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il Portolano A. XIII - Gennaio / Settembre 2007 PERIODICO TRIMESTRALE DI LETTERATURA N. 49/50 - 8,00 EDITORIALE SABA dai territori della solitudine (1883-1957) f.g. N ell’agosto 1957 Umberto Saba ci lasciava. Si spengeva una delle più autorevoli voci del- la poesia italiana ed europea del Novecento. Il “Portolano” lo ha voluto ri- cordare, non solo per la coinci- denza cinquantenaria, ma anche per le tracce fiorentine che con- corsero alla sua riflessione esi- stenziale e poetica. Saba fu a Firenze fra il 1905 e il 1908 (tra l’aprile e l’ottobre 1907 è a Monte Uliveto); poi nel 1911, poco dopo sposato, e nel 1915 è documentato in una foto con Virgilio Giotti a San Felice a Ema (fra il Poggio Imperiale e il vicino Galluzzo); vi tornò dopo l’8 settembre del ’43, costretto a fuggire da Trieste per il timore delle recrudescenze naziste anti- semite. Dei primi anni del secolo non riporterà ricordi positivi, come ebbe a rilevare Arrigo Stara, cu- ratore del “Meridiano” mondado- riano (1988). Firenze, visitata con Giorgio Fano e Virgilio Dopli- cher, apparirà una città “morta, corrotta dai forestieri, dalla man- canza d’industrie e di commer- cio, nervi e sangue di un popo- lo”. Né più tenero sarà l’approc- cio con la società letteraria del tempo (si pensi a Soffici, Papini, Prezzolini, solo per citarne alcu- ni): “La cricca letteraria di Fi- renze – scriverà nel gennaio 1905 – mi muove guerra ad ol- tranza; usando naturalmente di tutti i mezzi della mediocrità. Il si- lenzio, le lodi peggiori di ogni biasimo, la calunnia e via discor- rendo…”. E la sua rarefatta colla- borazione “vociana” (1912) sarà avvertita come “male accolta e con troppe riserve”. A Firenze tornerà a 24 anni, passandovi quasi un anno di “fer- ma” (pur alternandosi con Trieste) nel convento di Monteoliveto, da sempre “Sezione di Ospedale Mi- litare” (per malattie particolari), rubricato nell’amministrazione del Regio Esercito, quale “Deposito di Monte Uliveto”, un complesso architettonico riconducibile alla paternità michelozziana. L’esperienza militare (consu- mata da Saba in periodo di pace) coinciderà con la retorica del bel- licismo: “Qui andiamo sì, ma a tanta no- stra guerra manca il nemico che ci miri al cuore, manca la morte che il fuggiasco atterra, manca la gloria per cui ben si muore”. (da i “Versi militari”). Né, i suoi rapporti con l’am- biente fiorentino miglioreranno dopo la sua pubblicazione (1912) di “Coi miei occhi” nella Libreria della “Voce” (allora in piazza Da- vanzati). Firenze lo accoglierà per circa un anno, dopo il settembre SABA / GUAGNINI,DEDENARO,CARRAI, PESCINI,TARANI,GRISANCICH,SODOMACO, BRANDALISE,ALBISANI,SALIBRA,CRESCENTE, E. GURRIERI GATTO / VIGNOZZI LORIA / FIORETTI VERONESI / PELLEGRINI,GURRIERI BARTOLINI,BEVILACQUA,MANNUCCI,F AGIOLI, BERNARDINI,ZANETTI,PINZUTI,P ANCONESI,MORI Umberto Saba. (segue a pag. 2) SABA

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il PortolanoA. XIII - Gennaio / Settembre 2007 PERIODICO TRIMESTRALE DI LETTERATURA N. 49/50 - € 8,00

EDITORIALE

SABAdai territori

della solitudine(1883-1957)

f.g.

Nell’agosto 1957 UmbertoSaba ci lasciava. Si spengeva

una delle più autorevoli voci del-la poesia italiana ed europea delNovecento.

Il “Portolano” lo ha voluto ri-cordare, non solo per la coinci-denza cinquantenaria, ma ancheper le tracce fiorentine che con-corsero alla sua riflessione esi-stenziale e poetica.

Saba fu a Firenze fra il 1905 eil 1908 (tra l’aprile e l’ottobre1907 è a Monte Uliveto); poi nel1911, poco dopo sposato, e nel1915 è documentato in una fotocon Virgilio Giotti a San Felice aEma (fra il Poggio Imperiale e ilvicino Galluzzo); vi tornò dopol’8 settembre del ’43, costretto afuggire da Trieste per il timoredelle recrudescenze naziste anti-semite.

Dei primi anni del secolo nonriporterà ricordi positivi, comeebbe a rilevare Arrigo Stara, cu-ratore del “Meridiano” mondado-riano (1988). Firenze, visitata conGiorgio Fano e Virgilio Dopli-cher, apparirà una città “morta,corrotta dai forestieri, dalla man-canza d’industrie e di commer-cio, nervi e sangue di un popo-lo”. Né più tenero sarà l’approc-cio con la società letteraria del

tempo (si pensi a Soffici, Papini,Prezzolini, solo per citarne alcu-ni): “La cricca letteraria di Fi-renze – scriverà nel gennaio1905 – mi muove guerra ad ol-tranza; usando naturalmente ditutti i mezzi della mediocrità. Il si-lenzio, le lodi peggiori di ognibiasimo, la calunnia e via discor-rendo…”. E la sua rarefatta colla-borazione “vociana” (1912) saràavvertita come “male accolta econ troppe riserve”.

A Firenze tornerà a 24 anni,passandovi quasi un anno di “fer-ma” (pur alternandosi con Trieste)nel convento di Monteoliveto, dasempre “Sezione di Ospedale Mi-litare” (per malattie particolari),rubricato nell’amministrazione delRegio Esercito, quale “Depositodi Monte Uliveto”, un complessoarchitettonico riconducibile allapaternità michelozziana.

L’esperienza militare (consu-mata da Saba in periodo di pace)coinciderà con la retorica del bel-licismo:

“Qui andiamo sì, ma a tanta no-stra guerra

manca il nemico che ci miri alcuore,

manca la morte che il fuggiascoatterra,

manca la gloria per cui ben simuore”.

(da i “Versi militari”).

Né, i suoi rapporti con l’am-biente fiorentino migliorerannodopo la sua pubblicazione (1912)di “Coi miei occhi” nella Libreriadella “Voce” (allora in piazza Da-vanzati). Firenze lo accoglierà percirca un anno, dopo il settembre

SABA / GUAGNINI, DEDENARO, CARRAI,PESCINI, TARANI, GRISANCICH, SODOMACO,BRANDALISE, ALBISANI, SALIBRA, CRESCENTE,E. GURRIERI

GATTO / VIGNOZZI

LORIA / FIORETTI

VERONESI / PELLEGRINI, GURRIERI

BARTOLINI, BEVILACQUA, MANNUCCI, FAGIOLI,BERNARDINI, ZANETTI, PINZUTI, PANCONESI, MORI

Umberto Saba.

(segue a pag. 2)

SABA

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’43: qui cambierà, certo anche perragioni di “sicurezza”, ben undiciresidenze; incontrerà Carlo Levi,Ottavio Cecchi, Mario Spinella,Eugenio Montale e altri.

Qui, forse e soprattutto nell’a-bitazione di piazza Pitti, nasce-ranno “Avevo”, “Teatro degli Ar-tigianelli” (nella vicina Via de’Serragli, ov’è ancor oggi, abban-donato), “Disoccupato”, “Vecchiocamino”, “Dedica”. Ma anchequesta stagione lascerà tracceamare nel poeta triestino se, ap-pena un anno dopo, scriverà de “laspaventosa, arida Firenze; dove ol-tre al resto, è finita per me ancheogni speranza di guadagnare.”

Ad oggi, non ho saputo trova-re motivi e circostanze fiorentineche abbiano suggerito quell’“oltreal resto”. Con la liberazione dellacittà (agosto 1944) molte forze in-tellettuali democratiche si ritro-vano e si ricompongono e restadifficile capire il permanere di unisolamento o di una freddezzadella società letteraria che andavarapidamente riaggregandosi.

Quando, nel settembre 1966,Enrico Falqui, raccoglie e presen-ta “Tutte le poesie della ‘Voce’”(con Nuovedizioni Vallecchi) ri-corderà che

“il primo dei venti poeti ita-liani fu Umberto Saba, in data7 novembre 1912, con una primi-zia della sua seconda raccolta: Coimiei occhi, edita allora in Firenzedalla stessa Libreria della Voce.Ma Saba, aveva già collaboratoalla rivista con una nota sulle Poe-sie di tutti i giorni di Marino Mo-retti (18 maggio 1911) e con unarticolo su Il Ghetto di Triesteverso il 1860 (16 maggio 1912), evi ricollaborò più tardi con il rac-conto: Valeriano Rode (16 gen-naio 1913)”.

Peraltro, Saba era già stato og-getto di un saggio critico di Giu-seppe De Robertis nel ’34 (ripub-blicato poi in “Scrittori del Nove-cento” con Le Monnier nel 1958).

Nella nota derobertisiana, sidirà che “Fra i quattro o cinquepoeti nuovi d’oggi, Umberto Sabaè certo il poeta di più vena, anchese non di tutta poesia”.

Ed aggiungerà: “Ma quell’e-quilibrio, quella foga schietta,quell’accento di gioventù, sonosubito rotti e turbati. Sotto quellasensualità c’era, insidiosa, la notaebraica dolente, una pena di vec-chio, una malinconia stanca; e l’u-miltà con la quale accettava il suodolore era umiltà di disperato.Molta parte della poesia deglianni che seguiranno sarà tutta de-terminata dall’ossessionante bi-sogno di questo sentimento e diquesto tormento”.

* * *

Nel convegno “Intellettuali difrontiera - triestini a Firenze(1900-1950)”, tenutosi al Gabi-netto Vieusseux nel marzo 1983(gli “Atti”, pubblicati da Olschkinell’85), è presente il contributodi Ottavio Cecchi – “Saba a Fi-renze”, pp. 77-90 –, fondamen-tale per ripercorrere la tipologiadelle sue migrazioni, da via deiDella Robbia a piazza Pitti (al n.14, dalla Jachino) bianca di soleestivo, nell’estate del ’44. Cecchici riferisce di una maledizionepronunciata sul portone di quellacasa a Pitti – “L’odierò sempre latua città, città maledetta!”. Delresto, il rancore di Saba venivada lontano: dalle durezze di Pa-pini (“…quei repugnanti triesti-ni…” e persino dal suo concitta-dino Slataper che non pubblicavale sue poesie. Un rapporto con-flittuale, di incomprensione e diconsolidata amarezza: solo piùtardi si attenuerà quella “repu-gnanza”; nei versi del “Canzo-niere”, fra le “tre città”, c’è, ap-punto, “Firenze”.

Per abbracciare il poeta Montale– generosa è la sua tristezza –

sononella città che mi fu cara.

È comese ogni pietra che il piede batte

fosseil mio cuore, il mio maledi un tempo. Ma non ho rim-

pianti. Nascealtra costellazione – un’altra età.

* * *

Prima di lasciare Firenze (for-se nel dicembre ’44) Saba dedi-cherà alcuni versi al “Teatro degliArtigianelli”; così gli ultimi versi:

“Questo è il Teatro degli Arti-gianelli,

quale lo vide il poeta nel millenovecentoquarantaquattro, un

giornodi settembre, che a trattirombava ancora il cannone, e Fi-

renzetaceva, assorta nelle sue rovine”.

Nel settembre, in effetti, Fi-renze aveva i suoi ponti sull’Ar-no distrutti (saltati il 4 agosto),ma il fronte era ormai salito ver-so Prato e Pistoia e verso il Mu-gello, da Vaglia a Scarperia, egiustamente se non si sentivanopiù i sibili e le deflagrazioni dei

mortai da Fiesole, i tuoni deicannoni, effettivamente, accom-pagnavano ancora l’allontanarsidel fronte di guerra.

* * *

Questo numero monograficosi riallaccia idealmente a quellodi “Solaria” del 1928: son pas-sati ottant’anni e l’attenzione peril poeta triestino si è consolida-ta. Da Guagnini a Carrai, da Ta-rani alla Salibra e oltre, il poetane esce con una lettura più riccae sistematica. E ciò nonostantel’inflessione “giapponese” di cuici ha parlato Paolo Mauri (suRepubblica), commentando laplaquette curata da Maria Anto-nietta Terzoli per l’Università diParma.

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Sul molo, a Trieste.

SABA, DAI TERRITORI DELLA SOLITUDINE(1883-1957)

(segue da pag. 1)

SILENZINELL’OFFICINA DEL VERSO

Si avverte, profondo, il silenzio di Luzi, di Parron-chi. E se pensi alla poesia devi volgerti ai più giovani,di cui, tuttavia, non senti ancora il calore, l’urto del-la parola. Non cogli l’officina del verso e appena av-vertibile è il suono del loro smontaggio, della ripro-posizione e della ricomposizione disvelante. Il para-dosso è che, allora, solo in parte ti accorgevi che quellaboratorio era aperto e vi potevi attingere. Ma prestosuoneremo anche a questi nuovi diversi indirizzi.

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Un aspetto rilevante della fisionomia complessiva di Sabacome scrittore, il suo rapporto particolare con la tradizione

classica italiana (al quale, da un altro lato, corrisponde una seriedi fattori ideologici legati alla contemporaneità, tra i quali il par-ticolare e complesso rapporto con la psicoanalisi) rischia di met-tere in ombra un rapporto vivo e costante con la modernità, isuoi segni, i suoi linguaggi. Mentre è un fatto che Saba ha sem-pre coltivato – invece – un interesse vivo con la realtà del suo tem-po, con le sue problematiche, con le sue espressioni.

Non è un caso che, già nei primi anni del Novecento, in unalettera da Firenze ad Amedeo Tedeschi (20 marzo 1905), Sabarivelasse le proprie simpatie (era un riflesso, forse, del suo es-sere triestino) per città caratterizzate da attività industriali ecommerciali (attività che, per lui, erano i nervi e il sangue di unacittà). Mentre non altrettanta simpatia avrebbe manifestato neiconfronti di altre città accusate di vivere di rendita delle tradi-zioni del passato. Come quella Firenze della quale, peraltro, ne-gli anni Trenta, avrebbe subìto il fascino definendola città delsuo «cuore cara al proprio ricordo»; e alla quale – più tardi –avrebbe espresso simpatia e riconoscenza per la generosa ospi-talità offertagli durante la clandestinità negli anni della secon-da guerra.

Anche nei confronti di Trieste, del resto, Saba mostra un’at-tenzione che corrisponde a quella degli organismi in crescita,che non conoscono l’ozio, e la cui estetica ha da essere cercata neisegni delle metamorfosi del tessuto urbano. Si legga la poesia Ver-so casa (in Trieste e una donna), che segue la più nota Trieste eche - a mio avviso - aggiunge qualche precisazione ulteriore e im-portante al ritratto psicologico presentato nei versi precedenti:«Trieste,nova città,/ che tiene d’una maschia adolescenza,/ che difra il mare e i duri colli senza/ forma e misura crebbe;/ dove l’ar-te o non ebbe/ ozi, o, se c’è, c’è in cuore/ degli abitanti, in que-sto suo colore/ di giovinezza, in questo vario moto». E si ricordil’attenzione viva al commercio, alle attività economiche che untempo l’avevano incantato e gli avevano fatto sognare un futurodi mercante e viaggiatore (Il molo: «Vedo navi il cui nome è giàun ricordo/ d’infanzia…/…/…quei sacchi/ su quella tolda, quel-le casse a bordo/ di quel veliero, eran principio un giorno/ digran ricchezze, onde stupita avrei/ l’accolta folla a un mio lieto ri-torno,/ di bei doni donati i fidi miei»); e che ancora gli ricorda-vano un passato prossimo di grandi sviluppi e prosperità diffusa(La vetrina: «Del divino per me milleottocento/ amate figlie, quidalla lontana/ Inghilterra venute, di voi dico,/ pinte tazzine, va-sellame usato dagli avi miei più laboriosi,…/ Approdava ognimese un bastimento/ a questo porto di traffici amico,/ con voi disì gran copia che il mendico/come il ricco ne aveva…»).

Ma, a incantarlo, del passato prossimo e forse di un possibi-le futuro della sua città era la capacità della città – finché non ave-vano fatto la loro comparsa i segni di deleteri nazionalismi – difavorire la compresenza pacifica di etnie, culture e costumi diversi(si legga Inferno e paradiso di Trieste, del 1946): «Trieste è sem-pre stata un crogiuolo di razze. La città fu popolata da genti di-

verse: Italiani nativi della città, Slavi nativi del territorio, Tede-schi, Ebrei, Greci, Levantini, Turchi col fez rosso in testa e nonso quante altre. Nacque, come città moderna, dall’istituzione delportofranco, sugli scorci del secolo XVIII. Favorito da questa eda altre contingenze, il suo sviluppo fu, agli inizi così rapido chesi può paragonarlo a quello di cui sofferse, circa negli stessi anniNew York. Poi – non avendo dietro di sé l’immensa America –rallentò e si arrestò (il paragone, a chi consulti una raccolta distampe del primo Ottocento, non sembrerà esagerato)». Qualco-sa del genere sarebbe stata possibile ancora (ma era difficile cheaccadesse, pensava Saba) solo in una prospettiva di interessi co-muni dei Paesi del suo hinterland, «la comunanza di un compi-to (che per Trieste non potrebbe essere che un compito commer-ciale)».

Al centro della poesia di Saba, si sa, c’è un continuo confrontotra due tensioni apparentemente inconciliabili eppure ossimori-camente presenti nelle sue pagine: tra il desiderio di immergersinel flusso della vita («dentro la calda/ vita di tutti»), di vivere lavita degli altri, di essere uno come tutti gli altri (Il borgo di Cuormorituro), e – da un altro lato – la necessità di essere se stesso, di

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Trieste, Angolata del Palazzo del Lloyd.

SABA E LA MODERNITÀQualche considerazione in merito al rapporto di Saba con la modernità

Elvio Guagnini

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conservare la propria identità, di potervedere “a distanza” la “nera foga dellavita” (come l’aveva chiamata in Tre vie diTrieste e una donna) che pure lo attraeva.

Non è un caso, dunque, che Saba ab-bia dedicato una particolare attenzionealle manifestazioni della società moderna,della stessa società di massa. Come il ci-nema. Da un lato, certo perché era statocoinvolto nella pubblicità del cinema“Italia” (in via Dante) di proprietà del co-gnato Enrico Wölfler.

Qualche anno fa, una rivista di “ricer-ca e informazione sulla comunicazionedi massa”, “Ciemme”, ha dedicato nel n.121 (settembre 1997) un interessante ar-ticolo di Marco Vanelli sul tema Umber-to Saba e la film americana che – tra l’al-tro – pubblica anche il testo di uno dei fo-glietti–programma, che Saba redigevaverso la metà degli anni Venti, nei quali«riassumeva il soggetto dei films, ag-giungendovi le sue note critiche». Il fo-glietto, conservato da Aldo Fortuna, ri-guarda il film La tigre sacra (The SacredTiger of Agra). Un film di Lloyd B.Car-leton del 1915 o 1916:«La tigre sacra:/fresche venture/ stragi, paure,/ drammid’amor./ La tigre sacra/ vien di lontano/n’è americano,/ il creator./…/La tigre sa-cra/ teme ciascuno/ ma n’è ciascuno/l’ammirator. (Miss Ruth Roland protago-nista)».

In seguito, Vanelli considera alcunidei documenti già noti che testimoniano ilrapporto di Saba con il cinema, dalla“scorciatoia” Film americana alla splen-dida poesia dedicata a Febbre dell’oro(pubblicata sulla “Fiera letteraria” il 10aprile 1927, ma poi esclusa dal Canzo-niere) alla poesia Il canto dell’amore(Una domenica dopopranzo al cinematografo) di Cuor morituro(1925-1928).

Molti gli spunti importanti: il personaggio di Charlot nel qua-le si specchia la«vecchia,/ la malinconica Europa»; il côté comi-co che si intreccia alla tristezza, al sogno, alla bontà, alla pena(l’arte moderna – da Shakespeare, che tanto Saba ammirava, inpoi – è fatta di contaminazioni); e, poi, l’interesse per la presen-za della “folla” a quel rito di massa che è lo spettacolo cinema-tografico; e – ancora – l’amore per la “folla domenicale”, la par-tecipazione alla passione – che accomuna la gente al cinema – perl’“ottimismo americano” («Amo la folla qui domenicale,/ che inse stessa rigurgita, e se appena/ trova un posto, ammirata sta a go-dersi/ un poco d’ottimismo americano// Sento per lei di non vivereinvano,/ di amare ancora gli uomini e la vita./…»). Sono tratti,questi, che ci mostrano uno scrittore lontano dal cliché del lette-rato e dell’umanista attaccato ai valori e ai costumi tradizionalicome lo era anche qualche viaggiatore in America di quegli anni.

Del resto, pure l’attenzione di Saba per osterie, latterie, ritro-vi minori della gente comune, va in questa direzione. E così an-che la particolare passione sportiva rivelata dalle Cinque poesieper il gioco del calcio di Parole (1933-1934) dove Saba sottoli-

nea l’importanza della “popolarità” di questo sport, del mito diuna gloria sia pure effimera, dell’entusiasmo della “folla” che tra-bocca sul campo e gioisce intorno al vincitore.

Un segno di particolare rilevanza dell’interesse di Saba per lasocietà di massa (e per le sue espressioni) è nell’interesse per i Li-bri gialli ai quali sono dedicate numerose “scorciatoie”: sia diquelle “triestine” (seconda metà degli anni Trenta) sia di quelle“romane”, comprese poi nel volume mondadoriano del 1946.

Avccanto a una celebre conferenza di Augusto De Angelisdegli inizi anni Quaranta, alle note di Gadda a Novella seconda(poi Denira Classis) degli inizi anni Trenta, a qualche pagina diSavinio su Simenon degli stessi anni, le Scorciatoie di Saba sui“libri gialli” sono tra le analisi più incisive che la cultura italianatra le due guerre e dell’immediato secondo dopoguerra abbiaprodotto sull’argomento.

Di alcune “scorciatoie” degli anni Trenta, si hanno anche lerielaborazioni successive. Si veda una prima stesura: «LIBRIGIALLI Il delinquente è chi meno s’aspetta, e la prova è fornitada indizi che solo il poliziotto-psicoanalista può valutare. La fe-licità del lettore nasce dall’illusione di non essere lui il colpevo-le. Invece lo è.”Anch’io avrei potuto commettere un delitto ma

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San Giusto.

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fortunatamente…”. Le persone che hanno troppo senso di colpa– e vita – attraverso, ahimè! quali agonie – illibata, non possonoleggere libri gialli: si ammalano. Essi (i libri gialli) sono anchepieni di fatti curiosi, allegri, divertenti: la più franca letteraturaamena dei nostri giorni».

Nelle Primissime scorciatoie recuperate da Saba presso Qua-rantotti Gambini e pubblicate sul “Tempo” di Roma il 18 agosto1946, la sesta (LIBRI GIALLI) riproduceva il cuore della primastesura (da “La felicità del lettore” a “si ammalano”). Ma i passitolti (quello iniziale e quello finale) sarebbero stati poi rielabora-ti e sviluppati nelle “scorciatoie” degli anni Quaranta. E riguar-dano i seguenti concetti: in primo luogo, quello secondo cui, alcentro del processo della scoperta, c’è una figura ufficiale di pro-tettore-tutore della società, un vendicatore della verità, una sortadi cavaliere errante tradotto nella figura del poliziotto-psicanali-sta (scorciatoia 55); in secondo luogo, che il romanzo giallo ècome i romanzi di cavalleria: una “letteratura di consumo” dallaquale potrebbe nascere una grande opera «popolare e di stile»(che era un’idea non molto lontana da quella gaddiana, di una let-teratura che – attraverso il pubblico”grosso” – avrebbe potuto rag-giungere anche il pubblico”fino”) Una prospettiva di poetica fon-

data sull’idea della possibilità di un’ope-ra scritta per il largo pubblico e insieme“alta”. Che è il sogno di tutti gli scrittoriche vorrebbero la popolarità senza rinun-ciare alla qualità.

Ancora sulla scorta della primissimastesura della “scorciatoia” citata deglianni Trenta, Saba avrebbe sviluppato,nelle Scorciatoie in volume del 1946, al-tre osservazioni conseguenti. In primoluogo, relativamente alla congruenza trametodologia della ricerca poliziesca (bi-sogna cercare la prova per incastrare ilcolpevole ancora a piede libero finché laprova non viene trovata) e disposizionidi legge inglesi (scorciatoia 56); in se-condo luogo, relativamente alla popola-rità del giallo, la «sola letteratura con-temporanea – scrive Saba – che sia stataveramente una letteratura popolare» pie-na «di cose, di fatti, di episodi, estrema-mente divertenti (ma non dovrebbe esse-re sempre così in un romanzo?)» (scor-ciatoia 57). Un’altra idea conseguente èche il nazismo è stato come «un immen-so romanzo giallo» con il delinquente inlibertà, libero a lungo con «tutto il tempoche gli occorreva» prima che «gli inglesisi decidessero di intervenire, e a far in-tervenire gli altri» (scorciatoia 56).

È interessante il fatto che Saba, comeGadda, guardi a Mussolini e a Hitler comeesempi di una realtà di violenza e aggres-sività che vanno letti anche attraverso lapsicanalisi, benché vi siano delle chiavidi lettura pure diverse. Questa idea (dellapsicanalisi che permette di leggere a fon-do le esperienze dei dittatori, la loro vita ei loro atti, e del “giallo” come di strumen-to di lettura delle istituzioni sociali e delfondo oscuro che genera la violenza indi-

viduale e collettiva – è anche in Gadda. E il “romanzesco” che Gad-da attribuisce – come ingrediente naturale – alla vita (spesso “ro-manzeschissima”) che lo scrittore deve rappresentare, potrebbeessere confrontato con quella massa di cose di fatti e di episodi che- per Saba – dovrebbero contrassegnare il romanzo, un modo perinteressare il grosso pubblico, un modo per arrivare al pubblico piùampio ma anche a quello più raffinato.

Nella scorciatoia 59, Saba considera la possibilità che, come«dai romanzi di cavalleria sono nati l’ORLANDO FURIOSO e ilDON CHISCIOTTE, è possibile che un giorno, un grande auto-re ricavi, dallo sterminato materiale greggio dei romanzi polizie-schi, un’opera popolare e di stile». Era un’idea interessante enuova, questa di Saba, che rivelava in lui un intellettuale lontanodai pregiudizi che altri letterati e scrittori del suo tempo avevanonei confronti della letteratura di massa, rispettoso del rodaggio edella sperimentazione che una letteratura “popolare” doveva farenecessariamente per poter arrivare, poi, a esiti “alti” nati da que-sto lavoro preparatorio, rispettosi del suo valore. Ciò che ci mo-stra anche un Saba non solo attento alle manifestazioni della cul-tura della società di massa ma anche a quelle – più in generale –che rivelano le dinamiche e gli sviluppi della storia letteraria.

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Trieste.

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Gli anniversari, si sa, sono delle scadenze dovute ma possono por-tare con sé occasioni utili, così il cinquantenario della morte di

Umberto Saba può essere un ottima ragione per incontrare il poeta trie-stino e fare un po’ il punto dello stato dei lavori sulla sua ricezione e sullavoro critico nei suo riguardi, senza rimanere sommersi in un’ondataagiograffica di maniera.

Anche una domanda, forse un po’ scontata, se cioè, esista un’ereditàsabiana fra gli scrittori di poesia oggi a Trieste, può non essere banaleal ffine di sottolineare la vitalità che Saba sembra mantenere, senza tra-lasciare però di dire che questa domanda ne contiene al suo interno pa-recchie altre, in particolare alcune che riguardano Trieste.

La nozione di letteratura triestina è una categoria da maneggiare conle pinze, e, a questo proposito, se è lecito autocitarsi, negli anni passa-ti ho compilato alcune antologie degli autori locali proprio nel tentati-vo di rispondere a questa domanda attraverso una veriffica sul campo. Ledue antologie dei poeti triestini forse sono, dopo qualche anno, già su-perate da una realtà molto veloce ad evolversi, ma rifflettono tutta la dif-fficoltà a ragionare in termini di luogo e cultura locale oggi, il che nonnega che alcune specificità indubbie emergano1. Peraltro incontrareSaba non è cosa semplice, anche se i rapporti immaginari solitamente

sono, come affermava Daniele Del Giudice a proposito del suo rappor-to con Bobi Bazlen, più semplici di quelli reali. Smentendo in parte unasimile affermazione, bisogna ammettere che nemmeno un rapporto im-maginario con Umberto Saba risulta lineare. Un effetto a cerchi con-centrici che s’allargano sempre più, qualcosa di spiazzante, in fondo, èla sensazione che si prova nel leggere Saba, un’ impressione che dove-va essere ancora più forte nei suoi interlocutori, in quelli che incontra-rono Saba da vivo.

Fra i tanti che hanno voluto lasciare una memoria scritta dei loro in-contri con il poeta triestino, un posto particolare va riservato ad unbreve racconto intitolato Un poeta, forse non troppo conosciuto al difuori della cerchia degli studiosi, di Eugenio Colorni, ove il disorien-tamento, è palpabile assieme alla sensazione della grandezza del propriointerlocutore. Scrive Colorni: “La domanda [di Saba] era sta diretta eprecisa, non teorica. Non “A che cosa serve la ffilosoffia?”, ma “Perchéla pratichi tu”. Qui l’unità del reale, e del trascendentale, e i rapportifra teoria e pratica, e il concetto, non c’entravano per niente. C’entravoio, coll’ i minuscola. Non mi restava che confessarmi o tacere. Tacqui,ma dovetti cambiare mestiere. E da quel giorno mi sento più libero e misembra di capire di più”2.

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COSA RESTA DI SABAIl patriottismo solare di Saba

Roberto Dedenaro

Trieste, primi del ’900.

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L’incontro con Saba aveva indotto in Colorni, brillante ffilosofo an-tifascista, giunto a Trieste quale insegnante dell’istituto magistrale, unmutamento radicale che lo portava, queste sono le sue parole, a non ave-re più paura di dire “gli esseri umani” anziché “lo Spirito”. Dopo que-sta scelta di abbandonare la ffilosoffia, Colorni divenne, come è noto, unodei maggiori intellettuali e dirigenti della Resistenza italiana, ffino allasua tragica ffine.

L’impressione, in altri termini, è che manchi ancora una attenzionee una valutazione profonda e speciffica della statura di intellettuale civile,non saprei come dire meglio, di Saba, mentre la sua fama di poeta è an-data via via consolidandosi all’interno del canone del ’900 anche sot-traendo spazio ad altri autori, come Quasimodo e Ungaretti, perlome-no se ci muoviamo all’interno di un canone scolastico, che non è peròprivo di una sua notevole signifficatività. La consacrazione deffinitiva delSaba poeta, anche con la sua inevitabile retorica un po’ fastidiosa (nonc’è occasione sportiva, ad esempio, che riguardi la squadra di calcio diTrieste che non veda qualche calciatore balbettare le poesie di Saba sulcalcio), ha finito con portare con sé una maggiore attenzione anche aglialtri Saba, lungo un percorso che ha visto nella pubblicazione del Me-ridiano Mondatori delle Prose3 un evento decisivo, non solo per averraccolto e reso nuovamente disponibili scritti che non lo erano più, maanche per l’ introduzione rivoluzionaria di Mario Lavagetto, uno dei piùimportanti studiosi sabiani degli ultimi vent’anni. Proviamo a darequalche altra immagine del Saba che vorremmo far emergere.

Uno dei passi in assoluto più citati di Saba è senz’altro una delle ri-ghe di apertura di Storia e Cronistoria del Canzoniere: “Dal punto di vi-sta della cultura nascere a Trieste nel 1883 era come nascere altrove nel1850”4. Non vi è forse affermazione più stringatamente effficace delle ca-ratteristiche formali di tanta letteratura triestina d’inizio secolo, cosìcome del clima politico e sociale cittadino. Anche se Saba aveva deiconcittadini molto illustri, come Slataper e Giani Stuparich, che avevanocomposto pagine bellissime descrivendo cosa era, dal punto di vista cul-turale, Trieste, nessuno aveva affrontato la questione con una simile bru-ciante chiarezza, dimostrando una rara capacità di andare al cuore del-le cose, sostenuta da una limpidezza di stile quasi sconosciuta ad unoscrittore triestino.

La straordinarietà della scrittura in prosa di Saba è d’altronde “mi-racolosa”. Scrive a questo proposito Lavagetto che proprio quel ritardoche l’autore mette alla base delle sue iniziali prove poetiche non è av-vertibile nelle prose: “qui, nonostante alcuni arcaismi ortograffici non c’èombra di ritardi e Saba appare miracolosamente padrone dei proprimezzi, senza eredità malferme da puntellare…”5.

Mi rendo conto che sto facendo un discorso che può apparire stram-palato, in quanto sto sostenendo che per un poeta l’eredità di Saba chepiù mi appare interessante è quella del prosatore. Innanzitutto, lo è, amio giudizio, per la felicità con cui un “arretrato” triestino usa i suoimezzi espressivi, sostanzialmente “lirici”, per metterli al servizio del-la prosa. Eppure, questa sorta di luminosa trasparenza, di “lievità gre-ve” che Saba sembra saper trasfondere alle parole usate nelle sue pro-se è proprio quel qualcosa che a volte ho desiderato che la scrittura poe-tica, almeno la mia, riuscisse a possedere.

Nell’immaginario che lo riguarda c’è un’ immagine che ritorna pe-riodicamente alla memoria, ed a cui è diffficile sottrarsi, ed è il famosoritratto contenuto in una notissima lirica di Sereni di un uomo che al-l’indomani delle elezioni politiche del ’48 si lamenta a voce alta del ri-sultato elettorale sfavorevole alle sinistre. Per lungo tempo l’ho pensa-to come un ritratto lievemente forzato, poi, con un percorso forse un po’involuto, ho cambiato idea.

In una lirica de La serena disperazione, intitolata La ritirata inpiazza Aldovrandi a Bologna, una poesia forse non tra le più note e let-te di Saba, si descrive una sera d’ottobre in cui i bersaglieri con tanto difanfara eseguono la ritirata al calar della sera sulla piazza bolognese. Lalirica, cinque terzine d’ endecasillabi, si conclude con il verso “E tu seitutta in questa piazza, o Italia.6”. Un verso non privo di quella retorica,con tanto di vocativo ffinale, scritto alle soglie della entrata in guerra del-l’Italia, che Saba così autocommenta in Storia e cronistoria del Can-zoniere: “Nella piazza […] Saba vede l’immagine perfetta dell’Italia diallora, di quella che in tempi più imperiali, fu poi chiamata “Italietta”.Si può forse dire che sia una poesia patriottica, ma siamo lontanissimi

da qualsiasi vuotezza e ridondanza, siamo quasi all’opposto della lingua,perché tutto diventa qui vita popolare, quasi una ffiaba, quella dell’Ita-lia che si ritrova in una piazza fra delle bellissime luci d’ottobre e i ra-gazzi che schiamazzano quasi contrappuntando le fanfare, giovani en-trambi. Insomma, vi si legge un’ attenzione quasi antropologica alle pre-senze sulla piazza a cui l’io del poeta si mischia, s’impasta. Una splen-dida rafffigurazione di un patriottismo solare, su cui molto sarebbe dadire. L’atmosfera – è inutile dirlo – è quella dei giovanili Versi milita-ri. Forse c’è qualcosa che unisce il Saba de La ritirata a quello di Se-reni: una passione civile che continua a vivere anche a molti anni di di-stanza, e che lucidamente ritroviamo fra i versi e le righe sabiane. Pro-vo ancora a ritrovarne alcune tracce. Il 12 gennaio 1948 si pubblica sul“Corriere della Sera” un articolo dal titolo un po’ curioso Se fossi no-minato governatore di Trieste, che costò al poeta triestino una serie diproblemi, come è stato testimoniato dalla ffiglia Linuccia, perché i fa-scisti arrivano al punto di fermarlo per la strada e farlo oggetto di inti-midazioni e insulti. L’articolo inizia dicendo “Ho posto la mia candi-datura a governatore di Trieste. Ma nessuno, o quasi, l’ha presa sul se-rio. Né fra gli alleati, né fra gli italiani, né fra gli slavi. Meno di tutti– temo – i miei familiari.”7. Nel seguito dell’articolo, Saba cita una suapoesia del 1912, Caffè Tergeste, come uno dei titoli di merito per aspi-rare a quella carica, e afferma di volere far approvare, fondamental-mente, una sola legge che reciterebbe così: “Chiunque, con atti, scritti,discorsi, incita all’odio di razza (particolarmente degli slavi contro gliitaliani, o degli italiani contro gli slavi) sarà immediatamente messo con-tro al muro e fucilato.”8.

Apparentemente siamo di fronte ad una sorta di ingenuità politica.Si sa che qualsiasi governatore di Trieste avrebbe avuto a che far conuna ingarbugliata serie di questioni e avrebbe dovuto produrre leggi enorme in gran numero, ma allo stesso tempo sappiamo anche che la lot-ta nazionale o etnica, come si preferirebbe dire oggi, è il nucleo dellaquestione triestina, del suo diffficile dopoguerra. Saba senza incertezzeindividua la analoga negatività dei due nazionalismi. E senza dubbioproporre in questi termini la questione all’indomani della fine dellaguerra, possedeva la forza di delineare “il domani non comune”, che haforse pochi paragoni a Trieste. Saba non è stato ascoltato, non è diven-tato il governatore della città, e Linuccia, un po’ di tempo dopo, ha sot-tolineato come, a suo avviso, suo padre sarebbe stato in grado, invece,di svolgere benissimo quel compito; così come la storia ci dice oggi chesanare la frattura fra le storiche componenti della società triestina è sta-to e sarà un lavoro di lungo periodo, una faccenda che solo all’indomanidella ffine della Jugoslavia comunista potrà dirsi compiuto in qualchesenso, una storia di scontri e minacce non ancora sopite completamen-te, che ha condizionato le vicende della città nel corso del suo terribilenovecento.

Rimando a una ulteriore rifflessione sabina, a quella che emerge an-cora in un sonetto intitolato Opicina 1947: “Risalii quest’estate a Opi-cina / Era con me un giovane comunista. / Tito sui muri s’iscriveva, invista, / sotto della mia bianca cittadina / […] Due vecchie ebree, testardevilleggianti / io, quel ragazzo, parlavamo ancora / lassù l’italiano, tra isassi e l’abete. / Dopo il nero fascista il nero prete; questa è l’Italia, e losai. / Perché allora – / diceva il mio compagno – aver rimpianti?”//9.

Diffficile pensare di essere scrittori a Trieste e sottrarsi a Saba, comemi pare emerga anche da questo, frammentario ragionamento.

Diverso sarebbe ragionare sulla attualità della poesia di Saba da unpunto di vista della forma, un tema vasto e complesso, sul quale “l’i-nattualità” sabiana pesa forse davvero, e lo tiene un po’ distante dal se-condo novecento, anche da quello solo modestamente triestino; cosa chenon avviene per la prosa, come abbiamo detto, fra cui un posto di as-soluto rilievo spetta al romanzo incompiuto, Ernesto, che è e resta unodei testi più straordinari e rivoluzionari della nostra letteratura roman-zesca e autobiograffica.

Cosa resta di Saba nella poesia contemporanea triestina? È unaquestione intricata che comprende anche una valutazione sulla qualitàdi chi scrive oggi, valutazione che è sempre diffficile da dare, perchécomporta di capire le ragioni di poetiche che non sono ben delineate néstrutturate, né spesso hanno una lucidità così compiuta, come quella sa-biana. Un giovane poeta, critico e organizzatore di eventi, Luigi Nacciha pubblicato una lunga e scrupolosa indagine sulla poesia triestina10.

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L’impressione è quella di trovarsi, dopo anni di sostanziale isolamen-to, davanti ad un momento di cambiamento: le nuove generazioni sem-brano spingere con abilità quasi sconosciuta precedentemente per unloro inserimento nei circuiti nazionali della poesia, e ciò avviene con-testualmente ad un tentativo di creare un pubblico e degli autori “gio-vani”, parallelamente a quanto è avvenuto nella narrativa, forse rimet-tendoci qualcosa, come sottolinea Cristina Benussi nella prefazione alvolume: “non più barbara la sua lingua, non più scontrosa la sua grazia,la poesia degli ultimi cinquant’anni a Trieste sembra comunque guar-dare a modelli più convenzionali, sia per quanto riguarda le tematicheche le forme espressive.”11.

L’indagine di Nacci, che ha coinvolto trecentocinquanta autori, evi-denza una presenza piuttosto cauta di cultori del nostro Saba. Solonove autori dichiarano di vederlo come un modello. Meno della metà diquanti si riconoscono nella poetica di Ungaretti (il che sinceramentesembra un dato piuttosto curioso) e si riscontra appena qualche citazionein più di Emily Dickinson e dei classici latini e greci. Naturalmente c’èanche un certo gioco nel pavoneggiarsi a cercare radici illustri per il pro-prio poetare, ma resta il fatto che Saba sembra scivolare sullo sfondo,insieme ad un interrogarsi, forse, sulla città, un esercizio che in certi anniha avuto momenti claustrofobici, ma che nel suo esatto contrario può an-che essere il simbolo di una non troppo velata decadenza. Eppure, seSaba è stato il grande scrittore della città primonovecentesca, con unamiracolosa capacità di mettere assieme particolare e generale, analisi in-teriore e sguardo sul mondo, è mancato un poeta che davvero raccon-tasse questo secondo novecento, al pari, ad esempio, di quanto in pro-sa ha fatto uno scrittore come Fulvio Tomizza (sto pensando a Materadae a La miglior vita in modo speciffico): vicende di piccole comunità, diborghi popolati da uomini comuni che assumono valori universali. Per-sa fra intimismi un po’ autoreferenziali e beat generation di maniera, lapoesia triestina, con qualche rara eccezione, e lasciando al di fuori diquesto discorso le diverse vicende degli scrittori di madre lingua slo-vena, sembra aver smarrito la possibilità di raccontare sé e il mondo do-lente che la circonda, nel corso di un lungo, complicatissimo secondonovecento, come se il magma doloroso della storia che si andava com-piendo fosse da dimenticare, assumendo ogni volta maschere diverseche incarnassero altre ffigure, ma, facendo così, quella Italia da sposarecon il canto rimaneva obbligatoriamente lontana. C’era forse anche unproblema di linguaggio, ma qui forse, come abbiamo sottolineato, la le-zione di Saba si faceva più diffficilmente percorribile.

Il poeta più importante del secondo novecento triestino è statosenz’altro Fabio Doplicher, che ha trascorso gran parte della sua vitalontano dalla città natale e quando a questa si è rivolto si riappropriatodel dialetto della sua infanzia, iniziando a comporre quello che proba-bilmente sarebbe potuto essere il più importante canzoniere cittadino delsecondo novecento. Purtroppo questo lavoro è stato compiuto solo inparte, per la immatura scomparsa del poeta, che comunque a Triesteaveva dedicato anche alcuni bellissimi versi in lingua.

Arrivati a questo punto mi rendo perfettamente conto di non aver ri-sposto alla domanda iniziale, ma forse di aver fatto intravvedere alcu-ni possibili percorsi suscettibili di ulteriori ricerche.

Per quanto il web e internet e tante altre cose abbiano enormemen-te mutato la nostra percezione dei luoghi e delle appartenenze, non èmutato il nostro bisogno di avere radici; e se anche le città rassomiglianosempre di più al mondo e il mondo ad una città, non sembra davveroinattuale il modo in cui Saba descriveva il proprio distacco dalla città na-tale: “Muta il destino lentamente, a un’ora / precipita. / Per lui dovrò la-sciarti, / mia città così aspra e maliosa, / dove in fondo ad una bigia viaè il celeste mare. / La tua scontrosa / grazia saluterò, già vecchi amici /e pietre bacerò – cuore fedele – / come piange il fanciullo sopra ilseno / amaro, a distaccarsene per sempre.”.

NOTE

1 Poeti triestini contemporanei, Lint, Trieste, 2001 e Di sole di sale e altreparole, ztt, Trieste, 2004.

2 E. Colorni, Un poeta e altri racconti, Il Melangolo, Genova, 2002, pag. 59.3 U. Saba, Tutte le prose, a cura di A. Stara, Mondadori, Milano, 2001.4 Op. cit., Milano, 2001, pag 115.5 Idem, XIV.6 U. Saba, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1988.7 Op. cit., Milano, 2001, pag. 1019.8 Idem, pag. 1020.9 Op. cit., Milano, 1988, pag. 562.10 L. Nacci, Trieste allo specchio, Battello editore, Trieste, data di pubblica-

zione non riportata, ma dovrebbe essere il 2006.11 Op. cit., XI.

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Trieste, Riva Carciotti. Trieste, Palazzo del Lloyd.

BEFFE FILOLOGICHE

Bisognerà pur scriverla una “Storia delle beffe nella filolo-gia dell’arte”. Potremmo ora cominciare dalla etrusco-me-dievale Lupa Capitolina per finire ai “mammozzi” dei falsiModigliani ( drammatico incidente occorso ad Argan, Bran-di e Durbè ). L’ultima, in questo inesauribile percorso di in-cidenti, di gaffe e di impunite presunzioni, riguarda ap-punto, la lupa del Campidoglio, simbolo della nascita diRoma che, a differenza di quanto si è sempre creduto nonsarebbe più una statua etrusca ma medievale. Deducendociò dal fatto che l’opera sembrerebbe fusa con la tecnica “acera persa” in un sol getto…Così, quando fra qualche anno scopriremo che la plasticaromana e quella etrusca conoscevano la stessa tecnica, po-tremo restituirla agli Etruschi o darne altra collocazionetemporale. È dunque l’occasione, forse, per una riflessione:dalla filologia e dal documento derivano “verità” relative etemporanee, mai assolute. Con buona pace per i sacri “mi-nistri” della storia dell’arte. *

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Dopo Trieste, la città più importante nella vita e nell’opera diSaba è stata senz’altro Firenze. Vi si trasferì una prima vol-

ta nel gennaio del 1905. C’era stato già due anni prima, di pas-saggio, per recarsi a Pisa; ora, insieme con gli amici Giorgio Fanoe Virgilio Doplicher, triestini anche loro, sceglieva di vivere a Fi-renze in quanto capitale linguistica e letteraria di quella Italia cuiTrieste non era ancora riunita. Ci sarebbe rimasto per più di dueanni, senza però riuscire ad ambientarsi e a sentirsi accettato dailetterati fiorentini come Papini e Prezzolini che qualche anno piùtardi avrebbero fondato la «Voce». Su questo punto fa testo il fi-nale del decimo sonetto dell’Autobiografia, dove fra l’altro Sabarievocava le pubbliche letture di sue poesie con lo pseudonimo diUmberto da Montereale e l’incontro con D’Annunzio alla Versi-liana:

Vivevo allora a Firenze, e una voltavenivo ogni anno alla città natale.Più d’uno in suoi ricordi ancor m’ascoltadire, col nome di Montereale,

i miei versi agli amici, o ad un’accoltad’ignari dentro assai nobili sale.Plausi n’avevo, or n’ho vergogna molta;celarlo altrui, quand’io lo so non vale.

Gabriele D’Annunzio alla Versigliavidi e conobbi; all’ospite fu assaiegli cortese, altro per me non fece.

A Giovanni Papini, alla famigliache fu poi della «Voce», io appena o mainon piacqui. Ero fra lor di un’altra spece.

Nelle poesie di quegli anni fiorentini resta nitido il ricordodelle passeggiate lungo le spallette del fiume (A mamma, vv. 13-14 «Passeggiano i borghesi in riva all’Arno / torbido con violaceeombre di ponti») e delle statue di piazza della Signoria (Sereno, vv.4-6 «le chiare / forme onde in Piazza Signoria ammirato / sosto alungo, e commosso»). Non è difficile credere che agli occhi degliincendiari che animavano allora riviste come «Leonardo» e «Il Re-gno» il malinconico dannunziano calato da Trieste apparisse unsognatore poco in sintonia con il loro modernismo.

Nonostante tutto, Saba sarebbe tornato a Firenze parecchievolte ancora. Richiamato per il servizio di leva nell’esercito regio,tra il 19 aprile e il 9 ottobre del 1907 sarebbe stato internato pro-prio presso l’ospedale militare fiorentino di Monte Oliveto. Tra il1909 e il 1910 avrebbe fatto altri viaggi a Firenze anche per far vi-sita all’amico e poeta triestino Virgilio Giotti, il quale nel frat-tempo si era stabilito con la famiglia in una soffitta vicino al Pon-te Vecchio. In quegli anni riallacciò i contatti con alcuni scrittoridella «Voce» e a Firenze stampò i suoi primi due libretti: Poesienel novembre del 1910 (ma con data 1911), per la Casa Editrice

Italiana, e Con i miei occhi nel 1912, per la Libreria della Voce.Pur dopo la recensione limitativa del concittadino Scipio Slatapera Poesie uscita sulla rivista e dopo l’episodio del rifiuto da partedella redazione di pubblicare l’articolo Quello che resta da fare aipoeti, Saba collaborò alla «Voce» fra il ’12 e il ’13 con qualchepoesia, qualche novella, qualche articolo, ma sentendosi sempretenuto a una certa distanza. All’ulteriore deterioramento dei rap-porti contribuì del resto il debito contratto dal poeta con la Libre-ria per la stampa a sue spese di Con i miei occhi, che Saba avevadifficoltà a estinguere. Ma con Papini i rapporti in qualche modosi ricucirono, tanto che nelle note in calce a Figure e canti, del ’26,Saba volle chiosare il pronunciamento del sonetto dell’Autobio-grafia così: «Devo aggiungere, per amore della verità e per nonsembrare un ingrato che l’atteggiamento(e spero anche l’animo)di Giovanni Papini è andato verso di me cangiando negli ultimianni, e che quest’uomo singolare dal quale tutto, eticamente ed ar-

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SABA E FIRENZEStefano Carrai

F.G., Dettaglio fiorentino.

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tisticamente, mi divide è oggi uno dei pochi amici che mi sono ri-masti della mia generazione».

La memoria frustrante del mancato idillio con la cultura fio-rentina, poté attenuarsi di lì a poco dopo che il successo ottenutocon Figure e canti aprì a Saba le porte di «Solaria», che nel mag-gio del ’28 gli dedicò addirittura un numero unico e poi stampònelle proprie edizioni la plaquette di Preludio e fughe. Nella pri-ma metà del decennio successivo attenzione e ospitalità avrebbericevuto, rispettivamente, sulle pagine di «Pan» e di «Letteratura»,e avrebbe approfondito l’amicizia con Montale al punto da recar-si a Firenze dichiaratamente per incontrarlo, come dice la brevepoesia intitolata a Firenze nella sezione Parole:

Per abbracciare il poeta Montale– generosa è la sua tristezza – sononella città che mi fu cara. È comese ogni pietra che il piede batte fosseil mio cuore, il mio maledi un tempo. Ma non ho rimpianti. Nasce– altra costellazione – un’altra età.

Fu anche in virtù di una certa rete di amicizie che quando, al-l’indomani dell’8 settembre del ’43, Saba dovette fuggire da Trie-ste per scampare ai rastrellamenti nazifascisti scelse di rifugiarsiproprio a Firenze. Non mi risulta sia ancora emerso però che unodei motivi, se non il principale, dovette essere la presenza delsuo giovane amico Bruno Sanguinetti, al quale non a caso è de-dicata la poesia La visita che conclude il Canzoniere nella nuovaredazione preparata da Saba dopo il passaggio del fronte e stam-pata da Einaudi nella Roma liberata. Sulla figura di Sanguinetti,scomparso prematuramente nel 1950 e oggi quasi dimenticato, faluce il bel libro Storia di Bruno scritto dalla figlia Paola (Milano,Vangelista, 1997). Triestino, figlio del proprietario della maggio-re industria conserviera italiana dell’epoca, l’Arrigoni, Sanguinettisi era avvicinato ai Saba dapprima per Linuccia, suo primo amo-re. La confidenza e la stima reciproca col padre di lei erano venutecementandosi sia nell’esecrazione dell’assassinio di Matteotti sianell’ammirazione di Bruno per la poesia di Saba. Spesso il ragazzoandava a trovarlo nella sua Libreria Antica e Moderna e il poeta gliregalava o gli consigliava qualche libro per poi discuterne. Saba lochiamerà per tutta la vita affettuosamente Brunetto.

Trasferitosi a Bruxelles sul finire degli anni Venti per frequen-tare l’università, Sanguinetti entrò in contatto con il movimentodegli antifascisti italiani esuli in Belgio e aderì a quelle convinzionipolitiche. Rientrato in Italia per proseguire gli studi a Roma, nel-l’estate del 1940 fu arrestato per la sua attività antifascista e spe-dito al confino a Leonessa. Dopo poco più di un anno, per inter-cessione del padre Giorgio amico personale di vari gerarchi, il Mi-nistero dell’Interno dispose il suo trasferimento a Firenze perchéBruno potesse terminare gli studi universitari e nel contempo sirendesse utile all’azienda di famiglia che aveva una importantefabbrica a Sesto Fiorentino.

Il rapporto con Saba non si interruppe mai, se non altro in viaepistolare. Fu anche perché sapevano di poter contare sul suoaiuto che Saba, Lina e Linuccia nel ’43, scappati da Trieste in pre-da alla disperazione sull’automobile del fratello di Lina, EnricoWölfler, si diressero verso Firenze. Qui nel frattempo Bruno, sot-to la copertura dello stabilimento Arrigoni di Sesto, aveva ripresol’attività politica entrando nel Partito Comunista clandestino, fi-nanziandolo, adoperandosi su incarico del direttivo romano perestendere la rete dei militanti tra gli operai di Sesto, gli studenti(specie quelli della Facoltà di Lettere riuniti intorno ad Aldo Brai-

banti) e i giovani intellettuali come Romano Bilenchi o BrunoSchacherl. Con altri intellettuali era entrato in contatto frequen-tando Le giubbe rosse, fra gli altri Montale col quale strinse unaprofonda amicizia. Di lì a poco sarà uno dei protagonisti della li-berazione della città, contribuendo, fra l’altro, ad organizzare ilgrande sciopero del 3 marzo 1944.

Dapprima i Saba vagarono mutando indirizzo (gli «undici vol-te cambiati domicilii» di cui Saba parla in Storia e cronistoria delCanzoniere). Dalla Pensione Pendini in via Strozzi passarono al-l’appartamento in via Carducci di Ranuccio Bianchi Bandinelli, aquello di Vittorini in via Pacini, a quello di Montale in viale Ducadi Genova (oggi viale Amendola), all’altro nei pressi del Merca-to Vecchio dove Montale, commemorando la Lina all’indomanidella sua morte sul «Corriere d’informazione» dell’1-2 dicembre1956, avrebbe ricordato di aver fatto visita ogni giorno ai Saba («inquell’anno, fin che fu possibile, io non mancai mai all’appunta-mento quotidiano con Umberto e con Lina Saba»). Il penultimo ri-fugio fu in via Della Robbia, nella casa presa in affitto da MarioSpinella e preparata per accoglierli con l’aiuto di Maria LuigiaGuaita, figure di spicco entrambi della Resistenza a Firenze.Quando Spinella nel febbraio del ’44 cadde nelle mani del fami-gerato torturatore fascista Mario Carità e dei suoi compari, es-sendo divenuto il nascondiglio non più sicuro, fu per il tramite diBruno Sanguinetti e della madre dell’allora giovanissima TeresaMattei - compagna di lotta più tardi diventata la sua seconda mo-glie – che Saba e le Line trovarono rifugio nel vasto appartamen-to, in piazza Pitti 14, ultimo piano, di Anna Maria Ichino: an-ch’essa impegnata nella Resistenza fiorentina, tant’è che sarebbedivenuta la segretaria di redazione del quotidiano «La Nazione delPopolo», organo del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale.

La cronaca dei giorni di clausura in via Della Robbia è stataraccontata con dovizia di particolari da Ottavio Cecchi, anch’egligiovanissimo rifugiato sotto lo stesso tetto (L’aspro vino di Saba,Roma, Editori Riuniti, 1988), e da Mario Spinella (Firenze ’44.Saba, Montale, «alfabeta», dicembre 1983). La paura della dela-zione, l’ansia per le notizie che giungevano dal fronte, la nevrosie gli umori di Saba, il fumo della sua pipa, le conversazioni d’ar-gomento letterario e politico, le visite quotidiane di Montale e lasua voce baritonale che intona qualche aria d’opera sono gli in-gredienti principali dei loro ricordi. Nella grande appartamento af-facciato su Palazzo Pitti, poi, Saba trovò la compagnia di CarloLevi, conosciuto fuggevolmente in casa di Giacomo Debenedettia Torino nel 1922 e anch’egli nascosto presso la Ichino. La vici-nanza con la casa del pittore triestino Giorgio Settala, al 54 di viaRomana, favorì inoltre l’intensificarsi della frequentazione di luie della moglie di lui Elena.

Fu in piazza Pitti che Saba avviò la stesura di Storia e croni-storia e che riprese in mano il Canzoniere per dargli una siste-mazione definitiva. La partecipazione, sia pure solo in animo, alclima trepidante ed eroico della liberazione di Firenze e dei gior-ni immediatamente successivi fece nascere le cinque nuove poe-sie rubricate nel Canzoniere sotto il titolo complessivo 1944. Allaprima, Avevo, segnata in esordio proprio dalle allusioni a «questacasa ospitale» e a «Palazzo Pitti» visto dalla finestra, e marcata an-cor di più dal ritornello che bolla «il fascista abietto» o «inetto» e«il tedesco lurco» i quali hanno espropriato il poeta di tutto ciò cheaveva di più caro, risponde l’ultima, Dedica, composta, sulla fal-sariga della ballatetta dell’esilio di Cavalcanti, per consacrare a Fi-renze la breve serie. Inizialmente Saba vi lamentava la nostalgiadi Trieste e ripercorreva l’intero arco dei suoi rapporti con la cittàtoscana:

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Perch’io non spero di tornar giammaifra gli amici a Trieste, a te Firenzequesti canti consacro e questi lai.

Come t’amavo in giovanezza! Folliche abitavano te, t’han fatta poidifforme a tutti i miei pensieri, ostile.

Ma di giovani tuoi vidi gentilesangue un Agosto rosseggiar per via.Si rifece per te l’anima pura.

M’hai celato nei dì della sventura.

L’accenno al sangue versato dai partigiani nelle strade di Fi-renze tra il 21 e il 31 di agosto, prima che tedeschi e repubblichi-ni abbandonassero la città, fa il paio con l’accenno ai giovanipartigiani in corsa sui tetti delle case presente nella terza strofa diVecchio camino, poesia collocata in posizione immediatamenteprecedente. A questa poetica solidarietà certo non furono estraneiné i giovani comunisti che in quei mesi lo avevano aiutato a na-scondersi né la consuetudine con Carlo Levi, impegnato proprioallora nella stesura di Cristo si è fermato a Eboli e reduce dallascrittura dei saggi raccolti in Paura della libertà, la cui analisi delnazifascismo era singolarmente in linea con le idee parallela-mente esposte da Erich Fromm nel suo Fear of freedom. Il rinno-vato impegno civile e politico di Saba si esprimeva senza scherminella seconda poesia della serie, dedicata al Teatro degli Artigia-nelli, in via dei Serragli, dove in settembre vide una recita ama-toriale:

Falce martello e la stella d’Italiaornano nuovi la sala. Ma quantodolore per quel segno su quel muro!

Entra, sorretto dalle grucce, il Prologo.Saluta al pugno; dice sue paroleperché le donne ridano e i fanciulliche affollano la povera platea.Dice, timido ancora, dell’ideache gli animi affratella; chiude: «E adessofaccio come i tedeschi: mi ritiro».Tra un atto e l’altro, alla Cantina, in girorosseggia parco ai bicchieri l’amicodell’uomo, cui rimargina ferite,gli chiude solchi dolorosi; alcunovenuto qui da spaventosi esigli,si scalda a lui come chi ha freddo al sole.

Questo è il Teatro degli Artigianelli,quale lo vide il poeta nel millenovecentoquarantaquattro, un giornodi Settembre, che a trattirombava ancora il cannone, e Firenzetaceva, assorta nelle sue rovine.

Nell’autocommento di Storia e cronistoria Saba raccontòcom’era nata la poesia, ovvero che egli «si commosse assistendo,dopo la lunga orribile prigionia, ad una rappresentazione popola-re dentro la cornice di uno di quei teatrini suburbani sempre carialla sua Musa». A seguito l’autore dichiarava inoltre di aver lettosubito il testo a Levi e che questi lo aveva avvertito dell’errore ini-

ziale, dal momento che la stella a cinque punte nella fattispecie eranon quella d’Italia, bensì quella sovietica connessa a falce e mar-tello emblemi del comunismo: ma ormai il verso era nato così e ilpoeta preferì non cambiarlo. Peraltro l’adesione a quelle istanzepolitiche risulta palese, così come la simpatia per il vivace perso-naggio che recita il prologo dopo aver salutato col pugno chiusoe poi si allontana alludendo sarcasticamente alla ritirata dell’e-sercito tedesco.

Avevo e Teatro degli Artigianelli furono le prime poesie pub-blicate da Saba dopo il periodo della clandestinità: uscirono sul-la «Nazione del Popolo» del 9 ottobre 1944. Dal 20 settembre ave-vano ripreso le trasmissioni di Radio Firenze ed egli vi tenne dueletture di poesie: nella prima versi di Heine (nella versione diBernardino Zendrini a lui cara), di Foscolo e di altri poeti, nella se-conda il Ça Ira di Carducci.

Bastano le straordinarie poesie di 1944 a far rubricare Saba frai maggiori poeti della Resistenza. Ma esse non furono le sole chescrisse fra le mura della casa di piazza Pitti. Nel dicembre, insie-me a Linuccia, andò a trovare Bruno Sanguinetti e sua moglie Ma-ria Sanna nel villino che abitavano con i loro figlioletti in via del-l’Erta Canina, e lì rivide un quadro dipinto dal defunto amicotriestino Vittorio Bolaffio che un tempo era stato di sua proprietàe del quale avevano parlato insieme molti anni prima a Trieste.A Bruno e Maria dedicò la poesia già menzionata che si ispira aquell’episodio – intitolata dapprima Si fa notte, infine semplice-mente La visita – composta appositamente per figurare qualechiusa del nuovo Canzoniere, come dimostra l’eloquente esordio:«Ho scritto fine al mio lavoro; messo, / diligente scolaro, in bella,pagina / dopo pagina».

Negli ultimi tempi in piazza Pitti Saba, oppresso dalla sua ne-vrosi ossessiva, annichilito dal timore che nazismo e fascismofossero un cancro inestirpabile, aveva vagheggiato più volte il sui-cidio; ma aveva nonostante tutto lavorato indefessamente sia allamessa in pulito del Canzoniere sia alla stesura di Storia e croni-storia. Con quei preziosi manoscritti chiusi nella valigia, unodei primi giorni del gennaio 1945 partì da Firenze su una ca-mionetta diretta a Roma, lasciandosi alle spalle una città che or-mai per lui sarebbe rimasta legata al ricordo del terrore e della se-gregazione.

IL PORTOLANO - N. 49-50 11

INDICI / 1995-2004 - nn. 1-40

il Portolanoa cura di Giuseppe Giari

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La scrittura in prosa occupa nella vita di Umberto Saba uno spa-zio temporale molto ampio ma altrettanto discontinuo; a pe-

riodi piuttosto brevi di fecondità (se una parola come questa può es-sere utilizzata per un autore dalla scrittura così lenta e laboriosa) sialternano silenzi prolungati, a loro volta momentaneamente inter-rotti da tentativi sporadici e subito abortiti2; è il caso delle scor-ciatoie scritte a Trieste in pieno fascismo e rielaborate, tagliate,cambiate di segno nella Roma liberata3.

Saba giunge a Roma nel gennaio del 1945, nel tentativo di su-perare la grave crisi che lo aveva colpito a Firenze negli ultimi mesidel 19444, trovando finalmente un po’ di requie al suo dolore, af-fascinato dalla bellezza della città e dalla vitalità che vi si respira.Poche settimane dopo il suo arrivo, inizia a lavorare sull’idea dicomporre una serie di nuovi aforismi, in grado di esprimere e con-densare la mole di esperienze, di considerazioni, di sentimenti ac-cumulata fino a quel momento. Saba trova subito un settimanale,“La Nuova Europa”5, disponibile a stampare (e, cosa fondamenta-le per l’indigente Saba, a pagare) le prime scorciatoie scritte nelmese di febbraio: la collaborazione si protrarrà fino al luglio, e por-terà Saba a pubblicare sulla rivista, in sei puntate, centotrenta-quattro scorciatoie e tre raccontini.

Avevo Roma e la felicità.Una godevo apertamente e l’altratacevo per scaramanzia.Ma tuttoMi voleva beato a tutte l’ore:e il mio pensiero era un dio creatore.6

Ebbri canti e bestemmiesi levano nell’osteria suburbana. Qui purepenso – è il Mediterraneo. E il mio pensieroall’azzurro s’inebria di quel nome.

Materna calma imprendibile è Roma.7

La – quasi miracolosa – stagione romana, quando Saba si sen-te per la prima volta ebbro di felicità, non durerà a lungo; i momentipiù angoscianti per il poeta sono proprio quelli in cui percepisce lapossibile fine del sogno8. A Roma e ancor di più dopo il trasferi-mento a Milano Saba sarà continuamente assillato da problemi dinatura economica, “armato solo della […] poesia”, come si defi-nisce in una lettera del 25 marzo 1945 alla moglie Lina. In febbraio,mentre le descrive Roma come un “brillante che manda luce da tut-te le parti”, si preoccupa dell’“incubo dei soldi”, e il 16 marzo lasituazione non è migliorata: “Vedo con terrore diminuire i pochi

soldi che ho; quando non ne avrò più dovrò lasciare Roma per laspaventosa, arida Firenze; dove, oltre al resto, è finita per me ancheogni speranza di guadagnare”.

La “madre negra”9 non potrà essere adottiva, non potrà co-munque rappresentare l’approdo definitivo in nessun caso. Il pas-sato, le origini, con la forza dei loro legami, non si attraversano im-punemente.

“Che Linuccia legga Scorciatoie; si divertirà”10. Saba comuni-ca alle sue donne la prossima uscita in rivista di quelle che si chia-meranno Prime scorciatoie, contento in quel momento soprattut-to perché già gli sono state pagate (“Mi hanno dato 3000 lire”11) enon hanno subito travagli e blocchi nella scrittura (“venti giorni, perme, di lavoro”12); il compito gli pare forse più gravoso quando unasettimana dopo, in una lettera alle Line del 16 marzo 1945, Sabapuò farle partecipi del primo successo della pubblicazione: “Alla ri-vista vorrebbero già la seconda serie, alla quale sto lavorando”13;

12 IL PORTOLANO - N. 49-50

La materna Romadi Umberto Saba

Un momento di complicata felicità1

Massimiliano Pescini

Aprés Sironi.

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“Avrei già tre editori che vorrebbero farne un volumetto. Difficileè scriverle; non sempre riesco a concentrarmi, benché abbia defi-nitivamente rinunciato a inviti, anche se accompagnati dalla pro-messa della macchina all’andata e al ritorno”14.

Il meccanismo psicologico sabiano è debole di fronte al dove-re di incanalare l’ispirazione in un tempo definito; la sua capacitàcreativa fatica a reggere il passo con i normali ritmi editoriali:“Non è che non sia un lavoratore; ma lavoro così lentamente, chenon posso pensare a vivere della letteratura”15. Il lavoro a cottimogli costerà sempre un surplus di sacrifici e angosce, periodica-mente riportati nelle lettere alla famiglia: “Sto lavorando 12 ore algiorno all’introduzione al libro di Barni16, che dovrei consegnare aMondadori, il 2 o 3 Gennaio”; “Adesso, per 4 giorni, la Banca17 èchiusa […]; il mio salottino è sempre a mia disposizione (anche igiorni di festa) ma la Banca, in quei maledetti giorni, non è riscal-data. Come passerò le feste? Speravo di lavorare […]”18; “Adessodevo finire il saggio sulla mia poesia […] e poi incominciare lo stu-dio su Tolstoi. Ma sono pentito di aver accettato questo lavoro: nonmi sento di vivere, in questo momento, in compagnia di quel co-losso russo. Tuttavia dovrò farlo”19. Nonostante questa sua refrat-tarietà alla catena di montaggio culturale, le Scorciatoie e alcuniRaccontini saranno presenti con cadenza piuttosto regolare su “LaNuova Europa”, dalla prima apparizione nel numero del 18 marzo1945 a pagina 5 (Alcune scorciatoie di Umberto Saba) fino all’ul-tima, il 29 luglio dello stesso anno (Ultime scorciatoie e un rac-contino)20. Il primo a stupirsene sembra proprio l’autore: “Tenute,per quindici e più anni, nel segreto rifugio della memoria; scritte incinque mesi (pochi per l’estrema lentezza dei miei movimenti)”21;che Saba non consideri un’impresa improba portare avanti il suoprogetto lo si deduce anche dal tono del suo rammaricarsi con leLine: non fa cenno a lacerazioni interiori, incomprensioni, incom-patibilità, si limita a questioni pratiche, a lamentarsi – e, perché no,anche a compiacersi – dell’eccessiva vita mondana che gli toccacondurre, nel ruolo di guest star dotata pure di autista personale. Ilpoeta si sente oltremisura coccolato: “Una gentile giovane attricedice che mi porterebbe il caffè a letto, ed anche, ed anche, se lo de-siderassi, il caffè e la cena; che sarebbe tanto contenta di avermi acasa sua, ecc. ecc.”22. Pensando alle traversie, alle angherie, alleumiliazioni che ha dovuto subire, all’angoscia che lo ha accom-pagnato negli anni della guerra e della clandestinità fiorentina, citroveremo forse a comprendere meglio la sua esplosione vitale e sa-remo più indulgenti nel giudicare il suo orgoglio di uomo e poetaal centro dell’attenzione, riconosciuto e osannato (è indicativo chelo stesso Saba se ne renda conto e lo scriva):

Ieri sera è venuto a trovarmi Mario Spinella23. Era tutto sba-lordito, perché un suo amico scrittore (di cui non gli chiesi – chisa perché? – il nome) del quale lui ha grande stima, gli telefonò perdirgli che Saba è non solo il primo poeta d’Italia, ma il maggioredi tutti i poeti viventi […], cosa che mi sembra veramente esage-rata24.

La parola chiave di questo periodo, l’abbiamo già sottolineato,è felicità: uno stato d’animo sollevato, una curiosità nuova di sco-prire, di osservare, di conoscere, di farsi conoscere: come – quasi– sempre, la sintesi più efficace gliela regala Giacomo Debene-detti25: “come un bambino va a funghi, io vado per Roma a gloriae a Scorciatoie”26. A chi esamini lo scambio epistolare con le Line,sapendole a Firenze in condizioni economiche e morali disastrose,i lunghi excursus in cui il poeta mostra senza troppo pudore il suostato di grazia romano potranno sembrare segno di indelicatezza opeggio di egoismo: Saba sicuramente non è uomo pronto per labeatificazione, ma piuttosto, secondo la definizione di Linuccia tra-sposta nelle Scorciatoie “è un bambino con molti mezzi a sua di-

sposizione”27; questa definizione, che nella trasformazione letterariaappare come una frase scherzosa, un affettuoso buffetto sulla guan-cia di una figlia affezionata, nasce probabilmente da un momentodi contrasto tra Linuccia e il padre: la lettera28 in cui Saba trascri-ve la scorciatoia e la dedica alla figlia è un esempio di serrata giu-stificazione da parte del poeta sulle ragioni del prolungarsi delsuo solitario soggiorno romano, in risposta evidentemente o a unaserie di esplicite accuse che la figlia gli aveva rivolto o, molto piùprobabilmente, di un silenzio epistolare piuttosto lungo che il poe-ta avverte come un implicito rimprovero. La figlia capisce (fin dapiccola) che da un uomo siffatto non si possono pretendere le si-curezze e neanche le affettuosità della normalità, ma slanci inter-mittenti, chiusure ed egolatrie alternate a improvvisi momenti direale interesse, di volontà educativa e di ansie possessive tipiche diun canonico rapporto tra padre e figlia. Rosanna Saccani e Gian-franca Lavezzi, le curatrici delle Lettere famigliari, citano nell’in-troduzione al volume uno scritto autobiografico composto da Li-nuccia nel 1983:

Passava in silenzio attraverso le stanze della nostra casa, né loperdevo di vista: era un uomo che ignorava il reale, del tutto as-sente. Ricordo che da bambina mi faceva l’effetto di un’ombra[…]. Tentavo di stabilire un contatto […] mi rispondeva a mo-nosillabi, con un leggero tremito di collera nella voce […]. Ri-cordo che durante tutta la mia infanzia e adolescenza la domeni-ca pomeriggio come divertimento mi propinava la lettura di unatragedia greca […]. Avrei preferito uscire per fare una passeg-giata. Ma Saba mi implorava di restare a casa ad ascoltarlo […].Il mio matrimonio [con Lionello Giorni] fece molto arrabbiaremio Padre, che non desiderava, né aveva mai desiderato che io misposassi. Mi fa piacere pensare che non amava separarsi da me[…]. “L’ho fatta, allevata, educata, è l’unica cosa che rallegri lacasa, perché me ne devo privare?29.

Saba non sempre riesce a trasportare nella vita familiare uncomportamento ispirato ai lucidi insegnamenti che ama elargire, investe di saggio maestro, ai giovani amici. Le dimostrazioni di at-taccamento morboso alla figlia si scontrano ad esempio con le pa-cate e ironiche raccomandazioni in chiave freudiana del poeta aNora Baldi:

Non vorrei che la malattia di tua madre si fosse trasformata inte in “senso di colpa”; sentimento questo spiacevole, quanto ra-zionalmente ingiustificato, e che prende diverse forme, così chenon sempre il soggetto l’avverte nella sua vera natura. Ma tutta lanostra struttura psichica è modellata sulla nostra infanzia; e quin-di sui rapporti con i genitori. Ora questi ‘mostri’ non solo ci ren-dono il servizio di metterci al mondo senza chiederci prima ilpermesso (ed è una grave mancanza d’educazione), ma ci obbli-gano poi anche ad assistere al loro declino, alle loro malattie ecc.ecc. pretendono perfino di essere curati, consolati e via discor-rendo. Ora, cara Nora, tu fai bene ad assistere tua madre (per leie per te), ma cerca di non lasciarti contagiare30.

Il contagio, la paura di una nuova dolorosa contaminazione conil passato: il Saba del carteggio romano e milanese è figlio ribel-le, bizzosamente triste e giocoso, piuttosto che marito o padre af-fettuosamente preoccupato; la parte che si ostina a recitare nonpuò durare a lungo, così come momentanea si rivela l’illusione chela distanza fisica dalla famiglia possa liberarlo dalle scorie del pas-sato, di ogni passato, anche dal richiamo più forte e pericoloso:“E poi sto male per Trieste. Il mio attaccamento a Trieste tu nonlo puoi capire”31. La sua città sta cambiando pelle, è così infero-cita negli odi di razza e così immersa nella sua disperata deca-denza da non farsi quasi più riconoscere, non è che lo squallido in-

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volucro della Trieste di trent’anni prima, al culmine del suo splen-dore culturale ed economico; quella del rifiuto totale sembra essereper Saba la via più lineare da seguire, da proclamare: “Quello chein nessun caso ti posso promettere è di stabilirmi – per mia vo-lontà – a Trieste. Tutti i ponti sentimentali tra me e Trieste sonorotti, e spero per sempre”32. Con la figlia è ancora più deciso, piùtragicamente duro: “Ho il terrore di Trieste, che mamma mi chia-mi laggiù. Sarebbe come andare in Germania, al tempo di Hi-tler”33. Una violenza linguistica assoluta, innaturale, tanto ecces-siva da destare il sospetto di essere falsamente, fallacemente li-beratoria. Impossibile non correggersi, non doversi correggere;quando scrive a un giovane amico triestino, sente il bisogno di fre-narsi, di precisarsi:

Non pensare a Trieste. Io ho il terrore di doverci ritornare[…]. Che città! Che gente! Che barbe! Perché ci è venuto in men-te di nascere laggiù? Ma non siamo, figlio mio, ingrati: molti deinostri “splendori” li dobbiamo proprio al cielo e al mare di Trie-ste. E ad averli nel sangue34.

Alla fine dei giochi, degli interludi più o meno ariosi, le illusionisaranno definitivamente perdute e l’identificazione con Trieste to-tale; la madre vera lo attrae inevitabilmente a sé, e lo riporta al-l’orgoglioso status di tutta un’esistenza poetica (Io ero fra lor diun’altra spece, aveva scritto all’inizio del secolo il giovane Sabadopo i contatti con gli intellettuali della “Voce”): un triestino nonpuò abbandonare la sua condizione di ‘periferico’, se non vuole ri-schiare di perdere la sua stessa identità.

La contemporaneità dà quello che può, e l’Italia non ha mai ca-pita Trieste. Gli italiani sono neri o rossi […] e Trieste (cioè la miapoesia) era azzurra35.

L’azzurro è il colore degli spazi aperti, infiniti e in Saba rap-presenta visivamente la sensazione di libertà che rende possibilel’espressione poetica:

L’Italia culturalmente – chi non lo sa? – è un grande, grandis-simo paese, e Trieste appena una città; culturalmente fu anche unacittà arretrata, barbara, primitiva. Ma quel grande paese era – come

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Roma, Ponte e Castel Sant’Angelo (fine XIX secolo).

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si è visto – nero o rosso, raramente azzurro. Trieste invece era az-zurra. Bastava arrivarci dal Veneto per avere l’impressione di unorizzonte che si apriva.36

L’azzurro è anche il colore del Mediterraneo nella poesia Ebbricanti, poco sopra citata. Trieste ha il colore del mare:

UN UOMO (profondamente influenzato dalla madre) andòda un chiromante. Questi gli disse che il suo destino era sul mare.L’uomo […] stupì; si credette frodato. Aveva ragione il chiro-mante. La vita ricorda le sue origini; ricorda di essere nata dalleacque; e – per l’inconscio – mare = ma(d)re.37

Il nesso tra la città e l’origine della propria poesia è per Saba unlimite invalicabile; la sua è un’ammissione dolorosa, sofferta finoquasi al vittimismo, ma è anche una resa incondizionata:

Nessuno capirà mai nulla di me; l’Italia mi ha perduto come haperduto Trieste. Perché, se la mia poesia è – come ogni poesia –un’interpretazione totale del mondo, questo mondo è veduto daTrieste, non da Cesena o da Predappio, o da Firenze. E nemmenoda Roma.38

NOTE

1 Per i testi citati con maggiore frequenza nell’articolo verranno utilizzate in notale seguenti sigle e abbreviazioni:U. Saba, Tutte le prose, a cura di A. Stara, con un sag-gio introduttivo di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2001 verrà sempre citato comeT. Pr.; U. Saba, Tutte le poesie, a cura di A. Stara, introduzione di M. Lavagetto, Mi-lano, Mondadori, 1988 sarà sempre siglato come T. Po.

2 La lotta di Saba con la scrittura in prosa è documentata nell’epistolario. Saba nonnutre dubbi sulla sua grandezza poetica, la considera un dato di fatto: si mostra feritoe incompreso quando questa viene misconosciuta da alcuni critici, e si sfoga spesso perquelle che ritiene vere e proprie ingiustizie. Molto più contrastato il giudizio sulle pro-prie qualità di prosatore: una lettera ad Ettore Serra del I agosto 1931, durante il lun-go letargo creativo tra le due guerre, testimonia uno dei numerosi momenti di sfidu-cia (attenuata forse dall’autoironia), di rinuncia a misurarsi con un genere che Saba sen-te più ostico: “Avevo incominciato un libro di prosa; ma pare che la forma narrativanon sia cosa per me; quello che finora ho fatto (due o tre pagine) non ha soddisfattoné me né i miei amici. L’unica persona alla quale sono piaciute è … mia moglie”; inE. Serra, Il tascapane di Ungaretti – Il mio vero Saba e altri saggi, Roma, Edizionidi storia e letteratura, 1983, pp. 79-80.

3 Il 31 maggio 1946 Saba scrive alla figlia Linuccia: “Quarantotti mi ha rimanda-te, a mia richiesta, le prime Scorciatoie, quelle triestine […] Alcune sono state per me,a rileggerle, una sorpresa. Cattive sono! Nate, voglio dire, sotto la stella dell’aggres-sione. (L’opposto di quelle romane)”, in U. Saba, Atroce paese che amo, Lettere fa-migliari (1945-1953), Milano, Bompiani, 1987, p. 63.

4 Il 31 dicembre, in una lettera disperata, chiede alla moglie e alla figlia il permesso‘di mettere fine a questa atrocità del destino’” (Cronologia, in T. Pr., p. LXIX).

5 Rivista settimanale di politica, arte, cultura fondata da Luigi Salvatorelli nel-l’immediato dopoguerra.

6 Da Gratitudine (vv. 1-7), contenuta nella raccolta Mediterranee, T. Po., p. 546.7 Da Ebbri Canti (vv. 1-5) in Mediterranee, T. Po., p. 543.8 Cronologia, in T. Pr, p. LXIX.9 Scorciatoia n.69, in T. Pr., p. 36: “ROMA – m’hanno detto – è come una madre

negra. Piena di abbominevoli difetti. Ma le madri negre – aggiungo io – sono le piùamorose – e quindi le migliori – del mondo”.

10 U. Saba, Atroce paese che amo cit., p. 3 (Lettera alle Line del 9 marzo 1945).11 Ibidem.12 Ibidem.13 Ivi, p. 5.14 Ivi, p. 6.15 Ivi, p. 9.16 Ora in T. Pr., pp.898-951 con il titolo Di questo libro e di un altro mondo.17 Saba si riferisce alla sede della Banca Commerciale Italiana, di cui era presidente

Raffaele Mattioli, ‘novello mecenate’ per tanti scrittori e progetti letterari del secon-do dopoguerra italiano. A Raffaele Mattioli, in segno di gratitudine, Saba dedicherà laprima edizione di Scorciatoie e Raccontini.

18 Ivi, p. 28 (la lettera è scritta da Milano il 22 dicembre 1945).19 Ivi, p. 36 (lettera da Milano del 29 gennaio 1946). Il saggio su Tolstoi creò non

poche difficoltà a Saba, che lo lasciò incompiuto, fortemente insoddisfatto del suo la-voro. Il saggio è riportato in T. Pr., pp. 952-55 con il titolo Introduzione al diario del-la moglie di Tolstoi (prima, sommaria stesura); le fasi della scrittura vengono rico-struite da Arrigo Stara sul base del carteggio di Saba con Alberto Mondadori in T. Pr.,pp. 1433-34.

20 Riportiamo, per comodità del lettore, le altre date di apparizione in rivista: 8 apri-le (sotto il titolo Altre scorciatoie), 29 aprile (Terze scorciatoie), 27 maggio (Quartescorciatoie e un raccontino), 24 giugno (Quinte scorciatoie e un raccontino), 29 lu-glio (Ultime scorciatoie e un raccontino).

21 Scorciatoia n. 161, in T. Pr., p. 78. Questa scorciatoia, numerata 161 nella pub-blicazione in volume, chiudeva invece la serie di Scorciatoie apparse su “La Nuova Eu-ropa”; Saba, pur anticipandone la posizione, non ne corresse la forma, tipica di un ren-diconto conclusivo.

22 Da una lettera alle Line del 25 marzo 1945, riportata nell’introduzione ad Atro-ce paese che amo cit., p. XVIII. Le curatrici del volume informano in nota che la “gen-tile giovane attrice” è Elsa De Giorgi, che frequentava in quel periodo gli ambienti in-tellettuali comunisti vicini a Saba. Una curiosità: la De Giorgi avrà negli anni cinquantauna lunga storia d’amore con Italo Calvino: cfr. I. Calvino, Lettere, Milano, Mon-dadori, 1999.

23 Intellettuale comunista amico di Saba dai tempi della clandestinità, è protago-nista di due Scorciatoie, la n. 87 e la n. 89; cfr. T. Pr., pp. 43-44.

24 Atroce paese che amo, cit., p. 9.25 Giacomo Debenedetti (1901-1967), amico ed estimatore di Saba, è stato uno dei

più grandi critici letterari del Novecento.26 Atroce paese che amo, p. 13.27 “PAPÀ – diceva una giovanetta a una giovanetta sua uguale – è un bambino con

molti mezzi a sua disposizione”: è il testo integrale della Scorciatoia n. 78, la primadelle Quarte scorciatoie (T. Pr., p. 40).

28 Ne riportiamo degli stralci, da Atroce paese che amo, cit., p. 19, per consentireal lettore una sua consapevole interpretazione: “Linuccia mia. Scusami il tono irrita-to di questa lettera. Ti assicuro che lo si sarebbe per molto meno! Non saper nulla divoi è grave per me. Non posso muovermi da Roma, perché aspetto di giorno in gior-no le seconde bozze del primo volume (del Canzoniere edizione Einaudi ndr.). Se nonfosse per questo, avrei già iniziate le lunghe pratiche per venire a vedervi a Firenze,benché per me Firenze e la morte sieno sinonimi. E nessuno fuori di me può fare que-sto lavoro. A Firenze non le avrei avute mai più […]. Nel dubbio che vi sia nato qual-cosa, che una di voi due o magari tutt’e due stiate male, non so cosa scrivervi”.

29 Queste note autobiografiche di Linuccia Saba sono apparse per la prima voltain “Linea d’ombra”, 2, speciale estate 1983. Le troviamo riportate in Atroce paese cheamo, cit., introduzione di Gianfranca Lavezzi e Rosanna Saccani, pp. XIII-XIV.

30 N. Baldi, Il paradiso di Saba, cit., p. 39 (la lettera è datata 15 maggio 1953).31 Atroce paese che amo, cit., p. 18 (lettera del maggio o del giugno 1945 a Li-

nuccia).32 Ivi, p. 36 (lettera da Milano del 29 gennaio 1946 a Lina, che intanto è ritornata

a Trieste).33 Ivi, p. 39 (lettera del 10 marzo 1946 a Linuccia).34 U. Saba - P.A. Quarantotti Gambini, Il vecchio e il giovane. Carteggio 1930-

57, Milano, Mondadori, 1965, p. 37.35 Lettera alla figlia Linuccia del 25 marzo 1947, dalla Cronologia di T. Pr.,

p. LXXII.36 Storia e cronistoria del Canzoniere, in T. Pr., p. 349.37 Scorciatoia n. 86, in T. Pr., p. 43.38 Il corsivo è nostro. Anche questa lettera a Linuccia è tratta dalla Cronologia di

T. Pr., p. LXXII.

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COSA ATTENDERSIDALLA CRITICA

“Le Monde des livres” indaga sul tema “Cosa viaspettate dalla critica?”. Rispondono uno scrittore, unlettore, un libraio, un editore. Il risultato non è mal-vagio : tema azzardato si dice, che tuttavia pone allacritica la responsabilità di rifugio, di strumento disalvezza, di rimessa in discussione (remise en cause)del quadro mentale, dando allo stesso tempo il gustodella complessità del mondo. Ed ancora – e prima ditutto – è da perseguire l’impegno a difendere nonsolo la lettura engagée, ma anche la lingua vivente.Abbandonare la letteratura della “torre d’avorio” eimpegnarsi per averla e prospettarla in “primapagina”. Dissodare e decifrare, con un po’ di distanzae molta pazienza (dall’editore e dallo scrittore). E dif-fidare delle accelerate focalizzazioni sugli avveni-menti mediatici.

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Scrivendo ad Alfredo Rizzardi nel 1951, Saba inviava una«poesia in tre stati» alle cui prime due stesure corrispon-

denti alle elaborazioni della nota Favola leopardiana L’Uccel-lo se ne aggiungeva, «sacrilegamente» rimaneggiata dal poetatriestino, una terza, il cui tema (l’apertura della «dipinta gab-bia» in cui «era educato un tenero / e feroce uccelletto» e laconseguente fuga di questo per «amore di libertà») non eranuovo alla poesia crepuscolare né a quella sabiana. Ci sovvie-ne, in particolare, d’un sonetto di Corazzini, La gabbia, dacui gli uccelli («i cari a Leonardo cantori») «fuggiron via peicieli ampi e sonori, / desiosi di più limpidi maggi» lasciando lagabbia-anima «triste e pur fidente» d’un ritorno («Or fattamuta de’ suoi canti onde era / superba, […] / la gabbia triste epur fidente sta: / come l’anima mia che più non spera / e con-tinuamente si martira / in un desio di giocondità»). Con lastessa immagine, com’è noto, s’apre, nella Favoletta alla miabambina, il sipario di Cose leggere e vaganti, in questo caso nelnome d’un merlo («Un merlo avevo coi suoi becchi d’oro / cer-chiati, col palato e il becco d’oro») che un giorno, improvvi-samente, «fuggì». Gli ultimi versi esprimono il dolore del poe-ta per la fuga del volatile:

[…] di tetto in tetto errando,più sempre in vista piccolo e lontano,irridere pareva al grande miodolore, al disperato dolor mio.Quel che ho sofferto non puoi bimba tusaperlo; tutto era perduto; e quandoio non piangevo, io non speravo più,

l’alato amico ritornò egli soloalla sua casa, all’esca d’un pinolo.

Se, come espresso dall’automitografo Saba-Carimandreinella Storia e cronistoria del Canzoniere, il filo che lega le do-dici poesie di Cose leggere e vaganti è rappresentato dallo sta-to d’animo che «inclinava il poeta ad amare le cose che, per laloro leggerezza, vagano […] sopra e attraverso le pesantezzedella vita», il leggero merlo, in antitesi al principio temporale,logorante del «dolore» che «trasmuta» la vita lasciandosi allespalle il «fanciullo bennato» e che ritorna in Sopra un ritrattodi me bambino, assurge a chiara figura dell’infanzia repressadalla maturità. È infatti una costante, nell’opera di Saba, l’uti-lizzo del simbolo ornitologico (nella fattispecie il merlo) qua-le correlativo oggettivo «agente» della fanciullezza. Prima di ri-comparire «entro spaziosa gabbia» nella cameretta di Erne-sto, il merlo Pimpo (Bimbo sonorizzando le bilabiali), «l’ala-to amico della mia infanzia» nella Scorciatoia 118, faceva ca-polino nel negozio d’animali in cui, nel racconto La gallina, sirecava il protagonista Odone Guasti nel tentativo (destinato afallire) di regressione così ben descritto da Lavagetto nel suo li-bro. Il «desiderio» di Odone, prima di soffermarsi sulla galli-na, «si posò sopra un merlo […] nel cui becco d’oro si divin-colava una mezza dozzina di vermetti […] socchiudendo […]

gli occhietti tondi e cerchiati del medesimo oro fino del becco»,preparando così l’immagine della Favoletta («Un merlo avevo,coi suoi occhi d’oro […]/ cui di pinoli e di vermetti in serbo /nascondevo un tesoro») e inscrivendola nel quadro di recupe-ro infantile che caratterizzava il racconto del ’13. Ma non di-mentichiamo il merlo-occasione di Eleonora, «la poesia più an-gosciata dell’angosciato Cuor morituro» in cui contemplando,in un’osteria, la grazia d’una fanciulla (uno dei tanti «angeli»di Saba) il poeta «si solleva (aiutato in ciò anche dalla vista diun merlo […]); per giungere poi […] ad un canto di liberazio-ne e gratitudine» e, soprattutto, i versi d’Infanzia nel PiccoloBerto, in cui l’accostamento merlo-fanciullo esplicitamente sipalesa: «Al merlo austero m’identificavo; / uno stornello era ilfanciul vivace […] / E ora addio, / ma non per sempre, amatainfanzia […]».

Ancora nella Favoletta, in forza di un inciso di profonda in-tensità semantica che, con tutta probabilità, avrebbe ispiratotempo dopo l’Ungaretti del Dolore (nel componimento di Sabaleggiamo «tutto era perduto», mentre il libro ungarettiano del’47 esordiva con l’epigrafico «tutto ho perduto dell’infanzia»)assistiamo nella prima parte della lirica alla fuga di Pimpo-bim-bo («Quel che ho sofferto non puoi bimba tu / saperlo […]»)salvo poi nel distico conclusivo sorprendere, inaspettata quan-to involontaria, la possibilità del ritorno («l’alato amico ri-tornò egli solo / alla sua casa, all’esca d’un pinolo», immagi-ne che si ripresenterà identica nel Dialogo di Quasi un rac-conto). E proprio questo, dei moti del cuore ridestati dagli uc-celli, della significazione e del tempo perduto ritrovati, costi-tuisce un singolare e appassionante capitolo del «romanzo poe-tico» di Saba, preparato fin dai primi libri del Canzoniere egiunto a compimento nelle ultime raccolte, Uccelli e Quasi unracconto. Nella Storia e cronistoria, l’autore autoantologizzaun componimento giovanile, il Notturnino (si chiamava, nelprimo Canzoniere, A Lina) che esprime con chiarezza, memo-re de L’Infinito leopardiano («mi risovvenne»), l’«occasione or-nitologica» in Saba: «Primieramente udii nella solenne / notteun richiamo: il chiù. / Dell’amore che fu, Lina, mi risovvenne./ […] Strinse il cuore un rimpianto / di te; ti chiesi dell’oblioperdono».

L’elemento ornitologico (il canto del chiù) ha qui il compi-to di ricondurre, sanando la lacerazione temporale, l’amore«che fu», ora sepolto dall’oblio che ha portato il poeta, nel tem-po, a dimenticare il giovanile amore per Lina. L’occasione delritorno, del tutto casuale, ha come effetto di stringere il cuore.In sostanziale accordo con questa «epifania giovanile» suone-ranno i versi (dal poeta ritenuti «particolarmente cari») di Que-st’anno in Uccelli: «Quest’anno la partenza delle rondini / mistringerà, per un pensiero, il cuore […] Alla mia solitudine lerondini / mancheranno, e ai miei dì tardi l’amore». A segni in-vertiti: nel Notturnino, «strinse il cuore» un rimpiantodell’«amore che fu», in Quest’anno a «stringere il cuore» è lapartenza delle rondini, apportatrici d’amore in vecchiaia. L’in-teresse di Saba verso i volatili (lo aveva notato, in una brevenota a Uccelli, Vittorio Sereni) è sempre rivolto alla loro ca-

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Il fanciullo e gli uccelliTommaso Tarani

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pacità d’irrompere,sciogliendo il ghiacciodel dolore, nel tempo,apportando una pausaliberatrice e regressivacapace di porre in con-tatto l’uomo col fan-ciullo. In contrapposi-zione alla terra, all’ac-qua e ad ogni simboloallusivo di temporalitàe divenire, l’uccello diSaba è dotato d’una«verticalità» che lo ac-comuna al le tante«piccole cose leggere»in cui s’oggettiva, inmisura sempre cre-scente nel corso delCanzoniere, quel pas-sato che «ritorna daogni parte», attestan-dosi inoltre come sim-bolo sospensivo, atem-porale, avverso allamorte. Del resto, i lpoeta non avrebbe in-serito, nella Scorcia-toia 147, una quartinadella montaliana Lin-dau se non per renderepiù esplicita, nell’in-terpretazione, la corri-spondenza uccello-amore contrapposta al-l’acqua-divenire-Mor-te: «La rondine vi por-ta fili d’erba, non vuo-le che la vita passi. /Ma tra gli argini a notte l’acqua morta / logora i sassi». Sabacommenta: «La rondine (che non vuole che la vita passi) èl’amore; l’acqua morta […] l’istinto di Morte», rafforzando (loabbiamo visto in Notturnino e in Quest’anno) il binomio ron-dine-amore nell’interruzione temporale («non vuole che la vitapassi») opposto al principio acquatico-mortuario («l’acquamorta») che, nella Storia e cronistoria, veniva addotto nell’a-nalisi de Il torrente a proposito dell’«acqua fuggitiva», sugge-rendo un significativo confronto tra «[…] la vita nostra e quel-la della corrente».

Ma una delle poesie in cui meglio s’esprime l’alternativa al“dolore” rappresentata dai volatili e la loro «verticalità» è Con-fine, una delle «più umane e, per il soggetto, familiari di Saba».In essa, orchestrata su di un ritmo binario in cui vediamo op-posti terra e cielo, leggerezza e gravità, l’immagine d’un pas-sero incarna il desiderio di trascendenza del poeta, inverso alsuo «dolore d’uomo»: «Parla a lungo con me la mia compagna/ di cose tristi, gravi, che sul cuore / pesano come una pietra[…] / Un passero / della casa di faccia sulla gronda / posa unattimo, al sol brilla, ritorna / al cielo azzurro che gli è sopra.O lui / tra i beati beato! Ha l’ali, ignora / la mia pena secreta,il mio dolore […]».

Tutti questi temi e simboli trovano, adeguatamente sistematinegli ultimi due libri del Canzoniere (Uccelli e Quasi un rac-conto) una degna consacrazione: ritroviamo, nella lirica omo-

nima, il merlo, parte diquel mondo infantileal quale «in sogno ri-torno ancora», le ron-dini (Cielo e Que-st’anno), i «passericinguettanti», uccelliperlopiù allusivi d’untempo perduto che nonsempre al poeta è datoriacciuffare (molte li-riche, da Il fanciullo el’averla a L’ornitolo-go pietoso ripropongo-no infatti, debitamen-te variato, il tema del-la «fuga» di cui la Fa-voletta è archetipo).Ma è solo nel librosuccessivo che Saba sir iappropria, racco-gliendo il materialedisseminato per tutto ilCanzoniere, dell’«in-termittenza ornitologi-ca» come avviene inMomento (che ripren-de, tra l’altro, il temadi una Canzonetta, le«persiane chiuse»):«Gli uccelli alla fine-stra, le persiane / soc-chiuse: un’aria d’in-fanzia e d’estate / chemi consola. Veramenteho gli anni / che so diavere? O solo dieci?[…]». Ma ancor piùchiara è la poesia A un

giovane comunista: «Ho in casa – come vedi – un canarino./[…] Torno, in sua cara compagnia, bambino». Mai così inna-morato delle creature, nella sua ultima stagione poetica Saba ri-torna al francescanesimo inconsapevole che aveva ispirato lapoesia A mia moglie (in Quasi un racconto Lina è vista nella«canarina azzurra», come Carletto nel canarino), scorgendodietro agli uccelli, «creature di Dio e del sole» persino il ri-cordo della «balia adorata» (in Risveglio). Si tratta infine, comeespresso dal poeta nella Storia e cronistoria, dell’amore delfanciullo per gli animali che, «per la semplicità e nudità dellaloro vita» avvicinano a Dio, «alle verità […] che si possonoleggere nel libro aperto della creazione».

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F.G., Oiseaux.

“Poeta è colui che, al di sopradel frastuono snervante del ritmoquotidiano, sa ascoltare una fogliache cade. Ne è testimone e laraccoglie in nome dell’uomo assente”

(Mario Luzi, 1978)

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Adiciassette anni non amavo andare a scuola, studiare; amavo piut-tosto essere innamorato, correr dietro alle ragazze. E per avere

qualche soldo da spendere per offrir loro il cinema o la consumazionepersi dentro in qualche caffeuccio dell’Acquedotto, un paio di volte allasettimana facevo il cameriere in un circolo sportivo dalle parti di piaz-za Sant’Antonio dove di sera si ballava. Cosa che facevo anche d’esta-te per lo stesso circolo in un campetto all’aperto dove principia il Bo-schetto nel rione di San Giovanni. Ma d’estate, rinunciando di andareal mare a Barcola, per tirar su qualcosa di più che non gli spiccioli del-le percentuali sulle consumazioni e delle mance, andavo “in piazza” lamattina presto per farmi prendere a giornata come scaricatore in porto.Là sì che i soldi fioccavano tanti, si sgobbava, ma era un bel tornare acasa la sera con in tasca fogli addirittura da diecimila lire (ed era il1957!). Ma non solo per i soldi andavo al porto` là facevo esperienzeche a scuola non mi sarebbe capitato di fare. Stavo con la gente del por-to: i portuali. Gente di tutte le età, anche ragazzi come me, forse qual-che anno più vecchi, ma che avevano già messo su casa con moglie e fi-gli. “Studia – mi dicevano – a noi toccherà far sempre `sta vita, studia,non far come noi che non avevamo voglia”. Uno, avrà avuto poco piùdi vent’anni, mi prese a ben volere, mi voleva sempre con lui in squa-dra. Stavamo insieme in locanda, non voleva che tirassi fuori mai unalira (“tu sei studente – diceva), pagava sempre lui. Era sposato conuna bella ragazza, operaia in una fabbrica in porto, ma dopo il matri-monio aveva voluto che lei lasciasse il posto e rimanesse a casa. La vi-ziava comprandole quello che voleva: tutti i tipi di elettrodomestici e ra-dioline a transistor, eppoi i regalini: gli ori, i giri di catenine, orecchi-ni, anellini… per non dire del ciarpame inutile di soprammobili, orolo-gi, ninnoli, quadretti, pupotti, bamboline… Lui era felice, non parlavache di lei, del bene che le voleva e di come stavano bene a far l’amore…Il mio amico era sempre allegro, ma capitò un giorno che venne in por-to scuro in viso, serio, non rideva né aveva voglia di parlare, e il gior-no dopo idem, ma verso sera agganciando un’ultima imbragata di cari-

co per la stiva cominciò a cantare. Una canzone che da bambino senti-vo cantare da mia madre: “La mia piccola rondine è fuggita, senza la-sciarmi un bacio, senza un addio partì. Non ti scordar di me, la vita mialegata a te…”.

La canzone era triste e più triste ancora sentirla cantare da lui con ras-segnata disperazione. Faceva impressione guardarlo: stava in piedi, inalto sul vagone, la figura contro la sagoma scura della nave e sopra ave-va il cielo blu che andava scurendo col tramonto. Cantava voltato versofuori, senza badare a nessuno. Era un’invocazione, una preghiera. La gio-vane moglie si era stancata di tutti quei “balocchi” casalinghi e se n’eraandata di casa con un graduato di marina. Faceva pena il dolore di quel-l’uomo. Il suo canto dava voce agli amori infelici passati e a venire di tut-to il mondo… Molto tempo dopo tra le poesie della raccolta “Preludi ecanzonette” (1922-1923) mi capitò di “vedere” descritta da UmbertoSaba la stessa scena. Nella poesia Il canto di un mattino il poeta dice diun giovane marinaio che mentre toglie la gomena dalla bitta canta:

Da te cuor mio, l’ultimo canto aspetto,/e mi diletto a pensarlo frame.// Del mare sulla riva solatia,/ non so se in sogno o vegliando, ho ve-duto,/quasi ancor giovanetto, un marinaio/ La gomena toglieva allacolonna/ dell’approdo, e oscillava in mar la conscia/ nave, pronta a sal-pare./ E l’udivo cantare,/ per se stesso, ma sì che la città/ n’era inten-ta, ed i colli e la marina,/ e sopra tutte le cose il mio cuore:/ “Meglio– cantava – dire addio all’amore,/ se nell’amore è l’infelicità.”/ Lieto ap-pariva il suo bel volto; intorno / era la pace, era il silenzio; alcuno/ névicino scorgevo né lontano;/ brillava il sole nel cielo, sul piano/ vasto delmare, nel nascente giorno.// Egli è solo, pensavo or dove mai/ vuole ap-prodar la sua piccola barca?/ “Così, piccina mia, così non va”/ dicevail canto, il canto che per via/ ti segue; alla taverna, come donna/ di tut-ti, l’hai vicino. /Ma in quel chiaro mattino/ altro ammoniva quella voce;e questo/ lo sai tu, cuore mio, che strane cose/ ti chiedevi ascoltando: orse lontana/ andrà la nave, or se la pena vana/ non fosse, ed una colpail mio esser mesto./ Sempre cantando, si affrettava il mozzo/ alla par-tenza; ed io pensavo: È un rozzo/ uomo di mare? O è forse un semidio?//Si tacque a un tratto, balzò nella nave;/ chiara soave rimembranza in me.

Delle poesie di Saba questa – e nel Canzoniere tantissime vi sonocertamente più belle e che di più ammiro – sento ancora oggi essere lapiù mia.

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“Meglio – cantava – dire addio all’amore,se nell’amore è l’infelicità”

Claudio Grisancich

a Umberto Saba

Trieste.

A “SAVONAROLA” PERLUCIANO MARTINI

C’erano ben venti celebranti alla messa funebre perLuciano Martini. Tanta gente, della comunità di PadreBalducci, della Madonna della Tosse, dell’Università,di Seano ov’è ancora lo “studio” di scultore di suopadre Quinto.C’era un clima dolce, fraterno, che non sapeva dimorte, come ormai capita raramente: per un momento,quasi una comunità cristiana, come Luciano avevateorizzato e invocato tante volte. Alla fine, nessunovoleva andar via da quel marciapiede di piazza Savo-narola, che raccoglieva testimonianza di quanto la vitadi Luciano fosse stata umilmente pervasiva di valoripositivi. Teresa, sua moglie, vicina da sempre, inca-pace di allontanarsi. E davvero tanti, tanti amici. Que-sto aprirsi dell’anno è stato impietoso: Parronchi, Maz-zoni, ora Luciano.

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L’unico romanzo, incompiuto, di Umberto Saba, Ernesto, vienepubblicato, postumo, nel 1975 per le edizioni Einaudi. Son pas-

sati ventidue anni dalla sua stesura, tanti ha impiegato la figlia Linuc-cia per interpretare l’autentica volontà del padre che comunque avevascritto, in una lettera all’amico Bruno Pincherle, di un’opera “impub-blicabile” (“non per i fatti narrati ma per il linguaggio”). Linuccia, chevive a Roma, fa leggere il manoscritto agli ‘intimi’ dell’ambiente ar-tistico della capitale (ma da tempo molti addetti ai lavori ne parlano, stadiventando una sorta di leggenda letterario-metropolitana) tra cui ElsaMorante, che già aveva sentito passi del romanzo dalla viva voce delpoeta ed è proprio il giudizio da sempre entusiastico della scrittrice perquelle pagine (insieme, forse, a qualche considerazione di caratterecommerciale) a convincerla perché si stampi. La Morante, infatti, scri-ve la quarta di copertina della prima edizione del volume e parla diSaba, per la “purezza assoluta” dell’opera, come di un “santo”. La pri-ma edizione contiene una significativa Appendice: “Tredici lettere diUmberto Saba in cui si parla di Ernesto, con una nota di Sergio Mi-niassi”. Miniussi è un poeta triestino (monfalconese per la precisione,trapiantato pure lui a Roma – ha lavorato come programmista allaRAI, dove è morto nel ‘91) che è sempre stato, tra i pochi, sinceramentevicino a Saba (tra Saba e Trieste e viceversa vi è stato da sempre, permotivi su cui non è possibile soffermarsi, un rapporto di ‘amore-odio’)e, con ogni probabilità, Linuccia lo ha ritenuto la persona più giusta per‘spiegare’, forse ‘giustificare’ (evidentemente lo ritiene necessario), at-traverso il commento a quelle lettere, il romanzo. Da qui, dal com-mento a quelle lettere ‘in cui si parla di “Ernesto”’, è nata l’idea, a mee a Claudio Grisancich (il poeta dialettale più importante della città, au-tentico erede di Virgilio Giotti), di scrivere e mettere in scena “Storiadi Ernesto S.”, da quelle lettere e, per un effetto trascinamento, da al-tri libri che approfondivano, in vari modi e da punti di vista diversi, iltema fondamentale sotteso ad “Ernesto”, lo stesso del “Canzoniere”:l’autobiografia, l’indissolubilità tra vita ed opere, dichiarata esplicita-mente, teorizzata, ma anche l’incapacità ad uscirne (per citarne solo al-cuni: Stara, Tutte le prose – Lavagetto, Per conoscere Saba – Marco-vecchio, La spada d’amore – Baldi, Il paradiso di Saba – Voghera, Glianni della psicanalisi, ecc.). Il romanzo, infatti, è un capolavoro pro-prio per la capacità di Saba, a settant’anni giusti, nelle pause del disa-gio nevrotico che non lo abbandonerà mai, stanco di scrivere poesia(vedremo subito perché), di ritrovare la gioia, il piacere della scrittu-ra, con la maturità stilistica e linguistica della maturità ma al tempostesso con la naturalezza, la spontaneità, quasi ingenuità del ragazzo disedici anni protagonista, Ernesto, che altro non è che una maschera (fat-ta più per giocare che nascondere, per sdrammatizzare, rendere tutto‘leggero’) di Saba stesso, del Saba sedicenne, rivisitato, rivissuto.E quale miglior lingua, per rievocare, riscrivere la sua iniziazione ses-suale ‘diversa’, di un dialetto triestino purificato e semplificato fino allasua musicalizzazione, fino a farne quasi una cantilena, una nenia comele nenie della sua balia adorata.

Sicché, leggendo il libro, si entra in una atmosfera, come dire, ma-terna, femminile e, non a caso, scrivendo al “caro e bravo amico Qua-rantotti Gambini”, Saba confessa di star scrivendo quel romanzo “su alidi colomba, in gara tra lui e la morte, in una crisi di maternità…, un ro-manzo è un parto, una poesia è una erezione, ma è difficile spiegarsiper lettera”… Perché la poesia come ‘maschio’ e il romanzo ‘femmi-na’? Perché in quel momento, appunto, a Saba interessa meno l’esta-si creativa, l’attimo ‘alto’, generativo, della produzione poetica quan-to piuttosto ‘tirare le somme’, la ricostruzione concreta, certamente‘travagliata’, in forma di dialettica biografico-narrativa, della sua in-fanzia/adolescenza da dove tutto, psicanaliticamente, è partito, che inbuona parte spiega la sua vita, prossima, inevitabilmente, alla morte.

Eppure Saba, per quanto ‘la bolla’ possa durare (da qui la sua in-compiutezza: “se continuasse perderebbe quella gioia, quell’‘aria mo-nellesca’, in nessun caso grave”… – lettera a Linuccia del luglio 1953),compie il ‘miracolo’: ‘omosessualmente’, parto ed erezione coincido-no, il romanzo, soprattutto attraverso i dialoghi e per le atmosfere cheessi creano, è impregnato di poesia, della musicalità di cui si diceva,della ‘purezza’ di cui aveva parlato Elsa Morante.

Lo spettacolo cerca dunque di cogliere quel momento, quel perio-do (praticamente l’estate del ’53) in cui Saba si trova a vivere questisentimenti contrastanti, la gioia restituita dalla pagina scritta, il dolo-re del ricordo vivo, passato e presente: perché crede che solo la scrit-tura è terapeutica, sa dargli pace, lo riconcilia con se stesso e con larealtà, e ciò non senza qualche problema (si veda la puntuale inter-pretazione di Anna Maria Pavanello Accerboni, docente di Filosofiae studiosa di Storia della psicanalisi presso l’Università di Trieste,purtroppo deceduta alcuni mesi fa, in “Rivista di Psicanalisi”: Il ‘mitopersonale’ di Umberto Saba tra poesia e psicanalisi, 1984) nel suo en-tusiasmo per la psicanalisi, nel suo rapporto ‘analitico’ con il dottorEdoardo Weiss, uno dei pionieri della psicanalisi in Italia. Sicchésulla scena, sottolineate da luci e recitazioni diverse, si animano due‘sottoscene’, quella della vita (e dell’epistolario), del ‘backstage’ sa-biano mentre scrive “Ernesto”, tradotta nei personaggi di Saba, diNora Baldi (l’amica che gli fu vicina fino alla morte) e di Linuccia, equella dell’‘arte’ che accoglie, con una fedeltà pressoché assoluta altesto, i protagonisti del romanzo: Ernesto, l’‘uomo’ (così chiama sem-plicemente Saba la persona con cui Ernesto ha il suo primo rapportosessuale), Celestina, la madre di Ernesto, Tanda, la prostituta, con cuisente il bisogno di avere il secondo, Ilio, il coetaneo di cui si innamorae su cui, necessariamente (perché poi accadrebbero, sono accaduti, fat-ti gravi…), chiude: per continuare dovrebbe esserci (lettera a NelloStock) “nel ricordo, ma anche nella realtà, l’atmosfera lieta della ado-lescenza…, invece è tutt’altro, in mezzo a sensi di colpa”… e (lette-ra a Quarantotti Gambini) “oltre a una maggior pace…troppa cru-deltà”.

Lo spettacolo si chiude, sotto forma di monologo, sotto una lucerossa, tanto irreale quanto vitalissima, con la lettura di quella ‘spiaz-zante’ lettera che Saba ‘fa scrivere’ ad Ernesto, indirizzata ad uno deisuoi vecchi estimatori, il prof. Mogno. In questa lettera, come è noto,Saba continua a giocare nel rivelarsi, a scindersi, fingendo una amici-zia tra Ernesto e il signor Saba, confondendo la realtà del romanzo conil romanzo della realtà, facendo dire ad Ernesto che il signor Saba hapredestinato per lui un futuro da poeta, non da violinista come egli hasempre voluto… Ma, a ben pensare, la lettera è spiazzante fino ad uncerto punto: è troppo forte il bisogno di Saba di dire che quella storiaè semplicemente la sua storia, ed è meglio dirlo giocandoci sopra!

IL PORTOLANO - N. 49-50 19

Storia di Ernesto S.Gianfranco Sodomaco

Atto unico di Gianfranco Sodomaco e Claudio Grisancich,dal romanzo Ernesto di Umberto Saba

Trieste, Sant’Antonio.

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1. La prima edizione di Scorciatoie e raccontini risale al gennaio1946; esce da Mondadori nella collezione “I quaderni dello Specchio”.

L’opera ha una struttura macrotestuale ben determinata; due parti, dicui la seconda, Raccontini, deriva per gemmazione spontanea dalla pri-ma, come avverte l’autore:

RACCONTINI Sono nati dalle SCORCIATOIE; sono appena delleSCORCIATOIE più lunghe. La cosa andò così.

Leggevo al mio amico Giacomo Debenedetti la terza serie di SCOR-CIATOIE. Egli ascoltò fino alla fine; poi «Sono belle – mi disse – manon so se te ne sei accorto; alcune di esse hanno già cambiato ritmo:Sono piuttosto dei raccontini».

Scorciatoie è divisa in cinque sezioni: Prime Scorciatoie (con testinumerati da 1 a 26) Seconde Scorciatoie (27-49), Terze Scorciatoie(50-77), Quarte Scorciatoie e un raccontino (78-116), Quinte Scor-ciatoie (117-165) Nella prima edizione, oltre a una breve presentazio-ne dell’autore, si trova una Nota Informativa sul volume, dove si leg-ge tra l’altro:

Di Saba […] era celebrata sinora altrettanto della sua opera di poe-ta, ma in ristretti gruppi letterari, l’irripetibile genialità della conversa-zione. Qualcosa di essa, sebbene senza l’incanto della spontaneità di-scorsiva e delle folgoranti intuizioni espresse istantaneamente con squil-lante chiarezza lirica, è fermato per sempre in Scorciatoie e raccontini,che riveleranno così, quasi nella viva voce di lui, proprio quella partedella personalità di Saba il cui ricordo si temeva non restasse affidato altempo”.

(Prose 1195)

In questo passo si mette in luce di Saba l’irripetibile genialità dellaconversazione, quasi a voler dare l’idea che l’opera sia una sorta di re-gistrazione istantanea dalla viva voce dell’au-tore. La stessa impressione ritorna in una del-la ultime Scorciatoie (la n. 139), intitolata«IL POETA SANDRO PENNA legge SCOR-CIATOIE», dove è riportato il giudizio del-l’amico attraverso l’espediente del discorso di-retto: «Sapevo – mi disse – che eri grande.Non per le tue poesie; che in quelle IO TI SU-PERO. Ma per le cose che dicevi agli amici giàmolti anni fa; e delle quali hai fatto adesso letue SCORCIATOIE».

È come se l’autore triestino avesse tenuto inserbo il resoconto di varie conversazioni tra ami-ci e l’avesse poi affidato alla scrittura. La gesta-zione dell’opera passa attraverso la memoria,che non è rifugio passivo delle idee ma luogoprivilegiato, dove avviene il salto dal ricordoalla creazione artistica. La durata dell’archivia-zione è molto lunga rispetto al tempo velocissi-mo della stesura, come rivela l’autore in unadelle ultime Scorciatoie (la n. 161): “Tenute,per quindici anni, nel segreto rifugio della me-moria; scritte in cinque mesi (pochi per l’estre-ma lentezza dei miei movimenti) adesso – al-meno per qualche tempo – …basta”.

2. La data 1934-35 è la più accreditata daparte dell’autore (in realtà secondo Arrigo Sta-

ra si tratta del 1936; cfr. Prose 1364), per collocare l’iniziale progettodel “libretto di aforismi” al termine della stagione creativa di Parole,che rappresenta la sua ultima riserva di letizia (lettera del 2 maggio1935 ad Angelo Barile), cui seguirà un silenzio poetico quasi assoluto.La prima serie di Scorciatoie è la sola possibile scappatoia al silenzio,con quelle caratteristiche di inattualità, quelle “punte” e spezzature chele serie successive non mostreranno. Il rovescio della medaglia è una sfi-ducia totale nella poesia, considerata “un’illusione dell’umanità nellasua infanzia […] un condensato di bugie” (lettera ad Ettore Serra del set-tembre 1936, Poesie 1059), mentre l’anno successivo a Sandro Penna,amico protagonista di molte Scorciatoie, scrive che egli vede la poesiacome “un giocattolo non (più) necessario: aggrapparsi ad essa mi paresia come aggrapparsi ad una malattia per poter usare la morfina” (Poe-sie 1060).

Nella introduzione alle Primissime Scorciatoie (1934-35), da lui re-datta per il settimanale TEMPO di Roma in occasione della loro pub-blicazione dieci anni dopo (18 agosto 1946), Saba racconta per grandi li-nee la storia dell’opera in rapporto agli avvenimenti cruciali di queglianni (l’armistizio, l’invasione dell’Italia da parte dei tedeschi). Fa rife-rimento al dattiloscritto originale, lasciato in consegna all’amico Qua-rantotti Gambini, (il “centogambe” come era chiamato dai suoi “nemi-ci” a causa della lunghezza del nome), al momento della fuga dalla cittàper le persecuzioni razziali, dopo aver distrutto tutte quelle più esplici-tamente politiche. Si tratta di testi che egli definisce impubblicabili e inquanto tali confessa di averli tenuti nascosti dentro un libro invendibilein fondo a uno scaffale della sua Libreria Antiquaria di via San Nicolò.Scorciatoie e libro sono accomunati dalla stessa sorte di impossibile di-vulgazione, perché scomodi, perché non graditi al pubblico medio di ben-pensanti. Il fascicolo, restituito a Saba dall’amico su sua richiesta (letteradel 10/5/1946 “vorrei avere quel dattiloscritto […] perché forse posso ca-varne un po’di soldi, dato che sono piuttosto in miseria”) dopo dieci annie dopo l’edizione Mondadori dello Specchio, contiene ormai solo qua-rantuno testi inediti, che ora egli affida alle stampe attraverso il setti-manale romano. “Di inedite ne sono rimaste 41. – scrive a Linuccia il 31maggio 1946 – Alcune sono state per me, a rileggerle, una sorpresa. Cat-tive sono! Nate, voglio dire, sotto la stella dell’aggressione. (L’oppostodi quelle romane)”.

3. Ciascuna sezione è cadenzata da una serie di testi brevi contras-segnati da un numero arabo progressivo, da tre asterischi che indicanol’incipit e da una data in fondo che indica il luogo della scrittura, Roma,e il tempo della scrittura, da febbraio a maggio. Le sequenze si configu-rano come isole che affiorano alla superficie ma che nel profondo sono

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I SILENZI di“SCORCIATOIE E RACCONTINI”Elena Salibra

“Da quando la mia bocca è quasi muta”:i silenzi di Scorciatoie e raccontini.

Trieste.

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collegate tra loro, appartengono alla stessa piattaforma d’abisso. Ci sonodelle connessioni intertestuali che rimandano ai sotterranei del testo, lorendono univoco e progressivo, con tutte le caratteristiche di un itinera-rio narrativo di non immediata percezione. Si ritrovano spesso delle pa-role-chiave, delle immagini, delle figure o dei personaggi che hanno unafunzione trainante nella struttura generale, aggregano testi contigui,creano delle costellazioni semantiche, perseguono un ordine che lo scrit-tore si prefigge nella sua mente. Nel risvolto di copertina della prima edi-zione si legge tra l’altro:

Rapide note sorridenti o amare; scorciatoie verso il segreto dellecose, poemetti in prosa. Il mondo – arte, politica, sensibilità, caratteri –è visto da Saba, per questi rapidi tocchi, con una visuale davvero nuova,con la maggiore bontà.

(Prose 1195)

Saba è cosciente della straordinaria modernità dell’opera: «È piùche un bel libro; è il libro del Novecento come Candide fu il libro nelquale si assomma il Settecento. Pochi, assai pochi lo capiranno. Mal’opera è vitale…». La novità nasce dalla classificazione variegata del-le sue componenti e dal rapporto conflittuale tra parole e silenzio. Ciò chenon è esplicito ha una forza maggiore di incantamento di ciò che èespresso. La logica che guida il testo non è quella deduttiva ma quellaanalogica che stringe il ragionamento in una morsa di immagini, unastrettoria di ritmi, di colori e di suoni.

Per quanto rimane nell’oscurità del profondo, il libro ha un paratestomolto curato nella scansione delle parti, nella costruzione delle sequen-ze, negli spazi bianchi che circondano ciascun aforisma, nella dedica,nella nota al Lettore che apre i Raccontini.

In nome di quell’ordine che c’è ma non appare l’opera inizia con dueaforismi metapoetici, il primo dei quali, dal titolo GRAFIA DI SCOR-CIATOIE, è isolato tra due serie di asterischi per la sua natura mera-mente introduttiva; in esso l’autore vuole giustificare di fronte al protoe al lettore i tanti strumenti tipografici presenti nel testo che sono fun-zionali allo stile del dire breve. Con atteggiamento scientifico, come unmatematico alle prese con la sua teoria, Saba prima di tutto chiarisce laserie di simboli e gli accorgimenti formali che costituiscono il linguag-gio dell’opera. Nel secondo aforisma presenta la definizione del termi-ne scorciatoie presa di peso dal dizionario (“Sono – dice il Dizionario-vie più brevi per andare da un luogo ad un altro”), e metaforicamentemessa in opposizione alle “strade, lunghe, diritte, piane, provinciali”.Viene in mente la strada impervia del viandante Zarathustra di Nietzschee in parallelo l’asperità del sentiero per capre del pellegrino Saba. È l’i-

tinerario astruso del pensiero che l’autore cosìdescrive:

ACCADE a chi voglia cercare la causa diun qualsiasi avvenimento, come a chi cam-mina in alta montagna; che, varcato un mon-te, un altro se ne presenta, e poi un altro e unaltro ancora. Una foglia non cade per unacausa sola per un complesso di cause; dellequali alcune ci sono chiare; altre (stellari,cosmiche, più oltre) rimangono (e forse ri-marranno sempre) fuori della nostra co-scienza. (n. 144)

4. La tecnica delle Scorciatoie più che sul-lo stupore lessicale si basa sul disorientamen-to concettuale, che provoca una sorta di spae-samento nel lettore, dato dall’impatto con unpensiero paradossale e un conseguente rove-sciamento delle aspettative. In questa direzio-ne Saba dimostra in più punti dell’opera la de-cisiva influenza di Nietzsche. Nella Scorcia-toia 150 un interlocutore anonimo, nella spon-taneità del discorso diretto, si fa portavoce del-l’opinione più accreditata in quei difficili anniriguardo al filosofo tedesco: “Ma se è uno deiresponsabili del nazismo?” Egli non è neppu-re l’ideatore della volontà di potenza (che ri-duttivamente viene attribuita ad un merlo nel-la n. 118) ma «Molte cose ha capite, altre pre-

sentite, quell’uomo […] Quello che egli appena intuì – l’immenso rea-me dell’inconscio – esplorava primo un povero, modesto, piccolo bor-ghese ebreo viennese” (n. 150). Nietzsche precursore dunque non di Hi-tler ma di Freud.

La difficile arte di affilar sentenze (Nietzsche) si intreccia ad uno sti-le frammentario e privo di ogni presunzione dottrinaria, che procede a tap-pe attraverso intuizioni provvisorie aperte a possibili ripensamenti. La ri-flessione sull’umano, il troppo umano, secondo il filosofo tedesco, ovvero,per dirla con un’espressione più dotta, l’osservazione psicologica fa par-te dei «mezzi attraverso i quali ci si può alleviare il peso della vita» per-ché “dai momenti più spinosi e tristi della vita si possono trarre sentenzee così rasserenarsi un po’» (UTU 539). Il linguaggio della conoscenzadeve rifuggire da qualsiasi enfasi e mirare ad «una forte concentrazionedi tutte le parole», a «severa riflessione, stringatezza, freddezza, sobrietà,portate anche volutamente fino al limite, e in genere controllo del senti-mento e taciturnità» (595). Di queste osservazioni sicuramente fa tesoroSaba e forse anche di quell’assunto nietzschano in difesa della brevità,perché «una cosa detta succintamente può essere il frutto e il raccolto diun lungo pensare» anche se il lettore “«in ogni cosa detta con brevità vedeun certo che di embrionale», una sorta di «vivanda […] non finita di cre-scere, non matura» (UTU 739). L’autore triestino nella Scorciatoia in-troduttiva precisa: «Non so più dire senza abbreviare e non potevo ab-breviare altrimenti» e in una delle ultime afferma: «Mi sono sempre pia-ciute le frasi […] brevi e nette. Compendiano – fin dove è possibile – unasituazione. Ci vuole a volte – per farne una – il travaglio di una vita»(n. 115). A proposito della brevità in poesia egli traspone in un oggettoLA MACCHINA DA SCRIVERE “anticipatrice dello stampato” “un’in-fluenza benefica, corrosiva del superfluo”. “Era bello batter a macchinauna poesia di guerra di Ungaretti”. Poi conclude con un’interrogativa so-spesa che provoca un effetto arguto di sorpresa attraverso un implicito ro-vesciamento: “Ma una lunga poesia sentimentale?” (n. 38).

L’aforisma di Nietzsche contiguo a Contro chi biasima la brevità siintitola Contro i miopi; qui il filosofo si chiede «Pensate che debba es-sere opera frammentaria, perché ve la si dà (ve la si deve dare) a pezzi?»(UTU 739). Il bello del frammento è la sua istantaneità, il suo essere unlampo del pensiero che illumina verità nascoste in modo giocoso e leg-gero, senza sistematicità. L’aforisma di Saba ha in sé una sorta di fun-zione terapeutica, per portare alla luce della coscienza quegli inconsciconflitti e provarne “un grande, un indicibile sollievo” e “quelli si risol-verebbero – scoppierebbero – in aria, come bolle di sapone” (n. 116). Ladimensione ludica prevale e preconizza una eventuale deflagrazioneatona e ovattata, come un dissolversi sfumato di umori e colori. La tec-

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Trieste, Piazza Grande.

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nica di Saba si pone come strumento per indagare la realtà variegata ecomplessa dell’uomo contemporaneo inteso come persona morale e po-litica. La ricerca è condotta sempre all’ombra del grande filosofo tede-sco a cui Saba ha dedicato la poesia che chiude Uccelli:

Intorno a una grandezza solitariaNon volano gli uccelli, né quei vaghiGli fanno, accanto, il nido. Altro non odiChe il silenzio, non vedi altro che l’aria.

È un omaggio alla forza titanica del suo pensiero, la cui grandezzanon è insidiata da voli e da nidi d’uccelli, ma è solo circondata dal suo-no più puro, il silenzio, e dal mezzo più invisibile, l’aria. Nietzsche è an-che un personaggio di Scorciatoie familiare e umano “Nietzsche, il mioNietzsche, il mio buon Nietzsche” lo apostrofa l’autore nella n. 59. Nic-ce è la trascrizione fonetica del nome nelle parole di Linuccia: “A te, bab-bo, piace Nicce, vero?” (n. 121. Con una domanda ella risponde alla do-manda del padre: “Ti piace Pimpiricchio?”, «lo straordinario bambino diun libro per bambini». Ma la trasfigurazione fanciullesca non è casualeperché per Saba la nostalgia degli uomini verso l’infanzia e la conse-guente liberazione da quella parte della psiche che rimane fissata ai pro-pri sei anni di età rappresenta il primo passo per ogni possibile guari-gione. Così molti personaggi di Scorciatoie sono retrocessi all’infanzia.La motivazione sta nella Scorciatoia 8, quando si parla DELL’ETÀDELL’UOMO. Premesso che l’età dell’uomo oggi sia fra i cinque e i seianni, esca cioè appena dalla prima infanzia, l’autore afferma:

[…] la crisi attuale è una crisi di crescenza, ed una delle più ardue adessere superate. L’uomo è sul punto della sua storia naturale al quale sitrova il bambino quando – e non senza pena – egli deve allontanarsi perla prima volta dalla cerchia famigliare (dalle sottane della madre), per an-dare coi suoi compagni – buoni e cattivi – a scuola. (n. 8)

L’uomo e la storia sono interpretati attraverso il microcosmo della vi-sione infantile. E si evoca la cosmografia, che così è spiegata in parente-si, lo spazio dove si concentra la voce dell’autore: “(vera cosmografia dapiccoli bambini, per i quali il mondo termina alla loro casa e al prato sulquale sono condotti a giocare)”. E si conclude che quella cosmografia

“fu fino a ieri la nostra cosmografia”. Anche Laura “si comporta in tuttoe per tutto come una tenera madre col suo amato, e un po’indiscreto, bam-bino” (n. 12); poi si precisa che “se Laura […] gli si fosse data […] sa-rebbe accaduto al Petrarca quello che accadde al Baudelaire con la bellasignora Sabatier, e che non gli accadeva con la sua triste mulatta”: NellaScorciatoia contigua il movimento è triadico e sillogistico: la prima pro-posizione (Laura è la madre) è sottintesa, espresse invece la seconda(Laura è la poesia), e la terza (dunque la poesia è la madre). Altroveancora per condensazione e conseguente slittamento si afferma: “La vitaricorda le sue origini: ricorda di essere nata dalle acque; e – per l’incon-scio – mare = ma(d)re”. Qui il gioco verbale svela l’equivalenza nasco-sta che è fonica e psichica insieme, affiora dall’inconscio e provoca quelcorto circuito, tipico del Witz ovvero del motto di spirito freudiano, comerileva Lorenzo Polato. Del resto è proprio della funzione poetica, secon-do quanto insegna Jakobson, la proiezione del principio di similarità dal-l’asse paradigmatico all’asse sintagmatico e dunque la messa in discus-sione della verità saussuriana dell’ arbitraire du signe. A proposito di poe-sia e psicanalisi Saba in Poesia, Filosofia, Psicanalisi afferma:

Poesia e psicanalisi sono fra di loro quasi incompatibili. Una perso-na che, attraverso un’esperienza psicanalitica condotta fino in fondo ecompletamente riuscita, avesse superati in se stessa tutti i propri «com-plessi» e, con quelli, la propria infanzia, non scriverebbe più poesie, nem-meno se avesse sortito dalla natura il genio poetico di Dante.

(Prose 966)

In Storia e Cronistoria del Canzoniere Saba definisce Scorciatoie eRaccontini le sue Operette morali e ricorda: “Scritto a Roma, nel 1945;e subito dopo la liberazione, sarà però un libro alquanto diverso da quel-lo che sarebbe stato se Saba lo avesse scritto dieci anni prima. Menoaspro, meno tutto punte. Nel libro, quale lo si può leggere oggi, c’entramolto il senso della liberazione, la distensione dei nervi seguita ad un in-cubo che fu, per il Nostro, particolarmente spaventoso” (Prose 272). Poiegli ricorda che degli otto anni che gli erano serviti per scrivere Ultimecose sette erano passati sotto la minaccia razziale. È questa la prima con-dizione del suo parlar breve, tutto giocato sull’opposizione tra un mes-saggio manifesto e un significato latente, pieno di reticenze, di silenzi, ditensioni.

La prima poesia concepita dopo i famosi provvedimenti, come egliricorda in Storia e cronistoria del Canzoniere è Da quando:

Da quando la mia bocca è quasi mutaamo le vite che quasi non parlano.Un albero; ed appena – sosta doveio sosto, la mia via riprende lieto –il docile animale che mi segue.

Al giogo che gli è imposto si rassegna.Una supplice occhiata, al più, mi manda.Eterne verità, tacendo, insegna.

È il suggello del silenzio forzato, che accomuna il poeta agli esseriche quasi non parlano. In quel quasi c’è l’incanto e la tortura del non det-to che fa da presupposto all’espressione di ciascuna eterna verità. Il pri-mo essere che non parla appartiene alla vita vegetale, è semplicementeun albero.

È il silenzio forzato dunque il motivo propulsore dello stile aforisti-co. Il suo movimento si identifica con l’avanzare del docile animale chesi conforma alle soste e alle riprese dell’io lirico. Lo stato d’animo è quel-lo della rassegnazione passiva, a volte intensificato da una supplice oc-chiata. La condizione per manifestare l’eterna verità è il tacere.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Opere di Umberto SabaPoesie (seguito dal numero della pagina da cui la citazione è tratta) = U. Saba,

Tutte le poesie, con un saggio introduttivo di Mario Lavagetto, a cura diA. Stara, Milano, Mondadori, 1988.

Prose = U. Saba, Tutte le prose, con un saggio introduttivo di Mario Lavagetto,a cura di A. Stara, Milano, Mondadori, 2001.

Le citazioni da F. Nietzsche sono tratte da Umano troppo umano (UTU) in Id.,Opere 1870/1881, Roma, Newton Compton, 1993.

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Ponte sul Tevere e Castel Sant’Angelo. “Scorciatoie e Raccontini” fu scritto a Roma,nel 1945.

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Nel ’28, Solaria dedica unnumero monografico a

Umberto Saba (che aveva 35anni), con testimonianze di Sil-vio Benco, Raffaello Franchi,Piero Gadda Conti, EugenioMontale, Sergio Solmi, Giaco-mo Debenedetti. Quasi come“pro memoria”, ne riportiamoalcuni passaggi.

(Benco)

“… si rifiutava allo sbarazzismo.Gli piacevano la riverenza verso ivecchi, la gentilezza verso i debo-li, la riconoscenza verso i bene-voli”.

(Franchi)

“… Saba ha scelto il più impalpa-bile degl’illusionismi; un illusio-nismo che, nella storia della poe-sia moderna, ci sembra quasi sol-tanto suo…”.

(Gadda Conti)

“… la poesia di Saba è la testi-monianza esemplare, in questastagione delle nostre lettere, dellaperenne verità del motto beetho-veniano, che è forse il motto stes-so dell’arte: durch Leiden Freud”.

(Montale)

“Riflettendo sulla fortuna troppoinferiore al merito ch’è toccata fi-nora all’opera poetica di Saba,m’è accaduto più di una volta diricercare le cause di questa limi-tata risonanza, più in ragioni ac-cessorie – isolamento del poeta,insensibilità e cocciutaggine dimolti critici – che nei motivi se-greti dell’arte sua: quei motivi cheil tempo da una parte, con la suaprospettiva, e lo sviluppo del Sabadall’altra, contribuiscono senzadubbio a chiarire”.

(Solmi)

“…se, come diceva Baudelaire,la maggior preoccupazione di unartista deve esser quella di ‘créer

un poncif’ (disegno preparato-rio), e se è inevitabile, infatti, cheogni vera creazione di poesia fi-nisca col lasciar dietro di sé uninsieme di schemi e di figure ri-conoscibili, le formule e gli stam-pi in cui sembra sia stata per laprima volta colata la pura mate-ria poetica, si sarebbe detto adun primo momento che l’opera diSaba facesse eccezione a questaregola”.“ A noi non sembrerà di aver ol-trepassato i limiti di questo

omaggio se abbiamo indicato an-cora una volta, e sia pure contanta insufficienza, quali ci sem-brano essere i lineamenti semprepiù chiari di un’opera che abbia-mo affidata con sicurezza al tem-po”.

(Debenedetti)

“… la forza della poesia di Saba siprova anche in questo: ch’essa dis-suade il critico da ogni velleità dilirismi marginali, di decorazioni

descrittive, di divagazioni. Proba-bilmente succede sempre così: chequanto più una poesia è ideale edeffettiva, tanto più le idee che essasuggerisce sono spoglie e preci-se;‘idee secche’, direbbe Stendhal”.“In queste schiarite dell’anima,in questi brevi istanti durante iquali l’anima, ancor sospesa nel-la sua qualità immateriale, arrivaa commentare quasi senza inter-mediari, sono da cercare i più altirisultati dell’ultima poesia diSaba”.

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“SOLARIA” PER SABA“SOLARIA”, ANNO III, n. 5, maggio 1928, Firenze

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“Trieste tra poco inizieràla sua nuova vita: non

una barriera vorrebbe essere,ma una città industriosa e paci-fica dinanzi alla quale l’Orientesi plachi e tenda la mano al-l’Occidente”1. Sul finire dell’a-gosto del 1947, Gerti Tolazziapre così il suo Panorama diTrieste sulle pagine della «Gaz-zetta Ticinese» di Lugano. Ger-ti Frankl nasce a Graz nel 1902,da padre austriaco e madre un-gherese. Studia nella città nata-le, ma completa gli studi supe-riori a Vienna. Donna piena diinteressi (diplomata in pia-noforte, appassionata di lettera-tura, cinema, ballo e fotografia),dopo il matrimonio del 1925con l’ingegnere Carlo Tolazziviene a vivere a Trieste, dovefrequenta Bazlen (già amico diCarlo), Svevo, Montale (a cuiispira il celebre Carnevale, manon solo), Saba, Stuparich,Benco e molti altri intellettualidell’epoca. Dopo la fine delrapporto con il marito, comin-ciano gli anni difficili del se-condo conflitto mondiale. Gerti,di origine ebraica, perde en-trambi i genitori in seguito alladeportazione e vive tra Trieste,Milano e la frontiera svizzerafino al 1945, quando si ristabi-lisce nella sua Trieste. Nel 1947pubblica alcuni articoli, riguar-danti proprio la sua città adotti-va, sulla «Gazzetta Ticinese».A pochi giorni dall’entrata invigore del trattato di pace, chesancisce la nascita del Territoriolibero di Trieste, la Tolazzi de-dica ampia parte del suo Pano-rama all’“esame dell’attivitàculturale e spirituale” dellacittà, svolgendo una puntualerassegna dei suoi principali in-tellettuali e scrittori: “Degliscrittori triestini più noti citere-mo: Silvio Benco, recentemen-te accolto nell’Accademia deiLincei, giudicato da Pietro Pan-crazi, per la sua vasta attività di

storico, letterato e giornalista,‘uno degli osservatori più intel-ligenti e ad un tempo più ap-passionati e fedeli che abbia lavita italiana’. Umberto Saba, sa-piente e fine poeta che portauna voce accorata nella moder-na poesia; Giani Stuparich, chetutti conoscono e amano, l’au-tore di Ritorneranno, di Pietàdel sole, di Ginestre, dell’Iso-la”2. La rinascita della città pas-sa attraverso la valorizzazionedel suo patrimonio culturale,con la stagione di musica da ca-mera e lirica, le sue galleried’arte e la sua poesia, rappre-sentata dalla “voce accorata” diSaba.

“Alle 24 del giorno 15 (oradi Greenwich) è entrato in vi-gore il trattato di pace con l’Ita-lia che dà esistenza al territoriolibero di Trieste”3. È questo illaconico esordio con cui Gertiinizia il racconto del “dolore diTrieste” sulla «Gazzetta» del 17settembre; nella descrizionedell’evento, carica di paure perl’avvenire, scandita dai rintoc-chi funebri della campana diSan Giusto, ancora si eleva ilcanto della folla che intona l’in-no nazionale: “La folla cantal’Inno di Mameli, a voce bassa,come se presentisse già adessoche potrebbe venire il tempo incui l’inno e il grido: l’Italia, Ita-lia cara! avrà sapore di cosaproibita e da tenere nel cuore”4.Ma il dolore non è solo quellodel piccolo territorio triestino,ma di tutto il “mondo implaca-to”: “Ma più che gli avveni-menti esteriori e visibili, chesono in fondo piccole cose diuna piccola città e di un piccoloterritorio in confronto dellasomma di dolore che è nel mon-do implacato, più che i conflit-ti e i contrasti locali, è l’incer-tezza, è l’ansia, è il timore, è lapaura dell’ignoto che serpeggianel mondo, che in questo lembodi territorio, posto al confine di

due mondi, rende gli spiriti pen-sosi ed inquieti”5. È il momentoper Gerti di invocare la pace edi trovare motivi di consolazio-ne, di attendere “piccoli segnibenevoli” di ricostruzione. Laprima mostra campionaria del-l’ottobre del 1947 diventa quin-di una rassicurante “rappresen-tazione di vitalità operosa e ditranquillo commercio”: “Pacevorremmo; e troppe voci abbia-mo inteso nella nostra poveravita così breve, che ci promet-tevano la felicità; e di troppe vi-sioni malvagie si è nutrita la no-stra esperienza umana, che vor-remmo dimenticare”6.

Gerti sente il bisogno di di-menticare le numerose e indele-bili immagini di violenza e di-struzione che hanno segnato gliultimi anni della sua vita. Nascein lei il desiderio di ritrovare iluoghi della sua giovinezza, isalotti e i caffè degli amici diCarlo e di Bobi, le conversazio-ni a casa Schmitz o nella libre-ria di Umberto Saba. Il 2 di-cembre pubblica sulla «Gazzet-ta Ticinese» l’articolo UmbertoSaba poeta triestino: “Benchéda molti anni lo conoscessi, luie la famiglia, mi ero preparataall’incontro rileggendo il Can-zoniere e le Mediterranee edero tutta compresa della cele-brità conferitagli da un recentepremio letterario e dalle pubbli-cazioni di Einaudi e Mondado-ri”7. E l’incontro con Saba di-venta soprattutto un incontrocon la giovane Gerti, immagineallo specchio sospesa nel tempodella memoria. Così il “panora-ma di Trieste” acquista le sfu-mature di una discreta e nostal-gica nota autobiografica: “Erostata prima nella sua libreria,dopo tanti anni; e non per in-contrarlo tra gli antichi libri enella luce fosca che dà alla sce-na l’apparenza di un quadro diRembrandt; anzi con l’idea dinon trovarlo; ma per rivedere

l’ambiente e per rivedere me ele cose di allora”8. L’occasionefa scaturire il ricordo degli am-bienti triestini in cui ha potutoconoscere molti intellettuali eartisti che hanno contribuito lasua formazione: “Ci si incon-trava con tanta gente, lì o alcaffè Garibaldi: il pittore Bolaf-fio e Italo Svevo e Stuparich eMontale e James Joyce con lamoglie e il pittore Nathan e lapittrice Leonora Fini e lo scul-tore Ravan e Tümmel e Bobi,che era un po’ il genio maleficodella compagnia e si compiace-va di esperienze psicoanaliti-che”9. Preannunciato dalla sug-gestiva atmosfera degli “antichilibri” nella “luce fosca” dellasua libreria, ecco apparire ilpoeta: “Umberto Saba, quandolo abbiamo ritrovato a casadove eravamo andati per saluta-re la Linuccia sua figlia e lamoglie, lo abbiamo incontratocosì come lo immaginavamo,con l’aria di patriarca biblico ela voce cantante nelle cose bre-vi che diceva”10. Prima di unapersonale e appassionata letturadelle liriche sabiane, c’è spazioper un accenno alla loro breveconversazione, seguita dal con-gedo del poeta: “È entrato inuna stanza vicina di cui abbia-mo intravisto un letto e libriammucchiati. – Addio Gerti –mi ha detto; e la moglie ha sus-surrato: – Adesso legge”11.

Anche se i versi di Saba, se-condo Gerti, sembrano perderein alcuni momenti il loro carat-tere poetico (assumendo le vestidi “annotazioni e psicologicidocumenti di un vissuto pere-grinare”)12, la Tolazzi riconosceche la voce dello scrittore trie-stino trascende quasi semprel’occasione contingente, per di-venire profondo canto della fra-gilità umana, a indicare “la no-stra vicinanza alle cose e allecreature nell’eternità della vitache scorre indifferente o nemi-

«E la sua voce pareva cantare»Saba e Trieste negli articoli ticinesi di Gerti Tolazzi

Vincenzo Crescente

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ca”13. Per dimenticare le “visio-ni malvagie”14 che la vita, “in-differente o nemica”, le ha mes-so davanti, Gerti si lascia avvol-gere dal canto armonioso diSaba, “patriarca biblico” cheparla alle creature e al loro do-lore, come nella poesia La ca-pra, integralmente riportata dal-la scrittrice nell’articolo dedi-cato al poeta. E l’atmosferadegli “antichi biblici tempi”riecheggia, nella lettura dellaTolazzi, anche nelle immaginidegli animali di A mia moglie(“i sereni animali che avvicina-no a Dio”): “L’avvicendarsi diimmagini inaspettate che gliamici esseri animali portanoforse da un mondo lontano allacommozione recente, danno alcanto moderno risonanze di an-tichi biblici tempi”15. La “sobriaarmonia” della lirica di Sabaesprime tutto il “tranquillo ras-segnato dolore” dell’uomo, nel-la consapevolezza della vitacome “breve dono di cui ci sirallegra nell’errante cammino”16.

L’“errante cammino” di Ger-ti non conosce soste e volge alfuturo: preannuncia l’opera del-l’amico Giani Stuparich, an-ch’egli intento a frugare nelpassato, per trovarvi “qualchecosa di positivo, di cui far teso-ro nella miseria e nell’avvili-mento presenti”17. Negli annisuccessivi al 1947 Gerti Tolaz-zi continua a scrivere, a tradur-re, a viaggiare. Ma torna sem-pre nella sua Trieste, come ne-gli anni passati, quando i suoinumerosi spostamenti non riu-scivano ad allontanarla troppo alungo dalla città: testimonian-za di un percorso di formazionesegnato dai drammatici eventitriestini, ma anche dall’“incan-tamento” dei versi dell’amicopoeta, protagonista di un’irri-petibile stagione culturale. Inuna breve lettera non datata, Li-nuccia Saba scrive all’amica,raccontandole dei suoi momen-ti di svago e delle sue lezionidi ballo. Linuccia aspetta il ri-torno di Gerti, sa che prestosentirà il bisogno di rivedereTrieste: “Sono molto contentache tu abbia passato bene questimesi che ti facevano tanta pau-ra. Finito questo periodo cosapensi di fare? Verrai a Trieste?Credo che in ogni caso perqualche tempo verrai qui”18.

NOTE

1 G. Tolazzi, Panorama di Trieste,in «Gazzetta Ticinese», a. 147, n. 197,Lugano, 30 agosto 1947, p. 1.

2 Ivi, p. 2.3 G. Tolazzi, Il dolore di Trieste, in

«Gazzetta Ticinese», a. 147, n. 212, Lu-gano, 17 settembre 1947, p. 3.

4 Ibidem.5 G. Tolazzi, Trieste città tra Oc-

cidente e Oriente, in «Gazzetta Ticine-se», a. 147, n. 242, Lugano, 22 ottobre1947, p. 1.

6 Ibidem.7 G. Tolazzi, Umberto Saba poeta

triestino, in «Gazzetta Ticinese», a. 147,n. 276, Lugano, 2 dicembre 1947, p. 1.Il “recente premio letterario” è il Pre-mio Viareggio, conferito a UmbertoSaba nell’estate del 1946.

8 Ibidem.9 Ibidem.10 Ibidem.11 Ibidem.12 Ibidem.13 Ibidem.14 G. Tolazzi, Trieste città tra Oc-

cidente e Oriente, in «Gazzetta Ticine-se», a. 147, n. 242, Lugano, 22 ottobre1947, p. 1.

15 Ead., Umberto Saba poeta triesti-no, in «Gazzetta Ticinese», a. 147, n.276, Lugano, 2 dicembre 1947, p. 1.

16 Ibidem.17 G. Stuparich, Prefazione a Id.,

Trieste nei miei ricordi, Milano, Gar-zanti, 1948, p. V: “Fu in questi tempi didisperata umiliazione che, potendo ri-volgere l’animo al futuro, io mi volsi alpassato, non come chi cerchi di conso-larsi d’un passato felice, ma come unoche frughi in anni considerati perduti,per vedere se non fosse rimasto qualche

cosa di positivo, di cui far tesoro nellamiseria e nell’avvilimento presenti”. Èpossibile leggere l’opera di Stuparichanche nella recente edizione del 2004,nella collana «Archivi della memoria»del Ramo d’Oro Editore di Trieste.

18 La lettera appartiene alla sezioneCorrispondenza a Gerti del fondo GertiFrankl Tolazzi (conservato presso l’Ar-chivio e Centro di Documentazione Re-gionale di Trieste). Vorrei esprimere unparticolare ringraziamento a Elvio Gua-gnini e Archimede Crozzoli, per avermipermesso di consultare il materiale cu-stodito nel fondo. Cfr. anche «I Quader-

ni dell’Archivio» dedicati alle mostresulla vita della Tolazzi: Gerti (1902-1989), mostra documentaria, Trieste,Sala delle Esposizioni della BibliotecaStatale del Popolo, 8 - 21 maggio 1995;Il viaggio di Gerti. Gerti Frankl Tolazzi,mostra documentaria, Trieste, Sala delleEsposizioni della Biblioteca Statale, 14dicembre 2005 - 12 gennaio 2006 (cata-logo a cura di W. Fischer, con scritti diW. Fischer ed E. Guagnini). Ringrazioinoltre il personale dell’Archivio di Sta-to di Bellinzona, dove ho svolto lo spo-glio della «Gazzetta Ticinese» e di altrigiornali e riviste locali.

Trieste, Il Teatro Comunale.

JEAN BAUDRILLARDE “L’EFFETTO BAUDRILLARD”1929-2007

Nato nel ’29 e morto nel marzo scorso, Bau-drillard è stato uno dei maître à penser dellacritica francese; di notorietà internazionale,presente nel territorio del pensiero fin daglianni ’60, ebbe fortuna e attenzione nel mondodegli artisti. Nel ’96 pubblica “Le complot de l’art”, riscaldandol’ambiente dei critici, denunciando gli effetti perversi (e la vio-lenza) della mondializzazione, indicata come sostanziale respon-sabile della cancellazione dei valori e dell’annichilimento di ogni“singolarità”.Secondo Baudrillard, infatti, si era ormai innestato un processoinarrestabile di banalizzazione a cui nulla sarebbe più sfuggito:non la politica, non l’economia, non il sesso, né tanto meno lacreazione artistica. Così, insomma, non ci sarebbe stato più spa-zio per alcun fondato giudizio critico. L’intossicazione filosoficaavrebbe fatto il resto.Baudrillard, in definitiva, ha lavorato per far esplodere le con-traddizioni del nostro tempo, soprattutto nell’àmbito dell’arte con-temporanea.

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Nell’ultima stagione dell’esi-stenza e della lunga attività

poetica che quella vita ha saputotrasformare in tempo fecondo, co-stellato da un otium felicementeprolifico che ha lasciato dopo disé ben duratura traccia, UmbertoSaba ha saputo sigillare in unapoesia dal titolo emblematico,L’uomo e gli animali1, il senso delprimato che egli attribuisce al pia-no della biologia, nella scala deivalori offerti dalla vita e dal suouniverso. Tale poesia recita infat-ti: “Uomo, la tua sventura è senzafondo. / Sei troppo e troppo poco.Con invidia / (tu pensi invece condisprezzo) guardi / gli animali,che immuni di riguardi / e di pu-dori, dicono la vita / e le sue leggi.(Ne dicono il fondo)”.

Si tratta di un paradigma chedice molto: gli animali – quindi ilpiano biologico della nostra esi-stenza – possono, assai meglio de-gli esseri umani, esprimere “la vitae le sue leggi” cioè tutto quantodavvero conta. Gli animali insom-ma sanno porsi sul piano della giu-sta o possiamo dire aurea misura, adifferenza degli uomini che spessotravalicano il limite dell’equili-brio, in eccesso o per difetto.

Tentiamo di fare adesso unpasso indietro per vedere, proce-dendo per così dire a ritroso, e inogni caso attraverso un sondaggiomirato, come Saba rappresenta nelcorso del Canzoniere, di volta involta, la figura animale.

Già nella seconda delle Poesiedell’adolescenza e giovanili(1900-1907), La casa della mianutrice, “… posa / tacita in facciaalla Cappella antica, / e par pen-sosa, / da una collina alle capret-te amica”.

In un’altra poesia di grande si-gnificatività per l’intero universosabiano come A mia moglie, inse-rita nella raccolta Casa e campa-gna (1909-1910), la donna amataviene apprezzata e riconosciuta inbase alla sua affinità pienamenteidentificante ora con l’uno, ora conl’altro animale: “Tu sei come unagiovane, / una bianca pollastra. /Le si arruffano al vento / le piume,il collo china / per bere, e in terraraspa; / ma, nell’andare, ha il len-to / tuo passo di regina, ed incede

sull’erba / pettoruta e superba. / Èmigliore del maschio. / È comesono tutte / le femmine di tutti / isereni animali / che avvicinano aDio. […] Tu sei come una gravidagiovenca […]. Tu sei come unalunga / cagna, che sempre tanta /dolcezza ha negli occhi e ferocianel cuore. / […] Tu sei come lapavida / coniglia. […] Tu sei comela rondine / che torna in primave-ra […]. Tu sei come la provvida /formica. […] E così nella pec-chia / ti ritrovo, ed in tutte le fem-mine di tutti / i sereni animali /che avvicinano a Dio; / e in nes-sun’altra donna”.

Commentare Saba non serve,suonerebbe come inutile orpelload un ascolto che risulta essere ne-cessario quanto facile e proficuoda praticare in proprio, nell’inti-mo ciascun di sé: occorre porsisemplicemente in ascolto delle pa-role che narrano amabilmente l’e-sperienza vissuta dal poeta nel te-pore del suo proprio milieu fami-liare, da sentire, percepire e da cui,se possibile, farsi proprio cullare.

La quarta poesia in sequenzaprogressiva, ancora in Casa ecampagna, è addirittura un tòpos:La capra. Saba vi elabora l’imma-gine simbolica per eccellenza scel-ta come chiave del dolore umanoed è, insieme, la sintesi o la chiaveper comprendere il profilo di “ognialtra vita” segnata, ci sentiamo diaffermare, dalla differenza.

Passiamo ora a vedere gli esiticompresi nella raccolta di Trieste euna donna (1910-1912), dove tro-viamo La gatta: “Ai miei occhi èperfetta / come te questa tua sel-vaggia gatta, / ma come te ragaz-za / e innamorata, che sempre cer-cavi, / che senza pace qua e làt’aggiravi, che tutti dicevano: ‘È

pazza’. / È come te ragazza”. L’af-finità passa qui per la modalità del-la simbiosi: la donna assume ora levirtù, ora le debolezze dell’anima-le, mentre la capacità di amare pro-pria dell’essere umano si traducenelle forme tipiche che gli stessianimali hanno di percepire edesprimere l’amore. D’altronde lastessa sfera sessuale si configurasul piano espressivo proprio attra-verso il linguaggio animale, cheappartiene in una forma più sim-bolica e allusiva all’intera operasabiana in versi, ossia al Canzo-niere, mentre occupa maggiorespazio ed è connotato da una piùdiretta evidenza nell’esercizio nar-rativo di un romanzo breve sinto-matico come Ernesto (1953), editopostumo dalla figlia Linuccia nel1975.

Com’è noto, in Saba si può in-contrare il massimo di consistenzadi quella che oggi si dice essereuna materia di squisita pertinenzapsicoanalitica: in prospettiva, ma-gari aggiornando il repertorio al-l’attuale cinquantenario della mor-te del poeta triestino (1957-2007),pare qui appropriato segnalare lapresenza di un preciso anello dicongiunzione, nonché il caratteredi perfetta naturalezza esistentenel rapporto tra la biologia, ovve-ro la presenza di figure animalinell’opera di Saba, la sfera dellasessualità e l’universo della psi-coanalisi come ingrediente natu-raliter sabiano. Se come ricordaMario Lavagetto2, il miglior ese-geta e attentissimo critico di tuttoSaba dopo Giacomo Debenedetti eGianfranco Contini, “il ‘destino’si è compiuto quando ‘psicoanali-tico dopo la psicoanalisi’3, Saba siè servito di Freud per leggere la

sua opera e costruirne l’architet-tura segreta e decisiva”, l’ acco-stamento che abbiamo appena ten-tato non sembrerà peregrino o im-motivato, dal momento che se netrova ricorrente l’attestazione nel-le diverse figure animali durantetutto il percorso del Canzoniere,dalle raccolte giovanili a quelledella maturità, fino alla stagionesenile: la terzultima raccolta del1948 ha ancora per titolo, appunto,Uccelli.

È proprio questo nodo temati-co, l’intreccio significativo di bio-grafia, storia delle emozioni di unavita e di tante altre vite connessecon quella stessa del poeta triesti-no, e del resto le diverse e riccheimplicazioni psicoanalitiche checerto arricchiscono il testo liricoo narrativo di Saba, a richiamare amio parere con forza, ma anchenel contempo senza alcuno sfor-zo, la nostra attenzione di lettoricontemporanei per dirci che la no-vità e la freschezza della poesia edella narrativa sabiane, non solonon si sono mai appannate, spenteo esaurite, ma anzi sanno suscita-re sempre nuovo l’interesse peruna materia che non conosce de-clino. Non passa mai di moda,anzi resta sempre attuale l’interes-se a capire e ad abitare una di-mensione centrale per l’essereumano come quella che dobbiamoa Saba per averla cantata, massimotra i classici del Novecento lette-rario italiano, come la “calda vita”.

NOTE

1 È la prima delle Sei poesie dellavecchiaia (1953-1954) nel Canzoniere,in Umberto Saba, Tutte le poesie, a curadi Arrigo Stara, introduzione di MarioLavagetto, Milano, Mondadori (“I Meri-diani”), c. 1988.

2 Mario Lavagetto, Introduzionea Umberto Saba, Tutte le poesie, cit., p.LXIX. M. Lavagetto è l’autore della fon-damentale monografia sabiana La galli-na di Saba, Torino, Einaudi, 1974; lagallina risponde all’animale totem che èsinonimo per eccellenza della figura ma-terna nell’universo simbolico sabiano.

3 Gianfranco Contini “circa trent’an-ni prima di Ernesto […] aveva definito,con una formula limpida e divenuta fa-mosa, Saba ‘psicoanalitico prima dellapsicoanalisi’”, in M. Lavagetto, Intro-duzione, Ibidem.

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SABA poeta della biologiaElena Gurrieri

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Che il carteggio di Saba conJoachim Flescher (Umberto

Saba, Lettere sulla psicoanalisi,Carteggio con Joachim Flescher1946-1949, SE, Milano 1991) co-stituisca un luogo in cui le lineeforza che disegnano la fisionomiaintellettuale ed esistenziale delpoeta si manifestano sotto il segnodi una sofferta tensione tra gli ele-menti della sua cultura, è circo-stanza nota e valorizzata in sedecritica.

Altrettanto evidente è la rifles-sione sul rapporto cruciale tra psi-coanalisi ed ebraismo in cui si in-tersecano di continuo il flusso del-l’autobiografia e quello di una sor-ta di filosofia della storia.

In questo doppio scenario vi èil segno di un’immagine “d’epo-ca” del fenomeno analitico e di al-trettanto datati correlati ideologici,ma è anche innegabile che, spesso,la sensibilità del poeta punti conindubbia intensità verso nuclei

problematici anche oggi tutt’altroche obsoleti.

“Scrivere è il mio mestie-re, e in questo senso – per lebuone ragioni che le hodetto – sono un disoccupato.Così mi sfogo qualche volta ascrivere agli amicî” (Letteresulla psicoanalisi, p. 34).

Esordendo in questa lettera aFlescher, Saba sa che lo sfogo sarà

particolarmente esteso. La com-plessità degli incroci tematici so-spende dolorosamente lo scrivereautoriale e fa sentire il poeta di-soccupato. In effetti, tutto quantoseguirà nella lettera, identifica unamateria per la quale Saba non di-spone di ordini di discorso ospita-li e legittimati. Tutto ciò di cuiscriverà è anche ciò di cui ritienedi non poter scrivere o, meglio an-cora, con la sua sofferta insistenza,gli impedisce di praticare compiu-

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IL RITO MANCATOSu corpo e scrittura in una lettera di Saba

Adone Brandalise

Trieste, La Camera di Commercio.

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tamente il suo “mestiere”. Insom-ma, la lettera sta sotto l’indicazio-ne tonale dell’angoscia e il senti-mento della castrazione costitui-sce il fondo sul quale il disegnodei temi prende rilievo.

Significativamente, i toni piùmossi e addirittura esasperati chealterano l’andamento tra il risenti-to e il depresso, in genere predo-minante, si producono a ridossodella connessione, allora tutt’altroche inusuale e, anzi, di senso co-mune nel contesto analitico, tracirconcisione e castrazione, dovel’incrocio tra psicoanalisi ed ebrai-smo è coinvolto in misura acuta.

“Insomma se dipendesseda me, non farei nessun maleagli ebrei. Punirei solo conl’immediata fucilazione nellaschiena tutti quelli che prati-cano e fanno praticare la cir-concisione” (Ivi, p. 41).

A Flescher, sostenitore, illu-ministico e liberale di un supera-mento delle diverse religioni, nel-l’orizzonte condiviso prodotto daun’analisi esaustiva delle loro ra-gioni storico-psicologiche, il poe-ta risponde con una, seppur con-torta, rivendicazione dell’irriduci-bilità dell’istanza religiosa all’esi-to di una quieta Versöhnung. Ed èproprio l’ostinata resistenza del-l’ebreo alla dissoluzione della suafisionomia nel più ampio mare diuna generica umanità che releganel mondo dei sogni il progetto di“unificare le religioni”. Gli ebreisembrano sopravvivere nella loroseparatezza, così come resta evi-dente ed operante il graffio in cuisi riassume il loro incancellabilecontributo alla vicenda dell’uma-nità intera:

“Un punto sul quale leidev’essere d’accordo con me,è che gli ebrei sono stati imaggiori apportatori nel mon-do del ‘senso di colpa’, cioèdella sola effettiva colpa cheesista (il resto riguarda i rap-porti sociali ed esula dall’ar-gomento” (Ibidem).

Si è qui al cuore di quello cheSaba stesso definisce “il mio anti-semitismo”, intessuto di elementitipici di tale fenomeno culturalenelle sue forme più risapute, maanche propenso a torcerle in dire-zioni che ne compromettono il piùovvio funzionamento retorico edideologico. Così, come sviluppodiretto dell’affermazione appenacitata, per spontanea ed eloquenteassociazione mentale, viene evo-cata l’immagine di Nietzsche, ade-

rente allo stereotipo all’epoca vul-gato, ma anche capace di far vi-brare alcune corde del suo stru-mento filosofico in frequenze chestagioni più recenti della criticasottolineeranno con particolareenergia e vastità di esiti comples-sivi.

“Mi viene in mente unafrase di Nietzsche; quasi le pa-role più alte che sieno statepronunciate fino ad oggi: COL-LA MENZOGNA DELLA RI-COMPENSA E DEL CASTI-GO SI È AVVELENATO ILFONDO DELLE COSE” (Ivi,maiuscolo nel testo).

Che la menzogna in questionericeva dal senso di colpa la suamassima promozione è sottintesoma, subito dopo, Saba proponeNietzsche come lettura obbligato-ria per quanti vogliano in futuroesercitare la psicoanalisi.

“Egli insegnerebbe loronon la tecnica, ma LA VO-LUTTÀ del guarire” (Ivi,maiuscolo nel testo).

Certo, la voluttà del guariresembra presentarsi come una sor-ta di riscatto dell’analisi da queltanto di ebraismo che le è impostodalla sua consanguineità con il di-sagio, emancipazione nietzschea-na dell’ebreo dall’ebreo. Eppurenella voluttà sembra trasparire an-che un godimento non risolto nel-la filiera della gioiosa felicità li-berata che apre in direzione di unmestiere che Saba ritiene in que-st’epoca di non poter più fare. Lavoluttà del guarire riguarda forse,nella psicoanalisi, quella felicitàche convive con la riuscita di unasoggettivazione. Qualcosa in cuila psicoanalisi tocca quanto sta aldi là di essa, se la “cura” riesce.

Si potrebbe dire che Nietzschesi stagli come figura di immagi-nabile redenzione sullo sfondodell’impotentia scribendi nellaquale Saba ritiene di trovarsi: sin-tomo di radicale disagio che si as-socia alla decisiva prestazione teo-logica della tradizione ebraica:

“IO SO CHE COSASONO E COSA SIGNIFICA-NO GLI EBREI” (Ibidem, p.40, maiuscolo nel testo).

L’enfasi sulla prima personarafforza con una sottolineatura au-tobiografica una dolorosa cifra in-terpretativa. Non a caso qui con-vergono due registri che si intrec-ciano nella tessitura della lettera. Ilprimo è quello che, senza risarci-

menti umoristici di sorta, come av-viene per tutta la saga della yddi-sch mama nelle sue declinazioniletterarie, propone l’immagine del-la madre come severa negatrice diogni accesso al godimento per ilSaba bambino, implacabile nelvietare alla nutrice cristiana i pia-ceri spettacolari (incenso e belleimmagini) della chiesa dei goim.Madre, quindi, quasi da manualeper disegnare il tema psicoanaliti-co della madre castratrice. L’altro,quello della ostinazione ebraicanel custodire la propria separatez-za e con questa, per sé e per tuttigli altri, il senso schiacciante del-la colpa cui è dovuta l’implacabi-le osservanza dei comandamentidella Torah. Materializzati dai te-film, essi perpetuano una dolorosamancanza costantemente rinnova-ta dalla lettera di un’antica “lin-gua morta che nessuno di loro ca-pisce” (Ivi).

La madre che vieta fa tutt’unocon la resistenza degli ebrei a scio-gliersi nel mondo rinunciando acustodire la propria sofferta e mu-tilante elezione. Non a caso, Sabaauspica la proibizione dei loro ritie lo scioglimento forzoso delleloro comunità, ovvero, la definiti-va cancellazione di un segno iden-titario che coincide con il profilominaccioso dell’ebreo. Tale segnosi imprime sulla “vita”, quella delpoeta e quella che costituisce unadelle parole chiave del liberatoriolessico nietzscheano, appunto lacirconcisione.

Non a caso, dopo aver propo-sto la fucilazione alla schiena deipraticanti la circoncisione, si of-fre una sintesi efficace dei motiviche convergono su questo punto:

“(non la sola, ma certamente,una delle cause per cui gliebrei si sposano solo fra diloro: un ragazzo ogni poco ti-mido si vergogna di mostrarequella ridicola mutilazione auna donna che non sia dellasua razza)” (Ivi, p. 41).

La circoncisione quindi famassa con quanto associa all’e-breo la vergogna del corpo e lamediazione sacrificale nel rappor-to con la vita. Al piccolo Saba vie-ne minacciato di “farlo ebreo”,come sanzione per le sue infantilidisobbedienze. Farlo ebreo, cioèimporgli la circoncisione, frattu-ra, solco irrimarginabile che incideil flusso vitale.

L’autointerpretazione del poe-ta va direttamente alla questione:

“è molto probabile che io in-terpretassi la circoncisione

come una castrazione (se misbagliavo, non mi sbagliavodi molto)” (Ibidem, p. 39).

Quindi, la circoncisione e lareligione ebraica che la imponetrovano il nome che le interpretanella castrazione. È allora sulla ca-strazione come evirazione, muti-lazione senza risarcimento, che sicostruisce l’ordine cui si sotto-mette la vita. Risentiamo qui lamusica familiare, sonata con di-versa perizia, ma con tratti costan-ti, dalla messa in opera filosoficamoderna della figura dell’ebreo.In Hegel degli Scritti teologici gio-vanili, il popolo delle regole, equindi dell’eteronomia, resta al diqua della cristiana legge dell’a-more e si presta a rappresentare illimite di un dominio intellettuali-stico e artificioso sulla vita, che leistanze romantiche e idealisticheintenderebbero superare.

Più interessante è notare comeSaba anticipi bruscamente unapossibile obbiezione. Uno psicoa-nalista potrebbe sottoporre a unvaglio severo la sua interpretazio-ne. Eppure la coincidenza di cir-concisione e castrazione regge.Regge soprattutto se quanto laispira si risolve nell’immagine (e,contravvenendo per un istante allaimpotentia scribendi, in eserciziostilistico) del Ragazzo che prega,nota statua greca in bronzo, il cuiatteggiamento orante sta però intotale opposizione a quello subitodopo evocato degli ebrei in pre-ghiera:

“Rappresenta un ragazzoin piedi e con le braccia alza-te verso il cielo; le palme sonoaperte. una meraviglia; psico-logicamente una delle cosepiù liete e commoventi cheabbia mai viste. Si sente chequel ragazzo è felice di esserenato, di avere – sebbene nonci pensi – un bel pipì, un belculetto, delle braccia e dellemani fatte per tendere l’arco euccidere – quando sarebbestato grande – i nemici dellasua bella e, nel suo caso, giu-stamente amata patria” (Ibi-dem, pp. 39-40).

Sin troppo a vista, per esserequi commentate, alcune spie signi-ficative: il corpo che si disegnasplendidamente unito in un gestoin cui convivono innalzamento eapertura. Il compiacimento dellasalute che fa tutt’uno col senti-mento dell’unità del corpo e checonsente di immaginare nel giovi-netto un godimento per il “pipì” eil “culetto, non filtrato da quelladiversa considerazione che i com-

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portamenti civili impongono per leparti “intime” del corpo. Assenzadi pudore, che il poeta rivive comepropria goduta trasgressione.

Ma ciò che più interessa è chein tutta la sua raffigurazione il gio-vinetto appare come il non circon-ciso che, non a caso potrà da adul-to prendere le armi (cosa vietataper secoli agli ebrei), per difende-re una patria in cui il suo corpoben riuscito si lega alla bellezzadi un contesto umano. La patriainsomma, e non l’erranza, perquanto nobilmente risolta in co-smopolitismo.

A ciò si aggiunga che l’imma-gine ridesta l’entusiasmo e con ciòanche una sorta di vena poetica.Il ragazzo offre il suo corpo comeimmagine altrettanto sciolta e to-nica di quello che dovrebbe essereil godimento della scrittura. Quin-di l’ebreo sta nell’esistenza diSaba come quanto impedisce unascrittura felice. La circoncisione(antiestetico intervento sul bel“pipì”, parente dopotutto del “fa-pipì” del piccolo Hans) strozzacome una diga importuna il corsodi quello che diviene così un do-loroso “voler dire”:

“e soffro, non per aver nulla opoco, da dire, ma perché trop-pe sono le cose che vorreidire, e che non posso (questalettera informi) dire pubblica-mente. E così muoio – alla let-tera – strangolato” (Ibidem,p. 42).

Non è forse un’inammissibilee troppo facile lacanismo notarecome qui il flusso dello scriveresia strozzato, “alla lettera”, ovveroall’altezza di un’assunzione del-l’ordine del linguaggio in ciò cheesso ha di non immediatamentenaturale: l’immagine angosciantedi una perdita che può solo esserribadita.

In questa luce la psicoanalisicompare in una doppia prospetti-va. Per un verso è una forza libe-ratrice, il cui trionfo pare destina-to a coincidere con una svolta de-cisiva nella vicenda dell’umanità(non a caso il Nietzsche che inter-viene qui sembra quasi anticiparnel’esito: nel proprio stile intellet-tuale “liberato”, nella filosofia colmartello, ma anche e soprattuttonelle metafore della “grande salu-te” e dell’ “oltreuomo”); dall’al-tra essa appare, per il poeta, comeparzialmente condizionata da quelsuo sentimento di impotenza cheessa non riesce compiutamente adissolvere. È come se l’incombereangoscioso dell’ebreo intervenissea porre, senza articolarla, la que-

stione del rapporto tra ebraismo epsicoanalisi. La foga con la qualeSaba rifiuta la complicazione, chepure egli avverte possibile, nelnesso circoncisione-castrazione èanche quella che protegge, dallapsicoanalisi, il sintomo che lo ren-de più che mai scrittore, ma “di-soccupato”, agito dal desiderio,ma anche dominato dalle resisten-ze che il desiderio oppone a séstesso.

Anche in questa sospensionevi è un godimento che alimenta laqualità di questa scrittura nellaquale ci si lagna per l’impossibilitàdi scrivere. Ma si può osservareche tale godimento deve sostener-si su immagini di gioiosa unità, dinon separazione, giocate tra no-stalgia e attesa quasi messianica.

Ciò che sembra non agire èproprio quel ruolo di limite che lapsicoanalisi riconosce alla castra-zione e che introduce al mondodelle pratiche, compresa quelladella scrittura, dove lo slancio vi-tale e la plasticità che il poeta im-magina come non-castrazione, puòriaffermarsi solo valendosi di co-strizione e di percorsi obbligati,da lui associati alla circoncisione.

“Penso che anche voi nonabbiate potuto fare a meno dinotare, e da molto tempo, lastraordinaria baraonda, il pa-sticcio che si produce a mette-re la circoncisione in riferi-mento alla castrazione” (J. La-can, Seminario X, L’angoscia,1962-1963, Einaudi, Torino2007, p. 87).

Così Jacques Lacan in una se-quenza che sembra pensata per in-filare virtuosisticamente su di ununico spiedo tutte le figure messein gioco nella pagina sabiana chestiamo analizzando. Non solo, lopsicoanalista francese evidenziacome tale confusione stia nel sin-tomo proprio di una nevrosi rela-tiva al complesso di castrazione.Ovvero al ragazzo “dal bel pipì”questo collegamento non dovreb-be turbare i sonni (mentre può tur-barli a chi, come il poeta, proiettisu di esso il proprio narcisismo,ovvero il proprio desiderio di es-sere un fallo glorioso per l’ammi-razione e la gioia dell’Altro). Masoprattutto, Lacan rivendica la na-tura protettiva della circoncisionerispetto a quanto angoscia nel-l’immagine della castrazione:

“Non c’è niente di menocastratore della circoncisione.Quando è ben fatta, non pos-siamo negare che il risultatosia poco elegante. Soprattutto

a confronto di tutti quei sessimaschili della Magna Greciache gli antiquari, con la scusache sono analista, mi portanoa carrettate – e a domicilio – eche la mia segretaria restitui-sce loro, sicché io li vedo ri-partire, nel cortile, carichi diuna valigia piena di quei sessi,dei quali devo dire che la fi-mosi vi è sempre accentuatain un modo particolarmentedisgustoso. Nella pratica dellacirconcisione c’è qualcosa disalubre dal punto di vista este-tico” (Ivi).

Come si vede, il pregiudizioestetico di Saba si rovescia e lacirconcisione appare garantire as-sai più felicemente l’esito plasticoche concretizza quello slancio equella felice riuscita che il poetaconsiderava con tanta partecipa-zione. Ma soprattutto, Lacan è in-teressato a cogliere nel rito dellacirconcisione quella distinzioneche consente di separare il fallo datutto il resto:

“Io sono la piaga e il col-tello, dice da qualche parteBaudelaire. Ebbene, perchéconsiderare come situazionenormale l’essere al contempoil dardo e il fodero? La praticarituale della circoncisione nonpuò che generare una riparti-zione salubre per quanto ri-guarda la divisione dei ruoli”(Ibidem, p. 88).

È esattamente quell’accesso alsimbolico che, secondo lo psicoa-nalista, consente al soggetto di ar-ticolarsi nel linguaggio, dove pe-raltro occorrerà arte e tempestivitàperché esso trovi la sua giusta po-sizione, quella che gli consentirà

di mettersi in gioco elaborando, avolte, creativamente e poetica-mente un rapporto con tutto quan-to fungerà da causa del suo desi-derio. Quindi, la circoncisione quidiviene, con una sottolineatura chediscende dal compiacimento laca-niano per il paradosso, rito che rin-via ad un’iniziazione della scrit-tura.

Saba stesso fa convivere l’in-tuizione di qualcosa di simile conlo scenario delle sue ossessioniquando la scrittura tende a recu-perare intensità e ambizione arti-stica:

“C’è in questo senso unapologo che dovrebbe addirit-tura essere incorniciato in tut-ti i gabinetti dove si pratica lapsicoanalisi. È quello del gio-vane pastore al quale, nel son-no, era entrato un serpentenella bocca. Il pastore, che sisente soffocare, fa, senza riu-scirci, degli sforzi enormi perliberarsi. Zarathustra, preso daraccapriccio, sdegno, pietà, gligrida di mordere, di morderecon tutte le sue forze e di stac-care coi denti la testa del ser-pente. Il pastore, con un ulti-mo disperato sforzo, riesce afarlo, e si leva su con un sor-riso. “Amici miei – aggiungeZarathustra – da quel giornoio sono ammalato di quel sor-riso, lo cerco e non lo trovo,nel volto degli uomini’. Nonle pare che l’apologo (ognisimbologia a parte) sia comel’immagine di “un’analisi in-teramente riuscita?” (Letteresulla psicoanalisi, p. 42).

(Adone Brandalise, è docentedi Teoria della letteratura all’Uni-versità di Padova).

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L’ERA DELLA“PLUME ELECTRONIQUE”

Se, come diceva Sartre, “la funzione dello scrittore è di farein modo che nessuno possa ignorare il mondo e che nessunopossa dirsi innocente”, non ci si può accontentare di spar-gere luoghi comuni o approcci obsoleti per descrivere la per-cezione del mondo. Né si possono espungere le scopertescientifiche e il progresso tecnologico. Così lo scrittore hadovuto allontanarsi dal sistema narrativo del XIX secolo eadattare la sua “plume”, diventata elettronica, ai nuovicodici di comunicazione. Senza spingere fino all’adozione diuno stile SMS, non poche frasi – per non parlare di stile –subiscono l’influenza di costruzioni proprie a quelle infor-matiche, mediatiche, pubblicitarie e di altri idiomi profes-sionali. Ma per non soggiacere all’impoverimento seman-tico, bisogna modellare il proprio idioletto fondendo la cul-tura del romanzo e i diversi aspetti spesso segregativi del-l’acculturazione contemporanea. La letteratura non ha maiconosciuto tanta profusione di neologismi, né altrettantacomplessità semiologica. *

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Meglio chiarire immedia-tamente titolo ed epigra-

fe, ad avvio di discorso, conun’altra citazione per indicaresenza mezzi termini il percorsolungo il quale vorrebbe indiriz-zarsi questa mia riflessione sudue tra i poeti che ho amato dipiù fin da giovanissimo. Dicedi loro Sapegno nella sua “Sto-ria della letteratura italiana”:“(…) il Saba è stato – col Be-tocchi – uno dei rarissimi poe-ti che siano al di là delle bar-riere convenzionali e abbianopotuto addirittura parlare di ‘fe-licità’ “. L’accusa è scandalosae, detta così, sembrerebbe sug-gerire che i due imputati ri-schiano un verdetto preannun-ciato. Nel Novecento si è scrit-to della noia, della nausea e delnulla, come hanno fatto roman-zieri e filosofi; ma nessun poe-ta avrebbe potuto né dovuto so-gnarsi, per decenza, di solfeg-giare le note dell’inno allagioia. È così?

Secondo quanto è possibilericavare o anche solo intuiredalle vicende di vita di Saba edi Betocchi, non si sbaglia nel-l’affermare che siamo di frontea due uomini di pena. E tutta-via, seppure attraverso il dolo-re, entrambi appaiono capaci diricavare autenticamente dalpolline della propria sofferenzal’alimento che nutre un lororapporto di simbiosi con larealtà. È la disarmata letizia diBetocchi; è la disperata sere-nità di Saba. In entrambi c’èuna città, c’è una donna, c’è unpopolo. C’è insomma, impre-scindibile e ineluttabile, l’ap-prodo al rapporto con l’altro dasé. La catarsi che i due poetiassolvono sul proprio dolore èun effetto di dispersione delmedesimo per le strade del

mondo, appunto come una im-pollinazione che darà il suomiele. Disperdere il proprio do-lore nel mondo, dimenticarloin mezzo alla gente è ancora unatto della carità, un atto di fedein quella religione della vitache è il comune terreno con-fessionale entro il quale sareb-bero disposti a sedersi entram-bi, come fece Saba nella cucinafiorentina di Betocchi quaran-tenne, inforcando la sedia a ro-vescio, coi gomiti poggiati sul-lo schienale, con un gesto chel’amico ottuagenario ancoramimava commosso per mo-strarlo a un giovanotto biso-gnoso d’incoraggiamento,quello stesso che ora scrivequeste riflessioni.

Mi pare sostenibile l’ipotesidi accomunare Saba e Betoc-chi nell’azzardo della felicità,nell’eresia così poco novecen-tesca della felicità perché leg-gendo entrambi riconosciamoquesto comune denominatore:che fanno un discorso in primapersona, e assolutamente per-sonale, eppure parlano nellostesso tempo ancora a nome diun popolo; c’è senz’altro un di-scorso unanime che si fa senti-re attraverso la loro voce, e daquesta comunione prende so-stanza il sentimento della feli-cità. Non cronologicamente mamiracolosamente siamo primadi quello iato storico rappre-sentato dall’uomo solo piran-delliano. Saba e Betocchi sonoancora uomini tra gli uomini, eper questo la loro città ha qual-cosa di universale e il loroamore e il loro colloquio conla donna amata quasi costrin-gono il lettore a identificarsi inquel canto. La responsabilitàmorale del poeta nei confrontidella comunità umana si espri-

me per entrambi nell’accetta-zione del dato reale come im-prescindibile termine di con-fronto per l’introspezione, perl’auscultazione, talvolta quasiesasperata (specialmente inSaba) delle proprie vicissitudi-ni interiori. Ma la realtà è lì, sierge di fronte al poeta ad am-monirlo dal rischio di un sog-gettivismo che finirebbe per in-ficiare quella prima personaplurale che sta sotto l’io lirico ene è perciò la sostanza. Il No-vecento ha riconosciuto il pro-prio canone in un poetare chiu-so che pone il poeta agli arrestidomiciliari sotto la vigilanzadella scepsi o della parola cheparla soltanto di se stessa: Sabae Betocchi sono davvero poetiantinovecenteschi perché han-no il coraggio di operare que-st’azzardo chirurgico su di sé:fanno ancora poesia a cieloaperto.

Mi piace citare la bella no-tazione di Giancarlo Pontiggiache osserva come tanto Sabaquanto Betocchi affidino l’inci-pit del proprio canzoniere al-l’immagine del cielo. Dalla vo-ragine del cielo irrompe sullapagina il mistero manifesto einsieme imperscrutabile di ciòche chiamiamo mondo, la suasacralità indecifrabile come in-decifrabile è il male che la at-tende in agguato. Questo susci-ta certe presenze ricorrenti nel-l’uno e nell’altro poeta, comegli uccelli (Betocchi dice diSaba che ebbe il dono bellissi-mo di possederne il canto); glioggetti – specie quelli che ac-compagnano l’umana fatica –amorosamente animati; quelsentimento di gratitudine paga-na (nel senso del riconoscimen-to del dovere di appartenenza,come civis piuttosto che come

viator, al pagus terreno, allacreazione del mondo, alla sualegislazione morale) che fondala disperata rivendicazione delproprio approdo alla felicità.Mai raggiunta né da Saba né daBetocchi, tanto che ambeduecontinuano a far poesia sul fil dilama che suscita dall’errorel’orrore delle sue conseguenze,e tuttavia mai rinnegata innan-zitutto nella sua duplice naturadi diritto/dovere. Forse in Sabaè più presente l’urgenza di ri-vendicarne il diritto, e ciò tantospesso produce la fascinazionedel sé quanto spesso in Betoc-chi ne troviamo l’ablazione. InSaba spesso il popolo si identi-fica con l’io che lo canta; in Be-tocchi altrettanto spesso l’io siidentifica (come nelle “Alle-grezze dei poveri a Tegoleto”)col popolo che canta.

Saba attinge l’esperienzadella felicità per catabasi, ri-conciliandosi infine con gli in-feri della coscienza, illuminan-doli (ben al di là delle lanternedella psicoanalisi che pureprovò ad accendere) con la lucedella poesia; Betocchi attingel’esperienza della felicità peranabasi, un’ascesa, una fugafuori dalla esclusiva gabbia del-l’ego per esperire il gremboprovvido e materno (maternoanche laddove parla il suo“cuore di padre”) dell’io chenulla esclude. Nell’uno e nel-l’altro c’è comunque un senti-mento paradossale e salvificodi maternità: per Saba il poetafa l’uovo; per Betocchi il poetaentra nel mistero della gesta-zione della vita, entra dentrol’essere per dargli voce in for-ma di pigolìo interiore, per ve-stirlo di piume amorose.

Forse per entrambi (sicura-mente per Betocchi) di fronte

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Gli “F.P.” di Saba e BetocchiChe significa F.P.? Si tratta di un’abbreviazione per Felici Pochi.

E chi sono i Felici Pochi? Spiegarlo non è facile, perché i Felici Pochi sono indescrivibili.

Sauro Albisani

Elsa Morante“Il mondo salvato dai ragazzini”

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alla celebre equazione ‘lettera-tura come vita’, quello che è daabolire è il ‘come’: per loro laletteratura è vita, neanche tra-scrizione o rielaborazione o de-cantazione della vita vissuta,ma vita; testimonianza del co-stante, precario, arrischiato di-venir creatura da parte dellacreatura stessa, che non è maitale una volta per tutte ma siimmola nel sacrificio del’esi-stere comune, dell’essere pergli altri e con gli altri. Saba eBetocchi chiedono alla paroladi agire, di intervenire nellarealtà. Betocchi si spinge piùoltre, anche per occasioni pro-fessionali, assetato e innamo-rato di poesia attuale, cioè fattadi atti, secondo quel misericor-de prodigarsi di cui si nutre labuona volontà, prima, più an-

cora e oltre l’interesse e l’inna-moramento per la poesia ver-bale.

In questa dimensione fat-tuale si assiste nella loro poesiaa uno scandalo quanto mai de-sueto di fronte al negativismo eal nichilismo novecenteschi: lafelicità ritorna ad essere pro-nunciabile e la poesia per boc-ca del poeta si confessa e siprofessa figlia dell’allegria.Un’amorosa fedeltà induce idue amici, dopo le razzìe dellastoria (ripenso ai versi di “Tea-tro degli Artigianelli” e a quel-li di “1946”) e le delusioni pri-vate, a rialzare gli occhi al cie-lo. Come dubitare d’altrondeche per l’immaginario collet-tivo nel cielo si identifichi latopografia (o l’illusione) dellafelicità? E in quale linguaggio

accade questa rivelazione? Sipotrebbero fare, probabilmen-te, per Betocchi le stesse con-siderazioni che egli fa perSaba: “C’era (…) nel suo fra-seggiare così fresco di ore, diluoghi e di occasioni umane,qualcosa che, senza perdere ilcontatto con la vita quotidia-na, pareva riflettere, nel suomovimento variato, e renderecomprensibile, una più vasta,originale, salda unità. Era, pen-so,il senso amoroso della crea-zione: ma chissà in che modola sua più antica coscienza tor-nava di là, alla chetichella, efattasi altro, divenuto spiritocomunicante col tempo, edanzi tutto tempo in amore e do-lore, riportava a noi, nella suapoesia, qualche cosa dell’anti-co miracolo.” (da “L’esempio

di Saba”, in Carlo Betocchi,Confessioni minori, Firenze,Sansoni, 1985, p. 302).

In conclusione, e in breve:penso possa valere per tutti edue i poeti la definizione sabia-na di “poesia onesta”, come pa-rola guadagnata alla felicità aprezzo del dolore, e quella be-tocchiana di poesia come storiamorale (“Canto una storia mo-rale / nel più basso dei linguag-gi”, prima epigrafe delle “Poe-sie del sabato”). Davanti a que-ste due voci il lettore sente chesi instaura anche dentro di luiun rapporto eucaristico coltempo: la coscienza è chiamataa cibarsi del tempo e a nutrirsi– quotidianamente, con urgen-za e insieme con pazienza –della sua laica e nondimenovera transustanziazione.

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Il Dipartimento di Italianistica, con la direzione scientifica di Anna Dolfi e lacura di Leonardo Manigrasso, ha ricordato Alfonso Gatto, con un convegno

e un catalogo che ne ripercorre la feconda presenza fiorentina.Una circostanziata intervista a Piero Vignozzi apre il volume, restituendoci

un uomo intensamente presente al suo tempo, partecipe della vita culturale eartistica, pubblicista, pungente, rispettoso e vivo nelle amicizie. “Era un pittoremolto maldestro – ci dice Vignozzi, in un passaggio dell’intervista rilasciata aLeonardo Manigrasso –, eppure aveva una forza, un senso del colore che tra-smetteva sempre all’opera una grande vitalità”.

Il catalogo, organizzato in più sezioni, raccoglie “dediche fiorentine”(Betocchi, Bonsanti, Rosai, De Robertis, Macrì, Parronchi, Santi, Fallacara,Cassola, Tentori e altri), “Gatto al Vieusseux”, “Gatto pittore”, “Ventiquattrocataloghi fiorentini” (che riassumono l’intensa attività critico-artistica di Gatto).

In quanto a Gatto pittore riportiamo un suo scritto, “Del perché dipingo”,che, in definitiva dà conto della sua poetica:

“Perché dipingo? Non so rispondere, ma almeno posso tentare. In casa mia,non c’erano poeti, ma scultori molti, tanti quanti i marinai che dallo Stretto pre-sero il largo per le proprie avventure, scultori buoni, fra i quali un Carmelo chemorì giovane e un Saverio che a tutt’oggi, dopo Gemito e prima di Perez, è il piùmeritevole scultore di Napoli. Anche Zio Saverio, a mezza età prese a dipingere.

Nel sangue ho sempre avuto questa smania del plasticare e del dipingere, e pureso bene che cosa significhi fare una statua o fare un quadro. Occorre salvare l’a-nima, e spesso con le mani più impazienti da ricondurre al segno. Non socome: ma l’anima per un soffio almeno, riesco a prenderla per i capelli, nelmomento in cui chiedo al colore di dirmi e di dire qualcosa, di non lasciarmiavvilito con tutto quello che non so fare. Mi sembra di chiamare le cose. Che lamia “pittura” sia solo questa salvezza di credere agli occhi? Ad occhi chiusi, nelsegno, continua la nostra meraviglia del vedere. Altro non so dire: dedichiamotutto all’orizzonte, scommettiamo sullo spazio della mente quel che il tempo, ognigiorno, ci porta via.

Che rapporto ha la mia “pittura” con la mia poesia? La domanda mi saràposta o se la porrà il mio lettore chiamato a essere l’appassionato spettatoredei quadri miei. Voglio aiutarlo nel dirgli che è insito, nel mio discorso pitto-rico, “processo di sviluppo nel dato memoriale”, come ha riconosciuto Lici-sco Magagnato in uno scritto che mi ha dedicato. Il mio punto di partenza è nelcolore, nel chiamare i paesi, le cose, a “essere” in una realtà della memoriache ha tutta addosso la sua presenza, il suo valore di significazione: quelcielo, quei paesi, quelle figure, quell’architettura di spazio e tempo, di luce,quelli soli e non altri, quasi indicati, e direi “dimostrati” col mio occhio. È lastessa incontentabile natura della poesia: l’ineffabile, pago di sé, che pure devecomunicare, e affidarsi ai mezzi più impervi e più ostili – quella parola, delsegno, del colore – qualificati sino a far propria la trepidante emozione del pit-tore e del poeta, nel suo essere e nel suo “vedere”. Non so se sono statochiaro, ma ho cercato di esserlo, senza rinunciare a quel che mi sfugge tra ledita (sensibilità, apprensione, delicatezza) e che è l’aria permanente del miorespiro.

Un’altra cosa voglio dire, e a proposito. La pittura, quella che riesco afare, m’è diletto e fatica insieme e non saprò mai perciò riconoscermi dilet-tante o professionista dell’opera mia. Di certo so di non essere un “domeni-cante”, un “nativo” o un “popolaresco”, e non per superbia. So che tra loroci sono stati e continueranno ad esserci geni nuovi e imprevedibili. Ma credoche essi, sia pure nei modi più alti, siano occupati a raccontare, a proporreuna storia del visibile e dell’invisibile, laddove io parto dalla prima stesura delcolore, dal primo segno, così come parto dal primo verso, per imbrogliarmie sbrogliarmi da me”.

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Eallora sarei andato con la bicicletta fin laggiù, mi sarei seduto davantial fiume, al margine del declivio più basso, e là avrei subito le mie stro-

fe ignote.Probabilmente per questa ragione la vita è una sorta di sottosuolo fur-

tivo, ci stiamo attaccati. È interessante, tuttavia, osservare l’abilità con cuisi riesce lesti a rubare. Comunque, scaltro lettore, mi è sempre sembrato unottimo pezzo di storia segreta, e inoltre una qualsiasi spiegazione, a ben ve-dere, non c’entra. È soltanto il sottobosco di un servo di scena.

A questo livello l’unica cosa che conta rimane l’azione, il gesto (Rive-ra o Giotto è lo stesso) di un uomo che si presume sappia tutto dell’ozio edel dolore. Anche se la prudenza non è mai troppa finalmente si può rico-noscere che questa è tanto meno un integrazione che prevede l’andamen-to di ciò che uno sta per dire.

E c’è ancora da dire che i dettagli sono il senso della vita. Anche se ora-mai sembra tutto uguale, ovunque … la gente non fa che correre verso la-vori senza senso. Giorno dopo giorno, e non si fermano mai. “Far fronte allespese” è tutto quello che viene fatto. Cibo, abiti decorosi, affitto, gas ed elet-tricità. Mesi e mesi di “buste paga”.

Ma c’è ancora da dire che all’Università degli Studi di Firenze (Dipar-timento d’Italianistica) ci sono state due lunghe giornate di conversazioniserie su “Alfonso Gatto a Firenze”. Idea e tesi di spinta venuta dal giova-ne studente Leonardo Manigrasso. E insieme ai discorsi, al nutrito catalo-go, anche una mostra attenta, quasi privata del poeta salernitano a Firenzeappunto.

Mi sono trattenuto ai bordi lontani della grande aula e dal grande tavo-lo di fondo dove si parlava. Ero triste perché non avevo motivi per giusti-ficare. E c’è ancora da dire che il passato si chiude così al suo significato pri-vato. L’ombra gotica del suo processo solitario: pro e contro del vero di unaripetuta cronaca.

E in ogni caso mi sentivo depresso ed esausto, ma nello stesso tempo an-che solo a guardare, tutta quella gente mi riempiva di sensazioni grandio-se. La vita non è abbastanza e Allen Ginsberg ha forse ragione “Gli occhi

dei morti vedono”. (“e allora i santi lassù/piangono per gli uomini/gli oc-chi dei morti lo vedono” Stanze, 1946)

Ecco dunque l’ostacolo per aderire, sia pure in misura vaga a quanto ilbreve racconto acconciamente richiederebbe. Un partecipare minuto e fa-miliare dei giorni trascorsi con Gatto e anche con l’allora piccolo Leone. Maè come suggerire una trama tenue e negata.

Si potrebbe incominciare da quando conobbi Gatto. Stava, per cosìdire, ritornando in maniera ferma a Firenze. Aveva trovato lavoro al “Gior-nale del Mattino”, dove anch’io qualche tempo dopo capitai.

Potrei andare avanti di questo passo e dire che siamo stati insieme qua-si ogni giorno, legati dal lavoro e dai “comuni affanni”, in più alcune gite inauto (la potente Morris verde) lo stadio alla domenica (Fiorentina e Milan perlui), e le cene al vecchio Pinocchio in via della Scala con Graziana, Leoneancora e Mary. Inoltre le lunghe notturne partite a carte nella casa del Listri.E i vecchi e grandi amici che non ci sono più: Bilenchi, Capocchini, Macri,Luzi, Caponi, Pratolini e via fino a Righi.

Non ho alternative, nel bene e nel male per quanto mi riguarda posso af-fermare che debbo tutto a quel periodo, lo stesso stipendio oramai pensio-ne della scuola viene da lì.

È facile rivedere allora la bella casa che Gatto abitava in via Masac-cio 181, e poco dopo quella di viale Volta. Le due grandi terrazze so-vrapposte in alto sui tetti e Firenze distesa allo sguardo. E ancora poter ri-cordare di quando il piccolo Leone, alunno della scuola elementare, nel-lo svolgimento di un tema in classe scrisse: che la persona a cui voleva piùbene dopo il babbo e la mamma era il pittore Piero Vignozzi che fuma-va la pipa.

Ma sto appoggiandomi a qualcosa che non può sostenere. Al solito homirato bersagli che mi hanno fatto deviare. Conviene ammettere allora l’in-grata incapacità di farsi un fuoco.

Ma forse è anche vero che non si può descrivere un racconto di Tolstoj.Meglio affidarsi alla leggera nostalgia della memoria e continuare a credereche Gatto amò soprattutto il bambino infelice che era stato: il piccolo bam-bino di “Morto ai paesi” e che se lo tenne stretto al cuore.

Ma c’è ancora da dire di lasciare aperta la finestra sulla campagna. Mal-grado tutto è una sera umida e fresca di questo fine maggio 2007. E oltre lasiepe al limite dell’orto s’intravedono i neri tronchi dei faggi.

C’è un posto che vale la pena di vedere, ma è molto costoso. A dire ilvero, e cerco di essere sincero su queste faccende: Firenze grande e morta/ nella sera e nel fiume, / una lapide effimera sia vento / al dolce nome, algrigio della porta.

E non vorrei neanche scriverlo fino a domani, ma il grande amico del-le notti di Gatto a Firenze e giù fino a Salerno è sempre rimasto Lelio Schia-vone. Ma ormai questo faceva parte del passato. Questo e tutto il resto.

OMAGGIO A

GATTOf.g.

Con AlfonsoPero Vignozzi

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Alfonso Gatto, Vignozzi che riposa.

Tra le linee di tendenza della storiografia contemporanea, quella cheriguarda la storia economica è una delle più diffuse. Secondo un’ac-

cezione ampia ogni storia è storia economica, ma appunto per questo esi-stono molti modi per intendere il rapporto tra la storia e l’economia.

Giovanni Pallanti, con questo libro, si pone nel solco della tradizionestoriografica italiana precedente: l’impiego dei modelli matematici estatistici ai fenomeni dell’economia, privilegiando l’approccio classico,che considera la storia economica come parte della storia generale dellasocietà in tutte le sue connessioni sociali e culturali.

La storia dell’origine e dello sviluppo della Cassa Rurale dell’Im-pruneta non è tuttavia né un esempio di microstoria, né un saggio di eco-nomia applicata: è invece un libro che analizza le vicende di un piccoloistituto bancario secondo l’ottica della storia civile e spirituale dellacomunità in cui è sorto.

Il programma del libro è dichiarato sin dal titolo: le Radici cristianedella Cassa Rurale (prefazione del cardinale Antonelli, ed. Bandecchi eVivaldi), e tutto lo svolgimento della ricerca, sempre documentata mamai pedante, si svolge appunto assumendo come punto cardine il pen-siero spirituale e sociale del Cristianesimo nella specifica forma assuntanella cultura cattolica moderna. Nel primo capitolo Pallanti svolge conestrema chiarezza l’idea generale che sta alla base del suo modello diinterpretazione: la funzione del magistero della Chiesa “contro l’usura eper la solidarietà e la cooperazione tra lavoro e capitale”.

L’autore indica così i capisaldi di questo pensiero nel loro sviluppostorico, dalle origini, il Padre della Chiesa San Basilio Magno, ai ConciliEcumenici che hanno deliberato contro l’usura, dal Niceno I (325) aquello di Vienna (1312), fino alle Encicliche sociali: la “VIX Pervenit”(1745) di Benedetto XIV, la “Rerum Novarum” (1891) di Leone XIII – lagrande enciclica da cui pare derivare gran parte del pensiero socialemoderno della chiesa – e infine la “Quadrigesimo Anno” (1931) di Pio XI.

Alcuni punti della riflessione di Pallanti investono temi fondamentali,come l’interpretazione della “Rerum Novarum” che – come ricordal’autore – secondo Giorgio Candeloro e Norberto Bobbio contenevaidee antisociali e antimoderne, mentre nell’interpretazione più recente diPiero Barucci e Antonio Magliulo (1996), recepiva una visione piùmoderna del capitalismo, quasi ad anticipare Sombart e Max Weber,nonostante il giudizio severo verso il cosiddetto “capitalismo liberale”.

Il punto di vista di Pallanti corrisponde dunque a quello che eglichiama il Magistero della Chiesa, in particolare riferendosi alla “Qua-drigesimo Anno”, che “denunciava come fonte di ogni sperequazione ilcapitalismo estremo privo di ogni coscienza sociale che, con le sueingiustizie, o favorisce i capitalisti senza scrupoli o i più violenti nellalotta e i meno amanti della coscienza” (p .23).

A questa critica l’autore unisce la denuncia radicale dei movimentitotalitari del Novecento, “il comunismo (fino al 1989), il fascismo e ilnazismo”.

Nei capitoli successivi l’analisi si sposta dai principi generali allevicende della Cassa Rurale, dalla nascita nel 1914, “tra i venti dellaguerra”, al ruolo profondamente progressista di sacerdoti come DonPrimo Mazzolari e Monsignor Orazio Ceccarelli, autentici “testimonidella dottrina sociale della Chiesa”, sempre impegnati nella lotta a difesadei contadini, artigiani e operai (p. 31).

In particolare l’autore individua proprio nelle idee di Ceccarelli,sacerdote della Diocesi di Pistoia, il vero e proprio “manifesto costitu-tivo delle Casse Rurali e Artigiane” nel 1906: “Cotesti poveri contadininon hanno bisogno che uno gli presti cento lire per tre mesi, ma hannobisogno di duecento, cinquecento di più lire per cinque anni, rimettendogradatamente il loro debito. E la Cassa Rurale può fare, come ha giàfatto, tutto questo” (p. 34).

Nel capitolo terzo, l’autore segnala il rapporto tra l’origine dellaCassa e il culto della Madonna dell’Impruneta, antica protettrice dellaRepubblica fiorentina; Pallanti indica a sostegno di questo rapportoquanto documentato da Franco Cardini sul culto della Madonna del-l’Impruneta nella Firenze del Trecento (pp. 48-49).

La fondazione della Cassa Rurale dell’Impruneta il 2 agosto 1914costituiva dunque un evento importante nella storia della politica eco-nomica, un evento di segno profondamente democratico come appare nelmanifesto programmatico che affermava: “La Cassa Rurale deve esserefondata, deve vivere a vantaggio della classe di lavoratori, deve venirein aiuto dei contadini, dei piccoli affittuari e possidenti, degli esercenti,degli umili artisti, deve venire in aiuto in una parola alla piccole energieche sono trascurate dal gran credito e sfruttate barbaramente da unaschiavitù condannabile – lo strozzinaggio – che sfugge troppo facil-mente alla legge umana, calpestando la divina” (p. 58).

Pallanti segue poi la storia della Cassa dalla sua trasformazione inBanca di Credito Cooperativo nel 1993 e agli eventi più recenti, fino al2004, nel contesto generale dello sviluppo economico del secondo dopo-guerra e le crisi che ne segnarono la storia. Il libro si chiude con una cita-zione da uno scritto di Carlo Bo che riafferma il valore profondamentedemocratico delle Casse come “Banche dell’Anima”, secondo il signi-ficato più profondo dello spirito cristiano in una società che, di fatto, nenega i valori umani di solidarietà più profondi (p. 93).

Non spetta a me esprimere un giudizio sul valore di questo libro nel-l’ambito della storia economica, ma si può segnalare il suo valore perquanto riguarda il rapporto tra questa stroria e quella più ampia della cul-tura politica del Novecento. Pallanti testimonia nel suo libro quellavisione democratica e popolare cara alla tradizione del cattolicesimo fio-rentino moderno, che ha avuto in La Pira il suo esponente più alto, di cuiancor oggi si avverte l’eco.

Certo in un’epoca in cui, come ebbe a scrivere un maestro del pen-siero sociologico moderno, Emile Durkheim, “i fatti sociali devonoessere studiati come cose”, e in cui “l’oggetto dell’economia politica,così compresa, non è una realtà che possa essere indicata col dito, masemplici, possibili, puri concetti della mente” (E. Durkheim, Le regoledel metodo sociologico, Roma, 1996, pp. 8 e 41), non è facile accettarel’idea che a muovere l’economia possano essere le leggi della coscienzae dello spirito.

Giovanni Pallanti, con coraggio, ha testimoniato proprio questa ideadi un primato della coscienza sulla società.

LE RADICI DI UNACASSA RURALEMarco Fagioli

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Come è noto Tzvetan Todorov, nel suo celebre studio La letteratura fantastica dà unadefinizione piuttosto restrittiva della categoria del fantastico; nella sua classifica-

zione egli tende infatti a escludere tutta la narrativa che fa riferimento al “soprannatu-rale” propriamente detto, e si rivolge piuttosto a quella stretta zona liminare di testi neiquali il lettore si trova spaesato ed è costretto a decidere autonomamente se gli elementi“strani” presenti nel racconto siano o meno da ascrivere a leggi che violano la nostrapercezione del reale. Il mondo narrativo descritto dalla letteratura fantastica è infatti co-struito in modo mimetico-realistico ma, a un certo punto della narrazione, si verifica unevento che è inspiegabile seguendo la logica razionale su cui tale mondo si regge. Comeha scritto Roger Callois, «Il fantastico è […] la rottura dell’ordine riconosciuto, irru-zione dell’inammissibile all’interno della inalterabile legalità quotidiana, e non sosti-tuzione totale di un universo esclusivamente prodigioso all’universo reale» (R. CALLOIS,Nel cuore del fantastico [1965], Milano, Feltrinelli, 1984, p. 92). La caratteristicaprincipale del fantastico, in questa accezione, è dunque che il testo non inclina espli-citamente né allo “strano” (o soprannaturale spiegato, come nei romanzi di Ann Rad-cliffe) né al “meraviglioso” (o soprannaturale accettato, come nelle opere di HoraceWalpole), sebbene l’interpretazione non realistica sia decisamente la più probabile dalpunto di vista dell’intreccio.

La ripartizione todoroviana è stata accettata da molti critici, ma ha anche suscita-to numerose perplessità in coloro che utilizzano in senso molto più ampio la categoriadel fantastico. Non è nostra intenzione naturalmente prendere posizione per l’uno o l’al-tro di questi atteggiamenti: la definizione di un genere è sempre parzialmente arbitra-ria e, più che considerarne la sua validità in senso assoluto è interessante applicarla aisingoli testi, “farla lavorare” per verificare se questa apporta o meno un contributo allamigliore comprensione dell’opera in oggetto. Ciò che in prima istanza possiamo af-fermare è che buona parte della narrativa di Arturo Loria rientra a buon titolo nelcampo della letteratura fantastica secondo la tassonomia todoroviana. Esaminando laproduzione novellistica di Loria troviamo numerosi racconti che si adattano perfetta-mente al canone di Todorov, e quasi sempre al loro interno compaiono inquietanti pre-senze spettrali. A parte il giovanile L’egoismo dei morti (scritto nel 1924 ma rimastoinedito e pubblicato solo nel 1989 in A. LORIA, Memorie di fatti inventati, a cura diFranca Celli Olivagnoli, Firenze, Ponte alle Grazie, 1989, pp. 258-273) che può esse-re situato senza esitazione nel campo del soprannaturale, spesso gli spettri presenti nel-la narrativa loriana appaiono legati a un immaginario visionario di tipo onirico, che su-scita nel lettore il ben noto sentimento di “esitazione”, il dubbio cioè se l’apparizionesia dovuta a sogni, allucinazioni o a cause soprannaturali. Per esempio nel raccontoL’appuntamento (incluso nella prima raccolta di Loria, Il cieco e la Bellona) la prota-gonista, Teresa, vive da anni ai margini della realtà, rifugiandosi in un suo mondo al-lucinato nel quale lo stato onirico prevale rispetto a quello di veglia. In questa dimen-sione alternativa Teresa viene spesso visitata dai morti, e solo in loro compagnia ellatrova rimedio ai torti subiti nell’esistenza reale. Gli ectoplasmi che popolano i sogni diTeresa, al contrario di quanto avveniva ne L’egoismo dei morti rivestono, agli occhi del-la protagonista, una funzione essenzialmente consolatoria, se si esclude l’orribile ap-parizione della gamba del malvagio fratello Pietro, tagliata anni prima a causa di unacancrena. La valenza rassicurante di questi spettri, rifugio di una mente ormai preda del-la follia, è dimostrata dal fatto che la protagonista, in seguito all’improvvisa sparizio-ne di queste visite notturne inizia a desiderare appassionatamente la morte del fratello,che nei suoi intendimenti dovrebbe rappresentare una sorta di vittima sacrificale gra-zie alla quale ristabilire un contatto con il mondo degli spiriti. Ci troviamo qui al co-spetto di un elemento ricorrente nella narrativa “fantastica” di Loria: la messa in attodi un rito, a volte penitenziale, altre volte palesemente esorcistico, volto a placare i de-funti o a propiziarseli. E infatti, dopo la scomparsa del fratello Teresa ricomincia a so-gnare i fantasmi e le appare anche lo stesso Pietro, ricongiunto nel sogno alla gamba ta-

gliata. La funzione della morte per Teresa è dunque quella di sottrarre agli “altri”qualsiasi valenza minacciosa e per questo motivo, agli occhi della protagonista, ancheil fratello che non è più in condizioni di nuocerle si mostra nel sogno benigno e ami-chevole.

Quello de L’appuntamento è però forse l’unico caso, all’interno della narrativa diLoria, nel quale la presenza di un fantasma ha una valenza rassicurante per il personag-gio. Più spesso l’apparizione di spettri si riconnette, secondo un topos della narrativa fan-tastica, a un senso di colpa presente nella psiche del protagonista. Tale è per esempio lafunzione delle entità che infestano la villa di Peter Schmoll nel racconto Arriva l’impe-ratore. Peter, ex capitano dei lanzichenecchi, era stato cacciato per aver fatto ucciderein un momento di ubriachezza degli ostaggi importanti. Le oscure presenze, in questocaso, appaiono come la materializzazione del senso di colpa del protagonista: «gliostaggi trucidati avevano emigrato dalle loro tombe, s’erano impiantati nella sua casa,presenti come oggetti di prova, pronti nella sua fantasia per essere mostrati all’Impera-tore. Nelle stanze disabitate ch’egli solo apriva e percorreva, là, negli angoli più bui e piùremoti, stavano grandi figure paurosamente avvolte in veli neri, curve come in attodi contrizione» (LORIA, Il cieco e la bellona [1928], Milano, Mondadori, 1959, p. 154).L’unico possibile intervento dei vivi sui morti, anche stavolta, assume la forma di un ritopropiziatorio ed esorcistico, che però non ottiene il risultato sperato. I “cavalli carnivo-ri” da adoperare in battaglia, grazie ai quali Peter spera di tornare nelle grazie dell’Im-peratore sono soltanto un’illusione, frutto di una beffa giocatagli dal cavallaro Erman-no, e quindi il protagonista resta prigioniero del suo angoscioso senso di colpa, vittimae carnefice insieme in una sua personale e interiore “stanza della tortura”. Allo stessomodo in un altro racconto inedito scritto nel 1938, intitolato Il canale, due amanti as-sassinati appaiono al protagonista, complice del delitto, pallidi e con aria vendicativa ri-flessi nelle acque del canale presso il quale sono stati uccisi. Anche stavolta il tentativodi esorcizzare il senso di colpa attraverso il rito penitenziale per eccellenza (la preghie-ra) è totalmente inefficace (LORIA, Memorie di fatti inventati, cit., p. 375).

Come si è visto, nelle novelle di Loria l’apparizione di presenze spettrali è moltospesso collegata al senso di colpa di un personaggio, e quindi alla sua interiorità psi-chica. Più in generale si può affermare che il senso di mistero, che è l’elemento carat-terizzante della letteratura fantastica, ha stretti legami con la psicologia del profondo.Non a caso Freud, per illustrare il suo concetto di “perturbante” (unheimlich), prendecome spunto il racconto di E.T.A. Hoffmann Der Sandmann analizzandolo con il me-todo psicoanalitico e giunge alla conclusione che l’effetto perturbante che tale raccon-to comunica al lettore deve essere ricondotto al meccanismo della “coazione a ripete-

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LORIAe gli spettriDaniele Fioretti

Arturo Loria in un disegno di Eugenio Montale(cortese concessione dell’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux)

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re”, in base al quale un contenuto psichico represso si ripresenta mascherato sottonuove forme, e quando si ripresenta suscita proprio una sensazione strana e angoscio-sa (S. FREUD, Il perturbante [1919], ora in Opere vol. IX, Torino, Bollati Boringhieri,2003, p. 99). Applicando alla narrativa di Loria il concetto di unheimlich potremmo dun-que ipotizzare che l’elemento fantastico e “perturbante” di certi racconti abbia una stret-ta attinenza con il “ritorno del rimosso”, ovvero con il ripresentarsi in forma masche-rata di un trauma psichico. Non di rado nell’opera di Loria troviamo ad esempio trac-cia di un conflitto latente con la figura paterna; il caso forse più evidente, nel quale tral’altro questo tema si lega alla presenza di uno spettro, è dato dal racconto Il quadro in-compiuto nel quale il protagonista, pittore fallito e inetto, continua a vivere e lavorarenello studio ereditato dal padre morto. Il permanere in questo luogo del ricordo oppri-mente di questa figura impedisce di fatto, nel figlio, la maturazione di una propria ma-niera artistica originale, tanto che quest’ultimo si è ridotto a campare della vendita deiquadri del padre. Ma questa presenza così ingombrante del defunto si concretizza in im-magine spettrale solo nel momento in cui il figlio, su richiesta di un mercante d’arte,pone mano a un quadro incompiuto: «a un tratto, m’è parso che accanto alla tela sor-gesse una figura pallida, ossuta, a scacciarmi da quell’indagine, a rimandarmi al mio piùastratto lavoro per vedere se n’ero contento, ormai, se mi bastava. Ho compreso ch’e-gli occupava ancora il suo studio» (LORIA, Il compagno dormente, Milano, Mondado-ri, 1960, p. 134). E poche pagine più avanti l’opposizione paterna prende quasi consi-stenza fisica: «m’è sembrato che la mano di lui, gelida, mi allontanasse dal quadro e dal-lo studio. Per un attimo ho avuto l’istinto di fuggire; poi, col sentimento di aver subi-to un terrore prevedibile in tale mio sforzo di iniziazione, ho ricollocato il quadro allaparete e sono uscito in strada, lungi dalle immagini sue e dalle mie» (LORIA, Il com-pagno dormente, cit., p. 137). Soltanto l’identificazione col padre, la risoluzione di as-sumere la sua maniera pittorica per portare a termine il quadro sanciscono la fine delconflitto con la figura genitoriale e l’ingresso di quest’ultimo nell’età matura, simbo-leggiato dalla vendita del suo primo dipinto. È da notare comunque che tale “matura-zione” del protagonista è solo apparente e che si risolve in realtà, in ultima analisi, inuna sorta di “resa” al potere immanente del padre.

Il tema del conflitto con la figura paterna torna frequentemente nella narrativa diLoria, anche in racconti che non presentano nuclei tematici riconducibili al fantastico;ad esempio ne La casa ritinta si assiste al tentativo (stavolta fallimentare) da parte delprotagonista, di liberarsi dall’opprimente ricordo del padre, al quale è succeduto nelladirezione di una casa di riposo. Stavolta però il rito teso a esorcizzare la memoria delpadre è fin da subito evidentemente inadeguato: far ridipingere in rosa la grigia facciatadella casa paterna «quasi sfogasse un rancore» non fa che sottolineare, nel finale del rac-conto, il fallimento del figlio, la sua incapacità di portare a termine un’azione di con-tenuto e non semplicemente “di facciata”: «La casa era quasi finita ed egli si trovavaimpreparato a viverci, vecchio uomo della casa buia, grigia e sporca come la custodi-va suo padre. S’accorse, osservando come i ricoverati godevano dell’aria di novità crea-ta nell’Ospizio dai festoni e dalle bandiere, che niente sapeva cambiar per lui, che nien-te sarebbe cambiato» (LORIA, La scuola di ballo [1932], Firenze, Vallecchi, 1986, p.52). Dietro alcuni racconti di Loria potrebbe dunque nascondersi un conflitto fra l’au-tore e la figura paterna; questa almeno è l’opinione di Michel David, che nota che «ilpadre, poco evocato nei testi intimi, […] è invece onnipresente, come imago protago-nista più o meno schiacciante di ogni trama di novelle» (M. DAVID, Loria e la malin-conia in La zona dolente. Studi su Arturo Loria, a cura di Marco Marchi, Firenze, Giun-ti, 1996, p. 111). Molto spesso si tratta di figure investite di poteri coercitivi che im-pediscono l’affermazione del figlio, come nel racconto La casa ritinta; David giungeperfino a definire, nel caso de Il quadro incompiuto, “impotenza artistica” l’impossi-bilità da parte del protagonista di superare il padre. Si tratta evidentemente di una ipo-tesi estremamente suggestiva e forse verificabile nel testo ma che rischia di scadere nel-lo psicologismo, nella tentazione di psicanalizzare un autore attraverso le sue opere; unaipotesi che è inoltre molto difficile da dimostrare confrontandola con la biografia del-l’autore, vista l’estrema riservatezza di Loria in merito alla propria vita privata, ele-mento che è stato a più riprese sottolineato anche da Montale, nella doppia veste di ami-co e di recensore.

Un’altra interpretazione, altrettanto interessante e forse più fondata, è quella chevede gli spettri di Loria non tanto come rappresentazione di elementi perturbanti o sen-si di colpa ma piuttosto in funzione allegorica. Per capire fino in fondo il senso di que-ste apparizioni dobbiamo anzitutto notare l’assenza di una netta demarcazione, neiracconti, fra vivi e morti che deriva secondo Ernestina Pellegrini dalla radice ebraicadella cultura di Loria, focalizzata più sul concetto di male fisico che su quello di malemetafisico: «tutto è iscritto irrimediabilmente nell’aldiqua. Perché Loria ha della mor-te un’immagine sedentaria, incavicchiata nella terra. […] I morti di Loria scendono, nonsalgono. E l’aldilà è una specie di Sheol, di buio ipogeo» (E. PELLEGRINI, La riservaebraica. Il mondo fantastico di Arturo Loria, Reggio Emilia, Diabasis, 1998, p. 126).Questa mancanza di una “topografia alternativa” per le anime dei defunti ha una con-seguenza importante nell’universo narrativo di Loria: fa sì che i morti non godano diuno statuto particolare. In assenza di qualsiasi prospettiva trascendente anziché uscire

dal mondo essi permangono, come dei revenant; non sono dunque soggetti a un diver-so statuto esistenziale, ma presentano piuttosto una profonda affinità con le altre grot-tesche figure che popolano i racconti di Loria; possiamo anzi considerarli, sempre se-condo Ernestina Pellegrini, «la punta più alta della gerarchia dei personaggi eccentri-ci e fuori posto, nella resa iperbolica delle figure del contro, dei reprobi, dei personaggial nero di Loria, di tutta quella popolazione di mendicanti, gobbi, ladri, evasi, maghi cheinfesta poeticamente il ventre umido dei suoi racconti più belli» (PELLEGRINI, La riservaebraica, cit., p. 127). Seguendo questa interpretazione dunque gli spettri loriani non ciappaiono più dei personaggi diversi dai viventi ma risultano anzi ancora strettamentelegati alla vita: una schiera di morti-vivi come le apparizioni presenti nella Lettera su-gli spettri (1954) o nei già citati racconti L’appuntamento e Arriva l’imperatore. A que-sti morti-vivi fanno da contraltare molti vivi-morti, scarti posti ai margini della società,resi evanescenti dalla loro stessa inessenzialità. Il protagonista del racconto L’alber-gatore malato ad esempio, ormai soppiantato dal figlio, viene definito dai clienti come“il fantasma dell’albergo”, ovvero un uomo finito, senza più fede o tradizioni da cu-stodire o rivitalizzare. E anche Gerolamo, “compagno dormente” del racconto omoni-mo, ha nel sonno “qualcosa di malato”, appare solitario e indifeso. Questa figure emar-ginate, inermi e prive di forze sono l’esatto contrario (o forse l’altra faccia) dei perso-naggi “vitalistici” come Squitti o il falco; in questi racconti Loria espone una sua verae propria “religione della morte”, che è poi in realtà una specie di etica della rinunciaalla vita; un elemento che gradualmente prende sempre più forza nella prosa narrativadi Loria. È forse a partire da queste considerazioni che possiamo notare una forte con-sonanza autobiografica fra alcuni personaggi e la figura dell’autore. Lo spettro appare,in questa luce, quasi una figura paradossalmente emblematica della crisi dell’individuo,della sua mancanza di vitalità; e il tema della vecchiaia, ovvero della precoce senescenzadel protagonista del Diario senile, diviene allegoria di un personaggio (autobiografico)che si sente ormai superato, sopravvissuto a se stesso (cfr. L. BALDACCI, I racconti diLoria in L’opera di Arturo Loria. Atti del Convegno di Firenze 21-23 febbraio 1991,a cura di Rita Guerricchio, Firenze, Festina Lente, 1993, p. 15).

È difficile dire quale sia la causa, o la serie di cause, che innescano la crisi espres-siva di Loria. Nel 1933, anno cruciale, egli vince il Premio Fracchia, ideale suggello del-la sua carriera fino a quel momento. Ma il 1933 è anche l’anno della morte per tuber-colosi della pittrice polacca Polia, conosciuta a Parigi nel 1928 e amata da Loria. I mor-ti entrano, da questo momento, nelle “carte liberatorie” dell’autore e diventano i suoiinterlocutori privilegiati, come ricorda Franca Celli Olivagnoli, citando le Memorie inu-tili: «[I morti] sono i miei veri compagni […] i soli che sarebbero in grado di capirmi»(cfr. CELLI OLIVAGNOLI, Avventure personali. Biografia di Arturo Loria attraverso gliscritti, Firenze, Ponte alle Grazie, pp. 91-92). E, in un blocco “Memento” inedito Lo-ria scrive: «Io vi rivedo tutti [i morti] come il popolo tra cui vorrei vivere. C’è tra voichi sa un rimorso e potrebbe perdonarmi e darmi pace» (cfr. CELLI OLIVAGNOLI, Av-venture personali, cit., p. 102). Non sarà dunque azzardato considerare gli spettri del-le novelle di Loria come una allegoria di questa crisi della vitalità, di questo “soprav-vivere a se stessi”. Del resto gran parte della narrativa di Loria, secondo Giorgio Bár-beri Squarotti, tende all’allegoria: un’allegoria assoluta che vale sempre e dovunque, aifini della quale «non conta la precisione dei luoghi e l’esattezza dei tempi: conta l’e-semplarità dei personaggi e dei fatti» (G. BÁRBERI SQUAROTTI, Tecnica e ragioni delracconto di Loria in La zona dolente, cit., p. 53). Questa nuova chiave di lettura ci con-sente allora di proporre una diversa interpretazione del racconto Il quadro incompiuto.Il contrasto fra la figura del figlio e lo spettro del padre potrebbe essere visto non tan-to (o non soltanto) come rappresentazione del “ritorno del rimosso”, quanto come unconfronto, una specie di ritratto sdoppiato dell’autore fra la prima maniera degli annisolariani e la seguente crisi espressiva. La creatività bloccata del figlio rappresenterebbedunque il senso di crisi di uno scrittore che si sente ormai quasi erede di se stesso.

In conclusione possiamo dunque affermare che il “fantastico” di Loria può essereinterpretato in luce prevalentemente allegorica e questo sottolinea l’originalità di que-sto scrittore che, partendo dall’esempio dei narratori ottocenteschi del fantastico, rive-la una profonda, anche se dissimulata, vena autobiografica e esistenziale, portando avan-ti una riflessione approfondita sul destino dell’uomo grazie alla quale l’autore superai limiti naturali del genere fantastico per avvicinarsi invece ad un pessimismo di chia-ra matrice leopardiana. Valga per tutti l’esempio del racconto Gli evasi. L’immagine deiprigionieri in fuga “sotto un cielo nemico” appare così emblematica di una condizioneesistenziale nella quale la sconfitta è inevitabile; solo a partire da questa consapevolezzadel dolore come destino ineluttabile può nascere una effimera, disperata solidarietà cheper un istante vince l’egoismo: «Cominciò la disperata corsa. Via via che la nave s’in-grandiva la loro forza s’esasperava e più che da una speranza di salvezza, eran mossidall’atroce volontà di rendersi malati e sfiniti, di diventar ciechi e sordi di stanchezzaper non sentire il tocco feroce di chi li avrebbe riagguantati, l’ingiuria e lo scherno de-gli inseguitori fortunati. Orlando cadde per primo, esausto. Zambrino lasciò i remi e in-crociò le braccia. Dal fondo della barca Orlando lo fissava con occhi attoniti, già ingrati;pure egli seppe dire: “Mi dispiace per te, che sei giovane”» (Loria, Fannias Ventosca[1929], Milano, Mondadori, 1961).

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Sandro Veronesi è fra gli scrittori più originali e direi “moderni” del-la sua generazione. Me ne accorsi, non tanto mentre leggevo con gu-

sto i suoi primi romanzi, ma quando ebbi fra le mani un libretto del 1999che si intitolava Nel caldo cuore del mondo. Lettere sull’Italia, in cui dia-logava con Alfonso Berardinelli, su questioni come “Il moralismo degliitaliani” o sul fatto che “Nella nostra società opulenta non abbiamo di-ritto all’infelicità”. Erano dei vivaci microcosmi di pensiero in forma dicorrispondenza ed erano carichi di un’acutezza e spregiudicatezza scon-certanti, in cui si metteva a nudo e si faceva affondare ciò che lo scrit-tore stesso definiva la “zavorra etica”. Erano pagine tanto più efficaciquanto più lo scrittore usciva fuori da tutti gli schemi dei moralismi po-sticci e di maniera. Ero davanti a un moralista ex lege di stampo pasoli-niano, uno scrittore saggista che avevo ammirato anche alcuni anni pri-ma leggendo le sue quattro storie sulla pena di morte, raccolte in un li-bro intitolato Occhio per occhio, un libro del 1992, che era stato scritto– come si capisce solo dal risvolto di copertina – per un interlocutoredavvero eccezionale, perché era stato inteso, nientedimeno, che come unalettera al Papa. In tutto fermentava, lo sentivo bene, il tessuto robusto diun irriducibile illuminismo, quello che appartiene in modo esplicito alVeronesi saggista, e che è, secondo me, il nutrimento fondamentale an-che del suo ultimo romanzo. Solo che qui, in Caos calmo, le radici filo-sofiche di partenza sono state mandate a farsi benedire, e il lettore vie-ne affascinato e travolto da una narrazione epica senza doppi fondi,senza derive prospettiche, senza ombre, anzi il divertimento nasce, se-

condo me, proprio dalla fuga, dalle strategie di fuga da ogni profondità.Il caos c’è e si accumula alle nostre spalle, quelle di Pietro Paladini equelle del lettore, mentre tutto scivola sulla superficie inclinata e iride-scente, e calma, di un eterno presente. A un certo punto si dice, con unadelle tante frasi-insegne che prima segnalavo: “Siamo accidenti in atte-sa di accadere”. Tutto, in Caos calmo, è collocato in primo piano, comein un bassorilievo, come nei grandi capolavori dell’epica antica. E comenell’epica antica, dalla storia principale si aprono infinite ramificazioni,storie dentro la storia, digressioni e parentesi allineate con un effetto stu-diato di simultaneità.

Voglio dire che non si può capire la forza e il succo profondo di unromanzo come Caos Calmo, vincitore dell’ultimo premio Strega, unromanzo senza dubbio apprezzabile immediatamente per la sua pro-rompente forza narrativa, senza leggerlo alla luce di scritti come quelliappena ricordati, alla luce di quell’illuminismo postmoderno che fa di luiuno scrittore totalmente, irriducibilmente diurno (anche se lo scrittore, daqualche parte, ha detto che un giorno fece un viaggio a Praga e portò consé una pagina del romanzo che stava scrivendo per strusciarla sulla tom-ba di Kafka). Veronesi è uno scrittore diurno, dicevo, con una categoriaun po’ vistosa e grossolana, anche perché, fra le righe dell’avvincentemacchina del racconto che parla con lo stesso tono della vita e di ciò chequella vita minaccia, la prospettiva unica e decisa prescelta è quella diuna spavalda elementarietà. Nel romanzo si parla da un punto di vistaparticolare che è il punto di vista della fine, e parlando di tutto e del con-

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Caos Calmo di Sandro VeronesiErnestina Pellegrini

Bruno Innocenti, Studio di nudo.

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trario di tutto si finisce col parlare soprattutto di morte, della capacità divivere e di elaborare o non elaborare il lutto, si parla di rimozione del do-lore e della morte in una società sempre più votata alla produttività e alsuccesso, che ha fatto della morte il supremo tabù, e si parla, in toni lu-cidi e spietati, con la giusta dose di piombo, dell’Italia contemporanea,delle sue radicali, penose, rapidissime mutazioni antropologiche. Ma tut-to è risolto con sapienza in spavalda elementarità. Forse per questo, uncritico recensore ha addirittura scritto per approssimazione: “questo ro-manzo è un cartoon” (Francesco Longo sul “Riformista del 5 ottobre2005).

C’è chi considera Veronesi l’erede di Moravia, e c’è chi vede in lui,invece, il portavoce di certe visioni pasoliniane di apocalisse culturale edi mutazione antropologica, di una Italia che da decenni - come si leg-geva in quei vivaci dialoghi con Berardinelli - “non smette mai di fini-re”. E certo la linfa profonda di questo scrittore cosmopolita, di questoabile traduttore di scrittori americani, che hanno dato un’impronta for-te alla sua pagina (John Fante, ma anche Pynchon e Wallace), uno scrit-tore che ha lavorato per il cinema e per i giornali, che ha fondato una casaeditrice coraggiosa e internazionale come Fandango, uno scrittore tra-dotto in più di dieci lingue straniere che alle volte dice di voler diventa-re un venditore di automobili, e per fortuna non lo fa, e che comunquenon recita mai nessun copione dell’intellettuale di professione, ecco lalinfa profonda di questo scrittore molto originale e propulsivo, giovani-le nell’anima, lontanissimo dagli scrittori “notturni”, o dai neomisticiestetizzanti dei nostri giorni (per intenderci dagli scrittori palombariamanti degli abissi di marca mitteleuropea), viene anche da lì, dalla mi-litanza nella agguerrita rivista “Nuovi Argomenti”, da ciò che chiamerò“l’eredità dell’impegno” di Moravia, di Pasolini, di Enzo Siciliano (anzi,credo persino che nel cognome della moglie del protagonista del ro-manzo, Lara Siciliano, ci sia un omaggio all’amico scomparso).

Noi, studiosi di letteratura, abbiamo molto spesso dei vizi profes-sionali che ci fanno assomigliare a quei bambini che rompono i giocat-toli che più gli piacciono per capire come sono fatti. Così, mi sono mes-sa a smontare il romanzo, a mettere in relazione alcuni suoi passi con al-cune dichiarazioni di intenzioni che lo scrittore stesso ha fatto in sede diinterviste, per trovare le ragioni di un successo editoriale e di pubblicoche le numerose recensioni a caldo non riuscivano, secondo me, del tut-to a centrare. Non starò certo qui a annoiarvi con i miei vetrini di labo-ratorio critico. Vuol dire che consegnerò a Sandro Veronesi come un re-galo particolare della Facoltà di Lettere questo mio studio critico più lun-go e analitico di quello qui presentato, uno studio che poi pubblichere-mo, se Francesco Gurrieri e Maria Fancelli sono d’accordo, sulla nostrarivista “Il Portolano” (dove è già uscita, sull’ultimo numero, una bella re-censione di Francesco Gurrieri). Ma permettemi almeno di indicarvidue o tre elementi costitutivi della narrazione, una narrazione che sem-bra animata da forze centrifughe, che sembra mimare e rincorrere i pen-sieri che attraversano in turbolento disordine una calotta cranica, e invecepoi, a guardar bene, si rivela fatta di blocchi nascostamente interrelati evenata da simmetrie profonde.

Innanzitutto, vediamo la trovata narrativa attorno a cui si sviluppa lamacchina degli eventi rappresentati, con un piglio naturalmente cine-matografico (cinematografico, nel senso che al centro c’è sempre e solol’immagine, con la sua evidenza di piatta superficie, senza retromondiastratti). La trovata narrativa, dicevo, è questa: un uomo, Pietro Paladi-ni, dopo la morte improvvisa della moglie, si accorge che non riesce aprovare dolore. In realtà potremmo usare per lui la felice e spaventosa eambiguissima formula che Dickens racchiuse, in Hard Time, nel dialo-go fra la figlia e la madre morente, in cui il pensiero di morte viene enun-ciato in maniera dissociata dal soggetto che lo pensa, mettendo in rilie-vo lo spostamento impersonale e neutro, spaventosamente neutro del si-gnificato, per un effetto evidente di rimozione. Luoisa chiede alla signoraGradgrind: “Are you in pain, dear mother?”; e questa risponde: “I thinkthere is a pain somewhere in the room, but I couldn’t positively say thatI have got it”.

Pietro sta in attesa di un dolore che non arriva e che non riesce a pro-vare. Si apposta ogni giorno davanti alla scuola della figlia, dall’inizio altermine delle lezioni, si lascia vegetare. Non si reca più al lavoro, pur es-sendo un alto dirigente di una rete televisiva nazionale, e si abbandonaalla rassicurante atmosfera di una vita circoscritta, che si ripete, immu-tata, ogni giorno: una ragazza che porta fuori il cane, un bambino downche va a fare la sua terapia, un vecchio vedovo impegnato in un traslo-

co. Ma tutta la realtà intorno a lui gli manda segnali di dolore e di mor-te. È come se fosse costretto a lavorare coi rottami della realtà. Una goc-cia di sangue sul volto di una donna (la cui vista lo fa svenire), una mac-china incidentata che nessuno viene mai a ritirare. Tutto entra dentro lasua bolla di quiete, tutto si proietta in una garrula e indiretta lamentazionecorale. Ci sono personaggi che sono lo specchio evidente di questo nonvoler sapere, non poter sapere del personaggio principale, della sua au-toimposta, simulata paralisi esistenziale: la finta paraplegica che Pietroaveva incontrato sull’aereo, che di notte si alza e va da sola in bagno; ilbambino down trascinato della madre a fare la terapia che, ogni giorno,prova gioia al lampeggiare dei fari della macchina di Pietro; il caneNebbia (nome non casuale) che una bella ragazza porta quotidianamen-te a giardino pubblico; il padre di Pietro perduto in una rassicurante eprogressiva smemoratezza. Il protagonista, sigillato nella condizionelimbica del proprio lutto bianco, percepisce e registra solo i rottamidella realtà, e in quei rottami ritrova la propria inconsistenza.

Quante volte, ognuno di noi, travolto dagli impegni e da ritmi che ciimpediscono di vivere, ha pensato: e se mi fermassi, cosa succederebbe?Ecco, il romanzo racconta cosa può succedere se uno decide di fermar-si, di porsi fuori dalla attivistica e efficientissima mobilitazione genera-le. E Il romanzo, allora può essere letto come la registrazione minuta,precisissima di una anestesia sentimentale e emotiva, di un uomo che nonriesce a soffrire come si aspetterebbe, come pensa che dovrebbe succe-dere, e che blocca la sua vita, ponendosi in una posizione di passiva con-templazione totale. E così, mentre sta ad aspettare qualsiasi cosa accada,che non vada al di là dell’ombra proiettata dalla propria persona, impa-lato come una sentinella sotto la scuola della figlia, si mette a osservarela vita che gli gira intorno, a ripensare il proprio passato, e a stendere in-ventari inutili, inventari delle cose più svariate: tutte le donne che ha ba-ciato; le compagnie aeree con cui ha volato; le case da cui ha trasloca-to. Ma giorno dopo giorno, durante il suo calvario senza dolore, appa-rentemente senza dolore (perché in realtà non c’è nulla di più terrifican-te di quel caos calmo; è un po’ come sentirsi al centro di un occhio delciclone), giorno dopo giorno, dicevo, in un’estate che sembra senza fine(perché anche il tempo sembra essersi bloccato) Pietro vede arrivare isuoi amici, i suoi parenti e i suoi colleghi. Vanno a trovarlo, tutti, per ca-pire, per smuoverlo, magari per proporgli nuove cariche di lavoro ai ver-tici dell’azienda, per avere da lui consigli, come se da quella posizioneestrema, di chi si è tirato fuori, Pietro avesse diritto a una sorta di enig-matica e vuota trascendenza. Accade quello che accadeva a Perelà, l’uo-mo di fumo di Palazzeschi, che rispondeva solo “Io sono leggero, tantoleggero”. Uno stralunato, eloquente pellegrinaggio. Uomini e donne ri-mangono a parlare con Pietro, rovesciando su di lui, mezzo indifferen-te, i loro semisommersi ingorghi intimi: la cognata Marta che ha dissi-

Calusca, Nudo.

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pato la propria bellezza di show-girl televisiva e si trova per l’ennesimavolta incinta, dopo aver generato tre figli da tre uomini diversi; il fratel-lo Carlo, stilista famoso e oppiomane, un inguaribile Peter Pan, conalle spalle il trauma di un’amante suicida; i colleghi di lavoro, travoltidalla complessa e spietata fusione della mega-azienda italiana con unamultinazionale francese; il ritorno della donna salvata dal protagonistamentre stava annegando nel mare in tempesta, con la quale si consumerà,verso la fine del romanzo, un violento incontro erotico. Il paradigma vit-timario – come lo chiama René Girard - è rovesciato. Le parti si inver-tono, quasi comicamente, e tutto, venendo visto dall’angolo visuale ir-rimediabilmente esterno in cui Pietro si è situato, sembra grottesco e in-sensato. Pagina dopo pagina, Veronesi, disegna un invisibile graficoche mostra un ironico dislivello: il dislivello fra la parte che ognuno pen-sa di recitare nella vita e quella che egli recita veramente, dentro di sé.Sono le vite degli altri che si specchiano nell’immobile, paziente e ine-sorabile occhio di Pietro, incapace di venire ai ferri corti col proprio lut-to interno. Le vite degli altri, osservate da una distanza ravvicinata, fat-te spesso di dettagli, dettagli captati con un distacco a volte vertiginoso,con lo scrupolo asettico di un entomologo, le vite degli altri diventano lesuperfici riflettenti la generale insensatezza e la casualità della vita. Im-possibile estrarre dalla lutulenta banalità della vita, delle vite, qualcheframmento luminoso. Le vite degli altri, sono viste da chi ha deciso di ri-nunciare, in qualche modo, alla propria: tanti caos calmi in cerca di unavia d’uscita. L’antieroe senza qualità, che fugge da ogni profondità, at-traverso il cui sguardo e la cui immaginazione tutto viene proposto e ri-muginato, abita un vero e proprio fuoricampo della scena, restando sul-la superficie di tutto, galleggiando sulle tempeste della vita, come quan-do sul surf affrontava, a inizio dell’intera storia – efficace metafora - leonde travolgenti del mare. “Non posso continuare. Continuerò” – dice lafrase di Beckett, posta in apertura di storia di questo estremo stranieroesistenziale, per il quale perfino la metafora della stranieritudine è di-ventata una ridicola e vuota retorica ideologica, quella di uno stranierofra tutti stranieri, che potrebbe avere, certo, nel Mersault di Albert Ca-mus, che sa vivere solo al grado zero delle sensazioni, un autorevole pro-genitore, così come lo può avere nel cinematografico e del resto citatoChance di Oltre il giardino. Ma ci sono anche tanti altri antenati di Pie-tro Paladini che vengono indicati dallo scrittore stesso, in una intervista:e sono Cosimo del Barone rampante o il Marcovaldo di Calvino.

Ecco, allora, che le nostre letture dei lavori di Veronesi che prima ri-cordavo ci vengono in aiuto. E posso dire che lo scrittore ha finito colprestare al suo protagonista alcune sue intenzioni esplicitate, autobio-graficamente, a Berardinelli nelle interessanti conversazioni del 1999.Cito un passo che potrebbe essere visto come uno dei semi da cui è sca-turita l’ideazione del personaggio Pietro Paladini:

Caro Berardinelli, pare che siamo arrivati alla fine della nostra cor-rispondenza. A me è servita. Mi ha fatto tenere accesa, nel cervello, laparte che normalmente tengo spenta più che posso, quella che sta tra lapercezione del mondo e la sua rielaborazione, quella che si occupa del-la decifrazione. […] [Uno dei risultati] è stato trovare conforto alla de-cisione presa qualche anno fa di spegnerla, quella parte del cervello, esforzarmi ostinatamente di non capire, di non interpretare, tagliandofuori la componente per così dire filosofica della mia vita. Ho avuto con-ferma di aver fatto bene, se davvero intendo – come pare – vivere unavita il più possibile serena, e tirar su i miei figli con un minimo di pace.Rinunciando il più possibile - ed ecco la parola su cui vorrei impostarela nostra ultima conversazione – alla sofferenza.

“Rinunciare il più possibile alla sofferenza”. Una professione espli-cita di antidolorismo letterario. Del resto, anche oggi, in un’intervista su“Vanity Fair”, Veronesi sostiene che “a lui il dolore rovina le pagine”.Non solo, ma il dolore, la rappresentazione del dolore, potrebbe farlo ca-dere – come dice di temere – “nelle grinfie di Michelstaedter”, il filosofoGoriziano morto suicida della Persuasione e la Rettorica. Ecco, Vero-nesi ha spento quella parte del cervello del suo protagonista che fa sof-frire, quella parte che probabilmente è impossibile spegnere del tutto nel-la sua ipercritica calotta cranica, ha amputato la componente filosofica delsuo personaggio, e ha cercato di anestetizzarlo nei confronti della sof-ferenza, come se fosse un frutto tardivo e forse prevedibile di quella chein un altro punto della conversazione egli definisce “l’oscena sofferen-za virtuale dell’Occidente”, una sofferenza a cui non si dovrebbe averediritto, noi occidentali, e per nutrire la quale – dice - “stiamo trattenen-

do il resto del mondo nella sofferenza vera”. Non è questo, del resto, michiedo, il senso della scelta di uno dei colleghi manager d Pietro, di quel-lo che molla tutto e va a fare il volontario in Africa? E non viene da quianche la scelta di ambientare la storia a Milano, nella città più occiden-tale d’Italia? La storia di Pietro, del suo dolore differito o rimosso, in-somma, è un pretesto, riuscitissimo e avvincente quanto si vuole, permettere in scena sulla pagina il mondo della globalizzazione, delle lot-te di potere transnazionali, lotte dal sapore shakespeariano ma calate nel-le strutture di vetro dei grattacieli metropolitani o all’interno di macchi-ne futuribili, macchine-feticci diventate nidi tecnologici per un’umanitàautistica e incapace di comunicare veramente (per questo, in questo ro-manzo, ogni abbraccio, ogni amplesso erotico, può essere solo l’espli-citazione di una violenza).

Lo sguardo o il pensiero di Pietro – perché non si deve dimenticareche il romanzo è un ininterrotto monologo di 400 pagine – lo sguardo diPietro, dicevo, diventa lo specchio di un mondo parossisticamente votatoal successo, dove una bambina di 10 anni, rimasta orfana da pochi gior-ni, scrive nel suo diario: “Voglio essere dura, sexy e cattiva”, mentre èossessionata dai palindromi imparati a scuola, nell’illusione che tutto, an-che il tempo, possa assoggettarsi a quella legge di reversibilità totale chenega l’evidenza dei drammi reali. Un mondo, tutto sommato, disumano,superficialmente disumano, il cui destino, magari, può essere rintracciatonelle canzoni elettroniche dei Radiohead, o nelle vaticinazioni di unamaga di periferia. Tutto, però, è epurato qui da ogni moralismo postic-cio. E questa lezione di disincantato pragmatismo, che è Caos calmo, siconcretizza e fissa in alcune frasi che hanno la funzione di insegne lu-minose, frasi quasi aforismatiche, come quella del bambino che, perreagire alla prepotenza della cuginetta che gli strappa tutti i giocattoli dimano, dice: “Stai attenta, sai, perché io sono buono”; o è racchiuso, que-sto disincantato pragmatismo, nell’epigrafe di quarta di copertina chedice: “La gente pensa a noi infinitamente meno di quanto crediamo”. Edè questo disincantato e brutale e dolorosissimo pragmatismo senza verodolore la forza del romanzo, che resta un romanzo e basta, in cui il pen-siero filosofico di partenza che lo ha generato si è ritirato, è stato costrettoa ritirarsi, come la marea dalla battigia di una spiaggia. Perché Verone-si è – come ha scritto acutamente Massimo Onofri – uno scrittore “me-ravigliosamente denotativo”, uno scrittore denotativo che può permet-tersi, allora, un titolo molto metaforico, Caos Calmo, che ricorda il titolodi un grande scrittore americano, Wallace Stegner, che io tradussi perVallecchi negli anni Ottanta, un titolo tratto dal lessico dell’ingegneria,Angle of Repose, l’angolo di riposo, che è la posizione estrema di unmasso, durante una frana, quando rimane sospeso in attesa della cadutadecisiva.

Il romanzo, allora, diventa e ingloba tante cose, come un masso checade e si porta dietro tutto, detriti, piante, cose, persone, sentimenti,emozioni. Ma questa storia epica, che è insieme storia di un ritorno e diuna fuga, può essere letta in mille modi, perché è, come tutti i veri ro-manzi, un inesauribile pozzo di San Patrizio. Così c’è chi ha letto Caoscalmo come un outing generazionale, come la testimonianza di chi è sta-to giovane negli anni Settanta, e si interroga sulle differenze di cosa si-gnifichi essere ribelle o sovversivo, o sulla impossibilità di diventare pie-namente adulti, o sull’essere padre, o sul subire la psicanalisi passiva,cioè quella degli altri, così come si subisce il fumo passivo, arrivando aporsi l’obiettivo – come lo scrittore ha confessato a un giornalista – diprovare a scrivere una specie di Coscienza di Zeno 2. Ma il romanzo par-la anche del day-after della famiglia, della logica squinternata e genialedei bambini, costretti talvolta a prendersi carico della crisi dei genitori(sarà, infatti, la figlia Claudia, a smascherare e a risolvere il disagio delpadre, che con l’alibi di proteggere lei proteggeva se stesso).

Insomma, a libro chiuso, si capisce che la vita di Pietro è la mancanzadella sua vita, una nostalgia un po’ stupita per un’esistenza che non c’èmai stata, per una pienezza di senso e di felicità che il bambino soltan-to attendeva e l’adulto forse rimpiange. Una vita vera, che a cercarla nonc’è, e che il pensare di viverla è – come diceva Ibsen – una faccenda damegalomani. Nessun retromondo, nessuno spiffero di trascendenza, nes-sun riscatto consolatorio può salvare la realtà da essere semplicementerealtà. Niente, nella visione pragmatisticamente disincantata di Verone-si, può scindere il fluire della calda vita dalla discontinuità dei suoi mo-menti casuali e isolati, orfani di ogni universalità. E in fondo il roman-zo traccia un’equazione, l’equazione di vita e amoralità. Ma come ognibuon libro scritto contro la vita costituisce anche una seduzione a viverla.

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Raramente ho attraversato un percorso narrativo così ininterrotta-mente fastidioso e avvincente nello stesso tempo, come in questo ul-

timo libro di Veronesi. A licenziare questo romanzo, Veronesi ha impie-gato vent’anni (1987-2007): ma i fatti a cui la materia narrativa fa riferi-mento va spostata indietro di altri vent’anni, alla fine degli anni ’60.Quando la città dei “Cherubini”, di “Miccina”, del “Pampa” e degli altri,era presente alle cronache per la sua inarrestabile capacità produttiva, ilsuo irraggiungibile tasso di esportazione, il suo invidiabile Pil, la stessacapacità di assorbimento di immigrati meridionali che vantava Torino.

Così, la marginalità sociale che costituisce la filigrana di questo “ro-manzo” si pone anche, in lettura seconda – perlocutoria –, come inevi-tabile area residuale, alternativa ai ritmi del boom degli anni ’60; in unarealtà intensamente industrializzata – Prato –, ove, nonostante processidi integrazione sociale più facili che altrove, gl’immigrati meridionali re-stavano a lungo rubricati come “marrocchini”.

La prosa di Veronesi, fra le più scorrevoli e piacevoli della sua ge-nerazione, in questo “Brucia Troia” si fa ancora più distillata. Il roman-zo ruota intorno a uno scenario sociale, produttivo e umano, la cui sin-tesi lasciamo all’Autore in una sua pagina:

“C’era molta gente coi soldi, spiegò, che metteva su delle fabbricheper guadagnarne ancora di più, ma certe volte le fabbriche gli si rivol-tavano contro e i soldi glieli facevano rimettere. Allora, per non trovar-si col culo per terra, conveniva che sparisse la fabbrica, insieme a tuttala roba che il padrone non riusciva a vendere, così che le Assicurazionigliela ripagavano per nuova ed era quasi come se l’avesse venduta. Nonè che questa gente ci guadagnasse, in quel modo, ma nemmeno ci ri-metteva il collo. E per distruggere una fabbrica, per distruggere qualsiasicosa, il modo migliore era il fuoco, perché una volta acceso faceva tut-

to da solo. Solo, bisognava saperlo accendere, e per accenderlo ci vole-va una miccia.

– Miccina – spiegò – perché sono sempre stato un po’ basso”.

Su questo scenario di fondo si innestano, con una rapsodia cruda edrammatica insieme, i due segmenti narrativi che, dalla prima all’ultimapagina, implementano la quotidianità dei disperati del “Cantiere” (un an-golo urbano residuale, a criminalità latente) e la realtà ragionevolmen-te equivoca e talvolta morbosa della Missione di padre Spartaco, suor Er-nesta e dei “Cherubini”. Una vicenda incredibile quest’ultima, consu-matasi nell’irresponsabile indifferenza delle autorità (religiose e civili),come altre ne accaddero nell’Italia di quegli anni. Veronesi non poté vi-vere direttamente quella vicenda (giudiziariamente esplosa fra il ’65 e il’67) perché era alle prime classi delle elementari: semmai, al massimo,poteva ricordare quei passaggi urbani di bambini allineati, con la vesteceleste (i “Celestini”) guidati da un prete altero e follemente ispirato (chesi scoprirà poi, mai consacrato) o da monache diligenti (che si scopri-ranno poi delle aguzzine torturatrici, appartenenti a un ordine religiosomai riconosciuto). Ma gli svolgimenti giudiziari di quella vicenda, conrisvolti inevitabilmente anche politici (in consiglio comunale a Prato, cifu chi paragonò le angherie su questi ragazzini a quelli internati a Tre-blinka) durarono a lungo e, certamente, rimasero impressi in Sandro Ve-ronesi, che seppe sedimentarli per due decenni, riversandoli poi nella ma-teria narrativa di questo romanzo.

Dunque, un’insolita e avvincente massa di potenziale scrittura che, ingenere, pertiene all’editoria dell’instant book, che qui, invece, nelle pa-gine di Veronesi, si costituisce in un nuovo singolare modulo, che po-tremmo definire di attualizzazione sedimentale: simmetricamente lontanodal romanzo storico e dal libro–inchiesta sulla contemporaneità.

Sandro Veronesi, “BRUCIA TROIA”Un romanzo sulla marginalità sociale

Francesco Gurrieri

VERONESI E VICTOR HUGOLascio ai legittimi dispareri le ragioni del “pungiglione” del-l’Imenottero di domenica 7 gennaio (“A Veronesi piace legge-re, ma non tagliare”, “Il sole-24 Ore”); soprattutto per quan-to concerne i richiami alle citate lamentazioni di La Capria, alcontenuto dell’intervista di Giovanna Zucconi, al “grasso”delle 451 pagine di Caos calmo di Veronesi. Ciò che invece misorprende per sommarietà e mal riposta ironia è il richiamoalla tesi di Sandro Veronesi, sostenuta nell’anno accademico1984-’85, col massimo dei voti. Le ragioni della sorpresa sonoalmeno tre. La prima concerne l’accostamento della tesi agli“anni ruggenti”, i quali erano terminati nel 1977, quando Ve-ronesi era ancora al liceo; anni, comunque, che non hanno mairuggito nel Dipartimento di Restauro dei Monumenti a Fi-renze, come ben sa chi appena conosce la storia dei nostri ate-nei. La seconda concerne il fatto che, notoriamente, tutti icorsi di laurea, da medicina a lettere, da agraria ad economia,hanno differenti indirizzi di laurea. Guarda caso, ad “Archi-tettura”, c’è quello di “Restauro” (ove sono discipline di Dia-gnostica, di Restauro Architettonico, di Tipologie storico-strutturali, di Consolidamento, di Teoria e Storia del Restau-ro). Dunque qual è la sorpresa di una tesi dal titolo “Victor

Hugo e la cultura del restauro nell’Ottocento”? Cosa si rim-provera a un lavoro che non si conosce, preparato per diciot-to mesi nell’Archivio di Maison Hugo a Parigi ? Delle due l’u-na: o non si ricorda che Mérimée, Vitet, Hugo, col Comité desArts et Monuments, contribuirono a contenere l’indifferen-ziata demolizione – innovazione di Parigi, anticipando (conRuskin) la parte fondativa di ogni teoria della conservazione(si veda “Guerre aux démolisseurs”) – ma voglio escluderlo –,oppure si vuol fare dell’inutile e mal riposta provocazione.Che Veronesi non abbia fatto l’architetto non è una fortunama, a mio parere, una sfortuna, perché sarebbe stato bravis-simo come aveva dimostrato nei suoi esami di specifica pro-gettazione. Ma che strana polemica, caro Imenottero ! Quasiche, con buona pace di Gadda, di Betocchi e di Quasimodo(per citarne solo alcuni) non si possa esser bravi tecnici e allostesso tempo bravissimi narratori e poeti! Forse, in questoeccesso di vis polemica con Sandro Veronesi (di cui mi sfug-gono e non mi interessano i motivi sorgivi), il pungiglione,per questo aspetto, sembra proprio aver sbagliato obbiettivo.

f.g.

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Èda poco uscito per Garzanti un libro di Jole Zanetti, Lacune, con unabella introduzione di Claudio Magris, intitolata in modo quasi in-

terlocutorio con l’autrice e in modo gentilmente prescrittivo con il lettore,Non colmare le lacune. È un libro di prose fulminee, abitate da una scrit-tura malinconica e strappata, una specie di diario in frantumi che insie-me a Enza Biagini cercai di interpretare in occasione di una presenta-zione pubblica al Lyceum fiorentino, il 3 ottobre del 2006. Avevo saputodel libro, che allora era in bozze, alcuni mesi prima, mentre mi trovavoin macchina con Claudio, Jole, Maria e Mario Caciagli, per andare a unacena da Beppino Bevilacqua. E il titolo che mi venne detto allora era unaltro altrettanto bello e calzante. Non era ancora Lacune, era Sottopelle.Alla mia domanda se si trattasse di un romanzo, fu risposto negativa-mente. Chiesi se si potesse definire come un’autobiografia. Mi fu rispo-sto, per liquidare la mia curiosità: “neanche quello”. Allora, mi chiesi:che cosa è Lacune?

Ora, davanti al libro stampato in un’elegante edizione cartonata,posso tentare di rispondere. Non è, in effetti, una autobiografia, ma ap-partiene a ciò che Starobinskj definisce “lo spazio autobiografico”; sem-mai è un diario scritto a sprazzi, un diario discontinuo, una specie di tac-cuino di viaggio, solo che il viaggio, al di là di quattro o cinque prose cheriguardano reali spostamenti geografici e visite a luoghi più o menoesotici, è un viaggio dentro il proprio habitat (la propria casa, la propriastanza) e soprattutto è un viaggio dentro di sé, anzi, per essere precisi,nelle parti più straniere del sé, in quelle crepe o lacune del sé, dove piùche riconoscersi ci si perde. E si deve precisare anche che questo viag-gio dentro di sé non appartiene a profondità abissali ma a quel sottopel-le dell’io e del corpo dove il familiare e il perturbante si convertono inemozione effimera, in spaesamento momentaneo, in epifanie banaliquanto angoscianti, crepe subito ringoiate dall’indistinto.

Ambedue i titoli sono molto belli e indicano efficacemente dueaspetti distinti e non proprio coincidenti della rappresentazione. Siamodavanti a un libro di lacune, di black-out, un libro che parla di vuoti, chedà al lettore una sensazione simile a quella che si prova, volando in ae-reo, quando si incontra un vuoto d’aria e si perde quota in un istante; equindi è un libro che inanella trentaquattro frammenti di “prosa forata”– chiamiamola così – come se si intrecciasse una fune (l’insieme quin-di c’è e tiene, ma i singoli anelli ruotano singolarmente e collettivamenteintorno a un centro che volontariamente o involontariamente non esiste).In biologia, come sanno quasi tutti, per lacuna si intende una cavitàsprovvista di pareti proprie istologicamente differenziate. Trovo questadefinizione scientifica molto suggestiva metaforicamente e azzeccata perapprossimarsi alla natura o non natura letteraria di questo strano libretto,creato da una donna che non è una scrittrice di professione (se esiste laprofessione per queste cose la cui natura è – come scrive Meneghello –“una virtù senza nome”), è una donna che si è dedicata molto al volon-tariato nell’assistenza sanitaria in diversi paesi africani, di cui ci ha datoun interessante e originale resoconto in un diario, Diario africano,uscito sulla “Nuova Antologia”, qualche anno fa, un microdiario, que-sto, dal quale mi sarebbe piaciuto citare qualche pezzo (ma non ho tro-vato nel caos della mia biblioteca), perché è un diario della felicità, cheappartiene alla solarità e alla giovinezza dell’autrice, così come quellodi Lacune, invece, è pervaso dalla malinconia e da un senso di perdita.Lacune è un diario d’ombra, chiamiamolo così, anche se qua e là si in-contrano squarci di luce e di ottimismo e tracce quasi incredule di unnuovo grande amore, e si incontra il sentimento pungente e delicato diuna rinascita (dopo tutto per rinascere si deve fare il vuoto). Così que-sto diario estremo quanto puntiforme e svagato è un po’ un morire e unritornare in vita.

L’editore ha messo il sottotitolo “romanzo” (ormai lo mettono qua-si sempre per ragioni di mercato), ma è ovvio che Lacune è tutto tranneche un romanzo, e forse la definizione appropriata potrebbe suggerirce-la una studiosa della scrittura delle donne africane e della scrittura diquelle donne europee che hanno vissuto in Africa (quelle donne checome la toscana Amalia Nizzoli, solo per fare un nome, hanno seguitoil padre o il marito nel continente nero, sviluppando e rendendo una vi-sione letteraria dei luoghi e della gente totalmente diversa e anticonfor-mista). Forse la definizione appropriata, dicevo, potrebbe fornircela lastudiosa Itala Vivant, quando parla di Fuorilegge del testo, mettendo inevidenza i meccanismi attraverso i quali la memoria della singola don-na entra nel corpo vivo della oralità collettiva, senza avere il taglio nar-cisistico, o addirittura solipsistico, di certa scrittura femminile europea,né l’imprinting femminista che percorre un importante filone della scrit-tura femminile euroamericana. Voglio dire che nel testo e nella perso-nalità di Jole Zanetti, di questa fuorilegge del testo, per l’appunto, rimanel’impronta forte della esperienza africana (evidente anche nella sua ri-petuta nostalgia per quella dimensione temporale-naturale, dilatata elenta, tipica del mondo subsahariano, una dimensione scandita dallaluce del giorno e dal buio della notte) e si afferma una dimensione del-la scrittura plurale e centrifuga esattamente opposta a quella del mini-malismo postmoderno. Voglio anche dire che non c’è nessun compiaci-mento narcisistico in questa spietata e libera esposizione di sé (e se laspietatezza è uno degli ingredienti presenti nella memoria, questa è spie-tatezza esclusivamente nei propri confronti), e questa spietatezza hauna forza involontaria di denuncia e di critica sociale che equivale nona un “senza-pietà” quanto piuttosto a una “pietà distrutta” (il diario, inquesta luce, assomiglia a una stanza della tortura). E voglio pure dire chenon c’è nessuna intelaiatura di ideologia femminista sul fondo di questaesposizione spietata e libera del sé (e la cosa dona un piglio anticonfor-mistico alla scrittura di questa fuorilegge del testo, che lo è, fuorilegge,senza nessuna intenzione di esserlo).

Ma la più precisa e affascinante definizione ce la dà Claudio Magris,quando nella sua introduzione parla di “scrittura notturna” e invita a Noncolmare le lacune, e parla di “singolare semisommerso romanzo di for-mazione alla rovescia, più per svuotamento che per accumulo di espe-rienze”. Un diario che cerca di dire “la zona più struggente e appanna-

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LE “LACUNE”di Jole ZanettiErnestina Pellegrini

F.G., Undercarriage.

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ta” della nostra vita (non è un caso che uno degli aggettivi più usati sia“opaco” e che dentro i numerosi e fulminei squarci paesaggistici com-paia una cortina di nebbia o un cielo ottuso e pesante che incombe a chiu-dere le prospettive già claustrofobiche della veduta). Perché in questo li-bro ci sono anche delle vedute, e sono i frammenti più belli; sono vedu-te di città, di aeroporti, di stazioni, di alberghi, di oceani e perfino di unluogo che si chiama La fin del Mundo, che è la città più a Sud della Ter-ra del Fuoco, Ushuaia. Si accampano scenari dove dilaga l’irrealtà, di-laga – come scrive Magris – “come l’acqua da un tubo che perde”. Ep-pure, fra tanta desolazione e disincanto (che apre vie di fuga in un do-loroso e ingorgato cupio dissolvi, che fa venire in mente al lettore la don-na di un romanzo di Ingeborg Bachman, Malina,che scompare in unacrepa del muro), si intravedono qua e là epifanie di gioia e di sprizzan-te vitalità giovanile, pause di felicità e spensieratezza che, come pa-gliuzze d’oro in una miniera di sassi, pagliuzze di incanto e di idillio, dirottura di una impenetrabile corazza di solitudine e di insicurezza, si le-gano a piccoli gong di riconoscimento, un riconoscimento non verbale,ma tattile: con il nipotino che con la piccola mano trasmette delle piccolestrette che comunicano una specie di alfabeto Morse, con l’uomo ama-to, che le accarezza, silenzioso un braccio, una spalla, sulla spiaggia delmare. Perché, almeno sembra, Jole Zanetti, con questo libro, mostrauna specie di diffidenza per le parole, e di diffidenza per facili e vili mi-steri, così per gli intrecci prefabbricati, e allora costruisce o decostruisceil proprio diario discontinuo e forato, attraverso un atto che, se non ve-nissi fraintesa, definirei di “decretazione”, vale a dire un diario, unascrittura autobiografica che deve essere sentito come un liberarsi di co-struzioni del sé esaurite, un atto analogo alla concezione maschile del-lo strip tease, in questo caso uno strip tease della propria personalità in-teriore, della propria anima, e delle proprie logore certezze, uno strip tea-se che rivela e riduce allo stesso tempo. Se usassi una metafora culina-ria direi che non è la verità della noce, di cui si arriva rompendo il gu-scio al dolce gheriglio, e nemmeno quella del carciofo, che comunque datutto lo sfogliare salva l’amaro cuore, ma è la verità della cipolla per cui,leva leva, gli strati ci sono, ma il centro dove è? Il centro c’è e non c’è,perché è in tutti gli strati. Ecco, Lacune, il suo succo è presente in ognisuo strato e simultaneamente in tutti i suoi strati, tanto che ogni singoloframmento è speculare e integrativo e strutturalmente intercambiabilecon qualsiasi altro. Così, al lettore, arrivato alla fine del libro, non restaaltro che riflettere sullo spazio, uno spazio che vorrei descrivere e cir-coscrivere citando alcune frasi di Foucault, prese dagli Scritti letterari:“individuare lo spazio – scrive Foucault – lasciato vuoto dall’autorescomparso, seguire con lo sguardo la ripartizione delle lacune e delle cre-pe e scrutare i luoghi e le funzioni liberi che tale scomparsa ha reso vi-sibile”.

Detto questo, mi sembra sia più chiara l’idea che mi sono fatta di que-sto libro, che non è affatto una storia, una narrazione, ma un insieme dicorpuscoli autonomi e centrifughi ruotanti intorno al “non detto”, al pre-verbale, al corporeo, al mondo impressionistico e impapabile e inquie-tante della percezione sottopelle, un mondo di 34 corpuscoli, sottodivi-sibile in sezioni, se proprio volete (ma non ha molto senso trovare a tut-ti i costi una macchina strutturale, anzi è fuorviante), che potrebbero es-sere catalogati in serie (come la serie dei colori: rosso, verde, lilla; o quel-la del luoghi veri: Spagna, Polonia, Zaglav, etc; o quella degli spazi dispaesamento: cimitero, stazione, caos, voragine, etc), corpuscoli chesono tracce di un io-tutto-corpo che sente, ne sono certa, l’io che scrivecome una specie di autore parassita o di appendice posticcia; corpusco-li che testimoniano un enigma, un buco nel racconto, che sta nel non-det-to, che io ho però scoperto, e che consiste, è questa la mia interpretazio-ne, nella tensione alla rinascita, una tensione abbastanza incredula quan-to determinata dell’io che scrive e che registra abbastanza macchinal-mente le proprie sensazioni e la propria aridità o la propria primavera sen-timentale come un ragno (il ragno di Roland Barthes, l’autore parassita)che attende, che aspetta che nella sua ragnatela restino impigliate prede– in questo caso prede di sé, di parti di sé – per cibarsene e digerirle, e ma-gari rinascere alla vita e alla scrittura, secondo quella felice intuizione sul-la scrittura autobiografica descritta da Aldo Gargani come “una secondanascita”, come un partorire se stessi secondo le modalità del possibile edel desiderio, che sono la sostanza fantastica e la legittimazione lettera-ria di ogni testo non banalmente autobiografico. Getting Personal, comerecita il titolo di un importante testo di critica sulla scrittura autobiogra-fica delle donne: un resoconto esistenziale molto spesso ricco di “se” e di

“forse”, quasi a sottolineare la qualità fluida e onesta di un autoritratto in-certo e provvisorio, poco esemplare e forse inevitabilmente bugiardo, au-toritratti così ironici talvolta nello smascherare i melodrammi della po-litica sessuale e sentimentale (ricordo solo l’esilarante dialogo di GraziaLivi e Francesca Pasini in Donne senza cuore) da tirare il collo in unistante a tutta la magniloquente e stucchevole retorica dei buoni senti-menti; autoritratti impegnati a fare stragi di stereotipi di genere, e magaria indulgere nel fare mucchio in quella strepitosa onda d’urto generazio-nale di scrittura femminile che ha inondato le case editrici e le librerie,una scrittura di donne, che – come ho cercato di mostrare nell’Autodi-zionario delle scrittrici del Novecento in Toscana, in un ambito circo-scritto e regionale – hanno capovolto la condanna all’intimismo e allaclausura in una prassi generosamente esibizionistica e non poco provo-catoria, mostrando che al di là di tutti i trionfalismi femministi, si vive nelconcreto un momento di perdita della bussola, fra senso di onnipotenza,risentimento vittimistico, voglia di dare una spallata al millenario e me-tamorfico patriarcato, mentre ci si accorge, nel bene e nel male, che ilconcetto di femminile è diventato una coperta troppo corta che se la tiritroppo da una parte lascia scoperto qualcosa d’altro. Scrive Nancy Mil-ler, in un saggio dove si fa portavoce di alcune strategie di negoziazio-ne dell’io individuate e spiate all’interno di autobiografie, di diari, e dimemorie femminili: “Invento tutte queste cose perché queste inventinome”. Ecco, anche Lacune di Jole Zanetti si inserisce, naturalmente, sen-za volerlo, e in modo decisivo, davvero calzante, in questa temperie del-la scrittura femminile di “un io senza garanzie”. Un io senza garanzie,appunto, come scriveva Ingeborg Bachman, in un saggio inserito dentroun altro saggio più grande intitolato L’io che scrive, una espressione av-venturosa e avventuriera, quella di un io senza garanzie di tante donneche sono sole o che si sentono comunque sole. Una formula, questadell’ io senza garanzie, che abbiamo scelto e usato come titolo di un sag-gio scritto a quattro mani, sulla storia dell’ autobiografia femminile, io ela mia amica più cara che ora non c’è più, Sandra Contini, che mi ha in-segnato a vivere, con consapevolezza, leggerezza e anche con la neces-saria paura, in quella dimensione inevitabile della vita che chiamerei, unpo’ enigmaticamente, una situazione di “allarmante potenziale meta-morfico”, una condizione che è la cifra, il tono basso di fondo rintrac-ciabile anche in ogni singolo frammento di prosa di Jole Zanetti. Perchéla vita, al di là di tutte le meraviglie che ci dona, è anche una inevitabi-le, incontenibile minaccia, reca cioè al suo interno i semi della propria di-struzione. Lacune, dunque, anche come tracce di un pieno che non c’èpiù. Vita anche come mancanza di vita. Vorrei chiudere con una citazionedalla introduzione di Claudio Magris a Lacune, che ha saputo entrare, confinezza e tagliente interpretazione, nel mondo di una sensibilità femmi-nile, uno scrittore che del resto nel suo ultimo suo splendido testo teatrale– Lei dunque capirà – si è identificato con una voce femminile, quella diuna risentita e fiera Euridice che, chiusa in un ospizio per vecchi, di-strugge l’ideale posticcio e infinitizzante della passione, e celebra spie-tatamente le ambiguità e i confini labili dell’amore e del disamore, fa pre-valere le ragioni della ragione e della vita sulla poeticità dell’assenza edella morte, intonando un aspro canto al mito di un’eterna fedeltà e alcontromito di un definitivo, inevitabile congedo. È alla mia amica San-dra, amica indimenticabile di quaranta anni di vita condivisa, che se neè andata dall’altra parte troppo presto, permettendomi di condividereanche il tempo della sua malattia e dell’addio, alla mia amica estrosa e in-telligentissima, è insomma alla studiosa sapiente e divertita di tanta let-teratura e testimonianza storica della soggettività femminile, che vorreidedicare, se me lo permettete, in chiusura, alcune frasi della introduzio-ne di Magris al libro che oggi presentiamo:

“Lacune – direbbe Wittgenstein – è un libro scritto più con la mano-che non sempre sa quali ghirigori sta tracciando – che con la testa, e que-sta è una buona garanzia per uno scrittore, la premessa per una radicalelibertà, ingenua in senso schilleriano, e per una disadorna capacità di no-minare le cose in presa diretta, dati che – fatte le debite proporzioni digrandezza e salvate le ovvie stellari distanze – possono ricordare le in-commensurabili prose brevi di Robert Walzer. Jole Zanetti non le co-nosce, ma sa avvertire la grande ironia delle cose e delle vicende, la di-sparità e i falsi in bilancio del destino. Lacune è il libro di una donna cheha imparato a guardare in quelle voragini che si spalancano sotto i pie-di anche quando si va in ufficio o a fare la spesa, ma anche a schivarlecon allegria, come i bambini saltano fra le pozzanghere.

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Guidava intontita dagli odori grevi che emanavano i campi arsidalla calura estiva; il giallo nelle sue molteplici sfumature do-

minava il colore del mondo; fieno secco a mucchi, campi arsi, maz-zi di spighe, terra sbiadita. Colore inquietante che offuscava la tra-sparenza dell’orizzonte in onde calde palpabili come i ricordi d’in-fanzia: corse a piedi nudi in prati pungenti, giochi sfrenati con i fra-telli, salti nei covoni profumati, gerle traboccanti fieno legato concorde e portato da contadine curve dal peso.

Si era fermata in un villaggio per scuotersi dal torpore e dallostruggimento, una donna che passava le aveva venduto un fascio dilavanda, desiderio di aria verde, azzurra, viola. Il profumo nell’abi-tacolo, divenuto ossessivo, ora la innervosiva quasi la soffocava e lamano lasciato il volante era andata involontariamente al seno sinistroe con crudeltà torceva il piccolo nodulo duro, indolore. Tutto eracambiato in poco tempo, le contadine in canottiera e pantaloncinimanovravano il trattore per trasportare balle di fieno tutte uguali, duegenerazioni per annullare il passato. La piccola cellula infetta dila-tava solo per lei il correre delle ore e generava una disarmonia dif-fusa, pericolosa, tossica, respirava male.

Lo aveva sentito per caso una sera, poche settimane prima, alritorno dalla spiaggia, sotto la doccia. Allo specchio, con gli occhiancora ciechi dal riverbero meridiano, non aveva visto nulla, maaveva avuto la certezza della sua esistenza. I gerani sul davanzale siconsumavano in fiori rossi e carnosi, senza boccioli; l’estate avevatravolto nella sua pienezza piante insetti odori, tutto prolificavaincontrollabile. Seduta sul balcone, era stata aggredita dal vomito; ilsugo di pomodoro e aglio che la vicina cucinava nell’appartamentoaccanto era una puzza nauseabonda. Si era chiusa in casa, nonostanteil caldo, e si era preparata per affrontare una serata normale.

Non sapeva quanto avrebbe dovuto attenderlo, aveva sempre tantolavoro. Nel poggiolo l’odore del sugo si era ammorbidito, aveva cer-cato di trovare una spiegazione credibile per una fuga, prima neces-sità impellente. Il sole, fulgida divinità in agonia, faceva brillarecome fili d’argento le ragnatele che intrecciavano i rami degli alberi.Troppi ricordi in uno spazio di tempo breve: tenendolo per mano, erascesa dalla barca e seguendolo per la piccola isola disabitata, si erainoltrata fra pini e cespugli di mirto. Enormi e magiche ragnatele sistagliavano nell’azzurro del cielo incatenando rami e tronchi, si chi-nava per non danneggiarle: la corazza evanescente era una protezione,era diventata invulnerabile. Adesso le davano ripugnanza quei fili,improvvisamente opachi, custodivano cadaveri di insetti, trovare unostecco, romperli, annullare il maleficio di quella tortura. Non erasemplice liberarsi dalla ragnatela, più cercava di togliersela più condisgusto si invischiava sul suo braccio, era sporca, infetta, imprigio-nata nella rete e aveva brividi, uno strano freddo perché l’epidermideaccaldata bruciava lasciando gelido solo il cuore.

Era dall’inizio dell’estate che aveva cominciato a svegliarsiimprovvisamente di notte sentendo che doveva accadere qualcosa;appuntamento oscuro e minaccioso che avrebbe potuto colpire acasaccio e distruggere il gioco di equilibri che creava la normale quo-tidianità, conquistata con fatica. Poi, pochi giorni dopo quella sera,bevendo avidamente l’acqua gelida del frigo, di colpo ebbe unaconsapevolezza assurda e fiera, lo smarrimento era passato, quelloche prolificava nel suo corpo riguardava, questa volta, lei sola.

Avrebbe deciso la sua gestione, non voleva una guerra che avrebbetrascinato tante persone nella sua strategia. Occhi ansiosi, sorrisiimpacciati, suggerimenti vacui di parenti e amici l’ avrebbero tor-mentata inutilmente e avvolta in un bozzolo di apatia. Non avrebbesopportato il suo sguardo ansioso, le sue telefonate in cerca diconforto e aiuto a conoscenti e amiche. La sofferenza sarebbe statasoltanto sua Pericoloso aprire un varco, indugiare e arrendersi: eraandata a dormire, quella sera, anche perché lui avvertiva la menzo-gna della partenza improvvisa.

Quindici giorni, di esami e false telefonate a tutti, in quella piccolama efficiente clinica di provincia decantata da una amica e dove nonaveva mai messo piede, per ottenere il verdetto inderogabile, meta-stasi. Una strana calma l’aveva guidata, decidere subito, entrare neltunnel senza uscita in un percorso faticoso di cure limitanti o viveresei mesi integra, ben conscia del salto finale alla fine del percorso. Sì,aveva provato a ritornare, senza credervi veramente. Quella terrazzadel ristorante, durante il viaggio di ritorno, dove aveva mangiato confalsa avidità, gli alberi neri e tetri, sul lungomare, in un cielo che listava annullando sempre più velocemente, tentazione di lasciarsiandare, perdersi nella magia delle cose

Era ritornata, abbandono, felicità, amore, ma non era felice, lostava distruggendo perché lui, ignaro, fantasticava sogni senza avve-nire. Si era impossessata di una felicità che non la riguardava più, oradoveva tagliare il passato e, ancora più difficile, il presente, distrug-gere l’amore, non lasciare rimpianti. Era ancora viva e agiva consa-pevole del colpo che avrebbe arrecato, sempre più piccolo dellostrappo imminente senza deroghe, rappezzare un buco significavacreare smagliature nei bordi e allargare il danno.

Era partita, stavolta definitivamente, senza saluti, senza letteresdolcinate, era certa della sua ira prima e del seguente smarrimento:avrebbe cercato conforto, coccolando un dolore senza nostalgie.Lei ora era libera di decidere, terribile esistere solo come una paren-tesi amara ma orgogliosa di avergli dato l’opportunità di vivereancora.

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Qualcosaè cambiatoJole Zanetti

Bruno Innocenti, Figura.

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Kierling

Ma ricordare forse è giustonon i soffi rochi e la pauranegli occhi smisurati,non il tanfo d’alcool ed il bicchiereinfranto per terra,

ma solole rose di Pentecoste delicatee l’aglaia sfrontata,l’avorniello dorato e il rosso spino,e freschi come un fresco mattinoi lillà tutti gettatinel sole.

Èpassato un anno circa dalla pubblicazione e il mio amico BeppinoBevilacqua, il noto germanista italiano, ha ascoltato da Ernestina

Pellegrini e da Claudio Magris la presentazione di un suo libretto dipoesie1 e sta aggiungendo qualche commento e qualche lettura. Unmese prima me ne ha mandato una copia che ho letto con emozione:solo ora però ricordo che quella stanza piena di fiori, più o meno rari,e di angoscia è quella del Kierling Sanatorium in Klosterneuburg doveil 3 giugno 1924 muore Franz Kafka. Ha vicino l’amico medico RobertKlopstock che sta preparando per lui un’ultima iniezione di morfina.

Beppino mi ha raccontato l’occasione in cui sono nati i versi so-prariportati, «Un mattino di molti anni fa insieme a Giuliano Baionientrai in quella stanza. Ci aveva condotti lì Wolfgang Kraus, l’allorapresidente della Oesterreichische Gesellschaft für Literatur. Entran-do, avevo in mente la tristissima cronaca degli ultimi giorni e delle ul-time ore di vita. Ma la stanza era tutt’altro che triste. Da una grandeporta-finestra che dà a levante entrava a fiotti il sole estivo e ovunqueerano fiori: peonie (Pfingstrosen), e tanti altri, diversi. Mi parve chequesto volesse dirmi la viva perennità dell’opera creata da FranzKafka, da ricordare ben al di là della sua miseria di povero uomo mo-rente.»

Sono passati cinque anni da quando ponevo qualche quesito suKafka al mio amico, essendo in procinto di inaugurare a Praga un con-gresso medico internazionale, con un tema, psicologico-letterario,che avevo basato su due racconti del grande scrittore, ebreo di Pragache scriveva in tedesco.

“Metamorfosi”Nel primo “Gregor Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agi-

tati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immon-do.” Bastano queste due righe per identificare il celebre racconto2, duerighe che rappresentano la più significativa breve definizione di Selfand Body Images, immagini di Sé e del Corpo, di un qualche nostropaziente dermatologico portata agli estremi fra decorso e diffusioneclinica totalizzante in una invenzione letteraria. Non a caso apre, esembra contenere e concludere tutto un famoso racconto, la META-MORFOSI (DIE VERWANDLUNG), del più famoso scrittore praghese deinostri tempi, Franz Kafka. Il medico, in particolare se dermatologo edi lunga esperienza, se riflette, troverà qui combinati in una globalitàesasperante, frammenti di percezioni di sensazioni e di auto-osserva-zione emozionalmente, esistenzialmente delirante e dismorfofobica dinon pochi pazienti.

Il paziente dermatologico si sente infatti spesso più o meno tra-sformato fino a una sorta di intollerabile metamorfosi. L’arte descrit-tiva del giovane Franz Kafka non manca, nel prosieguo del racconto,di darci altri dettagli di nostro specifico interesse: “un leggero pruri-to nella parte più alta del ventre […] il punto che pizzicava era tuttocoperto di puntini bianchi, di cui non sapeva che pensare; si provò atoccarlo con una gamba, ma subito la ritrasse perché al primo con-tatto lo aveva percorso un brivido.” Prova a rispondere alla madre chelo sollecita ad alzarsi ma sente che alla sua voce si mischia un “pigolìoincontenibile, doloroso che lasciava comprendere le parole soltantoin un primo momento, ma che le confondeva poi talmente nell’eco dafar dubitare di averle intese.” Si sente poi e si vede “inverosimilmentelargo”, una constatazione non insolita da parte dei nostri pazienti, ecoperto da una sorta di “zampine che senza interruzione si agitavanoin ogni senso e che, inoltre, egli non sapeva comandare” ecc. ecc.Tenta di muoversi, non ci riesce, batte contro il fondo del letto e pro-va un “dolore cocente”. Cerca di rimaner calmo a tutti i costi. Laschiena è divenuta dura; sente arrivare un suo superiore, il procuratoredel suo ufficio che non l’ha visto arrivare in orario. Si lancia fuori dalletto, batte la testa. Sollecitato non accetta di aprire la porta; dal tap-peto dove giace ascolta gli altri, sente piangere la sorella, è sollecita-to dal procuratore, ma rimane chiuso; urla di non star bene… che an-drà più tardi… Al procuratore anche di là dalla parete la voce di Gre-gorio sembra quella di un animale. Vede che da una zampina esce unamateria vischiosa, riesce a girare la chiave con la bocca e anche da lìesce una sorta di liquido bruno…

Di fronte, dalla finestra coll’aumentare della luce mattutina, sivede la parete grigio scura di un sanatorio (luogo che tante volteKafka avrà dovuto e dovrà frequentare per la sua tubercolosi polmo-nare) e dall’uscio di casa aperto si vede il pianerottolo e la scala ir-raggiungibili. Promette, non oltrepassando la porta, che andrà, appe-na può, al suo non facile lavoro (il commesso viaggiatore); la madrelo vede e urla aiuto scappando dall’indietro; il procuratore, a cui Gre-

Il profondo di

KAFKAEmiliano Panconesi

Copertina disegnata da O. Starke (1916).

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gorio ha tentato di avvicinarsi, ha già raggiunto, fuggendo, le scale; ilpadre cerca di ricacciare quel Gregorio di ora, che mal riesce a retro-cedere, aiutandosi addirittura con un bastone, selvaggiamente. Laporta della camera è ora troppo stretta per lui e si scortica tutto un fian-co lasciando “brutte macchie” sulla porta. L’ultimo colpo del padre lospinge sanguinante nella camera, che viene chiusa col bastone (quan-ti parenti del paziente incontrollabile e indecente abbiamo pensatoagissero quasi così?).

Così il primo capitolo. Nel secondo (e poi nel terzo) capitolo,dopo un sonno che è quasi un deliquio, la povera creatura si sveglia albuio, sdraiato per terra e più che vedere ha la sensazione che al fian-co sinistro ci sia una lunga cicatrice (che non potrebbe essersi forma-ta in così breve tempo!) che tira la sua pelle dolorosamente. Tutto sem-bra stabilizzarsi in breve, senza evoluzione e senza provvedimenti. Ciòpuò ricordarci quanto, nella realtà, è sperimentato, vissuto dal pa-ziente, dermatologico o di altro tipo, che si è visto e sentito stretta-mente avvolto dalla malattia che lo ha colpito.

Il racconto ha il suo terribile sviluppo che non ricorderemo qui in-vitandovi alla lettura/rilettura.

“Un medico di campagna”Un’altra, fra le tante possibili, citazione d’obbligo è, sempre nei

RACCONTI, UN MEDICO DI CAMPAGNA (EIN LANDARZT, scritto fra il’16 e il ’17, di cui riportiamo brani dello stesso traduttore di ME-TAMORFOSI3). Lungi da una descrizione bozzettistica tratta da me-morie (lo zio Siegfried Löwy era medico condotto in Moravia), que-sto è un racconto più breve ma altrettanto allucinante. Il protagoni-sta costretto a una visita urgente, riesce a procurarsi con difficoltà icavalli per la sua carrozza e in mezzo a un fitto nevischio, lascian-do la sua giovane e desiderabile domestica Rosa in balia del vicinostalliere, un tipo poco promettente che gli ha prestato i cavalli. Stra-namente, dopo pochi chilometri è già arrivato, non nevica più: in-torno alla casa colonica raggiunta c’è il chiaro di luna… L’aria del-la camera in cui viene introdotto è irrespirabile; il giovanissimo pa-ziente, magro con gli occhi spenti, dal letto gli si “attacca al collo”e sussurra: “Dottore, lasciami morire.” I cavalli, dal di fuori, apro-no con dei colpi di testa le finestre e sembrano voler guardare den-tro: il dottore pensa tormentosamente a Rosa che ha lasciato nellegrinfie di quello stalliere… Come tornare a salvarla? Ha tutta la fa-miglia intorno (“la sorella agita un pesante asciugamano intriso disangue”). Visita finalmente il ragazzo e vede che “sul fianco destro,all’anca, è aperta una ferita grande come il palmo di una mano: dicolor rosa in diverse gradazioni, scura in fondo, più chiara verso gliorli, leggermente granulosa, col sangue raggrumato a chiazze, aper-ta come la bocca di una miniera. Vista da lontano è così. Ma da vi-cino appare ancor più grave. E come guardarla senza ansar lieve-mente? Dei vermi lunghi e grossi come il mio dito mignolo, rosei disuo, spruzzati anche di sangue, brulicano, trattenuti nell’internodella ferita, colle testine bianche e le numerose zampine tendentiverso la luce.” Una terribile, ossessivamente precisa descrizione, nonimporta se con qualche dettaglio improbabile, presente, non di rado,nel suo stile.

Segue il suo commento (del medico), “povero ragazzo, nessuno tipuò aiutare”, e la considerazione che questa gente ha perduta la vec-chia fede e tutto è preteso dal medico che “deve provvedere a tutto”anche se è un vecchio medico condotto [sic!] in più privato della suadomestica. E poi, quasi in una immaginaria visione medioevale si sen-te un coro di scolari col maestro che cantano: “Spogliatelo e sanerà/Se non lo fa, ammazzatelo. Non è che un medico, non è che un medi-co” E tutto questo inizia: il medico viene spogliato, messo nel letto, frail malato e il muro, dalla parte della ferita… con il silenzio che so-praggiunge. Il paziente all’orecchio gli dice della sua scarsa fiducia,dice di esser venuto al mondo con quella ferita, ma il dottore lo smen-tisce: la ferita è prodotta da due colpi di accetta ad angolo acuto, nelbosco, forse senza che il ragazzo se ne fosse reso conto.

Il racconto procede verso la conclusione. Il Dottore riesce a scap-pare, i vestiti in mano, forse non farà mai ritorno a casa, ha perso tut-to e ora c’è la neve dappertutto: “in una carrozza che realmente esi-steva, tirata da cavalli irreali […] Erro di qua e di la, povero vec-chio[…] Nessuno si presta ad aiutare[…]”. E finisce dicendo “quan-do si è risposto ad un falso allarme (ma non c’era niente in realtà che

facesse pensare che fosse falso!) del campanello notturno […] non c’èpiù rimedio.”

Non si perde mai in questa orrenda atmosfera gotica la precisio-ne linguistica: le descrizioni sono perfette e pieni di dettagli. Comeci ricordano nei commenti tanti critici, illustri studiosi del grandescrittore, a cui si aggiungono esperti di altri settori culturali suscita-ti da quelle storie. La narrativa di Kafka, nella sua originalità di con-tenuto e di forme non rassomiglia a quella di nessun altro: non apparené impressionista né espressionista. Lo potremmo definire un reali-sta visionario, e questi due racconti appoggiano proprio questa de-finizione.

L’uomo e la vitaFranz nacque a Praga il 3 luglio 1883, nel palazzo Zum Turm che

si trova sull’Altstädter Ring all’angolo con Maiselgasse e Karpfen-gasse al confine col ghetto ebraico, lo JOSEPH HOF (Josefov). La fa-miglia comprendeva: il padre Hermann, un bottegaio che vendevamerceria e ferramenta, la madre, Julie Löwy, lui e tre sorelle minoridi cui la più piccola, Ottla, nacque nel 1892 e fu la sua preferita.Franz Kafka fece tutti gli studi a Praga, prima alla scuola elementareal Fleischmarkt, poi allo Staats-Gymnasium (1893-1901) al PalazzoKinsky, e infine alla Deutsche Universität (1901-1906) dove studiòprima chimica, poi lingua e letteratura tedesca e poi giurisprudenza,laureandosi in quest’ultima materia.

Il 23 ottobre del 1902 fece la conoscenza di Max Brod, che di-venne il grande amico della sua vita. Si conobbero in occasione di unaconferenze di Brod su Schopenhauer e Nietzsche.

Kafka scrisse la prima stesura del suo primo racconto DESCRIZIO-NE DI UNA BATTAGLIA (BESCHREIBUNG EINES KAMPFES) nel 1904-1905. Nel 1907 fu assunto come ausiliario nella Società Generaledelle Assicurazioni di Praga, e nel 1908 si trasferi all’Istituto per leAssicurazioni del Regno di Boemia. Poi, molto in breve: visse la suaprima esperienza amorosa mentre era nel sanatorio Zuckmantel (Sch-lesien), viaggiò in Italia, e visitò Lugano, Parigi e Berlino, lesse Flau-bert (fra i suoi scrittori preferiti), e si interessò molto sia della cultu-ra Yiddish sia della psicoanalisi.

Il giorno 13 agosto del 1912 Franz conobbe Felice Bauer; sen’innamorò, quasi a prima vista (benché, come vedremo, la descri-vesse come brutta), e si fidanzarono circa due anni dopo. Kafkascrisse IL PROCESSO in una sola notte nel 1912, ma lo pubblicò piùtardi con una dedica a Felice. Il primo incontro con lei fu meticolo-samente annotato nel diario di Franz (i suoi TAGEBÜCHER – che ri-portiamo nella traduzione di Ervino Pocar4), con, perfino, un titoloper il paragrafo: FRAÜLEIN FELICE BAUER. “Quando il 13 agosto ar-rivai da Brod ella era seduta a tavola, eppure mi parve una dome-stica. Non avevo alcuna curiosità di sapere chi fosse, ma mi am-bientai subito. Viso ossuto e vuoto che mostrava apertamente il vuo-to. Collo libero. Camicetta trascurata. Pareva vestita alla casalinga,benché, come si vide in seguito, non lo fosse. (Le riesco un po’ estra-neo perché la osservo da cosi vicino.) Capelli biondi, un po’ lisci,senza attrattiva, mento robusto. Mentre mi mettevo a sedere la guar-dai per la prima volta più attentamente, quando fui seduto avevo giàun giudizio incrollabile.”

Sarà un amore lungo, benché bizzarro e con strani sviluppi, prin-cipalmente per posta, con incontri rari: non vissero mai insieme. Nelmaggio 1914 si fidanzarono formalmente a Berlino, ma già a luglioFranz ruppe il fidanzamento. Nel 1915 si ripristinò il rapporto a Bo-denback ed erano insieme a Marienbad nel 1916. Nel 1917 si fidan-zarono di nuovo… in tutto cinque anni soprattutto di corrispondenzacon incredibilmente pochi e brevi incontri.

Dopo una pausa Kafka aveva ripreso a scrivere proprio nel 1917mentre viveva con la sorella Ottla nella piccola casa di lei sulla Al-chimistengasse a Praga. Quello stesso anno soffrì di un grave episo-dio di emottisi che confermò la diagnosi di tubercolosi polmonare.Continuò a vivere con Ottla, ma a Zürau. Nel 1918 imparò l’ebraico.Nel 1919 ebbe una relazione con Julie Wohryzek, e programmaronodi sposarsi. Scrisse la LETTERA AL PADRE (a suo padre) nel 1919, e nel1920 si recò a Murano per farsi curare. Poi, quello stesso anno, a Pra-ga, fece la conoscenza di Milena Jesenská, con la quale ebbe una re-lazione amorosa, strana anche questa (appassionata, ma di nuovo pre-

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valentemente epistolare; si erano conosciuti perché lei voleva tradur-re i suoi scritti in ceco! Lei abitava a Vienna con il marito “torturato-re”, e Franz, come con Felice, era terrorizzato dall’idea di convivereo, perfino, di stare vicino a chiunque non facesse parte della sua fa-miglia originaria.

Alla fine dell’anno fu internato nel Matliary Sanatorium sugli AltiTatra dove conobbe il ventunenne studente di medicina Robert Klo-pstock che diverrà suo grande amico. Nel 1923 a Müritz, sulla costadel Baltico, conobbe Dora Dymant: si trasferirono insieme a Berlinoe fecero progetti di trasferirsi in Palestina. Sembrava felice.

Nel 1924 al Wiener Wald Sanatorium di Ortmann in Austria aKafka fu diagnosticata la tubercolosi della laringe; passò poi un bre-ve periodo nella clinica del Dr. Hayek a Vienna, seguito da una per-manenza terribile di malattia nel sanatorio Hoffmann a Kierling pres-so Klosterneuburg, ancora in Austria. Durante quest’ultimo periodo,Kafka non poteva parlare e comunicava con Dora e con Klopstock tra-mite biglietti scritti. Scrisse ai genitori di non venire a trovarlo. Morìil giorno 3 giugno a mezzogiorno, con Klopstock ad assisterlo. Klo-pstock si era spostato, per preparare un’ennesima iniezione di morfi-na per Franz che ne chiedeva in continuazione e che lo aveva prega-to di non andarsene. Klopstock lo rassicurò, dicendo “Non vado via.”a cui Franz rispose: “Ma… me ne vado io.” Furono le sue ultime pa-role. [Venti anni prima a Badenweiler in Germania Anton Cechov ave-va detto: “Ich sterbe.” (“Muoio”), morendo anche lui di tubercolosi eanche lui poco dopo i quarant’anni.] Franz Kafka fu sepolto mercoledì,l’11 giugno 1924 nel cimitero ebraico di Stranice – Praga.

Mente-corpo e Medicina “psicosomatica”Nonostante la tortura delle recidive di quella terribile, special-

mente allora così comune, malattia infettiva cronica che lo affligeva,Franz Kafka pensava al rapporto fra le due parti dell’indivisibile in-sieme mente-corpo (la psicosomatica). In una delle sue tante lettere aMax Brod, scritta da Zürau nel 1917, scrisse: “[…] la camera è otti-ma [ …] ariosa, calda e quasi del tutto tranquilla; intorno a me c’è inabbondanza tutto ciò che devo mangiare salvo che le mie labbra vi sioppongono convulse, ma cosi mi capita sempre nei primi giorni dopoun mutamento e la libertà, la libertà sopratutto.

Certo c’è ancora la ferita5, della quale la lesione ai polmoni è sol-tanto un simbolo… oggi ho verso la tubercolosi l’atteggiamento cheha il bambino verso le pieghe della gonna materna alle quali si ag-grappa. Se la malattia l’ho presa da mia madre, ciò si accorda ancorameglio e nelle sue cure infinite, molto al di sotto della sua compren-sione, mia madre mi avrebbe fatto anche questo servizio. Cerco con-tinuamente di spiegarmi la malattia, perché certo non sono andato ioa cercarla. Talvolta ho l’impressione che il cervello e i polmoni si sia-no messi d’accordo a mia insaputa. «Cosi non si può andare avanti»ha detto il cervello, e dopo cinque anni i polmoni si sono dichiarati di-sposti a dare il loro aiuto.”6

In altre lettere, ne cito alcune indirizzate a Milena, (“la spiegazionefantastica della genesi del male [… ] il sicuro intuito di una letturapsicosomatica) […] queste trattative tra il cervello e i polmoni, che sisvolgevano a mia insaputa, devono essere state spaventevoli.” E inol-tre, “Sono malato di mente, la malattia polmonare è soltanto unostraripare della malattia mentale.”7:

NOTE

1 Giuseppe Bevilacqua, Un pennino di stagno (2005, Rovigo, Il Ponte delSale) presentato a Firenze il pomeriggio dell’11 aprile 2006 al Gabinetto Scienti-fico Letterario Vieussieux (Incontri del Portolano). La poesia Kierling è a pag. 79.

2 La metamorfosi (DIE VERWANDLUNG), del 1912, traduzione di RodolfoPaoli in: Franz Kafka - Racconti (a cura di Ervino Pocar), 1970, Milano,Mondadori.

3 Franz Kafka - Racconti (a cura di Ervino Pocar), 1970, Milano, Monda-dori; traduzioni di Rodolfo Paoli.

4 Franz Kafka - Confessioni e Diari (a cura di Ervino Pocar), 1972, Mila-no, Mondadori; traduzioni di Ervino Pocar.

5 aveva anche scritto a Max stesso in una lettera di poco precedente: … “lo pre-vedevo. Ricordi la ferita sanguinante nel Medico di campagna?”

6 Nota tradotta da Ervino Pocar in Franz Kafka, lettere (a cura di F. Ma-sini), 1988, Milano, Mondadori.

7 da “Introduzione” di Ferruccio Masini, ibidem

Appena Stefano aprì la porta della casa sentì un leggero odore dirinchiuso e di muffa. Era il modesto appartamento al secondo

piano di via Strozzi che la madre gli aveva lasciato alla sua morte, av-venuta improvvisamente otto mesi prima. Mise piede nel corridoio edentrò subito in cucina, che restava a sinistra. Era quasi al buio per lapoca luce che entrava dalla finestra chiusa con gli scuretti serrati ap-pena. Aprì i vetri e la persiana e lo investì un leggero soffio di ventoche gli fece respirare una boccata d’aria leggera e familiare.

Nel frattempo passò il treno che partito dalla vicina stazione diPorta al Serraglio viaggiava a velocità ridotta. Quello sferragliare gliriportò improvvisamente alla schiena il brivido del rumore del basto-ne di ferro che le guardie carcerarie facevano scorrere, a certe ore,sulle sbarre delle celle per accertarsi della loro integrità.

Rimase immobile e poi si guardò intorno con la sensazione di tro-varsi fuori del tempo. Si riprese e piano piano cominciò a percepire gliodori ed i rumori della cucina di quando, da ragazzo, passava diver-se ore della giornata in quella stanza con la mamma. Il brodo che bol-liva nella pentola smaltata d’ azzurro, il soffio profumato del berlin-gozzo che arrivava dal forno di terracotta quando veniva alzato ilcoperchio per controllare la cottura, lo sfrigolio del soffritto, l’alitoacidulo del cetriolo sbucciato e tagliato a fette, il gorgoglio dell’acquache scorreva nello scarico dell’acquaio quando la mamma vuotava ilcatino dopo aver lavato i piatti.

E lì c’è il solito mettitutto laccato di bianco con i vetri decorati difiori e di foglie: proprio lì vicino ai fornelli. Diviso in due piani, nel-la parte superiore contiene ancora il servizio bianco da caffellatte; sot-to, le tazzine da caffè sui piattini: sono di forma cilindrica con disegnidi blu porcellana. Dallo spessore della tavola di legno del ripiano pen-de la trina incisa sulla carta velina rosa, appesa con l’intenzione didare un tocco di ricercatezza al mobile; ma sembra un po’ sbiadita. Sulvano dell’alzata, su un centrino bianco ricamato, c’è la fruttiera a for-ma di calice, con dentro un mazzetto di chiavi.

Sul muro di fianco c’è attaccato ad un chiodino il Calendario diFrate Indovino: è aperto alla pagina del mese d’aprile. Non l’avevamai visto prima, si vede che nei quasi cinque anni passati in prigioneè venuta fuori anche questa piccola novità. Ma al di fuori di ciò la cu-cina è la stessa; la tavola col piano di marmo bianco a venature gri-giastre. Anche il pavimento di graniglia è sempre un po’ mal ridotto,specialmente vicino alle zampe della tavola e di fronte all’acquaio.

Certo la mamma quando restò sola, dopo che il babbo morì nelcantiere e il suo arresto per quella maledetta storia di droga che co-stò la vita ad uno studente, non ha cambiato nulla in casa. Quando an-dava a trovarlo era sempre più avvilita ed invecchiata. Era meglio sifacesse vedere più di rado.

Tornò nel corridoio e dette un’occhiata di sfuggita al salotto, poiaprì la porta della camera dei genitori che si trovava in penombra edentrò. Sentì un’emozione come se fosse entrato in un luogo consacra-to. Appoggiò le mani sulla spalliera del letto matrimoniale e dopo unpo’ di dolente vuoto interiore si avvicinò alla parte dove dormiva lamamma.

Sul comodino c’era la vecchia sveglia a soneria. La prese in mano,ci soffiò il velo di polvere che la ricopriva e timoroso ma deciso co-minciò a girare la chiavetta della carica. Aveva l’impressione che stes-se decidendo qualcosa d’importante nel dare nuova vita alle lancetteche segnano il tempo. Gli sembrava di dominare, con quel movimento,i pensieri ed i passi da percorrere. Mentre il congegno si risvegliò e co-minciò il ticchettio dei secondi ebbe la sensazione che la casa si riani-masse: finalmente stava respirando con calma e sicurezza.

LA SVEGLIAracconto di Umberto Mannucci

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Vide l’auto rossa traballare sulla strada sterrata in discesa, poisparire dietro la curva; all’ultimo qualcuno aveva ancora sa-

lutato allungando una mano fuori del finestrino; aveva rispostoagitando il braccio che teneva alzato. Non rientrò subito. Stava inmezzo al cortile selciato su cui scorrevano piccoli rivoli della piog-gia caduta durante quel pomeriggio. Adesso era spiovuto. L’aria erarestata marcia. Nuvole stracciate di un biancore pesantissimo scen-devano la vallata come per forza di gravità. Per il resto il cielo eratutto un’alta cappa color piombo. Ma da ponente, come da una fes-sura sotto la porta, prorompeva una luce gialla e quasi innaturaleche aderiva ai muri delle case: la sua, e poi, lontano, le altre, spar-se sulle colline.

La giornata finiva. Era stata rapida nel passare, tra discorsi oraanimati ora cercati lentamente, mentre sulla grande tavola della cu-cina i cibi caldi e i vini venivano uno dopo l’altro, e si commenta-vano e si consumavano con piacere di tutti. Ogni tanto una pioggiagrossa e improvvisa come se si fosse in estate si era imposta col suorumore, battendo il tetto. Le luci erano state accese tutto il tempo,e i vetri sempre appannati. Ora la giornata finiva. Ma sentì come unpeso le ore che aveva ancora dinanzi. Che fare? Da ponente se-guitava a sgorgare quel chiarore ma sarebbe stato per poco. Restòun bel pezzo lì immobile, respirando l’aria fredda e bagnata eguardando tutto attorno. Pareva che il tempo sfuggendo facessestranamente tutt’uno con le cose che non si saziava di contempla-re con un indistinto dolore. Oltre i prati zuppi d’acqua si alzavanoverso il monte i tratti di macchia e i querceti. Dalla parte oppostaun lembo della città lontana appariva impreciso attraverso strisciedi foschia.

Finalmente rientrò in casa. Andò nello studio. Le imposte era-no ancora richiuse dal giorno avanti. Non le aprì per avere l’ultimochiaro e si trovò così subito nella luce notturna delle lampade. Lastretta dell’incertezza si fece più forte. Ma perché? Aveva due o trelavori avviati; sul tavolo le carte i libri gli appunti erano disposti conordine. Lo studio era ampio, silenzioso nella casa solitaria. Cam-minò a lungo rasente gli scaffali, ogni tanto prese un libro e vi les-se qualcosa, ma come uno che guarda sovrappensiero l’orologio esubito dopo non sa che ora sia.

Alfine si risolse. Aveva una pila di romanzi da leggere comemembro di una giuria letteraria. Erano uno sopra l’altro sulla mo-quette. Rovesciò quella catasta, vi frugò un poco, poi prese il librodi un autore fra i più noti. Guardò il termometro appeso al muro:17 gradi. Raccattò un plaid ammucchiato su un angolo del divanoe prima di lasciarsi cadere nella solita poltrona se lo girò due vol-te attorno alle gambe. Aveva spento tutte le lampade tranne quellache allungava il suo braccio sopra la poltrona. Buona parte delgrande studio era adesso in una penombra come quella del teatroquando comincia la rappresentazione; e per un attimo ebbe la sen-sazione che lì qualcuno si aspettasse qualcosa da lui. Invece era luistesso in uno stato di attesa passiva, ma inquieta.

Il romanzo narrava di due amori, l’eroe era diviso tra l’amoreper la moglie e quello per una giovanissima dissipata e un po’ fol-

le. Le parti liriche che rievocavano i primi tempi del felice matri-monio si alternavano a crude descrizioni delle ore trascorse inadulterio. Il noto autore confermava le sue qualità. Scriveva senzamai andare a capo. Alcuni personaggi parlavano in romanesco e di-cevano parole che cinquanta anni prima non sarebbero mai e poimai comparse in un romanzo. I personaggi vivevano dilemmi ter-ribili, vi erano molte discussioni e molte scene amorose con tutti iparticolari. Lesse quattro capitoli. Restavano altri sette. Guardò illibro che teneva fra le mani nel cono di luce della lampada. L’edi-tore, il massimo del Paese, aveva fatto una copertina bellissima.Al centro era riprodotto un particolare di un capolavoro della pit-tura moderna; e questo particolare aveva un vago rapporto con ilcontenuto del romanzo.

Ma, restando lì seduto con il libro in mano, sentì crescere unsenso di completa estraneità. Si accorse che quel po’ d’interesse cheaveva provato fino a quel momento non aveva niente a che fare conl’oscuro elemento che dominava la sua giornata ed era per luiqualcosa d’essenziale. Con enorme fatica si levò dalla poltrona, ac-cese altre luci e rimise le mani nel mucchio di libri. Ne sfogliò al-cuni, esitante. Ma gli bastava leggere una qualsiasi frase per ave-re l’impressione di una sproporzione immensa, non sapeva neppurelui bene tra che cosa, e quelle parole. Gli facevano l’effetto di al-cunché d’insipido e duro che dovesse prendere in bocca: non riu-sciva a masticarlo né a ricavarne un qualsiasi sapore. Per cui, quan-do si distolse dal mucchio di libri e si rialzò faticosamente, gli ven-ne da fare un gesto come di sputare.

Di nuovo fece semibuia la stanza. Altre volte, quando si era tro-vato in una simile angoscia, aveva ascoltato musica, della grandemusica. Gli pareva che venisse dal solo luogo al mondo dove quel-la terribile incertezza era stata vinta. Ma stavolta non volle farlo.Si vedeva assorto nell’ascolto, nella poltrona lì accanto, ad aspet-tare che passasse. E gli parve una vigliaccheria. Non volle farlo.

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LETTURASERALEGiuseppe Bevilacqua

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«La domanda di Anna Dolfi sul rapporto tra letteratura, morte, not-te e insonnia è difficilissima, ha bisogno di una sigaretta. Dun-

que…»1. Così rispondeva Tabucchi a una domanda di Anna Dolfi, rin-tracciabile, guarda caso, a revés.

Quel che ne segue, nelle pagine di allora, è, citando Ornhan Pamuk,la risposta dell’“autore implicito”, cioè dell’autore che legge se stesso nel-la metalessi delle sue intenzioni: dunque, sostanzialmente, nello sdop-piamento proprio di ogni critica d’autore. Diversa è, ovviamente, la fun-zione del critico e dello sguardo critico, a cui è demandata invece lamessa a fuoco di un discorso trans-esperenziale che riporti nelle soglie del“canonico” la produzione scrittoria. Nell’ultimo libro che Anna Dolfi de-dica a Tabucchi (a cui hanno fatto seguito, nel giro di pochi mesi, altri treeccellenti interventi frutto di relazioni a convegni internazionali2) la stu-diosa affronta (e risponde in proprio) quella «difficilissima domanda» equel che ne scaturisce è un libro denso, coltissimo, che legge Tabucchi daun’ottica bivalve, dove i lemmi la specularità e il rimorso vanno a inda-gare la infinita complessità della scrittura tabucchiana fino a congiungersiin una ermeneutica efficacissima, illuminante e, per certi versi, esaustiva.Già Ferroni, in alcune righe dedicate a Tabucchi, definiva la narrativa del-lo scrittore «[…] un fittissimo intreccio di richiami letterari, di citazioni,di spunti tratti dalle realtà e dagli autori più lontani»3.

Da allora molti sono stati gli studi dedicati a Tabucchi, ma certo il Re-bus4 di una scrittura che vede decostruire il soggetto Tempo, che si gio-ca su partiture molteplici, su universi paralleli, su loci invisibili e sulle so-glie del Notturno, pare esistere in re proprio a confermare l’impossibilitàdella reductio ad unum, l’insussistenza di qualsiasi presa ortologica, l’a-sindotico esercizio dell’intelligenza che, decrittando una realtà sfuggen-te, pare volta a una forma perenne di sconfitta. A questa resa (implicita neltessuto), ai tentativi (volentes aut nolentes) di depistaggio, lo studio diAnna Dolfi si sottrae, dimostrando come sia possibile invece, seguendole non tracce lasciate sul perimetro della scrittura, ricostruire le archeo-logie della narrativa di Tabucchi, citando per immagini anche le coperti-ne dei libri, riprodotte a sostegno della tesi secondo la quale anche le so-glie, i paratesti, evocano il gioco dei rovesci. Lo studio si pone dunque inauscultazione della voce della prosa, eliminando i rumori di sottofondo,inseguendo gli eco, per scovare quelle chiavi (le due chiavi) che sono gliantigrafi evidenti della filiazione narrativa, gli archetipi di cui le paginetrattengono l’orma oramai invisibile e contaminata: la specularità e il ri-morso.

Se l’individuazione di un termine come quello della “specularità”permette alla studiosa di compendiare e poi di sciogliere le funzioni deldoppio, dell’alterità, del binomio a cui può ridursi qualsiasi forma di lo-gica, nel libro due sono i capitoli volti a indagarne le implicazioni: Vir-tualità e alonature del possibile e «Notturno indiano». Appare chiarocome nel primo dei capitoli l’interprete si trovi ad affrontare le motiva-zioni che muovono la scrittura tabucchiana. L’esergo posto in limine in-fatti ha pertinenza assoluta con il/uno dei sensi che lo scrittore atribuiscealla letteratura, ed è tratto da Sostiene Pereira: «[…] la letteratura sem-bra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità». La citazioneserve all’indagine per mettere a punto il concetto di «umanizzazione delfantastico» (p. 14) e dunque per riportare il fantastico nel suo alveo uma-no e storico riconducendo così la letteratura all’interno di quel «sogno col-lettivo» (p. 30) che ne garantisce la pertinenza con l’esperienza umana(e la sottrae dunque, e contrario, alla forma metafisica dell’inconoscibi-le tout court). I giochi dell’altrove, i piccoli equivoci senza importanza

(che proprio perché sfuggenti al tempo e all’attenzione, assumono aprèscoup le tinte cupe del Destino e dell’Irreversibile) sono la forma di ri-fles-sione scelta come elemento probante di ogni specularità. La decrittazio-ne dei temi serve dunque al regesto dei possibili narrativi per ri-ordinarein modo diverso la materia narrativa e le funzioni del racconto.

Lo studio segue inizialmente, in questo primo capitolo, Tabucchi fraI canoni dell’ipotetico (qui si citano solo alcuni dei titoli dei paragrafi), Lecorrezioni del definitivo e I testi paralleli per fermare il gioco dello sdop-piamento, fissarlo come fotografia critica (e il tema della fotografia, stu-diato anche da Nives Trentin gode di decine di occorrenze nel corpus nar-rativo di Tabucchi e viene affrontato qui in una nota – pp. 39-40 –, tau-tologicamente degna di nota) e mostrare come per Tabucchi «[…] l’uni-verso nascosto che ci circonda […] costituisce delle cose la cifra più pro-pria e essenziale» (p. 30). Ma l’universo nascosto «[…] equivale poi a ri-condurre tutto verso il sogno […] e l’insonnia, mentre ogni storia si col-loca ai limiti della morte, sul filo del suo notturno […]» (p. 31).

Se il notturno è dunque ciò che rimane in ombra, ciò che perturba, ciòche si sottrae, l’indagine non può che andare a confrontarsi con uno deitesti più intriganti di Tabucchi (fatto com’è di stralci di storie, di generiche si sovrappongono, dalla detective’s story alla letteratura di viaggio)cioè Notturno indiano, capitolo suddiviso a sua volta, quasi pitagorica-mente, in tre paragrafi: Una partitura alla Chopin, Sulle tracce – perframmenti – del «juego del réves», «Hors cadre». Pretesti brevi in formadi dizionario.

La studiosa rintraccia il segno sovrasegmentale di Notturno indianoattraverso la cifra tonale del periodare: un pianissimo alla Chopin, al se-guito del suono della voce narrante. Le fonti che Anna Dolfi mette in“campo” (alla Bourdieu) sono numerosissime e ficcanti: fra le altre, Pa-solini, Moravia, Manganelli. Ma gli ipotesti, le filiazioni, servono al di-scorso critico solo «[…] per offrire materiale di lavoro e per marcare qual-

La specularità e il rimorso diTABUCCHI

Elena Pinzuti

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che necessaria differenza.» (p.78) Infatti se la memoria testuale ha fun-zioni di volontarietà e involontarietà (quindi di citazione o di occasione),l’indagine del regesto citazionale non è mera funzione alla Linneo, ben-sì scarto spitzeriano.

Del resto «L’India di Tabucchi […] è, rispetto a quella di Moravia, diPasolini, di Manganelli, meno prevedibile, più astratta e simbolica.» (ivi)È dunque proprio sulla im-prevedibilità, sull’ineffabile che si innestanole categorie-topoi dell’astratto e del simbolico. La casualità, l’hasard(da qui l’esergo di Hugo) si traduce in simbolo di sé: l’astratto divienefunzione del segno, a indicare come tutto sia fluttuante, mobile, e comeil Tempo, con frizione alla filosofia induista, non sia che un ingannocome gli altri.

Per questo il tema del viaggio viene letto in sinossi con quello del-l’alterità: il viaggio come sospensione delle abitudini, come attraversa-mento dello spazio-tempo e come duplicazione dell’identità che, da no-body (Carlo Nobody de Il filo dell’orizzonte) diviene, in modo pertur-bante, Legione (per citare Jankélévitch) e dunque molteplicità (si pensi aUn baule pieno di gente, o agli infiniti eteronomi dei testi tabucchiani),non è che la rappresentazione tematica dell’Altro. Il reale si fa doppio, l’a-mico scomparso di Notturno indiano preleva dalla grammatica testuale itratti dell’io in un inquietante gioco di specchi e rifrazioni, dove «[…] unpericolo indeterminato, genericamente umano […]» (p. 43) aleggia sul-la ricerca impossibile, sulle triangolazioni del reale, incrinando «[…]l’ipotesi semplificante della risoluzione della tematica dell’identità […]»(p. 49). Sub rosa di Epimenide di Creta (almeno secondo le indicazionidel poeta – creatore, che, come si sa, è un fingitore anche in senso fattualeed etimologico) Notturno indiano è una sciarada, per dirla con l’autricedello studio, che sfiora l’insolubilia: eppure la studiosa, decrittandone sa-pientemente e magistralmente le crepe, le incongruenze, arriva a descri-verne i tratti, i giacimenti, le sotterranee venature, il senso: «In sostanza,per arrivare alla verità, il prigioniero deve riuscire a percorrere in sensoinverso il processo attraverso il quale gli arriva la risposta» (p. 63). Pro-prio per questo bisogna interrogarsi sulla scrittura di secondo grado, sullibro nel libro: la guida di viaggio India. A travel survival kit, con le suecoordinate cartesiane e oggettive si fa riflesso invece di un percorso la-birintico e indefinito, diviene medium della realtà diretta, dell’inesperienzadell’esperienza. Oltrettutto, l’aggettivo survival è fortemente inquietan-te: come a dire che senza il libro guida non si sopravvive.

Ma si sopravvive con il libro? O non si cerca, tramite il filo del testo(che appunto diventa di secondo grado per l’io narrante e di terzo per illettore), Una composizione di «morceaux choisis», per citare il titolo diun paragrafo dello studio? I frammenti, i lacerti, i pezzi sciolti, si fissanonella narrazione in dialoghi mancati o interrotti, in fughe e agnizioni, inriflessi immobili e silenti che hanno del fermo immagine.

Per questo Anna Dolfi non tralascia la scrittura filmica di Notturno in-diano, affrontando un’ulteriore forma di traduzione, di comparazionefra linguaggi. Del resto già per Piazza d’Italia Tabucchi aveva parlato delmontaggio come di una funzione straordinariamente feconda anche per lanarrazione (citando Ejzenstejn) e dunque l’analisi del “linguaggio filmi-co” serve a rintracciare i percorsi narratologici (e anti-narratologici) delgioco autoriale: se tutto è caso, il montaggio prevede comunque una for-ma di vettorialità temporale, di scelta subita o meno, ma attuata.

Ciò che rimane al di là del montato, dello scritto, del continuo lasciarcadere indizi per smentirli, quello induce allo studio di una cancellatura:la cancellatura che interviene nel sonno, nella atemporalità dell’inco-scienza, di cui l’insonnia è funzione drenante e simbolica. La studiosa vadunque a indagare Le ragioni di un sema, quello del notturno, e quelle del-l’insonnia, fra Hugo e le autopsicografie di Pessoa, quasi a lasciar inten-dere, fra pagine dottissime e ficcanti, che proprio nel sonno/sogno si na-sconde l’arte di narrare una realtà che non c’è.

È proprio su questo punto, al termine di pagine pregnanti e stimolan-ti che l’autrice dello studio inscena la triconomia della sua intenzione cri-tica. Se la realtà non c’è, e quella che vediamo è molteplice, inquietante,citazionale, letteraria, fatta della materia del sogno e di una realtà specu-lare, quel che ne scaturisce non può che essere quel che si è perduto, oquel che si crede, senza averne la certezza, perduto: la saudade divienefunzione conoscitiva.

Nell’ultimo dei capitoli che compongono il libro, Rimorso e rimosso,si affronta infatti il difficile tema del rimorso, rendendo binario il lemmache campeggia in copertina. Poiché la funzione del rimorso, e quindi del-la colpa, assume tragicità post-moderna (dunque con funzione anticatar-

tica rispetto a quella classica) proprio a contatto con l’inesplicabilità,l’inconoscibilità stessa della colpa non regala neppure, attraverso il ri-morso, la norma dell’espiazione. La funzione girardiana del “capro espia-torio” dunque non può godere della struttura narrativa del “ritorno allanormalità” tramite la funzione dell’ ostrakon: non c’è perdono, e la suaimmanenza dilaniante si spande in tutto il tessuto narrativo, vi aleggia conuna immanenza che è non solo metafisica, ma propria della fisica del do-lore. Il capitolo si sviluppa in tre paragrafi: Il puzzle del rimorso. «Vociportate da qualcosa, impossibile dire cosa», L’«Angelo nero» e gli ani-mali inquietanti, Una scrittura della voce. Conviene soffermarsi sull’ul-timo dei paragrafi, per rintracciare il significato di quest’utlimo capitolo.Al flatus vocis è demandato il compito di una “musa inquietante”. La voceè qualcosa di perituro, di istantaneo e fragile, demandata com’è a uno spa-zio precario: quello del suono. Dice la studiosa: «Flatus vocis tutto quan-to ci circonda e di cui non rimane che un eco che è compito dello scrit-tore ridestare: lo scrittore come un trascrittore, insomma, […] Ma appuntotrascrittore di cosa se non dell’imprendibile, di quella scansione lenta cheavvolge le cose e le conduce alla fine?» (p. 250); se «[…] non c’è in-somma niente di più romanzesco e suscettibile di storia del soi diçant rea-le […] la vocalità […] è divenuta, in un universo babelico e frammenta-to, un dato portante della nuova costruzione ontologica del mondo»(p. 182). Proprio tramite l’uso della vocalità si rintracciano i giochi del-le colpe rimosse, dei passati perduti e non ritrovati se non in forma fram-mentaria (ben lontani dal platonismo proustiano, e più vicini all’allego-ria dell’ ipermadelaine di cui Tabucchi parla in un racconto de Si sta fa-cendo sempre più tardi). Il turbamento diviene allora «peccato per difet-to – tipico peccato intellettuale, per eccesso di intelligenza e di timore delcuore» (pp. 198-199).

La studiosa qui scioglie altre sciarade narrative seguendo i dettatisfumati dei dialoghi mancati (per citare Tabucchi), dei ricordi demanda-ti ad altri io, analizzando il racconto «Voci portate da qualcosa, impos-sibile dire cosa» in frizione con Requiem per leggere gli enigmi trans-te-stuali sub spaecie rimorso. L’evocazione avviene per simboli, tramite leleggi del futuro anteriore, nell’incubo onirico di una realtà che sfida le leg-gi della tridimensionalità attraverso le funzioni molteplici del rivissuto, delricordo, dell’errore del ricordo. In quel ricordo aleggiano gli animali in-quietanti de L’«Angelo nero» con la loro «inquietante estranietà» (p. 213)e ad essere in gioco, nella silloge dei racconti, dice la studiosa, è «[…] piùche l’identità, la sua distorsione» (p. 214). Come in un radiodramma in cuii fruscii, la cattiva registrazione, il difetto dello strumento, rompano espezzino per sempre la seduta spiritica e dunque la possibilità di interlo-quire finanche con gli spiriti: già perduta la dimensione ontica dei corpi.«In ogni caso, tra le tante, solo una delle voci è capace di consapevolez-za e di ascolto» (p. 192), dice l’autrice dello studio, che la rintraccia nel-la funzione dell’autore/copista, di colui che resta in attesa, di chi continuaa tendere l’orecchio, una forma forse di precaria salvezza. L’ascolto (del-lo scrittore, del critico, dell’essere), quell’unico ascolto, sfida le sogle del-l’inesprimibile e ci si fa prossimo e compagno nella decrittazione di unaipotetica realtà.

Lo studio si chiude dunque dopo aver dato un contributo d’ora inavanti ineludibile alla critica dello scrittore, fissando i contorni entro i qua-li si gioca tutta la narrazione di Tabucchi, sul «trionfo delle voci ideali[…], e il gioco necessario del sogno e del rovescio, della memoria e del-la finzione.»

NOTE

1 Cfr. Antonio Tabucchi. Come nasce una storia, in Scrittori a confronto. Incon-tri con Aldo Busi, Maria Corti, Claudio Magris, Giuliana Morandini, Roberto Pazzi,Edoardo Sanguineti, Francesca Sanvitale, Antonio Tabucchi, a cura di Anna Dolfi eMaria Carla Papini, Roma, Bulzoni, 1998, [pp. 181-201] p. 189.

2 Si vedano a tal proposito La scrittura e gli oggetti della saudade, in AA.VV., An-tonio Tabucchi narratore. Atti della giornata di studi (17 novembre 2006) a cura di Sil-via Contarini e Paolo Grossi, Paris, Quaderni dell’Hôtel Galliffet, 2007, pp. 11-24; Lospleen di Parigi e il senso di colpa, in «Italies» [numero monografico dedicato aEchi di Tabucchi / Echos de Tabucchi. Actes du colloque international d’Aix-en-Pro-vence 12-13 gennaio 2007], 2007, pp. 29-45.; “Le temps pressé”e “Le voloir écrire”di Tristano, in http://www.univ-paris3.fr/recherche/chroniquesitaliennes.

3 Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana. Il Novecento, Torino, Einau-di, 1991, p. 725.

4 Rebus è il titolo, come si sa, di uno dei racconti di Tabucchi. Cfr. Antonio Ta-bucchi, Rebus, in Piccoli equivoci senza importanza, ora in Racconti, Milano, Feltri-nelli, 2006, p. 147.

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Da tempo conoscevamo le cattive condizioni diEugenio Miccini, amico e Maestro della Poesia

Visiva recentemente mancato, ma quando pochi annifa ad un ennesimo incontro al Caffé storico lettera-rio delle fiorentine Giubbe Rosse gli chiesi comeandava, mi rispose ‘Io male ma la Poesia Visivabene’. Come a dire ‘questo è ciò che importa’. Sì,questo è ciò che conta e che pone Miccini fuori del-l’arco temporale della sua esistenza per inserirlo tragli autori ‘classici’. Lui stesso peraltro, con la schiet-tezza che lo caratterizzava dichiarava ‘non sono unpoeta sperimentale, io sono un classico’.

La sua prima formazione è in linea con questadistinzione, infatti dai giovanili studi Seminariali sidedica alla filosofia greca, alla letteratura latina edalla formazione umanistica fino alla laurea in Peda-gogia. Solo più avanti questi interessi confluirannonegli studi semiotici e semiologici.

È nel clima di guerriglia semiologica degli anni’60 che prende a definirsi il percorso della PoesiaVisiva e dei suoi iniziatori, tra i quali Eugenio Mic-cini ha un ruolo primario.

Ancor prima la sua ‘militanza poetica’ era ini-ziata con la collaborazione alle riviste fiorentine‘Quartiere’, ‘Letteratura’, ‘Il Menabò’; attività poe-tica riconosciuta con l’assegnazione del premio dipoesia Città di Firenze nel ’61.

Questa data, in cui si ha l’affermazione di unascrittura ‘lineare’ di Miccini, può essere indicatacome giro di boa del suo percorso. Infatti sono del-l’anno seguente quelle che, per consapevole pro-getto, possono essere definite le prime poesie visivee la fondazione del Gruppo 70 con LambertoPignotti, Luciano Ori e Lucia Marcucci.

Per inciso, è uno sconcerto che nel volgere dipochi mesi nell’ambiente Fiorentino ed in quellointernazionale siano scomparsi, con Eugenio, altridue autori di statura mondiale come Ori e GiuseppeChiari. La città stenta a rendersene conto.

Ma ritornando al ’61 ritengo quello un anno disvolta anche perché usciva il periodico Protocolliche nasceva dall’impossibilità di un discorsocomune e tanto meno unificante sulla poesia eattorno ad essa all’interno della redazione di Quar-tiere.

Protocolli si proponeva come laboratorio di ela-borazione metodologica e critica di nuove ipotesiantropologiche, filosofiche, estetiche e linguistiche.Protocolli usciva come inserto della rivista Lettera-tura di Bonsanti.

Dopo poco tempo dall’inizio del percorso dellaPoesia Visiva anche all’interno di Protocolli vifurono, per incompatibilità degli obiettivi culturali,due differenti spazi di pubblicazione: Dopotutto diPignotti e Miccini e L’Oggidì di Salvi e Ramat.

Nel maggio del ’63 Dopotutto pubblicava gliatti del Convegno costitutivo del Gruppo 70 (Euge-nio diceva di far parte del gruppo 142: Gruppo deinove, Gruppo70 e Gruppo ‘63) chiarendo la conti-nuità e la differenziazione con l’esperienze de ilVerri e Il Menabò di Vittorini per quanto era atti-nente ai rapporti tra letteratura-società-industria. Inquel periodo così fervido e propositivo che faceva diFirenze un riferimento geopoetico e geopolitico fon-dante, scrivevano tra altri su Dopotutto: Dorfles,Scalia, Eco, Barilli, Anceschi… Sul periodico così siesprimeva esemplarmente Miccini: “Dopo lunghisecoli di tradizione letteraria petrarchista, dopoperfino una ribellione avanguardistica tutta intentaa mutuare ancora dalla letteratura nuove ragioniletterarie, nuove giustificazioni estetologiche, ecco

che noi tentiamo di grammaticalizzare immagini didiversa estrazione sensibile in nome di una strutturache non possiamo, a rigore, chiamare linguistica,ma semantica (…)Impegno civile. Impegno anchedemocratico perché trasforma un’operazionearcheologica o paleografica, adatta per quei palatiche un grazioso eufemismo chiama fini, in un’ope-razione fondata sopra l’universo di esperienzacomune alla quale nessuno oggi può vantare di sot-trarsi. La poesia non produce per la conservazione,ma per il consumo”.

Per chiarire quegli intenti iniziali della PoesiaVisiva molti anni dopo, nel 1985, Pignotti e Ori siesprimevano didatticamente in due articoli (rispetti-vamente ‘Poesia Visiva: dall’enciclopedia agli uni-versi paralleli’ e ‘Piccola nota sulla poesia visiva aduso del visitatore e per chi ad altri fosse necessa-ria’), che introducevano la mostra ‘Fuoritesto’ checon gli amici di Ottovolante organizzavo al fioren-tino Palazzo Gaddi.

Nel primo si sosteneva che la Poesia Visiva nonera stata unicamente un momento e un movimentolegato agli anni ’60, ma era divenuta un genere a séstante ben diverso dai postulati della prima ora,com’era divenuta in altre parole un universo paral-lelo.

Nel secondo Ori ricordava pedagogicamente letre caratteristiche specifiche della Poesia Visiva: illegame osmotico con i prodotti dei mass-media comepunto di partenza della sua creazione; il suo privile-giare l’aspetto iconico su quello grafico e tipografico;il tendere a raggiungere un risultato visivo nell’otticadelle arti figurative. Così l’Autore chiariva che laPoesia Visiva delle origini non apparteneva allo spe-cifico della poesia, e tanto meno della letteratura, e laponeva come fenomeno a sé stante che rifiutavagenealogie troppo facili, come quelle riconducibili alFuturismo, al Cubismo, a Schwitters, ad Apollinaire,a Mallarmé ecc.

Nel ’69 Eugenio Miccini fonda Tèchne, rivistadi cultura contemporanea, alla quale si affianca ilCentro Tèchne come luogo di attività creativa col-lettiva in cui produrre un’operazione estetica comemezzo di comunicazione. In questo periodico si rea-lizzarono le premesse maturate nel Gruppo 70. DiTèchne uscirono 19 numeri tra il ’69 e il ’76, affian-cati da alcune decine di quaderni di vario conte-nuto. Alle attività della rivista e del Centro seguironomolte realizzazioni tra le quali: ‘Esposizione inter-nazionale di poesia visuale’ nel ’69 curata da Mic-cini e Sarenco. Tèchne era in quel periodo in primalinea nelle proposizioni culturali e poetiche nazio-nali.

Eugenio Miccini è stato un movimentista la cuioperatività culturale era sempre aperta al consumo dipoesia e di creatività e quindi aperta a tutti coloroche mettevano in discussione critica le strutture del-l’esistente; aperta ed attenta ai giovani più promet-tenti, così come dimostrato dall’aver assegnato laprosecuzione della nuova rivista Tèchne a PaoloAlbani, o ad aver seguito negli anni da vicino laproduzione di Anna Guillot, di Giovanni Fontana, diGian Paolo Roffi ed altri, o ad accorgersi per primo,come nel caso di un’opera del sottoscritto, del poemaconcreto Codex, ora esposto al prestigioso ‘Archiviodella Poesia del ‘900’ del Comune di Mantova fon-dato dallo stesso Miccini e da Alberto Cappi.

La sua attività ha sempre avuto un forte impegnocivile; negli anni ’70 dirige con Sarenco la rivistaLotta Poetica, ma è all’inizio degli anni ottanta for-mando con Arias-Misson, Bory, Blaine, e De Vree il

Gruppo Logomotives, che Miccini svolge a livellointernazionale un’attività espositiva e performativa.Pochi mesi fa ero con Julien Blaine (di una ventinad’anni più giovane di Eugenio) al festival interna-zionale di poesia in azione ‘A+Voci’ e mi ricordavale molte avventure poetiche comuni, compresoquella, alla quale avevo assistito, della storica mostraa Palazzo Strozzi.

Dagli anni ’80 in poi Miccini è invitato a nume-rose esposizioni nelle più prestigiose istituzioniinternazionali, dalla Biennale di Venezia allo Ste-delijk Museum di Amsterdam, dalla Quadriennale diRoma al Moma di New York al parigino Pompidouecc..

Siamo in attesa da tempo, ma Eugenio non potràessere con noi, che le Istituzioni fiorentine realizzinouna sua auspicabile antologica.

Anche le attività di insegnamento a Firenze,Ravenna e Verona contribuiscono a fare del nostroun Maestro del ’900.

Ma come inquadrare oggi, oltre la singola pro-duzione di Miccini, la Poesia Visiva? Essa non èunicamente un momento ed un movimento legatoagli anni ’60, è divenuta un genere a sé stante bendiverso dai postulati della prima ora, è divenuta,come diceva Pignotti nel già citato articolo, un uni-verso parallelo. Si può a buon diritto sostenere chela produzione di questo universo non sia poesiavisiva, ma questo termine si è ormai imposto nel-l’uso dell’indicazione. Terminologia che è entratanelle enciclopedie, nei libri scolastici, nel pozzosenza fondo della rete ecc. Così è divenuta un terri-torio che letterati e artisti di differenti pratiche sisono vantati di aver frequentato. La Poesia Visiva haassunto le caratteristiche di genere con inclusioniben differenti anche in termini espressivi, di moti-vazioni fattuali e di indicazioni terminologiche;come quelle di poesia visuale, arte scrittura ecc.. Perquesta via dagli anni ’60 è continuata una produ-zione che comunque si collega alla dizione poesiavisiva, mentre da altre esperienze, come quelle del-l’arte concettuale o della pop art, non è derivatauna continua produzione, segno che l’impegno deiMaestri della Poesia Visiva ha aperto nuovi territoriche altri autori possono frequentare con personalicaratteristiche non epigonali.

Nel giorno dell’ultimo saluto è stata distribuitaquesta poesia del Maestro:

Se faccio che le idee abbiano corpoè con esse che mi riconosco

o negli atti o nei fini dell’umanaoperosità: noi che lavoriamo il mondo

oggettivo, noi che lavoriamole sue menzogne. Che una scepsi perversa

–nostra o di chi?- riaccompagnii simboli alle cose, agli eventi.

Che il nome dia luogo alla proposizione.Se è una tecnica dell’esistenza, l’arte

occupa il vano della febbre, dovegiocano i cavalli di ritorno

delle mistiche o delle pragmatiche.Qui mi colloco con le mie provvisteartista che dà luogo all’immanenza,

o spera, dei segni,che crede, o si augura,

che la simbologia ci rassicuridella sua ambigua rappresentazione.

Noi che non siamo altrove, noi che dovesiamo non v’è barbarie o innocenza.

Chissà quante volte sono statocolpito, fatto bersaglio di ordigni

vacui, avvelenati, quelli chehan superato la guardiola. Anch’io,dunque, simulacro, segno illuso.*

Caro Maestro è preferibile essere con te nel vanodella febbre, nell’illusione del segno, purché se nesia, come te, consapevoli.

È preferibile, ancora una volta, la malattia del-l’arte alla falsa salute della tecnica.

OMAGGIO AD

EUGENIO MICCINIMAESTRO DELLA POESIA VISIVA

Massimo Mori

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Un po’ alla latina – in amore di classicità – un po’ per la via quasi pe-riferica verzicante siepi e alberi dai cancelli. Al numero 10, la casa

con giardino, di Giovanni Papini. Lì abitava con il distacco del saggio el’indulgenza della sensibilità. Tra gli ospiti domenicali, scendeva da Pog-gio a Caiano l’amico di sempre: Ardengo Soffici, da lui ribattezzato scher-zosamente “Il Peggio a Caiano!” suo complice delle prime ambizioni let-terarie, quando la gloria non si lasciava scalfire dalle loro lusinghe giova-nili. La signora Giacinta – dal profilo perfetto ancora bellissimo – gli fa-ceva festa come a un fratello d’anima che riportasse il suo Giovanni a tem-pi migliori, quando spensierati e illusi avevano giurato odio all’eterno fem-minino.

Lei sola conosceva veramente il suo compagno. Sapeva cosa avesse-ro significato in gioventù quelle impennate furibonde, quelle stroncaturesu tutto e su tutti. Prima su se stesso. Mitigava il più burrascoso cipiglio dilui con un sorriso indulgente, anche quando sorridere costò silenzio e la-crime. A lei sola, a fine giornata, l’antico Gianfalco, affidava la mano pri-ma di dormire.

A quel villino dal piccolo portico e il grande ippocastano, scendeva daGreve Domenico Giuliotti: l’uomo selvatico. Da via Maso Finiguerra,dove lo lasciava la corriera, eccolo attraversare il Centro: da via Palazzuolo,su per Borgo la Croce, fino a Piazza Beccaria, dove intravedeva i vigili. Eraun passo, ormai.

Camminava spedito come in un viottolo di campagna. Aveva il voltosegnato dagli anni e dal sole, due occhi fanciulleschi pieni di meraviglia.Sedeva con cautela sul bordo di una poltrona, diffidando di tutto quel vel-luto, abituato com’era ai cigli della strada che conservavano a lungo il ca-lore del sole e la morbidezza dell’erba. I suoi racconti che spesso leggevaquasi trepidando, profumavano di terra, di pane fresco, di buone ispira-zioni, come di chi ascolti prima di tutto il cuore e non se ne vergogni.

La signora Zina, la moglie, l’aspettava fino a sera tra l’orto e la vigna,quasi le tardasse il suo ritorno. Sembrava dirgli: “Dove vuoi stare, megliodi qua?”.

Anche lo psichiatra scrittore era ospite assiduo in via Guerrazzi. Conocchio vigile e introspettivo scrutava gli amici. Era il più taciturno, Cor-rado Tumiati, anche se i suoi “Tetti rossi” erano stati premiati da Rèpacia Viareggio. La lunga figura sembrava incedere a fatica, quasi anche il pas-so fosse invito alla meditazione.

Il volto chiaro e sorridente di Gilberto Rossi: “Mezzo contadino” si eradefinito nel titolo di un suo libro, vincitore del premio Marzotto, al con-trario era aristocratico nella pacatezza di scienziato.

Enrico Sacchetti – disegnatore principe – polemico e satirico, guai acontraddirlo. Un giorno ci si provò – pare con ragione – Piero Bernardi-ni, che pure nella sua arte lo riconosceva un maestro. L’auditorio tacevanell’incertezza della conclusione, quando Sacchetti accortosi d’aver per-so terreno, tagliò corto: “E poi sai, Bernardini…! Io sono più intelligentedi te!” L’altro, per smorzare la tensione, guardandolo al di sopra degli oc-chiali, bonariamente rispose “Bada lì! E tu ti suderai!” Tutti risero. Era tor-nato il sereno.

Bruno Cicognani una sera d’inverno lesse in quel salotto la sua trage-dia Yo el Rey, ispirata a Filippo II di Spagna. Così firmava i suoi decreti– spesso di morte – “Io, il Re!” Il silenzio era assoluto, la stanza affolla-tissima. Alla prossima estate, Don Ruggini, fondatore del Teatro dram-matico di San Miniato, meglio conosciuto come “Il dramma popolare” vol-le rappresentarlo sul sacrato della sua chiesa. Come era tradizione. La pro-tagonista femminile fu Elena Zareschi. Molti ospiti degli Horti di viaGuerrazzi salirono, nella notte estiva, a San Miniato al Tedesco.

La residenza invernale era il salotto dalla finestra sul giardino e la por-ta affacciata al corridoio. Dalla poltrona – senza alzarsi – Papini scorge-

va gli ospiti e li salutava con un gesto ampio della mano, invitandoli a en-trare. Solo la visita – in vero rarissima – di Padre Morlion, superiore del-l’Ordine domenicano a livello internazionale, lo costringeva ad alzarsi fa-ticosamente, brandendo il bastone come uno scettro. Quella figura impo-nente, un po’ pantagruelica che l’ampio mantello e il lungo abito non riu-scivano a nascondere lo imponeva. Sull’esempio del padrone di casa, al-lora: tutti in piedi.

Tolta questa eccezione, le domeniche in via Guerrazzi non avevanoniente di ufficiale. Le mezze stagioni offrivano la frescura della bibliote-ca foderata di scaffali fino al soffitto. Non di rado la porta-finestra che davasul giardino s’apriva a maggior respiro. E d’estate – prima delle vacanze,quando Papini trasmigrava a Forte dei Marmi – proprio il giardino diven-tava protagonista di quella giornata di libertà. All’ombra dell’ippocastano,nel prato tra le siepi d’alloro e le spalliere di rose, la padrona di casa offrivail tè pilotando il rustico carrello con tazze, zuccheriera e tartine tra sediedi vimini, poltroncine di ferro e la panchina di legno verde, a ogni cambiodi stagione sempre più stinta. In clima di vacanza mentale gli amici ab-bandonavano le feriali preoccupazioni – e, se ne avevano! – per tornare tut-ti un po’ ragazzi. Si davano a coniugar verbi secondo i cognomi di perso-ne conosciute, solo un po’ snobbate: “Io Calamandrei, tu Levasti, egliCalò…” Piero Bargellini, familiare in via Guerrazzi e molto amato, sullostorico esempio di un tal Filippo era “Piero il Bello”. Pietro Parigi, dal pro-filo essenziale come le sue xilografie, semplicemente “Pietrino”. Mentre“Pietro il Grande” designava Annigoni che – forse per l’aulico rispetto –non ha mai frequentato gli Horti di via Guerrazzi.

Nemmeno la cultura ufficiale era indenne dai loro estemporanei di-vertissements, dove Roberto Longhi diventava “Il Vasari da notte” e Ma-rio Salmi “Il Salmone responsoriale”.

Per Diego Valeri Papini in persona aveva siglato questo epigramma:“Valeri, poeta d’amore,ai suoi bei dì,ebbe un solo gran dolore:non avere l’accento sulla ì!”Da tempo gli Horti di via Guerrazzi sono interrati. La ruspa e le gru

hanno demolito il villino a terrazze e il grande ippocastano, per spianarciun sedicente prato all’inglese dove giganteggiano geometrici blocchi dacondominio.

Non solo gli uomini muoiono.

Giovanni Paszkowsky, Papini e Soffici al Forte dei Marmi, 1954.

Negli Hortidi via GuerrazziMaria Bernardini

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Secondo Solmi la poesia nasce in «un momento di disattenzione»,«improvvisa», «non cercata». E con la concretezza di un oggetto,

«trepida cosa tra le cose», è prodotta da un respiro, appena sussurra-ta, o è plasmata da una mano indolente, spinta dall’urgente bisogno dicollocarsi «in questa calda, screziata, precisa esistenza». È parola so-spirata, attesa, invocata2. Per Betocchi, invece, la poesia è legata allasfera dei suoni, in presenza o in assenza, priva della concretezza sol-miana che ce la rende tattile e si dissolve in un aereo silenzio parlan-te. È un dire, un sentire che sussurra, nuda parola ontologicamente uti-le, muta modalità per snidare in se stesso l’Altrui.

Da queste due posizioni differenti, però, si innesca un meccanismodialettico e i due poeti, fin dall’inizio del loro rapporto, riescono acreare un dialogo a distanza nel pacificante silenzio delle reciprocheletture commentate puntualmente nelle lettere3. Un rapporto epistola-re prezioso, che contiene molto spesso tracce di temi, di sintagmi, diimmagini poi confluiti in poesia, con una fitta rete di rimandi adessosvelati dalla pubblicazione del volume delle Lettere a Sergio Solini(Roma, Bulzoni, 2006) curato da Michela Baldini, arricchito da unprezioso contributo di Anna Dolfi. Si può pertanto, con l’ausilio diquesto nuovo strumento, provare a costruire un percorso lungo leconnessioni che uniscono lettere e poesie.

Il libro riporta infatti le missive inviate da Betocchi a Solmi dal-l’inizio degli anni Cinquanta fino alla morte dell’amico, avvenutanei primi anni Ottanta. Si ripercorre pertanto il nascere e il consoli-darsi di un’amicizia, nata intorno alle pagine dell’«Approdo lettera-rio». Solmi, nell’epistolario, appare come un compagno silenzioso conil quale si condivide la fede in “un’opera comune” come accade conl’anonimo destinatario della poesia incipitaria de L’estate di San Mar-tino («Tra noi che vale, se ti mando in dono / questi miei versi e tu par-li di me / che vale ricordarci quanti sono / i debiti che abbiamo l’uncon l’altro / ogni dedica è scritta e non ce n’è / di migliori né un lascitopiù scaltro / di quel che scrisse il reciproco amore / del fare insieme,senza chieder conto / di nulla che a quell’opera maggiore / ch’era nonsi sa come, amore insieme, / operante che gode del suo vivere / e noisiam nulla, l’abolito seme…/ È l’opera comune che ha valore»4). Lapoesia dell’amico, per essere meglio compresa, deve venire assimila-ta, introiettata, inghiottita. Betocchi si ciberà, metaforicamente, dipoesia («Ti ringrazio dunque per avermi fatto conoscere questo tuoprezioso recupero che metterò nello stesso volume dove si trova lacanzone di Pandolfo per cibarmene ogni tanto…»5), ma, sempre al-l’interno della stessa area semantica, la poesia si «ciberà» di lui, tan-to che potrà affermare di essere stato letteralmente fagocitato dagliscritti di Rimbaud6. L’Io vorrebbe sconfinare nell’Altro, operazioneche riesce solo in poesia, visto che un «peccato infantile» impedisceche questo si realizzi anche altrove («E se leggo Dalla torre Eiffel viritrovo un uomo quale io vorrei essere, perché quei sentimenti sono imiei, ma io compio il peccato infantile di sfondarli senza badarci pervedere quello che c’è dopo»7).

Betocchi, mentre non manca di commentare con puntualità le rac-colte dell’amico, parla poco della sua poesia e pertanto le brevi an-notazioni sono per noi ancora più preziose. Accennando all’originedel Vetturiale di Cosenza, poesie di un viaggio, nate in viaggio, «ap-punti scritti a bruciapelo, in treno, facendo un giro di conferenze»8, in-siste sull’importanza della dedica, «soglia» genettiana da oltrepassa-re (non si intitola appunto Dediche una sezione de L’estate di SanMartino?), e sulla necessità di un destinatario per la sua poesia (“[…]esce un libretto e si vorrebbe scriverci sopra: è per te, ma non per dar-ti l’impiccio di rispondermi. È come una lettera senza risposta. Tu sei

una specie di destinatario all’infinito”). Alla ricerca di pace e di quie-te, motivo ricorrente dei primi anni nell’epistolario a Solmi, si sosti-tuisce un’ossessiva riflessione sul dolore, legata soprattutto alla ma-lattia della moglie Emilia. E si parlerà allora di «vita affaticata e si-lenziosa»9 divisa tra il lavoro e le visite in ospedale a una malata che«non si sa se potrà recuperare»10. La perdita della voce e dei movi-menti a causa della malattia sarà motivo, nelle poesie, di una rabbio-sa invettiva verso un Dio vendicativo11. La guerra con il destino,smozzicata imprecazione in Prime e ultimissime («Ma se il destinocredesse di aver vinto…»), diviene, nelle lettere, amara constatazio-ne di impotenza («la malasorte mi sta maledettamente maltrattan-do»12). L’anima si ribella all’idea di qualsiasi sottomissione («Io nonsono in mano al destino. Non mi avrà sua preda»13), ma si tratta di unatto eroico inutile perché l’uomo può solo dibattersi tra Dio e l’Av-versario, come una marionetta che assiste impotente al dileguarsi delpassato, terrorizzata in attesa dell’avvenire. L’unica possibilità èquella di accettare in silenzio un peso difficile che si materializza inDio nella poesia («la sua figura ignota o che volevo / ignorare presecorpo – non seppi mai / se era Dio che lo permise, ma chi / amavo senon lui, con chi dolermi – / piombò col suo peso sui miei giorni»14),mentre, nelle lettere, assume la consistenza di anni gravidi di dolore(«e come all’erta questa tua, poesia, vera come gli anni che ci sono ca-duti addosso, col dolore non smentito che addosso si portano»15). Sitrova ancora, nell’epistolario, una traccia criptata di questo itinerariodi disperazione: in una lettera dell’ottobre 1977 Betocchi ringraziaSolmi per l’invio di alcune traduzioni di Machado pubblicate su «Pa-ragone». Dice di aver cercato gli originali nel volume Poesie tradot-te e introdotte da Macrí e di essersi imbattuto, durante la lettura, inuna quartina «stupenda» che ha deciso di far premettere all’«Oscar»delle sue poesie perché rappresenta «la soluzione, risoluta e convin-ta» a cui dice di essere giunto anche lui. La lettera non aggiungenessun’altra notizia, ma si può leggere, nelle note di Michela Baldi-ni e nel commento di Anna Dolfi, il testo a cui Betocchi fa riferimentoe che rivela il suo stato d’animo:

Signore mi strappasti quanto avevo di più caro. / Odi ancora, Diomio, questo mio cuore che chiama. / Signore, il tuo volere operò con-tro il mio. / Signore ormai siam soli il mio cuore e il mare.

Pietà per chi crede e per chi non crede, chiederà nelle Poesie delsabato, vedendo tutta l’umanità vittima di quella strana «carità delvero /che non ignora in se stessa appaiati / ad una stessa sorte il benee il male / dalla sua stessa implacabile necessità»16. L’unica alterna-

BETOCCHI/SOLMIe il valore dell’«opera comune»1

Francesca Bartolini

F.G., Betocchi.

Page 52: il Portolano - Polistampa · il mio cuore, il mio male di un tempo. ... se nel dicembre ’44) Saba dedi-cherà alcuni versi al “Teatro degli ... di voi dico,/ pinte tazzine, va-

tiva al dolore gli sembrerà essere il nulla, che non placa ma sempli-cemente trasforma la rivolta in un «convincimento latente […] dellanullità»17:

Non c’è nulla che mi rallegri tanto come sentir battere questi rin-tocchi di campane che ci rimandano al nulla, al dominante e soavis-simo nulla da cui la vita sembra a me riprendere tanto slancio18.

Betocchi – ce lo mostrano bene le lettere, e opportunamente vi in-sistono Michela Baldini e Anna Dolfi – ogni volta che finisce di leg-gere le poesie di Solmi, invia all’amico alcune righe di commento.Sottolinea sempre gli elementi comuni, valorizzando gli spunti cheogni lettura gli regala. La realtà, dice Solmi, è un «imperturbato enig-ma» e la nostra vita «la semiconsunta puntina di un esistere che stri-de rauca, nel microsolco»19. Betocchi, non a caso, sosterrà, in una let-tera del 1974, di amare una poesia come Scuola serale, «lapidario te-stamento, reso universale dalla sua verità e umiltà»20, lucida presa dicoscienza dell’esistenza di una trama sovrapposta al reale che lo ren-de ogni giorno più indecifrabile. Solmi, con estrema pacatezza, de-nuncia l’inutilità e l’impossibilità di qualsiasi preparazione agli even-ti della vita: certo i manuali non servono per un interrogatorio che co-glie sempre di sorpresa, tanto da far maturare come certezza solo la so-cratica consapevolezza di non sapere («il fine dello studio consiste es-senzialmente nel riconoscere la nostra insufficienza»)21. Al posto del-l’Angelo Bianco invocato di giorno, scenderà durante la notte l’An-gelo Nero, conclusione «inattesa»22 ma comprensiva di tutto e so-prattutto «senza speranza»23.

I libri di Solmi – dice Betocchi nelle lettere –, sono il risultato diuna vita tutta spesa alla «ricerca del fiore della sapienza»24 che nonè altro che la «ricerca del senso che ha la vita»25. Betocchi sente che«nel nostro esistere e al nostro esistere manca qualcosa»26 e che il no-stro animo, in cerca di «singolari verità» corre «dietro alla nostra stes-sa ombra che ha bisogno di essere chiarita»27. È la medesima ombrache in Prime e Ultimissime gioca con l’Io confondendosi con esso,tanto da arrivare a illudere anche il poeta lasciandogli credere di es-sere corpo finché il dolore, vero «corpo vivente», non sparpaglia in-torno quell’ombra che il poeta chiama se stesso28. Betocchi, nel dia-logo con Solmi, parla di una ragione che «accoglie, nello spazio del-la mente del poeta, la indefinita spazialità del mistero e della sorte edà loro forma e parola umana»29, in equilibrio perfetto tra «l’età gio-vane che avverte il mistero che la circonda e l’età anziana che l’havissuto e consapevolmente illuminato con la sua saggezza»30. L’im-magine si ripete in Su un detto di Eistein con il vecchio e il bambi-no divenuti pari emblemi di vita, «frazioni dell’eterno cammino», di-stinti solo per il maggior margine di consapevolezza che grava sul-l’afasia della vecchiaia. Betocchi sente l’irrefrenabile fuga31 deglianni e la combustione delle particelle di vita, che, divenute cenere, ri-sorgono in ricordi. È quanto gli resta – conclude con amara consa-pevolezza in una lettera a Solmi – insieme al suo dolore. Nella sua re-ligione alternativa non c’è altra merce di scambio che permetta di ot-tenere un po’ di bene da regalare agli amici, dando anche a lui un po’di conforto32.

NOTE

1 Carlo Betocchi, L’opera comune, in L’estate di San Martino, Milano, Mon-datori, 1961.

2 «Sospirata parola, che alla fine / mi sei giunta, m’hai colto in un momento didisattenzione, / e che ti vuoi improvvisa, non cercata, / sfuggente al gesto raro, allamisura/ esorbitante. D’una riga t’orli / di mare, gonfi in una nube, ti dibatti / comecolomba, sorgi in cima al semplice / respiro della voce, all’indolente mano che tiscandisce, e urgi – trepida / cosa tra le cose – a collocarti in questa / calda screzia-ta esistenza» (Sergio Solmi, Arte poetica, in Dal Balcone, Milano, Mondadori,1968).

3 «Ci ho passato insieme la prima sera che sono tornato da Milano. Non avevovoglia di leggere altro. Sapevo che ci avrei trovato la più garbata delle conversa-zioni… avevo bisogno di quei discorsi discreti, calmi e giusti che pochi come te san-no fare», Carlo Betocchi, lettera, Firenze, 4 gennaio 1960 e ancora «e me la sono pas-sata, come in conversazione con te, ieri sera, leggendomelo: fatte andare le mie duedonne a letto, moglie e bambina, gustandomelo all’ultimo caldo di sera, in un can-tuccio» (C. Betocchi, lettera a S. Solmi, Firenze, 14 gennaio 1959 in C. Betocchi,Lettere a Sergio Solmi, a cura di Michela Baldini. Introduzione di Anna Dolfi,Roma, Bulzoni, 2006, p. 48).

4 C. Betocchi, L’opera comune cit.

5 Cfr. la lettera a S. Solmi del 28 marzo 1974 (in C. Betocchi, Lettere a SergioSolmi cit., p. 113).

6 C. Betocchi, lettera a Sergio Solmi, Firenze, 4 luglio 1974 (ivi, p.124).7 C. Betocchi, lettera a S. Solmi, Firenze, 21 gennaio 1957 (ivi, p. 46).8 C. Betocchi, lettera a S. Solmi, Firenze, 10 aprile 1959 (ivi, p. 57).9 «La vita mia e della mia Silvia si svolge affaticata e silenziosa fra il lavoro e

le quotidiane visite in ospedale per dar da mangiare, tra l’altro, alla nostra malata chenon si sa se potrà mai recuperare l’uso della parola e l’uso degli arti parziali» (C. Be-tocchi, lettera a S. Solmi, Firenze, 15 marzo 1972, ivi, pp. 72-73).

10 Ibidem.11 «Si è vendicato! Mi ha colto / di soppiatto, in lei che amavo, / l’ha travolta

in un letto di spedale, / dove le ha tolto la parola e il gesto, / laciandole il saperlo»,(C. Betocchi, II, in Prime e ultimissime, con un’introduzione di Carlo Bo, Milano,Mondadori, 1974).

12 C. Betocchi, lettera a S. Solmi, Firenze, 25 settembre 1972, in C. Betocchi,Lettere a Sergio Solmi cit., p. 97.

13 C. Betocchi, I, in Prime e ultimissime cit.14 C. Betocchi, III, ivi.15 C. Betocchi, lettera a S. Solmi, Firenze, 25 agosto 1973, in Lettere a Sergio

Solmi cit., p. 99.16 C. Betocchi, Pietà, in Poesie del sabato, prefazione di Sauro Albisani, Mi-

lano, Mondadori, 1980.17 Mario Luzi, Anche quando il logos si oscura, in «Il ClanDestino», 1993, p. 20.18 C. Betocchi, lettera, Firenze, 28 marzo 1974, in Carlo Betocchi, Lettere a

Sergio Solmi cit., p. 154.19 Ivi.20 C. Betocchi, lettera, Firenze, 19 aprile 1974 (ivi, p. 115).21 Sergio Solmi, La scuola serale, in Dal Balcone.22 C. Betocchi, lettera a S. Solmi, Firenze, 19 aprile 1974, in C. Betocchi, Let-

tere a Sergio Solmi, cit., p. 115.23 Ibidem.24 Ibidem.25 Ibidem (ma su questo punto, e per una focalizzazione sulla figura di Solmi, si

vedano le belle pagine introduttive di Anna Dolfi).26 C. Betocchi, lettera a S. Solmi, 19 aprile 1974, in C. Betocchi, Lettere a Ser-

gio Solmi, cit., p. 116.27 C. Betocchi, lettera a S. Solmi, Firenze, 4 luglio 1976 (ivi, p. 137).28 «O forse il tempo dirà / – o lascerà apparire – che non era vero, e che fu la mia

ombra soltanto / a lasciarsi credere corpo, e che solo / il dolore era corpo vivente, eun arcano disegno il vero sofferente, / un vero sepolto nella mia carne / che gettavaquell’ombra d’intorno / e io chiamavo me stesso, e dolore e destino» (C. Betocchi,III, in Prime e ultimissime cit).

29 C. Betocchi, lettera a S. Solmi, 21 luglio 1978, in Lettere a Sergio Solmi cit.,p. 154.

30 Ibidem.31 «Alla nostra età la fuga degli anni si accelera» (C. Betocchi, lettera a S. Sol-

mi, Firenze, 31 dicembre 1973, ivi, p. 67).32 «…offrendo il nostro dolore per il tuo bene e dei tuoi e di quanti ci sono cari.

Anche questa è una religione oltre l’altra (o dentro all’altra) che mi conforta» (ivi,p. 68).

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