Il poeta con la chitarra

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i fiori di campo Collana i papaveri Daniele Cavagna Il poeta con la chitarra impa cavagna 13-04-2006 9:41 Pagina 1

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Uganda, i bambini soldato combattono ogni giorno una guerra non loro. Un poeta con la chitarra cercherà di cambiare le cose.

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i f ior i di campo

Collana i papaveri

Daniele Cavagna

Il poeta

con la chitarra

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© 2006, Daniele Cavagna

© 2006, Copertina: di Daniele Cavagna

© 2006, I Fiori di campo snc

via Rimembranze, 5 - 27015 Landriano - Pavia

www.edizionifioridicampo.it - Tel. 0382614781

I edizione maggio 2006

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Ai veri protagonisti di questo romanzo

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PREFAZIONE DELL’AUTORE

Questa è una storia inventata. Non sono bravo a vivere nellarealtà, figuriamoci a scriverne. Ma ogni mia fantasia nascon-de dentro di sé un turbamento. Ciò che mi turba è il fatto chei bambini “usati” da me in questo libro esistono davvero. Leguerre che fanno da sfondo a questa storia esistono davvero.Sono sempre esistite ed esisteranno sempre, ma per me noncambia. Mi turbano ugualmente. Mi turba sapere che bambi-ni e bambine, non solo in Africa, ma in tutto il mondo, sub-iscono violenze fisiche e psicologiche impensabili. Ognigiorno. I bambini sono la parte di noi non ancora corrotta,ingenua ed innocente. La stiamo rovinando. Peggio, la stiamoperdendo. È colpa di tutti noi. Questo è un argomento che meriterebbe pagine e pagine diriflessione, ma io non sono nessuno per dire cosa è giusto ecosa è sbagliato. A me piace scrivere e pensare. Tutto qui.Quello che avete tra le mani è un romanzo. Come tale valetto, ma sappiate che ho pensato molto per cercare di condi-videre con ogni lettore il turbamento di cui parlavo poc’anzi.Ho cercato di scrivere in modo da stimolare il pensiero diognuno. Non ho la pretesa di esserci riuscito, ma ci ho pro-vato e a me basta questo.

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CAPITOLO 1

Mentre camminavo tra il terriccio rossastro tempestato dafolti cespugli e da erbacce alte più di mezzo metro sentii ilsuono di una voce calda e profonda accompagnato dal vibra-re ondeggiante delle corde di una chitarra.

Il fatto che fossi nell’Africa centrale, in una delle zone piùselvagge del Rwanda, e che qui la chitarra, in pratica, era unostrumento quasi sconosciuto, non mi lasciò assolutamenteperplesso.

Rimasi affascinato da quei suoni che sembravano donareuna nuova essenza al villaggio. In mezzo a quelle capanne dilegno e paglia sembrava battere un cuore di musica. Un’ani-ma fuggente tempestata di note, scale ed accordi.

Quella che giungeva fino alle mie orecchie, distanti diver-se centinaia di metri dal villaggio, nelle spianate calde e rigo-gliose del pomeriggio africano, non era una vera e propriacanzone. Almeno non per come io avevo interpretato fino adallora il concetto di canzone. No, quella era una musica sem-plice, anche se non banale, che non voleva essere altro checontorno alle parole.Quelle parole che, a loro volta, sembra-vano essere nate per venir dolcemente sottolineate da quellamusica ed esser cantate da quella voce magica.

Ero quasi entrato nel villaggio quando l’arte di quel can-tastorie, come mi piace chiamarlo, cessò di librarsi nell’aria.Il relativo silenzio che ne conseguì mi fece ripiombare goffa-mente nel caldo e nella povertà che mi circondavano. Mi

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chiesi se ciò a cui avevo appena assistito fosse stato fruttodella mia mente sconvolta dai raggi del sole.

Quando mi trovai in mezzo alle capanne cercai di concen-trarmi sul mio lavoro e tralasciare i miei pensieri vaganti.

Il villaggio in cui ero si chiamava Awamakumba e i suoiabitanti non superavano le due, trecento unità. Molti erano ibambini e molte le donne che, per ragioni che tutti, bene omale, conoscono, morivano ogni giorno. Nell’Africa centralec’erano diversi villaggi come questo, dove non arrivava l’ac-qua potabile e dove molte persone, soprattutto bambini, mori-vano per la fame e per alcune malattie che, su questo stessopianeta, in altri paesi, venivano considerate soltanto come ungioco o un possibile pretesto per saltare qualche giorno discuola. Awamakumba era uno degli antichi villaggi primitivi,il numero degli abitanti lo dimostrava.

Questo agglomerato di rudimentali costruzioni in legno rin-secchito dai violenti raggi solari si trovava più o meno nelcentro di un distretto del quale facevano parte altri villaggi.Un distretto era, in poche e semplici parole, una parte di terranel quale si potevano raggruppare un insieme di villaggi. For-mare ipotetiche province era il modo migliore che avevamoper organizzare meglio il nostro lavoro. In questo villaggiostavamo costruendo un pozzo per l’acqua potabile che sareb-be stato utilizzabile degli abitanti dell’intero distretto, per unraggio di circa 25 km. Io, allora, mi occupavo della supervi-sione dei lavori destinati all’aiuto della popolazione localeche la società edile di cui facevo parte coordinava.

Arrivato nel villaggio vidi il solito movimento di personeindaffarate, anche se mi parve di percepire un qualcosa di di-verso rispetto alle mie visite precedenti. Gli indigeni che la-voravano al pozzo erano diretti da due ingegneri spagnoli, an-ch’essi, come me, facenti parte della società. Era pomeriggio

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inoltrato e tutti avrebbero dovuto essere al lavoro, ma picco-ni e attrezzi del mestiere erano malinconicamente abbando-nati sulle pietre non ancora posate.

Mentre le donne lavoravano pelli e ossa per creare moniliestremamente fantasiosi, i bambini si trovavano, cosa piutto-sto insolita, raggruppati nel centro del villaggio e la loro e-spressione era quella un po’ intontita del momento del risve-glio.

Gli operai stavano riprendendo le loro rispettive posizionie notai che i loro volti erano rilassati, a dispetto del caldo edella fatica patiti lungo l’arco della giornata.

Non me ne resi subito conto, ma tra il trambusto crescen-te che sottolineava la ripresa delle attività, un nuovo arrivatoparlava con dei giovani africani e sembrava che stesse inse-gnando loro qualcosa sulla disposizione dei sassi o sugli sca-vi, non so bene, perché la lingua che quell’uomo parlava nonera né l’inglese né tantomeno il francese, le più diffuse nellazona. Potei, quindi, soltanto intuire dai gesti l’argomento dicui stava trattando quel giovanotto, sui trent’anni, alto più omeno un metro e settanta, con la pelle bianca. La lingua cheparlava era il kinyarwanda, quella lingua che i nativi si eranotramandati attraverso l’era del colonialismo, ma che non ave-va comunque saputo opporsi ai creoli che si erano radicati inquasi tutta la terra africana. Per questo motivo, sebbene la suapelle color latte fosse evidente come una pala in una fabbricadi spilli, quell’uomo mi diede l’impressione di sentirsi a suoagio in mezzo ai neri aborigeni.

Ciò di cui mi sorpresi ingenuamente, però, fu la chitarrache avevo sentito vibrare poco prima. Non ero ancora certo diciò che avevo udito, così i bambini che si allontanavano pertornare ai loro giochi aprirono una finestra nella mia incertarealtà lasciando che i miei occhi si posassero sullo strumento

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silenzioso, abbandonato a se stesso con l’unica compagniadella capanna retrostante che lo sosteneva. Non mi resi pie-namente conto di quanto la presenza di quella chitarra fosseinsolita finchè non l’ebbi davanti agli occhi. Doveva esserestata una bella novità per gli abitanti.

Mi rallegrai per la presenza dello strumento e del suo suo-natore, perché pensai che con l’animo sereno anche il lavorosarebbe risultato meno gravoso.

Mi avvicinai allo scheletro della nuova opera in cantiere esalutai con un cenno del capo il nuovo aiutante che risposecon un sorriso tanto leggero quanto contagioso. Arrivai pres-so i due spagnoli, un po’isolati dal resto del gruppo e mi in-formai su come stavano procedendo i lavori. Mi risposero sem-plicemente, nel loro incerto inglese, che andava tutto secon-do i piani e che ci sarebbe voluto ancora un mese. Visto chenon c’era necessità di continuare su questo argomento chiesiloro in modo che nessun’altro mi sentisse:

«Chi è il nuovo arrivato?»«Non lo sappiamo, è arrivato questa mattina con quella

chitarra» rispose uno dei due indicandomi lo strumento inlontananza «e ha iniziato a parlare con gli indigeni nella lorolingua. Ha parlato anche con noi, in spagnolo, e ci ha chiestose poteva darci una mano. Noi abbiamo accettato. Sembrache ci sappia fare.»

«Bene, un aiuto in più non ci darà fastidio. »Mi recai di nuovo verso il misterioso chitarrista che stava

posizionando delle pietre all’interno dello scavo in un modoche non compresi. Allora, intuendo le mie perplessità, inter-ruppe il suo da fare e mi guardò.

«L’ho imparato in Tibet.» disse in un perfetto inglese. «In questo modo non serve cemento, ci si impiega meno

tempo e il risultato è più solido di quanto possa sembrare.»

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«Molto piacere di averla con noi, signor…»«Romeo, mi chiami Romeo, senza il Signor.»«D’accordo, Romeo.» Gli porsi la mano dall’alto presen-

tandomi. «Sono curioso di vedere come farà rimanere in piedi quel

muro, se è così che si chiama. Non ho mai visto nulla del ge-nere.»

Mi sorrise e mi disse: «Se ha qualche minuto da dedicarmi posso spiegarle tutto

quanto.»Saltai nello scavo e rimasi accanto a lui ad ascoltare, alli-

bito, le sue spiegazioni. Sembrava essere nato per insegnare.Mentre lavorava spiegava tutte le sue mosse e il suo modo difare non lasciava spazio ad alcuna riserva sulla sua abilità.

Era sicuro di sé, veloce e preciso, tranquillo e pragmatico,e mentre spiegava si preoccupava che anche gli indegeni, tut-t’intorno a noi, capissero ciò che stava dicendo. In una setti-mana, con il metodo di Romeo, il pozzo fu praticamente con-cluso. Una settimana anziché un mese e il risultato, almenoall’apparenza, era veramente solido come speravamo.

Gli abitanti di Awamakumba e dei villaggi vicini avrebbe-ro avuto la loro benedetta acqua potabile tre settimane primadel previsto.

In tre settimane, solo nel villaggio di Awamakumba, mori-vano in media sette persone. Contando anche gli altri villag-gi del distretto le persone che pagavano il prezzo più caro del-la povertà erano più di un centinaio.

Il pozzo non avrebbe fatto miracoli, ma, per i nativi, sareb-be stato sicuramente un aiuto in più.

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CAPITOLO 2

Dopo quella prima, piacevole avventura, il nostro Romeoci lasciò per un lungo periodo.

Vivere in Africa, per me, era un po’come stare in una gran-de famiglia, composta dai miei colleghi, dai nativi e da tuttele persone che conoscevo in città. Romeo mi aveva dato l’im-pressione di essere amico di tutti, allo stesso modo, così per-cepii la sua assenza come una mancanza a sfavore di tutti. La sua partenza non fu improvvisa come lo era stato il suoarrivo, ma non ci fu nessun grande addio, nessuna cerimonia.Solo un arrivederci sussurrato nelle ombre della sera. Questoincontro, comunque, per quanto breve, mi segnò molto in pro-fondità. E, immagino, colpì allo stesso modo anche gli amiciche avevano seduto intorno al fuoco con noi e avevano assi-stito alle nostre discussioni, oppure che avevano potuto farsiprendere dalla musica di quell’uomo, di cui nessuno sapevanulla, che riusciva ad accompagnare allo stesso splendidomodo i tamburi, le danze dell’Africa e le storie di lontani pae-si che lui stesso raccontava, mentre decine di persone, anco-ra ansimanti per i balli sfrenati, prendevano posto intorno alui come a formare una piccola arena, il cui centro era sem-pre la sua voce soave, rassicurante, coinvolgente.

Pensavo che sarebbe potuto diventare un artista di famamondiale. Era sicuramente un artista, questo era certo.

Quella di Romeo era una dote straordinaria. Nessuno sa-peva guidarti come lui nei sentieri assolati della musica, la

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sua musica. Avevo provato piacere, divertimento, anche gioiain certe occasioni, ascoltando canzoni che mi piacevano, macon lui era un’altra cosa: mi sentivo parte di quello che ascol-tavo, sentivo che quei suoni non erano solo votati al piacerealtrui, ma anche alla cura dei mali dell’anima, era una musi-ca capace di farti ritrovare coraggio ed energie perduti.

La sua era un’arte che non era destinata alle persone feli-ci, ma a quelli che vivevano nella sofferenza, come gli indi-geni del luogo e come, forse, anche lui stesso. Romeo suona-va per alleggerire il peso che gravava sulla sua anima e, diconseguenza, anche quello che schiacciava le spalle di quegliuomini infelici. Il peso della fame, delle malattie, della pover-tà e dell’ignoranza. E riusciva pienamente nel suo scopo, vel’assicuro. Le piccole folle che si radunavano intorno a lui nonse ne andavano mai com’erano arrivate, non con lo stesso vi-so stanco e spento. Ritrovavano in lui forza e serenità, comese il vero pozzo fosse lui, il poeta con la chitarra.

Quando smetteva di suonare tutte le bocche che stavanointorno a lui erano piegate in un principio di sorriso, grazie al-le sue parole e alle sue note. Erano momenti che non posso-no essere descritti, momenti in cui il tempo e lo spazio cam-biavano forma. Tutto ciò che ci circondava diventava parte diuno splendido disegno che Romeo dipingeva con tristi e ma-linconiche pennellate di felicità.

Allegria e tristezza sono molto più affini di quanto si cre-da. Anche questo imparai da lui.

Una sera eravamo seduti vicino al fuoco scoppiettante.Tutti gli altri si erano ritirati all’interno dei loro rifugi di pa-glia. Era tardi e gli unici coraggiosi ancora in grado di sfida-re il sonno eravamo noi due.

In Africa la sera era come una droga per me: mi faceva sen-tire libero, spaventosamente libero, piccolo e fragile nell’im-

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mensità dei colori smorzati e dei rumori della natura chegiungevano a migliaia fino alle mie orecchie in ascolto, con-fusi e, allo stesso tempo, coordinati in un’armonia divina, su-periore.

Sotto l’effetto di questa droga così ammaliante, in cui ilmio cervello non era più in grado di filtrare i pensieri, di na-scondere i sentimenti e le sensazioni, cominciai a parlare, per-ché in quel momento la mia profonda ammirazione per luiaveva bisogno di emergere.

«Hai mai cantato in un locale, in un teatro, che ne so? Haimai dato un concerto, qualcosa del genere? Hai mai suonatoper un pubblico che abbia pagato un biglietto per vederti? No,perché credo di non aver mai sentito nessuno come te, haiqualche cosa in più, qualcosa che non riesco ad afferrare, mache tu, evidentemente, sai usare a meraviglia, altrimenti nonstaremmo tutti intorno a te come ipnotizzati dalla tua voce.Quando canti, suoni, o anche soltanto parli, questa gente» in-dicai le capanne intorno a noi «sembra non soffrire più. Sem-bra che tu sappia trascinarli via da tutto questo schifo, daquesto mondo infame. Tu sai trascinarli in un mondo miglio-re, il tuo mondo migliore, quel mondo che suoni con quellachitarra.»

Rimase un poco in silenzio, imbarazzato dalle mie paroledi apprezzamento, poi mi rispose.

«Quando qualcuno apprezza quello che fai è sempre unpiacere.» disse abbassandosi a raccogliere dei sassi vicino alfuoco.

«Ho ricevuto proposte da parte di alcune case discografi-che, ma non ho firmato mai nessun contratto. Non sono un can-tante.» guardò le stelle nel cielo sopra di noi «Suono perchèmi fa sentire vivo. E lo condivido con queste persone, perchéhanno bisogno di credere in una vita migliore per loro e per i

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loro figli. Hanno bisogno di speranza e di coraggio, propriocome me.» Tutto questo sprizzava da ogni nota, da ogni pas-saggio melodico, era così evidente che persino uno come meaveva potuto notarlo.

«Sei un tipo strano, sai? Potresti essere ricco e aiutare que-ste persone con i soldi, oltre che con la musica, se è questoche vuoi.» Mi alzai indispettito. «Questa gente non può vive-re dei propri sogni, nessuno può farlo. Nessuno si riempie lapancia con coraggio, speranza e buoni propositi. Hai la pos-sibilità di aiutarli con qualcosa di cui hanno veramente biso-gno e ti limiti a prolungare la loro agonia, ad illuderli che lecose cambieranno senza che nessuno muova un dito.»

Rimase sorpreso dalle mie parole aggressive, e, forse, an-che offeso dalle mie insinuazioni. Tutta colpa di quella droga.Il mio cervello non faceva più filtro e le parole uscivano a raf-fica, così com’erano nate.

Romeo fissò gli occhi nel fuoco per qualche secondo, poicominciò di nuovo a parlare:

«Non hanno bisogno di altri ricchi. Ciò che veramente po-trebbe aiutarli è di non sentirsi gli unici poveri.»

«Parliamo della stessa cosa. Solo da punti di vista diversi.»Ridacchiò leggermente, sorseggiando la bevanda amara

fatta con estratti di radici. «Non credo…» Mi guardò. «Il grande uomo con la chitarra…» lo schernii. Prese lo strumento che stava appoggiato al suo fianco, at-

taccò un motivetto complesso, lento ma straripante di conte-nuti emotivi.

Si sentirono delle voci di bambini provenire da una dellecapanne vicine. Una testolina si affacciò per assistere allospettacolo infinito di Romeo.

Lui non se ne accorse, stava con la testa china sopra la sua

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dea e mentre le sue mani correvano invisibili tra i tasti oscu-rati dalla notte alcune lacrime gli rigavano il viso.

Mi commossi anch’io. Era tutto così reale, quelle note in-sanguinate, quei passi scarni e piegati dal dolore, quei suonicosì simili ad un pianto. Era tutto così palpabile.

«Perché?» gli chiesi dopo alcuni minuti, quando finì disuonare.

«Perché piango?» mi chiese. «Gi໫Non lo so.»Sistemò nuovamente la chitarra al suo fianco. Proprio in

quel momento notai che sullo strumento c’era una scritta: “ilgiorno più bello della mia vita”.

«Che significa?» domandai incuriosito. «Ho un rapporto speciale con questa chitarra, è una lunga

storia. Significa che ogni giorno in cui potrò abbracciarla efarla fremere sotto le mie dita, quello sarà il giorno più bellodella mia vita.»

Restammo in silenzio per qualche minuto, a guardare nelfuoco e a sorseggiare il nostro rudimentale drink, poi Romeocambiò discorso.

«Bella vero?» Alzò gli occhi al cielo. «Che cosa?»«L’Africa. La prima volta sono rimasto impressionato dal-

la differenza tra la notte e il giorno. Il caldo, il sole che pic-chia sulla testa, lo sguardo che si perde tremolante nel caloreche sale dal pavimento ruvido delle pianure, i versi degli ani-mali in lontananza, il profumo della terra che cuoce sotto iraggi roventi… di sera tutto questo si trasforma in un soffiodi magia. Il calore diventa accogliente tepore, lo sguardo chesi offuscava per il caldo, ora, si perde nelle luci soffuse deifuochi e delle stelle, gli animali feroci fanno sentire più forte

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le loro voci, la terra rilascia essenze acidule e intense di unastoria senza fine alle spalle. Tutto quello che ci circonda, inquesto momento, è una poesia scritta da Dio. »

Aveva ragione, almeno per quanto mi riguardava.«Questo è un posto speciale. In fondo tutti i posti sono

speciali, a modo loro, ma qui c’è magia nell’aria, è vero. An-che se sento nostalgia di casa non mi sento mai lontano, qui.»

«Vorrei sentirmi veramente a casa in qualsiasi luogo. Ado-ro l’idea della libertà, di poter prendere una nave, attraccaredopo due mesi in chissà quale angolo della terra, scendere esentire l’aria di casa, sentirmi padrone di me stesso. In fondosiamo come delle enormi chiocciole che si portano appressoil loro rifugio per potersene servire in ogni momento.»

«Ci riesci veramente? Voglio dire, ti senti sul serio a casain ogni luogo?»

«No. » rispose. «Hai delle idee molto originali, credimi!.» Sorridemmo

entrambi. Avevamo quasi finito le nostre bevande amare, la notte era

ormai nel suo vigore più tenebroso e noi continuavamo im-perterriti sui binari di un discorso che attraversava, come untreno che tocca col suo veloce tragitto le terre più diverse, ar-gomenti e materie disparati.

«Forse ti sembrerà stupido da parte mia chiederti dove vi-vi, ma è una cosa che mi incuriosisce molto.» Continuai.

Sorrise di nuovo e poi rispose, conciso: «Dove capita. Dove mi sento a casa.»«Allora qui, se ti piace così tanto l’Africa.»«È da molto tempo che sto lontano da qui. Ho viaggiato e

imparato tanti modi di vivere, tante lingue, tanti mestieri. Hovisto molte cose degne di essere ricordate. Sono fiero di aver-lo fatto, ma ora sono qui e non vorrei essere altrove.»

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«E la chitarra, la porti sempre con te, vero?»«Sempre. La musica è il modo migliore che ho per sdebi-

tarmi dell’ospitalità che ricevo.»«Penso che potresti raccontarmi un sacco di storie interes-

santi.» Sembravo un bambino. «Non più di quante potresti raccontarne tu a me.»«La mia vita ha poco di interessante da dire. Sono nato in

un paese di provincia nell’Italia del nord, ho studiato inge-gneria fino a 25 anni, mi sono laureato appena prima di spo-sarmi. Mia moglie, l’unica storia veramente interessante chepotrei raccontarti, se n’è andata per una disgrazia un anno do-po il nostro matrimonio e io, in cerca di chissache, mi sonotrascinato fino a qui. Fine della storia. A proposito, tu invecedove sei nato?» La domanda che misi alla fine del mio inter-vento era sintomo della mia resistenza alla morte di mia mo-glie. Non riuscii mai a parlarne tranquillamente con nessuno,nemmeno a distanza di vent’anni.

Senza volerlo, però, avevo toccato un tasto dolente ancheper Romeo che non mi rispose. Rimase con la testa bassa so-pra le fiamme, finchè non sentimmo un feroce ruggito prove-nire da chissà dove in mezzo alla savana. Sobbalzammo en-trambi come svegliati di colpo da quel rumore inquietante.

Poco dopo Romeo tornò con la testa bassa a fissare lo scin-tillio del fuoco assorto nei suoi malinconici pensieri che, pro-babilmente per colpa mia, erano tornati a infestargli la mente.

Io, al contrario, ero in piedi a scrutare nel buio, preoccu-pato per quel ruggito così insolitamente vicino.

«Ora è meglio se ce ne andiamo a dormire. Domani avre-mo un bel lavoro da fare, con un po’di fortuna potremmo fini-re quel benedetto pozzo.» dissi.

La mia preoccupazione era così intensa che mi indusse qua-si inconsapevolmente ad interrompere la nostra conversazione.

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Romeo acconsentì.Ci avviammo verso le nostre capanne, ma prima di conge-

darci sentii il bisogno di scusarmi con lui per averlo turbatocon la mia domanda impertinente.

«Mi dispiace di averti ferito con quella domanda. So checerte volte posso sembrare arrogante ed invadente, ma nonavevo intenzione di ficcare il naso nel tuo passato. Non vole-vo, non sapevo…»

«Non c’è nessun problema» mi interruppe «riprenderemodomani.»

Mi sorrise, pur senza riuscire a nascondere la malinconiae la tristezza che gli coloravano il viso. Così, sollevato, mi al-lungai a stringergli la mano prima di ritirarmi nella mia ca-panna. La cipolla a molla che tenevo sempre nella valigettadei progetti disse, interrogata dal mio sguardo, che erano ledue e trentacinque.

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CAPITOLO 3

Il sole era stato veramente tremendo, quel giorno. Tantotremendo che mi addormentai quasi subito.

Ma era destino che quella notte non avrei potuto averetempo da dedicare al riposo.

Nel bel mezzo dei miei sogni idilliaci fui svegliato da unsuono lieve lieve, lontanissimo, che però aveva saputo attira-re la mia attenzione anche nella condizione in cui ero.

Compresi subito di cosa si trattasse: era la chitarra di Ro-meo, ma i resti delle onde sonore che arrivavano fino a me era-no talmente sottili e leggeri che, in un primo istante, pensai diaverli sognati. Invece no, ero un po’intontito, ma sveglio. Equel mormorio musicale perdurava nella notte dolce costella-ta di profumi e versi selvaggi provenienti da ogniddove.

Mi alzai e rimasi sull’uscio della capanna ad ascoltare. Lamelodia era malinconica, lenta, simile a quella che mi avevacommosso poco prima vicino al fuoco, ma più semplice.

Un poeta non avrebbe saputo esprimere meglio, con l’aiu-to delle parole, il sentimento, lo stato d’animo, che, invece, era-no limpidi in quelle note lontane. In quella musica c’era mol-to di più che parole messe in rima o frasi ben strutturate. C’e-ra la sensazione vera e propria, c’era il soggetto stesso, in per-sona. La malinconia non era soltanto richiamata, con allusio-ni grammaticali, era ospite d’onore delle vibrazioni che la tra-sportavano in ogni direzione. Era una musica pura, anche se,proprio perché la lingua è soltanto un’allusione a dei concet-

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ti, questo termine non può trasmettere il giusto significato.Per comprendere bisognava essere lì, accanto a me, a sentiree a capire.

Mi preoccupai per Romeo, che doveva essere molto lonta-no, dato che non riuscivo a vederne nemmeno l’ombra in lon-tananza. Non potevo sapere esattamente dove si trovasse, maintuivo la direzione dalla quale proveniva la musica e, indos-sati i pantaloni e caricato il fucile che sottrassi agli spagnolisenza svegliarli, mi inoltrai nel buio della savana verso quelsuono poetico e commovente.

Ero molto preoccupato, io avevo un fucile, ma Romeo?Non lo sapevo, ma mi promisi di dargli comunque una bellastrigliata per la sua pazzia. Lasciare il villaggio, di notte, e perdi più solo, era come invitare le bestie affamate ad un ban-chetto. Senza contare che quel pazzo aveva lasciato il villag-gio senza nemmeno la protezione di una fiaccola.

Ero arrabbiato, ma allo stesso modo, incuriosito da quellasituazione che, per il sonno e il torpore che mi dovevano an-cora abbandonare del tutto, mi appariva ancora più annebbia-ta e misteriosa di quanto già fosse.

Ad un certo punto, mentre ero ancora immerso nei mieipropositi di pseudo-genitore, potei scorgere l’ombra scura delchitarrista, seduto sopra un grosso masso con un albero spo-glio a pochi metri di distanza sulla sinistra. Era ancora lonta-no, ma dal punto in cui ero potevo vedere e sentire quasi tutto.

Le mie orecchie e il mio cervello, rapiti dalla musica, com-presero con qualche secondo di ritardo il significato di un rug-gito profondo, come uno sbadiglio, provenire dal masso su cuigiaceva, immobile, Romeo. Lo sentii, certo, ma non ci fecisubito caso, come mi era successo con la chitarra stessa pochigiorni prima, al mio arrivo nel villaggio.

Quando compresi cominciai a correre verso il grande sas-

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so, sfilandomi dalle spalle la cinghia che sosteneva il fucile atracolla. Il cuore mi rimbalzava in gola. Il terrore cresceva adogni passo finchè, ad un centinaio di metri dal masso su cuistava il temerario suonatore, non mi inchiodò al suolo, la-sciandomi incapace di muovere un solo muscolo, per sfuggi-re o per sparare.

Non riuscivo a parlare, a camminare, avrei voluto urlare ma,per fortuna, non potei fare nemmeno quello. Ero, insomma,paralizzato dal panico ed era la prima volta che mi trovavo inuna condizione simile. Avevo sentito parlare di persone che,a causa di qualche situazione particolarmente emozionante,erano rimaste come bloccate, ma non avevo mai pensato chesarebbe potuto accadere anche a me. E invece, quella scena,aveva saputo farmi cambiare idea: tre leoni, disposti a trian-golo, erano pigramente sdraiati ai piedi del masso.

Erano quasi di fronte a me, per questo prima non li vede-vo, perché erano nascosti alla mia vista dalla roccia. Guar-davano praticamente in viso Romeo che si trovava a due o tremetri, praticamente un balzo, da loro.

Mi avevano sentito arrivare, ne fui convinto quando uno diloro si alzò sulle possenti zampe anteriori. Avrebbero potutofare di me un succulento ammasso di carne rosea in poco piùdi dieci secondi, se solo avessero voluto. Ma, Dio solo sa per-ché, dopo qualche istante la loro attenzione tornò a concen-trarsi su Romeo e anche quello che si era scomodato, alzando-si a sedere, adagiò nuovamente la grossa testa sopra le zampeanteriori incrociate tra i ciuffi d’erba. Ogni cosa trovò il soli-do equilibrio che io con la mia corsa avevo quasi spezzato.

Non so dire per quanto tempo rimasi lì, in piedi, immobi-le, ma posso dire che in quel periodo di panico vidi la mia vitapassarmi davanti agli occhi, proprio come succede in certifilm. Vidi la mia infanzia, i giochi, gli amici, le ragazze, mia

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moglie e poi vidi l’Africa e il mio lavoro, la povera gente, ibambini che morivano di fame e i villaggi che avevo visitatograzie al girovagare continuo. Rividi cose che non credevonemmeno di ricordare, piccoli istanti, all’apparenza insignifi-canti, che mi avevano accompagnato per tutta la vita, quellavita che ora avrebbe potuto essere giunta al capolinea.

Non mi ero mai trovato di fronte a una bestia feroce e dicolpo ero fermo come un sasso in mezzo alla savana con treleoni che potevano disporre di me a loro piacimento, perchéanche se avevo tra le mani un fucile, ero oltremodo convintodi non poterlo usare.

Tutti i miei pensieri, ed evidentemente anche il solido e-quilibrio di cui parlavo poc’anzi, furono spezzati dal cessaredella musica. Non avevo considerato l’idea, per quanto ovviafosse, che quella situazione, prima o poi, sarebbe dovuta cam-biare. L’ipotesi non mi aveva neanche sfiorato. Era come semi fossi convinto che avrei dovuto rimanere lì, incollato a ter-ra ad ascoltare quella musica insieme ai leoni, per il resto del-la mia vita.

Così, quando i giganteschi felini si alzarono, svogliati, eavanzarono verso di me, fui colto di sorpresa. Il panico, an-che se non lo credevo possibile, si trasformò in qualcosa diancora più travolgente. Tutti i muscoli mi si tirarono senzache io potessi impedirlo, i capelli mi si rizzarono in testa, pro-babilmente per la pelle d’oca che mi ricopriva tutto il corpo.Gli occhi mi si spalancarono, disubbidienti ad ogni mio altroordine. Tutto quello che avrei voluto, ma che non potevo fare,sembrava svolgersi dentro di me: avrei voluto correre via, piùveloce di quanto avessi mai fatto prima, e il mio cuore batte-va come se stessi correndo veramente, avrei voluto gridare eil mio stomaco emetteva singulti simili a gemiti di dolore.

I leoni procedevano in fila, il primo era ormai a pochi pas-

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si da me. La loro andatura calma, che avrebbe dovuto tranquil-lizzarmi, mi rendeva, in realtà, ancora più incapace di reagire.

Mi passarono accanto, ignorandomi, tanto vicini che avreipotuto toccarli e, volendo, anche saltarci in groppa. Mentre mioltrepassavano, tutto dentro di me si fermò. Non respirai, nonmossi nemmeno le pupille. Se non sapessi che è impossibilegiurerei che anche il cuore, per quella manciata di secondi,smise di battere il tempo. Provai una intensa sensazione di vuo-to. Fu come quando si spegne il televisore, buio e silenzio.

Allontanatisi i leoni di qualche decina di metri, tutto ilchiasso che mi aveva abbandonato tornò più forte di prima.Stordito, trovai la forza e il coraggio di spostare lo sguardoverso quegli splendidi e terrificanti animali e compresi che sene stavano andando per la loro strada. Non ce l’avevano nécon me né con il villaggio.

Pochi attimi e sparirono nella radura. Stramazzai al suolo, con crampi che mi attanagliavano in

tutto il corpo, il respiro che ora poteva correre libero, ma chesembrava non essere mai sazio. Passai alcuni minuti lì, a ter-ra, incredulo e confuso.

«Un sogno» mi dissi. «È stato solo un sogno.» Scoppiai a ridere e mi rigirai nella polvere per la felicità di

essere ancora vivo. Ora che ho la possibilità di pensare a quegli attimi di ter-

rore, credo che la felicità non possa esistere senza il suo op-posto, ossia la disperazione, la paura di perdere tutto ciò cheabbiamo di più caro. Quando la paura e la minaccia che ci af-fliggevano scompaiono, allora subentra la felicità. È un pro-cesso necessario, senza il quale non si può provare quellasensazione di gioia intensa ed energica che mi contagiò dopoaver avuto salva la vita. Senza questo pericolo possiamo pro-vare soltanto gioie effimere e leggere.

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Quando mi alzai, in preda a questa forte sensazione di be-nessere e felicità, vidi Romeo che era ancora là, sopra quel mas-so, seduto, immobile. Lo avevo completamente dimenticato.

Lo chiamai, ma non si mosse né la prima, né la seconda,né tantomeno la terza volta. Allora mi avviai verso la granderoccia che lo sosteneva, vi girai intorno e rimasi a guardarloda dove, poco prima, lo guardavano i leoni. Sul terreno potevodistinguere chiaramente le impronte che vi avevano lasciato.

Romeo era seduto con le gambe incrociate, il busto erettoe la testa alta; la chitarra che gli giaceva tra le gambe, appesaa tracolla ad una spalla, sosteneva, a sua volta, le braccia, men-tre le mani si muovevano all’inseguimento delle dita che sfio-ravano agilmente le corde a dar vita ad una musica che nonera cessata, come credevo, ma che continuava quasi nel silen-zio. Continuava tanto impercettibilmente che non l’avevoudita fino a quando non ne vidi la realizzazione pratica sopralo strumento. Quando vidi che Romeo stava suonando, allo-ra, e soltanto allora, sentii anche la musica.

Pronunciai il suo nome, sottovoce, ma i suoi occhi chiusinon si mossero. Aumentai il volume e, al secondo tentativo,li aprì di colpo svegliato di soprassalto. Si guardò intorno,spaesato, mentre le sue mani, per conto loro, continuavano apizzicare le corde.

Non sono uno psicologo, uno psichiatra o uno studioso dipsicologia, ma interpretai quel fatto come una specie di lineadi continuità tra il sogno e la realtà. Romeo usava, penso in-consapevolmente, la sua chitarra, la sua musica, per renderereale il mondo che aveva dentro. Scriveva i suoi desideri, lesue idee, le sue speranze, sulle corde di quello strumento, cosìche questi sogni continuassero ad esistere. Ogni nota rappre-sentava qualcosa, ogni pausa e ogni scala, ogni accordo, tutto,

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tutto quanto, compresi, aveva un significato preciso. La suamusica era così piacevole, così insolita e angelica, perché erala rappresentazione della sua anima.

Solo allora, a 45 anni suonati, compresi la profondità del-l’arte della musica. Fu come una folgorazione, tutto mi colpìin un istante, capii tutto questo in un attimo, il tempo di la-sciare a Romeo la possibilità di svegliarsi.

«Dove siamo?» chiese spaesato e confuso. «Mi piacerebbe che me lo spiegassi tu!» gli risposi sorri-

dendo. Il mio intento di riprenderlo per la sua pazzia era, na-turalmente, svanito nel nulla.

«Andiamo, torniamo al villaggio, ti spiegherò per strada.Penso che per questa notte abbiamo già sfidato abbastanza ladea bendata, è meglio sbrigarci.»

Romeo scese dal masso e mi si affiancò, come un bambinobisognoso di protezione, mentre io, sempre come un bambi-no, iniziai a raccontargli l’accaduto girandogli intorno eccita-to, mimando movimenti ed espressioni di quei tre felini feroci.

Sembravamo due giovanotti di ritorno dal campetto del-l’oratorio che si raccontavano, dai loro rispettivi punti di vi-sta, il gol più bello della giornata.

Arrivati sani e salvi al villaggio ci sedemmo vicino allebraci che testimoniavano la tenace sopravvivenza del fuocodella sera. Romeo prese alcuni pezzi di legna secca e ravvivòle fiamme scoppiettanti in men che non si dica.

Rimanemmo in silenzio, ognuno a combattere con le pro-prie domande, per qualche minuto, finchè Romeo mi disse:

«Ora hai qualcosa di interessante da raccontare. »La tensione e le domande che mi assillavano svanirono di

colpo, rimase soltanto la gioia di esserci ancora. Cominciai a ridere tanto forte da non poter più parlare, se-

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guito a ruota da Romeo, così, se prima sembravamo due bam-bini, ora eravamo più simili a due idioti che ridevano senzamotivo.

Tirammo mattina, in verità non mancava molto all’alba,seduti lì a parlare e a raccontarci quello che era successo. Ioparlavo di ciò che avevo passato, mentre lui mi ripeteva con-tinuamente la scena del suo risveglio.

All’alba tutto il villaggio prese vita e molti si sorpreseronel trovarci dove ci avevano lasciati la sera prima, soprattut-to i due spagnoli. Raccontammo loro ciò che era accaduto,lasciandoli, ovviamente, di stucco.

Ma non ci perdemmo in chiacchiere, cominciammo subi-to a lavorare, dato che il pozzo avrebbe dovuto essere con-cluso entro sera. E così fu. Il pozzo fu finito nel tardo pome-riggio.

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CAPITOLO 4

Quello fu l’ultimo giorno che Romeo passò insieme a noinel villaggio di Awamakumba. Le danze dell’ultima sera fu-rono particolarmente vivaci e gioiose. Del resto bisognava fe-steggiare la realizzazzione del pozzo. Ci furono diversi ritipropiziatori e di ringraziamento in stile africano. Le musichescandite dai tamburi proseguirono fino a notte inoltrata e, seb-bene stanchi per le molte ore sottratte al riposo, anch’io e Ro-meo rimanemmo intorno al fuoco ad onorare usi e costumi diquel popolo così vivo e selvaggio.

Non ebbi la possibilità di parlare con il nostro chitarristacome la sera prima, un po’ perché era impegnato nel solitointrattenimento musicale, un po’, invece, perché non appenasmetteva di suonare era circondato da uomini e donne chevolevano salutarlo e ringraziarlo prima della partenza, annun-ciata per l’indomani. Riuscimmo a rivolgerci la parola sol-tanto sporadicamente nel via vai generale. Mi avvicinò e migridò nelle orecchie, in modo che lo sentissi nonostante ilvolume dei tamburi: «Domani me ne vado.»

Gli risposi, sempre urlando: «Lo so, lo sanno tutti.»«Volevo ringraziarti!»«Per cosa?»«Per le belle parole che mi hai dedicato.»«È stato un piacere.» gli dissi prima che venisse trascina-

to via dal torrente umano immerso nelle danze. Lo guardai che si dimenava tra le bellissime giovani donne

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nere a seno scoperto che lo circondavano e lo portavano dauna parte all’altra del villaggio.

Sorrisi e mi portai alle labbra l’estratto di radici, sforzan-domi di smettere di pensare a mia moglie.

Quando vivevo momenti di gioia lei era sempre nei mieipensieri, avrei voluto che lei potesse essere felice insieme ame. E questo era un momento felice: avevamo finito il pozzo,avevo un amico con il quale mi intendevo a meraviglia e lasera prima avevo capito quanto fossi affezionato alla mia pel-le rischiando di morire sbranato da tre leoni che, evidente-mente, non dovevano essere stati poi molto affamati. Avreivoluto condividere con lei questa grande gioia di vivere, malei non c’era più e io mi dovevo rassegnare al suo sguardo chemi accompagnava dall’alto, mi dovevo rassegnare all’ideache lei, ora, fosse il mio angelo custode, mi dovevo convin-cere che lei fosse con me, più di quanto non lo fosse mai statada viva. La gioia, per me, da quando lei se n’era andata, ave-va sempre questa spruzzata di malinconia. La felicità che pro-vavo in quel momento, comunque, non era attenuata dallamancanza di una persona che avevo amato e che continuavoad amare. Era arricchita dal ricordo di questo essere unico.

La malinconia, spesso, non è un sentimento sgradevole. Ri-cordare degli attimi piacevoli che non ci sono più non è ne-cessariamente sinonimo di tristezza. Sono grato alla vita perquello che mi ha dato e tra le tante cose belle c’è anche lei,comunque, anche se ora non c’è più.

Ma non voglio annoiarvi con i miei sentimentalismi. Romeo stava danzando tra le donne e, durante il soggior-

no tra noi, non si era mai lasciato andare a movimenti e azio-ni così scalmanati. Sembrava una persona diversa, forse acausa anche dell’alcol.

In occasioni così importanti, noi bianchi non ci facevamo

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mancare qualche bottiglia di vino speciale, da accompagnareagli estratti di radici locali. Forse Romeo aveva esagerato unpo’, o forse era semplicemente felice.

Lo osservai mentre si dimenava tra quei corpi quasi com-pletamente nudi. Pensai che eravamo così in sintonia perchéeravamo simili in molte cose. Amavamo profondamente l’uo-mo e le sue culture, pensavamo entrambi che ogni tradizione,ogni usanza, in qualsiasi parte del mondo, avrebbe dovuto es-sere protetta.Ci piaceva confrontare le nostre idee, discutere edire quello che pensavamo.Ci piaceva renderci utili e aiutarele persone che abbisognavano del nostro aiuto. Ma non erasolo questo, non era soltanto qualcosa di così superficiale,c’era qualcosa che si nascondeva più in profondità, qualcosadi cui non avevamo mai parlato ma che veniva a galla ognivolta che pensavo a lui.

Mi sforzai di capire cosa potessimo avere di così simile.Lo osservai e pensai ai momenti che avevamo trascorso insie-me, alle sue parole, alle sue azioni. Fin dal nostro primo in-contro mi era parso un uomo intelligente, oltre che colto, eacuto. L’ipotesi affiorò lentamente dentro di me finchè non nefui pienamente convinto.

Romeo, in ogni istante, aveva un velo, simile alla mia ma-linconia, che lo circondava. Era una cosa talmente caratteri-stica del suo modo di fare che non si poteva immaginare lasua persona senza quell’alone misterioso di chissà quale ti-more o ricordo. Ora ne ero convinto. Quel sentimento era den-tro di lui, era parte di lui, per questo era stato così difficileindividuarlo. Era mimetizzato nel suo essere. Ma ora che l’a-vevo scovato era chiaro come la luce del sole. Era chiaro co-me lo erano la sua intelligenza e la sua sensibilità che, allostesso modo di quella malinconia cronica, erano caratteristi-che inscindibili dall’uomo che avevo conosciuto.

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Mi accasciai vicino al fuoco, orgoglioso del mio acume,nella certezza di aver scoperto un altro aspetto che ci legavain un’amicizia al di là del tempo e dello spazio.

Una volta terminate le musiche, i balli e tutto quello che ri-guardava i festeggiamenti, ci ritirammo ognuno nella propriacapanna, ognuno stanco morto per il lavoro e per la festa. Miaddormentai senza nemmeno togliermi gli scarponi e quellanotte non ci furono ostacoli per il mio riposo: dormii profon-damente fino quasi a mezzogiorno e al mio risveglio Romeoera già partito, cosa che avrei dovuto fare anch’io in giornata.

Mi misi subito al lavoro riempiendo le mie due sacche coni pochi abiti e i molti attrezzi da lavoro che portavo semprecon me.

Lasciare il villaggio con la jeep era sempre un’impresa,perché i bambini, che si divertivano a sentire il rombo di quel-la macchina incredibile, circondavano il mezzo e me, rico-prendomi di domande, il più delle volte incomprensibili perla confusione.

Era per questo motivo che avevo lasciato la jeep fuori dalvillaggio: non mi piaceva essere al centro dell’attenzione e misembrava di offendere la dignità dei poveri che abitavanol’Africa attraversando i loro villaggi in automobile.

Così salutai i due spagnoli, che sarebbero rimasti ancoraper qualche tempo a controllare il funzionamento del pozzo,e gli abitanti del villaggio. Mi caricai le sacche a spalla e presila strada sterrata che portava a nord, verso la mia jeep e versola città di Mbarara, nel sud dell’Uganda, dalla quale sarei pre-sto ripartito per un altro incarico.

Avevo circa un chilometro da percorrere a piedi prima diraggiungere l’auto e lungo quel tratto inondato dai caldi raggidel sole mi fermai due volte per riposare dato che le sacche,nel complesso, pesavano una quarantina di chili.

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Raggiunsi il mezzo di trasporto e mi avviai canticchiandoverso la città. Ad un certo punto vidi, a poca distanza dal bor-do della strada, tre sagome che sembrava mi stessero aspet-tando.

Erano tre leoni e il fatto che fossero vicini al bordo dellosterrato, ad una ventina di metri non di più, era piuttosto inso-lito visto che gli animali scappavano terrorizzati a distanza disicurezza non appena udivano il suono metallico dei motori.Rallentai l’andatura, mi mossi a passo d’uomo, osservandogli animali che, a loro volta, avevano i loro occhi neri fissi sudi me.

Senza distogliere i loro sguardi iniziarono a trotterellare alfianco della macchina. Li osservai bene e rimasi intimorito,nonostante la mia posizione sicura, dalle loro zampe possenti,dagli artigli e dalle zanne bianche che sbucavano tra le labbra.Pensai alla notte che avevo passato, per così dire, in compa-gnia di qualche loro lontano parente ed ebbi giusto il tempodi considerare l’ipotesi che fosse stato tutto un sogno primadi sorprendermi a mugugnare lo stesso motivo che, quellanotte, era uscito dalla chitarra di Romeo e che, con molte pro-babilità, mi aveva salvato la vita.

Mi fermai improvvisamente con l’idea che quei tre potes-sero essere veramente gli stessi leoni che avevano assistitoall’involontario spettacolo di due notti prima allestito nel son-no dal nostro cantastorie. Spensi il motore. Loro si fermaro-no subito dopo di me e rimasero fermi e attenti, pronti a scap-pare al primo segnale di pericolo.

Cominciai a fischiettare, guardando fuori dal finestrino al-la mia destra, dove le fiere rimanevano immobili, ma il risul-tato che ottenni non fu quello che avevo sperato.

I leoni ripresero a camminare, stavolta allontanandosi dal-la jeep, probabilmente intimoriti dal mio comportamento, e si

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inoltrarono ondeggianti nell’erba alta della savana, comescocciati dalla presenza innaturale che per loro dovevo rap-presentare.

Li guardai finchè non sparirono tra il giallo sbiadito dellapianura, sorrisi e mi rimisi in marcia con il motivetto che con-tinuava a girarmi nella testa.

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CAPITOLO 5

Lungo l’arco dei cinque anni che passarono tra i nostri pri-mi due incontri continuai a girare per l’Africa centrale e a su-pervisionare lavori come ospedali, scuole, edifici in genere,pozzi, come quello di Awamakumba, e molto altro. Lavoriche significavano la volontà dei paesi e soprattutto dei popo-li, di lasciarsi alle spalle le atrocità delle guerre civili e deiconflitti tra i diversi stati.

La tecnica che avevo imparato da Romeo fu la base per lacostruzione di altri pozzi che erano sotto la mia supervisione,e, in seguito, fu adottata anche da altri ingegneri e da altresocietà come quella di cui facevo parte.

Furono cinque anni di attività intense ed appaganti. Il miolavoro mi piaceva già prima di venire ad esercitarlo in Africa,ma qui era ancora più soddisfacente. Innanzitutto perché leopere che costruivamo lasciavano spesso a bocca aperta gliabitanti che, talvolta, non conoscevano le meraviglie tecnolo-giche di cui eravamo capaci, e poi perché la maggior parte del-le nostre fatiche andavano a migliorare le condizioni di vitadi persone che ne avevano veramente bisogno.

Una mattina mi trovavo in un villaggio poco distante daMbarara, città dove sorgeva la sede della mia società e doveavevo un piccolo appartamento. Stavamo costruendo un edi-ficio che sarebbe servito da emporio. I villaggi vicini alle cit-tà, infatti, godevano di privilegi impensabili per altri luoghi.Così Maribù, che era circa dieci volte Awamakumba, anno-

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verava tra questi privilegi un pronto soccorso che fungevaspesso da ambulatorio per le vaccinazioni, una strada non a-sfaltata ma molto ben mantenuta, un acquedotto e la chiesa.In questo villaggio, come quasi in tutti i grandi villaggi inprossimità dei grandi centri, le vittime di malattie e di caren-ze nutritive erano meno rispetto a quelle delle zone più sel-vagge, dove gli aiuti stentavano ad arrivare.

Quella mattina si stavano alzando le travi per il tetto e illavoro era gravoso per la mia schiena che, con il passare delleprimavere, iniziava a scricchiolare un pochino.

Mi presi una pausa, ristorandomi con un bicchier d’acquaall’ombra del gazebo allestito per permettere ai braccianti dipassare il momento del pranzo al riparo dal sole cocente. Mimisi a sedere e cominciai a pensare, non so perché, a Romeo. Erano passati oramai cinque anni da quando ci eravamo co-nosciuti. Forse quello sarebbe rimasto il nostro unico incon-tro. Mi rallegrai pensando che avevo avuto la fortuna di cono-scerlo. Persone così non si incontravano tutti i giorni ed io erostato uno dei pochi eletti che avevano potuto farsi segnare dal-la sua impronta. Romeo era passato su di me, con la sua musi-ca, con le sue parole, con il suo modo di essere. Aveva lascia-to una traccia composta da dolorose speranze. E quella trac-cia era un’opera d’arte. La sua arte. Romeo era un poeta e lasua poesia rimaneva anche quando lui non c’era. Non potevascorrere via come l’acqua di un fiume. Si radicava nelle per-sone che l’avevano ascoltato con quella sua chitarra. Era unaspecie di creatura mitologica, mezzo uomo e mezzo chitarra.Una specie sconosciuta di centauro. Mezzo uomo e mezzo poe-sia. Non avevo mai conosciuto un poeta prima d’allora e ave-vo sempre creduto che sarebbe stato noioso conoscerne uno.Non avevo idea di quanto profondo sarebbe stato. Romeo suo-nava cose di cui io non sospettavo l’esistenza. Emozioni sco-

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nosciute, ma allo stesso tempo così intime da lasciarmi imbe-vuto di sconcerto. La sua musica narrava la verità che moltiuomini cercano per una vita intera. Ma non era una musicabuona per ogni occasione. Aveva ragione quando diceva di nonessere un cantante. La sua era sempre una cornice per un pre-ciso contesto. Era la chiave del contesto. Non avrebbe maipotuto esprimersi così sopra un palcoscenico. Il suo compitoera quello di sparire, non di apparire. E quando suonava spa-riva dietro la realtà violata nel suo intimo, denudata e gettatain pasto al giudizio dei suoi ascoltatori. La sua non era unamusica “facile” ed indolore.

Sorseggiai lentamente quel che rimaneva nel bicchiere cheavevo in mano e alzai lo sguardo sulle distese sterminate del-la savana. Mi chiesi dove avrebbe potuto essere in quel mo-mento Romeo. Mi chiesi se l’avrei incontrato di nuovo e adun tratto, all’orizzonte, scorsi un’ombra.

Balzai in piedi, scrutai attraverso i raggi del sole e com-presi che tutte le risposte che cercavo stavano camminandoverso di me, con l’inseparabile e sinuosa chitarra appesa a tra-colla che accompagnava la meravigliosa voce profonda.

Mi diressi quasi correndo verso il cantastorie che avanza-va sempre con la stessa, lenta andatura nell’erba alta fino alleginocchia. Smise di suonare soltanto quando ci trovammo ameno di un metro di distanza, mi guardò con un largo sorrisoe disse: «Ho atteso molto questo momento.»

Gli misi una mano dietro la nuca e lo tirai verso di me inun abbraccio, poi, tenendogli il braccio sulla spalla mi girai ecominciai a camminare verso la tettoia, dicendo: «Anch’iol’ho aspettato tanto.»

Ormai il pomeriggio stava lasciando spazio alla sera e de-cidemmo di tornare insieme in città, distante meno di un’ora. Non era invecchiato di un giorno. Aveva lo stesso viso, lo

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stesso portamento, gli stessi capelli. Era circondato dallo stes-so alone di mistero, dallo stesso fascino, dalla stessa malin-conia di cinque anni prima. Non trovai nulla di diverso e fufacile, per me, sentire nuovamente quel legame profondo cheavevo provato al tempo del nostro primo incontro.

Era una bella sensazione sentirsi in compagnia di un vec-chio amico. Mi sembrava di conoscerlo da sempre, che fossi-mo cresciuti insieme e non che avessimo avuto a che fare l’unocon l’altro per una sola settimana. In vent’anni, in Africa,avevo conosciuto molte persone e molti godevano della miastima e della mia fiducia, sia all’interno della società edile siafuori, ma questa era un’altra cosa. Con Romeo si parlava ditutto con più passione. Soltanto con lui riuscivo ad essere cosìspontaneo e naturale, è una sensazione che chi ha avuto lafortuna di avere dei veri amici, comprende senz’altro.

Arrivammo in città verso le diciannove e decidemmo dimangiare un boccone in un ristorante il cui padrone era unmio vecchio amico. Mauro, il ristoratore, ci fece accomodaread un tavolo sulla terrazza, al riparo delle zanzariere.

Durante la cena Romeo mi disse che aveva pensato spes-so a me durante i suoi viaggi. Io risposi che anche lui miaveva lasciato molto e che fare la sua conoscenza era statopiù che interessante.

Nè io, né lui, però, ci sentivamo a nostro agio nel riceverecomplimenti. Così finimmo per parlare d’altro, finchè non loinvitai a stare da me per qualche giorno insistendo fino a quan-do non accettò.

Il mio appartamento era al primo piano di una palazzina inuna via non delle più chic, ma comunque vivibile. In questazona c’erano molti locali e la gente che si affollava per le stra-de, soprattutto di sera, era molta.

Decidemmo di entrare in un bar che a me piaceva molto

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perché mi ricordava i saloon di quei vecchi film western cheguardavo quando avevo quindici anni.

Ci sedemmo ad un tavolino d’angolo, nell’oscurità. Il lo-cale era quasi completamente di legno scuro all’infuori del pa-vimento e del muro che stava dietro al bancone. Aspettammoil cameriere e ordinammo un paio di birre, prima di ricomin-ciare a parlare delle nostre avventure.

«Sembra un saloon.» Mi disse, cogliendo subito nel segno. «È per questo che mi piace. »

Non c’era musica, ma il fruscio delle voci che si mescola-vano, diventando incomprensibili, era molto rumoroso e ciobbligava quasi ad urlare per poterci capire.

«Abiti nelle vicinanze?» mi chiese. Feci su e giù con il capo e lui rispose con una smorfia che

mi fece comprendere la sua disapprovazione per tutto quelbaccano.

«È solo questione di abitudine. Questa sera, però, c’è piùchiasso del solito»

Arrivarono le birre. Avvicinai il mio boccale al suo e be-vemmo il primo sorso insieme.

Rimanemmo seduti per una buona mezz’ora, parlandosempre di quello che ci era accaduto nei cinque anni prece-denti, finchè non decidemmo di uscire a fare una passeggia-ta, per smaltire la copiosa mangiata e la birra che era cadutasopra il fondo di vino che ci eravamo fatti al ristorante.

Una volta usciti ci rendemmo conto di quanto fosse grade-vole quella serata africana. La strada era spazzata da una fre-sca brezza che sottolineava a meraviglia la temperatura not-turna. La luna, dall’alto della sua posizione, emanava riflessirossastri che coloravano ogni particolare. Come se non ba-stasse l’allegria alcolica che ci rendeva piacevolmente gioio-si, rendeva quest’atmosfera ancora più godibile.

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Non appena uscito dal locale, pensai che il mondo era unposto magnifico se poteva esistere una sera come quella.

Anche Romeo sembrava della mia stessa idea; non parlòper un po’, ma dal suo viso trapelava benessere. Sembravaaddirittura diverso dal solito. Penso che una volta ogni tantouna piccola trasgressione, sempre nei limiti dell’umanità,possa essere un rimedio per tanti mali. Romeo appariva moltopiù rilassato, spensierato, sembrava addirittura ringiovanito.Il peso delle sue idee, per quella sera, gli aveva dato pace edimenticare tutti i problemi, ogni tanto, non è solo piacevole,ma anche necessario. È l’unico modo che abbiamo, tante vol-te, per andare avanti sul nostro sentiero del destino.

Camminammo per le strade deserte della periferia, oranessuno dei due aveva voglia di tornare a casa, perché stava-mo troppo bene all’aria aperta della sera. Il falso silenzio cheregnava tra tutte quelle palazzine era assecondato dall’oscu-rità, interrotta soltanto dai lampioni malandati, a duecentometri l’uno dall’altro, e dalla luna che filtrava con i suoi raggiin ogni possibile varco.

Ad un tratto il silenzio del riposo notturno fu interrottobruscamente da un grido. Si trattava di una voce di donna esembrava non essere molto distante da noi, forse dietro aqualche caseggiato che si vedeva lungo la strada principale.Io e Romeo, che stavamo ridacchiando su non ricordo cosa,ci facemmo subito seri in viso.

Lui cominciò a correre e io cercai di non farmi seminare.Dopo il primo urlo se ne sentirono altri, più deboli e soffoca-ti. Arrivammo all’angolo di una palazzina il cui colore dove-va essere un rosa pallido, ma che la luce dei lampioni tra-sformava in una specie di bianco sbiadito.

Proprio mentre ci voltavamo per guardare nel vicolo tra que-sto edificio e quello adiacente, sentimmo una nuova voce,

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questa volta maschile, che ordinava alla donna di tacere. Ilvicolo era buio, l’unica luce che lo rischiarava debolmenteproveniva da uno dei due palazzi e si trattava di una lampa-dina appesa al muro sopra l’entrata secondaria. Ai piedi dellaporta stava la donna circondata da quattro uomini. Non siaccorsero subito della nostra presenza, impegnati com’eranonel cercare di avvicinare quella povera donna inferocita che,da terra, scalciava come una dannata. Ora la sua voce non erapiù soffocata e le sue urla erano chiare e limpide nel buio not-turno. Probabilmente era riuscita a liberarsi dalla stretta diuno di quei bestioni un istante prima che noi arrivassimo insuo soccorso.

Romeo ordinò di lasciarla stare mentre ci avvicinavamoalla scena con passo deciso. I quattro si voltarono verso di noi,sorpresi dalla nostra presenza e dal nostro incedere risoluto.Uno di loro, resosi conto della situazione, se la diede a gambeverso l’oscurità del vicolo. Gli altri tre si disinteressarono del-la donna che ansimava a terra e si misero in bella posa pro-prio di fronte a noi. Eravamo a pochi metri, ormai, e Romeo,che mi trascinava verso di loro con la sua andatura sicura, nonsembrava avere intenzione di fermarsi. Uno dei tre omonineri che ci stavano ad aspettare ci ammonì:

«Vi conviene andarvene finchè potete. Questi non sonoaffari vostri.»

Romeo sembrò non sentire la voce dal tono minacciosoche ci intimava di andarcene e continuò a camminare, impas-sibile, la testa alta, verso di loro. Io ero un metro dietro di luiquando arrivò a un passo dall’uomo che aveva parlato e gli siparò davanti, con il naso a pochi centimetri dal mento delgrande uomo nero.

Lo guardò fisso negli occhi e gli disse con voce piena dirabbia, quasi un sussurro proveniente dalle profondità del suo

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stomaco gorgogliante per l’irritazione che lo stava invaden-do: «Questi sono anche affari nostri.»

«Ti conviene sloggiare.» Ribadì l’omone. Passarono alcuni interminabili secondi in cui Romeo restò

con gli occhi fissi in quelli del suo avversario, mentre gli altridue uomini neri, anch’essi grandi e grossi, si spostarono unpo’ più avanti, quasi a formare un semicerchio intorno al fieroragazzo pallido.

Li imitai, avvicinandomi al mio socio, cercando di mante-nere la calma e un’espressione sicura sul volto, pur sapendoche non avrei potuto far altro che prendere un sacco di botte. L’omone di fronte a Romeo diede il via alle danze: sferrò unpugno a sorpresa diretto al volto del mio amico che, però, riu-scì a schivare, a prendere il polso dell’uomo e a girarglielodietro alla schiena.

Mi corsero brividi freddi lungo tutta la schiena quandosentii lo sricchiolio delle ossa del braccio che si rompevano. Leurla dell’uomo,però, fecero subito sparire questa sensazione.

Tutto si era svolto in un attimo, i due amici del malcapita-to non ebbero il tempo di difenderlo. Indocilito il suo uomo,Romeo lo spinse a terra, rimanendo poi immobile davanti aidue che lo guardavano con un’espressione di stupore sul viso.I suoi occhi si spostavano da quelli di uno a quelli dell’altro,finchè i due non decisero che sarebbe stato più saggio lasciarperdere, aiutare il proprio compagno e andarsene.

Romeo non disse una parola, rimase a guardare i tre gran-di neri che si allontanavano tra i gemiti di dolore e le impre-cazioni infinite che gli piovvero addosso.

La donna, che nel frattempo si era alzata, era rimasta in di-sparte a guardare la scena. Romeo le si avvicinò e le chiesecome si sentisse. Bianca, alta come lui, sul metro e settanta,con dei lunghi capelli neri raccolti in un nodo sulla nuca, mol-

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to carina, rispose con la sua voce sottile che andava tutto bene.La bella ragazza spiegò che stava rincasando dopo il lavo-

ro. Faceva la cameriera in un locale e alla fine della serata,per strada, si era trovata davanti quei quattro uomini neri. Erastata portata in quel vicolo con una mano sulla bocca, perimpedirle di chiedere aiuto, poi era riuscita a divincolarsi e afarsi sentire da noi prima che iniziassero a strapparle i vestitidi dosso.

Ripensando alla scena, la poveretta, si fece trasportare dal-l’emozione e cominciò a piangere sulla spalla del suo salva-tore. Romeo, dal canto suo, prese tra le braccia la povera don-na e la lasciò sfogare finchè non riprese il controllo.

Ci avviammo verso la strada principale per riaccompagna-re a casa la ragazza che non abitava molto lontano da lì.

Lungo il tragitto la interrogammo sul suo lavoro, con l’in-tenzione di andare a trovarla qualche volta, e scoprimmo chelavorava in uno dei locali della via dove avevo il mio sparta-no alloggio. Ci congedammo con un caldo arrivederci.

Quando ci trovammo da soli, in mezzo alla strada, diedisfogo a tutte le mie domande. Mi trasformai in una comarecuriosa e iniziai a parlare, accavallando le parole.

«Che diavolo ti è successo in quel vicolo? Sembravi l’an-gelo vendicatore dei giusti! Dove…Come accidenti hai fattoa spaccare il braccio a quell’armadio?»

Il mio era il tono di chi è rimasto piacevolmente sorpresoda un avvenimento o da una situazione inattesa e Romeo sem-brò molto divertito per questo.

Lo sguardo serio e minaccioso che aveva sfoggiato nel vi-colo era scomparso, lasciando il posto ai soliti occhi malin-conici e tranquilli.

«Ho imparato a difendermi.»«Tu non…» Non sapevo bene cosa dire, poi, sospirando

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finii: «Hai imparato a difenderti?! Oh beh, niente male, ra-gazzo! Io, se ti può interessare, penso di aver perso dieci annidi vita. Quei tre erano enormi!»

Mi ero preso davvero un bello spavento. Arrivammo a casa e gli mostrai l’appartamento, anche se

non c’era molto da scoprire. Ci mettemmo a dormire, io in camera mia e lui in salotto,

sul divano. Era molto tardi e la camminata aveva notevolmente con-

ciliato il sonno così ci ritrovammo entrambi addormentati inpochi attimi.

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CAPITOLO 6

La mattina seguente ci svegliammo sul tardi. Le emozioni della giornata passata insieme erano state in-

tense e avevano influito notevolmente sul nostro riposo. Facemmo una veloce colazione e lasciammo il forte. Mi feci accompagnare da Romeo alla sede della società

edile dove avvertii i miei superiori che mi sarei preso un gior-no di vacanza da passare con il mio gradito ospite.

Tornammo a passeggiare nuovamente per le strade dellacittà che sembravano incuriosire molto Romeo.

Gli mostrai le diverse zone, i posti in cui avevo lavorato, ilocali più carini, le vie con i negozi, le strade più trafficate equelle meno popolose. Non parlammo molto e quel poco dicui si discusse fu incentrato sulla visita improvvisata di cui ioero l’improbabile guida. Romeo era attento ad ogni particola-re, non esitava a farmi domande, anche se spesso non sapevorispondere. Si guardava attorno con negli occhi una grandevoglia di comprendere. Molte nazioni dell’Africa, tra le qualianche l’Uganda, erano tormentate da guerre che spesso dura-vano da più di vent’anni, e Romeo lo sapeva bene.

La città in cui ci trovavamo era relativamente tranquilla, iconflitti interni che dissanguavano l’Uganda erano al nord,non molto lontani da noi, ma comunque abbastanza distantida concedere una vita tranquilla agli abitanti di Mbarara.

Spiegai tutto ciò di cui ero a conoscenza, ma la sua curio-sità era insaziabile.

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La sera giunse alla svelta, l’unica pausa era stata quellache ci eravamo concessi per il pranzo in un piccolo ristoran-te malandato. Avevamo visitato ogni angolo della città e pen-sammo che non ci sarebbe stato modo migliore per conclude-re la nostra gita di una tappa nel locale dove lavorava la gra-ziosa ragazza che avevamo salvato. Che Romeo aveva salvato.

Il locale era sulla strada, vicino a casa, non distante dal“saloon”.

Il legno la faceva da padrone, come nella maggior partedei locali pubblici della città, ma a differenza della maggiorparte di questi, era rifinito meglio, i particolari erano più cu-rati, o forse erano soltanto meno datati. Le luci basse, inoltre,contribuivano a rendere l’atmosfera, già cupa a causa del le-gno molto scuro, ancora più misteriosa. I tavoli erano di me-tallo grigio, a differenza dei più comuni tavolini in legno im-barcati per l’età che si trovavano dappertutto, ed erano rico-perti con delle tovagliette nere con al centro lo stemma di unabirra irlandese. Le sedie, sempre in metallo, erano ben ordi-nate e seguivano la disposizione dei tavoli fin sul rialzo chestava al di là del bancone, sovrastato da quattro lampade bian-che simili a quelle che illuminano le sale da biliardo. Il loca-le era molto più grande rispetto alla media e c’era addiritturail lusso del gabinetto, cosa pressochè inesistente da altre parti.Trent’anni di vita nel campo edile mi avevano trasformato inun essere che non poteva più separarsi dal proprio lavoro.Esaminare luoghi e costruzioni, ormai, era una funzione vitale.

La ragazza ci vide entrare e ci riconobbe all’istante. Si al-largò in un sorriso dai denti limpidi come il sole invernale eci si fece incontro, lasciando lo straccio che aveva tra le manisul bordo del lavandino dietro al banco.

Era veramente bella, ora più della sera prima, e si muove-va in modo molto elegante dentro al vestito bianco che le ar-

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rivava appena sopra le ginocchia mettendo in risalto tutte lerigogliose forme della sua invidiabile gioventù.

Ci raggiunse districandosi tra i corpi ammassati gli uni aglialtri e ci salutò chiedendoci che cosa potesse offrirci. Noi ri-cambiammo il saluto con un cenno del capo e con un sorriso.

«Siamo passati a trovarla.» dissi. «Ieri sera abbiamo di-menticato di presentarci.».

Rise di gusto e per la seconda volta in pochi istanti mi tro-vai ad ammirare il suo splendido sorriso. Aveva le labbra diun lucido rosso acceso che facevano risaltare i bianchissimidenti ordinati. Il suo volto diventava raggiante e i suoi occhiverdi si stringevano in modo così ammaliante da non poterpassare inosservati. Era un sorriso assolutamente illuminante.

«Mi chiamo Mireja.» disse accompagnandoci al banco. «Non diamoci del lei, è così freddo…non vi pare? E poi

mi fate sentire una vecchietta.» continuò.Ci presentammo anche noi, prendemmo le birre che ci

porse la nostra simpatica barista e ci sedemmo ad un tavoloaspettando che il locale si svuotasse un po’ per scambiare qual-che parola con l’avvenente ragazza.

Passarono un paio d’ore, durante le quali io e Romeo par-lammo della visita alla città che ci eravamo ormai lasciati allespalle. Finchè Mireja non prese posto al nostro tavolo. Sol-lecitata appena dalla nostra curiosità ci raccontò la storia chel’aveva portata fino a lì.

Era nata in Spagna, nella vivace Catalogna, in un paesevicino a Barcellona, terza figlia di un grande imprenditoreche le aveva dato un’infanzia ricca di oggetti ma, come spes-so succede, povera di compagnia. Il lavoro del padre lo tene-va lontano da lei, facendole soffrire la mancanza di quellafigura paterna di cui lei sentiva tanto bisogno.

Crescendo aveva cominciato quasi per gioco a fare del vo-

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lontariato in un’associazione che raccoglieva denaro, vestiti,giocattoli, e quant’altro per i popoli dell’Africa. Nonostantetutti i suoi viaggi al fianco del padre non aveva mai calcato ilsuolo africano, ma le belle parole che si spendevano a questoproposito all’interno del gruppo di volontariato, la convinseroa scoprire di persona le meraviglie che tanto si lodavano.

Compiuti diciotto anni seguì alcune amiche in un viaggioche la fece innamorare della terra che ora ci sosteneva. Tor-nata a casa aveva annunciato al padre di voler vivere per unpo’ in questo continente, ma il buon signore, che aveva benaltri progetti per la sua amata figlia, non volle sentirne parla-re. Mireja insistè a lungo, finchè il padre dovette accondi-scendere, negandole, però, qualsiasi aiuto economico. I due sierano lasciati a muso duro, ma questo non impedì a Mireja dipartire e di farsi una vita qui, dove ora lavorava e poteva con-tinuare ad aiutare i poveri con nuove attività di volontariato.Con i soldi che guadagnava era riuscita a comprarsi un picco-lo appartamento. Aveva ventitre anni, ormai, ed era in Africada due.

Dopo aver concluso il suo racconto interrogò noi due chedovemmo raccontare a grandi linee la storia della nostra vitasotto la minaccia della sua simpatica insistenza.

Quando fu il turno di Romeo, che per altro rimase chiusocome un riccio sul suo passato remoto, notai che Mireja loguardava affascinata, quasi rapita dalla storia recente di quel-la vita così avventurosa e solitaria.

Romeo, a sua volta, non esitava a tuffarsi nei grandi occhiverdi della bella spagnola.

Pensai che per me fosse giunto il momento di andarmene.Largo ai giovani.

«Vi lascio alle vostre chiacchiere,» dissi «la mia schienaha bisogno di riposo.»

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Mi alzai e prima di andarmene dissi a Romeo che gli avreilasciato la porta di casa aperta.

Presi a camminare verso l’uscita con un lieve sorriso sullelabbra sotto lo sguardo dei due un po’ sorpresi, ma, in fondo,ne sono certo, felici di essere rimasti soli. La ragazza eraattratta da Romeo e lo stesso valeva per lui.

“Beata gioventù” mi dissero i miei nonni paterni quandopresentai loro quella che sarebbe poi diventata mia moglie.

“Beata gioventù” mi ripetevo ora, pensando ai due ragaz-zi e al mio angelo custode che mi accompagnava da lassù.

A dire la verità la mia schiena era in perfetta forma, quin-di puntai dritto verso il mio fidato saloon sperando di trovarequalche conoscente per fare quattro chiacchiere.

Il locale era ancora pieno di vita. Mi avvicinai al bancone e, guardandomi attorno, i miei oc-

chi si inchiodarono su un volto che mi era familiare. Impiegaiun poco a capire. Si trattava del gigante che avevamo incon-trato la sera prima nel vicolo. A rafforzare la mia certezza chesi trattasse proprio di lui c’era quel braccio che giaceva iner-me appeso al collo dentro un’ingombrante ingessatura.

Ordinai una birra al barista, pagai e presi la mia bottigliada 33 avviandomi velocemente verso l’uscita. Cercai ancorail bestione con lo sguardo, ma non lo vidi e mi rassicurai unpoco.

Appena fuori dal locale, però, pensai che se mi avesse ri-conosciuto e mi stesse seguendo non potevo di certo andaredritto a casa. Se avesse scoperto dove abitavo non avrei potu-to più stare tranquillo nemmeno a casa mia. Mi avviai di nuo-vo verso il bar dove avevo lasciato i due ragazzi.

All’improvviso, tra le correnti di persone che camminava-no nella stretta via, sentii una voce sul collo e, quasi contem-

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poraneamente, un oggetto appuntito solleticarmi la schiena. «Continua a camminare e non fare stronzate. »Voltai la testa: il grosso mascalzone era in compagnia di

altri tre grossi giovani africani. Il terzo, pensai, doveva esse-re il coniglio che la sera prima era fuggito nell’oscurità.

Il sangue mi si raggelò nelle vene. Camminai sotto le loroindicazioni fino in fondo alla via principale, dove un incrocioobbligava a scegliere se tenere la destra o optare per la sini-stra. La voce mi disse di prendere a sinistra.

Camminammo per altri cinque o seicento metri, muoven-doci verso zone molto più tranquille.

La confusione di pochi istanti prima sembrava essere lon-tana chilometri.

Ora chi ci incontrava poteva vedere chiaramente che ilgruppetto di omoni alle mie spalle mi stava guidando con uncoltello o un cacciavite, ma nessuno si azzardò a fiatare e nonpotei non capire il perché.

Mi fecero svoltare in un vicolo deserto e, arrivati in fondo,mi fecero fermare. Il punteruolo che avevo alle spalle si al-lontanò dalla mia schiena e mi fu ordinato di voltarmi.

Non avevo mai affrontato nessuno in vita mia e non sape-vo come ci si può difendere da quattro giganti affamati divendetta come quelli che avevo davanti.

Mi misi spalle al muro e alzai i pugli serrati in una guar-dia che fece divertire i quattro ragazzoni.

Uno di loro mi si avvicinò, con la leggerezza di un sorrisoquasi infantile. Fece partire un pugno che mi colpì al volto.Se avessi potuto ringraziarlo l’avrei fatto, perché quello ful’unico colpo che sentii. Un dolore fulminante mi pervase intutto il corpo. Poi più nulla.

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CAPITOLO 7

Ricordo che poco prima del mio risveglio credetti di esse-re in piedi in una stanza vuota e illuminata da una luce debo-le e fiacca. Intorno a me aleggiava nell’aria una musica dolce,celestiale, un suono così toccante, così profondo e così vivoche mi fece venir voglia di piangere. Mi mossi fino all’usciodella stanza e mi fermai ad ascoltare. La melodia arrivavasempre più chiara e limpida fino alla mia mente, finchè, oltrealla musica, potei distinguere anche una voce. I secondi con-tinuavano a passare e io rimanevo fermo, sempre sull’uscio diquella stanza, come incantato da quella musica che mi chia-mava, che diventava sempre più forte, come se mi si stesseavvicinando. La sentivo così vicina che pensai di poterla toc-care. Protesi in avanti un braccio, cercando di afferrarla edecco che, all’improvviso, non ero più in quella benedettastanza con la luce fioca.

La musica era scomparsa, come in fuga dal mio gestoinopportuno. Aprii gli occhi ma li richiusi immediatamenteper via dei raggi che penetravano dalla finestra.

Ora tutto era chiaro, ero in un letto d’ospedale, ricordai iquattro giganti neri che mi conducevano nel vicolo e il pugnoche mi faceva crollare a terra.

Pensai che quella musica doveva essere opera del mioamico. Quasi a voler sigillare la mia idea, Romeo parlò.

«Buongiorno!»Piegai le labbra in un impercettibile sorriso, ma durò sol-

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tanto un’istante, il tempo di rendermi conto che quel piccolomovimento mi aveva provocato dolori in tutto il corpo.

Dopo le parole di Romeo sentii anche una sottile risatafemminile. Cercai di nuovo di aprire gli occhi e questa volta,nonostante il dolore per la luce e per i muscoli indolenziti, micostrinsi a tenerli aperti.

Mireja era seduta su una sedia a pochi passi dal letto e Ro-meo stava su di una poltroncina di fronte a lei imbracciandola sua chitarra.

Si alzarono e si portarono ognuno su uno dei lati lunghi delletto. Mireja mi prese la mano, provocandomi dolori inaudi-ti, mentre Romeo mi guardava dall’alto con un sorriso infinito.

«I medici hanno detto che una volta sveglio saresti statofuori pericolo.» Mi disse il poeta in tono fin troppo serio.Avrei voluto parlare, ma non riuscii ad emettere altro chesuoni incomprensibili.

Mireja scoppiò a piangere, non so se per la felicità o acausa dei sensi di colpa. Forse per entrambi.

Romeo tornò di nuovo a sedere e ricominciò a suonare. Passai un pomeriggio pieno di dolori immensi in tutto il

corpo. La musica mi aiutava a non pensarci. Mireja, invece,mi riportava alla realtà ad ogni minimo movimento. Ma quelcontatto, seppur doloroso, era molto confortante.

Il giorno seguente mi raccontarono quanto era accaduto,anche se avevo potuto intuirlo da me.

Ero stato trovato mezzo morto nel vicolo dove mi aveva-no pestato, qualcuno aveva chiamato l’ospedale e un’auto me-dica era venuta a raccogliermi trovandomi ancora dove ero sta-to lasciato, senza nessuno vicino. Chiunque avesse chiamatoi soccorsi se l’era data a gambe, ben sapendo che già con quelgesto aveva rischiato di finire, come me, in fondo a un vico-lo con le ossa rotte.

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Arrivato in ospedale mi avevano portato urgentemente insala operatoria per ricompormi una frattura alla gamba e perfermare le molte, piccole emorraggie provocate da un punte-ruolo che mi aveva infilzato una quindicina di volte. Fortu-natamente quei buchi non avevano leso nessun organo vitale,altrimenti non mi sarei mai risvegliato dal coma. Avrei co-munque potuto morire dissanguato.

Ero rimasto in coma per due settimane. Romeo, non trovandomi a casa, mi aveva cercato per tutta

la notte, finchè mi trovò in ospedale, dove ero stato identifi-cato grazie al portafoglio con la patente e i documenti cheavevo ancora addosso quando mi avevano trovato.

Da allora e fino al mio risveglio non ero mai più rimastosolo.

Passai due mesi tra la stanza d’ospedale e la palestra per lariabilitazione della gamba.

Romeo mi era sempre vicino, mi accompagnava alle fati-cose sedute e poi mi riportava nella mia stanza. Anche Mire-ja, appena possibile, mi veniva a trovare.

Lei e Romeo erano diventati inseparabili. Erano perduta-mente innamorati l’uno dell’altra ed era un piacere vederli in-sieme. Era come rinascere e rivivere una storia che non tor-nerà mai più. Ero loro grato per questa possibilità che mi re-galavano ogni giorno.

Dopo due mesi lasciai l’ospedale. La gamba mi facevaancora male se le chiedevo certi sforzi ancora troppo preten-ziosi, ma tuttosommato mi ero rimesso in sesto.

Tornato a casa trovai tutto come l’avevo lasciato, pulito ein ordine, come se non fossi mai stato assente. Aveva pensa-to a tutto la mia giovane amica che, oltre a occuparsi di casamia, si era anche preoccupata del mio ospite, invitandolo astare da lei.

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Romeo, a sua volta, aveva cominciato a cantare e suonarenel locale dove lei lavorava. Se in quel periodo foste stati incittà, avreste senz’altro sentito parlare di quel bar e dell’uo-mo con la chitarra. Romeo accompagnava al lavoro Mireja equando sentiva l’ispirazione giusta attaccava a suonare.

Tutta la città conosceva il suonatore, il poeta con la chi-tarra, e, per la felicità del padrone del locale, tutta la città lovoleva ascoltare.

La mia esistenza riprese lentamente quella piega cheaveva lasciato mio malgrado quasi tre mesi prima. Ricomin-ciai a girare di nuovo per l’Africa centrale, a lavorare e a stu-diare carte, mappe e territori e, come conseguenza di tutto ciò,ad assentarmi dalla città per periodi che variavano da pochigiorni a diversi mesi. Nel frattempo Romeo e Mireja continua-vano a vivere insieme. Penso che era passato molto tempo dal-l’ultima volta che era rimasto nella stessa zona così a lungo.

Mireja era diventata fondamentale per lui. Quando torna-vo in città Romeo aveva sempre molte cose da dirmi, da chie-dermi, dei consigli di cui, diceva lui, aveva un disperato biso-gno.

Notai che la sua malinconia era lievitata. Gliene parlai, manon ci fu modo di cavarne qualcosa, e ne parlai anche alla ra-gazza, ma neppure lei aveva saputo sciogliere le fitte magliedi quella mente misteriosa. L’amava e non pretendeva che ledesse spiegazioni che non voleva dare. Era una ragazza moltodiscreta. La libertà che gli lasciava era il motivo per cui eranocosì affiatati. Romeo aveva bisogno di essere libero, anchenell’immenso amore che provava per Mireja.

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CAPITOLO 8

Era mattina presto quando la graziosa ragazza bussò allaporta del mio appartamento.

«Chi è?» mi informai. «Sono Mireja.» rispose con la sua voce inconfondibile. Mi avvicinai alla porta e la feci entrare. Si guardò intorno

e mi interrogò.«Non è qui?» mi chiese con lo sguardo impaurito. «Non lo vedo dall’altroieri.» risposi, intuendo che stava

parlando di Romeo. «Se n’è andato. Sapevo che sarebbe successo, me lo sen-

tivo, anche se non volevo crederci.» Cominciò a piangereprima ancora di raggiungere le mie spalle. La strinsi forte ame cercando di consolarla dicendole che sarebbe tornato, chelui non l’avrebbe mai abbandonata in quel modo. Passaronoalcuni minuti e Mireja si calmò un poco. La feci accomodaresul divano e le preparai la colazione.

Le chiesi se fosse accaduto qualche cosa di strano nei gior-ni precedenti, ma lei mi disse che era stato tutto normale.Cercammo di capire il motivo di quell’improvvisa scoparsa,ma il suonatore non aveva lasciato dietro di sé nessun indizio,sempre che se ne fosse andato per conto suo. Per un istanteprendemmo in considerazione pure l’ipotesi della vendetta.Quella stessa vendetta che mi aveva ridotto in un letto d’ospe-dale. Ma era passato troppo tempo dalla lezione che Romeoaveva impartito a quei ragazzoni e accantonammo l’idea.

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Quel giorno avevo del lavoro importante da svolgere, cosìMireja rimase a casa mia fino al momento in cui dovetteprendere servizio al bar.

Era sicura, come io lo ero del contrario, che se Romeo fos-se tornato sarebbe passato da me, prima che da lei.

Ma tutte le sue speranze si spensero quando lasciò il mioappartamento per andare al bar. Ero appena tornato dall’uffi-cio di un collega, erano quasi le otto, e vederla uscire fu piùdoloroso che vederla entrare.

«Questa sera ti vengo a trovare, ok? Torniamo a casa insie-me, se vuoi puoi dormire qui, così chiacchieriamo un po’.»

Le accarezzai il viso e le asciugai alcune lacrime che le ba-gnavano le guance. Lei sembrò riprendere un poco di control-lo e di coraggio. Quanto bastava per affrontare la strada.

Rimasto solo in casa ebbi la possibilità di pensare. Duran-te il giorno mi ero preoccupato più per Mireja che per il mioamico. Sapevo che Romeo era in grado di cavarsela da solo.Ma le domande che mi tormentavano erano molte. Di unacosa soltanto ero certo: sarebbe tornato. Non so nemmeno og-gi per quale motivo ne fossi così sicuro. Lo sentivo nel piùprofondo del cuore e tanto bastava a convincere la mia mente.

Dopo circa un paio d’ore raggiunsi la mia amica al bar erimasi a parlare con gente che conoscevo appena fino al ter-mine del turno. Erano le due e mezza passate.

Ci avviammo insieme verso casa. Il sorriso professionaleche Mireja aveva sfoggiato con i clienti, ora, era un miraggio. Cominciò a stringersi a me appena fuori dal locale e capii chenon riusciva più a contenere le lacrime, le passai un bracciointorno al collo e la nascosi agli sguardi curiosi dei pochi su-perstiti all’attacco della notte.

Arrivati a casa la feci sdraiare nel mio letto e le rimasi ac-canto finchè non fu sopraffatta dalla stanchezza.

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Mi abbandonai sulla poltrona del salotto. Perché non aveva avvisato nessuno della sua partenza?

Forse se n’era soltanto andato per la sua strada. Aveva ripre-so a vagare per il mondo, come aveva sempre fatto. Avevaevitato i saluti per non affrontare i sentimenti.

Poteva essere una spiegazione, ma non mi convinceva af-fatto, perché sapevo quanto Romeo amasse Mireja. Non se nesarebbe mai andato in quel modo. No, doveva esserci un altromotivo.

Continuai a pensare, finchè il tranquillo ed inesorabile po-tere del sonno non sconfisse anche me.

Passò una settimana senza che avessimo notizie di Romeo.Mireja rimase da me per un altro paio di giorni, poi tornò astare nel suo appartamento, cercando di superare tutte le emo-zioni che la attanagliavano per riconquistare i bastioni dellapropria esistenza.

Un giorno, però, dopo che mi ero quasi rassegnato all’ideache Romeo avesse ripreso il largo, arrivarono buone notizieinaspettate.

Mi stavo occupando di un ospedale che stavamo costruen-do ai margini del tessuto urbano per far fronte ad una graveepidemia di epatite e all’altrettanto grave avanzamento dellaguerra civile.

Mi fu annunciata una persona. Scesi dal ponteggio sulquale stavo lavorando e mi avvicinai al ragazzo che mi stavacercando. Non doveva avere più di dodici o tredici anni, an-che se ne dimostrava qualcuno in più per via dell’espressioneadulta che aveva in volto. Sembrava abbastanza in salute, eraalto poco meno di me e aveva dei corti capelli foltissimi e ne-ri. Il suo viso era innocente e ingenuo, ma disilluso, il viso diun bambino con troppa esperienza.

«Io amico Romeo. Lui dice che tu aiutarmi.» mi disse.

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«Certo.» risposi. « Dove hai visto Romeo?»Cercai di mantenere la calma e di limitare le mille doman-

de che mi corsero in mente per non impaurire il piccolo conla mia agitazione.

«È nella foresta con soldati. Lui posto mio. Ha detto possofidarmi. Ha detto che tu sicuro aiuti.» La sua voce era pienadi timore e mentre parlava fissava il terreno polveroso ai suoipiedi.

«Certo, ti aiuterò. Non hai un posto dove andare, non ècosì?»

Lui fece cenno di si con la testa, sempre con lo sguardofisso a terra.

«Non c’è problema. Verrai a stare da me. Ora dimmi, co-me hai fatto a trovarmi?»

«Amico mi ha spiegato dove tu lavori. Quello» indicò unmio collega che stava camminando verso un’automobile«portato qui.»

«Bene, sei stato molto bravo ragazzino, ora mi vuoi dire iltuo nome?»

«Kuma.» Alzò gli occhi verso i miei per un istante in unafiammata d’orgoglio per quel nome che lo rappresentava, poili abbassò di nuovo.

«Va bene Kuma, ora ti porto in un posto dove potrai ripo-sare e mangiare qualcosa. Hai fame?»

Sorrise soltanto. Presi il ragazzino per mano e lo accompagnai alla jeep.Avrei voluto chiedergli di Romeo, ma pensai che ne avreb-

be parlato più tardi, con Mireja. Prima di prendere posto sul sedile del passeggero volle scru-

tare ogni angolo di quella macchina strabiliante che stuzzicavala sua fantasia di bambino. Mentre lui scopriva i dettagli affa-scinanti dell’auto, io avvisai i miei colleghi che avevo una fac-

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cenda importante da sbrigare e che dovevo lasciare il cantiere.Viaggiando tra le strade affollate e confuse della città, Ku-

ma ammirava le meraviglie che lo sovrastavano. Si mettevain piedi sul sedile per guardarsi alle spalle, si spostava nellaparte posteriore della jeep e metteva la testa fuori dal fine-strino. Era una piccola, simpatica peste.

Arrivammo a casa di Mireja, presi Kuma per mano e lo ac-compagnai su per le scale, fino al primo piano. Bussai allaporta e la ragazza venne ad aprire.

«Buone notizie.» le dissi.I suoi occhi cominciarono subito a brillare.«Dimmi, ti prego!» esclamò facendoci entrare e guardan-

do il bambino che tenevo per mano.«Questo è Kuma. L’ha mandato Romeo. Ora dovremo far-

ci spiegare tutto quello che è successo.»«Dio sia lodato!» Mireja scoppiò in un pianto liberatorio e

si mise in ginocchio ad abbracciare il bimbo. Kuma, non sapendo come comportarsi, rimase immobile

guardandomi da sopra la spalla della ragazza con un’espres-sione impaurita.

«Sta bene? Ti ha detto perché non torna? Dov’è ora?» lechiese lei, con la sete micidiale dell’amore e della speranza.

«Tu Mireja. Lui ha detto tu sei bella, sei buona e vuole ab-bracciarti. Questo ha detto. Ha detto forse arriva presto. Que-sto a lui» indicò me «Di prepararsi per lavoro.»

«Ma dov’è ora? Non sai spiegarlo?» chiese Mireja al po-vero ragazzo preso d’assalto dai nostri sguardi e dalle nostredomande.

«Certo. Lui è giungla, al mio posto, con soldati.»«Quali soldati?» incalzò la ragazza.«Soldati contro Museveni. Museveni è male, cattivo. Loro

combattono contro di lui.»

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Museveni era il dittatore dell’Uganda e i soldati di cui par-lava il ragazzo erano probabilmente i ribelli che dissanguava-no il nord del paese.

Mireja cominciò a camminare su e giù per la stanza, in-quieta e spaventata per quella notizia così imprevedibile.

«Hai qualcosa da mangiare da dare al ragazzo?» le chiesiper distrarla un poco.

Lei si portò verso la cucina senza dire una parola. Feci sedere Kuma e aiutai Mireja a portargli acqua e cibo.

Mentre il giovane africano si sfamava voracemente, Mireja midisse che voleva raggiungere Romeo nelle foreste del nord.

Non le importava niente del lavoro, della città, nemmenodella sua stessa vita. Doveva raggiungere Romeo a qualunquecosto.

«Devi avere fiducia, ha detto che tornerà presto. Non puoipartire così e andare incontro a qualcosa che non conosci mi-nimamente. Dove andresti, anche ammesso che Kuma ti pos-sa portare da lui? In un covo di soldati? Hai idea della fine chefaresti? Quelli stuprano ogni donna di ogni villaggio che sac-cheggiano e tu vuoi andare da Romeo, in mezzo a loro!»Esclamai tra l’arrabbiato e il preoccupato.

«Non importa, lui saprà tenermi al sicuro.» cominciò dinuovo a piangere.

Riflettei un istante.«Facciamo un patto. Aspettiamo un’altra settimana, poi, se

non sarà ancora tornato, partiremo insieme.» Non seppi mai per quale motivo le concessi questa speran-

za. Non avevo nessuna intenzione di andare allo sbaraglio ver-so l’ignoto, ma non sopportavo di vederla piangere.

Fortunatamente di lì a quattro o cinque giorni le mie pre-ghiere furono esaudite e Romeo tornò in città.

Kuma rimase con me e si trovò così bene che iniziò ben

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presto a seguirmi in ogni luogo, anche al lavoro. Era un ra-gazzo sveglio, curioso e dinamico. Era un uomo, perché eraquesto che aveva dovuto diventare per sopravvivere, ma lasua età, qualche volta, riusciva ad emergere dalla fredda co-razza di adulto che gli era stata costruita intorno.

Mi abbracciava quando gli facevo dei complimenti o quan-do lo facevo ridere. Una sera si addormentò appoggiato allamia coscia mentre leggevo il giornale seduto in poltrona. Siera inginocchiato per terra,cercando di decifrare le figure del-la prima pagina, ma aveva desistito dopo pochi secondi e ave-va appoggiato la piccola testa sulla mia gamba addormentan-dosi lentamente. Si trattava di residui di un’infanzia rubata, dinecessità che non erano state soddisfatte e che avrebbero se-gnato la sua vita.

Mi commossi e rimasi immobile finchè lui si svegliò e miguardò con quel suo sorriso carico di dolore e di paura.

Romeo tornò di mattina, mentre io e Kuma eravamo incantiere.

Lo incontrammo soltanto al ritorno a casa, per cena. Lui eMireja ci stavano aspettando seduti sulle scale uno di fiancoall’altra, vicini e innamorati come non mai.

La ragazza era raggiante, sorridente e piena di vita. Ab-bracciava il suo principe come se temesse di perderlo di nuo-vo da un momento all’altro.

Kuma corse incontro al suonatore non appena lo vide e glisaltò al collo. Io lo salutai con meno veemenza, ma con altret-tanta felicità.

Entrammo in casa e cenammo tutti insieme, come se fos-simo una variegata, insolita e variopinta famiglia.

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CAPITOLO 9

Romeo cominciò a spiegare ciò che l’aveva portato a scom-parire per quel breve periodo senza che nessuno chiedessenulla. Mireja era troppo felice di vederlo per chiedergli subitodelle inutili spiegazioni e io non avevo il coraggio di farlo perlei, correndo il rischio di rovinare quel momento speciale.

«Sapete che ho viaggiato molto,» disse «ma amo l’Africapiù di ogni altro continente.»

Fino a qui non c’era niente di preoccupante e rimasi quasideluso da questa introduzione, dopo essermi aspettato chissàquali sorprese.

«Questo amore nasce dal fatto che l’Africa è stata la metadell’ultimo viaggio compiuto con mio padre.» Guardò negliocchi Mireja e pensai che quello sguardo fosse un modo perchiederle scusa di non avergliene mai parlato prima. Ma nonne ero sicuro.

«Avevo quindici anni. Lui era un artista con la passioneper la poesia e per la musica. Mi insegnò a suonare la chitar-ra quando avevo quattro anni. Questo strumento è il ricordopiù caro che ho.» Si voltò verso la poltrona, dove l’imputatogiaceva immobile, fissandoci. Guardò quel cimelio così pie-no di ricordi e così impregnato di significati.

Io avevo sempre considerato la sua chitarra come un sem-plice assemblamento di pezzi di legno e corde. Ora, invece,mi rendevo conto che era molto di più, qualcosa di molto piùprofondo e importante. Mi sentii in colpa.

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Romeo sospirò e si voltò di nuovo verso il centro del tavolo.«Mio padre era legato a questa terra. Amava i sottomessi,

si sentiva uno di loro, credo. Per questo scriveva delle ingiu-stizie e dei soprusi che i poveri subiscono. L’Africa rappre-sentava tutto ciò che lui voleva cambiare.

Non ho mai conosciuto mia madre, non so perché se neandò e non m’importa più, ormai. Vivevo con mio padre equando ebbi dieci o undici anni cominciammo a viaggiare.Era una vita che piaceva ad entrambi.

Ci trovammo a passare per il nord dell’Uganda proprioquando scoppiò la rivolta dell’LRA, lord’s resistence army,nel 1987»

Museveni aveva preso il potere con la forza in quell’anno.I soldati dell’LRA, a lui ostili, si nascondevano nelle forestee nei luoghi meno accessibili nel sud del Sudan.

Museveni dava la caccia a questi ribelli che volevano isti-tuire un governo basato sui dieci comandamenti biblici, manon poteva oltrepassare i confini con il Sudan, anche perchéquesto paese, a sua volta, aveva perso il controllo della situa-zione interna, a causa delle discordanze, poi diventate guerracivile, tra i mussulmani arabi del nord e i cristiani neri del sud.Questi cristiani proteggevano e nascondevano i ribelli dell’U-ganda, perché, in qualche modo, la loro era una causa comune.

«Arrivammo nel nord-Uganda passando per il Congo.»continuò Romeo

«Eravamo diretti in Kenia. L’Uganda era solo un passag-gio obbligato. Viaggiavamo a piedi, perché, diceva lui, que-sto è il modo migliore per conoscere a fondo un paese.

Arrivammo in un villaggio isolato di pastori poco primache l’LRA lo attaccasse. È cambiato poco da allora. I ribelliuccidevano gli adulti, stupravano le donne, rapivano i bambi-ni. Un copione collaudato e recitato centinaia di volte.

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I piccoli venivano addestrati e obbligati a combattere perla resistenza, mentre le ragazzine venivano usate come schia-ve sessuali, passatempo per i ribelli nascosti nelle foreste. Ipastori del villaggio vennero trucidati. Mio padre ed io ci tro-vammo in mezzo a quell’inferno senza avere il tempo di fug-gire o di capire.

Ed eravamo bianchi. Io venni trascinato nel cuore dellaforesta insieme agli altri ragazzini, verso il confine. Mio pa-dre non fu così fortunato.

Arrivati nel fitto della giungla cominciai a urlare il miodolore e la mia paura. Uno degli uomini che ci stavano gui-dando verso il confine mi diete una botta sulla nuca con il cal-cio del fucile, facendomi svenire. Per il tempo che rimasi in-cosciente sentii nelle orecchie il mio stesso grido, che torna-va a cadenza regolare, ogni volta più atroce, ogni volta più do-loroso. Poi mi svegliai sulle spalle di uno dei ribelli.

Venni appoggiato a terra per tornare con gli altri, ma co-minciai a correre non appena i miei piedi toccarono il terric-cio umido della foresta. Riuscii a sgusciare fuori dal gruppoe a nascondermi tra gli alberi. Due o tre uomini mi cercaronoper qualche minuto, poi raggiunsero il gruppo, mandandomial diavolo. Cominciai a correre verso il villaggio dove oramainon c’erano altro che cadaveri. Trovai il corpo di papà e mi cisdraiai sopra sconvolto dal dolore.»

Si fermò, come ad onorare il ricordo del padre. Non sape-vo che dire. In certe situazioni si cerca in tutti i modi di tro-vare qualcosa da dire, qualcosa che non sia banale o sconta-to, e non ci si rende conto che l’unica cosa non banale è il si-lenzio.

«Mi dispiace. » Gli dissi commosso.Lui mi guardò, carico di un dolore che non avrebbe mai

potuto superare completamente.

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«È passato molto tempo.» rispose cercando di non pensarci.«Kuma era un bambino soldato.» riprese «Ce ne sono

molti come lui.»Kuma sorrise, sentendosi chiamato in causa, e Romeo gli

accarezzò la testa riccioluta.«È per loro che sono dovuto partire all’improvviso. I ribel-

li hanno bisogno di denaro e qualche volta vendono libertà incambio di un riscatto. Mi è capitato di scoprirlo per caso dauna delle loro spie che vivono in città. Ho fatto un’offerta emi è stato detto che nessuno doveva venire a saperlo fino a chela cosa non si sarebbe conclusa. Mi avrebbero trovato loro, dis-se la spia, e così è stato. Mi hanno trovato e mi hanno costret-to a partire subito per lo scambio.»

«Non ti sei fidato di me?» chiese Mireja con un filo di voce.«Ho cercato di tenerti lontana dal pericolo.» rispose Romeo.Ci fu un attimo di pausa prima che ponessi anch’io una

domanda al poeta:«Perché sei stato via così a lungo? Sono passate quasi due

settimane.» «All’andata non avevamo mezzi di trasporto. E poi ho chie-

sto di liberare Kuma prima di consegnare il denaro. Quando hovisto con i miei occhi il ragazzo vicino a te, libero, siamo tor-nati al nord per risolvere la questione.»

Mireja, a quel punto, dovette lasciarci. Romeo rimase an-cora un po’con me e Kuma prima di raggiungere la sua fidan-zata.

Fu allora che mi confessò di voler liberare altri bambini.«Non puoi abbandonare quella povera ragazza così un’al-

tra volta. Devi parlarne anche con lei.» Gli dissi quasi fossiun genitore ferito.

«Non voglio sparire, voglio portarla con me. E vorrei chevenissi anche tu.» mi rispose con una leggerezza disarmante.

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«A che ti servo io? » domandai sorpreso e con un filo diironia.

«Tu sei la mia merce di scambio.» sorrise.Non capii.«Quelli vivono in baracche che cadono a pezzi per un tem-

porale. Ho visto dove stanno e tu puoi fare di quel posto unafortezza.»

«Per contribuire al massacro?»«Per salvare degli innocenti.»«E condannarne degli altri.» esclamai.Romeo prese Kuma per un braccio, lo guardò e gli chiese:«Hai mai visto i tuoi genitori? Sai dove ti hanno rapito?»Niente.«Hai fratelli o sorelle?»Nulla.«Questi sono bambini senza sorriso. Non hanno mai avuto

un’infanzia. Non sanno cosa voglia dire essere bambini.» al-zò il tono della voce.

«Crescono nella convinzione che non esiste nessuna alter-nativa alla strada che i ribelli hanno tracciato per loro. Cre-scono ammazzando persone che potrebbero essere i loro ge-nitori e devono farlo per non essere ammazzati loro stessi!»

Lasciò il braccio di Kuma che tornò a sedersi con il visoimpaurito.

Rimanemmo occhi negli occhi per alcuni istanti, finchèRomeo continuò:

«Per loro c’è un’alternativa.» la sua voce ora era un mi-scuglio di rabbia e speranza.

Si alzò, accarezzò il piccolo per rassicurarlo e uscì per rag-giungere Mireja dicendomi:

«Pensaci, non avrai mai più un’opportunità come questa.»Non trovai modo per rispondergli. Non credevo che aves-

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se ragione, ma quei bambini, forse, potevano essere salvati. Forse non era giusto dare un aiuto ai ribelli, ma era più giustolasciare che quei piccoli soldati rimanessero dove stavano?

Fu una delle scelte più difficili della mia esistenza. Non si trattava di scegliere tra giusto o sbagliato. Non ave-

vo idea di cosa fosse giusto. Romeo mi aveva messo in unacondizione per cui anche non scegliere voleva dire schierar-si. In una situazione simile sono molti i problemi che ci si po-ne. Innanzitutto, se non avessi accettato, avrei potuto conti-nuare a vivere senza rimorsi? E se invece avessi accettato, acosa sarei andato incontro? Avrei dovuto lasciare il lavoro,perché per costruire qualsiasi cosa è necessario del tempo. ERomeo parlava di costruire un forte. In un caso e nell’altro lamia vita doveva subire dei cambiamenti importanti.

Kuma propose di uscire. Era ciò di cui avevo bisogno an-ch’io.

Com’era prevedibile, la sera calda e profumata mi convin-se che Romeo aveva ragione.

Avrei perso il lavoro e la mia vita sarebbe stata cambiataradicalmente. Ma avevo l’opportunità di fare qualcosa di cuisarei andato fiero per il resto dei miei giorni. E non volevoavere rimpianti.

Kuma, che era rimasto turbato dal tono di Romeo, mi con-vinse a raggiungere gli altri al bar. Il nostro vagare ci avevaportati piuttosto fuori rotta, perciò impiegammo più di mez-z’ora per raggiungere Romeo e Mireja.

Salutai il mio amico che si trovava in un angolo buio conun cenno del capo. Al suo fianco stava la chitarra, silenziosa.

«Mi dispiace.» disse prima ancora che potessi fiatare.«Avevi ragione.» risposi altrettanto prontamente.Sorrise. Invitò Kuma a sedersi al suo fianco. Gli diede due colpet-

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ti sulla spalla e poi si mise in guardia. Il sorriso del povero ra-gazzo esplose come un vulcano. Ingenuo e infantile. Comin-ciò a colpire a sua volta le spalle del suo eroe che ad ogni col-po rispondeva con smorfie di dolore. Al termine dell’improv-visata colluttazione Romeo afferrò Kuma per il collo e lo tiròverso di sé sfregandogli il pugno sui folti capelli neri. E il pic-colo cominciò a ridere fragorosamente e a implorare pietà.

Quella risata mi spezzò il cuore. Aveva racchiusi dentro disé significati immensi. Era la felicità spensierata di un bam-bino che vede i genitori fare la pace dopo un litigio. Tutta lapreoccupazione che prima lo stringeva in una morsa era crol-lata di colpo. Era un disperato grido di gioia, una richiestad’amore. Era approvazione per quel contatto amichevole cheforse, prima d’allora, prima di incontrare Romeo, non l’ave-va mai sfiorato. Ed ecco che, all’improvviso, sotto quel rudecontatto, il piccolo Kuma tornava ad essere bambino. Non piùuomo e non più soldato. Soltanto quello che era e che nonaveva mai potuto essere. Un bambino di dodici o tredici anni.Come avevo potuto pensare di non aiutare quei ragazzini?Kuma rideva mentre io mi sentivo sporco e volgare.

«Quando partiremo?» gli chiesi dopo aver preso posto ac-canto a lui.

«Devo parlarne a Mireja. Il più presto possibile, comun-que.»

Sorrise di nuovo. Prese la chitarra e cominciò a pizzicarne le corde con la

sua consueta grazia ed eleganza. Il locale si zittì all’improv-viso. Kuma guardava affascinato il suo grande amico e lui, ilpoeta, chiuse gli occhi lasciando che le sue mani rincorresse-ro la fantasia.

La musica si dilatò in una lenta progressione sempre piùviolenta che durò alcuni minuti, fino all’apice delle capacità

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tecniche di Romeo. Le note scomparvero insieme alle ditache le producevano. Rimase la musica. Intensa, fitta, vivace,eppure aggraziata, sobria, equilibrata.

Chiusi gli occhi e mi concentrai su ciò che stava sgorgan-do generosamente dalla fantasia di Romeo. Tutto il resto scom-parve. Durò alcuni secondi, forse un minuto. Poi tutto rallen-tò, le note tornarono ad essere distinte, il motivo tornò ad es-sere rintracciabile.

Riaprii gli occhi, emozionato, e cercai quelli di Romeo. Liteneva ancora chiusi, mentre la musica rallentava gradual-mente. La sua bocca era piegata in un sorriso di soddisfazio-ne profonda, quasi estatica.

Anche Mireja stava osservando il suo amato, rapita daquell’arte incredibile che lui sapeva giostrare a meraviglia.

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Capitolo 10

Una decina di giorni dopo io, Romeo e Kuma ci mettem-mo in marcia. Decidemmo quasi all’unanimità di rinviare lapartenza di Mireja. L’unica contraria a questa scelta, ovvia-mente, era stata lei. Ma con qualche buona parola riuscimmoa convincerla ad assecondarci.

Non conoscevamo esattamente ciò che ci aspettava, e pri-ma che Mireja ci raggiungesse, dovevamo fare la nostra pro-posta ai ribelli. Avrebbero potuto ucciderci senza pensarci unistante. Anzi, col passare del tempo, mi convincevo sempre dipiù che quella sarebbe stata proprio la nostra fine. Ma ormaiero imbarcato e non potevo saltare in mare.

Ci dirigemmo verso nord e in meno di quattro ore, attra-verso strade sterrate simili a sentieri, raggiungemmo il confi-ne con il Sudan.

Kuma ci consigliò di lasciare la jeep in un luogo piuttostoisolato anche se, disse, probabilmente i ribelli avrebbero tro-vato il modo per portarsela via. Ma non avevamo scelta, do-vevamo proseguire a piedi poiché strade percorribili in auto,non ce n’erano più.

Ci stavamo addentrando nel regno dei ribelli dell’LRA. Ea loro le strade non facevano comodo. Vivevano nascosti nel-le foreste, al riparo di quella natura incontaminata che fiorivarigogliosa nell’umidità equatoriale.

Ci incamminammo nel tardo pomeriggio e Kuma ci face-va da guida con passo sicuro e deciso. Aveva passato la sua

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infanzia tra quei sentieri. Ora il bambino era di nuovo torna-to a rifugiarsi nelle profondità più recondite del suo io eaveva lasciato posto al soldato, all’uomo pragmatico e deter-minato.

L’avanzata procedeva lentamente a causa degli zaini checontenevano tutto ciò di cui avremmo potuto avere bisogno.

Al calare del sole Kuma ci fermò in riva ad un fiume.Disse che si chiamava Nilo Alberto. Io lo trovai un nomebuffo, ma non ne feci parola con nessuno.

Smise lo zaino e ci disse che dovevamo accamparci lì, perquella notte, perché non avremmo potuto raggiungere il cam-po dei ribelli prima di un paio d’ore.

Camminare nel buio era troppo pericoloso, le sentinelle ciavrebbero freddati lungo il cammino.

Montammo la tenda e accendemmo il fuoco. Le fiammeavrebbero tenuto lontano gli animali, ma avrebbero anche po-tuto attirare i ribelli. In fondo non eravamo molto lontani daloro e Kuma sostenne che spesso i soldati compivano ispezio-ni notturne nella foresta per anticipare eventuali spedizionimilitari governative. Ma dopo aver discusso un poco, ci ren-demmo tutti conto di non avere scelta. Le bestie feroci ci a-vrebbero sbranato, mentre con i ribelli avremmo almeno po-tuto avere la certezza che, se non ascoltati, saremmo comun-que stati capiti. Dovevamo scegliere tra la speranza di essereascoltati dai soldati o quella di non essere scovati da qualcheanimale feroce. Scegliemmo di fidarci degli esseri umani, purconoscendo gli innumerevoli rischi che ciò comportava. Gliuomini avrebbero potuto essere molto più feroci delle tigri.

La luna piena rischiarava quasi a giorno lo spiazzo incan-tato che si affacciava sul lento deflusso del fiume. La giunglaera distante pochi metri dalla nostra tenda e i fitti rami degli

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alberi proiettavano le loro sinistre ombre sul prato che ci ospi-tava. Ciononostante sembrava che il luogo intorno a noi fosseun’isola estranea alla natura prepotente che dominava la fore-sta. Era come se gli alberi, le piante grasse, e il terriccio umi-do, avessero incontrato una barriera invalicabile oltre la qualenon erano riusciti ad espandersi. L’erba dello spiazzo in cui ciaccampammo era delicata, non più alta di qualche centimetroe di un verde vivo che concedeva pace e sicurezza ai suoi mi-seri ospiti.

Il sole aveva ormai lasciato il posto ad una notte chiara, an-che se la luna, magica sorgente di quella luce fatata, si na-scondeva al di sotto della vegetazione. Kuma si addormentòvicino al fuoco in capo ad una mezz’ora, mentre io e Romeorimanemmo svegli per molto tempo ancora.

Lui soddisfaceva le sue prioritarie necessità di poeta cre-ando i suoi soliti quadri musicali, mentre io non riuscivo aprendere sonno a causa di tutti i pensieri e le preoccupazioniche mi rendevano nervoso. Gli chiesi se non avesse nemme-no un po’ di timore.

«Ho paura di fallire.» mi rispose facendomi sentire un vol-gare egoista che si preoccupava soltanto della propria pelle.

Lo interrogai su alcune questioni che ancora non mi eranochiare, mentre lui continuava a dipingere l’aria intorno a noicon le sue pennellate di colori sonori.

«Come faremo a costruire un forte? Servono un sacco disoldi.» Mi aveva assicurato di avere dei risparmi, ma nonavevo idea di quanto fossero sostanziosi.

«Non ora, ti prego…» mi disse con un filo di voce. Serrò gli occhi lucidi e sognanti piegando la testa verso il

cielo, mentre la chitarra vibrava e si muoveva sotto le suemani come posseduta dal desiderio irrefrenabile di lui che cre-sceva verso il cielo, insieme al suono, insieme al fuoco scop-

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piettante, insieme a noi, avvolti da quel pastrano di note inde-scrivibili.

Cercai di lasciarmi trasportare da lui e da ciò che stava for-giando con le sue mani, ma la preoccupazione che mi strin-geva il cuore era troppo intensa per concedermi la leggerezzanecessaria.

Lo scrutai affascinato per quel suo potere sensazionale diessere al di sopra del mondo e della realtà.

La musica rallentò lentamente, fino a spegnersi nelle suemani. Aprì nuovamente gli occhi.

«Ho dei risparmi e so come procurarmi del denaro. Nonpreoccuparti.» rispose alla mia domanda che ormai sembravaessere caduta nel nulla.

Ci ritirammo nella tenda per ripararci dalle zanzare. At-traverso il tessuto sottile del nostro magro riparo, scorgevamole ombre dei rami degli alberi mossi dalla brezza che soffia-va in riva al fiume. Erano movimenti veloci, talvolta, quandouna folata più energica rispetto alle altre faceva sentire il suosibilo, sembrava che quelle ombre avessero una voce, un’ani-ma, una realtà diversa dal loro banale gioco di luce.

La tensione che avevo covato vicino al fuoco e nei giorniprecedenti mi impedì di prendere sonno, ora che eravamoquasi arrivati alla svolta. Mi sdraiai con la testa appoggiata sul-le mani incrociate, vagando nei miei pensieri. Romeo, inve-ce, si addormentò di colpo e accompagnava il leggero russa-re di Kuma con il suo respiro profondo.

Rimasi immobile per un po’, finchè sentii un rumore pocodistante, come se un passo silenzioso avesse rotto un ramo-scello rinsecchito per terra. Mi alzai di colpo, mettendomi asedere, cercando di scrutare attraverso la tenda per capire, tra-mite le ombre, se la mia preoccupazione fosse fondata. Ro-meo si svegliò.

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«Che c’è?» mi chiese con la voce contratta dal sonno. «Ho sentito il rumore di un passo.» Risposi. «Sarà stato qualche animale selvatico.»«Non è che questo mi tranquillizzi.» risposi offeso come

un bambino, rimettendomi nella mia posizione riflessiva. Si alzò e uscì per ravvivare la fiamma. «Hai bisogno di riposo. Dovresti dormire.» Mi sussurrò

rientrando.Prese di nuovo posto sulla sua stuoia, mentre io rimasi a

pensare per qualche minuto. «Pensi che ci ammazzeranno come se niente fosse?» Gli

chiesi.Non mi rispose. Alzai un poco la testa per guardarlo e vidi

il movimento del suo corpo che si gonfiava e sgonfiava alritmo di un profondo respiro fin troppo indicativo.

«Accidenti!» pensai ad alta voce. Appoggiai di nuovo la testa sulle mani intrecciate e cercai

di imitare il mio compagno, ma senza successo. Ogni picco-lo rumore mi faceva sobbalzare. Rimasi con gli occhi spalan-cati per molto tempo senza avere altro da fare che seguire lalenta, inutile corrente dei miei pensieri.

Avevamo il diritto di fare ciò che stavamo facendo? Forsequegli uomini, quei ribelli, come troppo spesso li chiamava-mo, non erano peggiori degli studenti che negli anni sessantae settanta del XX secolo avevano rivoluzionato il concetto dilibertà. Forse non erano peggiori di Gandhi, che aveva lotta-to per l’indipendenza del suo paese. La storia non esisterebbesenza rivoluzioni. Se non ci fossero state battaglie o protesteil nostro mondo non esisterebbe neppure. Le battaglie del pas-sato avevano portato una buona parte degli uomini ad esserepadroni della propria vita. Forse quei ragazzini che tanto vo-levamo salvare non avevano bisogno di noi. Era possibile che

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fossero felici della loro vita. Una vita fatta di sofferenza e dicrudeli realtà, ma anche di ideali, di speranze.

Sentii un rumore diverso da quello che provocava il ventosoffiando tra i rami degli alberi vicini.

Era un passo. Un’impercettibile camminata tra l’erba dellariva, ne ero sicuro. Alzai lentamente la testa per vedere conl’aiuto del riflesso lunare se ci fosse qualcosa o qualcuno vici-no a noi. Mi guardai intorno senza poter notare nulla di strano.

Rimasi ad ascoltare attentamente, trattenendo il respiro,ma non udii più nulla, nè passi silenziosi né ramoscelli spez-zati. Mi accomodai nuovamente con le mani dietro la nuca eripresi il filo dei pensieri che avevo perso poco prima.

In fondo noi non volevamo arrestare una rivoluzione cheavrebbe potuto avere anche effetti ammirevoli. Avevamo unaproposta da fare e i diretti interessati avrebbero scelto se con-siderarla oppure no. Romeo voleva soltanto dar loro nuovispunti di riflessione. Non eravamo lì per discutere la giusti-zia di nessuna causa, solo per far riflettere sui metodi.

All’improvviso compresi l’inutilità di tutti quei pensieri.Di li a poche ore, addirittura a pochi minuti, sarei potuto esse-re morto. Paradossale, ma mi tranquillizzai.

A pochi metri da un’alba che già iniziava a colorare il cie-lo notturno, la stanchezza prese il sopravvento e mi addor-mentai profondamente sollevato.

Fui svegliato da Romeo poco dopo. Avevo perso comple-tamente la cognizione del tempo, ma il sole non era ancorasorto completamente, così potei dedurre di aver dormito pocopiù di un’ora.

Romeo mi scosse lentamente, cercando di strapparmi aldolce sonno che mi aveva fatto dimenticare tutte le preoccu-pazioni. Gli furono necessari alcuni secondi e alla fine, un po’intontito, compresi di essere sveglio.

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«È il momento della verità.»Mi disse. Subito dopo mi indicò delle figure che si muovevano in-

torno alla tenda, contro luce. Mi guardò e si mise in ginocchio ad aprire la lampo che ci

separava da quegli uomini. Il rumore della cerniera attirò l’at-tenzione di tutto il gruppo, cinque o sei persone, che si con-centrò sull’apertura della tenda.

Romeo si affacciò e trovò quattro fucili puntati sul suo na-so, pronunciò alcune parole in una lingua che non conoscevoe venne trascinato fuori da due uomini vestiti con abiti mili-tari strappati in una dozzina di punti.

Subito dopo toccò a me, e poi a Kuma. La presenza del ra-gazzo li colse di sorpresa.

Evidente che lo conoscessero, perché gli rivolsero alcuneparole che non compresi.

Romeo continuava a parlare in quella lingua sconosciuta,ma sembrava tranquillo. Il tono della sua voce non si eranemmeno alzato, pronunciava le parole con calma e fissavanegli occhi quello che sembrava essere il capo del gruppo.

I due uomini che lo tenevano per le braccia stavano perzittirlo, ma l’uomo a cui si rivolgeva Romeo ordinò loro dilasciarlo continuare.

Il chitarrista finì, e il capo scoppiò a ridere. Romeo pro-nunciò ancora alcune parole, pretendendo con il suo tono fer-mo l’attenzione dell’uomo, che smise di ridere e rispose conun cenno della mano, come a invitare il mio amico a fare ciòdi cui stava parlando.

I due neri che gli reggevano le braccia guardarono il lorocapo con un po’ di stupore in volto e poi sorrisero, lasciandoandare il mio compagno e mettendosi di fronte a lui. Nel frat-tempo i miei due carcerieri si dissero qualcosa e scoppiaronoanch’essi in una risata. Romeo cominciò a muoversi in tondo,

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spostandosi verso il fiume, mentre i suoi due avversari rima-sero immobili, spostando soltanto il capo per non perderlo divista.

All’improvviso uno di loro scattò verso il mio amico sfog-giando una rapidità impensabile per un uomo della sua staz-za. Romeo lo fermò, opponendo le sue spalle a quelle pos-senti dell’avversario.

Subito dopo il nero fece partire un pugno che avrebbe do-vuto colpire allo stomaco il chitarrista, ma quest’ultimo ave-va già preso il largo e con un balzo leggero si era portato a unpaio di metri di distanza, riprendendo, in un solo istante, an-che il suo girotondo intorno ai due ribelli e al loro capo. Ku-ma pronunciò altre sconosciute parole senza avere un desti-natario preciso.

Romeo, rispose con la sua voce tranquilla e la sua espres-sione rilassata e sicura. Il capo rimase a guardare, incuriositodalla scena che gli si svolgeva davanti agli occhi, finchè il chi-tarrista sorprese tutti voltando le spalle e camminando versola tenda.

I miei occhi andarono subito a cercare l’espressione del-l’uomo che, seduto sopra un sasso,aveva assistito alla pessi-ma prova dei suoi bravi. Sembrava divertito.

I due ragazzoni, però, non accettando il rifiuto del poeta loattaccarono alle spalle. Romeo si voltò appena prima di esse-re raggiunto dai corpi lanciati dei due neri e, per non so qualediavoleria, quando il groviglio di corpi si fermò nell’erba, Ro-meo era impegnato nel piegare un braccio per ogni avversa-rio tra le sue gambe in un modo che non capii, ma che dove-va essere parecchio doloroso.

I due neri si contorcevano al suolo gridando parole incom-prensibili e Romeo tirava ogni secondo più forte, facendoseguire ogni secondo urla più dolorose.

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L’uomo seduto sopra il sasso, ora, guardava con la boccaaperta, visibilmente sorpreso. Romeo abbandonò la presa, peril sollievo delle sue vittime, e si alzò, dirigendosi nuovamen-te verso la tenda, disinteressandosi di tutto il resto.

Anche l’uomo che stava sul sasso si alzò. Gli si fece ac-canto. Romeo chiese all’uomo che aveva di fianco, questa vol-ta in inglese, di ordinare ai suoi di lasciarmi andare, poi co-minciò a smontare il nostro rifugio notturno. Il capo fece uncenno agli uomini che mi tenevano e venni liberato.

Smontammo la tenda e ci preparammo per partire mentreRomeo chiedeva ai soldati di accompagnarci nel loro nascon-diglio.

Il loro capo sorrise, ma prima che potesse pronunziare an-che una sola parola, Kuma intervenne:

«Lui dice costruisce un forte se lasciate stare bambini.» Il capo si tolse il sorriso dalle labbra e guardò il chitarrista

che annuì silenziosamente.«Allora potete venire. Se avete armi datele a noi.» disse il

soldato.«Non armati.» intervenne di nuovo Kuma.Il soldato ordinò ai suoi uomini di controllare gli zaini per

accertarsi che Kuma avesse detto la verità. Finita la perquisi-zione i neri si incamminarono nella foresta e noi li seguimmoa distanza ravvicinata.

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CAPITOLO 11

In poco più di un’ora giungemmo al loro nascondiglio. Visi accedeva attraverso un sentiero che vagava tortuoso nellaforesta e conduceva ad una specie di rilievo collinare. Tuttosi presentava alla vista in un solo istante, quell’istante che se-parava il cammino faticoso tra i rami degli alberi e il dispie-garsi di quell’agglomerato di capanne cadenti.

Rimasi sorpreso nel vedere tanto movimento in un luogocosì isolato e così piccolo.

Una trentina di capanne erano ammucchiate nel piccolospazio di fronte a noi che i ribelli erano riusciti a sottrarre allanatura. Tra quelle brulicavano decine e decine di uomini,ognuno con una propria arma bene in vista, ognuno indaffa-rato. C’era qualcuno che trasportava assi e attrezzi vicino allaforesta, sulla nostra sinistra, dove altri uomini stavano ta-gliando degli alberi per far posto a nuove dimore.

Alcuni soldati erano radunati vicino a quello che sembra-va una specie di deposito, proprio di fronte a noi. Ricevevanodalle mani del piccolo africano che stava sulla porta di quel-la baracca un po’ più grande rispetto alle altre delle munizio-ni, per quanto avevo potuto vedere e intuire.

Qualcuno dormiva, o così sembrava, fuori dalle capanne,qualcun altro affilava coltelli e sciabole, altri ancora pulivanoi fucili. Ognuno sembrava avere un compito preciso all’inter-no di quella piccola comunità. Vidi molti che si scambiavanobattute e che ridevano, altri che semplicemente parlavano

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tranquillamente tra di loro. Qualcuno era intento nel propriolavoro e fischiettava.

Circa un terzo dei soldati che vidi erano bambini.Passammo di fianco al deposito di munizioni e fummo con-

dotti in una capanna che rimaneva un po’ isolata rispetto allealtre che sorgevano a non più di due metri l’una dall’altra.

Il capo del gruppo che avevamo incontrato ci disse di a-spettare fuori, poi entrò aprendo una piccola porticina chesembrava dovesse cadere a pezzi da un momento all’altro.Per non picchiare la testa, il nero, dovette abbassarsi ed entra-re quasi in ginocchio.

Rimanemmo fuori, soli, mentre i soldati con i quali era-vamo arrivati si mescolavano agli altri abitanti di quello stra-no, piccolo villaggio. L’uomo uscì dal capanno seguito da unaltro nero, ancora più grande di lui.Quest’ultimo esordì intono seccato, con una voce molto profonda e bassa, chieden-doci il motivo per cui eravamo lì. Si esprimeva in un ingle-se discreto.

«Vogliamo farvi una proposta.» disse Romeo. «Che genere di proposta?» chiese l’uomo.«Uno scambio.» rispose Romeo, semplicemente e seria-

mente. «Sei misterioso, piccolo uomo bianco.» Il gigantesco ra-

gazzo, che non doveva avere più di trent’anni, sfoggiò un sor-riso fatto di buchi neri e denti ancora più neri.

«Seguitemi.» concluse.Ci trovammo nell’oscura capanna da dove prima erano u-

sciti i due soldati. L’uomo che qui ci aveva condotto, sembra-va sentirsi a proprio agio, molto più che all’aperto. Si sedettesu di una sedia senza preoccuparsi di noi tre che rimanemmoin piedi con gli zaini sulle spalle.

«Come va Kuma? Che fai qui?» esordì il nero.

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«Bene capo. Lui è uomo che ha pagato per me.» indicòRomeo «Portato qui loro perché vogliono aiutarvi.».

«Ne sei sicuro?»«Sicuro.»Kuma si tolse lo zaino dalla schiena e lo appoggiò sul pa-

vimento, dopodichè ci invitò a fare lo stesso.«Non ho avuto a che fare con te, l’altra volta. Come ti

chiami?» esordì Romeo.«Che t’importa?» rispose il ragazzone che sembrava di-

verso rispetto a prima, quando eravamo all’esterno. Apparivameno sicuro di sè in quel momento. Nella sua resistenza inu-tile, insensata e disperata nel rivelare il suo nome, mi avevamolto colpito. Mi parve un uomo solo e stanco.

«Andiamo,» riprese il mio amico «cosa pensi di ottenerenascondendoci il tuo nome?»

«I ragazzi mi chiamano Momo.» disse con aria dimessa. «Bene Momo, io sono Romeo.» replicò il chitarrista. Subito dopo mi presentai anch’io.«Allora, questa proposta?» andò immediatamente al sodo,

forse perché non voleva dover rivelare altro di sé.«Vogliamo che i bambini soldati vengano allontanati da

questa guerra.» disse Romeo, non meno diretto del nostroospite.

«Tutto qui?» chiese Momo sarcastico. «Tutto qui.» rispose il mio amico seriamente.«E cosa ci guadagno io?»«In cambio dei bambini costruiremo case e magazzini al

posto di queste baracche.» Momo si fece serio improvvisa-mente.

Si alzò in piedi e avvicinò i suoi occhi a quelli di Romeo.«Cos’è, uno scherzo? »«No.»

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Il grande uomo di colore voltò le spalle e si diresse di nuo-vo verso la sedia che lo aspettava vuota e triste a pochi passida noi.

«Lui costruisce case in città.» disse Kuma alludendo a me,cercando di dare un aiuto a Romeo.

Momo mi scrutò da capo a piedi. I suoi occhi erano seri,ma non mi parvero cattivi.

«E come farete a costruire case e magazzini qui?»«Con l’aiuto dei tuoi uomini.» disse il chitarrista.«Costruisce case in città…» mormorò Momo riflettendo.«Non mi convince.» concluse.Romeo si spostò verso la piccola porta che ci separava dal-

l’esterno, l’aprì e si affacciò sul rifugio dei soldati.«Avete bisogno di un riparo sicuro. Queste baracche non

lo sono e noi ti offriamo la possibilità di sostituirle con muridi pietra.»

«Le nostre baracche sono più che sufficienti. Siamo in Su-dan, non abbiamo nemici qui.» sbottò il capo, che si stavascaldando.

«Allora costruiremo da un’altra parte. In un luogo più co-modo per voi e per la vostra resistenza.» insistè Romeo.

«Non vogliamo andare da un’altra parte.» tuonò Momo ri-manendo seduto su quella sedia scricchiolante.

Romeo fece una pausa, richiuse lo sportello e si portò vici-no al nero. Questi lo fissava con furore.

«Cosa vuoi?» chiese infine il musicista.«Cosa volete voi?» Momo si alzò in piedi, sovrastando il

mio amico che non indietreggiò di un millimetro.«I bambini.»«Loro vogliono restare.» «Questa non è la loro guerra. »«E non è nemmeno la tua.» esclamò Momo che, adirato da

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quella discussione che sembrava toccarlo nel vivo dei suoisentimenti, estrasse la pistola che portava infilata nei panta-loni e la puntò alla fronte di Romeo.

«Non lo farai.» disse questi con un leggero sorriso spen-sierato sulla bocca.

Io cominciai a sudare freddo, mentre Kuma cercò di con-vincere il suo vecchio capo a mettere via l’arma, ma senzasuccesso.

«Perché non dovrei?» chiese Momo divertito. «Perché hai bisogno di noi. E sei stanco di uccidere.» Il ragazzone scoppiò in una fragorosa risata e abbassò la

canna della pistola. Sembrava cambiare umore in pochi istan-ti. Ora sembrava di nuovo tranquillo, mentre qualche secon-do prima era stato gonfio di rabbia.

«E tu che ne sai? » chiese tornando a sedersi sulla fidatasedia di legno scuro dopo aver infilato l’arma nei pantaloni.

«Sei forte e coraggioso, ma non sei cattivo. E nemmenostupido, altrimenti non saresti il capo.»

«E tu sei un tipo interessante.» sbiascicò sorridendo.«Allora, cosa vuoi per lasciarci i bambini?»Momo rimase per un po’ in silenzio.«Non lo so, devo chiedere ai miei compagni e decidere

con loro.» rispose infine.Si alzò nuovamente e ci chiese di seguirlo fuori dalla ba-

racca. Ci accompagnò alle nuove costruzioni che stavano sor-gendo sul limitare della foresta e ci spiegò che ogni giorno lefile dei ribelli si ingrossavano. La loro causa riceveva nuovalinfa vitale da giovani che provenivano dall’Uganda e crede-vano nella causa dei nostri ospiti. Credevano in uno stato fon-dato sulle verità e sulle regole dei dieci comandamenti.

Io dal canto mio pensai molte volte a come avrebbe potu-to essere uno stato così costruito. Era una bella utopia, per la

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pace che prometteva di far fiorire, ma non riuscii mai a crede-re in un progetto così in contrasto con la natura intrinseca del-l’animale umano.

Vagammo per l’agglomerato disordinao di capanne per ilresto della giornata, mentre Momo ci spiegava come si svol-geva la loro vita, quali erano i compiti delle persone che cipresentava e in che modo ognuno di loro contribuisse allacausa.

Giunse rapidamente la sera. Io Romeo e Kuma, che avevavisto e salutato molti dei suoi ex compagni di battaglia, ci se-demmo intorno al fuoco dove alcuni uomini stavano a discu-tere. Momo ci invitò tra loro.

Non sempre i ribelli si potevano permettere pasti comequello che offrimmo noi quella sera intorno al grande falòcon le nostre provviste. Eravamo in una ventina, forse di più,e non potemmo fare altro che condividere il nostro cibo contutti gli altri. Se non altro, in questo modo, ci conquistammoun briciolo di simpatia in mezzo al mare di ostilità che ci sen-tivamo addosso.

Accasciati insieme ai soldati ai piedi del giorno potemmoassistere ad una specie di consiglio militare. Momo radunavaintorno a sé dei sottufficiali che comandavano ognuno ungruppo più o meno esteso di uomini. Una sorta di gerarchiamilitare, insomma, anche se molto più elastica e malleabilerispetto a quella degli eserciti regolari.

Tutti questi capi ci accolsero con disprezzo dipinto sulvolto. Soltanto l’indiscutibile autorità di Momo ci permise diprendere parte a quel circolo privato.

«Non abbiamo bisogno di loro.» disse un piccolo uomocon una vistosa cicatrice sulla guancia destra. «Io dico di cac-ciarli dopo una buona lezione.»

«Noi non cacceremo nessuno.» proruppe Momo, imperio-

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so. «Questi uomini sono venuti in pace e in pace se ne an-dranno.»

«Dobbiamo solo decidere se accettare o no la loro propo-sta.» continuò un altro giovane soldato che sedeva vicino alcapo supremo e che sembrava essere della sua stessa opinione.

Romeo mi sussurrò che quest’ultimo era il soldato con ilquale aveva trattato per la liberazione di Kuma

«La loro proposta non vale niente, visto che nessuno vuoleandarsene.» insistè l’uomo con la cicatrice.

«Sentite,» intervenì Romeo «lasciamo che i ragazzi resti-no qui.»

I volti di quasi tutti i presenti si lasciarono andare in un’e-spressione di sorpresa sdegnata.

«Ma rimarremo anche noi.» continuò il musico. «Vi aiute-remo con i lavori del villaggio e voi, in cambio, ci concede-rete del tempo da passare con loro. Insegneremo loro ad esse-re veramente bambini.»

Gli uomini intorno a noi tornarono ad esprimere disprez-zo profondo nei nostri confronti. Il consiglio fu attraversatoda un brusio di ferma disapprovazione. Solo Momo, a giudi-care dall’espressione del suo viso, sembrava non esserci cosìostile. Anzi, credetti, forse a torto, ingannato dalla luce bal-lerina del fuoco, di notare un leggero sorriso sulle sue labbracarnose.

Romeo si portò alla bocca la borraccia dell’acqua, sorseg-giò per alcuni brevi istanti e infine concluse dicendo:

«E anche a voi, se lo vorrete.»Il vociare sommesso si interruppe e vivemmo nel silenzio

per alcuni lunghissimi secondi, finchè uno dei più anziani delgruppo, che sedeva vicino all’uomo con la cicatrice, rese pub-blico il pensiero della maggioranza del consiglio:

«Io credo voi bianchi pazzi.»

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«Cacciamoli via!» riattaccò lo sfregiato cogliendo l’assistal volo.

«Non cacceremo nessuno!» ribadì Momo che aveva presoin simpatia il mio amico. Egli intanto, che non aveva certobisogno di avvocati difensori, riprese la parola:

«Potete fidarvi. Nessuno di noi vuole questa guerra, manon vi ostacoleremo in nessun modo. Diventeremo amici, vel’assicuro. Non vi aiuteremo soltanto nei lavori manuali. Sa-remo di conforto anche per le vostre anime.»

Romeo sapeva adattarsi ad ogni occasione nel migliore deimodi. Arrivò a scomodare le anime dei ribelli, in quell’occa-sione, ben sapendo che la loro religiosità ai limiti del fanati-co li avrebbe cosretti almeno a riflettere.

«Come pensi di essere d’aiuto alle nostre anime?» chiesescettico e allo stesso tempo incuriosito uno dei più giovanidel gruppo che non aveva aperto bocca prima d’allora.

Romeo, senza por tempo in mezzo, prese il suo strumentoe se lo posizionò in grembo. I commensali rimasero ad osser-vare incuriositi.

«Chiudete gli occhi, per favore, e poi seguite la musica.Lasciatevi guidare da lei.»

Non tutti ascoltarono la voce calda di Romeo, ma ciò nongli impedì di cominciare a suonare.

Lo sfregiato si alzò e si diresse verso il chitarrista per in-terrompere il suo tentativo di convincere il consiglio in meri-to alla bontà delle sue intenzioni. Momo, perentorio, lo domòcon il solo ausilio della voce.

L’uomo se ne andò stizzito, con occhi fiammanti che mi-nacciavano un Romeo completamente incurante di quanto eraaccaduto. Il poeta aveva chiuso gli occhi e si era tuffato tra lebraccia della dea della musica che lo estraniava dalla realtàcon la sua dolce voce fatata. Durò pochi minuti. Aprii gli

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occhi pensando che quella volta Romeo non era riuscito adesprimersi al meglio ed ebbi timore che la situazione gli stes-se sfuggendo di mano.

Molti degli ascoltatori avevano dipinto sul volto lo stessodisprezzo dell’uomo che se n’era andato.

«Questo è il presente, è la vostra esistenza di oggi, pienadi paura e allo stesso tempo di coraggio indomito.» disse ilmio amico. «Amate la vostra vita, perché è una lotta dedica-ta a ciò in cui credete. Ma è una vita che non potete vivere fi-no in fondo, perché nel profondo dei vostri cuori temete dinon essere interamente nel giusto. Non potete vivere perchéil rimorso è sempre alla vostra porta, pronto ad entrare al pri-mo segno di cedimento della vostra anima. Ora ascoltatemi,vi prego. Dovete lasciare che la musica entri nel vostro san-gue, nella vostra testa. Sarà lei a preparare la vostra anima adaccogliere la verità. Se ascolterete col cuore capirete in cosacredete veramente. Io credo che la musica possa cambiaretante cose. Questo è il mio vangelo. Voi trovate il vostro.»

Alla fine di questo vero e proprio sermone, Romeo rico-minciò a solleticare le sue amate corde, questa volta con tuttala passione di cui era capace, con tutta l’espressività, con tut-to l’amore che la sua anima poteva sviluppare. Era come unmotore che girava a pieno ritmo, una macchina nel culminedella sua potenza, un cavallo nell’apice della sua velocità. Unpoeta, nell’esplosione dei suoi sentimenti.

Ero orgoglioso di lui. Ed ero felice di aver scelto di aiu-tarlo.

Liberò nell’aria centinaia e centinaia di suoni che volava-no come colombe impazzite alla ricerca della libertà. Suonivivi, note librate nelle fiamme scoppiettanti e guidate da unmastro burattinaio senza eguali.

Rimanemmo di nuovo in silenzio ad ascoltare quella mu-

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sica meno ritmica, meno spasmodica della precedente, ma piùricca e più forte.

Momo rimase visibilmente perplesso di fronte allo stru-mento e al suo suonatore. Lo osservai mentre fissava Ro-meo intento nella sua attività vitale e lessi sul suo volto lasorpresa, quasi accompagnata da una sorta di timore reve-renziale.

Avevo sempre saputo che Romeo era un essere speciale eforse, in quel momento, intorno a quel fuoco, non ero più l’u-nico.

«Potete fidarvi.» concluse l’artista dopo la dimostrazioneche voleva dare al gruppo.

Momo sorrise, credendo ciecamente in quelle parole, maera uno dei pochi. L’uomo che sedeva vicino al posto lascia-to vuoto dalla sfregiato si alzò di scatto e aggredì Romeo, fa-cendolo capitolare a terra con la sua chitarra. Momo, altret-tanto velocemente si alzò in piedi per fermare la colluttazio-ne e fu imitato da tutti i presenti. Romeo riuscì a volgere lasituazione a suo favore, allontanando con un calcio il malin-tenzionato e rimettendosi saldamente sulle gambe.

«Lascia che venga.» disse rivolgendosi a Momo che eracorso in suo aiuto.

Ci trovammo a formare un cerchio tutti intorno ai due con-tendenti. Qualcuno incitava Romeo, ma la maggior parte de-gli uomini parteggiavano, ovviamente, per il loro compagno.Questi sfoderò un coltello che suscitò un sorriso sulle labbradel chitarrista, come sempre, estremamente sicuro di sé.

«Ora ti tappo quella bocca.» tuonò il nero gettandosiaddosso a Romeo.

Kuma si lasciò sfuggire un grido di terrore, mentre la follada strada, che andava sempre aumentando a causa del tram-busto, gridava tutta la sua rabbia.

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Il mio amico schivò l’affondo dell’avversario e riprese ledistanze.

«Ora non parli più, uomo bianco?» chiese ironico il soldato.«Di che vuoi parlare?» ribattè tranquillo Romeo.«Non voglio parlare, voglio darti una buona lezione.» L’uomo non fece a tempo a scandire l’ultima parola che

Romeo era partito all’attacco. Sferrò un calcio alla mano chesosteneva la lama, facendola volare a distanza di sicurezza,poi afferrò il collo dell’uomo e lo tirò verso di sé, sferrando-gli una tremenda testata proprio in mezzo agli occhi.

Il nero cominciò ad urlare prima ancora che il suo nasocominciasse a perdere sangue.

Guardai prima in mezzo al folto gruppo di spettatori, cer-cando di capire se qualcuno avesse intenzione di attaccareRomeo a tradimento. Nessuno mi diede l’impressione di es-sere sul punto di correre in aiuto del ribelle ferito, così mi sof-fermai su Momo, che si era lasciato andare in un sospiro libe-ratorio. Si raddrizzò sulle gambe e lasciò che il sorriso che glicorreva dentro si diffondesse anche sulla sua bocca. Provaipena per lui. Mi diede l’impressione di essere come Kuma, unbambino che aveva bisogno di essere uomo. La sua espres-sione era eloquente. Guardava Romeo proprio come lo guar-dava Kuma. Con occhi sognanti e sgorganti di ammirazionee di devozione profonda.

In quel momento mi resi conto che Romeo era già all’o-pera. Forse il suo intento era quello di avvicinarsi i ribelli, dicoinvolgerli e di invitarli nel suo mondo,fatato e maledettoallo stesso tempo, da artista. Forse i bambini erano un prete-sto. Non ne potevo essere sicuro, ma una cosa certa stavaaccadendo lì, proprio sotto i miei occhi: l’artista stava con-quistando delle pedine fondamentali per il suo gioco.

Mentre mi dilungavo tra questi pensieri, Romeo si avvici-

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nava al suo, ormai sconfitto, avversario. Gli mise una manodietro al collo, come prima, e appoggiò l’altra sul volto san-guinante dell’uomo.

«Ora ti farò male.» sbottò a bassa voce. Subito dopo fecescricchiolare le ossa rotte del soldato che riprese ad urlare acausa dell’intenso dolore che doveva aver provato. Il fiotto disangue che sgorgava dal naso rallentò sensibilmente, finoquasi a fermarsi.

Un brivido percorse tutto il cerchio di uomini che stavanoa guardare, ma nessuno si mosse per cercare di aggredire Ro-meo. Molti avevano capito, e quelli che non ci erano arrivatida soli, si erano lasciati convincere dal branco. Romeo avevaraddrizzato il setto nasale al suo avversario. Fu un gesto checolse di sorpresa tutti quanti, compreso me.

«Mi dispiace.» chiese perdono all’uomo che ora si era cal-mato. Sembrava non provare più tanto dolore, sebbene conti-nuasse a tenersi una mano sopra la parte ferita del volto.

Nel giro di pochi minuti la folla si disperse e rimanemmonuovamente in mezzo ai comandanti capeggiati da Momo.

Riprendemmo posto intorno al fuoco. Il primo a prenderela parola fu proprio il ragazzone che ormai simpatizzava a-pertamente per il chitarrista e coloro che lo accompagnavano.

«Io credo che possono restare.» disse semplicemente ri-volgendosi ai suoi subalterni.

«A noi non piacciono gli scherzi. Rigate dritto e andremod’accordo.» continuò rivolgendosi a noi. «Per il fatto dei ra-gazzi ne riparleremo.»

La decisione era presa. Non importava che molti dei pre-senti non fossero concordi. Momo era il capo, e come taleaveva il potere di decidere.

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CAPITOLO 12

Ci fu assegnata una capanna ancora in costruzione in pros-simità degli alberi della giungla.

Kuma passò la notte insieme ai suoi vecchi compagni, cosìrimanemmo soltanto io e Romeo. Momo ci ordinò di non la-sciare la capanna per nessun motivo fino al giorno seguente.Non compresi se si trattasse di protezione o di prigionia.

«I bambini non sono il vero motivo per cui siamo qui, ve-ro?» chiesi dall’amaca su cui avevo preso posto per dormirequando ci fummo sistemati per la notte.

«Cosa te lo fa pensare?» mi domandò lui a sua volta.«La tua scenetta di questa sera. Tu vuoi loro, non i bambi-

ni.» dissi piuttosto sicuro di ciò che avevo intuito.«Non so per chi sono qui esattamente. Non sono bravo a

programmare la mia vita. Nessuno vuole questa guerra, nem-meno loro credo.» disse alludendo ai ribelli che ci ospitavano.

Ci furono alcuni istanti di silenzio in cui entrambi tentam-mo di riordinarci le idee.

«Io vorrei poter aiutare chi soffre. Ora non sono più tantosicuro che chi soffra di più siano i ragazzini.»

Rimasi sorpreso. Le sue parole avevano un valore moltoprofondo. Non aveva intenzione di aiutare una categoria dipersone, ma voleva alleviare la sofferenza, di chiunque essafosse. Era l’assenza di pregiudizi. Era la profondità d’animodi un poeta.

Compresi quanto la mia mente fosse banale ed inquadrata

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e sorrisi all’indirizzo di Romeo cercando di esprimergli la miagratitudine. Era un piacere essere al suo fianco, parlare conlui, prendere parte ai suoi pensieri e camminare dietro di luinel grande mondo dell’intelligenza e della sensibilità d’animo.

Il mattino seguente fummo svegliati prima dell’alba dalrumore che tutti gli uomini all’esterno producevano. Romeosi affacciò alla porta che ci separava dal resto del villaggio,ma il soldato che stava di guardia gli impedì di lasciare il rifu-gio che ci era stato assegnato. Rimanemmo affacciati all’in-gresso, incuriositi.

L’oscurità rendeva tutti gemelli. Adulti e bambini, in quelfrangente, non si potevano distinguere. Si sentivano voci cheimpartivano ordini e si vedevano ombre che eseguivano dili-gentemente. Tutto qui.

Il tutto durò poco più di venti minuti, credo, poi il frastuo-no si ridusse sensibilmente. L’armata di fantasmi si addentròdisordinatamente nella foresta, lasciando il villaggio nelle ma-ni obbedienti di un pugno di sentinelle. In pochi istanti pas-sammo dal frastuono dei preparativi al silenzio naturale etranquillo della giungla. L’obiettivo di quell’armata ribelleera facilmente immaginabile.

Tornammo nel nostro rifugio senza avere nulla da dire l’unl’atro. Romeo era visibilmente turbato, lo si notava dal modoin cui stava sdraiato sulla sua amaca. Si muoveva di continuoe sospirava ogni pochi secondi.

Tutto era calmo già da alcuni minuti, quando il poeta si al-zò di scatto e si avvicinò a me, sussurrandomi all’orecchio diseguirlo. Mi alzai a mia volta e rimasi vicino a lui che si portòvicino all’uscio semi aperto, attraverso il quale si poteva ve-dere la sentinella a cui eravamo stati affidati. Romeo la chiamò.

«Dobbiamo uscire di qui.» le spiaccicò sul volto, terra ter-ra. La sua voce era ferma e sicura.

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Il soldato gli chiese il motivo con un cenno del capo. Ilsole non era ancora sorto, ma iniziava già a colorare di verdee d’azzurro il paesaggio intorno a noi, sottraendo al sequestrodella notte tutti i colori via via più intensi.

«Lasciaci uscire, ti prego.» insistè Romeo. «Dobbiamoparlare con Momo.»

«Momo non c’è.» rispose seccamente l’uomo.«Lo sappiamo, ma dobbiamo raggiungerlo.» continuò il

chitarrista, inarrestabile nella sua insistenza come del restonella vita.

«Basta. Tornate dentro. Quando ci sarà il sole potrete usci-re.»

«D’accordo.» concluse il mio amico apparentemente ras-segnato.

Ci allontanammo dalla porta e aspettammo pochi secondi,il tempo di concedere al poveretto la certezza che tutto fossesotto il suo attento controllo. Io e il mio giovane artista ciintendemmo con uno sguardo e passammo subito all’azione. Con il passare delle ore credevo sempre di più in ciò che sta-vamo facendo, forse trascinato dalla grande forza persuasivadi Romeo, forse no. Non pensai a niente, agii in sintonia per-fetta con il mio amico. Mi affacciai all’uscio e ne uscii cam-minando con passo deciso. Il soldato mi guardò con sorpresa,poi ordinò di fermarmi. Non obbedii, continuai con il miopasso costante costringendo l’uomo ad allontanarsi dalla ca-panna e a concentrarsi su di me. Mi puntò contro il fucile cheteneva a tracolla e mise il colpo in canna producendo un ru-more sinistro che mi svegliò da una specie di sonno tranquil-lo. Mi resi conto di ciò che stavo facendo e del pericolo checorrevo.

Non ebbi tempo per riflettere oltre. Romeo si buttò silen-zioso come un felino sul povero guardiano, portandogli una

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mano davanti alla bocca per attutire il grido di disappunto cheproruppe spontaneo dalle sue labbra. Mi avvicinai veloce-mente ai due e strappai il fucile dalle mani del soldato primache potesse sparare. Glielo puntai contro. Non avevo mai im-pugnato un’arma. Era una sensazione strana, mi dava energia.Un’energia che prendeva forza da se stessa e che nasceva for-se nella paura, e forse nella solidità che mi trasmetteva quel-l’aggeggio. Non lo sapevo. Romeo ordinò al nero di tacere, epoi a me di abbassare il fucile. Obbedimmo entrambi. Gliocchi del soldato erano un misto tra sorpresa e paura. Dove-vano assomigliare molto, in questo, ai miei.

Romeo intimò all’uomo di entrare nella capanna che pri-ma aveva sorvegliato. Noi lo seguimmo, assicurandoci chenessuno avesse assistito alla scena. Lo legammo e imbava-gliammo con i suoi stessi vestiti prima di allontanarci, furti-vi, verso il punto in cui i ribelli si erano addentrati nella fore-sta. Fortunatamente non incontrammo altre sentinelle. Nonappena ci trovammo nel fitto degli alberi cominciammo acorrere seguendo le chiare tracce che avevano lasciato gli uo-mini davanti a noi.

Romeo era veloce, nonostante l’inseparabile chitarra chegli ondeggiava appesa dietro la schiena. Io, invece, facevomolta fatica per via delle primavere che mi pendevano sulcapo. Lo persi di vista nel giro di pochi minuti e continuai dasolo a seguire le tracce con il mio passo.

Camminai più velocemente possibile per circa un paiod’ore, quando cominciai a sentire urla e spari in lontananza.Mi rattristai, perché sapevo bene cosa stava accadendo pocolontano. Nemmeno Romeo era riuscito ad impedirlo.

Questi pensieri gravarono sul mio fisico già spossato dallamarcia forzata, rendendomi stanco e più lento di quanto giànon fossi.

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Pochi minuti e la scena della razzia mi si parò davanti agliocchi. Giunsi sulla sommità di una piccola altura e potei scor-gere, attraverso i rami, il piccolo villaggio che era stato attac-cato. Si trattava di una ventina di capanne malconce, ai piedidel rialzo su cui stavo, circondate da alcuni campi coltivatidentro i quali risaltavano le scie lasciate dall’attacco ribelle.Le urla e gli spari, ora, erano molto vicini.

Mi fermai per osservare la scena e per cercare il mio ami-co nel mezzo di quell’inferno. Individuai subito Momo cheguidava i suoi compagni in quell’attacco infame e dietro dilui intravidi anche l’uomo con la cicatrice insieme a molti al-tri che avevano cenato insieme a noi la sera prima.

Romeo non c’era. Rimasi fermo con gli occhi fissi su quel-la scena crudele pensando a cosa avrei potuto fare. Mi sentiipiccolo ed inutile di fronte a tanto orrore. Avrei voluto fer-mare lo scempio che si stava consumando sotto i miei occhi,ma ero solo un uomo. Mi resi conto di quanto possa essereinsignificante un piccolo, solo e vecchio uomo.

Momo, in testa al folto gruppo di ribelli, uccise due uomi-ni che gli si pararono davanti timidamente, più incuriositi cheostili, infilzandoli con la sua spada argentata che brillava nelsole del mattino.

Dietro di lui l’orda si aprì a ventaglio consentendo ad ogniuomo di rastrellare il proprio spazio. La corsa dei ribelli eracoordinata e implacabile. Gli indigeni che, resisi conto del-l’attacco, cercavano di opporvisi con fruste e bastoni, veniva-no falciati via dalla foga assatanata dei soldati ribelli.

Cominciai a correre verso l’impari battaglia, pronto a sa-crificare la mia vita pur di fermare quella barbara esecuzionedi innocenti.

Giunsi urlando tra gli uomini armati, mentre l’attacco sistava già spegnendo, fulmineo. Momo si voltò verso di me e

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mi si mosse incontro, ordinando ai suoi di stare calmi e di nonfarmi del male.

In quel momento arrivò anche Romeo. Lo vidi correre ver-so il villaggio dalla mia destra. Si diresse verso i soldati chestavano ancora combattendo e Momo, conoscendo bene l’o-dio che i suoi uomini nutrivano verso il chitarrista, cambiò di-rezione e si tuffò nel suo inseguimento. Avevo capito che il ra-gazzone covava della simpatia per Romeo, ma non pensavoche per lui si sarebbe messo contro i suoi compagni.

Tutta l’attenzione era sull’ultimo focolaio di battaglia chesi stava svolgendo tra le capanne che già cominciavano a bru-ciare. Romeo correva verso questo residuo d’odio violento dauna direzione, Momo faceva lo stesso da un’ altra e così purefacevo io. Gli uomini che avevano già compiuto il loro lavo-ro rimasero ad osservare. Romeo fu il primo ad arrivare nellalotta che si era quasi placata con la morte di ogni abitante delvillaggio.

Soltanto uno, solo e patetico, opponeva ancora resistenzacon le spalle appoggiate ad una capanna ed un bastone inuti-le tra le mani. L’uomo con la cicatrice gli si stava facendoincontro con il fucile mitragliatore puntato, pregustando fero-cemente la sua falsa vittoria con un sorriso inumano stampa-to sulle labbra.

Proprio in quell’istante sopraggiunse il mio amico che sipiazzò tra l’uno e l’altro, rivolto verso lo sfregiato. Rallentaila mia corsa affannata.

Romeo fissava l’uomo negli occhi e questi, felice per l’oc-casione inaspettata, allargò il suo diabolico sorriso e si fermò.Non accadde niente per alcuni istanti, fino a quando Romeonon si sfilò la chitarra dalle spalle e si voltò verso l’impauri-to e indifeso abitante del luogo cominciando a pizzicare tri-stemente le corde. L’uomo con la cicatrice, prendendo questo

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gesto come un affronto, alzò il fucile sulla spalla destra perprendere la mira.

Momo, a pochi metri di distanza, gli gridò di non farlo, malo sfregiato sembrò non avere orecchi. Si svolse tutto in unistante. Il capo dei ribelli si gettò sul suo subalterno, facendo-lo rotolare a terra. Romeo, attratto dal tonfo dei duellanti, sivoltò. Smise di suonare e si avvicinò rapidamente ai soldatiche ora erano immersi in una vera e propria lotta. Le diver-genze della sera prima, ora, emersero violente.

Romeo lasciò cadere la chitarra e si gettò sui due corpistretti l’uno all’altro nella morsa dell’inimicizia cercando disepararli. Si udì uno sparo.

Sussultai e rimasi ad osservare incredulo. Il trio convulsosi fermò nella polvere. Si sentirono dei grugniti fin troppoeloquenti. Qualcuno era stato colpito, così mi affrettai perraggiungere il mio amico che non era distante più di una ven-tina di metri.

Romeo perdeva sangue da un braccio, ma era cosciente esembrava non provare molto dolore.

Momo, invece, giaceva riverso al suolo con un filo di san-gue che gli usciva dalla bocca per andare poi ad ingrassare ilterreno. Aveva gli occhi aperti, immobili e fissi verso il vuotoche ormai si era impossessato di lui. L’uomo con la cicatricesi divincolò dal groviglio di gambe e braccia che lo limitava-no nei movimenti e si alzò in piedi. Afferrò il suo fucile anco-ra fumante e lo puntò su Romeo dicendo con la voce esaltatadella battaglia:

«Ci hai portato solo guai.»Si udì un’altro sparo. Chiusi gli occhi per non vedere il volto del poeta defor-

marsi sotto la spinta del proiettile. Li riaprii soltanto quandosentii il tonfo del corpo che cadeva privo di energie vitali.

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Con mia grande sorpresa Romeo era ancora seduto vicinoa Momo. Sentii un’ondata di gioia pervadermi in tutto il cor-po per il mio amico ritrovato. Voltai lo sguardo verso lo sfre-giato che giaceva a terra con un buco in mezzo alla fronte.

Mi guardai intorno cercando il cecchino e notai che l’uni-co che imbracciava un fucile era l’uomo che la sera prima ave-va appoggiato noi e Momo nelle nostre proposte. Tutti gli al-tri non tenevano le loro armi in mano, ma stavano guardando,come me, il loro compagno.

Molti occhi carichi di odio e di disappunto si puntaronocontro il tiratore, ma altrettanti gli erano quasi grati per quelgesto. Alcuni ribelli provavano simpatia per Romeo, propriocome ne aveva provata il loro capo giacente sul campo di bat-taglia. L’uomo che aveva sparato rispose al mio cenno del ca-po in un linguaggio non verbale che esprimeva tutta la miagratitudine e tutto il suo dispiacere per ciò che aveva fatto.

Si avvicinò a me e mi diede un colpetto con la mano sullaspalla, poi mi oltrepassò e si accasciò vicino a Momo. Romeofece lo stesso. I due cominciarono a sollevare il capo defun-to. Altri sette o otto soldati si portarono intorno al corpo del po-vero vecchio ragazzone per trasportarlo al loro campo. Anchelo sfregiato ricevette lo stesso trattamento. Romeo, con ilbraccio soltanto sfiorato dalla pallottola che aveva perforatoil corpo del suo primo sostenitore ribelle, accompagnò Momocon la sua chitarra per tutto il tragitto fino al piccolo villag-gio di capanne.

Suonò musiche che avrebbero potuto accompagnare gliantichi elogi funebri di greci e romani che avevo studiato alliceo. Suonò pezzi che avevano sapore di antico, di passato,di malinconica storia lontana. Quella fu l’impressione che eb-bi della sua musica funesta. Una musica antica e profondaquanto il dolore stesso.

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CAPITOLO 13

Quello stesso pomeriggio si svolsero le esequie per i duecaduti.

Momo e l’uomo che lo aveva ucciso, forse volontariamen-te, forse no, erano stati seppelliti l’uno vicino all’altro. Le cri-stiane celebrazioni erano state impeccabili. Non c’era statanessuna distinzione tra i due feretri, si era parlato di loro co-me di due eroi indistintamente. Carità o ipocrisia.

Furono i sobri funerali di due semplici uomini. I ribelli di-mostrarono una solida coerenza religiosa riunendosi tutti sottola bandiera del loro Dio, tralasciando opinioni e convinzionisugli uomini che avevano perso la vita. Ma tutto ciò emerse co-munque, quando i corpi dei due contendenti furono seppelliti.

Romeo aveva lanciato il sasso nello stagno. Ora le acquemarce stavano venendo a galla. Aveva provocato una reazio-ne che sotto i nostri occhi si stava slegando e agitando, cer-cando di trovare un nuovo equilibrio diverso da quello rottodal mio amico.

Ci furono degli accesi dibattiti su chi dovesse prendere ilposto di Momo. I soldati si divisero tra i sostenitori di Ro-meo, continuando così sulla linea tracciata dal capo defunto,e gli oppositori, seguendo le tracce dello sfregiato. L’uomoche aveva ucciso quest’ultimo si chiamava Abeba ed era, di-ciamo così, il candidato al posto di capo dei nostalgici del po-vero Momo. Non doveva avere più di trent’anni, ma avevadimostrato quanto fosse carismatico e fermo.

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Dopo accesi dibattiti che sorpresero sia me che Romeo perla loro organizzazione di fondo, la maggior parte dei soldatidecise che Abeba avrebbe dovuto occupare il trono vacante diquell’organizzazione di disperati. Molte opinioni furono e-spresse liberamente sotto le fronde mosse dal vento di quellaforesta che sembrava avere della vita nascosta nelle sue pro-fondità. Uomini e uomini ebbero la possibilità di parlare, tal-volta circondati dalla confusione. Mi sorprese molto il fattoche tutti i ribelli presero parte a quella decisione importante.Io e il mio amico non potevamo assistere al consiglio, anchese in realtà, relegati nella nostra capanna poco distante, nonci perdemmo una virgola.

Tutto si svolse nel giro di alcuni giorni. All’inizio dei di-battiti chiunque avesse qualcosa da dire espose la propria idea.

L’argomento che teneva banco, anche perché era il motivoscatenante delle contese, era la nostra presenza. Qualcuno in-sisteva perché Romeo restasse per fare ciò che aveva promes-so, qualcun’altro giurava di volerlo ammazzare, altri voleva-no semplicemente cacciarlo.

Anche Kuma si espresse, elogiando il poeta, la sua bontàe la sua musica con le semplici ed innocenti parole fiduciosedi un bambino.

Dopo questa fase iniziale emersero i due contendenti chesembravano essere i più adatti al ruolo di capo. Fu un emer-gere lento dei due soldati che avevano il seguito maggiore dicompagni. Abeba, da una parte, appoggiava e sosteneva la per-manenza nel villaggio di me e Romeo, e, dall’altra, un uomodi nome Casha. Questi era un anziano signore, credo il piùanziano tra i soldati, ma dal suo ardore dimotrava di avere unanimo vitale e giovane.

Casha predicava a gran voce di “cacciare i bianchi male-detti che avevano portato la punzione divina tra il popolo li-

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beratore di Gesù Cristo”, così, almeno, mi tradusse il poeta.Ma Romeo aveva già conquistato molti uomini con la suamusica, più di quanti in realtà mi aspettassi.

Alla fine dei dibattiti, Abeba venne eletto capo con unaspecie di cerimonia intorno ad un fuoco.

Rimasi molto colpito da quella sorta di elezione. Non miaspettavo certo di trovare in mezzo alla foresta la realizzazio-ne pratica di una democrazia piccola, ma a quanto pareva,funzionante.

A questo punto venimmo liberati. Non sapevo se questofosse un bene. Sapevo che molti ribelli non avrebbero piantovedendoci appesi ad un albero per il collo, ma mi rassegnaialla libertà cercando di concentrarmi su ciò ce eravamo venu-ti per fare. In realtà, non ero a conoscenza nemmeno di quello.

Passammo alcuni giorni durante i quali Kuma ci fece co-noscere molti dei suoi vecchi compagni di battaglia. Furonogiorni in cui coloro che non gradivano la nostra presenza di-mostrarono tutto il loro disprezzo. Ma poi, lentamente, i ri-belli cominciarono ad assimilarci.

Un dì Romeo mi chiese di tornare in città per dare nostrenotizie a Mireja e per pregarla di avere ancora un po’ di pa-zienza. Non era sicuro per lei raggiungere Romeo al piccolovillaggio nella foresta. Non potei far altro che sottostare allavolontà insistente del mio amico.

Non che raggiungere Mireja fosse un peso. E nemmenol’idea di poter dormire almeno una notte nel mio comodo let-to mi dava noia. Ma mi dispiaceva lasciare il campo ribelle,perché sentivo che tra noi e i soldati stava nascendo un lega-me. Un legame obbligato, forse, dalla nostra presenza, ma pursempre un legame. E con la mia partenza avrei potuto allon-tanarmi dagli uomini che ci ospitavano.

Ciononostante mi feci accompagnare da Kuma fino al luo-

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go dove avevamo lasciato la mia jeep poco più di tre settima-ne prima. Con nostra grande sorpresa la trovammo illesa.

Saltai sul sedile del guidatore e presi quella che nel mioanimo era, in qualche modo, la strada di casa.

Kuma mi salutò con il suo profondo sguardo ferito. Mi af-fezionai molto a quel ragazzo. Rappresentava nella mia men-te il prototipo dei giovani che avevamo intenzione di aiutare.Senza alcun diritto, forse. Pensai molto lungo il tragitto chemi portò fino alla bella ragazza in città. Aiutare qualcuno nonè sempre e solo una buona azione. Provai a vedere ciò chestavamo compiendo da un altro punto di vista. Che diritto ave-vamo di fermare una rivoluzione, una battaglia? Forse i ribel-li avevano ragione: quei ragazzi non avevano bisogno del no-stro aiuto. Stavano combattendo per un ideale. Qualunque es-so fosse, era un’azione che poteva benissimo riempire un’e-sistenza. In fondo la vita di ognuno si snoda tra battaglie ecombattimenti. Quei giovani soldati combattevano una batta-glia più vera e più profonda di molti altri uomini. Perché chie-dere loro di fermarsi? Per diventare come noi? Schiavi dellavoro e di una vita frenetica sempre più priva di ideali umanie filosofici? Probabilmente io più di loro necessitavo del-l’aiuto di qualcuno. Probabilmente mi ero gettato in quell’av-ventura perché essa era l’aiuto che avevo inconsciamente a-spettato per chissà quanto tempo. Un sostegno, una nuovamotivazione, qualcosa di indefinito che mi dava nuovi stimo-li, nuovi spunti per cambiare, per migliorarmi. E alla base ditutto, come un fuoco geometrico, c’era Romeo, che con la suachitarra, con la sua poesia, mi aveva portato fino a lì. In-segnandomi a credere in qualcosa come non facevo ormai daun’eternità. Il sedicenne che ero stato aveva creduto ferma-mente nella propria filosofia, ma quel tempo profondamentespensierato era passato da un pezzo. Crescendo la mia anima

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era diventata adulta, arida. Invecchiata con il mio corpo. Ilmio cuore, in seguito alle prime sconfitte, si era armato di uncoriaceo riparo, grazie al quale ogni emozione, ogni paura,ogni sensazione, veniva filtrata ed attutita prima di raggiun-gere il centro pulsante e sanguinolento del mio spirito. Oraquel riparo, quella dura corazza che mi aveva impedito di vi-vere appieno la mia vita, si era intaccata. La vita pulsante chevi si nascondeva all’interno cominciava a fuoriuscire e a dif-fondersi in tutto me stesso. Ero di nuovo privo di protezione,di nuovo innocente, di nuovo ingenuo e fiducioso nel mondo,nell’uomo, in me stesso.

Arrivai in città nel primo pomeriggio e raggiunsi subito lamia cara Mireja. Mi accolse con un abbraccio degno di unafiglia verso il padre. La figlia che non avevo mai avuto.

Rimase delusa dalle notizie che le portavo, ma non tantoquanto avrei creduto. Forse si rendeva conto del pericolo dalquale volevamo proteggerla.

Mi accompagnò al mio appartamento dove rimanemmo aparlare di Romeo fino a sera. Lei mi chiese come lo avesseroaccolto e io le raccontai la vicenda del nostro arrivo, di Momoe di tutto ciò che successe fino al giorno precedente.

Era preoccupata per il suo giovane spasimante, ma sapevache era un uomo da lasciare libero. Lei meglio di chiunquealtro lo sapeva. Romeo aveva bisogno di essere padrone di sestesso, doveva sentirsi in grado di correre da solo sulla suastrada. Era un poeta. E i poeti sono liberi, con tutto ciò chequesto comporta. Grazie a lui compresi che la libertà non è undono gratuito. La libertà porta spesso con sé paura e turba-mento. Ma quell’uomo straordinario navigava nel suo liberomare con la sicurezza di un marinaio di vecchissima data.Paure e timori erano invisibili agli occhi degli uomini che con

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lui avevano a che fare. Il suo mondo si sviluppava nel profon-do del suo cuore, lasciando a noi soltanto le briciole. Quellebriciole musicali che erano splendidi brandelli della sua libertà.

Accompagai Mireja al lavoro, sebbene il viaggio mi aves-se spossato e la voglia di saggiare il mio materasso fosse allestelle. Rimasi un altro po’ con lei bevendo una birra al ban-cone del bar. La sua bellezza e la sua simpatia erano ragionipiù che sufficienti per fare attendere il letto e il sonno. Guar-darla al lavoro e sentirla parlare era di per sé una terapia ripo-sante. Ci sono cose, nella vita, che si amano per la loro obiet-tiva bellezza.

Alla fine non potei far altro che arrendermi alla stanchez-za. Presi commiato, dicendole che l’indomani sarei ripartitoall’alba. Mi abbracciò commossa dicendomi che avrei dovu-to tornare presto a darle notizie del suo amato chitarrista. Lepromisi che se non fossi riuscito a mandare lui in persona, misarei occupato personalmente di questa faccenda.

Salutai e lasciai il locale sulle ali dell’ebbrezza mista astanchezza che mi irradiava dentro. Tutto ciò di cui avevo bi-sogno in quel momento era di poter stare da solo con me stes-so. Mi incamminai per le strade, immerso nei miei pensieri,senza sapere dove andare.

Avevo visto con i miei occhi ciò che prima di allora avevosoltanto conosciuto per sentito dire. I ragazzini che affollava-no il campo dei nostri ospiti erano molti. Pensai che ce nedovevano essere almeno una trentina. E chissà quanti altri cen’erano in altri villaggi sparsi per la zona. Non sembravanoinfelici, questo era vero. Si erano integrati nell’organizzazio-ne che li aveva privati dell’infanzia e quella, per loro, era lavita normale. Non si aspettavano nient’altro.

Ciò che mi sorprese fu l’assenza delle bambine. Sapevobene il motivo per cui le piccole venivano rapite, ma in quel

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villaggio non ne avevo vista nemmeno una. Non sapevo seconsiderarla una fortuna oppure no. La loro assenza potevasignificare molte cose. Poteva voler dire che le bambine nonerano lì perché erano merce di un vero e proprio mercato diesportazione. C’erano centinaia di altre possibili ipotesi, mol-te delle quali mi davano i brividi. Tentai di scacciare il terri-bile pensiero che stava radicandosi nella mia mente. A volte inostri stessi pensieri possono essere molto scomodi e fasti-diosi. Tutti i miei sforzi furono invani. Non riuscii a distaccarmi daquelle idee infami, da quelle orribili immagini che si susse-guivano lentamente nella mia testa. Bambine ancora più rapi-te, ancora più private di innocenza dei loro piccoli coetanei.Bambine che non avevano voce e non avevano vita. Stru-menti, come una caffettiera, come una biro, come un libro.Dove erano finite? Camminai per un tempo indefinito e adogni passo che strisciai stanco sull’asfalto polveroso era unnuovo interrogativo, una nuova domanda.

Ebbi un’idea improvvisa, come un’esplosione. Le bambi-ne non erano lontane. La mia mente doveva aver avuto degliindizi che mi erano rimasti ignoti. Indizi inconsci che mi ren-devano sicuro della mia intuizione.

Era istinto quello che mi dava le certezze. Era qualcosache Romeo aveva saputo risvegliare in me con la sua musicae con la sua poesia. Era una certezza priva di dimostrazione,una sensazione, che pur mi convinceva appieno. Priva di re-gole, fuori dal tempo, al di là della comprensione.

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CAPITOLO 14

Arrivai a casa correndo, raccolsi il mio zaino e presi subi-to la strada verso nord, in direzione del Sudan.

All’alba stavo lasciandomi alle spalle la jeep e iniziando acamminare lungo il sentiero che portava al villaggio. Lungoil tragitto decisi di abbandonare il percorso battuto per inol-trarmi nella foresta alla ricerca dei fantasmi della mia mente.

Nel sottobosco umido lontano dal sentiero si inseguivanocentinaia e centinaia di tracce confuse. Segno che molte per-sone passavano di lì abbastanza regolarmente. Era naturale.

Riuscii ad individuare una traccia più consistente delle al-tre che si allontanava perpendicolarmente dal sentiero che por-tava al villaggio. La seguii guardingo.

Camminai molto lentamente per alcuni interminabili mi-nuti seguendo quella scia nel terreno che diventava sempre piùampia, ingrossata da sentierini affluenti. Ad ogni minimo ru-more sussultavo e mi fermavo, guardando in tutte le direzio-ni. Sembrava che nulla ci fosse in quella foresta, all’infuori dime e della vegetazione imponente. Avrei voluto che fosserealmente così.

Proseguii sulla mia traccia e il timore, ingrassato dai ru-mori sempre più selvaggi della foresta e dei suoi abitanti, di-venne vera e propria paura. Continuando a camminare mi tro-vai di fronte, a distanza di poche centinaia di metri, qualcosadi strano. Vidi un’ombra, una figura sfuocata dai rami folti de-gli alberi. Sembrava una capanna, ma non ne ero certo. Una

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piccola capanna isolata nel cuore della giungla. Si trattavasicuramente di una costruzione umana, perché la sua formaregolare cozzava visibilmente con la libera spensieratezza de-gli alberi indistinti.

Rallentai ulteriormente il passo e mi abbassai procedendogobbo sul terreno. Quando mi trovai a breve distanza vidi con-fermarsi la mia ipotesi. Si trattava proprio di una piccola ca-panna. Non c’erano finestre per quanto potevo vedere e l’en-trata era sbarrata con una catena ed un grosso lucchetto. Ri-masi a pensare.

Dovevo vedere cosa si nascondeva all’interno di quello stra-no rifugio isolato. Girai attorno alla capanna tenendomi a di-stanza per controllare che non ci fosse nessuno nei dintorni.Ero solo, ma non avevo potuto vedere al di là delle quattropareti di legno, poiché finestre non ce n’erano, su nessun lato.

Mi avvicinai con un pessimo presentimento, ma la curio-sità era tanto forte da spingermi avanti. Mi accostai alla portae prima di dare uno strattone alla catena per provarne la resi-stenza mi guardai attorno per un’ultima volta. Nessuno. Tiraicon forza. Udii dei sussulti provenire dall’interno, come sequalcuno si fosse trascinato sul terreno con un gemito. Mi al-lontanai correndo, impaurito senza motivo, dato che chi eradentro a quella trappola doveva essere più impaurito di me.

Rimasi ad osservare. Nulla si mosse, non una voce, non unrumore. Passarono secondi, poi minuti, ma tutto rimase così,cristallizzato ed immobile. Ripresi coraggio e mi avvicinai dinuovo alla porta. Armato di un bastone feci leva sul lucchet-to mandandolo in pezzi. Aspettai alcuni istanti, poi trovai laforza per affacciarmi.

Quello fu il punto di non ritorno. Oltrepassato quel fran-gente non avrei più potuto riprendere la mia vita come seniente fosse. Non potevo ignorare che i miei giorni residui li

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avrei trascorsi combattendo quel male putrido che avevo da-vanti.

I miei occhi impiegarono poco ad abituarsi all’oscuritàdella capanna inondata dal fascio di luce che avevo provoca-to. Una dozzina di piccole bambine africane erano ammuc-chiate contro la parete più lontana, con gli occhi gonfi che miguardavano. Erano nude. Nude e sporche, ammassate le unesulle altre per sfuggire alla minaccia, alla paura che avevanonel cuore. Per terra c’erano delle ciotole sporche e vuote, pro-babilmente le usavano per mangiare. In un angolo un secchiod’acqua emanava riflessi spenti sulla parete di fronte.

Rimasi sconvolto, e per alcuni istanti non ebbi la forza dimuovermi, di parlare. Indugiai immobile sull’ingresso a guar-dare le poverette che dovevano avere dai quattro ai dieci anni,sicuramente non di più. Forse, anzi, di meno. Non c’era un pa-vimento e dovevano stare sulla terra umida. Non avevano nem-meno spazio sufficiente per coricarsi tutte insieme. Dissi qual-cosa che non ricordo più, cercando di riprendere il controllodella mia volontà. Cercai di sorridere alle bimbe che mi guar-davano terrorizzate, ma il mio ghigno le percosse come unafrusta e furono attraversate da sussulti misti a lacrime.

Dissi loro che le avrei portate via da lì, ma non potevanocapire l’inglese. Forse non sapevano nemmeno parlare. En-trai e mi richiusi la porta alle spalle, lasciando penetrare unsottile fascio di luce in modo che mi vedessero. Cercai di spie-garmi a gesti e ottenni almeno di alleggerire la tensione suiloro volti. Non riuscivo a farmi capire, così feci segno di faresilenzio, anche se forse nessuna di loro capì.

Uscii dalla capanna, guardandomi intorno, facendo segnodi seguirmi. Una di loro, coraggiosa come solo un bambinopuò essere, si avvicinò a me. Un’emozione indescrivibile miallagò tutto il corpo. Sorrisi all’indirizzo della bimba, questa

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volta non forzatamente. Questo era un sorriso incontenibile,di gioia. La presi in braccio. Lei si ritrasse, impaurita, incon-sapevole delle mie buone intenzioni. Ma si rese subito contoche la mia non era una presa violenta. Mi guardò, inespressi-va in volto.

Feci di nuovo segno di seguirmi alle altre che, grazie albuon esempio della loro compagna, si alzarono e si avvicina-rono a me. Cominciai a camminare verso il sentiero che por-tava alla mia jeep tenendo d’occhio le bimbe che correvano apiccoli passi con le loro gambine sporche.

I miei occhi cominciarono a lacrimare per il misto esplo-sivo di emozioni che mi surriscaldava. La gioia di liberarequelle creature innocenti e la rabbia, lo sconforto, la delusio-ne, per come le avevo trovate. Ingabbiate, rinchiuse, denutri-te e violate nella loro fanciullezza scomparsa.

Corremmo per una ventina di minuti e per qualche assurdomotivo non incontrammo ribelli. Forse era un buon segno, oforse significava che eravamo stati del tutto abbandonati daDio.

Arrivammo alla jeep e le bambine, che avevano preso co-raggio, obbedirono immediatamente al mio gesto che le invi-tava a salire. Erano in tredici. Si strinsero le une sulle altre perpoter salire tutte, ma quello spazio ristretto, per loro, non erauna novità.

Girai attorno al mezzo per prendere posto sul sedile delguidatore. La mia soddisfazione, che stava lievitando, vennebruscamente sgonfiata da uno sparo alle mie spalle. Il proiet-tile mi mancò per un soffio, andando a infrangersi sul cofanodell’auto. Mi gettai al posto di guida e avviai il motore impre-cando e pregando che non avesse riportato danni. Vidi i tre ri-belli che mi avevano scovato proprio di fronte a me, a non piùdi cento metri. Uno di loro stava prendendo la mira con il suo

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fucile appoggiato alla spalla. Feci sgommare le ruote del miofuoristrada per sfuggire al proiettile che, nonostante tutto, miraggiunse ad una spalla perforando il parabrezza.

Sentii il dolore per alcuni istanti, subito dopo lo sparo, mafu soltanto un breve attimo di paura, poiché la volontà di por-tare in salvo quelle bimbe era troppo forte.

Ripresi il controllo del mio corpo e della jeep poco dopol’urlo di dolore che mi sovvenne spontaneo e riuscii a diriger-mi verso la strada che portava in Uganda.

Eravamo salvi, l’unico ferito ero io. O almeno ero l’unicoferito nel corpo. Non ero certamente il più grave su quellamacchina sovraffollata.

Guidando lungo la strada sterrata i miei pensieri mi con-dussero velocemente nel panico. Quello che avevo fatto po-teva costare la vita a Romeo. I ribelli mi avevano sicuramentericonosciuto. Avevano visto ciò che avevo fatto e avevano unpretesto chiaro e limpido per ammazzare il poeta, dopo aver-lo civilmente accusato di essere mio complice nella faccenda.

Cominciai a sudare, mentre le bambine, tutto intorno a me,mi osservavano silenziose e con un’espressione sul volto ametà tra la paura e la sorpresa. Non potevo abbandonare cosìil mio amico. Ero stato uno stupido. Con la mia fretta, avevomandato a monte tutti i suoi piani, tutto il suo lavoro. Ma or-mai era fatta. Era inutile rammaricarsi. L’unica cosa da fareera non abbandonarlo. Dovevo assolutamente trovare un po-sto sicuro dove lasciare le bambine e tornare indietro per sal-varlo. Oppure per farmi ammazzare nel tentativo.

Mi arrestai alla prima stazione di servizio che incrociai do-po un’ora di cammino forzato. Mi precipitai verso il telefonoa gettoni e chiamai Mireja sul mio cellulare che le avevo la-sciato, dal momento che a me non serviva più. Le dissi frene-ticamente che avevo bisogno del suo aiuto per portare in sal-

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vo le bambine. Nel giro di un’ora e mezza ci eravamo incon-trati a metà strada, io con la mia jeep malandata e lei con unpulmino preso a noleggio in città.

Le dissi di occuparsi delle bimbe e scappai in tutta frettarimettendomi sulla strada che portava a nord, verso il Sudan,verso il villaggio dei ribelli. Verso Romeo.

Ripercorsi tutto il tracciato che avevo fatto poco prima, atavoletta. Raggiunsi il luogo dove avevo lasciato la jeep e lofeci di nuovo. Cominciai a correre con tutte le energie cheavevo in corpo addentrandomi nella foresta selvaggia se-guendo il sentiero che i ribelli avevano segnato con il lorocontinuo passaggio. Chissà quanti sentieri come quello esi-stevano che univano il Sudan e l’Uganda? Quanti sentieri dimorte e di dolore aggiunto al dolore. Quanta miseria correvaper quei percorsi inventati dall’uomo. E chissà quante capan-ne come quella che avevo trovato io, poco fuori dai sentieri.

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CAPITOLO 15

Ero senza fiato, ormai, quando incrociai la prima sentinel-la proprio di fronte a me. Udii una voce ferma, come se stes-se dando un ordine. O almeno così interpretai quella specie diurlo e mi arrestai di colpo, abbassandomi con le mani sulleginocchia per riprendere fiato.

Il soldato uscì dal suo nascondiglio tra gli alberi. Era unbambino. Mi guardò e sorrise, perfido, dicendomi con un in-glese stentato che mi stavano aspettando. Io ricambiai losguardo e fui invaso da un’enorme tristezza, perché quel ra-gazzino aveva già subito la trasformazione che lo aveva fattodiventare uomo.

Probabilmente anche Kuma, al suo posto, avrebbe avutoquello sguardo assetato di vendetta. Mi rattristai e sentii chetutte le forze mi abbandonavano. La ferita alla spalla, i viaggie la notte in bianco tornarono dolorosamente a farsi sentire.

Da lì al villaggio camminai strisciando i piedi, come pri-vato di ogni motivazione, svuotato di ogni volontà. Sfinito esconfitto. Il ragazzino mi spinse con la canna del fucile pertutto il sentiero e quando arrivammo fummo accolti da un’o-vazione.

Sembrava che tutti stessero aspettando me per placare laloro sete di vendetta. Abeba, scuro in volto, mi si fece incon-tro, ordinando al ragazzo alle mie spalle di lasciare che pro-seguissi da solo. Ci trovammo faccia a faccia per alcuni istan-ti, finchè egli lasciò partire un manrovescio che mi colpì in

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pieno viso. Forse aspettava una mia reazione per potermimassacrare senza risentimenti, ma io non mi mossi più diquanto il suo colpo mi costrinse a fare.

Pensai che quello schiaffo fosse più che meritato. Avevomesso in pericolo la vita del mio amico per un’azione impul-siva. Forse Abeba mi aveva colpito proprio per quel motivo,e non per aver sottratto ai suoi soldati le bambine.

Sperai che fosse così. Rimanemmo occhi negli occhi per altri brevi istanti, poi

venni condotto in quella che era stata la cella mia e del poetasolo pochi giorni prima.

Il tramonto stava colorando di arancione e di rosso le cimedegli alberi e i riflessi caldi che inondavano il villaggio mirendevano fiducioso. I colori del mondo avevano sempre avu-to importanza per il mio animo. L’ottimismo era arancionenella mia scala cromatica dei sentimenti e quella era una seradipinta d’arancione come ne avevo viste poche in vita mia.Mentre mi dirigevo verso la capanna in cui avrei dovuto starein attesa di chissà quale punizione, tutta la tensione che miaveva offuscato la mente nelle ore precedenti si disciolse co-me nebbia nel sole. Oramai ciò che sarebbe stato non dipen-deva più da me. Ero nelle mani del destino, nella miglioredelle ipotesi. Nella peggiore, invece, ero nelle mani dei ribelli.

Preferii pensare di essere nei caldi e vellutati guantoni diun destino incerto, piuttosto che negli artigli freddi e ferocidei soldati. Mi rilassai pensando alle bimbe che ora erano alsicuro insieme a Mireja. Ero fiero di averlo fatto, ora. Romeosarebbe stato d’accordo con me, ne ero sicuro.

Mi trovai nella capanna semi buia e mentre i miei occhi siabituavano alla diversa intensità della luce potei constatareche nulla era cambiato dall’ultima volta.

C’erano le due amache e nient’altro. Su una di queste

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stava Romeo, la chitarra in grembo, che si dondolava in silen-zio. La porta venne chiusa alle mie spalle e io mi sentii, perqualche assurdo motivo, a casa.

«Vorrei sentirmi a casa in ogni luogo del mondo.» sussur-rai tra me e me ripensando a quello che mi aveva detto il poe-ta molto tempo prima. Fu una sensazione molto intensa chemi fece riprendere coraggio e forza perduti.

«Come stai?» chiesi. «Ti hanno fatto del male? Mi dispia-ce. Non so perché l’ho fatto, io non…»

«Sono al sicuro ora?» mi interruppe.«Si, con Mireja. »«Allora ne è valsa la pena.» disse a bassa voce. Nel frattempo i miei occhi si erano abituati e riuscirono a

vedere il viso gonfio e tumefatto di Romeo immerso nella pe-nombra. Non seppi più che dire, ma lui si accorse del miosconforto e cercò di consolarmi immediatamente:

«È per questo che siamo qui. Sapevamo di correre dei ri-schi, quindi non preoccuparti. Devi essere orgoglioso di quel-lo che hai fatto.»

«Lo sono.» risposi semplicemente. In certe occasioni una cosa giusta da fare non esiste. A-

vevo passato la maggior parte della mia esistenza senza sa-perlo e ne ero contento. Avrei dovuto lasciare le bambine do-v’erano salvaguardando l’incolumità del mio amico, o avevofatto bene a sottrarle a quello che sarebbe stato il loro incu-bo per il resto della loro vita? In un caso e nell’altro avreisbagliato e fatto bene allo stesso tempo. Mi sentivo diviso.Una parte di me era felice per quello che avevo fatto, mentreun’altra si vergognava per aver messo nei guai un uomo co-me Romeo.

Mi addormentai cullato dai miei pensieri e dormii di unsonno pesante e rigenerante fino a tarda notte.

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Al mio risveglio vidi che Romeo era ancora sveglio, sullasua amaca.

«Che succederà, ora?» gli chiesi.«Probabilmente ci uccideranno dopo averci torturati. A-

dorano la vendetta e non si lasceranno sfuggire l’occasione difarci soffrire.»

Quelle parole non mi scossero come, forse, avrebbero do-vuto. Rimasi freddamente a pensare alle bambine.

«Possiamo provare a scappare.» dissi quasi per gioco.Mi sorpresi per la leggerezza di quella risposta. Lui rimase un poco a pensare, poi i suoi occhi brillarono. «Possiamo provare, ma ad una condizione.»«Quale?» domandai incuriosito.«Sai scrivere?»«Certo che so scrivere.» risposi immediatamente tentando

di scherzare, sebbene avessi intuito cosa avesse voluto dire.«Allora dovrai raccontare ciò che succede qui.» proseguì

serio.«Perché non lo fai tu? » chiesi.«Io ho bisogno di tornare alla mia vita da vagabondo.»

sorrise.«Non ti posso promettere niente, ma ci proverò.» cedetti

infine.«Bene, allora pensiamo a come andarcene.»Cercammo entrambi di elaborare un piano, ma rimanem-

mo senza spunti per un po’, finchè Romeo, scrutando attenta-mente le assi che ci circondavano non si lasciò sfuggire unappena accennato “eccolo”.

Prese la sua amata chitarra e sciolse una delle corde. Lafece passare dietro ad un sottile traliccio che sosteneva altrequattro o cinque assi. In quel momento capii. Se fosse riusci-to a tagliare quel pezzo di legno avremmo potuto uscire attra-

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verso una piccola apertura quadrata di una quarantina di cen-timetri.

Quella “pezza” nelle pareti doveva essere stata una fine-stra. Si attorcigliò i due capi della corda di nilon alle mani e co-minciò a farla scorrere velocemente avanti e indietro. Impie-gammo un paio d’ore circa prima di riuscire nel nostro inten-to. Ci alternammo al lavoro e ci tagliammo le mani in diversipunti, ma quella era la nostra unica salvezza e le mani insan-guinate non bastavano a farci desistere dalla nostra impresa.

Compiuta l’opera Romeo si affacciò all’esterno e constatòche non c’erano sentinelle vicino alla capanna, da quella par-te. Uscimmo cercando di fare meno rumore possibile e ci av-viammo verso la foresta, tenendoci al riparo per quanto pos-sibile. Romeo faceva strada e io lo seguivo, quando all’im-provviso mi sentii una mano sulla spalla. Mi voltai di scattocon il terrore in volto, pronto a vendere cara la pelle.

Nel chiarore della luna alta nel cielo riconobbi Kuma. Miaccasciai al suolo, sopraffatto dall’emozione con il cuore chemi batteva in gola. Romeo udì qualcosa di strano dietro di sée si voltò con il volto teso. Vedendo Kuma, però, anch’egli sirilassò un poco.

«Che fai qui?» sussurrò Romeo, che ancora aveva la forzadi parlare, al giovane africano.

«Liberare voi.» rispose il buon Kuma.«Stai rischiando la vita, va via.» esclamò il poeta alzando

un pelo la voce.«Io no via. Io con voi.» disse il ragazzino gesticolando.Romeo, pur non essendo d’accordo, dovette accondiscen-

dere per evitare che venissimo scoperti. Riprese a camminare verso la foresta e noi lo seguivamo.

Ad un tratto Kuma prese la testa del gruppo dicendo sempli-cemente al chitarrista:

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«Di qua.». Sotto la guida sicura del giovane riuscimmo a lasciare il

villaggio senza essere visti, ma per arrivare alla macchinaavevamo ancora più di due ore di cammino. La luna rischia-rava anche il sentiero al di sotto dei rami degli alberi e qual-siasi sentinella avrebbe potuto vederci se avessimo percorsola strada usuale.

Decidemmo di rimanere al riparo delle fronde folte dellagiungla.

Ad un tratto udimmo alle nostre spalle una voce che squar-ciò il monotono e rumoroso silenzio della giungla. Una vocelontana, alla quale se ne assecondarono altre ancora più di-stanti, più flebili.

Ci stavano già cercando. Avevano scoperto in fretta la no-stra fuga. Probabilmente era stata una delle guardie che pas-sando di lì aveva visto l’apertura praticata da Romeo.

Ci fermammo e cercammo di scomparire dietro ai tronchidegli alberi. Le voci si avvicinavano nel buio, ma non si ve-devano luci e questo mi diede coraggio. I ribelli non avevanovantaggi dalla loro. Vagavano nel buio proprio come noi.

Dal mio nascondiglio potevo vedere Romeo, le spalle ap-poggiate ad un tronco con la chitarra appoggiata a terra. Im-provvisamente un soldato gli si affiancò, silenzioso, senza no-tarlo. Il poeta lo vide prima di essere scoperto e gli saltò alcollo con la corda della chitarra ancora tra le mani salvandola nostra fuga. Il soldato non riuscì ad emettere suoni abba-stanza forti da essere uditi dai suoi compagni, ma si battè co-me un leone prima di cadere a terra, non seppi se svenuto omorto strangolato. Pensai che anche lui, in fondo, era solo unuomo. Si era salvato la pelle, forse ammazzando uno di que-gli uomini che voleva aiutare.

Non potevamo rimanere lì. Avrebbero potuto scoprirci da

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un momento all’altro, così, quando Kuma ci ordinò di seguir-lo, non esitammo un istante. Ci dirigemmo il più silenziosa-mente possibile verso la parte opposta dalla quale sembrava-no provenire le voci.

Non incontrammo nessuno, ma ci imbattemmo, con miagrande sorpresa, in un’altra capanna come quella che avevoscovato poche ore prima e in cui avevo trovato le bimbe. Unacostruzione poco più grande, ma come l’altra chiusa da ognilato e silenziosa. Tremendamente silenziosa, di un silenzio si-nistro, pieno di terrore e di sofferenza.

Indicai a Romeo la casupola facendogli capire che avrem-mo dovto forzarne l’ingresso. Romeo si avvicinò a me insie-me a Kuma.

«Che c’è? » mi chiese sottovoce.«Le bimbe,» risposi sempre con un tono molto basso «e-

rano in una capanna come questa quando le ho trovate.»«Vero.» intervenì Kuma. «Le femmine qui. Tanti posti co-

me qui nella foresta.» Trasalii al pensiero che anche Kuma, come tutti i soldati,

doveva aver abusato di quelle povere creature indifese chissàquante volte.

Romeo non spiccicò parola, ma fu il primo a passare all’a-zione, sotto i miei occhi affascinati e quelli sorpresi di Kuma,che in quelle bambine ignobilmente sfruttate non ci trovavanulla di male.

L’uscio fu forzato in pochi istanti e ciò che trovammo di-mostrò la fondatezza delle mie ipotesi. Altre bambine, forseuna ventina, erano rannicchiate nell’umidità buia e tremendadella foresta. Abbandonate alla notte e ai loro stessi incubi.

Il poeta ci ordinò gesticolando di seguirlo e noi obbedim-mo senza batter ciglio. Entrammo nella casupola facendo re-trocedere ulteriormente le bambine impaurite. Dopodichè ac-

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costammo la porta in modo che sembrasse chiusa come l’a-vevano lasciata i ribelli.

Kuma sembrava non comprendere ciò che stavamo facen-do. Chiese sussurrando, preso dalla paura di finire nelle manidei suoi vecchi amici:

«Perché noi non via. Qui loro trovano noi sicuro.» Romeo rispose in tono tranquillo che non ce ne saremmo

andati senza quelle bambine. In quell’istante Kuma compre-se che io e il mio amico avevamo una grande tristezza dipin-ta sul volto e la collegò immediatamente a quelle bambinesole e abbandonate. Capì che quelle piccoline trattate in quelmodo suscitavano la nostra rabbia e il nostro sconforto. Ab-bassò la testa senza dire niente. Si era così affezionato a noiche credeva ciecamente nelle nostre convinzioni. Se noi era-vamo sconfortati, lo era anche lui. Il nostro minimo disap-punto provocava in lui immani battaglie tra passato e presen-te. In quel momento, pensai, si vergognò ripensando a comeaveva trattato quelle bambine indifese. E ciò solo in base alnostro modo di vedere le cose. Tutto quello che aveva impa-rato con i ribelli sembrava svanire sotto l’effetto del nostroesempio.

Avrei voluto abbracciarlo per fargli capire che noi non loavremmo abbandonato a se stesso. Egli non era colpevole,per noi. Era vittima, esattamente come quelle piccole fanciul-le che tremavano per la nostra insolita presenza. Con l’unicadifferenza che Kuma, ora, poteva fare qualcosa per difenderese stesso, mentre le bimbe restavano comunque degli esseriindifesi e innocui. Ma resistetti alla tentazione di stringerlotra le braccia, pensando che quel senso di colpa che lo atta-nagliava avrebbe potuto convincerlo di quanto fosse stato mi-serabile il trattamento riservato alla sua vita e a quella dellegiovinette.

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Ad un tratto udimmo dei passi fuori dalla capanna. Ci riti-rammo ognuno nella propria silenziosa solitudine, cercandodi trattenere il respiro e di scomparire contro le pareti.

Romeo, proprio di fronte a me, prese la chitarra tra le manied iniziò a muovere le dita sulle cinque corde rimanenti. Al-l’inizio non sentii nessun suono, ma poi, concentrandomi, in-credulo, su di lui, udii la sua musica. Ero spaesato di fronte aquelle note pronunziate nel silenzio delle nostre menti bloc-cate dalla paura. Ci dovevamo nascondere e Romeo comin-ciava a suonare.

Kuma, come me, rimase allibito di fronte a questa ingenuaazione irresponsabile. Mi staccai dalla parete per avvicinarmial poeta e farlo smettere fintanto che il volume era così lieveda non poter, forse, essere udito all’esterno. Ma compresi dibotto, avvicinandomi a lui, che quelle note, quelle scale, quel-la poesia in musica non mi era nuova. Con quei rapidi movi-menti delle dita sulle corde Romeo non produceva soltantosuoni, ma una realtà, un mondo, una campana di vetro dentrola quale tutto assumeva il colore della sua anima. Noi erava-mo dentro la sua campana ed eravamo immersi nell’atmosfe-ra che lui stava creando. Quella stessa atmosfera che avevorespirato in una notte lontana, insieme a Romeo. La notte incui avevo rischiato di perdere la vita. La notte dei leoni. Nonposso essere sicuro che quelle fossero le stesse note, ma l’a-ria che respirai era la stessa di quella notte. La stessa paura,lo stesso silenzio nel mio cuore. E poi la stessa sorpresa nelvedere Romeo, impavido e temerario, a sfidare la sorte. Lui,solo con la sua chitarra.

Non ebbi il coraggio di fermarlo. Quello avrebbe potutoessere l’ultimo minuto della nostra vita, ma forse valeva lapena di viverlo così, come ci stava obbligando a fare Romeo.Una vita di una densità tale che la morte non avrebbe potuto

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annullarla di colpo. Una vita che avrebbe resistito, noi morti,nell’aria, nel vento e nei ricordi dei nostri carnefici. Perchéquella non era soltanto una musica improvvisata. Quella erala vita stessa in trasposizione materiale. Tutte le domande co-smiche ed esistenziali di un uomo, in quei suoni sussurrati,potevano trovare soddisfazione. Ogni sfioro, ogni salto di cor-da del poeta, era un occhiolino all’esistenza, una sfida allabanalità dell’uomo, un elogio alla sua fragilità.

Il tempo che passai tra la paura e il fascino irresistibile diquelle note fu lungo quanto intenso. Minuti, secondi, ore, nonebbero più significato per me. Non potrei mai dire quanto ri-manemmo intrappolati in quella tagliola temporale. La miapersona dovette allungare il tempo, ampliarlo e strapazzarlo,per farci entrare tutte le emozioni del momento. Credo chequella fosse la relatività di cui mi parlavano i professori ascuola, quando ero ragazzo. Ma mai un professore aveva sa-puto spiegarmi tanto. Mai mi sentii vivo come in quei fran-genti, paradossalmente quando la morte sembrava volersi im-possessare di me.

Romeo, persistendo nella sua pittura, mi rese meno timo-roso e più tranquillo. Ero pronto ad affrontare i proiettili checi sarebbero piombati addosso, perché ero felice di essere vi-vo e di aver scoperto di esserlo stato per tutta la mia vita. Me-glio tardi che mai. E in quel momento tutta la mia esistenzaassumeva un senso. La vita bastava a se stessa se la si potevaincontrare come avevo fatto io. Essere vivi era motivo di feli-cità. Non sapevo se questo dipendesse da noi, da qualcosa disuperiore o da nulla. Non lo so tuttora. Ma sono vivo, comeallora, e sono felice di esserlo.

I soldati all’esterno non udirono nulla. Non poterono par-tecipare al mio sconvolgimento interiore, perché non aveva-no potuto sentire la musica che l’aveva provocato.

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Rimanemmo tutti immobili ad ascoltare. Non più passi.Niente più rumori di vestiti che sfregavano sulla pelle neradei ribelli.

Guardai Romeo e nella penombra rigata di fasci irregolaridi luce notturna riuscii a scorgere la frase sulla sua chitarra.“Il giorno più bello della mia vita”. Atri pensieri, altre con-vinzioni si susseguirono nella mia mente. Romeo aveva co-minciato a suonare per rendere l’ora della sua morte anchequella più bella della sua vita. Poetico, come sempre.

Quando ci sentimmo un poco più al sicuro, quel pazzo ar-tista si inginocchiò vicino alle bambine e cominciò a parlarloro nella lingua che avevo sentito utilizzare dai ribelli. Essetrovarono in lui sicurezza e bontà e si distesero un po’. Subitodopo decidemmo che saremmo rimasti lì fino all’alba, chenon doveva essere lontana, e poi saremmo fuggiti con le bam-bine e Kuma, che giaceva in silenzio in un angolo appoggia-to con la schiena alla parete. Romeo gli chiese come stava elui disse con le lacrime agli occhi:

«Voi credete che mia è brutta vita. Voi odiate me per quel-lo che ho fatto. Io come loro. E loro cattivi.» disse indicandol’esterno.

«Se sei cattivo, perché piangi?» chiese il poeta con untono paterno che non gli avevo mai sentito usare. Poi preseKuma per un braccio e lo tirò su, facendolo alzare.

«Sei libero. Puoi andartene anche subito se vuoi.» conti-nuò Romeo.

Kuma si fece duro in volto ed esclamò tralasciando la pru-denza:

«No andare! Io aiuto miei amici!» Romeo sorridendo lo invitò ad abbassare il tono di voce. «Kuma è buono.» disse poi rivolgendosi a me, anche se il

vero destinatario di quelle parole era il povero ragazzo.

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«Lo so bene.» risposi continuando quel dialogo fasullovolto a consolare il nostro giovane amico.

Accennammo entrambi un sorriso e Kuma cercò di farealtrettanto.

«Quanto è distante la tua jeep?» mi chiese poi Romeo,considerando chiuso l’argomento precedente.

«Non saprei con esattezza.» risposi. Avevamo lasciato ilcampo di notte con la paura di essere acciuffati e la mia ulti-ma preoccupazione era stata quella di mantenere vigile ilsenso dell’orientamento. Non avevo idea di quanto fossimodistanti dal campo, o dal sentiero, o dall’automobile.

«È dove era altra volta?» mi interrogò Kuma. Annuii.«Allora poco lontano, io so.» concluse trionfale. «No. Dobbiamo andare dalla parte opposta.» continuò

Romeo. «I soldati si aspettano sicuramente che cercheremo diraggiungere il mezzo.»

«Io conosco sentiero per arrivare Uganda senza passarevicino loro.» insistette Kuma, con la sua grande voglia di ren-dersi utile.

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CAPITOLO 16

Aspettammo l’alba che non si fece attendere più di un paiod’ore, poi lasciammo furtivamente la capanna e seguimmo Ku-ma che ci guidò abilmente tra i labirintici sentieri della foresta.

Camminammo per tutta la mattinata, senza soste, fino aquando il sole non raggiunse il punto più alto nel cielo. Kumatracciava la rotta, in testa, insieme a Romeo, mentre io li se-guivo con lo sguardo da dietro le bambine che camminavanostancamente senza sapere ciò che le stava aspettando, abban-donate alla volontà di tre sconosciuti.

Giungemmo ad una strada sterrata che tagliava dolcemen-te in due la foresta e da lì piegammo verso sud, in direzionedell’Uganda.

Kuma ci assicurò che in quel luogo i ribelli non ci avreb-bero scovato. Ci trovavamo vicino al confine e i soldati rego-lari dell’esercito perlustravano spesso quella zona.

Camminammo più rilassati per un altro paio d’ore, finchèla strada non divenne asfaltata e in lontananza, nella tavolapiatta della savana, si intravidero delle case che dovevano for-mare una piccola cittadina. La foresta aveva lasciato spazioad una vegetazione più rada e mi sentii in pericolo senza labenigna protezione dei folti rami degli alberi. Non ero anco-ra convinto di essere in salvo. C’era qualcosa dentro di meche mi ordinava di non abbassare la guardia e di non rallen-tare il passo. Era di nuovo quell’istinto grazie al quale avevopotuto scovare le bambine.

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I miei timori si dimostrarono fondati quando alle nostrespalle sopraggiunsero una decina di soldati.

Avevano seguito le nostre tracce dopo aver scoperto il no-stro nascondiglio, pensai. Ci voltammo tutti a guardare que-gli uomini armati che camminavano verso di noi, minacciosi.Sentii in me lo sconforto di chi è a un passo dalla propria me-ta e sa di non poterla raggiungere.

L’unica arma in nostro possesso era la chitarra del poeta.Proprio quando quest’ultimo si stava per dirigere verso i sol-dati, con la chitarra in grembo, Kuma cominciò a correre indirezione dei suoi vecchi compagni. Romeo si fermò in silen-zio e rimase a guardare. Io feci lo stesso. In pochi secondi ve-demmo il ragazzo raggiungere i ribelli e arrestare la loro a-vanzata. Erano troppo lontani per poterne sentire le voci, masembrò che Kuma parlasse molto decisamente e che i ragaz-zoni davanti a lui lo ascoltassero senza opporre resistenza.Pochi minuti e i soldati avanzavano verso di noi con il nostroamico in testa. Quando ci raggiunsero il primo a parlare fuproprio Kuma che disse con la sua voce da adolescente:

«Loro no inseguirci. Loro con noi. Vogliono andare via daforesta, fare come me.»

Romeo si allargò in un enorme sorriso che manifestavatutta la sua gioia per aver, almeno in parte, portato a terminela sua missione. Insieme a noi c’erano le bambine e più didieci soldati-fanciulli dell’LRA.

Qualche vita l’avevamo strappata a quella sporca guerrainfinita. Tutto grazie a Romeo e alla sua chitarra con la qualeaveva saputo convincere quei dieci ragazzi che una vita di-versa, per loro, era possibile.

Fu un’emozione che non potrei mai descrivere. Fortissi-ma, da far tremar le gambe. Una gioia talmente profonda darendermi incapace di esprimerla. Qualsiasi cosa avessi potu-

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to dire sarebbe stata una riduzione distorta dei miei veri sen-timenti. Se avessi saputo suonare uno strumento come Ro-meo, forse, avrei saputo spiegare meglio, ma a parole era im-possibile.

Ci rimettemmo in marcia e in breve raggiungemmo la cit-tadina che sorgeva davanti a noi con un passo vivo più chemai. Trovammo un telefono e avvisammo Mireja della nostrasituazione. La sua felicità, nel sentire la voce del suo amatoal telefono, trapelò dagli occhi lucidi del cantastorie che cer-carono i miei come per condividere un’emozione ed una gioiatroppo grandi da contenere. Fu la prima volta che vidi Romeocosì emozionato.

Mentre Mireja ci veniva a prendere, ci informammo sul-l’esistenza di posti di polizia, o di associazioni umanitarie,ma nella cittadina non c’erano né gli uni, né gli altri, così cilimitammo ad aspettare l’arrivo della ragazza che non si feceaspettare a lungo. Il suo arrivo meriterebbe uno spazio a sé,un’altra storia, interamente dedicata a quegli sguardi, a quellungo abbraccio, a quei baci e a quelle parole sussurrate. Maquesta non è una storia d’amore tra un uomo e una donna.Questa è soltanto una storia d’amore.

Romeo riprese a viaggiare. Non poteva fare diversamente.Quella era la sua vita. La regolarità, la normalità, per lui eraquella. Mireja lo seguì. Ovviamente. Non so dove siano, néquando li rivedrò. Non ci siamo mai più sentiti da quando lo-ro se ne sono andati. So soltanto che stanno insieme, dovun-que essi siano.

Io ho adottato il piccolo Kuma, che oramai non è più tantopiccolo, e insieme a lui ho costruito una scuola nel sud del-l’Uganda. La mia vecchia azienda mi ha dato un grosso aiutoin questo, ma non è stata l’unica. Abbiamo ricevuto consensi

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e offerte da molte organizzazioni, governative e non. La no-stra non è una scuola normale.

Insegnamo a leggere e scrivere, naturalmente, ma anche esoprattutto a suonare diversi strumenti musicali. Maestri vo-lontari, anche prestigiosi, arrivano qui da tutto il mondo perinsegnare a questi ragazzini quanto sia importante lasciar vi-vere l’arista che si nasconde in ciascuno di loro.

I bambini e le bambine che salvammo dalla guerra furonoi nostri primi studenti e formarono un gruppo che oggi si esi-bisce in tutto il mondo. Forse perché loro ebbero la fortuna diavere il maestro migliore. Uno di loro, oggi è tornato a tro-varci. Camminando verso il grande ingresso accogliente si èlasciato sfuggire una lacrima leggendo la scritta che diffondenei dintorni la nostra filosofia.

“Il giorno più bello della mia vita” ha sussurrato piangen-do.

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NOTE BIOGRAFICHE

Daniele Cavagna è nato a Bergamo nel 1983. È studente inScienze delle Arti Figurative, Musica e Spettacolo.Unisce in questo suo secondo romanzo la passione per lascrittura con quella per la chitarra.Ha pubblicato con “I fiori di campo” anche il suo primoromanzo: “La verità nella vittoria”

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Finito di stampare maggio 2006 presso

Digital Print Service Srl – Segrate (Mi)

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