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84 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X Il potere dell’individuo e il principio della rappresentanza politica: Hobbes, Rousseau e Spinoza di Andrea Sangiacomo - Ci vuole l’autore! - No, l’autore no! Le parti scritte, sì, se mai, perché riabbiano vita da noi, per un momento… L. Pirandello – Questa sera si recita a soggetto Abstract Quel est le rapport entre la structure représentative de l’Etat et l’autonomie de chaque citoyen ? Selon Thomas Hobbes, qui s’est revendiqué comme le père de la philosophie politique moderne, l’Etat ne peut être que représentatif. Cependant, ce principe se concrétise nécessairement dans l’hétéronomie de l’obligation politique. Pour le philosophe anglais, être citoyen c’est inévitablement être sujet à un pouvoir qu’on a créé une fois, mais sur lequel on n’exerce plus aucun droit. Cette nécessaire hétéronomie fait que Rousseau, à l’autre bout de la modernité, s’efforcera de concevoir un Etat non- représentatif. Le but du Contrat Social, c’est évidement de construire les conditions politiques dans lesquelles chacun puisse vraiment être libre de toute sujétion. Toutefois, cet effort conduit à un autre problème : l’élimination de la représentativité semble trancher le lien concret et contrôlable entre le pouvoir exécutif du gouvernement et le pouvoir législatif de la volonté générale et de chacun de ses membres. Il devient alors presque impossible pour chaque citoyen d’exercer son pouvoir politique sur ses propres ministres. On reviendrait donc à l’hétéronomie hobbesienne, explicitement rejetée mais implicitement renouvelée, peut-être de façon encore plus intolérable. Une solution éventuelle se présente en faisant un pas en arrière et en se tournant vers Spinoza. Il s’agira d’interpréter le peuple en stricte analogie avec le modèle de la monarchie constitutionnelle dessiné dans le Traité Politique. Cette solution résout le problème théorique de l’incompatibilité entre représentativité et autonomie et nous montre d’ailleurs que nos démocraties occidentales modernes sont loin d’être des incarnations de ce modèle d’autonomie démocratique.

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Il potere dell’individuo e il principio della rappresentanza politica:

Hobbes, Rousseau e Spinoza

di Andrea Sangiacomo

- Ci vuole l’autore! - No, l’autore no!

Le parti scritte, sì, se mai, perché riabbiano vita da noi, per un momento… L. Pirandello – Questa sera si recita a soggetto

Abstract

Quel est le rapport entre la structure représentative de l’Etat et l’autonomie de chaque citoyen ? Selon Thomas Hobbes, qui s’est revendiqué comme le père de la philosophie politique moderne, l’Etat ne peut être que représentatif. Cependant, ce principe se concrétise nécessairement dans l’hétéronomie de l’obligation politique. Pour le philosophe anglais, être citoyen c’est inévitablement être sujet à un pouvoir qu’on a créé une fois, mais sur lequel on n’exerce plus aucun droit. Cette nécessaire hétéronomie fait que Rousseau, à l’autre bout de la modernité, s’efforcera de concevoir un Etat non-représentatif. Le but du Contrat Social, c’est évidement de construire les conditions politiques dans lesquelles chacun puisse vraiment être libre de toute sujétion. Toutefois, cet effort conduit à un autre problème : l’élimination de la représentativité semble trancher le lien concret et contrôlable entre le pouvoir exécutif du gouvernement et le pouvoir législatif de la volonté générale et de chacun de ses membres. Il devient alors presque impossible pour chaque citoyen d’exercer son pouvoir politique sur ses propres ministres. On reviendrait donc à l’hétéronomie hobbesienne, explicitement rejetée mais implicitement renouvelée, peut-être de façon encore plus intolérable. Une solution éventuelle se présente en faisant un pas en arrière et en se tournant vers Spinoza. Il s’agira d’interpréter le peuple en stricte analogie avec le modèle de la monarchie constitutionnelle dessiné dans le Traité Politique. Cette solution résout le problème théorique de l’incompatibilité entre représentativité et autonomie et nous montre d’ailleurs que nos démocraties occidentales modernes sont loin d’être des incarnations de ce modèle d’autonomie démocratique.

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1. Le vie dell’obbligazione politica e la sfida della modernità

Il 18 Giugno 1762 il Minor Consiglio della Repubblica di Ginevra condannava l’Emilio e il Contratto Sociale di Rousseau. Il filosofo ginevrino, nell’intento di difendersi dall’ingiusta censura, tenterà di fare il punto sui problemi a cui soprattutto il Contratto Sociale intendeva rispondere, ricostruendo il dibattito nel quale si inseriva. Leggiamo dunque nella sesta delle Lettere dalla Montagna:

cos’è che rende lo Stato uno? E’ l’unione dei suoi membri. E donde nasce l’unione dei suoi membri? Dall’obbligazione che li lega. Fin qui sono tutti d’accordo. Ma qual è il fondamento di questa obbligazione? Ecco dove gli autori si dividono. [1]

A questo rilievo ne vorremmo aggiungerne un altro più strettamente teorico ma complementare. Si possono distinguere due tipologie fondamentali di obbligazione morale e politica a seconda che la ragione che sostiene e implica tale obbligazione sia interna o esterna al soggetto obbligato. Se la ragione è esterna parleremo di obbligazione eteronoma, se la ragione è interna di obbligazione autonoma.

Se l’obbligazione è il cemento che tiene insieme le membra dello Stato, c’è però un altro principio, non meno fondamentale per garantire la coesione e che svolge lo stesso ruolo che ha l’acqua nella preparazione del cemento stesso. Si tratta del principio di rappresentanza.

In quanto segue, intendiamo mostrare, anzitutto, (§2) in che modo il principio di rappresentanza venga teorizzato come fondamento della coesione civile, in particolare nella versione che ne offre Thomas Hobbes nel Leviatano. Il discorso hobbesiano è fondamentale per un duplice motivo. In sé, perché rappresenta il tentativo più rigoroso di pensare la necessità di una fondazione eteronoma dell’obbligazione. In rapporto a Rousseau, invece, perché si tratterà di capire anche a partire da questo antefatto il suo rifiuto della rappresentanza politica. Sarà dunque nostro interesse focalizzare l’attenzione (§3) sullo sforzo teorico che Rousseau cercherà di compiere per neutralizzare l’eteronomia implicita nel principio di rappresentanza, nell’intento di concepire una

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forma di obbligazione assolutamente autonoma e autofondante. Sacrificare la rappresentanza per l’autonomia, tuttavia, espone la concezione russoviana a problemi non trascurabili che dovremo sottolineare. Potremo allora trovare una possibile via d’uscita ripercorrendo a ritroso il percorso e riprendendo in considerazione (§4) la concezione spinoziana della democrazia, cui lo stesso Rousseau per altro in parte si rifà. Il riferimento a Spinoza è di particolare importanza perché mostra la tensione ineliminabile tra il riconoscimento del potere politico dei singoli individui che costituiscono il corpo dello Stato, e la forma più o meno rappresentativa – ovvero più o meno diretta – in cui tale potere viene concretamente esercitato. Su questa base, intenderemo fornire in conclusione un possibile modello spinozista di democrazia partecipativa e rappresentativa, fondato su una libera ricostruzione teorica degli elementi fornitici da Spinoza stesso.

Se riusciremo in una simile ricostruzione, dovrebbe emergere come l’alternativa di fondo prospettata dal dibattito moderno sia la seguente: il principio di rappresentanza cementa lo Stato sulla base di un’obbligazione tendenzialmente eteronoma, mentre l’autonomia dell’obbligazione richiede l’esercizio diretto del potere politico individuale. E’ possibile una mediazione? La risposta hobbesiana è negativa: non c’è Stato se non sul fondamento di una rappresentanza eteronoma. Ma anche la risposta di Rousseau è negativa, tuttavia per un diverso motivo: non c’è Stato giusto se non sul fondamento di un’autonomia politica che porta a respingere ogni principio di rappresentanza. Eppure anche una terza via sembra possibile: l’autonomia e la rappresentanza sono conciliabili a patto di intendere la rappresentanza come una relazione biunivoca e condizionata da un costante controllo dei rappresentati sui rappresentanti. Si tratta di quanto è possibile far emergere dalla riflessione spinoziana, qualora sia sottoposta a una debita elaborazione teorica. Proprio tale natura più strettamente teorica che non storiografica che anima il presente sguardo su Spinoza ci spinge ad affrontare il suo pensiero in conclusione, sovvertendo il naturale ordine cronologico per poterne valorizzare invece la valenza ad un tempo di tappa storica e di prospettiva ancora attuale.

In sintesi, la questione centrale sulla quale quanto segue vorrebbe limitarsi a richiamare almeno l’attenzione, pur senza avere né spazi né modi per offrirvi risposta esaustiva, è la seguente: come è possibile riconciliare il principio della rappresentanza politica con quello della responsabilità e gestione individuale del potere politico? Più in breve: come è possibile rappresentare i detentori del diritto politico – i cittadini – senza con ciò estrometterli de facto dall’esercizio e dalla gestione di questo diritto?

La stringente attualità di una simile domanda, lungi dall’essere elusa dal quadro che ci apprestiamo a tratteggiare, può trovare i prolegomeni di una possibile risposta solo ripensando nei suoi snodi fondamentali gli strumenti e le opzioni teoriche con cui alcuni dei primi e più profondi pensatori che se la sono posta, hanno tentato di risolverla.

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2. Autori e attori: moltitudine, popolo e Leviatano

In merito a Hobbes, sono due i punti principali su cui dobbiamo richiamare l’attenzione: l’uso del principio di rappresentanza come fondamento dell’unità dello Stato [2], e il riconoscimento che l’eteronomia è la forma necessaria di un’obbligazione politica realmente stabile.

Circa il principio di rappresentanza, non entreremo qui nella vexata quaestio dei moventi che spingono i singoli individui a uscire dallo stato di natura per dar vita allo stato civile [3]. Ai fini del nostro discorso, è sufficiente sottolineare la centralità che per Hobbes assume la distinzione tra moltitudine – l’insieme eterogeneo e disperso degli individui – e popolo – l’unione di tali individui nel corpo civile [4]. Il passaggio dalla moltitudine al popolo è del resto l’atto stesso di nascita dello Stato. D’altra parte, lo strumento giuridico-teorico con cui questo passaggio si realizza è il concetto di persona, che trova la sua più ampia e chiara esposizione nel Leviatano:

una moltitudine di uomini diventa una persona quando viene rappresentata da un uomo o da una persona e ciò avviene con il particolare consenso di ogni singolo componente di tale moltitudine. Infatti, è l’unità del rappresentate e non l’unità del rappresentato che fa una la persona, ed è il rappresentate che sostiene quella persona ed essa soltanto, non potendo altrimenti l’unità essere compresa nella moltitudine. [5]

Con ciò, Hobbes può arrivare a identificare proprio nell’attore che rappresenta la persona dello Stato, la stessa essenza della condizione civile:

consiste in lui l’essenza dello Stato, che (per definirla), è una persona dei cui atti una grande moltitudine si è resa autrice in ogni suo singolo componente, attraverso dei patti reciprocamente stipulati, al fine di metterla in condizione di usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà opportuno per la loro pace e la loro difesa comune. [6]

La persona è un’entità rappresentativa. L’esempio drammaturgico non è causale ma fornisce la chiave analogica per pensare il funzionamento di questa fondamentale struttura giuridica che è la rappresentanza. Proprio il meccanismo della rappresentanza consente per altro a Hobbes di identificare il popolo con il sovrano [7].

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Il principio della rappresentanza, essendo la scaturigine dell’unità, è ciò che rende lo Stato tale. Il Sovrano – sia un’assemblea, sia un singolo individuo – è colui che interpreta la volontà di ciascun individuo di garantirsi la pace. Sappiamo infatti dalla trattazione che precede i passi citati che tutti sono tenuti in foro interno a rispettare le leggi di natura, in quanto leggi della razionalità strategica volte al raggiungimento dell’utile di ciascuno: le leggi di natura dettano le condizioni senza le quali nessuno potrebbe realizzare la propria conservazione, né perseguire il proprio utile, quindi sono obbliganti per tutti [8]. Tuttavia, l’obbligazione naturale, al di fuori dello Stato, è valida appunto solo in foro interno, cioè in coscienza, giacché nessuno può garantire per gli altri né sapere che gli altri si atterranno al rispetto delle leggi. Il problema dello stato di natura, da questo punto di vista, è quindi quello della mancanza di sufficienti condizioni di garanzia affinché le leggi di natura possano essere considerate obbliganti anche in foro externo. La mancanza di queste garanzie porta allo stato di guerra di tutti contro tutti, cioè alla massima disutilità per ciascuno. Uscire da questa condizione coincide con il dar vita alla persona civile dello Stato.

Tale persona ha il compito di garantire – con la forza e con il diritto – il reciproco rispetto dei patti e, in generale, l’applicabilità in foro externo delle leggi di natura. L’interprete di questa persona è, come detto, il Sovrano. Poiché l’unità dello Stato è nell’unicità del Sovrano – come Hobbes dimostra a più riprese sarebbe infatti assurdo dividere il potere o ammettere una pluralità di sovrani [9] –, ne consegue evidentemente che la moltitudine non può che ottenere la propria unità se non nella figura stessa del sovrano. E’ per questo che il popolo – cioè l’unità della moltitudine – coincide con il sovrano.

La logica del discorso hobbesiano è ferrea e, date le sue premesse, difficilmente aggirabile. Questa ricostruzione deve tuttavia indicarci anche perché, in una simile prospettiva, il fondamento dell’obbligazione politica debba necessariamente essere eteronomo [10].

Come è stato lucidamente rimarcato [11], l’obbligazione politica non importa alcun tipo di equivocità rispetto all’obbligazione naturale: non è un tipo nuovo di obbligatorietà che viene a instaurarsi, ma un’estensione dell’unica forma di obbligatorietà esistente per Hobbes, fondata sulla ragione calcolante, e operante fin dallo stato di natura.

Ora, tutto il problema della fondazione dell’obbligo politico e quindi della validità in foro externo delle leggi di natura si gioca sulle condizioni di garanzia che possono essere fornite: lo stato di natura non fornisce alcuna garanzia che gli altri rispettino i patti, quindi non è razionale, per Hobbes, che qualcuno vi si attenga. Ciò accade perché nessuno può garantire per un altro. Da questo punto di vista, gli individui vanno realmente intesi come realtà atomiche e ontologicamente indipendenti. Ma proprio per questo, soltanto un terzo, altro da tutti, potrà garantire per tutti. Poiché nessuno può garantire per chicchessia, soltanto una figura esterna e diversa da tutti, un arbitro super-partes può veramente fornire garanzie sufficienti. Questo terzo è appunto il sovrano, il quale non può che fondare la sua prerogativa sul fatto di essere esterno ed estraneo a tutti gli individui della moltitudine.

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In sintesi: l’eteronomia necessariamente richiesta per fondare l’obbligazione politica è una conditio sine qua non dell’instaurazione dello Stato, una volta che si sia ammessa la formula condizionale della legge fondamentale di natura – «that every man, ought to endeavour peace, as far as he has hope of obtaining it; and when he cannot obtain it, that he may seek, and use, all helps, and advantages of war» [12] –, e lo scarto teorico tra obbligazione in foro interno e in foro externo che necessariamente ne consegue [13].

Ora, per il nostro discorso è importante sottolineare come proprio l’architettura teorico-giuridica delineata da Hobbes evidenzi nel modo più chiaro ed esplicito il nesso intrinseco che lega il principio di rappresentanza con quello dell’eteronomia dell’obbligazione politica. Proprio perché per fondare uno Stato – cioè una persona civile che dia unità alla moltitudine dispersa degli individui – è necessario offrire una garanzia dell’applicabilità delle leggi di natura che nessun singolo individuo da solo può fornire, è necessario che la fondazione dello Stato passi per l’istituzione di un garante terzo rispetto a ogni individuo della moltitudine.

Ma è contemporaneamente necessario che questo garante non sia svincolato né indipendente dagli individui della moltitudine: egli deve infatti fornire proprio a questi individui le garanzie necessarie per uscire dallo stato di guerra. Dunque, il garante dovrà ad un tempo rappresentare gli interessi di ciascun individuo, o almeno rappresentare la condizione preliminare e, per dir così, trascendentale di qualsiasi utilità: la conservazione della pace. Il garante potrà dunque essere tale solo essendo rappresentante e potrà essere un rappresentante in grado di garantire la pace solo essendo terzo rispetto a ogni individuo, quindi esterno e altro da ciascuno, cioè ponendo la sua legge positiva su un fondamento esplicitamente eteronomo rispetto a ogni individuo.

Questa reciproca implicazione tra principio di rappresentanza ed eteronomia dell’obbligazione politica è la base della costruzione hobbesiana del Leviatano. Da questa implicazione dipende la definizione dei rapporti tra il sovrano e i cittadini e la reciproca delimitazione, de facto e de jure di diritti e doveri di entrambi [14].

Tuttavia, per il nostro discorso, ciò che va soprattutto sottolineata è l’estrinsecità implicita nel rapporto rappresentante-rappresentato che l’idea della rappresentanza politica porta a completa esplicitazione: in quanto altro dal rappresentato, il rappresentante gli è esterno e, benché ne faccia gli interessi e ne interpreti la parte, tuttavia non vi è mai riducibile. Benché il sovrano faccia gli interessi dei sudditi e con la sua azione garantisca a tutti le condizioni trascendentali per la ricerca del bene e dell’utile di ciascuno, il sovrano non è una mera emanazione, un epifenomeno dei sudditi riuniti. Tutto al contrario, i sudditi possono essere riuniti – ovvero la moltitudine può trovare unità – solo perché un sovrano, altro da ogni suo suddito, viene a rappresentarli e farsene portavoce. Come vedremo subito, questa implicazione fu chiarissima a Rousseau e determina il suo rifiuto del principio di rappresentanza.

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3. Rousseau e la difficile autonomia della volontà generale

Leggendo il Contratto sociale in continuità con il Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, l’intento moralista di Rousseau è del tutto esplicito [15]. Storicamente – de facto – gli uomini vivono in servitù. La servitù è essere sub alterius juris, soggetto al diritto d’altri. Con il lavoro e i vincoli sociali questa schiavitù è stata istituzionalizzata e trasformata in sistema politico. Tuttavia, è possibile – de jure – che le cose vadano altrimenti: è possibile che gli uomini, essendo liberi per nascita, decidano liberamente di scegliere un tipo di costituzione civile che possa preservare e tutelare la loro naturale libertà ed eguaglianza. Questo tipo di costituzione, proposta come un’opzione morale prima e più che come un sistema politico à la Hobbes, è quella esposta nel Contratto sociale [16].

Il problema centrale della politica russoviana è dunque l’autonomia degli individui: è possibile far in modo che i vincoli politici e sociali si costituiscano in modo tale che ciascuno possa continuare ad esser detto libero? Come noto, la risposta positiva offerta dal filosofo ginevrino si basa sull’articolazione del concetto di volontà generale [17].

La volontà generale ha una fortissima componente costruttivista: essa esiste nell’atto stesso in cui si forma e si istituisce [18]. In un certo senso, si tratta di un movimento di astrazione e disincarnazione: tutti siamo la volontà generale perché nessuno è la volontà generale. La distinzione tra razionale e patologico che tanta importanza avrà nella seconda critica kantiana, è già del tutto operante in Rousseau: la volontà è generale proprio perché non è legata o vincolata a nessuna istanza particolare ma ha come obiettivo soltanto l’eguaglianza e la libertà di tutti i suoi membri [19].

Non serve un eccessivo sforzo ermeneutico per ritrovare nell’argomentare russoviano una buona fedeltà all’impianto e alla scansione logica del discorso di Hobbes. Anche la volontà generale è il fondamento dell’unità dello Stato e la vera incarnazione del popolo, in quanto distinto dalla mera moltitudine degli individui [20]. Tuttavia, lo scopo di Rousseau è rifiutare l’esito eteronomo cui approdava il filosofo inglese. Ma riconoscendo la validità delle implicazioni che avevano portato a quell’esisto, questo rifiuto non può che passare dal rifiuto dello stesso principio di rappresentanza.

La volontà generale, infatti, proprio perché costituisce l’incarnazione sovra-individuale dell’unità di tutti i cittadini, non può in nessun modo essere rappresentata da altri. E poiché la volontà generale è anche il sovrano, cioè incarna il principio di sovranità politica, ne consegue che la sovranità è irrappresentabile [21]. O meglio, se e in quanto la volontà generale è sovrana, allora è anche irrappresentabile. Il fondamento di questa conclusione è simmetricamente inverso a quello hobbesiano: dovendo la volontà generale fondare l’autonomia politica di ogni suo membro, essa non può demandare a un terzo la propria rappresentanza. Se Hobbes ha mostrato una volta per tutte il rapporto di necessaria implicazione che sussiste tra rappresentanza politica ed eteronomia, Rousseau, preso atto

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di questa implicazione, non può che rifiutare, in nome della desiderata autonomia, lo stesso principio di rappresentanza.

Indubbiamente non si tratta di un rifiuto semplice a compiersi. Rousseau riconosce come, de facto, la rappresentanza politica sia uno strumento ineliminabile della gestione del potere. Ma da un punto di vista teorico, è l’estraneità di rappresentante e rappresentato che deve anzitutto combattere. Anche da qui nasce la fondamentale distinzione che egli traccia tra potere legislativo e potere esecutivo. Là dove il primo è incarnato dalla stessa volontà generale, in sé irrappresentabile e intransitiva, il secondo è incarnato dal principe o governo. Quest’ultimo non è in nessun modo un rappresentante della prima, ma unicamente un suo ministro. Ancora una volta, Rousseau decostruisce il modello hobbesiano riassemblandone gli elementi all’interno della nuova logica del suo sistema: l’irrappresentabilità della volontà generale rende impensabile prima ancora che illegittimo ogni contratto tra cittadini e governanti [22].

La democraticità della volontà generale non deve infatti indurre nell’errore di far ritenere Rousseau un difensore del governo democratico. Anche tralasciando le molte obiezioni specifiche che egli muove a questa forma di governo [23], ciò importerebbe soprattutto un grave equivoco teorico tra il sovrano – la volontà generale – e l’apparato giuridico-istituzionale deputato ad amministrarne il potere – il governo appunto. Questo apparato può essere indifferentemente monarchico, aristocratico o democratico. Ovvero declinarsi in uno dei tre modi classici a seconda delle diverse condizioni storiche, sociali e finanche geografiche cui un certo popolo è soggetto.

In ogni caso, da un punto di vista teorico, il governo resta una mera emanazione del potere sovrano e in ultimo del tutto provvisoria [24]. Riprendendo e amplificando ancora una volta lo schema hobbesiano, Rousseau ribadisce come i governanti non siano che ministri della volontà generale, meri epifenomeni del suo potere, amministratori e non detentori del diritto sovrano. In tal senso, nemmeno il governo propriamente rappresenta la volontà generale, ma si limita a farne gli interessi e applicarne i dettati alle norme particolari, mediando tra la sua generalità e la specificità dei casi concreti.

Ora, per il nostro discorso, è importante chiedersi: il tentativo russoviano di difendere l’autonomia politica eliminando il principio di rappresentanza, è realmente vincente? Riteniamo che la risposta debba essere negativa.

Così come la volontà generale non è rappresentabile da terzi, essa stessa non può nemmeno essere intesa rappresentare gli interessi privati di nessuno dei suoi singoli membri. Infatti, proprio in quanto la volontà si considera generale è pure distinta e contraria a ogni singola volontà o interesse privato di un qualsiasi cittadino che la compone. Certo, nella volontà generale trova una qualche eco anche la volontà particolare di ogni suo membro, ma non certo in quanto portatrice di istanze particolari, quanto piuttosto nella misura in cui quella volontà particolare può accordarsi con il volere

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generale di tutti. Per definizione, quindi, la volontà generale non rappresenta alcuna particolarità come tale considerata.

La celeberrima immagine scelta da Hobbes come effige del suo Leviatano, non si applica alla volontà generale di Rousseau che deve cancellare in sé le singole individualità specifiche se vuole porsi come realmente generale. In virtù di tale cancellazione, in nessuna espressione della volontà generale è riconoscibile alcuna declinazione particolare: ogni volontà della volontà generale può essere egualmente una volontà di ciascuno dei suoi membri, indifferentemente considerati, cioè una volontà di tutti e di nessuno. Di tutti perché incarna tratti ed esigenze che tutti condividono, ma di nessuno perché esplicitamente rifugge dagli aspetti che caratterizzano ciascuno in particolare.

Inoltre, di contro al discorso hobbesiano, la volontà generale non può essere pensata come condizione foss’anche trascendentale dell’utilità di ciascuno. Per Hobbes, infatti, la ragione è sì generale e univocamente accessibile a tutti: chiunque può calcolare che gli è più utile la pace che la guerra e quindi che gli è più utile impegnarsi per l’istituzione dello Stato piuttosto che nella lotta continua di tutti contro tutti. La ragione hobbesiana, in tal senso, guarda sempre all’utile di ciascuno come sua finalità ultima: la genericità del suo approccio dipende soltanto dal fatto che chiunque può cercare il suo proprio utile individuale in tal modo. Nella volontà generale di Rousseau, invece, non sopravvive niente del genere. Il fine della volontà generale non è fare l’utile di ciascuno, né permettere a ciascuno di perseguire il proprio bene, egoisticamente inteso. La finalità, piuttosto, è di tipo strettamente morale o esigenziale: far sì che gli uomini vivano liberi ed eguali come spetta loro per nascita e natura.

In questa finalità non c’è alcun riferimento alle concrete utilità individuali, che, con termine kantiano, possono senz’altro essere considerate patologiche e contrarie alle finalità perseguite dalla volontà generale. Proprio perché il patto fondativo di una società realmente giusta non deve tanto essere un patto di soggezione, quanto di liberazione, la generalità della volontà generale non cerca le condizioni affinché tutti possano realizzare i loro specifici interessi nel migliore dei modi, ma, tutto al contrario, persegue le condizioni affinché tutti possano considerarsi liberi dalla soggezione agli interessi degli altri.

Ora, il potere legislativo della volontà generale non si incarna altrimenti che nel potere esecutivo del governo. Il potere esecutivo, certo, non rappresenta la volontà generale, ma tuttavia, senza un governo che medi tra la specificità delle situazioni concrete e la genericità della volontà generale, ogni Stato sarebbe impossibile. Poiché dunque l’esecutivo è una semplice emanazione della volontà generale, è chiaro che, così come questa non rappresenta gli individui che pure incarna, così nemmeno il governo, in linea di principio, li dovrà rappresentare. Quindi, le decisioni specifiche che il governo prende amministrando il potere sovrano della volontà generale – cioè il potere collettivo che pur nasce dal popolo –, almeno in linea di principio non dovranno essere vincolate ad alcuna esigenza rappresentativa dei concreti interessi dei cittadini, considerati in quanto privati.

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Così come la volontà generale incarna il fondamento egualitario e comune e quindi si esprime come volontà di-tutti-e-di-nessuno, così il governo che amministra tale volontà non sarà tenuto a rappresentare alcun interesse specifico dei cittadini. Ma dal momento che il potere politico è nelle mani del governo, come è possibile far in modo che questo rispetti veramente il principio di eguaglianza e libertà che fonda la volontà generale? Come è possibile che il governo semplicemente non usi il proprio potere esecutivo per appropriarsi ed usurpare con i suoi interessi specifici il potere legislativo della volontà generale sovrana, sfruttando tutti i mezzi a sua disposizione per convincere il popolo stesso di star operando per il suo – preteso – bene? [25]

Reintrodurre a questo punto il principio di rappresentanza sarebbe far crollare il discorso: se il governo dovesse legittimare la propria azione in quanto rappresentante degli interessi particolari dei cittadini, allora il governo rappresenterebbe tali interessi tagliando fuori la stessa volontà generale, che verrebbe relegata a principio meramente ispirativo e praticamente impotente. Ma in tal modo si tornerebbe al punto di partenza e il tentativo russoviano di costruire un sistema politico basato sull’autonomia escludendo la rappresentanza politica sarebbe fallito. Per contro, continuando a privarsi del principio di rappresentanza, la teoria russoviana non sembra poter offrire alcuna difesa contro il riemergere de facto degli interessi specifici: privando la volontà generale di ogni rappresentatività verso gli individui, al fine di tutelarne la reciproca eguaglianza e libertà, Rousseau sembra infatti mettere questi stessi individui nelle mani di un governo che de jure dovrebbe essere un semplice ministro ma de facto ha la strada spianata per farsi despota e tiranno di tutti, in nome di tutti – cioè di nessun altro che se stesso [26].

Se la tensione sembra ineliminabile, possiamo fare un passo indietro, guardando a un’altra fonte del discorso russoviano: Baruch Spinoza. Nella teorizzazione spinoziana della democrazia sarà così possibile ritrovare la radice dell’esigenza avanzata da Rousseau di elidere il principio di rappresentanza, ma pure, operando una ricostruzione teoretica di quanto Spinoza stesso non giunse mai a scrivere, un possibile spunto per offrire una risposta positiva all’aporia appena enucleata [27].

4. Spinoza e il popolo-sovrano

Spinoza dedica in realtà poche righe alla democrazia. Nel capitolo 16 del Trattato teologico-politico la presenta più che come una forma di governo, come un archetipo o modello di trasferimento del diritto dalla moltitudine allo Stato. Nel Trattato politico, invece, la parte che avrebbe dovuto riguardare la democrazia e offrirne la discussione di tutti i dettagli giuridico-istituzionali, purtroppo si arresta al §4 del capitolo 11, a causa della morte del filosofo.

Tuttavia, il materiale di cui disponiamo è sufficiente a indicare quale fosse, per Spinoza, la prerogativa della democrazia e le ragioni che ne fanno un modello politico emblematico della gestione del potere [28]. Per il nostro discorso, quindi, dobbiamo

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indicare queste ragioni, mostrarne la convergenza con l’ideale di Rousseau appena considerato [29], e azzardare una possibile ricostruzione teorica che Spinoza, sulle basi del suo proprio discorso, avrebbe quanto meno avuto gli strumenti per avanzare in risposta all’aporia prima enucleata.

Leggiamo nel capitolo 16 del Trattato teologico-politico:

in questo modo, dunque, senza alcun contrasto col diritto naturale, la società può essere formata e ogni patto può essere sempre mantenuto con la massima fedeltà; soprattutto se ciascuno trasferisce tutta la sua potenza alla società, la quale soltanto, perciò, terrà tutto il diritto di natura su tutto, cioè il potere sovrano, a cui ciascuno sarà tenuto ad ubbidire o liberamente o per timore della pena capitale. Questo diritto della società si chiama democrazia, la quale, perciò, si definisce come l’assemblea di tutti che collegialmente ha il diritto a tutto ciò che può. [30]

E poco oltre, dopo aver discusso la maggior razionalità cui il governo democratico può aspirare, Spinoza conclude:

nessuno trasferisce il proprio diritto naturale ad un altro in modo che in seguito non sia più consultato, ma lo trasferisce alla maggior parte di tutta la società della quale è membro; e in questo modo tutti rimangono uguali, come lo erano prima nello stato di natura. [31]

L’obiettivo è chiaramente dimostrare che nel trasferimento democratico del diritto, ciascuno resta parte di quella società a cui ha trasferito il proprio jus. Per questo, le decisioni dell’assemblea potranno valere anche come sue decisioni e, in tal senso, la democrazia soddisfa alle esigenze di autonomia e libertà che Spinoza condivide – e anzi alla difesa delle quali dedica l’intero Trattato teologico-politico.

L’assemblea di cui parla Spinoza, tuttavia, non è identificabile con la volontà generale di Rousseau, ma al più con la volontà di tutti, o meglio della maggioranza. Per il filosofo olandese, infatti, il punto fondamentale è che i singoli cittadini restino parte del processo decisionale, ma non è invece necessario che su questo si impongano quelle forti condizioni di genericità e impersonalità – quale garanzia ultima dell’imparzialità – richieste da Rousseau.

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Evidentemente, l’idea di una condivisione partecipativa se non proprio diretta della vita politica è comune ai due pensatori. Per contro può essere interessante sottolineare come entrambi, proprio richiamandosi alla necessità di un coinvolgimento dei cittadini stessi nelle decisioni politiche, cerchino di evitare l’obiezione che già Hobbes aveva mosso contro la reale esistenza di un regime democratico de facto. Come si legge nel modo più lucido negli Elementi di legge naturale e politica, infatti, «una democrazia, in realtà, non è altro che un’aristocrazia di oratori, interrotta talvolta dalla temporanea monarchia di un solo oratore» [32]. Gli oratori, qui, contano come i rappresentanti dei cittadini – o di alcune parti della popolazione –, su un modello che Hobbes poteva aver ben esemplificato dal parlamento inglese [33]. Contro questa constatazione fattuale, la via di Spinoza e poi di Rousseau è difendere proprio l’esercizio diretto del potere politico. S’è però anche visto come la totale eliminazione del principio di rappresentanza dal disegno russoviano, riporti innanzi a un’analoga obiezione.

Senz’altro, come accennato, Spinoza è d’accordo con Rousseau nel cercare un fondamento autonomo alla vita e all’obbligazione politica. L’eteronomia cui necessariamente approda la concezione hobbesiana significa, nei termini della teoria degli affetti elaborata nell’Etica, un regime di completa schiavitù alle passioni – soprattutto speranza e paura – cioè una vita di per sé inconciliabile e contraria a quella condotta razionale che dovrebbe invece aprire la via alla nostra più autentica realizzazione [34].

Ma può Spinoza offrirci una terza via tra Hobbes e Rousseau, capace ad un tempo di conservare l’istanza di autonomia difesa dal secondo, e la necessità di un principio di rappresentanza propugnata dal primo?

In quanto segue tenteremo di rispondere affermativamente, rielaborando e ricomponendo su un piano strettamente teorico alcuni elementi forniti da Spinoza stesso nel Trattato politico. L’idea di fondo dalla quale intendiamo partire è che la moltitudine è in democrazia un autentico re e in ciò realizza l’idea del popolo sovrano. Riteniamo dunque che sia necessario applicare alla moltitudine come entità collettiva un ragionamento del tutto analogo a quello che Spinoza sviluppa a proposito della monarchia nei capitoli 6-7 del Trattato politico.

Il popolo sovrano ha infatti limitazioni analoghe a quelle di un sovrano in carne ed ossa. Così come la persona del re non può essere sempre vigile o al pieno delle sue forze, né può occuparsi di tutto, e cede sovente alle lusinghe o ai ricatti di chi lo circonda [35], così ciascuno dei cittadini che costituisce l’assemblea suprema detentrice del potere democratico, non può occuparsi sempre e costantemente degli affari della cosa pubblica, né tantomeno farlo sempre con la debita imparzialità. Ogni cittadino ha infatti una vita privata e interessi privati non sempre coincidenti o necessariamente identici a quelli dell’amministrazione statale. Ogni cittadino ha poi parenti, amici, sottoposti e superiori con cui intrattiene rapporti di forza che influenzano le sue azioni, creando moventi passionali molto più forti e immediatamente presenti del mero bene pubblico. Sebbene il gran numero dei cittadini renderà difficile che uno solo possa imporsi e imporre il

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proprio utile privato a tutti gli altri, senz’altro questo stesso numero genererà un’aperta conflittualità che farà dell’assemblea popolare l’arena per la battaglia di tutti ad accaparrarsi i maggiori profitti [36].

Tuttavia, se il potere democratico deve essere veramente assoluto ed essere detenuto da quell’assemblea costituita da tutti i cittadini, qualora in quest’assemblea alcuni non fossero nelle condizioni di esercitare realmente il loro diritto politico, l’assemblea stessa non potrebbe esercitarlo. Si noti: non si tratta di semplici deliberazioni, per cui può esser fatto valere il principio della maggioranza, ma del quorum legale per far sì che l’assemblea sia realmente espressione dell’interezza del corpo politico che detiene il potere sovrano, vale a dire dell’intera moltitudine [37]. Non importa infatti che ogni decisione sia presa all’unanimità, ma importa che, in ogni atto deliberativo, l’assemblea che delibera disponga effettivamente del diritto assoluto a deliberare ossia sia essa stessa completamente presente e deliberante, cosa che non può avvenire se non quando tutti i suoi membri vi concorrono. Ma, come accennato, che tutti i cittadini di uno Stato possano sempre e contemporaneamente essere disponibili a deliberare in merito alla gestione della cosa pubblica è tanto improbabile come pensare la persona di un re sempre vigile, forte e al di sopra di ogni interesse particolare.

Questo argomento, dunque, sconsigliando in genere la cosiddetta democrazia diretta, porta a riconoscere l’esigenza di creare un consiglio di rappresentanti, eletti dalla moltitudine, a cui demandare il potere, esecutivo e legislativo. La democrazia rappresentativa – che è tra l’altro ancora oggi la forma di governo più diffusa –, trae quindi la sua giustificazione non solo dal principio per cui assemblee troppo numerose rischiano di risultare di fatto ingestibili, impiegando tempi eccessivi di deliberazione quando non pongono direttamente il rischio di fomentare sommosse o agitazioni. Ma da un punto di vista più strettamente teorico, la necessità che il potere dei cittadini si esprima tramite rappresentanti ha la stessa radice che la necessità che il potere di un re sia coadiuvato da quello di un consiglio: un popolo sovrano, così come un sovrano in carne ed ossa, non ha i mezzi per restare sempre e costantemente vigile e onestamente disposto alla gestione della cosa pubblica, come invece sarebbe necessario. I cittadini eserciteranno quindi il loro diritto politico eleggendo certi rappresentanti per un periodo limitato di tempo, ai quali delegheranno il potere di amministrare lo Stato secondo quelle promesse che essi si saranno impegnati a rispettare e con le quali saranno riusciti a conquistare il voto.

Tuttavia, una democrazia rappresentativa in cui l’atto del voto sia l’unico atto politico dei cittadini – almeno nella vita politica ordinaria [38] –, crea una situazione passionale per cui i rappresentanti scelti saranno naturalmente spinti a costituirsi come patriziato, facendo degenerare il regime democratico in un’oligarchia celata del tipo di quella ricordata prima da Hobbes.

Se infatti, chiuse le urne, i cittadini non avranno più alcuna possibilità per esercitare i loro diritti politici, i rappresentanti non avranno alcun vincolo reale per fare realmente gli interessi dei cittadini, ma considerando la loro posizione di forza e il monopolio del

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potere che gli è stato delegato, potranno anzi attuare tutte quelle strategie ideologiche, propagandistiche e culturali volte a trasformare la loro stessa élite, se non ciascuno dei suoi componenti, nel vero detentore del potere sovrano. La naturale sete di gloria, ambizione e avidità propria di ciascuno [39], sarà incredibilmente fomentata dall’attribuzione di un potere che non vede altro limite se non la prova di una votazione periodica, facilitando la costituzione di un vero e proprio consiglio aristocratico che, eletto una volta democraticamente, tenderà per natura a proporre alla scelta popolare solo candidati da lui cooptati: la moltitudine avrà un bel potere di votare l’uno o l’altro, ma tutti, in ogni caso, non saranno che espressioni della stessa casta di potenti, unica vera vincitrice di ogni elezione.

In tal senso val la pena notare che il semplice sostegno popolare non è affatto di per sé un elemento democratico: tanto un re che un tiranno, tanto un gruppo di ottimati quanto un’oligarchia di potenti possono essere variamente sostenuti dall’appoggio popolare, senza perciò implicare alcuna democraticità della forma di governo. Parimenti, l’atto del voto in quanto tale non è in sé sufficiente a garantire questa democraticità: anche un partito chiaramente dispotico e pronto a fare dello Stato lo scempio dei suoi legionari, può chiedere il suffragio popolare. Se invece la democraticità di un governo risiede nel diritto di tutti i cittadini a partecipare al governo della cosa pubblica, ma pure se questo diritto ha bisogno per esprimersi di una forma di rappresentanza, allora bisognerà fare in modo che l’ammissione di tale rappresentanza non apra la porta all’implosione della democrazia in un’oligarchia di potenti, ovvero in una politocrazia.

La soluzione, ancora una volta la fornisce Spinoza. Si rifletta infatti sul rapporto tra il re e il suo consiglio: il re ha bisogno di un consiglio come la mente ha bisogno dei sensi, per essere informato su ciò che più urge al paese e poter decidere nel modo più rapido le questioni vitali [40]. Il consiglio ha quindi chiaramente una funzione consultiva e organizzativa: deve elaborare le molteplici informazioni che gli giungono, vagliare le priorità e esporre alla decisione del re le proposte che ritiene migliori al fine di far fronte alla gestione ottimale del potere. Il popolo sovrano ha gli stessi problemi e le stesse esigenze di qualsiasi altro monarca in carne ed ossa: non può accollarsi costantemente, nella totalità dei cittadini che costituiscono il suo corpo, la responsabilità di ogni decisione e ogni delibera relativa al governo, non può nella sua collettività discutere di ogni proposta o elaborare ogni legge. A tutto ciò è delegato il consiglio dei rappresentanti.

Ma affinché i rappresentanti non solo rappresentino di diritto ma anche di fatto il potere di chi li ha delegati, è necessario allora che nell’atto di trasferimento del diritto politico esercitato con il voto, il popolo stesso, da buon sovrano, si riservi il diritto di veto sulle decisioni del proprio consiglio [41]. Il popolo, se vuole mantenere il possesso del proprio diritto politico, deve cioè necessariamente mantenere il diritto di ratificare ovvero respingere le decisioni prese dai suoi rappresentanti: la necessità che porta a scegliere il metodo della rappresentanza è infatti soltanto l’esigenza di costituire un organo di governo capace di consigliarsi e deliberare nel modo più efficiente. Ma non può essere legalmente garantito che una decisione presa da questo consiglio rappresenti davvero la

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decisione di chi lo ha delegato ed eletto se il popolo delegante non riserva per sé il diritto di approvare o respingere le decisioni del suo consiglio.

Altrimenti, demandare il potere una volta è demandarlo per sempre, giacché inevitabilmente l’élite politocratica che verrebbe a costituirsi finirebbe con il gestire in pieno monopolio il potere di cui è stata investita una volta. Per contro, solo se i rappresentanti sono esposti costantemente all’approvazione o alla sfiducia del popolo stesso, potranno avere interesse ad agire veramente a vantaggio di quest’ultimo come suoi veri servitori – cioè come richiede il loro ruolo –, trovando nella comunità dei cittadini e non tra gli scranni dei colleghi la vera platea a cui chiedere gloria e onori.

Se la democrazia è dunque realmente il regime politico assoluto, in cui il popolo è sovrano, allora in essa il popolo deve riservarsi gli stessi diritti che si riserverebbe un sovrano reale, per il quale demandare interamente ogni scelta a certi rappresentanti senza riservarsi alcuna facoltà di intervenire in merito alle loro decisioni equivarrebbe ad abdicare dal suo ruolo. Data la natura passionale degli uomini e la forza degli affetti di ambizione, avidità, invidia e gloria, non vi è infatti alcuna ragione perché un rappresentante non finisca per rappresentare i propri interessi o quelli della casta cui viene ad appartenere, piuttosto che quelli dei suoi sconosciuti elettori.

Naturalmente non importa qui soffermarsi sui modi concreti di realizzazione di una simile pratica democratica [42], ma sul suo significato teorico. L’applicazione dei principi costitutivi della scienza politica spinoziana permette infatti non solo di sviluppare un simile discorso in merito alla miglior forma di governo popolare, ma anche – ed è forse il risultato più inquietante – mostrarci per differenza quanto lontano sia ancora il nostro tempo da una sua concreta realizzazione.

Populismo, demagogia, strumentalizzazione ideologica, sono i nomi con cui il più delle volte si dovrebbe chiamare ciò che siamo stati abituati a chiamare e difendere come la nostra “democrazia”. Eppure, se – come rivendicherà senza posa lo stesso Rousseau – il potere politico risiede sempre e necessariamente nei cittadini, pure nei cittadini risiede il potere e il diritto di far sì che uno Stato assuma la costituzione migliore e renda il suo governo il più giusto possibile.

Ripercorrendo brevemente quanto visto fin qui, risulta come la soluzione appena prospettata offra realmente un’alternativa possibile alla rigida equazione hobbesiana tra rappresentanza ed eteronomia, pur senza cadere nei problemi che l’opposta reazione russoviana sembra implicare. I pochi passi che abbiamo tentato di muovere in questa direzione danno la misura di quanto ancora resti da fare.

NOTE:

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1. Trad. nostra del passo originale citato da B. Bernardi, Le principe d’obligation, Vrin, Paris, 2010, p. 20. Il testo di Bernardi è particolarmente interessante perché, prendendo come filo conduttore questa asserzione di Rousseau si preoccupa di ricostruire i molteplici dibattiti moderni intorno al principio di obbligazione, da Bodin a Rousseau compreso, mostrando come e perché quel legame sociale che l’obbligatorità politica implica in sé, sia ancora una sfida che la modernità ci ha lasciato inevasa.

2. In merito al ruolo del principio di rappresentanza nel pensiero hobbesiano, tra gli studi più interessanti cfr. L. Jaume, Hobbes et l’Etat représentatif moderne, Puf, Paris, 1988. In rapporto al nostro tema, si segnalano soprattutto le pp. 153-166 dedicate alla discussione con il pensiero di Rousseau, e alla circolarità in cui quest’ultimo cadrebbe in merito al rapporto uomo-cittadino (cfr. ivi, p. 165: «d’une part il faudrait que les hommes fussent de bons citoyens pour qu’il y ait volonté générale et souveraineté, mais d’autre parte, qu’il y ait de bons citoyens seule la volonté générale peut en décider»).

3. Si tratta di uno dei punti di snodo più dibattuti dalla critica. Per una panoramica sulla discussione critica, cfr. E. Vitale, Dal disordine al consenso, Franco Angeli, Milano, 1994. Tra le critiche più acute mosse al discorso di Hobbes, cfr. invece T. Magri, Hobbes e lo Stolto, in Hobbes e Spinoza. Scienza e politica. Atti del Convegno Internazionale di Urbino (14-17 ottobre 1988), a cura di D. Bostrenghi, Bibliopolis, Napoli, 1992, pp. 207-242. Su questo punto, una delle difese più convincenti della coerenza del pensiero hobbesiano è invece offerta da J. Hampton, Hobbes and the social contract tradition, Cambridge University Press, London, 1986, pp. 80-96.

4. In merito cfr. in particolare T. Hobbes, Sul Cittadino, Cap. 6, §1 e nota relativa (trad. it., Utet, Torino, pp. 153-154.).

5. T. Hobbes, Leviatano, trad. it., Bompiani, Milano, 2001. D’ora in poi citato in abbreviazione (L) con capitolo, paragrafo e pagina: L16, §13, p. 271.

6. L17, §13, p. 283.

7. Cfr. Sul Cittadino, Cap. 6, §1, cit.

8. Cfr. L14-15.

9. L’indivisibilità del potere sovrano, che fa tutt’uno con la difesa dell’assolutismo, è ribadita costantemente in tutti gli scritti politici di Hobbes, cfr. in particolare L19, 20 e 28 e J. Hampton, Hobbes and the social contract tradition, op. cit., cap. 4, pp. 97-113.

10. La necessità di questa eteronomia è un altro modo per pensare l’assolutismo del sovrano hobbesiano. Solo in quanto il sovrano è superiore ed esterno ai suoi sudditi, infatti, può realmente esserne ab-solutus e quindi imporsi su di loro. Per una ricca contestualizzazione del tema dell’assolutismo e ulteriori riferimenti bibliografici, cfr. F. Lessay, Souveraineté et légitimité chez Hobbes, Puf, Paris, 1988. Particolarmente degne di nota le pp. 258-267 sul rapporto di dipendenza e continuità del pensiero spinoziano da quello di Hobbes.

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11. Condividiamo qui la celebre interpretazione offerta da H. Warrender, Il pensiero politico di Hobbes, trad. it., Laterza, Roma-Bari, 1974.

12. L14, §1.

13. In quanto la ragione è un principio di calcolo strumentale interno a ogni individuo, la legge di natura è essa stessa un principio interno, quindi sempre obbligante in coscienza. Tuttavia questa legge di natura viene enunciata dalla ragione in forma condizionale: se e nella misura in cui la pace può essere ricercata allora va ricercata. Poiché però lo stato di natura tende a falsificare l’antecedente del condizionale, è razionale per Hobbes che gli individui nello stato di natura non siano obbligati esteriormente a rispettare la legge di natura. Ciò che falsifica l’antecedente è appunto l’impossibilità che ciascuno possa garantire per gli altri e quindi, per contro, l’unica cosa che potrà verificarlo sarà un garante altrettanto esterno che possa imporsi egualmente su tutti.

14. Cfr. L21 e L30. In generale, Hobbes intende per diritto il contrario di un’obbligazione, quindi l’equivalente di ciò che si è liberi di fare, ovvero non si è obbligati a non fare. Diritti dei cittadini sono quindi tutto ciò che essi non possono essere obbligati (o essersi obbligati) a fare.

15. In merito alla centralità del primo Discorso nella costituzione del pensiero russoviano, è ormai un classico V. Goldschmidt, Anthropologie et politique. Les principes du système de Rousseau, Vrin, Paris, 1974. Sul rapporto uomo-cittadino e il suo spazio nello Stato, cfr. anche Id., Individu et communauté chez Rousseau, in Id., Ecrits. Tome 2. Etudes de philosophie moderne, Vrin, Paris, 1984, pp. 161-172. Per le finalità di quanto segue, del resto, ci limitiamo al solo testo del Contratto sociale nella sua redazione finale, tralasciando il difficile problema dell’evoluzione del pensiero russoviano attraverso le altre opere e le precedenti versioni di quest’ultima. In merito, con particolare attenzione al tema dei costumi, cfr. F. Toto, I costumi, il diritto. Dal ‘Discorso sull’origine della diseguaglianza’ al ‘Contratto Sociale’, «Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici», 2008 (1), pp. 79-90.

16. Per l’indagine sulle fonti di Rousseau e in particolare nel Contratto sociale, resta fondamentale R. Dérathé, Jean-Jacques Rousseau et la science politique de son temps, Puf, Paris, 1950. Per una ricognizione del dibattito critico e una ricostruzione puntuale dei passi citati, dei debiti e delle distanze di Rousseau rispetto a Hobbes, cfr. Y. Glaziou, Hobbes en France au XVIIIe siècle, Puf, Paris, 1993, pp. 231-284. Per un inquadramento del dibattito più recente su Rousseau, cfr. anche l’ottima raccolta Jean-Jaques Rousseau. Etudes réunies par M. Cohen-Halimi, n. monografico de «Les Cahiers Philosophiques de Strasbourg», 13 (1), 2002 (distr. Vrin, Paris).

17. Come afferma Rousseau stesso nel modo più chiaro (J. J. Rousseau, Contract Social, in Id., Oeuvres Complètes, vol. 3, Gallimard, Paris, 1964, livre I, chapitre VI, p. 360): «mon sujet peut s’énoncer en ces termes: “trouver une forme d’association qui défende et protege de toute la force commune la personne et les biens de chaque associé, et par laquelle chacun s’unissant à tous n’obéisse pourtant qu’à lui-même et reste aussi libre qu’auparavant"». D’ora in poi le

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citazioni dal Contratto sociale, saranno indicate con la sigla CS, seguita dal numero del libro, del capitolo e l’indicazione della pagina nell’ed. cit.

18. La volontà generale si distingue dalla volontà di tutti in quanto ne costituisce una sorta di media aritmetica. Cfr. CS, 2, 3, p. 371: «il y a souvent bien de la différence entre la volonté de tous et la volonté générale ; celle-ci ne regarde qu’à l’intérêt commun, l’autre regarde à l’intérêt privé, et n’est qu’une somme de volontés particuliers : mais ôtez de ces mêmes volonté les plus et les moins qui s’entredétruisent, reste pour somme des différences la volonté générale». In quanto media della volontà di tutti, la volontà generale è svincolata dalla volontà di ciascun individuo come tale e può esprimersi solo se le volontà dei singoli individui non sono mediate da altre forme di associazione (cfr. ibidem, p. 372).

19. Ciò non significa che il desiderio di istituire il contratto sociale non possa anche nascere da un interesse privato ma che, al fine di questa istituzione, è proprio questo interesse privato che deve essere accantonato. Per un primo inquadramento delle varie e complesse problematiche legate al concetto di volontà generale, cfr. B. Bernardi, “L’art de généraliser”: sur le statu de la généralité chez Rousseau, in Rousseau et la philosophie, sous la direction d’A. Charrak et J. Salem, Publications de la Sorbonne, Paris, 2004, pp. 155-169. In merito cfr. anche L. Vincenti, Jean-Jaques Rousseau. L’individu et la République, Kimé, Paris, 2001.

20. Ancora interessanti, in proposito, le osservazioni di P. M. Vernes, La ville, la fête, la démocratie. Rousseau et les illusions de la communauté, Payot, Paris, 1978. Sul modo in cui Rousseau sviluppa il tema dell’unità sempre all’interno di una forte tensione dialettica che rasenta e fa in parte propria la forza della contraddizione, cfr. F. Imbert, Contradiction et altération chez J.-J. Rousseau, L’Harmattan, Paris, 1997.

21. Cfr. CS, 2, 1, pp. 368-369: «je dis donc que la souveraineté n’étant que l’exercice de la volonté générale ne peut jamais s’aliéner, et que le souverain, qui n’est qu’un être collectif, ne peut être représenté que par lui-même ; le pouvoir peut bien se transmettre, mais non pas la volonté. En effet, s’il n’est pas impossible qu’une volonté particulière s’accorde sur quelque point avec la volonté générale ; il est impossible au moins que cet accord soit durable et constant ; […] Si donc le peuple promet simplement d’obéir, il se dissout par cet acte, il perd sa qualité de peuple ; à l’instant qu’il y a un maitre il n’y a plus de Souverain, et dès lors le corps politique est détruit ».

22. Cfr. CS, 3, 16, p. 433: «il n’y a qu’un contract dans l’Etat, c’est celui de l’association ; et celui-là seul en exclu tout autre. On ne sauroit imaginer aucun Conctract public, qui ne fut une violation du premier»; CS, 3, 18, p. 434: «l’acte qui institue le Gouvernement n’est point un contract mais une Loi».

23. Cfr. CS, 3, 4, pp. 404-405. Principio generale di Rousseau è anche quello di ritenere che non ogni forma di governo è adatta a qualsiasi paese, sicché non esiste una forma di governo migliore in assoluto (cfr. CS, 3, 8, pp. 414-419).

24. Cfr. CS, 3, 18, pp. 434-435: «quand donc il arrive que le Peuple institue un Gouvernement héréditaire, soit monarchique dans une famille, soit aristocratique dans un

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ordre de Citoyens, ce n’est point un engagement qu’il prend ; c’est une forme provisionelle qu’il donne à l’administration, jusqu’à ce qu’il lui plaise d’en ordonner autrement».

25. La soluzione proposta da Rousseau è quella di comizi periodici in cui il popolo riunito riconfermi la propria fiducia al governo e quindi ai suoi eventuali provvedimenti (cfr. CS, 3, 18, pp. 435-436). Questa soluzione deriva dall’attento esame che il filosofo ginevrino dedica al sistema politico della Roma repubblicana (cfr. CS, 4, 2-7, pp. 439-459). In termini contemporanei tale soluzione può essere incarnata dalla pratica delle elezioni periodiche dei governanti. Questo sistema di controllo del popolo sui suoi ministri, tuttavia, a nostro avviso è insufficiente, come vedremo subito discutendo la soluzione spinoziana.

26. Ci sembra che tra i tanti paradossi o presunte contraddizioni di cui si possa accusare il pensiero di Rousseau, questo sia quello che prende maggiormente sul serio la sua impostazione, questionando non sui principi del suo costituirsi quanto piuttosto sulle sue conseguenze. Sull’interessante ruolo che la figura del paradosso gioca nella filosofia russoviana e sulla sua stessa legittimazione filosofica, cfr. l’ampio saggio di M. Crogiez, Rousseau et le paradoxe, Honré Champion, Paris, 1997.

27. Sembra parimenti verosimile che Rousseau considerasse troppo astratta la morale sviluppata da Spinoza, per quanto egli ammetta di conoscerla, o almeno così pare stando alla lettera n. 1407 di Rousseau à Dom Léger-Marie Deschamps, Montmorenci, 8 May 1761 (Correspondence complète de Jean Jaques Rousseau, The University of Wisconsin Press, Madison, 1969, vol. 8, p. 320): «vous voulez, cependant, que je vous parle de vôtre préface. Que vous dirai-je? Le sistême que vous y annoncez est si inconcevable et promet tant de choses que je ne sais qu’en penser. Si j’avois à rendre l’idée confuse que j’en conçois, par quelque chose de connu, je le rapporterais à celui de Spinosa ; Mais s’il découloit quelque morale de celui-ci, elle étoit purement speculative, au lieu qu’il paroit que la vôtre a des loix de pratique, ce qui suppose à ces loix quelque sanction. Il paroit que vous établissez vôtre principe sur la plus grande des abstractions. Or la méthode de généraliser et d’abstraire m’est très suspecte, comme trop peu proportionnée à nos facultés. Nos sens ne nous montrent que des individus, l’attention achéve de les séparer, le jugement peut les comparer un à un, mais voila tout. Vouloir tout reunir passe la force de nôtre entendement, c’est vouloir pousser le bateau dans lequel on est sans rien toucher au dehors. […] La voye analytique est bonne en Geometrie, mais, en philosophie il me semble qu’elle ne vaut rien, l’absurde où elle mêne par de faux principes ne s’y faisant point assés sentir».

28. Sul tema della democrazia in Spinoza e il suo rapporto con il liberalismo moderno, resta sempre godibile, anche per la contestualizzazione che ne offre, L. S. Feuer, Spinoza and the Rise of Liberalism, Beacon Press, Boston, 1958.

29. Il rapporto tra Rousseau e Spinoza è piuttosto interessante e non ancora molto approfondito. Tra i primi contributi rilevanti dedicati al tema si segnala W. Eckstein, Rousseau and Spinoza. Their political theories and their conception of ethical freedom, «Journal of the History of Ideas», 5 (3), 1944, pp. 259-291, il quale rivendica (p. 265): «it has been more and more acknowledge by modern interpreters of Rousseau […] that Rousseau is basically a moralist. But it has never been pointed out that in his conception of ethical freedom and even in his attempt to transfer the idea of

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ethical autonomy to the political realm, Rousseau had a great predecessor. It was exactly this idea of ethical freedom which […] was the fundamental concept of the ethics of Spinoza». E’ stata poi soprattutto M. Francès, Les réminiscences spinozistes dans le Contrat social de Rousseau, «Revue Philosophique de la France et de l’Étranger», 141, 1951, pp. 61-84, ad approfondire le affinità tra i due pensatori, schedando attentamente i passaggi paralleli che emergono dalle loro opere e centrando l’attenzione in particolare sul tema della «religione civile» che emerge alla fine del Contratto sociale. Su questa linea si è inserito anche S. Zac, Rapports de la religion et de la politique chez Spinoza et J. J. Rousseau, «Revue d’Histoire et de Philosophie religieuses», 3, 1970, p. 1-22. Sempre alla continuità Spinoza-Rousseau ma questa volta sul piano della morale e dell’antorpologia sono dedicati gli studi di A. Charrak, Nature, raison, moralité dans Spinoza et Rousseau, «Revue de Métaphysique et de Morale», 3, 2002, p. 411-426; e M. Perrot, Spinoza, Rousseau et la notion de Dictamen, «Les Etudes Philosophiques», 1972 (3), pp. 399-410. D’altro canto, F. Tinland, Hobbes, Spinoza, Rousseau et la formation de l’idée de démocratie comme mesure de la légitimité du pouvoir politique, «Revue Philosophique de la France et de l’Etranger», 175(2), 1985, p. 195-222, ha centrato l’attenzione sull’asse Hobbes-Spinoza-Rousseau per comprendere l’emergere moderno della democrazia come forma di organizzazione politica orientata all’autonomia e all’interiorizzazione del principio della legge. Particolarmente interessante, poi è il saggio di G. Goggi, Spinoza contro Rousseau: un commento ad alcuni passi di Diderot e di D’Holbach, «Annali di Ca’Foscari», 25, 1986, p. 133-159, il quale sottolinea giustamente come nella percezione che Diderot e D’Holbach ebbero di Rousseau, quest’ultimo si distanziava da Spinoza proprio per il suo rifiuto di una socialità naturale che è invece pienamente ascrivibile al pensiero del filosofo olandese. Sebbene non sia questa la sede per impostare in termini storiograficamente più esaustivi la questione, riteniamo che la continuità tra Spinoza e Rousseau non debba essere sopravvalutata e che l’elemento hobbesiano debba esser fatto giocare da reagente per valutare le effettive linee di continuità e discontinuità tra i due pensatori. In tal senso, riteniamo poco fondata la pretesa incommensurabilità di Spinoza a Hobbes e Rousseau sostenuta da G. Geismann, Spinoza - Beyond Hobbes and Rousseau, «Journal of the History of Ideas», 52, 1991, pp. 35-53.

30. B. Spinoza, Trattato teologico-politico in Id., Tutte le opere, trad. it., Bompiani, Milano, 2010, cap. 16, §8; d’ora in poi citate secondo le sigle di riferimento internazionali ivi utilizzate.

31. TTP16, 11.

32. T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, trad. it., Firenze, Sansoni, 2004, p. 133.

33. Quello stesso parlamento che par altro Rousseau prendeva a modello di gestione democratica del governo in CS, 3, 17, p. 434.

34. Si tratta della finalità centrale dell’etica spinoziana, in merito cfr. soprattutto E4.

35. Cfr. TP6, §5 e seguenti.

36. Come insegna E4P32-33 le passioni rendono gli uomini reciprocamente contrari e quindi nemici.

37. Cfr. parallelamente TP6, 22 (p. 1681): «il consiglio non potrà decidere nulla circa gli affari del governo se non saranno presenti tutti i suoi membri».

38. Non si considerano in questa sede altri atti di democrazia diretta come il referendum o la legge di iniziativa popolare che non rientrano nella vita politica ordinaria.

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39. Cfr. E3P29-34.

40. Cfr. TP6, 19 (p. 1681): «il re deve essere assolutamente considerato come se fosse la mente dello Stato e questo consiglio invece come i sensi esterni alla mente, cioè il corpo dello Stato, attraverso il quale la mente comprende la situazione dello Stato e quindi fa ciò che ritiene essere il meglio per sé».

41. Il procedimento dovrebbe essere analogo a quello descritto da Spinoza in TP6, 25, considerando che il consiglio dovrebbe essere formato dai rappresentanti del popolo e il re dovrebbe essere costituito dal popolo stesso.

42. Anche se qui non può certo trovare spazio di discussione, non va dimenticato che noi, a differenza di Spinoza, viviamo ormai nel mondo dei nuovi media, sull’utilizzo politico dei quali cfr. tra gli altri S. Rodotà, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 2004.