempienze delle regioni e degli enti

locali, richiama il principio di sussidiarietà, per cui il livello superiore

(ente centrale) interviene quando il livello inferiore (ente territoriale) non

è in grado di assolvere alle proprie funzioni. Il pregio di questa

disposizione sta nel fatto che si tenta una casistica delle insufficienze dei

livelli inferiori, limitando la (altrimenti) eccessiva discrezionalità del

governo, che ben potrebbe sostituirsi ai primi con la scusa di non meglio

precisate loro inefficienze.

Il governo può infatti esercitare i suoi poteri sostitutivi solo nel

caso di mancato rispetto, da parte degli enti minori, degli obblighi

internazionali o della normativa comunitaria, oppure in caso di pericolo

per l’incolumità e la sicurezza pubblica, o per tutelare l’unità giuridica o

economica, soprattutto per ciò che attiene ai livelli essenziali delle

prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.

L’art. 120 contiene poi una riserva di legge rinforzata, che deve

ritenersi statale, circa le procedure di esercizio dei poteri sostitutivi, che

78

debbono essere rispettose dei principi di sussidiarietà e di leale

cooperazione. Proprio queste ultime specificazioni stanno ad indicare

come l’esercizio dei poteri sostitutivi lungi dal determinare uno

spostamento definitivo di competenze verso il livello centrale di

governo, debba mirare a ripristinare fin dove possibile l’assolvimento

delle proprie funzioni da parte degli enti territoriali inadempienti.

Resta ora da domandarsi se il principio di sussidiarietà così

declinato sia coerente con l’idea di sussidiarietà che sottostà ai principi

personalistico ed autonomistico. Per quanto attiene alla sussidiarietà

verticale, la centralità del comune rappresenta la trasposizione sul piano

costituzionale del principio, contenuto nell’art. 3, 2° comma, d.lgs. n.

267/2000, per cui “il comune è l’ente locale che rappresenta la propria

comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo”. Ciò che

viene in rilievo non è tanto il comune quale articolazione amministrativa,

bensì quale comunità autonoma dotata del carattere della politicità, e

cioè della capacità di perseguire fini di carattere generale. La

sussidiarietà orizzontale, ex art. 118, 4° comma, si traduce nell’impegno,

peraltro dal contenuto esigibile incerto, di Stato, regioni e degli enti

locali enumerati di promuovere l’esercizio di attività di interesse

generale: essenzialmente – riteniamo – i servizi pubblici e soprattutto

79

quelli sociali. In questa formulazione, è dato individuare la volontà di

aprire la porta ad un’evoluzione, verso quella che è stata definita l’auto-

amministrazione o, meglio, la societarizzazione delle funzioni. Si ritiene

cioè conforme alla Costituzione il processo che veda i singoli e

(soprattutto) le formazioni sociali, o altre realtà associative, direttamente

impegnati in attività di utilità generali e perciò oggettivamente

pubbliche, senza che con ciò sia esautorato od esaurito il ruolo dell’ente

pubblico (Stato, regione, ecc.), che anzi mantiene un compito, appunto

sussidiario, di controllo, di promozione e, nel caso, di sostituzione delle

iniziative sociali.

Occorre infatti prestare particolare attenzione a non confondere la

sussidiarietà verticale con un mero decentramento e la sussidiarietà

orizzontale con lo spontaneismo sociale. Altrimenti, la locuzione

contenuta nell’art. 118, 1° e 4° comma, “sulla base del principio di

sussidiarietà”, sarebbe stata un’appendice inutile o una giustificazione

non richiesta. Il nuovo art. 118 non autorizza pertanto un qualsivoglia

decentramento o tanto meno un improbabile liberismo. Ciò che

realmente è indispensabile, ed è il senso stesso di quell’inciso (“sulla

base del principio di sussidiarietà”), è il coordinamento ed il raccordo tra

le formazioni sociali ed il livello istituzionale che le deve garantire

80

sinteticamente; nonché tra il livello istituzionale più piccolo e quello più

grande. E’ il sistema di raccordi che non deve mancare e, in particolare,

la possibilità data all’ente politico (superiore) di intervenire

sull’autonomia sociale (o sull’ente inferiore) quando tradisca il fine

umanistico per cui è istituita o quando lo interpreti in senso solo

corporativo, a danno di altri.

Ciò che infatti va tenuto costantemente presente è che il principio

di sussidiarietà non mira in alcun modo alla valorizzazione del

particolarismo in sé, né tanto meno, all’interruzione dei nessi di

collegamento tra le varie articolazioni sociali. La sussidiarietà non è un

principio di chiusura dei vari livelli su se stessi: essa designa il

movimento umano di apertura progressiva, che non travolge le forme

intermedie ma le apre alle forme successive.

Di ogni livello sociale (o istituzionale) di aggregazione lo Stato

sussidiario rispetta l’autonomia in quanto gradino di questa scala, ma

deve trattarsi di un’autonomia che non si restringe, ma che apre

naturalmente i propri membri al livello successivo e li rende responsabili

della società nel suo complesso.

Occorre infine sottolineare che il rimando al principio di

sussidiarietà acquista pregnanza solo se endogeno alla Costituzione, se

81

cioè dalla Costituzione può esserne ricavata con sufficiente univocità una

definizione da utilizzare come parametro per giudicare della legittimità

dei conferimenti di cui all’art. 118, 1° e 4° comma. Poiché l’art. 118 non

definisce, ma richiama il principio di sussidiarietà, in qualche modo

presupponendolo noto, a limitare la discrezionalità ermeneutica

dell’interprete soccorre il criterio sistematico e cioè il collegamento

del’art. 118 medesimo con i principi fondamentali della Costituzione, in

primis quello personalistico, ex art. 2, e quello autonomistico, ex art. 5.

Per quanto attiene ai rapporti Stato-regioni-enti, l’esplicita

previsione di controllo sostitutivi (art. 120, 2° comma) va dunque

accolta, rispetto al principio di sussidiarietà, come elemento di chiarezza

ermeneutica e non come residuo di centralismo.

5.2.1. Le funzioni amministrative

E’ noto quanto sia stato usato ed abusato nel dibattito italiano

dell’ultimo decennio il principio di sussidiarietà e di come esso affondi

le sue radici nel pensiero cattolico di matrice liberale ed abbia trovato un

importante riconoscimento grazie alla sua previsione a livello

comunitario nel Trattato di Maastricht.

82

L’introduzione del principio a livello costituzionale avviene ora

secondo entrambe le linee direttrici di operatività: quella verticale e

quella orizzontale.

Dal primo punto di vista, si opera una diversa allocazione – forse

essenzialmente demagogica3 - delle funzioni amministrative partendo

non più dall’alto, ma dal basso: al fine di privilegiare la prossimità

territoriale con i cittadini, esse spettano in primis, ai comuni – vero

“cuore amministrativo” della Repubblica – “salvo che, per assicurarne

l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane,

Regioni e Stato” come dispone il nuovo 1° comma dell’art. 118. Dal

secondo punto di vista, si introduce significativamente l’impegno dello

Stato e degli enti territoriali a favorire l’accesso delle autonomie sociali

all’esercizio di funzioni di interesse generale (art. 118, 4° comma),

valorizzando le sinergie fra pubblico e privato sociale, in funzione di

avvicinamento del cittadino all’amministrazione. In tal modo, non si

tende tanto a salvaguardare gli spazi di libertà privata, ma piuttosto a

costituire un nuovo modello di amministrazione, che tenga conto non più

3 Il rilievo è di G. Falcon, Il nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione, in Le regioni,

2001, 9, sulla base della considerazione che moltissime delle funzioni amministrative essenziali per la

vita collettiva (ad Es. polizia, tutela della salute, previdenza sociale, istruzione, ecc) resteranno

comunque inevitabilmente attribuite a livelli di amministrazione ben più centralizzati di quello

comunale.

83

solo delle autonomie territoriali, ma anche di quelle funzionali e

soprattutto di quelle sociali.

Ad un miglior raccordo fra gli enti interessati dallo svolgimento

delle funzioni amministrative mira la creazione, accanto al consiglio

regionale, organo di classica derivazione politica, di un consiglio delle

autonomie locali, organo di consultazione fra la regione e le autonomie

locali (comma 4, aggiunto all’art. 123). Si è rilevato che se la riforma

avesse voluto promuovere un processo del tutto differente ed innovativo

di amministrazione, con una ben maggiore e significativa partecipazione

della società civile, si sarebbe potuto pensare – sia pur nelle notevoli

difficoltà organizzative e gestionali che ne sarebbero derivate – ad un

consiglio delle autonomie tout court, di cui accanto alle autonomie

territoriali sarebbero stati chiamati a far parte anche rappresentanti delle

autonomie funzionali e sociali.

Pur costituendo il modello delineato un positivo passo in avanti,

non mancano perplessità e dubbi.

Intendiamo riferirci, ad es., all’esigenza, da un lato, di definire in

maniera più chiara gli ambiti che residuano all’amministrazione statale e

il ruolo che debbono svolgere le amministrazioni periferiche statali, cui

residueranno comunque importanti funzioni (ad es. affari interni, tesoro,

84

giustizia, difesa, beni culturali) da raccordare inevitabilmente con le

amministrazioni regionali e locali. E, dall’altro, alla opportunità di

determinare più esattamente i compiti dei comuni nello svolgimento

delle funzioni amministrative, in quanto – all’atto – tali enti sono privi di

ogni ruolo in ordine alle scelte (ampiamente discrezionali) devolute alla

legge statale e regionale in ordine alle funzioni concretamente attribuite

all’ “anello” organizzativo più prossimo al cittadino; a tal fine, anche

l’istituzione del consiglio delle autonomie locali appare insufficiente,

dovendosi – in una logica di reale autonomia – consentire

all’amministrazione comunale la possibilità di decidere se assumere o

meno una certa funzione amministrativa valutando autonomamente le

implicazioni organizzative che ne discendono.

Ma, forse, il problema principale da risolvere – a livello

sistematico – consiste nella mancanza, nel testo di riforma, di una chiara

opzione per un modello di amministrazione. Attualmente in Europa i

modelli di relazione fra Stato e autonomie locali sono – pur con tutti gli

adattamenti possibili – essenzialmente due: a) il modello di

amministrazione unica regionale/locale, senza articolazioni decentrate

dello Stato, tipico del federalismo alla tedesca e, in forma attenuata,

dallo stato autonomo spagnolo; b) il parallelismo razionalizzato, proprio

85

del sistema francese, che lascia una articolazione decentrata dello Stato,

tuttavia con forti innovazioni interne e principi condivisi con la

amministrazione locale, quanto a funzioni, relazioni con gli apparati

centrali, ordinamento interno.

In forza del principio di sussidiarietà le funzioni amministrative

spettano in primo luogo ai comuni o, a seconda dei casi, a province, città

metropolitane, regioni e Stato. Ovviamente tali funzioni oggi sono svolte

dallo Stato e dalle regioni, per cui saranno questi due enti a dover

procedere al trasferimento delle funzioni ai comuni o agli altri enti

territoriali, i quali dovranno divenire titolari delle funzioni. In primo

luogo, occorrerà determinare quali funzioni trasferire: i criteri generali

sono fissati in Costituzione, richiamandosi i principi di “sussidiarietà,

differenziazione ed adeguatezza” e l’esigenza di collocarle a livello più

alto solo ove occorra “assicurarne l’esercizio unitario”. Sulla base di

questi parametri spetterà non tanto allo Stato, cui residuano soltanto le

funzioni riservate nel sistema delle leggi Bassanini, peraltro

probabilmente da mantenere a livello centrale in funzione alla loro

natura, ma soprattutto alle regioni – con pericolosi margini di

discrezionalità – definire la nuova allocazione delle funzioni

amministrative.

86

Ma a chi spetterà di verificare la legittimità di tale allocazione? A

tal fine risulterà decisivo determinare quale sarà la fonte competente a

disporre questa attribuzione. Il nuovo testo costituzionale non si esprime

sul punto specificando all’esordio del 1° comma dell’art. 118 solo che

“le funzioni amministrative sono attribuite…”.

La questione viene affrontata dal 2° comma dello stesso articolo,

secondo cui “i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari

di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale

o regionale, secondo le rispettive competenze”. Ad una prima lettura

questa disposizione sembra differenziare tra funzioni amministrative

proprie di comuni, province e città metropolitane e funzioni

amministrative ad essi trasferite da Stato e regione. Ad oggi, questa

bipartizione non può trovare applicazione in quanto comuni, province e

città metropolitane non sono ancora titolari di effettive funzioni, ma

godono solo formalmente di questa attribuzione costituzionale. Tale

attribuzione (art. 118, 1° comma) costituisce – in pratica – un

“contenitore vuoto” che non potrà essere riempito se non attraverso il

trasferimento ad opera di coloro che sono ora effettivamente attributari

di tali funzioni cioè lo Stato e le regioni. Per rendere comuni, province e

città metropolitane titolare di quelle che saranno le funzioni

87

amministrative proprie occorre un trasferimento iniziale, per operare il

quale appare preferibile applicare comunque l’ultima parte del 2° comma

dell’art. 118 Cost. e, quindi, ricorrere alla legge statale o regionale di

conferimento. Tale soluzione appare più opportuna anche al fine di

garantire una forma di controllo unitario di tale riallocazione. Operare i

conferimenti di funzioni amministrative agli enti locali mediante la fonte

legislativa statale o regionale significa poter sottoporre gli atti medesimi

al controllo della corte costituzionale, la quale – al fondo – sarà il vero

arbitro della riforma. Si ritiene preferibile affidare alla corte questo ruolo

arbitrale sui conferimenti amministrativi piuttosto che disperderlo fra

tutti i giudici amministrativi come accadrebbe ove si optasse per

ammettere la possibilità che i conferimenti possano avvenire anche con

atti amministrativi statali o regionali, come tali sottoposti al sindacato dei

giudici amministrativi.

Tuttavia occorre considerare che le attuali forme di accesso alla

corte costituzionale non appaiono sufficienti per garantire le sfere di

competenza degli enti locali, essendo solo lo Stato e le regioni legittimati

a ricorrere in via principale alla corte. Ad oggi, ove una legge regionale

violi la sfera di attribuzioni amministrative degli enti locali, non

conferendo ad essi funzioni amministrative in maniera adeguata, ovvero

88

riservandole alla regione, in nome di principi diversi da sussidiarietà,

differenziazione ed adeguatezza, l’unica forma di tutela diretta – salvo

ipotizzare questioni di legittimità costituzionale sollevate attraverso le

tortuose “strettoie” dell’incidentalità – consiste nella impugnazione alla

corte costituzionale da parte dello Stato (ai sensi del nuovo testo dell’art.

127, 1° comma, Cost.). Il che significa che la posizione costituzionale di

comuni, province e città metropolitane continua a trovare nello Stato il

proprio tutore nei confronti delle regioni. Ancor più problematica appare

poi l’ipotesi in cui la lesione delle attribuzioni degli enti locali avvenga

ad opera di una legge statale di mancato o scarso trasferimento delle

funzioni: la regione (ex art. 127, 2° comma, Cost. nuovo testo) resta

comunque legittimata ad impugnare leggi statali solo per lesione della

“sua sfera di competenza”, per cui manca del tutto un soggetto che possa

difendere le attribuzioni degli enti locali in tale ipotesi.

5.2.2. L’autonomia dei comuni e delle province

La nuova formulazione dell’art. 114 Cost. dettata dalla legge cost.

n.3/2001 in primo luogo, equipara sotto il profilo della garanzia

costituzionale i comuni e le province alle regioni, statuendo che tutti

89

questi enti godono di una posizione autonoma riconosciuta direttamente

dalla Costituzione. Anche se, a questo proposito, si nota una differenza

di impegno del legislatore in ordine alla formulazione dei principi, i

quali sono chiari nel caso delle regioni, mentre appaiono poco prospicui

nei confronti dei comuni e delle province; in secondo luogo, non solo

differenzia nettamente lo status dei comuni e delle province da quello

degli altri enti locali, i quali non vengono menzionati in Costituzione,

picché si può dire che questi ultimi godono soltanto di una tutela di

rango legislativo ma prevede altresì una differenziazione funzionale tra i

comuni e le province, che è implicita nel richiamo al principio

costituzionale di differenziazione ed esplicita nell’affermazione del 1°

comma dell’art. 118 Cost. secondo il quale “le funzioni amministrative

sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario,

siano conferite a Province…”).

In terzo luogo, la legge costituzionale ridetermina il distinto ruolo

dei diversi livelli istituzionali che compongono l’ordinamento

repubblicano anche in ragione del sistema delle fonti (potestà

legislativa, regolamentare ed amministrativa).

In tema di autonomia normativa primaria, la Costituzione ha

provveduto direttamente ad individuare agli ambiti riservati alla potestà

90

legislativa, stabilendo all’art. 117 Cost. che le regioni hanno una potestà

legislativa concorrente nelle materie elencate nel 3° comma di tale

disposizione ed esclusiva in quelle non riservate esplicitamente alla

legge dello Stato.

Per quanto concerne, invece, la potestà amministrativa l’art. 118

Cost. individua un criterio generale. (“Le funzioni amministrative sono

attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano

conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato sulla base dei

principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”), ma demanda,

poi, al legislatore – statale e regionale, secondo le rispettive competenze

(art. 118, 2° comma, Cost.) – il compito di provvedere analiticamente

alla distribuzione delle competenze tra i diversi livelli istituzionali.

Cosicché si può affermare che i comuni e le province, pur godendo

di una condizione di autonomia tutelata dalla Costituzione, derivano da

una scelta compiuta da un altro ente gli ambiti del proprio intervento.

Inoltre, la Costituzione codifica alcuni criteri cui si debbono

attenere il legislatore statale e quello regionale, all’atto di distribuire le

funzioni amministrative, individuandoli nei principi di sussidiarietà, di

differenziazione e di adeguatezza.

91

Per differenziazione si intende che il legislatore nell’allocazione

delle funzioni deve considerare le diverse caratteristiche (anche

associative, demografiche, territoriali e strutturali) degli enti riceventi.

Per soddisfare coerentemente a siffatti principi, occorre valutare la

particolarità di ciascun ente, tanto sotto il profilo funzionale, che dal

punto di vista territoriale.

Il profilo funzionale è delineato da d.lgs. n. 267/2000, i cui artt. 13

e 19 individuano la specificità del comune e della provincia, L’aspetto

territoriale, a sua volta, richiama la specificità di ciascun sistema

regionale delle autonomie locali e giustifica l’attribuzione alle regioni di

un ruolo determinante nella distribuzione delle competenze

amministrative tra gli enti locali.

Per adeguatezza si intende l’idoneità organizzativa delle

amministrazioni a garantire, anche in forma associata con altri enti,

l’esercizio delle funzioni.

Anche il principio di sussidiarietà, recentemente

costituzionalizzato, rappresenta un criterio essenziale per orientare le

relazioni tra i diversi livelli istituzionali.

Per sussidiarietà si intende che le decisioni dovrebbero essere

assunte dal livello istituzionale più decentrato possibile, qualora ciò sia

92

giustificato e compatibile con l’esigenza di assicurare efficienza

all’azione dei pubblici poteri. L’art. 4, lettera a), legge n. 59/1997

considera aderente al principio di sussidiarietà il criterio secondo il quale

la generalità delle funzioni amministrative è attribuita agli enti locali,

secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative ed organizzative

con l’esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni

medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche alle autorità

territorialmente e funzionalmente più vicine ai cittadini interessati.

Il principio di sussidiarietà rappresenta, quindi il principale criterio

di allocazione delle competenze.

Infine, la nuova formulazione dell’art. 114 Cost. sostituisce un

modello di relazioni di tipo gerarchico e spirituale (“La Repubblica si

riparte in Regioni, Province e Comuni”) con un altro di natura

policentrica (o “a rete”), ispirate alle moderne realtà del multilevel

constituzionalism.

Ciò emerge dagli artt. 114, 117 e 118 Cost. è un sistema

istituzionale a più livelli, costituito da una pluralità di ordinamenti

giuridici integrati, che interagiscono reciprocamente: riprendendo quanto

la corte costituzionale ha affermato a proposito delle relazioni tra

l’ordinamento comunitario e quello italiano, si potrebbe dire che la

93

Repubblica italiana risulta composta da una pluralità di “ordinamenti

reciprocamente autonomi, ma tra loro coordinati e comunicanti”.

Con la nuova disciplina costituzionale dei comuni e delle province

si assiste contemporaneamente al tramonto delle teorie monastiche e ad

una evoluzione delle teorie fondate sul riconoscimento della necessaria

pluralità degli ordinamenti giuridici.

Integrazione ed autonomia, salvaguardi di esigenze unitarie e

valorizzazione delle discipline locali sembrano essere gli orientamenti

principali che contrassegnano il sistema istituzionale repubblicano.

La compatibilità tra unità ed autonomia trova un chiaro

riconoscimento nella formulazione dell’art. 114 Cost., il cui 1° comma

individua i livelli istituzionali in cui si articola (“La Repubblica è

costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle

Regioni e dallo Stato”); mentre il 2° comma attribuisce agli enti

decentrati una posizione costituzionale di autonomia (“I Comuni, le

Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con

propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla

Costituzione”).

Il nuovo testo dell’art. 114 Cost. – introdotto dalla legge cost.

n.3/2001 – delinea, un sistema interistituzionale “a rete” secondo il quale

94

tanto lo Stato, quanto gli altri livelli istituzionali sono, nella loro

rispettiva autonomia organizzativa, normativa e politica, elementi

costitutivi della Repubblica italiana.

Pur facendo del medesimo status costituzionale, i comuni e le

province si differenziano, però, funzionalmente: sulla base del principio

codificato nell’art. 118 Cost. ed interpretato (o sviluppato) dal d.lgs. n.

267/2000 – il quale osserva, a nostro avviso, la caratteristica di norma

interposta ai fini di un giudizio di legittimità costituzionale che dà vita

con la legge di revisione costituzionale ad un vero e proprio “blocco di

costituzionalità”.

Il comune è, senza dubbio, l’ente locale che possiede un maggior

radicamento sociale; rappresenta l’ente comunitario per eccellenza,

dotato di competenze generali; è l’ente capace di rappresentare la

generalità degli interessi della collettività locale.

L’affermazione della provincia come ente autonomo ha seguito,

invece, un itinerario più contrastato e meno lineare: questo ente, infatti,

nacque come circoscrizione territoriale dello Stato al fine di assicurare

un esercizio decentrato delle funzioni amministrative statali, mentre

soltanto successivamente coté dotarsi di propri organi elettivi,

95

rappresentativi della comunità provinciale ed esponenziali dei loro

interessi.

Ora è opportuno distinguere i settori materiali rientranti nelle

competenze proprie dello Stato da quelli rientranti nelle competenze

regionali. Infatti, l’art. 118, 2° comma, Cost. afferma che i comuni e le

province sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle

conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.

Tale espressione, per quanto poco perspicua, dovrebbe essere

considerata il profilo procedurale ed attuativo del principio sancito dal 1°

comma del medesimo articolo (“Le funzioni amministrative sono

attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano

conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato”). Cioè nel

senso che:

a) le funzioni amministrative proprie conferite con legge coincidono

riassuntivamente con quelle che debbono considerarsi attribuite ai

sensi del 1° comma dell’art. 118 Cost.

b) compete alla legge individuare tanto le funzioni esercitate dai

comuni, quanto quelle che in base al criterio di adeguatezza,

differenziazione e sussidiarietà debbono essere riservate alla

competenza degli altri livelli istituzionali;

96

c) sussiste una differenza a seconda che le funzioni amministrative

rientrino nelle materie riservate alla potestà legislativa dello Stato

o delle regioni.

Nel primo caso, la fonte competente ad individuare le attribuzioni

comunali e provinciali è la legge dello Stato, la quale può conferire ai

comuni e alle province l’esercizio di funzioni amministrative in settori

materiali regolati da leggi statali e da regolamenti dell’esecutivo. In

queste materie, permane –a nostro avviso – un meccanismo simile a

quello previsto dalla vecchia formulazione dell’art. 118 Cost.,

improntato ad una sorta di parallelismo tra funzioni normative ed

amministrative.

In altri termini, si dovrebbe presumere che, normalmente, l’attività

amministrativa nelle materie di cui al 2° comma dell’art. 117 Cost., è

esercitata, per la loro natura, dell’amministrazione statale, salvo singole

funzioni che la legge intende conferire agli enti locali territoriali.

Nel caso, invece, di materie rientranti nella competenza legislativa

regionale, l’individuazione delle funzioni specifiche da far esercitare ai

comuni ed alle province compete alla legge regionale, la quale – però –

dovrebbe procedere al conferimento a favore degli enti locali secondo

una tecnica differente. Infatti, gran parte delle attività amministrative

97

rientranti nelle materie di cui al 3° e 4° comma dell’art. 117 Cost.

sembra esercitatile direttamente dai comuni e dalle province sulla base

del principio di sussidiarietà e di differenziazione: di conseguenza, la

legge regionale dovrebbe individuare le funzioni riservate alla regione,

specificare quelle esercitabili dalla provincia ed attribuire in via generale

le rimanenti alle amministrazioni comunali.

Un ulteriore novità del sistema consiste nel fatto che non appare

più necessario utilizzare la tradizionale distinzione tra funzioni proprie,

trasferite e delegate. Tale ripartizione, valida prima delle novità

introdotte dalla legge cost. n. 3/2001, appare al momento superata.

La stessa terminologia utilizzata dal legislatore costituzionale, il

quale alternativamente qualifica le attività come “attribuire”, “proprie” o

“conferite”, si rivela più fonte di confusione e di incertezza, che

necessario riferimento a situazioni giuridiche sostanzialmente differenti.

Può, a nostro avviso, conservare un qualche rilievo ai fini

classificatori la distinzione tra funzioni proprie e funzioni conferite.

Essa, però, alla luce del nuovo sistema costituzionale di distribuzione

delle competenze, non individua due tipologie alternative di competenze,

bensì due diversi profili del medesimo fenomeno.

98

A nostro avviso, l’espressione “funzione conferite” fa riferimento

al processo di allocazione delle competenze amministrative alla luce

delle nuove disposizioni costituzionali: richiama la scelta con la quale la

legge statale e quella regionale decidono di riservarsi alcune funzioni e

di attribuire le altre al sistema degli enti locali territoriali.

L’espressione “funzioni proprie”, invece, si riferisce all’esito

finale del processo di conferimento: sulla base della quale ogni livello

istituzionale della Repubblica (comuni, province, città metropolitane,

regioni, Stato) diviene titolare di un complesso di funzioni

amministrative che debbono considerarsi sue proprie.

5.2.3. Il potere sostitutivo

Il 2° comma del nuovo testo dell’art. 120 Cost. prevede che “il

Governo può sostituirsi a organi delle regioni, delle Città metropolitane,

delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e

trattai internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo

grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo

richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’utilità economica e in

particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i

99

diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi

locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri

sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del

principio di leale collaborazione.

Vale la pena, in primo luogo, di segnalare la tipizzazione, da

ritenere tassativa, delle ipotesi che legittimano l’esercizio del potere in

esame.

Alcuni dei casi previsti si riallacciano alla pregressa esperienza

(mancato rispetto degli obblighi internazionali e – soprattutto –

comunitari, altri (“pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza

pubblica”) fanno pensare, per la loro natura, alla possibilità di

sostituzioni non solo successive al verificarsi di inerzia regionale o degli

enti locali ma anche di tipo preventivo, determinate dall’urgenza di

provvedere e salvo restando la possibilità della regione o dell’ente locale

di intervenire con proprie misure destinate a sostituirsi a quelle

temporanee e inderogabili – dello Stato.

Ma c’è di più: il riferimento alla “tutela giuridica o dell’unità

economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni

concernenti i diritti civili e sociali” non sembra soltanto in grado di

offrire copertura sul versante dell’esecuzione amministrativa alla

100

competenza legislativa esclusiva statale di cui all’art. 117, 2° comma,

lettera m), di fronte a possibili omissioni da parte di regioni ed enti

locali. Obiettivi come quelli della “tutela dell’unità giuridica” o dell’

“unità economica” non sembrano, infatti, raggiungibili soltanto

attraverso misure normative: l’immissione, cioè, nel sistema di norme

che siano in grado di far raggiungere l’obiettivo unitario, precostituendo

le necessarie regole di azione degli apparati amministrativi.

Non può sfuggire, peraltro, come i concetti summenzionati (di

tutela dell’unità giuridica ed economica) non abbiano una consistenza

oggettivamente pre-definibile, come hanno – o dovrebbero avere – i

principi fondamentali della legislazione statale; almeno nel senso di

poter ritenere che la disciplina di principio non può arrivare ad

“occupare” l’intera materia e che tale circostanza può essere accertata

dal giudice di costituzionalità delle leggi.

La nozione di “unità giuridica od economica” si presenta, invece,

strutturalmente elastica e flessibile e, soprattutto, tendenzialmente restia

ad essere verificata all’esterno, in specie dal giudice costituzionale in

sede di contenzioso costituzionale.

Proprio questo elemento di flessibilità e di istituzionale assenza di

predeterminazione costituzionale del limite di intervento del legislatore

101

centrale è caratteristico di un tipo di potestà legislativa presente nei

modelli federali mitteleuropei, ai quali sarebbe stato lecito pensare che

un legislatore di revisione costituzionale ispirato ai modelli del

federalismo si rifacesse esplicitamente: la Konkurrierende Gesetzgebung

(competenza concorrente).

Come è noto, il legislatore di revisione del titolo V della parte II

Costituzione si è regolato diversamente e non ha introdotto

esplicitamente una tipologia di potestà legislativa di questo tipo,

preferendo mantenere (accanto alle competenze esclusive di Stato e

regioni) il più rigido modello della competenza ripartita.

Importante infine, appare la previsione del necessario rispetto dei

“principi di sussidiarietà e leale collaborazione” nella disciplina,

riservata alla legge ordinaria, delle procedure di sostituzione. Per quanto

riguarda il richiamo alla “leale collaborazione”, assumono particolare

rilievo le “garanzie procedurali” cui si è fatto già cenno, quali la previa

diffida a provvedere indirizzata all’ente inadempiente e la necessità di

ascoltare lo stesso prima di procedere alla sostituzione.

Per ciò che concerne, invece, il “principio di sussidiarietà”, non

stupisce la menzione di uno dei principi cardine del nuovo sistema di

allocazione delle funzioni amministrative (cfr. art. 118, 1° comma).

102

Può, piuttosto, apparire in controtendenza rispetto al principio

medesimo la concentrazione in capo al governo nazionale del potere di

sostituzione nei confronti di qualche ente territoriale, rispetto ad una

possibile soluzione alternativa che individui nel livello territoriale di

governo immediatamente superiore il soggetto in grado di supplire

omissioni del livello inferiore.

Sul punto, la legge prevista dall’ultimo comma dell’art. 120 Cost.

è chiamata ad introdurre importanti elementi di chiarificazione,

introducendo auspicabilmente, tutte le volte in cui ciò sia possibile, la

previsione di interventi sostitutivi del livello territoriale di governo

immediatamente superiore a quello rimasto inerte, e solo nel caso di

inattività anche di questo, del livello ulteriore, prevedendo l’intervento

del governo come ipotesi di chiusura del sistema, oltre che, come visto,

di cura di interessi infrazionabili ed urgenti.

5.3. Il Principio di Sussidiarietà e i suoi riflessi sul piano

dell’ordinamento comunitario

Uno dei aspetti del Trattato sull’Unione Europea (oggi trattato CE)

che più era stato discusso prima della firma del trattato, è quello relativo

103

all’introduzione del principio di sussidiarietà tra i principi fondamentali

della nuova Unione.

L’art. 3B del TUE (oggi art. 5 CE) prevede al secondo comma,

che «nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità

interviene secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura

in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere

sufficientemente realizzati dagli Stati membri e, a motivo delle

dimensioni e degli effetti dell’azione in questione, possono essere

realizzati meglio a livello comunitario».

L’esame del dato testuale conferma, almeno in parte,

l’ambivalenza del significato del principio in esame: l’intervento della

Comunità nelle materie di competenza concorrente è costruito in termini

negativi e ancorato all’esistenza di due precisi presupposti (presunzione

dell’insufficienza degli Stati a risolvere lo specifico problema e

presunzione dell’esigenza di un intervento comunitario per una migliore

soluzione, dello stesso), ma comporta in ogni caso uno spostamento

dell’esercizio di determinate competenze della sfera statale a quella

comunitaria, le cui dimensioni dipenderanno, in ultima analisi, da

valutazioni di merito, lasciate alle stesse istituzioni comunitarie.

104

E tuttavia pare che tale ambivalenza non vada intesa come

equivocità del principio, ma invece come un carattere ineliminabile del

principio stesso, che, una volta accolto, non può che avere questa duplice

valenza: consentire l’intervento del livello di governo superiore in ambiti

materiali riservati alla formale competenza dei livelli di governo

inferiori, ma solo nelle ipotesi in cui tale intervento risulti giustificato

sulla base di alcuni presupposti predeterminati. Non ha dunque molto

senso ricercare, sul piano interpretativo, gli elementi idonei a sciogliere

quella ambivalenza in un senso (quello negativo, della garanzia contro

indebite ed eccessive ingerenze comunitari) o nell’altro (quello positivo,

della possibile ulteriore espansione degli interventi della Comunità).

Una volta accettato il principio di sussidiarietà come principio

inevitabile ambivalente, risulta più agevole coglierne gli elementi di

continuità del processo di integrazione europea e, gli elementi di forte

novità.

Sotto il primo profilo, quello della continuità, è difficile negare

che l’introduzione del principio di sussidiarietà costituisca una tappa

ulteriore di una tendenza espansiva dell’area di intervento delle

istituzioni comunitarie, che, a partire dai primi anni ’70, non ha

conosciuto battute d’arresto.

105

Tale tendenza, come è noto, si è manifestata in una prima fase,

attraverso un progressivo aumento quantitativo degli interventi

comunitari, cui si è accompagnato un significativo mutamento

qualitativo degli strumenti utilizzati. Le istituzioni comunitarie, cioè, non

agiscono più soltanto attraverso un uso dei loro poteri normativi

rispettoso dello schema, dei contenuti e degli effetti previsti dai trattati

istitutivi.

Così, mentre sempre più spesso con l’avallo della Corte di

giustizia, la Comunità interviene al di fuori dei settori espressamente

rientranti nelle proprie competenze essa tende ad operare attraverso

strumenti che sempre meno corrispondono alle caratteristiche per essi

disegnate dal trattato.

A questa prima fase, un’altra ne è seguita dello stesso segno, la

quale ha trovato nell’approvazione dell’Atto unico europeo la sua

manifestazione più significativa: essa ha portato, infatti, da un lato alla

formalizzazione di nuove competenze comunitarie dall’altro,

all’affermazione, proprio con riferimento ad alcuni dei settori materiali

ricondotti nell’ambito degli interventi comunitari, del principio di

sussidiarietà (è il caso del settore della tutela ambientale).

106

Ma questo principio ha anche un significato profondamente

innovativo, proprio in quanto trasforma in regola generale, ciò che sino

ad oggi rappresentava pur sempre un’eccezione rispetto al quadro delle

disposizioni formali fissate dal trattato. Si tratta dunque di un nuovo

principio regolatore dei rapporti tra Comunità e Stati membri: esso non

sembra destinato ad operare quale criterio attributivo di nuove

competenze formali alla Comunità, quanto piuttosto quale criterio

mobile e flessibile, attraverso il quale l’esercizio di certe competenze

viene spostato al livello comunitario o lasciato alla piena disponibilità

dei livelli di governo infracomunitari, sulla base di valutazioni di merito,

riservate alle stesse istituzioni comunitarie.

Non sembra infatti, che il principio in esame sia stato concepito

per alterare, almeno transitoriamente, il quadro formale delle

competenze ripartite tra Comunità e Stati membri, ma invece per

incidere sul loro concreto esercizio in vista del perseguimento di

determinati obiettivi.

Se questa interpretazione è corretta, ciò che si profila all’orizzonte

è un sistema di concorrenza generalizzata, nel quale la titolarità formale

di determinate competenze non è più garanzia di un loro esercizio

«esclusivo»; tale esercizio sarà sempre più destinato a confrontarsi con il

107

possibile intervento, nelle stesse materie, di altri livelli di governo, e ciò

non sulla base di formali attribuzioni di competenza, bensì sulla base di

un criterio flessibile, che costituisce la vera ragion d’essere del principio

di sussidiarietà, chiamato ad operare in presenza di due presupposti:

natura del problema da affrontare e migliore idoneità del livello

comunitario, rispetto a quello statale, al raggiungimento di determinati

risultati.

Inteso in questo senso, il principio di sussidiarietà rivela tutta la

sua carica di novità rispetto agli strumenti messi in campo sin qui dalla

Comunità per estendere l’ambito dei propri interventi. Mentre, infatti,

questi ultimi (sia che si trattasse di operare in un settore non

espressamente ricompresso tra quelli affidati alla competenza della

Comunità, utilizzando il disposto dell’art. 235 (oggi art. 308 CE), sia che

si trattasse di dare un contenuto dettagliato, e quindi direttamente

applicabile, ad una direttiva) facevano sempre e comunque riferimento a

criteri formali di riparto delle competenze tra Comunità e Stati membri,

previsti dal trattato, sia pure estensivamente interpretati, ciò che, per

definizione, salta con l’introduzione del principio di sussidiarietà è

proprio l’esigenza che l’operatività del principio poggi su un criterio di

natura formale, essendo viceversa esso legato esclusivamente a

108

valutazioni di merito. Non solo, ma mentre gli strumenti di cui sin qui la

Comunità si è avvalsa avevano pur sempre ad oggetto le competenze

della Comunità, così come definite dal trattato, in vista di una loro

possibile interpretazione estensiva, oggetto di applicazione del principio

di sussidiarietò, risultano tutte le materie di competenza concorrente

ossia sembrerebbe di capire, in assenza di una loro puntuale elencazione

nel TUE, tutte le materie ad oggi rientranti nell’ambito delle competenze

statali: un cambio di prospettiva, dunque, di notevole rilievo e che

conferma il tasso di novità che l’art.3B (oggi art.5 CE) è in grado di

introdurre nei futuri sviluppi del sistema comunitario.

109

CONCLUSIONI

Quello che è certo comunque è che il nuovo quadro normativo che

emerge dalla riforma del titolo V della parte II della Costituzione

determina un vero e proprio mutamento dell’ordinamento. Si potrebbe

dire quasi un “mutamento di fase” nella nostra stessa vicenda e, in un

certo senso, persino nazionale.

Con questa riforma, infatti è ora davvero e definitivamente

superato il modello costituzionale-amministrativo che ha

caratterizzato l’Italia fin dalla sua unificazione e che ha visto dare al

Parlamento nazionale, al Legislatore statale, al Governo nazione e

all’Amministrazione statale un ruolo fondamentale di unificazione

dell’intero Paese.

Questo periodo è ora definitivamente chiuso e noi siamo entrati in

un nuovo scenario nel quale non si può più parlare di “Legislazione”

ma di “Legislazioni”, non di “Amministrazione” ma di

“Amministrazioni”, non di “Legislatore” ma di “Legislatori”

“Governo” ma di “Governi”.

Un ordinamento che ha fatto certamente un passo avanti forte nel

senso di più accentuato federalismo ma che soprattutto vede l’esplosione

110

del precedente sistema sostanzialmente unitario e la sua

“trasformazione” in un sistema “policentrico”. Un sistema più articolato

e meno coeso ma anche potenzialmente più elastico e flessibile, e quindi

anche più adatto a favorire lo sviluppo del Paese nel quadro di un

processo di integrazione europea e di globalizzazione mondiale che

chiede sempre più flessibilità e adattabilità alle amministrazioni e in

genere agli apparti pubblici.

Non vi è dubbio, tuttavia, che un sistema di questo genere ha

bisogno di sviluppare rapidamente forti e innovativi momenti e forme di

collaborazione e di raccordo fra i diversi soggetti.

Forme che non necessariamente potranno ripetere il modello

classico delle fonti normative, delle leggi, dei regolamenti, delle circolari

ma che dovranno sviluppare invece forme nuove di soft legislation, di

raccordi procedimentali, di cabine e tavoli di regia.

In una parola, nuove forme di governance nell’ambito delle quali

trovare forme di intesa e di collaborazione programmatiche e continue.

La riforma costituzionale che è appena entrata in vigore offre

dunque grandi opportunità al Paese e al suo sistema di governi locali ma

costituisce anche una grande sfida per tutti i diversi soggetti coinvolti e

111

prima di tutto tanto per la società nazionale quanto per le società locali

che costituiscono il nostro Paese e le nostre comunità.

Tuttavia allo stato attuale sia gli amministratori che i dirigenti e i

funzionari dei nostri enti territoriali e dei nostri enti pubblici sono i primi

ad essere coinvolti da questa nuova sfida e sono certamente fra coloro

che più potranno incidere, con la loro capacità positiva di innovazione o

con i loro eventuali atteggiamenti negativi di resistenza, al successo e

all’insuccesso di questa riforma.

Siccome il Paese non può permettersi di perdere questa sfida

l’auspicio è che tutta la nostra società, e prima di tutto i nostri

amministratori e i nostri apparati pubblici, siano capaci di cogliere a

pieno le grandi opportunità che questa innovazione offre e di collaborare

nel modo più convinto possibile a risolvere i non pochi problemi che

indubbiamente questa riforma pone.

Infine va sottolineato ancora che quale sia la convinzione di

ciascuno in ordine a questa riforma e in ordine all’eventualità che essa

debba non essere attuata (e completata con una coerente riforma anche

del titolo I della parte II e cioè dell’attuale sistema parlamentare

bicamerale) ma anche eventualmente modificata, non giova a nessuno

assumere un atteggiamento di pregiudiziale chiusura e di resistenza

112

passiva. Giova a tutti invece sentirsi pienamente coinvolti in uno sforzo

di cambiamento delle abitudini, delle prassi, della mentalità stessa che

non è sicuramente facile ma che certamente è inevitabile.

113

APPENDICE

LEGGE COSTITUZIONALE, 18 ottobre 2001, n.3 “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”

Art. 1 1. L’articolo 114 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Art.

114 – La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle

Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le

Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi

con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla

Costituzione. Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello

Stato disciplina il suo ordinamento”.

Art. 2 1. L’articolo 116 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Art.

116 – Il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino

Alto Adige/Sudtirol e la Valle D’Aosta/Vallè d’Aoste dispongono

di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi

statuti speciali adottati con legge costituzionale. La Regione

Trentino – Alto Adige/Sudtirol è costituita dalle Province

autonome di Trento e Bolzano. Ulteriori forme e condizioni

particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo

comma dell’art. 117 e le materie indicate dal secondo comma del

medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione

della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre

Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione

interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui

all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza

assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la

Regione interessata”.

Art. 3 1. L’articolo 117 della Costituzione è sostituito dal seguente: Art.

117. – La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle

Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli

derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi

114

internazionali. Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti

materie: a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato;

rapporti dello Stato con l’Unione europea; b) immigrazione; c)

rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e

Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;

e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della

concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello

Stato; perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato

e relative leggi elettorali; referendum statali; elezioni del

Parlamento europeo; g) ordinamento e organizzazione

amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h)

ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia

amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l)

giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale;

giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali

delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono

essere garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali

sull’istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale,

organi di governo fondamentali di Comuni, Province e città

metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e

profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del

tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati

dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere

dell’ingegno; s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni

culturali.

Sono materie di legislazione concorrente quelle relativa a: rapporti

internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio

con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva

l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della

istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca

scientifica e tecnologia e sostegno all’innovazione per settori

produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento

sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti

civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della

comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale

dell’energia; previdenza complementare e integrativa;

armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza

pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali

e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali;

casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere

115

regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la

potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi

fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Spetta alle

Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non

espressamente riservata alla legislazione dello Stato. Le Regioni e

le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro

competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione

degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e

all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione

europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge

dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere

sostitutivo in caso di inadempienza. La potestà regolamentare

spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva

delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta allo Stato

nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni.

La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia.

I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà

regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello

svolgimento delle funzioni loro attribuite. Le leggi regionali

rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli

uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e

promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche

elettive. La legge regionale ratifica le intese della Regione con

altre Regioni per il migliore esercizio delle varie funzioni, anche

con individuazione di organi comunitari. Nelle materie di sua

competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese

con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme

disciplinari da leggi dello Stato”.

Art. 4 1. L’articolo 118 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Art.

118. Le funzioni amministrative sono attribuite a Comuni salvo

che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a

Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei

principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I

Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di

funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge

statale o regionale, secondo le rispettive competenze. La legge

116

statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle

materie di cui alle lettere b) ed h) del secondo comma del’art. 117,

e disciplina inoltre forma di intesa e coordinamento nella materia

della tutela dei beni culturali. Stato, Regioni, Città metropolitane,

Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini,

singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse

generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

Art. 5 1. L’articolo 119 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Art.

119 – I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni

hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate

propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di

coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali

riferibile al loro territorio. La legge dello Stato istituisce un fondo

perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con

minore capacità fiscale per abitante. Le risorse derivanti dalle fonti

di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province,

alle Città metropolitane e alla Regioni di finanziare integralmente

le funzioni pubbliche loro attribuite. Per promuovere lo sviluppo

economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli

squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei

diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale

esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed

effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni,

Province, Città metropolitane e Regioni. I Comuni, le Province, le

città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio,

attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello

Stato. Possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare

spese di investimento. E’ esclusa ogni garanzia dello Stato sui

prestiti dagli stessi contratti”.

Art. 6 1. L’articolo 120 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Art.

120 – La Regione non può istituire dazi di importazione o

esportazione o transito tra le Regioni, né adottare provvedimenti

che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle

117

persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l’esercizio del

diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale. Il

Governo può sostituirsi ad organi delle Regioni, delle Città

metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato

rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa

comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la

sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela

dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela

dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e

sociali, prescindendo dai confini territoriali dai governi locali. La

legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi

siano esercitati nel rispetto del principio di sussidarietà e dal

principio di leale collaborazione”.

Art. 7 1. All’articolo 123 della Costituzione è aggiunto, infine, il seguente

comma: “In ogni Regione, lo statuto disciplina il Consiglio delle

autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e

gli enti locali”.

Art. 8 1. L’articolo 127 della Costituzione è sostituito dal seguente: “Art.

127 – Il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda

la competenza della Regione, può promuovere la questione di

legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro

sessanta giorni dalla sua pubblicazione. La Regione, quando

ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o

di un’altra Regione leda la sua sfera di competenza, può

promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla

Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della

legge o dell’atto avente valore di legge”.

Art. 9 1. Al secondo comma dell’articolo 132 della Costituzione, dopo le

parole: “Si può, con” sono inserite le seguenti:”l’approvazione

della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle

118

Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati

espressa mediante”.

2. L’articolo 115, l’articolo 124, il primo comma dell’articolo 125,

l’articolo 128, l’articolo 129 e l’articolo 130 della Costituzione

sono abrogati.

Art. 10 1. Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della

presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a

statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano

per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie

rispetto a quelle già attribuite.

Art. 11 1. Sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda

della Costituzione, i regolamenti delle Camere dei deputati e del

Senato della Repubblica possono prevedere la partecipazione di

rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti

locali della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

Quando un progetto di legge riguardante le materie di cui al terzo

comma dell’art. 117 e all’articolo 119 della Costituzione contenga

disposizione sulle quali la Commissione parlamentare per le

questioni regionali, integrata ai sensi del comma 1, abbia espresso

parere contrario o parere favorevole condizionato all’introduzione

di modificazioni specificamente formulate, e la Commissione che

ha svolto l’esame in sede referente non vi sia adeguata, sulle

corrispondenti pari al progetto di legge l’Assemblea delibera a

maggioranza assoluta dei suoi componenti.

119

TITOLO V DELLA COSTITUZIONE A CONFRONTO

TITOLO V DELLA

COSTITUZIONE NOVELLATO

DALLA LEGGE

COSTITUZIONALE N.3/2001

TITOLO V DELLA COSTITUZIONE

PRIMA DELLA MODIFICA

COSTITUZIONALE

L’articolo 114 della Costituzione è

sostituito dal seguente:

“Art. 114 – La Repubblica è

costituita dai Comuni, dalle

Province, le città metropolitane e le

Regioni sono enti autonomi con

propri statuti, poteri e funzioni

secondo i principi fissati dalla

Costituzione.

Roma è la capitale della

Repubblica. La legge dello Stato

disciplina il suo ordinamento”

Art. 114

“La Repubblica si riparte in Regioni,

Province e Comuni.

L’articolo 116 della Costituzione è

sostituito dal seguente:

“Art. 116 – Il Friuli Venezia Giulia,

la Sardegna, il Trentino Alto

Adige/Sudtirol e la Valle

d’Aosta/Vallee d’Aoste dispongono

di forme e condizioni particolari di

autonomia, secondo i rispettivi

statuti speciali adottati con legge

costituzionale.

La regione Trentino Alto

Adige/Sudtirol è costituita dalle

Province autonome di Trento e

Bolzano.

Ulteriori forme e condizioni

particolari di autonomia,

concernenti le materie di cui al

terzo comma dell’art. 117 e le

materie indicate dal secondo

comma del medesimo articolo

lettere I), limitatamente

all’organizzazione della giustizia di

pace, n) e s), possono essere

attribuite ad altre Regioni, con

legge delle Stato su iniziativa della

Regione interessata, sentiti gli enti

locali, nel rispetto dei principi di cui

all’art. 119.

Art. 116

“Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto

Adige, al Friuli Venezia Giulia e alla Valle

d’Aosta sono attribuite forme e condizioni

particolari di autonomia, secondo statuti

speciali adottati con leggi costituzionali”

120

La legge è approvata dalle Camere

a maggioranza assoluta dei

componenti, sulla base di intesa fra

lo Stato e la Regione interessata”

L’articolo 117 della Costituzione è

sostituito dal seguente:

“Art. 117 - La potestà legislativa è

esercitata dallo Stato e dalle

Regioni nel rispetto della

Costituzione, nonché dai vincoli

derivanti dall’ordinamento

comunitario e dagli obblighi

internazionali.

Lo Stato ha legislazione esclusiva

nelle seguenti materie:

a) politica estera e rapporti

internazionali dello Stato;

rapporti dello Stato con

l’Unione europea; diritto di

asilo e condizione giuridica

dei cittadini di Stati non

appartenenti all’Unione

europea;

b) immigrazione;

c) rapporti tra la repubblica e le

confessioni religiose;

d) difesa e Forze armate;

sicurezza dello Stato; armi,

munizioni ed esplosivi;

e) moneta, tutela del risparmio e

mercati finanziari; tutela della

concorrenza; sistema

valutario; sistema tributario e

contabile dello Stato;

perequazione delle risorse

finanziarie;

f) organi dello Stato e relative

leggi elettorali; referendum

statali; elezione del

Parlamento europeo;

g) ordinamento e organizzazione

amministrativa dello Stato e

degli enti pubblici nazionali;

h) ordine pubblico e sicurezza,

ed esclusione della polizia

amministrativa locale;

i) cittadinanza, stato civile e

Art. 117

“La regione emana per le seguenti materie

norme legislative nei limiti dei principi

fondamentali stabilite dalle leggi dello Stato,

semprechè le norme stesse non siano in

contrasto con l’interesse nazionale e con

quello di altre Regioni: ordinamento degli

uffici e degli enti amministrativi dipendenti

dalla Regione ; circoscrizioni comunali;

polizia locale urbana e rurale; fiere e mercati;

beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria

ed ospedaliera; istruzione artigiana e

professionale e assistenza scolastica; musei e

biblioteche di enti locali; urbanistica; turismo

ed industria alberghiera; tranvie e linee

automobilistiche di interesse regionale;

viabilità, acquedotti e lavori pubblici di

interesse regionale; navigazione e porti

lacuali; acque minorali e termali; cave o

torbiere; caccia; pesche nelle acque interne;

agricoltura e foreste, artigianato.

Altre materie indicate da leggi costituzionali:

Le leggi della Repubblica possono demandare

alla Regione il potere di emanare norme per

la loro attuazione”.

121

anagrafi;

j) giurisdizione e norme

processuali; ordinamento

civile e penale; giustizia

amministrativa.

k) Determinazione dei livelli

essenziali della prestazione

concernenti i diritti civili e

sociali: che devono essere

garantiti su tutto il territorio

nazionale;

l) Norme generali

sull’istruzione;

m) Previdenza sociale;

n) Legislazione elettorale, organi

di governo e funzioni

fondamentali di Comuni,

province e città

metropolitane.

o) Dogane, protezione dei

confini nazionali e profilassi

internazionale;

p) Pesi, misure e determinazione

del tempo; coordinamento

informativo statistico e

informatico dei dati

dell’amministrazione statale,

regionale e locale. Opere

dell’ingegno;

q) Tutela dell’ambiente,

dell’ecosistema e dei beni

culturali.

Sono materie di legislazione

concorrente quelle relative a:

rapporti internazionali e con

l’Unione europea delle Regioni;

commercio con l’estero; tutela

sicurezza del lavoro; istruzione,

salva l’autonomia delle istituzioni

scolastiche e con esclusione della

istruzione e della formazione

professionale; professioni: ricerca

scientifica e tecnologica e sostegno

all’innovazione per i settori

produttivi, tutela della salute;

alimentazione; ordinamento

sportivo; protezione civile; governo

122

del territorio; porti e aeroporti

civili; grandi reti di trasporto e

navigazione; ordinamento della

comunicazione; produzione,

trasporto e distribuzione nazionale

dell’energia; previdenza

complementare e integrativa;

armonizzazione dei bilanci pubblici

e coordinamento della finanza

pubblica e del sistema tributario;

valorizzazione dei beni culturali e

ambientali e promozione e

organizzazione di attività culturali;

casse di risparmio, casse rurali,

aziende di credito a carattere

regionale; enti di credito fondiario e

agrario a carattere regionale. Nelle

materie di legislazione concorrente

spetta alle Regioni la potestà

legislativa, salvo che per la

determinazione dei principi

fondamentali, riservata alla

legislazione dello Stato. Spetta alle

Regioni la potestà legislativa in

riferimento ad ogni materia non

espressamente riservata alla

legislazione dello Stato.

Le Regioni e le Province autonome

di Trento e di Bolzano, nelle

materie di loro competenza,

partecipano alle decisioni dirette

alla formazione degli atti normativi

comunitari e provvedono

all’attuazione e all’esecuzione degli

accordi internazionali e degli atti

dell’unione europea, nel rispetto

delle norme di procedura stabilite

da legge dello Stato, che disciplina

le modalità di esercizio del potere

sostitutivo in caso di inadempienza.

La potestà regolamentare spetta allo

Stato nelle materie di legislazione

esclusiva, salva delega alle Regioni.

La potestà regolamentare spetta alle

Regioni in ogni altra materia. I

Comuni, le Province e le Città

metropolitane hanno la potestà

123

regolamentare in ordine alla

disciplina dell’organizzazione e

dello svolgimento delle funzioni

loro attribuite.

Le leggi regionali rimuovono ogni

ostacolo che impedisce la piena

parità degli uomini e delle donne

nella vita sociale, culturale ed

economica e promuovono la parità

di accesso tra donne e uomini alle

cariche elettive.

La legge regionale ratifica le intese

della Regione con altre Regioni per

migliorare esercizio delle proprie

funzioni, anche con individuazione

di organi comuni.

Nelle materie di sua competenza la

Regione può concludere accordi

con Stati e intese con enti

territoriali interni ad altro Stato, nei

casi e con le forme disciplinati da

leggi dello Stato”.

L’articolo 118 della Costituzione è

sostituito dal seguente:

“Art. 118. Le funzioni

amministrative sono attribuite ai

Comuni salvo che, per assicurarne

l’esercizio unitario, siano conferite

a Province, Città metropolitane,

Regioni e Stato, sulla base dei

principi di susdidiarietà,

differenziazione ed adeguatezza. I

Comuni, le Province e le Città

metropolitane sono titolari di

funzioni amministrative proprie e

quelle conferite con legge statale o

regionale, secondo le rispettive

competenze.

La legge statale disciplina forme di

coordinamento fra Stato e Regioni

nelle materie di cui alle lettere b) e

h) del secondo comma dell’art.

117, e disciplina inoltre forma di

intesa e coordinamento nella

materia della tutela dei beni

culturali. Stato, Regioni, Città

metropolitane, Province e Comuni

Art. 118

“Spettano alla Regione le funzioni

amministrative per le materie elencate nel

precedente articolo, salvo quelle di interesse

esclusivamente locale, che possono essere

attribuite dalle leggi della Repubblica alle

Province, ai Comuni o al alti enti locali. Lo

Stato può con legge delegare alla Regione

l’esercizio di altre funzioni amministrative.

La Regione esercita normalmente le sue

funzioni amministrative delegandole alle

Province, ai Comuni o ad altri enti locali, o

valendosi dei loro uffici”.

124

favoriscono l’autonoma iniziativa

dei cittadini, singoli e associati, per

lo svolgimento di attività di

interesse generale, sulla base del

principio di sussidiarietà.

L’articolo119 della Costituzione è

sostituito dal seguente:

“Art. 119 – I Comuni, le Province,

le Città metropolitane e le Regioni

hanno autonomia finanziaria di

entrate e di spesa.

I Comuni, le Province, le Città

metropolitane e le Regioni hanno

risorse autonome. Stabiliscono e

applicano tributi ed entrate propri,

in armonia con la Costituzione e

secondo i principi di coordinamento

della finanza pubblica e del sistema

tributario.

Dispongono di compartecipazioni al

gettito di tributi erariali riferibile al

loro territorio.

La legge dello Stato istituisce un

fondo perequativo, senza vincoli di

destinazione, per i territori con

minore capacità fiscale per abitante.

Le risorse derivanti dalle fonti di

cui ai commi precedenti consentono

ai Comuni alle Province, alle Città

metropolitane e alle Regioni di

finanziare integralmente le funzioni

pubbliche loro attribuite. Per

promuovere lo sviluppo economico,

la coesione e la solidarietà sociale,

per rimuovere gli squilibri

economici e sociali, per favorire

l’effettivo esercizio dei diritti della

persona o per provvedere a scopi

diversi dal normale esercizio delle

loro funzioni, lo Stato destina

risorse aggiuntive ed effettua

interventi speciali in favore di

determinati Comuni, Province, Città

metropolitane e Regioni.

I Comuni le Province le Città

metropolitane e le Regioni hanno

un loro patrimonio, attribuito

Art. 119

“Le Regioni hanno autonomia finanziaria

nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della

Repubblica, che la coordinano con la finanza

dello Stato, delle Province e dei Comuni.

Alle Regioni sono attribuite tributi propri e

quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni

delle Regioni per le spese necessarie ad

adempiere le loro funzioni normali.

Per provvedere a scopi determinati, e

particolarmente per valorizzare il

Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per

legge a singole Regioni contributi speciali.

La Regione ha un proprio demanio e

patrimonio, secondo le modalità stabilite con

legge della Repubblica”.

125

secondo i principi generali

determinati dalla legge dello Stato.

Possono ricorrere all’indebitamento

solo per finanziare spese di

investimento. E’ esclusa ogni

garanzia dello stato sui prestiti dagli

stessi contratti”.

L’articolo 120 della Costituzione è

sostituito dal seguente:

“Art. 120 – la Regione non può

istituire dazi di importazione o

esportazione o transito tra le

Regioni, né adottare provvedimenti

che ostacolino in qualsiasi modo la

libera circolazione delle persone e

delle cose tra le Regioni, né limitare

l’esercizio del diritto al lavoro in

qualunque parte del territorio

nazionale.

Il Governo può sostituirsi a organi

delle Regioni, delle Città

metropolitane, delle Province e dei

Comuni nel caso di mancato

rispetto di norme e trattati

internazionali o della normativa

comunitaria oppure di pericolo

grave per l’incolumità e la sicurezza

pubblica, ovvero quando lo

richiedono la tutela dell’unità

giuridica o dell’unità economica e

in particolare la tutela dei livelli

essenziali delle prestazioni

concernenti i diritti civili e sociali,

prescindendo dai confini territoriali

dei governi locali. La legge

definisce le procedure atte a

garantire che i poteri sostitutivi

siano esercitati nel rispetto del

principio di sussidiarietà e del

principio di leale collaborazione”.

Art. 120

“La Regione non può istituire dazi

d’importazione o esportazione o transito fra

le Regioni.

Non può adottare provvedimenti che

ostacolino in qualsiasi modo la libera

circolazione delle persone e delle cose fra le

Regioni.

Non può limitare il diritto dei cittadini di

esercitare in qualunque parte del territorio

nazionale la loro professione, impiego o

lavoro”.

All’articolo 123 della Costituzione

è aggiunto, in fine, il seguente

comma:

“In ogni Regione, lo statuto

disciplina il Consiglio delle

autonomie locali, quale organo di

consultazione fra la Regione e gli

Art. 123

“Ciascuna Regione ha uno statuto che, in

armonia con la Costituzione, ne determina la

forma di governo e i principi fondamentali di

organizzazione e funzionamento. Lo statuto

regola l’esercizio del diritto di iniziativa e del

referendum su leggi e provvedimenti

126

enti locali”. amministrativi della Regione e la

pubblicazione delle leggi e dei regolamenti

regionali.

Lo statuto è approvato e modificato dal

Consiglio regionale con legge approvata a

maggioranza assoluta dei singoli componenti,

con due liberazioni successive adottate ad

intervallo non minore di due mesi. Per tale

legge non è richiesta l’apposizione del visto

da parte del Commissario del Governo. Il

Governo della Repubblica può promuovere la

questione di legittimità costituzionale sugli

statuti regionali dinanzi alla Corte

costituzionale entro 30 giorni dalla loro

pubblicazione.

Lo statuto è sottoposto a referendum popolare

qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione

ne faccia richiesta un cinquantesimo degli

elettori della Regione o un quinto dei

componenti il Consiglio regionale. Lo statuto

sottoposto a referendum non è promulgato se

non è approvato dalla maggioranza dei voti

validi.

In ogni Regione, lo statuto disciplina il

Consiglio delle autonomie locali, quale

organo di consultazione fra la Regione e gli

enti locali.

L’articolo 127 della Costituzione è

sostituito dal seguente:

“Art. 127 – Il Governo, quando

ritenga che una legge regionale

ecceda la competenza della

Regione, può promuovere la

questione di legittimità

costituzionale dinanzi alla Corte

costituzionale entro sessanta giorni

dalla sua pubblicazione. La

Regione, quanto ritenga che una

legge o un atto avente valore di

legge dello Stato o di un’altra

Regione leda la sua sfera di

competenza, può promuovere la

questione di legittimità

costituzionale dinanzi alla Corte

costituzionale entro sessanta giorni

dalla pubblicazione della legge o

dellì’atto avente valore di legge”.

Art. 127

“Ogni legge approvata dal Consiglio

regionale è comunicata al Commissario che,

salvo il caso di opposizione da parte del

Governo, deve visitarla nel termine di trenta

giorni dalla comunicazione.

La legge è promulgata nei dieci giorni dalla

opposizione del visto ed entra in vigore non

prima di quindici giorni dalla sua

pubblicazione. Se una legge è dichiarata

urgente dal Consiglio regionale, e il Governo

della Repubblica lo consente, la

promulgazione e l’entrata in vigore non sono

subordinate ai termini indicati.

Il Governo della Repubblica, quanto ritenga

che una legge approvata dal Consiglio

regionale ecceda la competenza della Regione

o contrasti con gli interessi nazionali o con

quelle di altre Regioni, la rinvia al Consiglio

regionale nel termine fissato per

127

l’opposizione del visto.

Ove il consiglio regionale le approvi di nuovo

a maggioranza assoluta dei suoi componenti,

il Governo della Repubblica può, nei quindici

giorni dalla comunicazione, promuovere la

questione di legittimità davanti alla Corte

costituzionale, o quella di merito per

contrasto di interessi davanti alle Camere. In

caso di dubbio, la Corte decide di chi sia la

competenza”.

Al secondo comma dell’art. 132

della Costituzione, dopo le parole:

“Si può, con” sono inserite le

seguenti: “l’approvazione della

maggioranza delle popolazioni della

Provincia o delle Province

interessate e del Comune o dei

Comuni interessati espressa

mediante”

Art. 132

“Si può, con referendum e con legge della

Repubblica, sentiti i Consigli regionali,

consentire che Province e Comuni, che ne

facciano richiesta, siano staccati da una

Regione ed aggregati ad un’altra”.

L’articolo 115, l’articolo 124, il

primo comma dell’art. 125,

l’articolo 128, l’articolo 129 e

l’articolo 130 della Costituzione

sono abrogati.

Art. 115

“Le Regioni sono costituite in enti autonomi

con propri poteri e funzioni secondo i principi

fissati nella Costituzione.

Art. 124

“Un commissario del governo, residente nel

capoluogo della Regione, soprintende alle

funzioni amministrative esercitate dallo Stato

e le coordina con quelle esercitate dalla

Regione”

Art. 125

“Il controllo di legittimità sugli atti

amministrativi della Regione è esercitato, in

forma decentrata, da un organo dello Stato,

nei modi e nei limiti stabiliti da leggi della

Repubblica. La legge può in determinati casi

ammettere il controllo di merito, al solo

effetto di promuovere, con richiesta motivata,

il riesame della deliberazione da parte del

Consiglio regionale”.

Art. 128

“Le province e i comuni sono anche

circoscrizioni di decentramento statale e

regionale.

Le circoscrizioni provinciali possono essere

suddivise in circondari con funzioni

esclusivamente amministrative per un

128

ulteriore decentramento”.

Art. 130

“Un organo della Regione, costituito nei modi

stabiliti da legge della Repubblica, esercita,

anche in forma decentrata, il controllo di

legittimità sugli atti delle Province, dei

Comuni e degli altri enti locali.

In casi determinati dalla legge può essere

esercitato il controllo di merito, nella forma

di richiesta motivata agli enti deliberanti di

riesaminare la loro deliberazione”.

129

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Siti Internet utilizzati per la ricerca

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2. www.riformecostituzionali.it

3. www.regioni/province/comuni/costituzione.it

4. www.unioneeuropea.it