Il Poema Di Gilgamesh Paradigma Della Vicenda Umana

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Paradigma della vicenda umana

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  • DANIELE CRISTOFORI

    IL POEMA DI GILGAMESH PARADIGMA

    DELLA VICENDA UMANA

    Edizione riveduta e corretta Lucca - marzo 2009

  • a Francesco Simi

    amico diletto e fedele compagno nellavventura dellanima

  • Nel corso della propria esistenza, luomo incontra molti Enkidu

    ed altrettanti ne accompagna alla tomba fra lacrime e disperazione.

  • Premessa Fra il 1994 ed il 2005 lavorai alla composizione di unopera musi-cale di grandi dimensioni, che intitolai Gilgamesh, ispirata ai versi di Sinleqiunninni. Terminata la stesura delle musiche, decisi di scrivere una breve introduzione, in cui avrei parlato del mio lavoro e dei motivi che mi spinsero ad intraprenderlo. Il libro, che intitolai Introduzione al Gilgamesh, fu portato a ter- mine nel dicembre del 2005 e, inizialmente, fu suddiviso in due parti distin-te; nella prima di esse, dopo aver descritto il difficoltoso cammino da me compiuto verso la comprensione del poema, esposi la mia personale inter-pretazione dellEpopea; nella seconda parlai delle difficolt e degli ostacoli da me incontrati durante il lavoro di composizione delle musiche. In seguito, su consiglio di alcuni amici, feci della prima parte del- lIntroduzione un volumetto a s, intitolandolo Il poema di Gilgamesh paradigma della vicenda umana; respinsi per il suggerimento di riscri-verne il testo e soprattutto di purgarlo di quanto di personale vi avevo in-cluso. Ritenendo infatti che la comprensione di unopera letteraria non si basi unicamente su considerazioni razionali, ma anche su di un ascolto pro-fondo delle risonanze che essa provoca nella nostra anima, non trovai fuori luogo dar conto di quanto si mosse dentro di me al tempo del mio primo approccio allEpopea, n inopportuno descrivere le obnubilazioni, le chiu-sure mentali, i preconcetti e la sofferenza che dovetti superare, prima di trovare un mio accesso ai versi dello scriba babilonese. Nel presente volume ripropongo quel mio scritto, ampiamente ri-veduto e corretto.

    Lucca, marzo 2009

  • Le citazioni dei versi omerici sono tratte da: - Omero, Odissea, trad. R. Calzecchi Onesti - Einaudi - Torino, 1968.

    Tutte le citazioni dallEpopea Classica Babilonese o da altre redazioni

    dellEpopea di Gilgamesh, sono tratte da: G. Pettinato, La Saga di Gilgamesh - Rusconi - Milano, 1992.

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    LEpopea Classica Babilonese

    La Saga di Gilgamesh affonda le proprie radici in un passato remo-tissimo, tanto da rappresentare, secondo gli studiosi del campo, il primo ci-clo epico nella storia dell'umanit. Gilgamesh, la cui realt storica assai dubbia, sarebbe stato un potente re sumerico ed avrebbe regnato sulla citt di Uruk non molto tempo dopo il diluvio universale. Proprio lui avrebbe re-staurato i luoghi di culto distrutti da quella immane inondazione.1 I primi testi letterari riguardanti le imprese del mitico sovrano di Uruk ci vengono da tavolette in lingua sumerica risalenti alla seconda met del terzo millennio, ma plausibile che racconti su Gilgamesh esistessero nella tradizione popolare da molte generazioni e che quella antichissima do-cumentazione scritta testimoniasse di fatto una gi avvenuta canonizzazione del personaggio e dei testi poetici che lo riguardavano. Con il graduale declino della civilt sumerica ed il progressivo af-fermarsi di quella babilonese, tutto il patrimonio culturale della prima si tra-sfuse nella seconda e Gilgamesh divenne l'eroe per eccellenza del mondo babilonese, cos come lo era stato di quello sumerico. Sin dalla met del terzo millennio, fior attorno alla figura di Gil-gamesh e a quella del suo amico Enkidu unampia produzione di poemetti e di racconti indipendenti, fino a che, in un periodo definito paleobabilonese (XVIII-XVI sec. a. C.), fu operata una prima fusione dei maggiori miti in un'opera unitaria che celebrasse il divino eroe di Uruk e le sue gesta. Di tale opera abbiamo molte testimonianze, giunte fino a noi attraverso le tavolette ritrovate negli scavi archeologici.

    A partire dalla prima met del secondo millennio a. C., la fama di Gilgamesh ed il fascino delle sue imprese si diffusero un po' in tutto il mon-do orientale, tanto che traduzioni dei racconti che lo riguardavano - e pi tardi, dell'intero ciclo epico - apparvero in tutte le pi importanti biblioteche antiche. Solo in un periodo tardo, tra il XIII e il XII sec. a. C., uno scriba babilonese, chiamato Sinleqiunninni, avrebbe proceduto alla ristesura del-l'opera, fondendo in un unico poema vari episodi, inserendo particolari non presenti nei testi pi antichi e conferendo alla composizione un respiro di grandezza assente nelle stesure precedenti. Sinleqiunninni sarebbe dunque l'Omero babilonese, colui che, rielaborando materiale mitico antichissimo, avrebbe dato forma al poema convenzionalmente denominato Epopea Clas-

    1 Cfr. Ep. Cl - Tav. I - v. 41

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    sica Babilonese, ritenuto a giudizio unanime una delle massime espressioni letterarie nella storia dell'umanit. L'opera fu originariamente scritta su dodici tavolette, il contenuto delle quali stato leggibile e ricostruibile per circa due terzi; le prime undici contengono il racconto completo delle imprese di Gilgamesh, la dodicesima appare, ad una prima lettura, come una sorta di appendice, nella quale viene riportata una parte dell'antico poema sumerico Gilgamesh, Enkidu e gli In-feri, in una traduzione quasi letterale. Non ostante le ampie lacune presenti nel testo, possibile ricostrui-re abbastanza agevolmente la trama dell'intero racconto, aiutandosi, laddove il testo sia corrotto o perduto, con le versioni che degli stessi episodi ci ven-gono fornite da scritti precedenti o da redazioni in altra lingua antica. La trama dellopera

    Il poema si apre con un lungo prologo dal tono nobile e solenne, tutto proteso a magnificare la figura dell'eroe per eccellenza, Gilgamesh, re di Uruk. Figlio di padre umano, Lugalbanda, e di madre divina, la dea Nin-sun, Gilgamesh possiede bellezza e potenza fisica senza pari ed destinato alla regalit fin dalla sua nascita. Divino per due parti ed umano per una, egli ha governato il proprio popolo con forza e saggezza ed ha reso la citt splendida ed eccelsa sopra ogni altra. Audace ed impavido, non ha esitato ad affrontare avventure dal-l'esito incerto, esponendosi a spaventosi pericoli e sopportando immani fati-che. Egli colui che ha restaurato gli antichi luoghi di culto distrutti dal di-luvio, che ha combattuto con le fiere sui passi montani, che ha ucciso mostri dalla forza prodigiosa e dall'aspetto terrificante; egli colui che ha percorso vie lontane alla ricerca della vita eterna e che, a tale scopo, non ha temuto di attraversare il mare di morte per raggiungere la dimora di Utanapishtim, il No babilonese. Terminato il prologo, il poeta d inizio alla narrazione delle impre-se del suo eroe, a cominciare da quando questi, poco pi che adolescente ed impetuoso quanto un toro selvaggio, assilla i propri sudditi con continue convocazioni. La vitalit del giovane re tale, che egli non fa che concepire nuove imprese, costringendo gli uomini della citt a seguirlo in ogni sorta di pericolosa avventura. Ci genera un diffuso malcontento nella cittadinanza, specialmente nelle madri e nelle mogli degli uomini. L'eco di tale malcon-tento giunge alle orecchie degli Di, che incaricano la divina Aruru di creare una controparte per l'irrequieto Gilgamesh, qualcuno che, pari a lui per forza

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    e prestanza fisica, non tema di affrontarlo e possa divenirgli amico. Aruru allora prende un grumo di creta e lo pianta nella steppa. Da quel grumo na-scer Enkidu, l'uomo primordiale, la cui forza e bellezza sar eguagliata solo da quella di Gilgamesh. Enkidu vive nella steppa al modo delle bestie: bruca l'erba, corre con gli animali feroci e, assieme a questi, mangia, beve e soddisfa le proprie brame sessuali. Un cacciatore vagabondo lo vede nella steppa e ne prova immenso spavento. Il padre di lui, a cui egli racconta dell'incontro, gli con-siglia di riferire la cosa a Gilgamesh, il pi saggio fra gli uomini, e di farsi dare da lui la Prostituta Sacra, grazie alla quale l'uomo primordiale, Enkidu, potr essere civilizzato. Il cacciatore segue il consiglio paterno ed ottiene da Gilgamesh la Prostituta Sacra, che conduce poi nella steppa allo scopo di farla accoppiare con Enkidu. Quando l'uomo primordiale, assieme alle gazzelle e agli altri ani-mali, scende dalla montagna verso le pozze d'acqua per abbeverarsi, la Pro-stituta si denuda ed Enkidu, attratto da lei, le si avvicina e la possiede. Per sei giorni e sette notti la possiede, fino a saziare tutte le proprie brame. Con l'iniziazione sessuale Enkidu viene purificato, perde la propria forza selvag-gia ed acquista coscienza di essere un uomo. Volge lo sguardo agli animali con i quali era vissuto fino ad allora, ma quelli fuggono via da lui. La Prosti-tuta Sacra, Shamkhat, suggerisce ad Enkidu di abbandonare la vita primitiva da lui condotta fino ad allora nella steppa e di scendere in citt, ad Uruk, dove potr conoscere Gilgamesh, il potente sovrano che regna con forza e saggezza. Enkidu accoglie favorevolmente le parole di Shamkhat e si in-cammina con lei verso la citt. Prima di giungervi per, i due fanno tappa alla capanna dei pastori ed Enkidu, per la prima volta, su suggerimento di Shamkhat, mangia pane e beve birra. Ora Enkidu non pi un uomo pri-mordiale; l'iniziazione sessuale lo ha civilizzato ed il suo stesso corpo, lava-to ed unto con olio soave, appare bellissimo e potente. I pastori ammirano le sue fattezze perfette e, affascinati, ne notano la somiglianza con quelle del loro re. Enkidu, a questo punto, vuole raggiungere la citt ed affrontare Gilgamesh, per dimostrare a tutti che la propria forza superiore a quella del re, ma Shamkhat lo avverte che Gilgamesh invincibile e che non v' uomo che possa sconfiggerlo. Inoltre - gli rivela Shamkhat - egli gi sa del suo arrivo, poich quella stessa notte i sogni lo hanno avvertito. Gilgamesh infatti viene visitato da due sogni, per entrambi i quali il significato il se-guente: un uomo bello e potente sta per giungere in citt ed il popolo ne prover ammirazione; il re di Uruk dapprima lo affronter, senza riuscire a piegarlo; in sguito per lo amer come una moglie e lo condurr presso la propria madre, affinch questa lo adotti come figlio. Gilgamesh non com-

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    prende il significato di questi sogni, ma la divina madre Ninsun, a cui egli li riferisce, li interpreta per lui e gli rivela ci che sta per avvenire. Giungendo in citt, Enkidu viene a sapere che il re in procinto di entrare nella casa di una giovane donna, sposa novella, per fruire dello jus primae noctis. Ci fa infuriare Enkidu e gli d motivo di affrontare Gilga-mesh. Con il piede sbarra lingresso alla casa della ragazza e non lascia che Gilgamesh passi. I due si affrontano e lottano cos furiosamente l'uno contro l'altro, da far tremare perfino le mura della citt. Nel terribile duello Enkidu ha la meglio e riesce a piegare Gilgamesh, come veniva annunciato dai due sogni che questi aveva veduto. Alla fine, per, Enkidu riconosce che Gilga-mesh un grande re e un uomo superiore ad ogni altro. Il duello ha termine e fra i due nasce una profondissima ed imperitura amicizia. Gilgamesh conduce Enkidu presso la madre Ninsun, affinch que-sta lo adotti come figlio, ma essa rifiuta; il giovane Enkidu ne rimane addo-lorato e piange. Per consolarlo Gilgamesh gli propone unimpresa eroica di grande difficolt: andare nella Foresta dei Cedri ed uccidere il divino guar-diano Khubaba, un mostro spietato e terribile, dotato di forza immane. En-kidu contrario a tale impresa, ma Gilgamesh decisissimo: convoca le as-semblee degli Anziani e dei Giovani di Uruk e, non ostante le perplessit ed i consigli negativi dell'amico, ottiene l'approvazione per limpresa. Ordina quindi che vengano forgiate le armi necessarie per s e per Enkidu, e di fatto non lascia a quest'ultimo alcuna possibilit di tirarsi indietro. Durante il viaggio alla volta della Foresta dei Cedri, Gilgamesh viene visitato da cinque sogni e ne resta profondamente turbato, ma Enkidu li interpreta tutti favorevolmente, traendo da essi il presagio del loro prossi-mo successo. Prima l'uno poi l'altro, i due eroi vengono assaliti dalla paura e tre- mano di terrore all'idea di dover affrontare il mostro Khubaba, la cui ferocia tremenda. L'avventura per termina con successo: il mostro viene ucciso e i cedri abbattuti. Enkidu sceglie il pi bello fra gli alberi e progetta di co-struire, con quel legno pregiato, una splendida porta. Dopo l'impresa, Gilgamesh, insieme all'amico, si lava nelle acque dell'Eufrate ed indossa abiti regali. La sua bellezza suscita l'ammirazione del popolo. Anche la dea Ishtar resta affascinata dalla bellezza del re di Uruk e gli propone di diventare suo amante. Gilgamesh rifiuta decisamente e ri-sponde alla dea con grande fierezza, enumerando tutti gli amanti che ella aveva avuto e ricordandole la terribile fine a cui essi erano stati destinati dopo averla posseduta. La dea rimane profondamente offesa dalle parole e dal rifiuto di Gilgamesh e, rivoltasi ad Anu - il Padre degli Di - lo supplica di consegnarle il Toro Celeste, per mezzo del quale ella intende procurare

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    morte e devastazione alla terra di Uruk ed uccidere lo stesso Gilgamesh, che tanto l'aveva umiliata con il suo rifiuto. Il dio esita a concedere ad Ishtar quanto chiede, ma questa lo ricat-ta, minacciando di far risorgere dalla tomba tutti i morti, qualora la sua ri-chiesta non venga soddisfatta. Il Toro Celeste viene dunque mandato sulla terra e pi di trecento uomini periscono, cadendo nelle fosse aperte da quel mostro durante la sua corsa. Gilgamesh ed Enkidu affrontano anche questo secondo cimento ed uccidono il Toro Celeste, provocando cos le ire terribili della dea Ishtar. Enkidu poi, inveendo contro quest'ultima con parole di fuoco, le scaglia ad-dosso una spalla strappata al mostro ucciso e la dea, umiliata e sconfitta, si ritira nel suo tempio dove, circondata dalle ierodule, intona un lamento fu-nebre per la spalla del Toro Celeste. Una grande festa viene data nel palazzo reale e le grida di allegria e di gozzoviglia irritano ed umiliano ancor pi la dea Ishtar che, furibonda, chiede vendetta presso gli Di. Questi sentenziano che i due eroi, uccidendo prima il divino Khubaba e poi il Toro Celeste, si sono macchiati di colpe gravissime e decretano che Enkidu muoia. Nella notte gli uomini dormono nella bella Uruk e ristorano i pro-pri corpi nel riposo del letto. Anche Enkidu dorme, ma ha un sogno premo-nitore e, svegliatosi, lo rivela all'amico. Questi ne comprende il significato e tenta di consolarlo, ma dalle sue parole traspare la tragica verit rivelata nel sogno: gli Di, con sentenza irrevocabile, hanno decretato la morte di Enki-du. Questi si ammala infatti e lentamente si avvicina alla fine. Comprenden-do il destino che lo attende, lancia anatemi contro la porta che egli stesso aveva costruito con il legno di uno splendido cedro e, scagliatosi contro di essa, la fa a pezzi. Nella sua disperazione maledice con violenza il cacciato-re e la Prostituta Sacra, che lo hanno fatto uscire dalla sua steppa, dove ave-va vissuto libero e selvaggio. Le parole che pronuncia contro Shamkhat, la Prostituta Sacra, sono terribili, tanto che il dio Sole, a cui ella consacrata, si sente offeso e, facendo udire la propria voce dal cielo, rimprovera Enkidu, ricordandogli che proprio grazie a Shamkhat egli aveva potuto incontrare l'amico Gilgamesh. Enkidu allora, pentitosi, cambia la maledizione in una generosa benedizione. In preda al terribile male che lo sta lentamente uccidendo, Enkidu vede in sogno un giovane biondo, il cui aspetto simile a quello dell'aquila-Anzu. Questi, trasformatolo in una colomba, lo conduce alla Casa della Pol-vere, dove Enkidu vede lo squallore della vita dopo la morte. La malattia si protrae per dodici giorni, trascorsi i quali Enkidu, in preda a delirio, d in un grido e muore. Gilgamesh piange amaramente per la morte dell'amico ed

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    inconsolabile; pronuncia sulla salma di Enkidu un lungo ed accorato lamen-to funebre ed organizza esequie regali. Gilgamesh giovane e la scomparsa dell'amico lo pone tragica-mente dinanzi al mistero della morte. Egli non comprende perch mai l'uo-mo sia condannato ad un simile destino; spaventato all'idea che, come En-kidu, egli stesso dovr un giorno morire. Da qui ha inizio l'affannosa ricerca della vita eterna, condotta da Gilgamesh fra immense fatiche e con l'animo oppresso e prostrato dal dolore per la perdita dell'amico adorato. Ricoperto soltanto da una pelle di leone, egli vaga per lungo tempo nella steppa, tra-scurando il sonno e il nutrimento ed affrontando le belve feroci sui passi montani. Nel suo peregrinare, leroe giunge alla montagna degli uomini-Scorpione, orribili e spaventosi custodi di un monte invalicabile. L'uomo-Scorpione lo riconosce e lo accoglie benignamente, poich sa che Gilga-mesh per un terzo uomo e per due terzi dio. Gli apre la montagna e gli permette di entravi, avvertendolo che dovr camminare allinterno di essa per dodici ore doppie in una assoluta oscurit, senza alcuna luce. Gilgamesh si avvia e, in quelle nere tenebre, cammina per dodici doppie ore, fino a che non esce di nuovo alla luce in un magnifico giardino in cui fioriscono gem-me e pietre preziose, il Giardino del Dio Sole. Qui incontra la Divina Ta-verniera che, vedendolo sporco e trascurato, se ne spaventa e gli chiude la porta in faccia. Gilgamesh le rivela la propria identit ed il motivo di tanta trascuratezza e sfinimento. Spiega che la morte dell'amico amato lo ha get-tato nel dolore e nella paura e che ora egli vuole raggiungere Utanapishtim, l'eroe del diluvio, per apprendere da lui il segreto dell'immortalit.2 La Ta-verniera lo disillude, ricordandogli che la morte per gli uomini un destino inevitabile, decretato dagli Di. Lo avverte poi che Utanapishtim vive in un luogo lontanissimo, al di l del mare di morte, e che nessun uomo mai po-tuto giungere fino l. Date le pressanti richieste di aiuto avanzate da Gilga-mesh, per, ella gli indica la via che lo condurr da Urshanabi, il battelliere di Utanapishtim; se questi accetter di traghettarlo all'altra riva del mare di morte, gli dice, egli potr raggiungere la dimora dell'avo divinizzato; altri-menti dovr tornare indietro. Seguendo le indicazioni della Divina Taverniera, Gilgamesh va nel bosco ed incontra Urshanabi. I due si affrontano e lottano corpo a corpo, ma Urshanabi ha la meglio ed immobilizza Gilgamesh; una volta conosciuta l'i-dentit dell'avversario, per, e udita la sua richiesta, Urshanabi accetta di

    2 Diversamente dal No biblico, Utanapishtim, dopo il diluvio, ottenne dagli di di essere elevato alla dignit divina insieme alla moglie e di godere dell'immorta-lit.

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    farlo salire sulla propria barca e di traghettarlo al di l del mare di morte, verso la dimora di Utanapishtim. Quest'ultimo lo accoglie benevolmente ed ascolta il triste racconto dei suoi dolori, ma non pu indicargli una via per ottenere la vita eterna. Al contrario, gli conferma che la morte inevitabile per gli uomini e che, di conseguenza, ogni fatica da lui sopportata in quella ricerca stata inutile. Lo rimprovera per aver tanto trascurato il proprio a-spetto e per essersi quasi ammalato a causa della mancanza di sonno e di nu-trimento. Gli rammenta che l'essere sporco e dimesso non si addice ad un re, ma solo ai vagabondi. Utanapishtim narra poi a Gilgamesh di come avesse ottenuto l'im-mortalit per s e per sua moglie; gli descrive il diluvio universale e gli rac-conta di come, dopo quell'immane distruzione, gli Di si fossero raccolti in adunanza plenaria ed avessero decretato di innalzarlo alla dignit divina. In quel modo ed in quella occasione - spiega - egli aveva raggiunto l'immorta-lit e, poich un simile raduno degli Di non sarebbe pi stato possibile, nessun altro uomo avrebbe mai potuto ottenere la vita eterna. Questa l'amara verit che Gilgamesh apprende dall'avo immortale. Utanapishtim sottopone poi il re di Uruk alla prova del sonno, chiedendogli di rimanere sveglio per sei giorni e sette notti, ma Gilgamesh, non appena appoggia la testa sulle ginocchia, si addormenta e dorme per sei giorni senza interruzione. Al suo risveglio ha l'impressione di essersi assopi-to solo per qualche istante, ma Utanapishtim gli fornisce le prove del tempo trascorso e Gilgamesh deve convincersi di avere fallito la prova. Preso da sconforto, accetta il consiglio dell'avo e decide di fare ritorno ad Uruk. Condotto da Urshanabi al lavatoio, Gilgamesh viene lavato, purificato e ri-vestito di abiti nuovi e splendenti; dopodich si accinge a partire. Utanapishtim prova compassione per il giovane re e, su suggeri-mento della moglie, gli offre un dono: gli indica il modo di procurarsi una pianta prodigiosa che, se mangiata, ridona giovinezza e forza virile anche ad un uomo vecchio. Gilgamesh accoglie con gioia il dono e decide che, una volta procurata la pianta, l'avrebbe fatta mangiare agli anziani di Uruk per ringiovanirli e ne avrebbe mangiato egli stesso. Seguendo l'indicazione di Utanapishtim, si butta in mare, coglie sul fondo la pianta prodigiosa e, non-curante del dolore che questa gli procura alle mani pungendolo con le sue spine, risale con essa in superficie; imprudentemente, per, appoggia la pianta per terra mentre va a lavarsi e un serpente, giunto all'improvviso, la ingoia, cambiando subito pelle. Gilgamesh, definitivamente sconfitto, deci-de di rassegnarsi, di abbandonare la ricerca della vita eterna e di far ritorno ad Uruk senza altro indugio. Qui termina la Tavola XI e si conclude il racconto delle avventure di Gilgamesh. Nell'ultima Tavola, la XII, viene riportata, come dissi, una

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    traduzione quasi letterale di una parte del poema sumerico Gilgamesh, En-kidu e gli Inferi. L'episodio narrato sembra non aver nulla a che vedere con i fatti esposti nelle prime undici tavolette; Enkidu, che qui veste i panni del servo fedele e devoto di Gilgamesh, scende agli Inferi per recuperare gli strumenti di lavoro - il pukku e il mekku - del suo signore, scivolati laggi attraverso un buco. Prima che Enkidu discenda agli Inferi, Gilgamesh gli d alcuni consigli su come procedere nel regno dei morti, per non correre il rischio di rimanervi intrappolato. Il giovane per non segue le indicazioni ricevute e viene trattenuto agli Inferi. Gilgamesh, terribilmente addolorato per la perdi-ta del servo amato, ottiene dal dio Ea che Enkidu possa uscire attraverso una fessura e parlargli per qualche istante. Nel triste incontro fra i due, Enkidu descrive lordinamento degli Inferi e la propria condizione in quel luogo di morte. Gilgamesh ascolta le parole dellamico con profondo dolore e, getta-tosi a terra nella polvere, piange disperatamente.

    (Khubaba)

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    Difficolt di approccio allEpopea

    1. Il primo approccio al Canto di Gilgamesh Quando mi accostai alla lettura dellEpopea Babilonese, la mia i-gnoranza a riguardo del mondo mesopotamico era pressoch totale e la Ter-ra fra i due fiumi non era per me che un'area del vicino Oriente, culla di an-tiche civilt, scomparse e dimenticate. La stessa geografia di quella terra era piuttosto confusa nella mia mente e di certo non avrei potuto indicare su una carta neppure la citt da cui part Abramo.3 Tigri, Eufrate, Babilonia, Ninive, ed alcuni nomi di so-vrani, come Hammurabi, Sargon o Nabuccodonosor - che peraltro non avrei saputo collocare cronologicamente se non con un'approssimazione di molti secoli - erano tutto ci che conoscevo al riguardo.

    Il primo e forse unico contatto con l'arte mesopotamica lo ebbi in occasione della mia visita al Museo Britannico, dove mi recai per la prima volta in giovane et e con il solo fine di ammirare il fregio del Partenone. Soltanto per caso mi imbattei nei bassorilievi assiro-babilonesi, esposti in un lungo corridoio fra le sale della collezione egizia e quelle della scultura gre-ca.

    3Abramo, su ordine di Dio, lascia la casa del padre e parte da Ur (Ur dei Caldei nel Sacro Testo), dirigendosi verso nord.

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    Avevo diciotto anni, fresco di liceo classico, legato alle forme scul-toree della Grecia del V secolo e del tutto convinto che in esse sole risiedes-se perfezione e bellezza; non ostante tale rigidezza, rimasi immensamente colpito dalla straordinaria raffinatezza di quei bassorilievi appena accennati e dalla vivezza delle figure che uscivano nobili ed ancora combattive dalla pietra grigia; ci non mi indusse per a documentarmi su quel mondo, al cui riguardo continuai ad essere del tutto ignorante. Fu solo nell'inverno del 1994 che ebbi occasione di udire per la prima volta il nome di Gilgamesh. Ci accadde durante una delle mie molte conversazioni con un amico caris-simo, grazie al quale ho potuto colmare, nel corso dei passati sei lustri, non poche delle mie innumerevoli lacune culturali. L'argomento cadde sulla po-esia epica ed in particolare sui poemi omerici, per i quali da sempre provo infinita ammirazione, ed io gli chiesi se vi fossero state in altre culture pro-duzioni di cicli epici degni di stare alla pari di Omero. La mia domanda non proveniva da un serio amore di conoscenza, ma dall'irrazionale desiderio di udire, attraverso la risposta negativa che presumibilmente avrei ricevuto, u- na nuova conferma della grandezza e sublimit del cieco cantore della Ionia, al quale da sempre amo conferire con commozione un assoluto ed indiscus-so primato poetico.4 L'amico, per, deluse quel giorno le aspettative della mia emotivit e, anzich confermarmi l'assoluta unicit di Omero, mi parl del Canto di Gilgamesh, esaltandone la sublimit poetica e non esitando a collocarlo all'altezza dei poemi omerici. Oltremodo incuriosito, desiderai subito leggere quell'opera, di cui fino ad allora avevo ignorato perfino l'esi-stenza. Non posso negare per che l'equiparazione ad Omero di un poema sconosciuto mi lasci sorpreso e quasi incredulo, tanto che se colui che mi parlava non fosse stato persona di cui conoscevo freddezza scientifica ed obiettivit di giudizio, avrei ritenuto una simile valutazione a dir poco im-prudente, se non addirittura temeraria, e dettata pi da un entusiasmo sog-gettivo e sovradimensionato, che non da serie osservazioni scientifiche. Di sovradimensionato in realt non c'era che la mia ignoranza e l'immancabile conseguenza di essa, il pregiudizio, che spesso affonda le proprie radici ben al di sotto della coscienza. Cos, non ostante le affermazioni dellamico e la fiducia che riponevo in esse, mi accostai a quella lettura senza aspettarmi nulla pi che una primitiva esposizione di gesta gloriose, compiute da eroi incapsulati in una rigida formula mitica, una noiosa schematizzazione, in-

    4 Non diverso fu il mio sentire nella Citt Eterna quando, da bambino, fui condotto per la prima volta in Piazza San Pietro; pur consapevole di trovarmi davan-ti al pi imponente tempio cristiano esistente, non la finivo di chiedere a mia madre se ve ne fossero altri al mondo pi grandi di quello ed ogni volta la risposta negativa riaccendeva in me l'entusiasmo e lo stupore.

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    somma, di virt eroico-religiose, del tutto priva di attenzione alla personalit e alla umanit dei personaggi. Tale pregiudizio si rafforz ancor pi quando lessi, nel saggio in-troduttivo di G. Pettinato,5 che le prime redazioni dell'opera risalgono addi-rittura all'inizio del secondo millennio a. C. e che probabilmente raccolgono materiale gi antico di secoli. Se da un lato, dunque, la mia mente razionale prestava fede alle parole del mio amico, dall'altro i miei schemi di riferi-mento emotivi giudicavano eretiche ed irriverenti le sue valutazioni e rite-nevano improponibile un paragone con la grandezza d'Omero. Ci non di meno, affascinato come ero dalla letteratura antica in generale, ed ancor pi da quella antichissima, presi a leggere la traduzione delle tavolette della E-popea; quel primo contatto, per, non dette buon esito e il mio rigido pre-giudizio fece s che ogni messaggio proveniente dal testo cozzasse contro il muro dei paradigmi estetici, che la tradizione umanistica occidentale aveva eretto nella mia mente e nella mia anima. Fui addirittura l l per restituire il volume all'amico che me l'aveva prestato e solo in sguito ad un invito da parte sua a ritentare l'approccio, riportai il libro a casa e lo posi di nuovo sul comodino accanto al letto. Qualche giorno pi tardi, lo ripresi in mano e questa volta le barriere mentali cominciarono a mostrare qualche crepa, al-meno quanto bast a non farmi interrompere di nuovo la lettura; la mia mente per era pi attenta a rilevare le povert del testo che non le ricchez-ze, e a valutare le une e le altre esclusivamente sul confronto con la tradi-zione della poesia greca, che aveva fatto da base alla mia formazione. La concisione del racconto, la semplicit delle formule, la relativa povert del-l'aggettivazione, la ripetitivit delle immagini metaforiche e tutto questo pa-ragonato automaticamente alla fantasia, all'eleganza e alla solennit di Ome-ro, confermavano la mia convinzione preconcetta che si trattasse di un'opera primitiva e, se pur affascinante, non avvicinabile di certo all'Iliade o all'O-dissea. Proprio al primo canto di quest'ultima andai con il pensiero quando il poeta babilonese, immediatamente dopo il prologo, mi trasport di colpo e senza alcuna preparazione nel bel mezzo del Concilio degli Di. Pochi versi danno conto del motivo dell'adunanza e narrano di come gli Eterni, udite le eco del malcontento suscitato nei cittadini di Uruk dal comportamento op-pressivo di Gilgamesh, affidino alla dea Aruru l'incarico di risolvere il pro-blema; e subito la scena si sposta nella steppa, dove la dea crea Enkidu.6

    5 G. Pettinato, La Saga di Gilgamesh - Rusconi - Milano, 1992.

    6 Ep. Cl. - Tav. I - vv. 63-87 Della Figlia del guerriero, della moglie del nobile

    gli di udirono i lamenti. Gli di del cielo dissero: Il signore di Uruk, l'ovile,

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    Se nella sede d'Olimpo assistiamo ad un sottile giuoco psicologico, che vede Atena come abile peroratrice della causa di Odisseo, e siamo spet-tatori di un gioco delle parti degno di una moderna assemblea di politici,7

    non sei stata proprio tu, o Aruru, che l'hai creato

    come toro selvaggio? Non vi rivale per lui. Le sue armi sono sempre sollevate

    e al suono del pukku egli fa accorrere i suoi compagni; Gilgamesh non permette che il figlio stia con suo padre.

    Giorno e notte il suo comportamento oppressivo. Egli il pastore di Uruk, l'ovile,

    egli il loro pastore, eppure [ ], il potente, il superbo, l'intelligente e l'esperto, Gilgamesh non permette alla fanciulla di stare

    con suo marito; della figlia del guerriero, della moglie del nobile

    Anu ud il lamento pi e pi volte. Essi allora convocarono Aruru, la grande:

    Proprio tu, o Aruru, l'hai creato; crea ora la sua controparte.

    Per contrastare l'ardore delle sue energie fa' che essi combattano fra di loro, cosicch ad Uruk torni la pace. Quando Aruru ud queste parole

    concep nel suo cuore l'immagine di Anu. Aruru lav le sue mani,

    prese un grumo di creta e lo piant nella steppa. Essa cre un uomo primordiale, Enkidu, il guerriero,

    seme del silenzio, la potenza di Ninurta.

    7Odissea - Canto I - vv. 48-87 Ma il mio cuore si spezza per Odisseo cuore ardente, misero!, che lunghi dolori sopporta lontano dai suoi,

    nell'isola in mezzo all'onde, dov' l'ombelico del mare: isola ricca di boschi, una dea v'ha dimora,

    la figlia del terribile Atlante, il quale del mare tutto conosce gli abissi, regge le grandi colonne,

    che terra e cielo sostengono da una parte e dall'altra. La figlia sua trattiene quel misero, afflitto,

    e sempre con tenere, maliose parole lo incanta, perch scordi Itaca. Invece Odisseo,

    nel desiderio di scorgere sia pur solo il fumo, che balza dalla sua terra, vuole morire. E ancora il tuo cuore

    non si commuove, Olimpio. Forse Odisseo non t'era gradito, facendoti offerte presso le navi argive

  • 23

    nell'Epopea Babilonese il racconto appariva rapido e sbrigativo, tanto da sembrarmi addirittura poco efficace. A sottolineare una certa angolosit dei versi contribuirono poi al-cune espressioni, usate da G. Pettinato nella sua traduzione, che, pur chiaris-sime nel significato, mi parvero, ad una prima lettura, un po' troppo tecniche e direi inattese in un contesto poetico. Nel brano dellincontro con la Divina Taverniera, ad esempio, provai qualche fastidio per le parole dal sapore un po' troppo moderno con cui Gilgamesh chiede che gli venga indicata la via verso la dimora del divino Utanapishtim8 e mi fu inevitabile il paragone con

    nell'ampia Troia? Perch cos t'adirasti con lui?

    E rispondendo disse Zeus che aduna le nuvole: Creatura mia, che parola t'usc dal riparo dei denti.

    Come posso scordare il divino Odisseo, che fra i mortali eccelle per mente e offriva eccellenti

    sacrifici ai numi immortali, che il cielo vasto possiedono? Ma Poseidone che scuote la terra inflessibilmente

    irato per il Ciclope, a cui l'occhio accec, per Polifemo divino, la cui forza massima fra tutti i Ciclopi; lo gener Tosa, la ninfa

    figlia di Forchis, signore del mare instancabile, nei cupi anfratti unita con Poseidone.

    Perci Poseidone Enosictono, se pur non l'uccide, fa errare lontano dalla sua terra Odisseo.

    Ora per studiamo noi tutti quanti il ritorno, come sar. Smetter Poseidone

    la collera sua, non potr contro tutti gli di immortali voler lottare da solo!

    E gli rispose la dea Atena occhio azzurro: O nostro padre Cronide, sovrano tra i potenti,

    se questo caro ai numi beati, che alla sua casa torni l'accorto Odisseo, allora, Ermete messaggero, argheifonte mandiamo all'isola Ogigia, che subito

    alla dea trecce belle dica decreto immutabile, il ritorno del forte Odisseo, perch possa tornare.

    8 Ep. Cl. - Tav. X - vv. 76-81

    Gilgamesh (insistendo), parl a lei, alla taverniera: Ora, o taverniera, qual la via per arrivare

    ad Utanapishtim? Indicami la direzione, qualunque essa sia;

    dammi le coordinate!

  • 24

    il passo dell'Odissea in cui il re di Itaca, sconvolto all'idea di intraprendere un viaggio verso l'Ade, piange e si lamenta con la Maga Circe.9 La somiglianza fra le due situazioni mi parve evidente: entrambi gli eroi debbono intraprendere un viaggio spaventoso, mai tentato da altro essere umano, luno verso la dimora dell'avo divinizzato, oltre il mare di morte, e l'altro verso gli Inferi, luogo da cui nessun uomo ha mai fatto ritor-no. Ma quanto diverso mi appariva il clima generato dai versi omerici, quanto pi calde e coinvolgenti le immagini dipinte dal Greco Cantore e quanto secche e di nuovo sbrigative al confronto le parole rivolte da Gilga-mesh alla Divina Taverniera! Il continuo confronto con Omero mi imped dunque per parecchio tempo di ricevere i messaggi che il Canto di Gilgamesh mi inviava. Ma un giorno il libro mi capit per caso fra le mani e, inaspettatamente, quei versi risuonarono nella mia mente in modo del tutto nuovo - ci accade spesso lungo i misteriosi sentieri battuti dalla coscienza - e fu come se io li udissi in quel momento per la prima volta. Ad esaltare la figura di un giovane re dall'animo ardente e a cele-brarne le gesta si levava fino a me, da un tempo antico pi di tremila anni, una voce nobile e solenne, dall'accento vibrante ed autorevole. Per la prima volta riuscivo ad udirne il suono e a veder le figure da essa evocate innalzar-si fresche e vigorose dinanzi a me. Azzittite le saccenti istanze della mia mente, quel cantore nobile ed appassionato reclamava ora il diritto ad essere ascoltato e mostrava la propria autorevolezza, suscitando in me reverenza e soggezione. Il mio pensiero non and ad Omero quella volta, non ne ebbe il tempo, la voce era troppo autorevole, ammaliante; il personaggio di cui si parlava era nobile, grande oltre ogni confronto ed il piglio del poeta era tale, che non lasciava spazio alcuno alla replica, ma imponeva silenzio e devo-zione. A testimoniare di quel principe, di quell'uomo senza pari, che tutti sovrasta per grandezza, nobilt e sapienza, Sinleqiunninni chiama la citt stessa di Uruk, le sue fondamenta, le sue mura possenti, i merli color rame e l'imponente edificio dell'Eanna, l'abitazione della Dea Ishtar, e disegna del

    Se necessario, attraverser il mare,

    se no, vagher nella steppa.

    9 Odissea - Canto X - vv. 497-502 Piangevo seduto sul letto e il mio cuore non voleva pi vivere, veder luce di sole.

    Ma quando fui sazio di rotolarmi e di piangere, allora le risposi parole e le dissi:

    O Circe, chi dunque m'insegner questa via? All'Ade nessuno mai giunse con nave nera.

  • 25

    giovane sovrano un ritratto cos solenne, da incutere devozione e sacro ti-more.10 Con orgoglio il poeta descrive l'uomo, il re, il semidio con il quale nessuno potrebbe mai reggere il confronto; ne canta la bellezza ed il vigore fisico, la dolcezza e la generosit del cuore, l'indomito coraggio e la ferrea tenacia con cui egli condusse l'estenuante ricerca della vita eterna.11 Infine

    10 Ep. Cl. - Tav. I - vv. 9-21

    Fu lui a costruire le mura di Uruk, l'ovile del santo Eanna, il luogo splendente.

    Guarda le sue mura: i suoi merli sono come il rame! Osserva la sua alzata, nessuna opera la eguaglia. Varca la sua soglia, che di tempi immemorabili, avvicinati all'Eanna, l'abitazione della dea Ishtar:

    mai nessuno, foss'anche un re, potr costruire un monumento che lo eguagli!

    Sali sulle mura di Uruk e percorrile, ispeziona le fondamenta, scrutane i mattoni:

    non forse vero che son davvero mattoni cotti? Non sono stati i sette saggi a porre le sue fondamenta? Un miglio quadrato la citt, un miglio quadrato sono

    i suoi orti, un miglio quadrato sono le sue cisterne oltre alle terre del tempio di Ishtar.

    Per tre miglia quadrate si estende Uruk senza contare i suoi terreni agricoli.

    11 Ep. Cl. Tav. I - vv. 27-41

    Egli superiore agli altri re, un signore glorioso di grande statura,

    un eroe, figlio di Uruk, uno scalpitante toro selvaggio, egli come un duce precede tutti,

    egli segue tutti, per prestare aiuto ai suoi fratelli, una solida rete a protezione dei suoi uomini, un diluvio travolgente che pu distruggere

    persino un muro di pietra. Primogenito di Lugalbanda, Gilgamesh di forza possente,

    figlio dell'eccelsa vacca, Rimat-Ninsun. Egli Gilgamesh di fiero splendore:

    colui che apr passi nelle montagne, colui che scav pozzi persino nei dirupi delle montagne,

    colui che attravers l'Oceano, vasti mari fino al punto in cui sorge il sole,

    colui che scrut i confini del mondo alla disperata ricerca della vita eterna,

    colui che riusc a raggiungere Utanapishtim,

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    ne indica il massimo carisma, la regalit, descritta e magnificata con tre ver-si, la cui essenzialit possiede l'autorevolezza e lindiscutibilit di un pro-clama eterno.12 Finalmente la mia anima aveva un accesso a quel mondo e, pur confusa, veniva ora attratta dal Canto di Sinleqiunninni come dalle note di un Orfeo invisibile e seducente. Da qui prese le mosse un cammino non pri-vo di difficolt e di inciampi che, negli anni successivi, mi avrebbe condotto ad impreviste illuminazioni. A volte mi parve che da quei versi spirasse una misteriosa brezza, capace di accarezzare la mia anima e di risvegliarla da una sorta di torpore di cui essa sembrava essere vittima da un tempo immemorabile. Quasi con-dotto per mano, mi ritrovai spesso lungo sentieri dimenticati che, a poco a poco, ridiventavano familiari, mentre un antico genuino sentire pareva risa-lire verso la mia coscienza da profondi e misteriosi abissi. L'Omero babilonese, i cui versi ora mi suscitavano un cos nebbio-so coacervo di emozioni e turbamenti, tentava per me le corde della sua ce-tra e, con la sapienza di un educatore carico d'anni e d'esperienza, mi guida-va a riconoscere nelle vicende del suo eroe la mia stessa vita, e a ritrovare nei patimenti, nei dubbi e negli smarrimenti del giovane re di Uruk le pene, le incertezze e le sconfitte che, per ineluttabile destino, l'uomo costretto ad affrontare durante la propria esistenza terrena. Occorsero sei anni prima che la mia anima e la mia mente, sotto la guida di quel sapiente pedagogo, si liberassero dal fitto intrico di pregiudizi, chiusure intellettuali, barriere emotive e condizionamenti culturali che mi oscuravano la vista; soltanto nel gennaio del 2000 la mia sensibilit fu in grado di accogliere i messaggi di quel canto e di percepire i richiami che es-so, sottilmente ma insistentemente, gi da molti anni mi rivolgeva. Solo al-lora il magma di emozioni e sentimenti, che non aveva mai cessato di ribol-lire dentro di me, usc dalla propria indeterminatezza e si solidific in forme riconoscibili ed in volti a cui potei dare un nome.

    che abita in un lontanissimo luogo,

    colui che restaur i centri di culto distrutti dal diluvio.

    12 Ep. Cl. - Tav. I - vv. 42-44 Chi fra la moltitudine delle genti

    si pu a lui paragonare nell'esercizio della regalit? Chi, come Gilgamesh, ha il diritto di dire: Io sono Re?

  • 27

    2. Fantasie Quando la catena dei pregiudizi si infranse ed io cessai di operare continui confronti con la poesia omerica, la mia sensibilit si fece pi ricet-tiva e i versi del poema cominciarono a suscitare in me un cumulo di sensa-zioni sottili e nebbiose, che la mia coscienza si sforzava invano di compren-dere. La mia anima parlava infatti una lingua oscura, fatta di lontane eco, improvvisi ricordi e variopinte fantasie sui luoghi e sui personaggi dellEpo- pea. Tali fantasie ebbero grande rilevanza nel cammino di coscienza sul quale il Canto di Gilgamesh mi guid, giacch proprio da esse prese le mos-se quel processo di illuminazioni e pensieri attraverso cui sarei giunto, molti anni pi tardi, a percepire i messaggi universali presenti nel poema. I perso-naggi non giungevano alla mia sensibilit come eroi omerici, ma piuttosto come giovani nei quali ardesse la medesima ansia di vita che anchio avevo provato nella mia adolescenza e che potevo riconoscere in ogni giovane dal- lanimo ardente. Sentivo la complicit ed il tenero affetto che fluiva fra i due ragazzi e la confidenza con cui ciascuno di essi si apriva allaltro, e tut-to ci faceva vibrare dentro di me antiche corde, delle quali la mia coscienza ancora non riusciva a distinguere il suono.

    3. Le risposte della coscienza Sono solito immaginare la coscienza delluomo come un palcosce-nico dalle dimensioni limitate, sul quale, nel corso dellesistenza, si affac-ciano numerosi personaggi; alcuni si trattengono a lungo, magari per tutta la vita, altri vi fanno soltanto una breve apparizione. Molti di essi, per, prima di calcar la scena, sono costretti ad indossare una maschera, che spesso li rende del tutto irriconoscibili. Per alcuni la sorte meno generosa e, ancor prima che varchino lingresso del teatro, nerboruti guardiani li ricacciano a sassate nel buio della notte, lontano dalledificio, oppure, dopo averli messi in catene, li gettano in una qualche profonda segreta, da dove invano leve-ranno suppliche, lamenti e grida disperate. Il lettore voglia perdonare questa mia fantasiosa descrizione, ma a volte una parabola rende pi agevole lentrar nel merito di una materia sotti-le e sfuggente. Nelluso di un simile artificio, del resto, ho molti illustri pre-decessori, a cominciare dallautore della Repubblica e del Simposio, per non parlare del Divino Maestro. Ebbene i nostri sentiri profondi, le risonanze della nostra anima, non sono dissimili da quei personaggi. La via che essi debbono percorrere

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    per raggiungere la coscienza lunga e faticosa, sovente piena di ostacoli e di impedimenti, e non di rado, prima del traguardo, vien loro sbarrata la strada da guardiani severi ed impietosi. Ci che spesso accade, dunque, che lanima risponda prontamen-te ad una realt con la quale viene in contatto e ne trasmetta la propria riso-nanza alla coscienza; questa, per, spaventata e sprovvista di una parola in grado di darne fedele espressione, trascrive il tutto in una fantasia basata su parametri noti e non dissonanti con lesperienza, rendendo di fatto irricono-scibile ci che lanima ha trasmesso. Quella fantasia, per, non priva di utilit poich, conservando in s la potenza del messaggio originario, agisce da stimolo allinterno della coscienza, inducendola con il tempo a dilatarsi e a creare la parola nuova, necessaria allespressione; il sentire profondo, allora, spogliatosi della ma-schera che gli era stata precedentemente imposta, pu mostrarsi quale , senza dover pi ricorrere ad alcun travestimento. Non vi dubbio che la lettura del Poema di Gilgamesh abbia mos-so dentro di me intense emozioni e che nella mia anima si sia rinnovato il dramma evocato dalle vicende del re di Uruk; immenso fu infatti il fascino che i personaggi dellEpopea esercitarono sulla mia emotivit e profondis-sima la commozione, e addirittura il dolore, che suscitarono in me il raccon-to della morte di Enkidu ed il successivo lamento pronunciato da Gilgamesh sulla salma dellamico; non vi dubbio, insomma, che la mia anima abbia percepito appieno ed immediatamente il messaggio contenuto nellEpopea. La mia coscienza, per, incapace di riconoscere quei sentimenti e di lasciar-si da essi guidare verso la comprensione del poema, fin per leggerli nella maniera pi convenzionale, appiattendoli e di fatto snaturandoli completa-mente. Cos la commozione suscitata in me dallamicizia fra Gilgamesh ed Enkidu - il cui significato mi sarebbe diventato chiaro solamente molto tempo pi tardi - sal alla mia coscienza sotto forma di tenere fantasie sui due personaggi, e le parole damore che gli eroi si rivolgono lun laltro vennero lette come lespressione di un amore trasgressivo fra uomini; il do- lore che provai per la morte di Enkidu fu interpretato come la mia personale partecipazione al dramma di un amore distrutto, e lostinata ricerca della vi-ta eterna da parte di Gilgamesh come la comprensibile reazione del giovane re alla morte dellamico adorato.13 Quando la mia coscienza si svegli e comprese la portata del mes-saggio contenuto nel poema, sorrisi per primo della mia scioccaggine e della convenzionalit in cui la mia mente, pur non del tutto incolta, era caduta,

    13 Carlo Luigi Iandelli (1930-1996), psicologo junghiano, soleva afferma-re: Tutti sentono. Pochi vedono.

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    snaturando il mio sentire e chiudendosi dinanzi ai messaggi che lanima a- veva trasmesso. Mi fu comunque di conforto constatare che molte altre per-sone, inclusi non pochi illustri studiosi del campo, sono finiti nel mio mede-simo pantano e in qualche caso, a differenza di me, vi sono persino rimasti intrappolati.14 Proprio da quelle fantasie, da me concepite dopo il mio primo ap-proccio allopera di Sinleqiunninni, comunque, e dallascolto sottile dei sen-timenti di cui esse erano permeate, prese le mosse un mio cammino spiritua-le che, attraverso la reiterata lettura del testo e grazie alle esperienze che in sguito occorsero nella mia vita, mi avrebbe condotto ad una comprensione profonda dellEpopea di Gilgamesh e dei suoi messaggi. 4. Un mondo sottinteso Uno studio serio sul Poema di Gilgamesh richiederebbe un'ampia competenza nel campo delle civilt mesopotamiche ed una profonda cono-scenza della lingua in cui l'opera fu redatta. Poich io non possiedo tale pre-parazione, mi limiter a documentare in queste pagine le tappe dellespe- rienza spirituale alla quale la lettura dell'Epopea mi ha condotto, esponendo le mie considerazioni cos come esse si sono affacciate alla mia mente nel corso di questi anni. Il lettore mi far venia delle inevitabili ripetizioni che una simile impostazione comporter e non far caso al linguaggio colloquia-le con cui mi esprimer, giacch io sono uno scrittore dei giorni feriali e non potr che dir le cose alla buona, senza troppi ornamenti. Sin dalla mia prima lettura dell'Epopea, rimasi sorpreso dalla forte accentuazione posta sul rapporto di amicizia fra Gilgamesh ed Enkidu, e an-cor pi fui colpito dal candore e dalla fresca spontaneit con cui i due eroi manifestano l'uno verso l'altro i propri sentimenti d'amore. Paradigmatico a tale riguardo, ma non certo unico, il brano dell'incontro fra il re di Uruk e l'ombra dell'amico, nelle cui tragiche parole spira l'intimit e lo smisurato affetto che unisce i due.15 14 B. Landsberger contrappone lamore fra Gilgamesh ed Enkidu a quello eterosessuale. [in CRRAI 7 (1960), p. 33]. Th. Jacobsen considera lamicizia fra Gilgamesh ed Enkidu un prototipo del rapporto omosessuale [Cfr. How did Gilgamesh oppress Uruk?, Acta Orien-talia VIII (1930), pp. 62-74].

    15 Ep. Cl. - Tav XII - vv. 85-98 Allora essi fecero per abbracciarsi, ma non vi riuscirono;

    essi conversarono sospirando:

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    Questo non fu per il solo aspetto del poema a generare in me una certa sorpresa; procedendo nella lettura del testo, infatti, mi accadde pi vol-te di avvertire sensazioni inattese, che in un primo momento non riuscii a decifrare e che mi procurarono perfino qualche disagio. Gi scorrendo i ver-si della Tavola I, ad esempio, provai un qualche sconcerto per lessenzialit priva di reticenze con cui viene descritto l'incontro fra Enkidu e la Prostituta Shamkhat,16 e non minore perplessit dest in me l'aura di volutt che av-

    Dimmi amico mio, dimmi amico mio,

    dimmi gli ordinamenti degli Inferi che tu hai visto. Io non te li posso dire, amico mio, non te li posso dire!

    Se io infatti ti dicessi gli ordinamenti degli Inferi che ho visto,

    allora tu ti butteresti gi e piangeresti. Io mi voglio buttare gi e piangere.

    Il mio corpo, che tu potevi toccare e del quale il tuo cuore gioiva,

    il mio corpo mangiato dai vermi, come un vecchio vestito. Il mio corpo che tu potevi toccare e del quale

    il tuo cuore gioiva, come una crepa del terreno, piena di polvere.

    Ahim, egli grid e si butt nella polvere. Ahim, egli grid e si butt nella polvere.

    Il brano test riportato non di mano di Sinleqiunninni, ma tratto dal rac-conto sumerico Gilgamesh, Enkidu e gli Inferi; i reciproci sentimenti dei due per-sonaggi, per, sono qui consonanti con quelli che spirano nel resto dellopera.

    16 Ep. Cl. - Tav. I - vv. 163-176 Il cacciatore disse: E' lui, o Shamkhat, denuda il tuo seno,

    allarga le tue gambe perch egli possa penetrarti. Non lo respingere, abbraccialo forte,

    egli ti vedr e si avviciner a te. Sciogli le tue vesti affinch egli possa giacere sopra di te;

    dona a lui, l'uomo primordiale, l'arte della donna. Allora il suo bestiame, cresciuto con lui nella steppa,

    gli diventer ostile, mentre egli sazier con te le sue brame amorose. Shamkhat denud il suo seno, apr le sue gambe

    ed egli penetr in lei. Essa non lo respinse, lo abbracci fortemente, apr le sue vesti ed

    egli giacque su di lei. Essa don a lui, l'uomo primordiale, l'arte della donna,

    ed egli sazi con lei le sue brame amorose. Per sei giorni e sette notti Enkidu giacque con Shamkhat e la possedette.

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    volge i pastori quando questi, affascinati, ammirano le fattezze perfette del-l'uomo primordiale e ne rilevano la somiglianza con quelle del proprio re.17 Non di meno mi colpirono la palpabile sensualit con cui viene de-scritto Enkidu, nell'atto di lavarsi ed ungere con olio il proprio corpo pelo-so,18 o il palese compiacimento con cui viene ritratto Gilgamesh quando, spogliatosi di ogni sua veste, getta i capelli all'indietro sulla schiena e si immerge nelle pure acque dell'Eufrate,19 o ancora il modo diretto e privo di censure, con cui la Dea Ishtar propone a Gilgamesh di divenire suo aman-te.20 Un certo fastidio poi mi procur la naturalezza con cui il poeta fa uso di termini scabrosi, come nei versi che narrano lo scontro fra Enkidu e il Toro

    17 Ep. Cl. - Tav. II - vv. 27-33

    Alla capanna dei pastori, il posto dove c'era l'ovile, i pastori si accalcarono attorno a lui. Essi discutevano tra di loro dicendo:

    Il giovane ha fattezze simili a quelle di Gilgamesh, la sua forma eccelsa, la sua struttura forte.

    Non forse Enkidu, colui che nato dalla montagna? Come il firmamento di Anu la sua forza incontrastata.

    18 Ep. pB. - Tav. di Pennsylvania I - vv. 102-110

    Il suo animo si distese e divent allegro, il suo cuore gio

    e il suo volto splendette. Egli cominci a spargere d'acqua

    il corpo peloso; egli lo unse con olio,

    e divenne simile ad un uomo. Indoss un vestito

    e fu simile ad uno sposo.

    19 Ep. Cl. - Tav. VI - vv. 1-4 Egli lav la sua sporcizia, fece brillare le sue armi,

    ributt i suoi capelli sulla schiena; gett via i suoi sporchi vestiti e ne indoss di puliti,

    egli si rivest dei paludamenti regali e li leg con una cintura.

    20 Ep. Cl. - Tav. VI - vv. 7-9 Allora Ishtar, la principessa, volse gli occhi

    sulla bellezza di Gilgamesh: Ors, Gilgamesh, sii il mio amante! Donami come regalo la tua virilit!

    Sii il mio sposo e io sar la tua sposa.

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    Celeste,21 o di espressioni dalle tinte accese e dal sapore postribolare, come nella terribile maledizione pronunciata dall'eroe morente contro la Prostituta Sacra. 22 Audace, ed anche un po' prosaica, trovai poi l'immagine con cui Gilgamesh, rivolgendosi allo spirito dell'amico trattenuto agli Inferi - nella Tavola XII - chiede notizia dell'uomo e della donna che non hanno vissuto

    21 Ep. Cl. - Tav. VI - vv. 127-129

    Enkidu affront il Toro celeste e lo afferr per le corna. Il Toro celeste gli sput in faccia la sua bava,

    con la sua spessa coda gli spruzz la sua merda.

    22 Ep. Cl. - Tav. VII - vv. 99-128 Vieni, Shamkhat, voglio fissarti il destino!

    Un destino che mai si attenui, che duri per sempre! Io ti voglio maledire con una grande maledizione!

    Le mie maledizioni possano colpirti all'istante. Tu non farai della tua casa una casa di prosperit;

    tu non amerai i giovani pieni di vita; tu non li farai entrare nella casa delle donne;

    che la tua bella vulva sia sporca di escrementi; il beone possa insozzare i tuoi vestiti di festa con il suo vomito;

    non otterrai ... [ ] le cose belle; i tuoi cosmetici saranno la grezza creta del vasaio;

    mai otterrai il puro olio profumato; i giudici [ ];

    puro argento, la ricchezza degli uomini, non sar mai accumulata nella tua casa;

    il luogo della tua volutt sar il tuo portico; i crocicchi delle strade saranno la tua abitazione;

    il deserto sia il luogo dove tu dormi; all'ombra delle mura possa tu sedere;

    possano rovi e spine circondare i tuoi piedi; il bevitore e l'assetato possano colpire le tue guance;

    [ ] possa ruggire contro di te; il costruttore non stucchi le mura della tua casa; sul tetto della tua casa possano annidare i gufi;

    nella tua casa non ci sia mai festa; [ ]

    [ ] del tuo amante; colui che penetra la tua vulva possa prendere la sifilide,

    la sifilide che alberga nella tua vulva possa essere il suo dono, perch tu hai sedotto me, il puro, all'insaputa di mia moglie,

    e poich tu hai peccato contro di me, il puro, nella mia steppa.

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    gli amplessi matrimoniali con il dovuto trasporto di passione e che non han-no cercato in essi il rimedio e la salvezza dalle ambasce della vita.23 Quanto ai protagonisti, poi, essi mi apparvero del tutto diversi da quanto mi sarei aspettato. Altro che eroi incapsulati in formule mitiche pri-mitive! Qui i personaggi della vicenda erano profondamente umani, indiriz-zavano parole d'amore l'uno verso l'altro, si spaventavano davanti ai pericoli fino a piangere, si consolavano l'un l'altro con affetto e tenerezza. Per di pi, come dicevo pocanzi, vocaboli che io avrei cassato come sconvenienti en-travano nei versi del poema al pari di ogni altro, senza turbare l'armonia del-la narrazione n l'equilibrio poetico - gi allora dovetti ammetterlo - ed una sottile sensualit, innocente e naturale, che mi sconcertava proprio per la sua inattesa assenza di malizia, permeava l'intera opera, profumando di s ogni immagine ed insinuandosi sia nei dialoghi, che nelle descrizioni. Per chi come me aveva l'Iliade e l'Odissea nella mente e la dogmaticit della tradi-zione giudaico-cristiana nell'anima, c'era di che rimaner sconcertati davve-ro! Come erano lontani Gilgamesh ed Enkidu dagli Aiace, i Diomede, gli Agamennone, i Menelao a cui la poesia omerica mi aveva abituato! Quanto incomprensibile mi appariva quell'universo odoroso e umido, che io, ostina-to, mi piccavo di leggere secondo le categorie della cultura greca classica! A quel primo approccio, dunque, tutto mi apparve profondamente diverso da ci a cui ero abituato e l'aroma di volutt, che mi sembrava spi-rasse nel poema, anzich far da guida alla mia coscienza verso una com-prensione di quel mondo, mi disorient e, paradossalmente, mi forn l'occa-sione per sciocche interpretazioni, che in sguito avrei giudicato risibili e fuorvianti. Perplesso ma innegabilmente affascinato, rilessi il poema da cima a fondo, sforzandomi di trattenere la mia mente dal continuo paragone con

    23 Ep. Cl. - Tav. XII - vv. 120-123 Hai visto il giovane uomo che non ha strappato le mutande

    a sua moglie, l'hai visto? - S, l'ho visto: tu offri a lui una corda di salvataggio ed egli piange

    sopra di essa. Hai visto la giovane donna che non ha strappato le mutande

    a suo marito, l'hai vista? - S, l'ho vista: tu offri a lei una corda di salvataggio ed essa piange

    su di essa. Anche questo brano fu tratto dal racconto sumerico Gilgamesh, Enkidu e gli Inferi ed inserito da Sinleqiunninni nella Tavola XII del poema (vv. 120-123), che riflette, per, un sentire evidentemente ancora condiviso al tempo della composizio-ne dellEpopea; il poeta, infatti, ne ripropone il testo come paradigma di saggezza. Di questo parler nel paragrafo dedicato alla Tavola XII (Cfr. pag. 101).

  • 34

    Omero e questo, se non altro, permise alla mia coscienza di avvertire, nel linguaggio poetico di Sinleqiunninni, qualcosa di familiare e conosciuto, u- una sorta di odore domestico che, in un primo momento, non seppi neppur definire; ma di questo dir nel prossimo paragrafo. Ci che continu a tur- barmi, per, e di cui ancora non riuscii a darmi ragione, fu lintenso sapore di corporeit e di fisicit che avvertivo palpabile in ogni verso del poema e che, per lungo tempo, trovai fastidioso, imbarazzante e, in qualche misura, addirittura prosaico e volgare. Dovettero trascorrere alcuni anni, prima che comprendessi che ci che nei versi di Sinleqiunninni io avvertivo come sconveniente e morboso non era che il naturale e spontaneo sentire degli antichi popoli di cui il poe-ma espressione, sentire che a quel tempo era universalmente condiviso ed accettato; i Babilonesi del XIII secolo, il tempo di Sinleqiunninni, o i Sume-ri del XXX, i contemporanei di Gilgamesh, di certo faticherebbero a com-prendere perch mai la loro spontaneit mi turbasse tanto, e di certo si do-manderebbero che cosa io trovassi di cos volgare e trasgressivo nel loro modo di sentire e di esprimersi a riguardo delle realt quotidiane; vivaddio, trasgressivo e stravagante essi giudicherebbero piuttosto il non sentire a quel modo! E ci, del resto, appare evidente anche nel gi citato brano dell'in-contro fra Gilgamesh e l'ombra di Enkidu,24 dove si dipingono come stolti coloro che non hanno saputo vivere con passione il piacere dell'amore fisico coniugale. Il mondo di Gilgamesh, del resto, e certamente anche quello in cui visse il poeta quasi duemila anni pi tardi, non doveva fare i conti con la di-cotomia di derivazione platonica fra corpo ed anima, n con la non meno in-transigente divaricazione operata a riguardo di quei due aspetti dalla tradi-zione religiosa ebraica. E neppure aveva elaborato un sistema di pensiero complesso - come avrebbero fatto i Greci molti secoli pi tardi - che spo-stasse lo sguardo dal particolare all'universale e considerasse la realt con-creta come unimperfetta manifestazione dell'assoluto. Per un popolo antico come quello dei Sumeri o dei Babilonesi, la realt fenomenica era la sola verit con cui confrontarsi. Il senso del peccato, come noi lo abbiamo eredi-tato dalla tradizione giudaico-cristiana, era del tutto estraneo a quella cultu-ra e il bene e il male consistevano sostanzialmente nel rispetto o nella viola-zione di una morale naturale, dettata dal buon senso e rispecchiata nelle re-gole elementari del patto sociale. Gli aspetti della vita fisica, a partire dagli istinti primari fino ai piaceri dei sensi e alle funzioni fisiologiche, venivano sentiti come dati di fatto della condizione umana, accettati come tali e di certo non ordinati gerarchicamente, secondo una loro maggiore o minore

    24 Cfr. Ep. Cl. - Tav. XII - vv. 120-123

  • 35

    nobilt. Il profumo di sensualit serpeggiante nel poema e l'assenza di cen-sure di tipo morale non rivelano dunque morbosit, come il mio sentire mo-derno fu a lungo tentato di interpretare, ma pura, semplice e spontanea par-tecipazione alla vita, senza divieti convenzionali o rigidi dictat morali. Pa-rimenti, i loro scoperti riferimenti, privi di reticenze, a realt prosaiche non sono volgarit o licenza, ma pacata osservazione senza malizia delle contin-genze quotidiane. Un intero universo di sensazioni e di stimoli del tutto na-turali, che sarebbero stati cassati dalle culture successive, era a quel tempo ancora perfettamente percepibile e non necessitava di alcun velo che lo na-scondesse alla vista, poich la coscienza collettiva di quei popoli, ancorch costretta entro i confini di un immaginario mitico, non era ancora gravata dalle censure filosofico-religiose, che avrebbero condizionato le generazioni dei secoli a venire. Quando tutto ci mi divenne chiaro, mi avvidi che una compren-sione dell'Epopea Babilonese non mi sarebbe stata davvero possibile, fino a quando la mia anima e la mia mente fossero rimaste chiuse ed impermeabili a quel mondo sottinteso nel quale l'intero poema respira. 5. Un linguaggio familiare Se da un lato, leggendo il Canto di Gilgamesh, rilevavo continua-mente immense ed innegabili differenze con lepica greca e, in generale, con le atmosfere a me note della letteratura classica occidentale, dallaltro non potei non accorgermi di un certo sapore familiare, presente, come il basso continuo di una composizione barocca, in ogni parte dellEpopea. Pa-radossalmente quel testo, pi antico di Omero di almeno cinque secoli e cos primitivo, come a me pareva essere, possedeva nel suo linguaggio, ancorch a me accessibile solo in traduzione, un aroma molto vicino alla mia sensibi-lit, una sonorit perfettamente consonante con le pi impercettibili vibra-zioni della mia umanit. Al contrario di quanto ogni osservazione razionale mi suggerisse, quei versi risuonavano dentro di me molto pi armonicamen-te di quanto non potessero quelli di Omero e ci, a dispetto delle mie con-vinzioni preconcette, faceva apparire il Greco Cantore ed i suoi personaggi molto pi primitivi e lontani di quanto non mi sembrassero Gilgamesh, En-kidu, Utanapishtim, Urshanabi o la prostituta Shamkhat. Questa sensazione se ne stette accanto a me per parecchio tempo, come il suono di uneco lon-tana, di cui non riuscissi a riconoscere la fonte. Finalmente, con il passare del tempo e le reiterate letture del testo, la mia coscienza si crep ed io potei individuare il luogo da cui quella eco rispondeva e di colpo mi avvidi che si trattava dei Testi Biblici, i soli componimenti semiti che avevo frequentato

  • 36

    fin dalla mia infanzia. In sguito mi capit di leggere alcuni antichi testi ca-nanei, tratti dal Ciclo di Balu e ritrovati negli anni 30 negli scavi archeolo-gici di Ugarit,25 e, non ostante la mia assoluta ignoranza a riguardo di quella cultura e di quei documenti, mi sentii di nuovo raggiungere dal medesimo senso di familiarit, che avevo avvertito nei versi dellEpopea di Gilgamesh. Qualcosa di simile mi accadde ancora, pressoch nello stesso periodo, quan- do ebbi occasione di leggere la traduzione di alcuni antichi testi egizi (come lInsegnamento di Ptahhotep), parzialmente riportati da Edda Bresciani, nel volume edito da Einaudi nel 1969 ed intitolato Letteratura e poesia dellantico Egitto.26

    25 Dal Ciclo di Balu, CAT 1.1 V: [ ]

    ] un giorno, due giorni []; ] arriv. Lanimo di [Balu ],

    ] Haddu lo scrut. ] Sul Sapanu [

    ] allorch vede [ [ ] allora disse [

    ] per certo io so [ ] che vuoi imprigionarmi []

    ] che vuoi circondarmi [ ] sar costretto, ] sulla montagna a me donata

    ] cappella (sulla sua) sommit. ] chiunque si opporrebbe che la sua propriet[

    ] un giorno, due giorni [passarono]; ] arriv. Lanimo di [Balu ],

    ] Haddu lo scrut. ] un pranzo per te sul Sapanu [ far allo spiedo una cerbiatta.

    26 DallInsegnamento di Ptahhotep (XI-XII dinastia)

    O sovrano, mio signore! La vecchiaia si prodotta, la senilit calata,

    il deperimento venuto, la debolezza si rinnovata: sta coricato ogni giorno colui che rimbambito;

    gli occhi sono deboli, le orecchie sono sorde, la forza deperisce essendo stanco il cuore,

    la bocca silenziosa e non parla., il cuore assente e non ricorda lo ieri,

    le ossa dolgono per la lunghezza (dellet). Ci che era buono diventato cattivo,

    ogni gusto se n andato.

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    Non ostante il mio percorso di studi mi avesse in realt fornito i mezzi culturali necessari a comprendere i motivi di ci che sentivo, la mia coscienza si mantenne rigida e quelle mie sensazioni non riuscirono ad a-prirsi un varco verso di essa se non parecchi anni pi tardi. Ci che acco-munava quegli scritti (lEpopea di Gilgamesh, il Ciclo di Balu, lInse- gnamento di Ptahhotep ed i Testi biblici) non era di certo largomento tratta-to, n la provenienza da una medesima civilt o da una medesima epoca; e neppure la lingua era lelemento in comune, poich quei testi erano stati re-datti in lingue diverse luna dallaltra. Il comune denominatore di quei testi, ed anche di moltissimi altri di epoca sia antica che moderna, era in realt il sentire semita, quella sorta di impronta spirituale - la cui origine si perde nelloscurit di tempi remotissimi - che accomuna i popoli appartenenti a quel ceppo etnico-linguistico. I popoli di uno stesso ceppo, infatti, pur nei diversi destini ad essi riservati e nella differenziazione culturale da essi subita nel corso dei secoli e dei millenni, conservano una sorta di parentela dello spirito, che, come limpronta fossile impressa su di una roccia, perpetua un messaggio non concettuale e testimonia senza posa un sentire comune mai spento. Potrem-mo rilevare una simile parentela in ogni gruppo di popoli provenienti da uno stesso ceppo, in quello indoeuropeo, come in quello mongolico. Lelemento che fa le veci di quella roccia, capace di conservare attraverso i secoli lim- pronta di un sentire originario, la lingua, il mezzo principe attraverso cui il pensiero prende forma, il supporto stesso su cui esso si sviluppa e si espan-de. Il pensiero di un popolo cos intimamente legato alla lingua, da far ri-tenere ad alcuni semiologi che i due elementi non possano sussistere luno separato dallaltro, ma che, essendo essi rispettivamente contenuto e forma di ununica realt, siano inscindibili. Se ci vero, dunque, laddove ci sia parentela linguistica, dovr esserci pure traccia di un pensiero e di un sentire comune.27

    Quel che la vecchiaia fa agli uomini,

    cattivo in ogni senso: il naso tappato e non respira per la debolezza,

    alzati o seduti (che si sia). 27 Nel 1957 larcheologo V. G. Childe, cos scriveva: Le parole sono la vera materia prima del pensiero. Da ci si deduce che una lingua comune implica una prospettiva mentale comune nei suoi parlanti; non solo rispecchia, ma condi-ziona percorsi del pensiero peculiari per coloro che utilizzano tale lingua. [Gli Indoeuropei], indipendentemente dalla razza o dalle razze a cui appartenevano, do-vettero possedere una certa unit spirituale rispecchiata e condizionata dalla comu-nanza della lingua.

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    Le tracce di unoriginaria unit, conservate attraverso le lingue, so-no in grado di resistere non solo al tempo, ma anche alle traduzioni, purch il traduttore possegga la sensibilit necessaria a rilevarle ed il talento artisti-co per far suonare la propria lingua alla maniera di quella da cui traduce,28 come un pianista di pregio che, eseguendo musiche di J.S. Bach, sappia con-ferire al proprio tocco un carattere cembalistico. Lavere riconosciuto una parentela fra quei testi, per, non costitu per me un punto di arrivo, ma anzi un indeclinabile invito ad investigare con lanima e con la mente quellampia realt di cui cos poco riuscivo a vedere. Compresi infatti che non avrei potuto penetrare lopera di Sinleqiunninni, senza aver prima posto ascolto al sottile sussurro che avvertivo come un sot-tofondo in ogni sua parte e che avevo ritrovato anche negli altri testi di am-biente semita da me letti negli anni. In realt, tutto era davanti ai miei occhi, ma io, frastornato dai mol-ti assiomi della cultura occidentale e dallo schematismo di una preparazione tradizionale, che riconosceva alla Grecia e solo ad essa il magistero del sa-pere e del bello, non riuscivo a vedere. Figlio come sono della Grecia e di Roma, educato nella logica aristotelica e nel culto della razionalit, come unico punto solido su cui fondare il rapporto con la realt e con il prossimo, ho rischiato di dimenticare che la civilt a cui appartengo il frutto della fu-sione fra due grandi messaggi, quello greco-romano da un lato e quello giu-daico-cristiano dallaltro o, se vogliamo usare una terminologia antropolo-gico-linguistica, quello indoeuropeo e quello semita. Che cosera dunque quel suono che giungeva alle mie orecchie o-gni volta che affrontavo un testo semita? Davvero non si trattava daltro che di uneco del linguaggio biblico, di una somma di stilemi e di formule ricor-renti, a cui gli scrittori dambiente semita ricorrono costantemente? Ma qua-le sentire sta a monte di quel linguaggio, di quegli elementi ricorrenti, che facilmente possiamo riconoscere in qualunque testo di quellarea linguisti-co-culturale? Non forse vero che dal linguaggio semita, molto pi scoper-tamente, se non pi profondamente, che non nella tradizione occidentale, trasuda una propensione alla spiritualit, una innata aspirazione alla osser-vazione delle realt invisibili, una connaturata tendenza ad ascoltare i mes-saggi dello spirito, una irrefrenabile esigenza di scrutare lanima delluomo,

    28 Se, non ostante la mia ignoranza a riguardo delle civilt dellantico O-riente e delle lingue da esse usate, ho potuto percepire nel Poema di Gilgamesh qualcosa oltre le parole, grande merito va alla traduzione di G. Pettinato che, allin- dubbio rigore filologico e scientifico, ha coniugato un non comune talento artistico, grazie al quale egli ha potuto raccogliere il sapore del testo e trasfonderlo poi nel no-stro idioma moderno, ancorch di ceppo diverso e cos lontano nel tempo da quello usato da Sinleqiunninni.

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    molto pi sofferte ed appassionate di quanto non esca dai testi greci? E dalla scrittura biblica, ancor prima del messaggio in essa contenuto, non traspare forse un sentire primigenio, da cui gli autori dei libri sacri non sembrano po-ter prescindere? Non si avverte questo in qualunque personaggio, anche nel non-profeta, nel non-probo ? Forse non casuale, dunque, che le grandi re-ligioni monoteistiche, la giudaico-cristiana e lislamica, senza pari per la purezza del messaggio e laltezza della ispirazione, siano entrambe fiorite in ambiente semita. Ora il lettore non credente mi perdoni se aggiunger la se-guente osservazione: non sar stata proprio questa innata spiritualit, che ca-ratterizza i popoli semiti, a far s che la Rivelazione di Dio venisse indirizza-ta a loro e non ad altri? Oppure, non sar stata proprio quella Rivelazione a rendere la natura di quei popoli cos come essa ? Tutto questo dunque fu ci che, a poco a poco, cominciai a perce-pire e che mi permise di accostarmi allEpopea di Gilgamesh, e non solo a quella, con mente ed anima pi aperte di quanto non possedessi qualche an-no prima. Ora comprendevo meglio la natura di coloro di cui ascoltavo il canto e potevo raccogliere pi agevolmente i messaggi che essi trasmetteva-no. 6. Omero e Sinleqiunninni Le prime letture dellEpopea non fecero che riservarmi sorprese e destare in me perplessit ed interrogativi. Il condizionamento esercitato su di me dal testo omerico rendeva ostico il mio cammino di comprensione dellopera di Sinleqiunninni sotto ogni aspetto. La mia stessa concezione di poesia epica, basata esclusivamente su Omero e sui poemi ad esso posterio-ri, che comunque ebbero lIliade e lOdissea come modello, non trovava ri-scontro nei versi dellEpopea di Gilgamesh, che di conseguenza mi lasciava interdetto a molti riguardi. Essa presentava indubbiamente un impianto epico, al pari di quel-lo dei grandi cicli europei, ma immensamente diverso rispetto a questi mi appariva lo spirito da cui essa era animata. Le imprese compiute da Gilga-mesh e da Enkidu sono s contro mostri feroci ed orribili - e questo un e-lemento spesso presente anche nei poemi occidentali - ma l'accento, pi che sull'impresa in s, cade sul rapporto fra i due eroi e sugli alterni stati d'ani-mo da essi provati; l'intera Tavola IV, che consta di oltre 250 versi, ed anche parte della V, sono interamente dedicate al viaggio verso la Foresta dei Ce-dri, ai sogni che sconvolgono Gilgamesh durante la notte e alle interpreta-zioni che Enkidu ne d, per confortare lamico ed incoraggiarlo. Il racconto stesso del combattimento contro il mostro Khubaba concepito sull'alter-

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    narsi di paura e di coraggio, di sconforto e di ottimismo, prima nell'uno e poi nell'altro dei due eroi. Uno dopo laltro essi cedono alla paura, al terrore, vorrebbero indietreggiare, abbandonare il cimento, e soltanto grazie al so-stegno che ciascuno dei due trova nellaltro, essi riescono ad affrontare la prova ed uscirne vincitori.29 Leroe greco lontano mille miglia da Gilgamesh ed Enkidu e qua- si in nulla pu venire ad essi paragonato. Quanto diverso dai nostri eroi di Uruk appare limpavido Aiace, che nulla sembra poter piegare! 30 E quanto

    29 Ep. Cl. - Tav. IV - vv. 14-22 Gilgamesh intanto era accovacciato con il mento sulle ginocchia;

    il sonno, retaggio dell'umanit, lo sopraffece. Nel mezzo della notte egli si svegli di soprassalto.

    Si alz e disse al suo amico: Amico mio, mi hai forse chiamato tu? Se non mi hai chiamato tu,

    perch sono sveglio? Mi hai forse toccato tu? Se non mi hai toccato tu,

    perch sono cos nervoso? Mi si avvicinato forse un dio? Se non mi si avvicinato un dio,

    perch la mia carne cos debole? Amico mio, io ho visto un sogno

    e il sogno che ho visto mi ha messo tutto in subbuglio.

    30 Iliade, Canto XVI - vv. 102-111 ,

    ,

    . , , .

    [E Aiace non resisteva: era travolto dai dardi.

    La mente di Zeus lo vinceva, e i Troiani superbi a furia di colpi; tremendo intorno alle tempie lelmo raggiante

    sonava colpito: era continuamente colpito sui guanciali ben fatti; sera fiaccata la spalla sinistra

    a portar sempre, senza tregua, lo scudo lucido. Ma non potevano quelli intorno farlo fuggire, pur di dardi opprimendolo.

    Sempre era in preda a un affanno terribile, continuo il sudore colava abbondante da tutte le parti del corpo, non gli riusciva

    di prender fiato: il male cresceva sul male].

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    stonate ed inverosimili suonerebbero le parole di Gilgamesh e di Enkidu sul-la bocca di un eroe omerico! 31 Leroe greco, consapevole della caducit delle cose terrene, vede nella realizzazione di grandi imprese e nel conseguimento della gloria, il so-lo modo per nobilitarsi e dar senso alla propria esistenza. Tramite la fama e la gloria, raggiunte attraverso la propria fermezza ed il proprio coraggio, e-gli spera di ottenere una sorta di immortalit nel ricordo delle generazioni che lo seguiranno. Il re dei Mirmidoni, Achille, sa che la propria vita verr troncata sotto le mura di Troia, ma questo non lo trattiene dal partecipare a quella impresa, poich la gloria la sua massima aspirazione, la sola osses-sione, e per essa egli affronta una guerra che avrebbe potuto evitare. Egli non fugge dinanzi al pericolo e non esita ad affrontare la morte, ma non si pone in gara con essa. Il suo solo intento quello di rendere la propria vita degna di essere ricordata in eterno. La morte giunger per lui come per tutti e su questo egli non pone domande, n si ribella. E ancora, durante il lungo viaggio di ritorno da Troia, i compagni del re di Itaca molte volte si spaven-tano a morte e vorrebbero fuggire lontano dai pericoli che incombono, ma Odisseo, leroe, sempre li trattiene e li sprona, non temendo n la vista del Ciclope, n la magia di Circe, n il funesto canto delle Sirene. Nella redazione paleobabilonese dellEpopea, anche Gilgamesh, prima di partire per lavventura contro Khubaba, motiva con il desiderio di gloria la propria determinazione a compiere limpresa e si esprime con En- kidu in maniera consonante a quella che avrebbe potuto usare un eroe ome-rico.32 Lo stato danimo e la visione del mondo che emergono da quei versi,

    31 Ep. Cl. - Tav. V - Versione da Uruk - vv. 11-14

    Gilgamesh fece udire la sua voce e cos parl rivolgendosi ad Enkidu

    Amico mio, il volto di Khubaba (mi appare) completamente diverso (da come me l'ero immaginato),

    e la sua mole si staglia [ ], sicch il mio cuore trema e io mi voglio allontanare subito.

    Ep. Cl. - Tav. IV - vv. 231-233

    Enkidu apr la sua bocca e disse; cos parl a Gilgamesh: Amico mio, anche se riuscissi a scendere nella Foresta dei Cedri

    e ad aprirne la porta, allora le mie braccia sarebbero paralizzate!.

    32 Ep. pB. - Tav. di Yale - vv. 137-159 Gilgamesh apr la sua bocca

    e cos parl ad Enkidu: Amico mio, chi dei mortali pu salire al cielo? Solo gli di abitano per sempre con Shamash.

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    per, non appartengono alleroe creato da Sinleqiunninni, ed anzi contrasta-no con esso profondamente. Il Gilgamesh dellEpopea Classica, infatti, non si accontenta della gloria, non riesce ad accettare la morte come lepilogo a cui luomo inevitabilmente destinato, n ritiene che le grandi imprese o la

    Lumanit ha i suoi giorni contati.

    Qualunque cosa un uomo possa operare, solo vento. Tu adesso hai paura della morte!

    Dov la forza della tua natura eroica? Io voglio andare avanti a te,

    e la tua bocca possa gridare: Stammi vicino, non aver paura! Se io cadr avr guadagnato la gloria,

    si dir: Gilgamesh contro il feroce Khubaba ha combattuto. Egli rinato! Ora, tu sei cresciuto nella steppa:

    quando un leone ti assaltava, tu sapevi tutto! Enkidu ]

    [ ] [ ] ai piedi,

    [ ] come (da) un vaso doro hai versato la vita. Dicendo ci tu hai afflitto il mio cuore.

    Ma io mi metter allopera, e taglier i cedri,

    assicurandomi cos una fama che durer in eterno.

    Nel brano ora citato dallEpopea Paleobabilonese, databile parecchi secoli prima dellEpopea Classica di Sinleqiunninni, si pu intravedere una fonte del di-scorso sulla sorte dellumanit, pronunciato da Utanapishtim nella Tav. X ai vv. 303-317:

    L'umanit recisa come canne in un canneto. Sia il giovane nobile, come la giovane nobile

    sono preda della morte. Eppure nessuno vede la morte,

    nessuno vede la faccia della morte, nessuno sente la voce della morte.

    La morte malefica recide l'umanit. Noi possiamo costruire una casa,

    possiamo costruire un nido, i fratelli possono dividersi l'eredit,

    vi pu essere guerra nel Paese, possono i fiumi ingrossarsi e portare inondazione:

    (il tutto assomiglia alle) libellule che sorvolano il fiume - il loro sguardo si rivolge al sole,

    e subito non c' pi nulla -.

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    fama da esse ottenuta possano conferirgli una sorta di immortalit. Per il re di Uruk la morte un demone maligno contro cui egli sente il proprio brac-cio impotente33 e, lungi dallaccettarla con rassegnazione, egli ingaggia con- contro di essa una guerra personale, deciso a scoprire il segreto che gli per-metta di annientarla per sempre. Leroe di Sinleqiunninni, dunque, cos lontano da quello omerico sia nel sentire che nei comportamenti, sempre pi mi sconcertava e mi con-fondeva. E non di meno mi disorientava la struttura stessa del poema, nella quale individuavo tre distinte parti, senza riuscire a percepire fra di esse un respiro epico unitario, che le raccogliesse e le fondesse insieme. Alle Tavole dalla I alla VI, infatti, sullamicizia fra Gilgamesh ed Enkidu e sulle grandi imprese da essi compiute contro Khubaba e il Toro Celeste, seguono la VII e lVIII, dedicate alla malattia, allagonia e alla morte di Enkidu. Le Tavole dalla IX alXI, poi, narrano della vana ricerca della vita eterna da parte di Gilgamesh. Vi infine la Tavola XII che, a prima vista, sembrerebbe solo unappendice allopera. Ancorch nelle avventure delluccisione del mostro Khubaba e del Toro Celeste io potessi riconoscere laspetto pi caratteristico dei poemi e-pici in generale, ossia la manifestazione di un coraggio fuori del comune ed un successo ottenuto in imprese nelle quali quasi nessun umano potrebbe ci- mentarsi, non comprendevo perch, dopo la narrazione di quei fatti gloriosi, lEpopea proseguisse in un modo cos inaspettato, pi adatto ad un racconto dal taglio psicologico, che non ad un canto epico. Mi occorse parecchio tempo per comprendere che il respiro epico da cui lopera di Sinleqiunninni pervasa, molto pi sottile e sfuggente di quello che spira in Omero, non si incentra solo su imprese concrete, su cimenti eroici dai quali i protagonisti escano vincitori e carichi di gloria immortale - ancorch tali elementi siano Il fatto che una simile visione della vita venga qui esposta da Gilgamesh, diversamente da quanto accade nellEpopea Classica, dove proprio quella realt ver-r rivelata a Gilgamesh dallavo divinizzato, fa supporre che Sinleqiunninni abbia avuto in mente per il proprio eroe un personaggio profondamente diverso da quello ereditato dalla tradizione paleobabilonese e che, probabilmente, le implicazioni lega-te alla ricerca delle vita eterna e la profondit del disegno generale dellopera siano un apporto originale di Sinleqiunninni e non trovassero riscontro nelle redazioni pre- cedenti.

    33 Ep. Cl. - Tav. VIII - vv. 45-48

    L'ascia del mio fianco, l'arma del mio braccio, la spada della mia guaina, lo scudo del mio petto,

    i miei vestiti festivi, la mia cintura regale, uno spirito cattivo venuto e me li ha portati via.

  • 44

    presenti ed occupino grande parte del poema - ma piuttosto su di un agone tutto spirituale, da cui leroe, dopo lunga e dolorosa lotta, esce apparente-mente sconfitto.34

    (Gilgamesh)

    34 La mia visione dellEpopea non si distanzia molto - eccetto che per al-cuni aspetti di cui dir - da quella di studiosi quali Landsberger, Heidel, Matoush, Oppemheim o Buccellati [cfr. pag. 61 e segg. Alcuni punti di vista sullEpopea].

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    Avvicinamento al tema cardine dellEpopea 1. Fraintendimenti

    Non ostante sia destino di ogni opera di portata universale prestarsi a molteplici approcci, mi sorprenderebbe che si procedesse ad un lavoro di interpretazione generale dell'Epopea Babilonese, senza notare quanto in es-sa sia insistente il tema dell'amicizia fra i due eroi. Molti studiosi infatti - come ricorda G. Pettinato nel suo saggio introduttivo alla Saga di Gilga-mesh35 - ne hanno sottolineato la centralit, procedendo poi ad interpreta-zioni dell'opera basate proprio su di esso. In alcuni casi per il tema dell'a-micizia ha aperto la via a fraintendimenti, tanto ingenui quanto insidiosi, che hanno condizionato pesantemente la generale informazione sul poema e dai quali necessario liberarsi subito, se si vuole procedere ad uno studio 35 G. Pettinato, La saga di Gilgamesh - Rusconi - Milano - 1992 Capo III: Interpretazioni dell'Epopea - Paragrafo 2: Il tema dell'amicizia (pp. 41-42):

    Uno dei primi studiosi a sottolineare la centralit del tema dell'amicizia nell'Epopea di Gilgamesh certamente B. Landsberger, quando scrive che un moti-vo portante della composizione di Sinleqiunninni l'ideale di nobile amicizia tra Gilgamesh ed Enkidu, che neanche la morte pu annullare. In effetti, fin dal primo incontro dopo la lotta per le strade di Uruk e, prima ancora, nei sogni avuti da Gil-gamesh, si sottolinea a tal punto il profondo legame che unisce i due personaggi da essere equiparato all'amore per una donna e anche l'affannosa ricerca della vita eter-na documenta appieno il significato di Enkidu per Gilgamesh. Non seguo per lo studioso tedesco quando contrappone l'amore di Gilga-mesh per Enkidu a quello eterosessuale. Il rifiuto delle profferte amorose della dea Ishtar non va letto come la negazione dell'amore per le donne, come vuole Lan-dsberger, bens in una chiave ben pi profonda che riguarda piuttosto la sorte futura del re di Uruk. Altri studiosi hanno considerato quello dell'amicizia come il tema princi-pale dell'Epopea, e tra questi il cecoslovacco L. Matoush, ma soprattutto G. Furlani che, in un articolo dal titolo significativo: "L'Epopea di Gilgamesh come inno all'a-micizia" e nell'introduzione alla sua traduzione dell'Epopea, afferma che bisogna procedere ad una revisione dell'idea fondamentale, centrale dell'Epopea in quanto essa un vero inno all'amicizia, di un'amicizia durata anche al di l della morte tra Gilgamesh di Uruk ed Enkidu, luminosi, eterni prototipi degli amici fedeli. Non neghiamo che l'amicizia sia una molla importante dell'agire di Gilga-mesh soprattutto nella seconda parte, ma siamo altres convinti che in essa non si e-saurisca il complesso delle problematiche affrontate da Sinleqiunninni. Che poi Th. Jacobsen abbia portato a tal punto la centralit dell'amicizia tra Gilgamesh ed En- kidu da farne un prototipo del rapporto omosessuale, una cosa che ci fa sorridere.

  • 46

    serio dell'opera. Mi riferisco in primo luogo alla posizione assunta da Th. Jacobsen, il quale vede nei due eroi dell'Epopea e nella loro relazione ami-cale un paradigma del moderno rapporto omosessuale. Le affettuosit dei due personaggi e le espressioni d'amore che questi indirizzano l'uno verso l'altro nascono da un contesto sociale e cultu-rale profondamente diverso da quello odierno e in nessuna maniera dovreb-bero venire etichettate sulla base del nostro attuale modo di sentire. La per-cezione della realt, presso popoli antichi come i Sumeri o i Babilonesi, non pu infatti venire confusa con quella del tempo presente, senza c