Il presbitero è uomo di comunione - Diocesi di Treviso per...ni Paolo II esse spaziano...

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Diocesi di Treviso - Ufficio diocesano per il coordinamento della pastorale Anno pastorale 2012-2013 FORMARE CRISTIANI ADULTI IN UNA CHIESA ADULTA ANNO SECONDO Il presbitero è uomo di comunione Schede di riflessione e confronto per gli incontri vicariali tra sacerdoti A cura del Delegato per la formazione permanente del clero 3

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Diocesi di Treviso - Ufficio diocesano per il coordinamento della pastoraleAnno pastorale 2012-2013

Formare cristiani adulti in una chiesa adulta

anno secondo

Il presbitero è uomo di comunione

Schede di riflessione e confronto per gli incontri vicariali tra sacerdoti

A cura del Delegato per la formazione permanente del clero

3

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Il suo utilizzo

L’utilizzo del presente sussidio non è da ritenersi obbligatorio: ogni congrega decide-rà se, quando e come avvalersene. Il testo, di per sé semplice e breve, è inoltre utilizzabile in maniera flessibile e modulare; l’itinerario formativo che propone è, infatti, al tempo stesso articolato e unitario. Nonostante sia soltanto una tappa del medesimo percorso, graduale e progressivo, ogni singola sche-da può essere utilizzata indipendentemente dalle altre o nell’ordine preferito, giacché costituisce un’unità in sé logica e sensata. Il materiale proposto mira semplicemente a stimolare la ricerca personale e di gruppo.

Il metodo di lavoro

Dopo la preghiera iniziale e una breve in-troduzione del vicario foraneo, si preveda un congruo tempo di silenzio, perché ciascuno possa leggere con calma il materiale a dispo-sizione, lavorare personalmente e annotarsi qualche riflessione. Durante la condivisio-ne, poi, non è indispensabile che qualcuno prenda nota di quanto va emergendo, ciò che importa è che ci si ascolti con attenzione e rispetto. Gli interventi siano relativamente brevi, per permettere a tutti di parlare. Per quanto è possibile, ciascuno cerchi di nar-rare il proprio vissuto, facendo riferimento a relazioni reali e ad esperienze concrete. A conclusione del lavoro fatto, può essere utile spendere un po’ di tempo per tirare insieme le fila di quanto condiviso.

Contenuti e obiettivi del sussidio

Il rinnovamento ecclesiale che le Colla-borazioni Pastorali promuovono dev’essere accompagnato da una seria opera formati-va, riguardante soprattutto le motivazioni, i significati e gli atteggiamenti profondi che rendono possibile il loro processo di attua-zione. La stagione che stiamo vivendo è mol-to delicata. Sta mutando, infatti, non soltan-to la prassi pastorale delle nostre comunità cristiane, ma, più alla radice, il nostro modo di essere e fare Chiesa, quindi anche la vita e il ministero del presbitero.

Il presente sussidio è stato pensato con l’intento di mettere i preti nelle condizioni di coinvolgersi personalmente in questa rifles-sione, perchè, come afferma il documento che raccoglie gli orientamenti e le norme per le Collaborazione Pastorali, sono i «pastori della comunità» ad essere «chiamati per pri-mi a percorrere e ad accompagnare questo itinerario di conversione personale e comu-nitaria» (Diocesi Di Treviso, Orientamenti e norme per le Collaborazioni Pastorali nella Diocesi di Treviso, Treviso 2010, n. 1).

La sua struttura

Il breve sussidio si articola in tre semplici schede, ciascuna delle quali consta di altret-tante parti: 1) contenuto; 2) introduzione al tema; 3) interrogativi per la condivisione.

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Contenuto

Questa prima scheda considera il deside-rio di autenticità relazionale dell’uomo con-temporaneo come appello alla conversione della Chiesa e del presbitero.

Introduzione al tema

Un desiderio dell’uomo contemporaneo

Uno dei tratti tipici dell’uomo post-mo-derno è il desiderio di relazione. Può essere interpretato come un bisogno intenso, im-plicito e diffuso di autenticità relazionale. È una vera e propria spinta interiore, che non sempre il soggetto è in grado di valutare cri-ticamente, purificare e orientare. Una serie di fattori, complessi e difficili da interpreta-re, ne sono alla base. Certo è che tale cre-scente bisogno di autenticità relazionale è il modo in cui si manifesta oggi la doman-da di felicità, come ricerca diretta del volto dell’altro, di sintonia emotiva, di gratifica-zione, di condivisione. Si tratta di una que-stione che investe la stessa struttura antro-pologica, quindi la cultura contemporanea, cioè il modo di pensare e di giudicare pri-ma ancora che l’ethos, il costume, l’insieme delle abitudini di vita.

A questo proposito, va per lo meno regi-strata una profonda ambivalenza. É cambia-to il modo d’intendere la relazione autentica, essendo ridotta per lo più ad un’esperienza confinata in uno spazio circoscritto e selet-tivo. Le relazioni stanno diventando sempre

Scheda n. 1

Il presbitero è capace di relazioni di “qualità evangelica”

La fede di un cristianoadulto

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più corte e autoreferenziali. Ognuna di esse tende ad avere in sé il proprio senso.

Nella dinamica dei rapporti corti convi-vono la logica affettiva della gratificazione, quella estetica del gusto e quella utilitaristi-ca del vantaggio e del consumo. La distin-zione fra autentico e inautentico coincide con quella fra immediato e mediato. Ciò che è autentico è sempre immediato e diretto: non ha né deve aver bisogno di schermi. Si sta facendo così sempre più strada la con-vinzione che l’unica forma autentica di re-ciprocità sia quella paritaria, perfettamente bilaterale, scelta e contrattata. Rispetto a questo tipo di relazione, ogni altra forma di rapporto asimmetrico, che presuppone cioè un dislivello non scelto tra persone, tende ad essere svalutato: è autentico il rapporto affettivo tra due persone che si riconosco-no e condividono degli interessi, mentre lo è di meno quello tra genitori e figli, docenti e alunni, cittadini e stranieri. La distinzione tra relazioni buone e cattive tende a identi-ficarsi con la distinzione tra relazioni volon-tarie e involontarie.

Nella direttrice della ricerca di relazioni autentiche, l’attuale cultura dominante vuo-le come criterio di maturità della persona la sua autonomia, intesa come assenza di lega-mi. Mentre il legame, infatti, è vissuto come costrizione o nella forma del contratto, l’au-tonomia è auspicata come condizione indi-viduale e qualità sociale altamente desidera-bile. Il legame è percepito come debolezza, l’autonomia come forza.

La cultura post-moderna, nei tratti che abbiamo tracciato, va a toccare la stessa per-cezione della Chiesa. Essa stessa, infatti, è ridotta ad istituzione, alleata della metafi-sica, quindi autoritaria e violenta, incapa-ce di accogliere, custodire e promuovere la singolarità e la libertà di ognuno. Sembra quasi che più cresce la Chiesa, più l’uomo si ritrova depotenziato nella sua singolarità esistenziale e nella sua libertà e che, all’in-verso, più la Chiesa arretra, più l’uomo tro-va se stesso, il suo rapporto con Dio e con il cristianesimo nella sua autenticità. Ai nostri giorni non sono pochi quelli che auspicano una Chiesa in cui la carità prenda il posto

della verità. In questa prospettiva, la fede, abbandonata l’illusione della verità, dovreb-be annichilirsi nell’amicizia, nel dialogo e nella tolleranza.

Un’opportunità per la Chiesa

Il desiderio di relazione degli uomini del nostro tempo va ri-significato e ri-evange-lizzato, offrendo loro comunità in cui po-ter vivere legami di autentica relazionalità, ma anche chiavi interpretative per leggere il vissuto ed elaborare nuovi significati. Giac-chè le molteplici forme del vivere comune sono una straordinaria risorsa per l’annun-cio del Vangelo e la trasmissione della fede, non ci si potrà non chiedere quali siano le espressioni pratiche della comunione capa-ci di propiziare la maturazione di coscienze autenticamente cristiane. Da qui dovrebbe muovere un ripensamento complessivo, tra conferma e cambiamento, del volto delle no-stre comunità e della qualità dei legami su cui esse si basano. Da questo punto di vista, dovrà rimanere una delle nostre primarie preoccupazioni, sul piano della riflessione e della prassi, la qualità delle relazioni del pre-sbitero, soprattutto di quelle che vive in am-bito ecclesiale.

Un appello per la vita del presbitero

I documenti del Magistero concordano nell’affermare che il prete deve continua-mente esercitare una seria ascesi personale, la quale, con il sostegno della Grazia, gli fa acquisire nel tempo quelle «virtù umane» che sono «rilevanti», anzi «necessarie» all’e-sercizio del suo ministero (cfr. cei, La for-mazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, n. 90), dal momento che «l’umanità del pre-te è la normale mediazione quotidiana dei beni salvifici del Regno» (Ibidem, n. 23). Tali virtù sono importanti non solo perché «sono tenute in massima considerazione tra gli uo-mini», ma anche perché «rendono accetto il ministro di Cristo» (OT, n. 11). Pertanto, es-se sono richieste al sacerdote affinché la sua personalità sia «ponte e non ostacolo per gli

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altri nell’incontro con Gesù Cristo Redento-re dell’uomo» (Pdv, n. 43), essendo delle ve-re e proprie «chiavi che aprono le porte della fiducia, dell’ascolto e della confidenza» (cei, La formazione dei presbiteri…, n. 90) degli uomini del nostro tempo.

Per i padri conciliari, le virtù in questione sono: la sincerità d’animo, il rispetto costan-te della giustizia, la fedeltà alla parola data, la gentilezza del tratto, la discrezione e l’a-morevolezza nella conversazione, la fermez-za d’animo, il saper prendere delle decisioni ponderate e il retto modo di giudicare perso-ne ed eventi (OT, n. 11; PO, n. 3). Per Giovan-ni Paolo II esse spaziano dall’equilibrio gene-rale della personalità alla capacità di portare il peso delle responsabilità pastorali, dalla co-

noscenza profonda dell’animo umano al sen-so di giustizia e della lealtà (Pdv, 43-44).

Dal canto suo, il documento della Confe-renza Episcopale Italiana sulla formazione dei presbiteri elenca le seguenti virtù: «L’e-quilibrio, l’amore per la verità, il senso di responsabilità, la fermezza della volontà, il rispetto di ogni persona, il coraggio, la coe-renza, lo spirito di sacrificio, il modo auto-revole e fraterno di entrare in rapporto con gli altri, la sincerità, la discrezione, il modo maturo di presentarsi e di esprimersi» (cei, La formazione dei presbiteri..., n. 90). In-fine, il testo che raccoglie gli orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e della formazione dei can-didati al sacerdozio segnala, tra quelle virtù

«Il sacerdote viene scelto da Cristo non come una “cosa”, bensì come una “persona”: egli non è uno strumento inerte e passivo ma uno “strumento vivo” […] in tal senso, nell’esercizio del ministero è profondamente coinvolta la persona cosciente, libera e responsabile del sacer-dote» (Giovanni Paolo ii, Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 25).

«Di particolare importanza è la capacità di relazione con gli altri, elemento veramente es-senziale per chi è chiamato ad essere responsabile di una comunità e ad essere uomo di comunione. Questo esige che il sacerdote non sia né arrogante né litigioso, ma sia affabile, ospitale, sincero nelle parole e nel cuore, prudente e discreto, generoso e disponibile al servizio, capace di offrire personalmente, e di suscitare in tutti, rapporti schietti e fraterni, pronto a comprendere, perdonare e consolare (cfr. 1Tm 3,1-5; Tt 1,7-9). L’umanità di oggi, spesso condannata a situazioni di massificazione e di solitudine, soprattutto nelle grandi concentrazioni urbane, si fa sempre più sensibile al valore della comunione: questo è oggi uno dei segni più eloquenti e una delle vie più efficaci del messaggio evangelico» (Giovanni Paolo ii, Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 43).

«La nostra persona e il nostro modo di accogliere e amare le persone sono la mediazione umana che permette ai fratelli di fare esperienza della carità pastorale di Gesù. Le persone si aspettano di essere accolte dal sacerdote con il cuore di Gesù, con delicatezza, ascolto, libertà, fedeltà. Avvertono come un doloroso controsenso quando incontrano nel sacerdote poca attenzione, poco rispetto e disponibilità. Il dono del celibato, se coltivato, forma pro-gressivamente il cuore del pastore a quelle virtù che lo rendono uomo capace di relazione e di carità pastorale. Perché i fratelli possano incontrare l’Umanità di Gesù nella nostra umanità di pastori celibi, essa deve rimanere per tutta la vita un “cantiere aperto” nel quale umilmen-te impegnarci per assomigliare sempre più a Gesù Pastore. Non c’è stagione della vita nella quale non sia possibile migliorare il carattere con la grazia dello Spirito Santo e con un onesto sforzo di conversione. Ci sono atteggiamenti e operazioni che fondano relazioni costruttive. Pensiamo, ad esempio all’importanza del riconoscimento reciproco per come si è; all’ospita-lità generosa nel nostro cuore e nella nostra vita dell’altro con i suoi bisogni; alla comunica-zione che, pur autorevole, è aperta e fiduciosa; alla disponibilità a collaborare condividendo gli obiettivi e lasciando spazio ad ognuno; alla solidarietà affidabile e costruttiva» (Diocesi Di Treviso, Mi ami tu? Regola di Vita per il presbiterio diocesano, S. Liberale, Treviso 2008, pp. 33-34).

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che meritano oggi particolare attenzione da parte degli addetti ai lavori: «La capacità di relazionarsi in modo maturo con altre per-sone o gruppi di persone» (cec, Orienta-menti per l’utilizzo delle competenze psico-logiche…, n. 2).

A proposito di maturità, saper «ri-manere» è uno dei tratti decisivi della re-lazione di un presbitero. È già molto per il prete farsi trovare e incontrare, «esserci» e dare, ma non è sufficiente. Egli fa media-mente fatica a lasciarsi voler bene, consi-gliare e aiutare. In genere ama essere lui il protagonista, quanto a relazioni e presta-zioni. Questo rende non solo difficile l’in-terazione tra confratelli, ma anche eroico lo sforzo dei fedeli laici di costruire con i loro pastori un rapporto di vera corresponsabili-tà e collaborazione. Per abilitarsi realmente alla comunione è necessario che il presbite-ro assuma e rivaluti anche la sua «piccolez-za», quindi arrivi ad acquisire la disponibi-lità effettiva a ricevere.

Interrogativi per la condivisione

1. Il desiderio di relazione dell’uomo con-temporaneo, soprattutto delle giovani ge-nerazioni, come può diventare preziosa opportunità per l’annuncio del Vangelo e la trasmissione della fede?

2. Qual è la qualità delle relazioni tra i cri-stiani delle nostre parrocchie, degli orga-nismi e dei gruppi che le costituiscono? Qual è la conversione cui sono chiamate le nostre comunità cristiane per essere se-gno e strumento di comunione?

3. Tra quelle che il Magistero suggerisce, quali sono le virtù che le persone (dagli operatori pastorali ai non credenti) desi-derano trovare in un prete? Quali sono le virtù richieste a un prete che si pone se-riamente nella prospettiva dell’attuazione delle Collaborazioni Pastorali? Da questo punto di vista, in che cosa ritengo di do-ver ancora maturare?

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Contenuto

Questa seconda scheda si concentra sul fondamento della comunione presbiterale e sulle forme concrete di fraternità che la ren-dono vera.

Introduzione al tema

I dati della ricerca

Le indagini recenti sulla condizione di vita dei sacerdoti del Nord-est attestano che, a dif-ferenza del passato, il senso di solitudine che ai nostri giorni si va diffondendo tra i preti non è tanto di carattere familiare o sociale, quanto piuttosto di tipo pastorale-ministeria-le. In altri termini, i presbiteri non soffrono principalmente per la mancanza di una fami-glia propria, né per la perdita di significan-za del proprio ruolo in ambito sociale. A far loro male sembra essere piuttosto la carenza di relazioni fraterne e di sostegno all’interno del mondo ecclesiale. Stando alle statistiche, infatti, di fronte ai problemi pastorali e alle decisioni che devono prendere quotidiana-mente, i preti sentono di non poter condivi-dere fino in fondo le loro preoccupazioni, di non essere adeguatamente accompagnati e di dover contare per lo più sulle proprie forze. Il problema riguarderebbe la qualità delle rela-zioni con l’autorità, ma soprattutto gli stessi rapporti tra confratelli. Al di là di una super-ficiale patina di cameratismo, il presbiterio non sembra essere un ambiente capace di at-tivare relazioni umanamente ricche.

Scheda n. 2

Il presbitero è in comunione con il vescovo e i suoi confratelli

La fede di un cristianoadulto

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Parecchi sono i preti che non hanno re-lazioni significative con i confratelli o non li sentono vicini. In generale, i rapporti si svi-luppano sul versante della funzionalità, cioè delle attività da svolgere, ma non su quello dell’ascolto reciproco. Vi è la tendenza a con-siderare più il ruolo che la persona. Alcuni intervistati parlano di una «mentalità da ca-serma». Le relazioni tra confratelli sono po-vere. La superficialità e la poca stima, poi, favoriscono il pregiudizio. Ci si pone, l’uno nei confronti dell’altro, in maniera giudican-te, tanto che il sentire più diffuso sembra es-sere proprio quello della paura del giudizio altrui. Ciò che è più grave, però, è la poca speranza che tutto questo possa cambiare.

In questa cornice si colloca la scarsa di-sponibilità per la vita comune. E questo al di là di una dichiarata, ma generica e calan-te, valutazione positiva nei riguardi delle u-nità o collaborazioni pastorali. I preti non vogliono vivere con altri preti. Stare da soli è rassicurante: impedisce che i confratelli notino e giudichino i propri disagi, quando vi sono. Il desiderio manifesto di avere u-na residenza indipendente è giustificato con l’aver ricevuto una formazione che non ha educato alla vita comunitaria e alla collabo-razione. Sono soprattutto i preti giovani a patire lo scarto tra l’ideale della comunità presbiterale e la realtà.

La comunione presbiterale

Anche se incapaci di descrivere in ma-niera esaustiva la realtà, i dati in questione interrogano seriamente la Chiesa. La soli-tudine del prete, così caratterizzata, invo-ca l’attenzione e la solidarietà dei laici, ma soprattutto l’affetto sincero e la vicinanza effettiva da parte dei confratelli e dei supe-riori. Tuttavia, la necessità di una relazione cordiale, schietta e fraterna dei presbiteri tra di loro e con il vescovo non risiede prima di tutto in un bisogno personale e collettivo, che può essere realisticamente avvertito, ma anche negato o idealizzato. Se dipendesse in primo luogo da un disagio o da un desiderio di tipo psicologico, tale relazione di comu-nione e collaborazione risulterebbe per lo

più soggetta agli umori e alle contingenze del momento. Ora, se non può essere prima-riamente la risposta ad una lacuna affettiva o il frutto maturo di una certa affinità psicolo-gica, la realizzazione di questo rapporto non può neppure muovere da una ricerca condi-visa di strategie e opportunità sul piano della prassi pastorale.

Quello tra preti, infatti, non è un legame di natura funzionale, quanto piuttosto un vero e proprio vincolo sacramentale, che ha a che vedere con l’essere, prima ancora che con il desiderare e il fare. Sono l’imposizio-ne delle mani e la preghiera consacratoria da parte del successore degli apostoli, con cui il candidato è reso partecipe del medesimo e unico ministero di Cristo, ad imprimere ra-dicalmente nel prete la necessità di una re-lazione di comunione con i suoi confratelli. È qui che trova fondamento il presbiterio, realtà effettiva che il Magistero autorevole della Chiesa definisce «intima fraternità sa-cramentale» e «comunione gerarchica». Per il prete, dunque, lo sforzo di intessere rela-zioni di qualità con i confratelli non è affat-to una scelta discrezionale, ma la risposta ad una chiamata intrinseca alla sua vocazione. In questa prospettiva, la comunione presbi-terale è innanzi tutto un dono da coltivare e custodire.

Le forme concrete di fraternità

La comunione presbiterale è pertanto essenziale all’esercizio del ministero. Que-sto significa che nessun ministro ordinato può realizzare appieno la propria identità e missione da solo o per proprio conto; lo può fare, infatti, unicamente mantenendosi in sintonia profonda con la Chiesa, unendo le proprie forze a quelle dei confratelli e ponen-dosi sotto l’autorevole guida del suo vescovo. Ora, ancor più delle nobili idealità condivise, contano le forme concrete di comunione che si riescono ad attuare.

Grazie a Dio, la storia del nostro clero te-stimonia della ricerca continua di luoghi e tempi di fraternità, condivisione e collabo-razione. Si tratta di un dato confortante, so-prattutto nell’ottica della piena realizzazio-

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ne delle Collaborazioni pastorali, progetto diocesano che, se riguarda la Chiesa nel suo insieme, coinvolge in primis chi è chiamato a presiederla nella carità.

L’esperienza di questi anni insegna co-me non ci si possa fissare esclusivamente su questo o quel modello di fraternità sa-cerdotale. La vita sotto lo stesso tetto, per esempio, va promossa ma non idealizzata, se non altro perché non è sempre attuabile e non si presenta, di fatto, come la soluzio-ne di tutti i problemi e i disagi dei preti. La comunione presbiterale dovrà piuttosto esprimersi in molteplici e diversificate for-me concrete di condivisione, corresponsa-bilità e collaborazione. Per questo, non ci si dovrà mai stancare di verificare l’esistente e discernere i modi e le condizioni di una comunione possibile.

Interrogativi per la condivisione

1. Che cosa pensi del nostro presbiterio? Quali sono le difficoltà che incontri nel re-lazionarti ai confratelli e ai superiori? Vuoi condividere qualche tua bella esperienza di amicizia e dire a quali condizioni ti è stato possibile coltivarla nel corso degli anni?

2. Quali sono le forme concrete di fraternità e comunione presbiterale esistenti in vica-riato? In che cosa sono da confermare, in che cosa, invece, da rivedere e modifica-re? Che cosa si potrebbe fare per coinvol-gere anche i confratelli che si isolano e se ne stanno volentieri da soli?

3. Come ci si sta muovendo in vicariato dal punto di vista della collaborazione tra preti? Sulla scorta della tua esperienza, che cosa rende possibile o facilita la corresponsabilità tra confratelli, che cosa, invece, frena o com-plica la condivisione del l’impegno pastorale?

«In virtù della comunità di ordinazione e missione tutti i sacerdoti sono fra loro legati da un’intima fraternità, che deve spontaneamente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e materiale, pastorale e personale, nelle riunioni e nella comunione di vita, di lavo-ro e di carità» (Lumen Gentium, n. 28).

«Tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti fra loro da un’intima fraternità sacramentale. […] Di conseguenza ciascuno è unito agli al-tri membri di questo presbiterio da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità. […] Ciascuno dei presbiteri è dunque legato ai confratelli col vincolo della carità, della preghiera e della collaborazione nelle forme più diverse, manifestando così quell’unità con cui il Cristo volle che i suoi fossero una cosa sola, affinché il mondo sappia che il Figlio è stato inviato dal Padre» (Presbyterorum Ordinis, n. 8).

«Il ministro ordinato ha una radicale “forma comunitaria” e può essere assolto solo come “un’opera collettiva”. […] Il ministero dei presbiteri è innanzitutto comunione e collabora-zione responsabile e necessaria al ministero del vescovo, nella sollecitudine per la chiesa universale e per le singole chiese particolari, a servizio delle quali essi costituiscono con il vescovo un unico presbiterio» (Giovanni Paolo ii, Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 17).

«Il presbitero è inserito nell’ordo presbyterorum costituendo quell’unità che può definirsi una vera famiglia nella quale i legami non vengono dalla carne o dal sangue, ma dalla grazia dell’ordine. […] Fraternità sacerdotale e appartenenza al presbiterio sono, pertanto, ele-menti caratterizzanti il sacerdote. Particolarmente significativo, in merito, è, nell’ordinazio-ne presbiterale, il rito dell’imposizione delle mani da parte del vescovo, al quale prendono parte tutti i presbiteri presenti, a indicare sia la partecipazione allo stesso grado del mini-stero, sia che il sacerdote non può agire da solo, ma sempre all’interno del presbiterio, dive-nendo confratello di tutti coloro che lo costituiscono» (conGreGazione Per il clero, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, giovedì santo 1994, n. 25).

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Contenuto

Questa terza e ultima scheda ha per te-ma il profilo del prete che promuove quella comunione che rende credibile la Chiesa nel suo sforzo di trasmettere la fede.

Introduzione al tema

La preghiera

Essendo nella Chiesa «l’uomo della co-munione», il presbitero realizza e compie il suo ministero in una vera e propria opera di mediazione, in vista dell’unità nella cari-tà. Egli ha la responsabilità di mediare tra Dio e i suoi fratelli nella fede. Lo fa prima di tutto con la preghiera, in particolare con la liturgia delle ore e la celebrazione dell’Eu-caristia, sorgente e origine della comunione ecclesiale. Il pastore non può non pregare per il gregge che il Signore gli ha affidato, per la porzione di Chiesa che sta servendo. Egli è «missionario» non solo quando porta Dio alle persone, ma anche quando si sforza di introdurle, condurle e offrirle a lui me-diante l’orazione. Come ha fatto Gesù che, poco prima di morire, ha chiesto per i suoi amici il dono della comunione con il Padre e dell’unità tra di loro.

L’attenzione alla persona

Il prete che opera per la comunione, poi, presta attenzione alla singola persona, ai suoi bisogni e difficoltà, in particolare a chi versa

Scheda n. 3

Il presbitero è a servizio della comunione ecclesiale

La fede di un cristianoadulto

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in condizioni di povertà. Offrire accoglienza e consolazione, sicurezza e fermezza, pazien-za e misericordia, guida e accompagnamen-to, vuol dire, in fondo, impegnarsi perché le relazioni nella Chiesa siano di «qualità e-vangelica». Il presbitero che investe energie e tempo in questa prospettiva contribuisce a creare quei legami di carità che, alla fine, rendono credibile l’annuncio del Vangelo.

Il servizio alla sinodalità

In fedeltà alla natura del ministero che svolge nella Chiesa, il prete non può essere un «uomo di rottura». Al contrario, egli cre-a le condizioni affinché i fedeli che gli sono affidati camminino realmente insieme. Lo fa stimolando chi va eccessivamente piano ad aumentare il passo e chi corre troppo a rallen-tare il ritmo. Da un lato non può permetter-si, infatti, di tirare fino a strappare, dall’altro non può accettare passivamente che le par-rocchie che serve si assestino su dinamiche di stagnazione. Il prete, quando è davvero uomo di comunione, costruisce ponti tra le persone, mette in collegamento realtà territoriali tra loro diverse e apparentemente incompatibili, amplia gli stretti orizzonti dei gruppi, delle associazioni e dei movimenti ecclesiali. È suo compito rinviare costantemente alla realizza-zione di un progetto che si spinge ben oltre la ricerca degli interessi di parte, orientando tutti al bene in sé e a quello della Chiesa.

Il perdono e la correzione fraterna

Un altro tratto della figura del prete, ser-vo della comunione, è la capacità di chiedere perdono e insieme di perdonare. Il perdono, oltre che un dono di Grazia, è una scelta li-bera e responsabile, che va contro l’istinto spontaneo di rendere male per male. Sa per-donare chi ha imparato a leggere e interpre-tare il proprio e altrui vissuto alla luce della Parola, ad affidarlo a Dio e a rispondere qui e ora alla sua volontà. Il gesto del perdonare è non solo intrinsecamente buono, ma anche di per sé eloquente, per certi versi addirit-tura «terapeutico»: in una società dell’io al

centro di tutto, della conflittualità esaspera-ta e della logica dell’utile ad ogni costo, il comportamento di chi agisce in maniera as-solutamente gratuita e per un bene più gran-de ha una valenza decisamente formativa.

Il perdono deve andare a braccetto con la correzione fraterna. Se il prete non corregge non fa un buon servizio all’individuo e nem-meno alla Chiesa. Chi non è corretto non è messo nelle condizioni di assumersi le pro-prie responsabilità, quando in realtà ognuno è responsabile delle proprie azioni, le con-seguenze delle quali ricadono di certo sugli altri e sull’intera comunità. Naturalmente, l’intenzione, l’atteggiamento profondo, lo stile e i modi d’intervento sono decisivi in ordine all’efficacia della correzione.

La mediazione dei conflitti

Il presbitero non mira a spegnere quella dialettica che è motivo di ricchezza per tutti, ma si adopera perché le diversità non dege-nerino in fratture e spaccature che, anche se fatte in nome della verità, producono ferite profonde e dolorose, spesso insanabili. Molte volte, proprio in virtù del ruolo che gli è pro-prio, si ritrova a dover mediare tra persone e gruppi in tensione tra loro. Ora, quando i conflitti si affacciano all’orizzonte – perché è normale che ci siano – il prete deve avere il coraggio di aiutare singoli, famiglie, gruppi e parrocchie a riconoscerli, a chiamarli per no-me, ad affrontarli nei luoghi opportuni e nei modi adeguati, secondo quello stile evange-lico che sa coniugare verità e carità, per tra-sformarli in occasioni di crescita nella frater-nità, corresponsabilità e collaborazione.

Il ministero della presidenza

Infine, il prete che si spende per la comu-nione ecclesiale esercita il ruolo della presi-denza come servizio a tutti. Egli riconosce e promuove le vocazioni, i ministeri e i carismi che lo Spirito Santo suscita tra i cristiani, cerca di far crescere in loro il senso di appar-tenenza alla Chiesa, stimola ciascuno all’as-sunzione della responsabilità che gli compete

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e lo aiuta a maturare non solo la disponibilità a collaborare, ma anche la capacità di eserci-tare la «corresponsabilità». Sono correspon-sabili quei battezzati che, adulti nella fede, possiedono un autentico senso ecclesiale, sono parte attiva della comunità, pensano insieme agli altri, condividono le scelte che riguardano tutti, camminano dentro un co-mune progetto pastorale. Contribuendo alla formazione di un laicato adulto, il presbite-ro lavora efficacemente per l’edificazione del popolo di Dio, nella consapevolezza che la Chiesa è missionaria solo quando è la para-bola di una comunione possibile.

Interrogativi per la condivisione

1. Tra i tratti del tuo servizio alla comunio-ne qui riportati, quali sono quelli che

senti più veri e vicini alla tua sensibilità di pastore? Ne vuoi aggiungere degli altri?

2. Quando si presentano problemi, ten-sioni e conflitti tra persone, gruppi e parrocchie generalmente come reagi-sci e cosa fai? Puoi narrare qualche situazione vissuta, come ti sei compor-tato e com’è andata a finire? Quanto a perdono ricevuto e dato a che punto sei? La correzione ti è più facile ricever-la o farla?

3. Avendo a che fare con più parrocchie, in che cosa trovi da un lato più fatico-so e dall’altro maggiormente intrigante l’esercizio del tuo ministero? Per quali vie cerchi di perseguire la sinodalità, nel rispetto e nella valorizzazione del-le diversità? Come stai promuovendo la corresponsabilità laicale?

«Esercitando la funzione di Cristo capo e pastore per la parte di autorità che spetta loro, i presbi-teri, in nome del vescovo, riuniscono la famiglia di Dio come fraternità viva e unita e la condu-cono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo […] nell’edificare la Chiesa i presbiteri de-vono avere con tutti dei rapporti improntati alla più delicata bontà» (Presbyterorum Ordinis, n. 6).«I presbiteri nello svolgimento della propria funzione di presiedere la comunità devono agire in modo tale che, non mirando ai propri interessi ma solo al servizio di Gesù Cristo, uniscano i loro sforzi a quelli dei fedeli laici, comportandosi in mezzo a loro come il Maestro il quale fra gli uomini “non venne ad essere servito, ma a servire e a dar la propria vita per la redenzione della moltitudine (Mt 20,28). I presbiteri devono riconoscere e promuovere sin-ceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico nell’ambito della missione della Chiesa» (Presbyterorum Ordinis, n. 9).«Il presbitero è servitore della Chiesa comunione perché, unito al vescovo e in stretto rap-porto con il presbiterio, costruisce l’unità della comunità ecclesiale nell’armonia delle diver-se vocazioni, carismi e servizi» (Giovanni Paolo ii, Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 16).«Poiché all’interno della vita della Chiesa è l’uomo della comunione, il presbitero dev’essere, nel rapporto con tutti gli uomini, l’uomo della missione e del dialogo» (Giovanni Paolo ii, Pa-stores dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 18).«Il sacerdote è chiamato a rivivere l’autorità e il servizio di Gesù Cristo capo e pastore della Chiesa animando e guidando la comunità ecclesiale, ossia riunendo la famiglia di Dio come fraternità animata nell’unità» (Giovanni Paolo ii, Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 26).«È nella comunione dello Spirito Santo che il sacerdote trova la forza per guidare la comu-nità a lui affidata e per mantenerla nell’unità voluta dal Signore» (conGreGazione Per il clero, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, giovedì santo 1994, n. 10-11).«Il sacerdote è chiamato a misurarsi con le esigenze tipiche di un altro aspetto del suo mini-stero […] si tratta della cura della vita della comunità che gli è affidata e che si esprime so-prattutto nella testimonianza della carità» (conGreGazione Per il clero, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, giovedì santo 1994, n. 55).