Il Pensiero Vivo Di Karl Marx

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IL PENSIERO VIVO DI KARL MARX di Lev Trotsky Introduzione a cura del Partito Comunista dei Lavoratori - sezione di Pistoia Lev Trotsky scrisse "Il pensiero vivo di Karl Marx" nella primavera del 1939, pochi mesi prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, epilogo disastroso della crisi che perdurava dal 1929. Le condizioni per la rivoluzione socialista in quegli anni erano, come ebbe a scrivere Trotsky, non soltanto mature ma cominciavano “piuttosto a marcire”. Gli scritti economici di Marx, relegati a "teorie antiquate" dai dirigenti riformisti del movimento operaio, in quegli anni diventavano sempre più attuali, al pari di oggi, come dimostra la crisi economica mondiale esplosa a partire dal 2007. "Il Capitale" acquisiva un'importanza centrale nella lotta teorica alle numerose tendenze ideologiche, come il keynesismo, che si erano sviluppate per cercare di salvare un sistema economico in completa rovina e che oggi si ripresentano come neo-keynesismo. Questo testo venne scritto come introduzione alla edizione sintetica del primo libro del Capitale di Marx curata dal comunista tedesco Otto Ruhle. Questa edizione sintetica del primo libro del Capitale non è compresa nel testo che segue, dove è riportata la sola introduzione scritta da Trotsky che espone in modo magistrale le basi della teoria economica di Marx. Che cosa viene offerto al lettore Questo libro espone coerentemente le basi della dottrina economica di Marx con le stesse parole di Marx. Dopo tutto, nessuno è ancora riuscito a esporre la teoria del lavoro sul valore economico meglio dello stesso Marx (1). Certe argomentazioni di Marx, specialmente nel primo capitolo, il più difficile, potranno sembrare al lettore profano troppo verbose, sofistiche, o “metafisiche”. A dire il vero, questa impressione deriva dalla scarsa abitudine di studiare scientificamente i fenomeni ordinari. Le merci sono diventate un elemento così diffuso, così familiare e consueto della nostra vita quotidiana che non tentiamo nemmeno di riflettere sul perché gli uomini si privino di oggetti importantissimi, necessari a mantenerci in vita, in cambio di certi dischetti d’oro o d’argento che non servono assolutamente a nulla su questa terra. Non soltanto il caso delle merci. Non v’è ramo dell’economia degli scambi che non paia accettato, senza la minima analisi, come ovvio, come base naturale dei rapporti umani. Eppure, mentre la realtà del processo economico consiste in elementi come la mano d’opera, le materie prime, gli strumenti, le macchine, la divisione del lavoro, la necessità di distribuire prodotti fini tra coloro che partecipano al processo di produzione e simili, categorie come “merci”, “denaro”, “salari”, “capitale”, “profitti”, “tasse”, e simili paiono soltanto, alla mente degli uomini, riflessi semi-mistici dei vari aspetti di un processo economico, che essi non comprendono e non sono in grado di controllare. Per decifrarli, è necessaria un’approfondita analisi scientifica. Negli Stati Uniti, dove di un uomo che possegga un milione si dice che “vale un milione”, i concetti economici sono scesi ancor più in basso che in ogni altro

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LA STRAORDINARIA ATTUALITÀ DI MARX.

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IL PENSIERO VIVO DI KARL MARX

di Lev Trotsky

Introduzione a cura del Partito Comunista dei Lavoratori - sezione di Pistoia

Lev Trotsky scrisse "Il pensiero vivo di Karl Marx" nella primavera del 1939, pochi mesi prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, epilogo disastroso della crisi che perdurava dal 1929. Le condizioni per la rivoluzione socialista in quegli anni erano, come ebbe a scrivere Trotsky, non soltanto mature ma cominciavano “piuttosto a marcire”.Gli scritti economici di Marx, relegati a "teorie antiquate" dai dirigenti riformisti del movimento operaio, in quegli anni diventavano sempre più attuali, al pari di oggi, come dimostra la crisi economica mondiale esplosa a partire dal 2007. "Il Capitale" acquisiva un'importanza centrale nella lotta teorica alle numerose tendenze ideologiche, come il keynesismo, che si erano sviluppate per cercare di salvare un sistema economico in completa rovina e che oggi si ripresentano come neo-keynesismo.Questo testo venne scritto come introduzione alla edizione sintetica del primo libro del Capitale di Marx curata dal comunista tedesco Otto Ruhle. Questa edizione sintetica del primo libro del Capitale non è compresa nel testo che segue, dove è riportata la sola introduzione scritta da Trotsky che espone in modo magistrale le basi della teoria economica di Marx.

Che cosa viene offerto al lettore

Questo libro espone coerentemente le basi della dottrina economica di Marx con le stesse parole di Marx. Dopo tutto, nessuno è ancora riuscito a esporre la teoria del lavoro sul valore economico meglio dello stesso Marx (1).

Certe argomentazioni di Marx, specialmente nel primo capitolo, il più difficile, potranno sembrare al lettore profano troppo verbose, sofistiche, o “metafisiche”. A dire il vero, questa impressione deriva dalla scarsa abitudine di studiare scientificamente i fenomeni ordinari. Le merci sono diventate un elemento così diffuso, così familiare e consueto della nostra vita quotidiana che non tentiamo nemmeno di riflettere sul perché gli uomini si privino di oggetti importantissimi, necessari a mantenerci in vita, in cambio di certi dischetti d’oro o d’argento che non servono assolutamente a nulla su questa terra. Non soltanto il caso delle merci. Non v’è ramo dell’economia degli scambi che non paia accettato, senza la minima analisi, come ovvio, come base naturale dei rapporti umani. Eppure, mentre la realtà del processo economico consiste in elementi come la mano d’opera, le materie prime, gli strumenti, le macchine, la divisione del lavoro, la necessità di distribuire prodotti fini tra coloro che partecipano al processo di produzione e simili, categorie come “merci”, “denaro”, “salari”, “capitale”, “profitti”, “tasse”, e simili paiono soltanto, alla mente degli uomini, riflessi semi-mistici dei vari aspetti di un processo economico, che essi non comprendono e non sono in grado di controllare. Per decifrarli, è necessaria un’approfondita analisi scientifica.

Negli Stati Uniti, dove di un uomo che possegga un milione si dice che “vale un milione”, i concetti economici sono scesi ancor più in basso che in ogni altro Paese. Fino a tempi recentissimi gli americani si sono preoccupati ben poco della natura dei rapporti economici. Nella terra del più potente sistema economico, le dottrine economiche continuavano a essere eccessivamente povere. Solo la crisi recente dell’economia americana, dalle conseguenze a lungo termine, ha brutalmente posto l’opinione pubblica americana di fronte ai problemi fondamentali della società capitalista. Ad ogni modo, chiunque non abbia superato l’abitudine di accettare senza alcuno spirito critico i concetti prodotti in serie dallo sviluppo economico, chiunque non abbia riflettuto, sulle orme di Marx, sulla natura essenziale della marce come cellula fondamentale dell’organismo capitalista, sarà sempre incapace di comprendere scientificamente le manifestazioni più importanti della nostra epoca.

Il metodo marxista

Definita la scienza come strumento di conoscenza dei fenomeni obiettivi della natura, l’uomo ha cercato ostinatamente di escludersi dalla scienza, riservandosi privilegi speciali sotto specie di pretesi rapporti con forze trascendenti (religione) o con eterni principi morali (idealismo). Marx ha tolto all’uomo, una volta per tutte, questi odiosi privilegi, considerandolo un anello naturale nel processo evolutivo della natura materiale e considerando la società

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umana, l’organizzazione della produzione e della distribuzione, e il capitalismo una fase nello sviluppo della società umana. Non era scopo di Marx scoprire le “leggi eterne” dell’economia. Egli negava l’esistenza di tali leggi. La storia dello sviluppo della società umana è la storia della successione di vari sistemi economici, ognuno operante in armonia con le sue proprie leggi. Il passaggio dall’uno all’altro sistema è stato sempre determinato dall’accrescersi delle forze di produzione, vale a dire la tecnica e l’organizzazione del lavoro. Fino a un certo punto, i mutamenti sociali hanno carattere quantitativo e non alterano le fondamenta della società: le forme prevalenti di proprietà. Ma si giunge a un momento in cui le forze di produzione, maturatesi, non possono più contenersi entro le vecchie forme della proprietà; ne segue un mutamento radicale nell’ordine sociale, accompagnato da urti violenti. La comune primitiva fu o spossessata o superata dallo schiavismo; alla schiavitù seguì la servitù della gleba con le sue sovrastrutture feudali; lo sviluppo commerciale delle città portò l’Europa del XVI secolo all’ordine capitalistico, che attraversò poi diverse fasi. Nel suo Capitale Marx non studia l’economia in generale, ma l’economia capitalista, che ha le sue leggi specifiche. Solo di passaggio egli fa cenno ad altri sistemi economici, per chiarire le particolarità del capitalismo. L’economia autosufficiente della primitiva famiglia contadina non ha bisogno di una sua “economia politica”, perché la dominano da una parte le forze della natura e dall’altra le forze della tradizione. L’economia naturale autosufficiente dei Greci o dei Romani, fondata sulla mano d’opera degli schiavi, era dominata dalla volontà del proprietario degli schiavi, il cui “piano” a sua volta era direttamente determinato dalle leggi della natura e della consuetudine. La stessa cosa potrebbe dirsi dello stato medievale con i suoi servi della gleba. In tutti questi casi, i rapporti economici erano chiari e trasparenti nella loro primitiva crudezza. Ma il caso della società contemporanea è completamente diverso. Essa ha distrutto gli antichi nessi a sé stanti e i sistemi ereditari di lavoro. I nuovi rapporti economici hanno legato tra loro città e villaggi, province e nazioni. La divisione del lavoro comprende ormai tutto il pianeta. Distrutte tradizione e consuetudine, questi legami non si sono connessi tra loro secondo un piano definito, ma piuttosto al di fuori della coscienza e della previsione umane. L’interdipendenza di uomini, gruppi, classi, nazioni, derivante dalla divisione del lavoro, non è diretta da nessuno. Gli uomini lavorano gli uni per gli altri senza conoscersi, senza informarsi delle loro reciproche necessità, nella speranza, quando non addirittura nella certezza che i loro rapporti in un modo nell’altro si regoleranno da sé. E ogni tanto lo fanno, o piuttosto tendevano a farlo. È assolutamente impossibile cercare le cause delle fasi della società capitalistica nella coscienza soggettiva, nelle intenzioni o progetti dei suoi membri. Le leggi obiettive del capitalismo furono formulate prima che la scienza cominciasse a pensarci seriamente. Finora la stragrande maggioranza non sa nulla delle leggi che governano l’economia capitalista. Tutta la forza del metodo marxista sta nel suo affrontare i fenomeni non dal punto di vista oggettivo di certe persone, ma da quello obiettivo dello sviluppo della società come un tutto, così come uno studioso di scienze sperimentali si pone a considerare un alveare o un formicaio.

Per la scienza il valore decisivo è dato da ciò che gli uomini fanno e come lo fanno, non da ciò che essi pensano delle loro proprie azioni. Alla base della società non stanno la religione e la morale, ma la natura e il lavoro. Il metodo di Marx è materialista perché procede dall’esistenza alla coscienza e non in senso opposto. Il metodo Marx è dialettico, perché considera la società e la natura in fase evolutiva, e l’evoluzione stessa la lotta costante di forze contrapposte.

Il marxismo e la scienza ufficiale

Marx ha avuto predecessori. L’economia politica classica, con le figure di Adam Smith e Davide Ricardo, giunse alla sua massima fioritura prima che il capitalismo cominciasse a invecchiare e a temere il domani. Marx tributò ai due grandi classici l’omaggio di una gratitudine profonda. Cionondimeno, l’errore fondamentale dell’economia classica fu il concepire il capitalismo come normale esistenza della società, invece di vedere in esso una fase storica nello sviluppo della società. Marx cominciò con una critica di quell’economia, ne indicò gli errori, insieme alle contraddizioni del capitalismo stesso, e ne dimostrò l’inevitabile fine.

La scienza non deve raggiungere la propria meta nello studio ermeticamente sigillato dello scienziato, ma nella società fatta di uomini in carne e ossa. Tutti gli interessi e le passioni che dilaniano la società esercitano la loro influenza sullo sviluppo della scienza, in particolare sull’economia politica, la scienza della ricchezza e della povertà. La lotta degli operai contro i capitalisti costrinse i teorici della borghesia a voltare le spalle a un’analisi scientifica del sistema di sfruttamento per limitarsi ad una scarna descrizione di fatti economici, a uno studio dell’economia antica e, cosa incommensurabilmente peggiore, a una gretta falsificazione delle cose quali sono, allo scopo di giustificare il regime capitalista. La dottrina economica che si insegna oggi nelle scuole ufficiali e che viene propagandata dalla stampa borghese, non manca di importanti dati di fatto, ma è del tutto impotente ad abbracciare il processo economico nella sua unità e a scoprirne le leggi e le prospettive, né ha il minimo desiderio di farlo. L’economia politica ufficiale è morta.La legge del valore-lavoro

Nella società contemporanea, il legame principale fra gli uomini è quello degli scambi. Ogni prodotto del lavoro che entri nel processo di scambio diventa merce. Marx cominciò la sua indagine con la merce e dedusse da questa cellula fondamentale della società capitalista quei rapporti sociali che si sono obiettivamente forgiati sulla base degli scambi, indipendentemente dalla volontà dell’uomo. Solo così è possibile risolvere il rompicapo fondamentale e

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comprendere come, nonostante nella società capitalista ognuno pensi per sé e nessuno pensi agli altri, si creino le corrette proporzioni delle varie branche dell’economia indispensabili alla vita.

L’operaio vende la sua forza lavoro, l’agricoltore porta i suoi prodotti al mercato, il prestatore di danaro o banchiere concede prestiti, il bottegaio offre una quantità di merci, l’industriale costruisce uno stabilimento, lo speculatore compra e vende azioni e valori, ognuno secondo le proprie valutazioni, i propri piani privati, i propri interessi in fatto di salari o profitti. Tuttavia, da questo caos di azioni e di sforzi individuali emerge una certa unità economica che, invero, non è armoniosa, ma contraddittoria, pure offre alla società la possibilità non solo di esistere ma anche di svilupparsi. Ciò significa che, dopo tutto, il caos non è affatto caos e che, in un certo qual modo, esso viene regolato automaticamente, anche se non consapevolmente. Comprendere il meccanismo mediante il quale i vari aspetti dell’economia giungono ad uno stato di relativo equilibrio, significa scoprire le leggi obiettive del capitalismo.

È chiaro che le leggi che governano le varie sfere dell’economia capitalista, salari, prezzi, rendita fondiaria, profitti, interessi, crediti, borsa valori, sono numerose e complesse. Ma in definitiva si riducono alla singola legge che Marx scoprì ed esplorò da cima a fondo, quella legge del valore del lavoro, che è la norma fondamentale dell’economia capitalistica. L’essenza di quella legge è semplice. La società ha a disposizione una certa riserva di forza-lavoro umana. Applicata alla natura, questa forza crea i prodotti necessari alla soddisfazione dei bisogni umani. In conseguenza alla divisione del lavoro tra produttori indipendenti, i prodotti assumono la forma di merci. Le merci vengono reciprocamente scambiate secondo una data proporzione, prima direttamente, e infine a mezzo di oro o monete. La proprietà fondamentale delle merci, la quale in una data relazione le pone su un piano di reciproca parità, è il lavoro umano esercitato su di esse, lavoro astratto, lavoro come principio generale, base e misura del valore. La divisione del lavoro tra milioni di produttori sparpagliati non porta alla disintegrazione della società, perché le merci sono scambiate in base al tempo-lavoro socialmente utile da esse rappresentato. Accettando e rifiutando merci, il mercato, arena di scambi, stabilisce se essa contengano o non contengano in se stesse lavoro socialmente utile, determinando così le proporzioni dei vari generi di prodotti necessari alla società e di conseguenza determinando pure la distribuzione della forza-lavoro secondo i vari traffici.

In realtà i processi del mercato sono incomparabilmente più complessi di quel che non si sia qui esposto in qualche riga. Così, oscillando intorno al valore del lavoro, e prezzi fluttuano al di sopra o al di sotto dei loro valori. Le cause di queste deviazioni sono ampiamente spiegate nel terzo volume del Capitale di Marx, ove si descrive il processo della produzione capitalistica considerata come un tutto. Ad ogni modo, per grandi che possano essere le divergenze fra i prezzi ed i valori delle merci in singoli casi, la somma di tutti i prezzi è uguale alla somma di tutti i valori, perché in definitiva solo i valori creati dal lavoro umano sono a disposizione della società e i prezzi non possono superare questo limite, compresi e prezzi monopolistici dei trust, dove il lavoro non crea nuovi valori, là lo stesso Rockefeller non può ottenere nulla.

Ineguaglianza e sfruttamento

Ma se le merci vengono scambiate secondo la quantità di lavoro che esse rappresentano, come nasce l’ineguaglianza dall’uguaglianza? Marx risolse questo rompicapo mostrando la natura particolare di una data merce, che sta alla base di ogni altra merce: la forza-lavoro. Il proprietario dei mezzi di produzione, o capitalista, compera la forza-lavoro. Come ogni altra merce la forza-lavoro viene valutata secondo la quantità di lavoro investitavi, e cioè secondo i mezzi di sussistenza necessari alla vita e alla riproduzione dell’operaio. Ma il consumo della merce-lavoro consiste nel lavoro, nella creazione cioè di nuovi valori. La quantità di questi valori è più grande di quella che l’operaio stesso riceve e spende per il proprio mantenimento. Il capitalista compera la forza-lavoro per sfruttarla. È questo sfruttamento la fonte dell’ineguaglianza.

Quella parte del prodotto che serve a coprire il mantenimento dell’operaio, Marx la chiama prodotto-necessario; quella che l’operaio produce in più è prodotto in eccesso, o plus-valore. Il plus-valore deve essere stato prodotto dallo schiavo, diversamente il proprietario di schiavi non ne avrebbe tenuti. Il plus-valore deve essere stato prodotto dal servo della gleba, diversamente il vassallaggio non sarebbe stato di nessuna utilità ai proprietari terrieri. Il plus-valore, e in proporzioni considerevolmente maggiori, è ancora prodotto dal lavoratore salariato, diversamente il capitalista non avrebbe bisogno di comperare forza-lavoro. La lotta di classe non è altro che la lotta per il plus-valore. Chi possiede plus-valore è il padrone della situazione, possiede ricchezza, possiede lo Stato, le chiavi della Chiesa, delle corti, delle scienze e delle arti.

Concorrenza e monopolio

I rapporti tra i capitalisti, che sfruttano i lavoratori, sono determinati dalla concorrenza, che da tempo si è affermata come fonte principale del progresso capitalistico. Le grandi aziende godono di vantaggi tecnici, finanziari, organizzativi, economici e, elemento importante, politici sulle aziende minori. Il maggiore accumulo di capitali, potendo

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sfruttare un maggior numero di lavoratori, esce inevitabilmente vittorioso dalla gara. Questa è la base inalterabile del processo di accentramento e di centralizzazione del capitale.

Pur stimolando il progressivo sviluppo della tecnica, la concorrenza consuma non solo gli strati intermedi, ma anche se stessa. Sul cadavere e sui semicadaveri dei piccoli e medi capitalisti si leva un numero sempre più esiguo di sempre più potenti super signori del danaro. Così, dall’onesta, democratica, progressiva concorrenza emerge irrevocabilmente nocivo, parassitario, reazionario monopolio. Il suo dominio cominciò ad affermarsi dopo il 1880, assumendo una forma definita agli inizi del nostro secolo. Oggi la vittoria del monopolio è apertamente riconosciuta dagli esponenti ufficiali della società borghese (2). Tuttavia, quando nel corso della sua prognosi Marx aveva concluso che il monopolio era implicito nelle tendenze del capitalismo, il mondo borghese considerava la concorrenza come una legge eterna della natura.

L’eliminazione della concorrenza da parte del monopolio segna l’inizio della disintegrazione della società capitalistica. La concorrenza era stata la fonte animatrice del capitalismo e la giustificazione storica del capitalista. Parimenti, l’eliminazione della concorrenza segna la trasformazione degli azionisti in parassiti sociali. La concorrenza doveva avere certe libertà, un’atmosfera liberale, un regime democratico e un cosmopolitismo commerciale. Al monopolio occorrono un governo il più autoritario possibile, barriere doganali, “sue proprie” fonti di materie prime e vasto gioco di mercati (colonie). L’ultima parola nella disintegrazione del capitale monopolistico è il fascismo.

Accentramento della ricchezza e sviluppo delle contraddizioni di classe

I capitalisti e i loro sostenitori cercano in ogni odo di nascondere la reale estensione dell’accentramento della ricchezza agli occhi del popolo come pure agli occhi del fisco. A dispetto dell’evidenza, la stampa borghese cerca ancora di mantenere l’illusione di una distribuzione democratica degli investimenti di capitale. Il New York Times, polemizzando con i marxisti, afferma che il numero degli imprenditori va dai tre ai cinque milioni. Le società anonime, è vero, rappresentano una maggiore concentrazione di capitali di quel che rappresentino tre o cinque milioni di imprenditori, tuttavia gli Stati Uniti debbono avere “mezzo milione di compagnie per azioni”. A questa specie di giochetto con somme globali e cifre di medie si ricorre non per mostrare, bensì per nascondere le cose quali sono.

Dagli inizi della guerra ’14-’18 fino al 1923, il numero degli stabilimenti e degli impianti industriali negli Stati Uniti calò dal numero indice 100 a quello di 98,7, mentre la massa della produzione industriale saliva da 100 a 156,3. Negli anni della sensazionale prosperità (segnatamente nel 1923), quando parve che ognuno diventasse ricco, il numero degli stabilimenti scese da 100 a 93,8, mentre la produzione saliva da 100 a 113. Inoltre, l’accentramento degli impianti industriali, vincolati dai loro ponderosi corpi materiali, è di gran lunga inferiore a quello delle loro anime, e cioè i proprietari. Nel 1929 gli Stati Uniti avevano in realtà più di trecentomila società anonime, come osserva giustamente i l New York Times. È necessario aggiungere solo che 200 di queste, e cioè lo 0,07 per cento del totale, controllava direttamente il 49,2 per cento dei beni di tutte le società. Quattro anni dopo, questo rapporto era già salito al 56 per cento e durante gli anni della presidenza Roosevelt è senza dubbio salito ancora. All’interno di queste 200 società le redini sono poi in mano a una piccola minoranza (3).

Lo stesso fenomeno è osservabile nei sistemi bancario e assicurativo. Cinque tra le maggiori compagnie d’assicurazione degli Stati Uniti hanno assorbito non solo le altre, ma anche molte banche. Il numero totale delle banche viene ridotto, principalmente ad opera delle cosiddette “fusioni”, in realtà dagli assorbimenti. L’estensione del gito d’affari è in aumento costante. Sopra le banche si erige l’oligarchia delle super-banche. Il capitale bancario si fonde con quello industriale, dando luogo al super-capitale finanziario. Supponendo che l’accentramento delle industrie proceda con lo stesso ritmo dell’ultimo quarto di secolo, e in realtà il ritmo si accelera, nei prossimi 25 anni i monopoli avranno accumulato entro di sé l’intera economia del paese, senza lasciare fuori nemmeno una briciola.

Abbiamo citato qui le statistiche americane solo perché più precise e impressionanti. Il fenomeno di accentramento ha carattere internazionale. Per tutte le varie fasi del capitalismo, attraverso cicliche congiunture, attraverso tutti i regimi politici, attraverso periodi di pace e periodi di conflitti armati, il processo di accentramento di tutte le grandi fortune in un numero di mani sempre più ristretto è continuato e continuerà senza fine.

Negli anni 1914-’18, quando le nazioni sanguinavano a morte, quando gli stessi corpi politici della borghesia crollavano sotto il peso dei singoli debiti nazionale, quando i sistemi fiscali precipitavano nel baratro, trascinando con sé le classi medie, i monopoli trassero profitti senza precedenti dal sangue e dal letame. Le più potenti compagnie degli Stati Uniti, accrebbero i loro benefici, negli anni di guerra, di due, tre, quattro e più volte, gonfiando i dividendo fino al 300, 400, 900 e più per cento. Nel 1840, otto anni prima della divulgazione da parte di Marx ed Engels del Manifesto comunista, il celebre scrittore francese Alexis de Tocqueville scriveva nel suo libro La Democrazia in America: “I grandi patrimoni tendono a scomparire, il numero dei piccoli capitali è in aumento”. Questa osservazione è stata ripetuta innumerevoli volte, prima nei riguardi degli Stati Uniti, poi di altre giovani democrazie come l’Australia e la Nuova Zelanda. Naturalmente, il punto di vista di Tocqueville, era già errato fin da allora. Tuttavia, il vero accentramento della ricchezza cominciò soltanto dopo la Guerra di Secessione americana, alla vigilia della quale il Tocqueville si spense. Agli inizi di questo secolo il 2 per cento della popolazione statunitense possedeva già più di metà dell’intera ricchezza nazionale; nel 1929 quello stesso 2 per cento possedeva tre quinti del patrimonio della nazione. Nello stesso tempo 36

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mila famiglie facoltose avevano un reddito equivalente a quello di 11 milioni di famiglie medie e povere. Durante la crisi del 1929-1933 i monopoli non ebbero bisogno di ricorrere all’aiuto pubblico; anzi, prosperarono più che mai sul declino generale dell’economia nazionale. Nella barcollante ripresa industriale attorno al pasticcio cremoso del New Deal i monopolisti si schiumarono ancora una sostanziosa porzione di crema. Uil numero dei disoccupati discese da 20 a 10 milioni; nello stesso tempo la crosta superiore della società capitalista, non più di seimila adulti, accumulò dividendi fantastici, come dimostrò, cifre alla mano, Robert H. Jackson, durante la sua carica di vice procuratore generale antitrust degli Stati Uniti.

Ma il concetto astratto di “capitale monopolistico” è per noi pieno di carne e di sangue. Esso significa che un pugno di famiglie (4), legate da vincoli di parentela e da comuni interessi in una oligarchia capitalista a carattere esclusivo, dispone delle fortune economiche e politiche di una grande nazione. Bisogna ammettere per forza che la legge di Marx sull’accentramento di capitali è tutto men che fallace!

Le teorie di Marx sono diventate antiquate?

I problemi relativi alla concorrenza, all’accentramento della ricchezza e al monopolio sottintendono naturalmente il problema se ai nostri giorni i principi economici di Marx abbiano un puro interesse storico, come, per esempio le teorie di Adam Smith, o se continuano ad avere un senso attuale. Il criterio per rispondere al quesito è semplice. Se la teoria calcola con esattezza l’andamento economico prevedendone l’evoluzione meglio delle altre, sarà la teoria più avanzata del nostro tempo, anche se sia vecchia di parecchie generazioni.

Il celebre economista tedesco Werner Sombart, che fu virtualmente marxista agli inizi della sua carriera, per poi rivedere tutti gli aspetti più rivoluzionari della dottrina marxista, oppose al Capitale di Marx il suo Capitalismo, che è probabilmente il più noto trattato d’economia borghese della sua epoca. Sombart scrive: “Marx ha profetizzato in primo luogo, la miseria crescente dei lavoratori salariati, in secondo luogo, il generale “accentramento” con la scomparsa della classe degli artigiani e dei contadini, infine, il crollo catastrofico del capitalismo. Nulla del genere è ancora avvenuto”.

A questa erronea previsione Sombart oppone il suo pronostico “strettamente scientifico”, “Il capitalismo continuerà” secondo lui “a trasformarsi internamente nella stessa direzione in cui ha già cominciato a trasformarsi fin dall’epoca del suo apogeo: invecchiando diverrà sempre più calmo, più sedato, più ragionevole”. Cerchiamo di verificare, almeno lungo le linee fondamentali, quale dei due abbia ragione: Marx con le sue previsioni di catastrofe, o Sombart, che in nome di tutta l’economia borghese promise che le cose si sarebbero accomodate pacificamente, tranquillamente, ragionevolmente? Il lettore ammetterà che il problema è degno d’attenzione.

a) Teoria della miseria progressiva“Accumulo di ricchezze a un polo” scriveva Marx sessant’anni prima di Sombart “significa dunque nello stesso tempo

accumulo di miseria, di lavoro abbruttente, schiavitù, ignoranza, brutalità, degradazione mentale all’altro polo, cioè dalla parte della classe che crea il suo prodotto sotto forma di capitale”. Questa tesi di Marx, nota come Teoria dell’impoverimento progressivo, è stata fatto oggetto di attacchi costanti da parte dei riformisti democratici e socialdemocratici specialmente nel periodo 1896-1914, quando il capitalismo si sviluppava rapidamente e faceva certe concessioni ai lavoratori, soprattutto a quelli degli strati superiori. Dopo la guerra del 1914-18, allorché la borghesia spaventata dai suoi stessi delitti e dalla Rivoluzione d’Ottobre, si buttò con gran rumore pubblicitario nelle riforme sociali, il cui valore fu del resto contemporaneamente annullato dall’inflazione e dalla disoccupazione, la teoria della trasformazione progressiva della società capitalista parve ai riformisti e ai professori borghesi pienamente provata. “Il potere d’acquisto del lavoro salariato” ci assicurò Sombart nel 1928 “è aumentato in ragione diretta dell’espansione della produzione capitalistica”.

In realtà, la contraddizione economica fra proletariato e borghesia si aggravò nel periodo più prospero capitalistico, quando l’aumentato tenore di vita di certi strati operai, talvolta anche estesi, nascose la diminuita partecipazione del proletariato al reddito nazionale. Così, già sulla soglia della grande crisi, la produzione industriale degli Stati Uniti aumentò del 50 per cento fra il 1920 e il 1930, mentre la somma totale pagata in salari salì solo del 10 per cento: il che significa una terribile diminuzione della partecipazione operaia al reddito nazionale. Nel 1930 ebbe inizio il fenomeno, di pessimo augurio, di una crescente disoccupazione, e nel 1933 un sussidio più o meno sistematico ai disoccupati, garantì loro sotto forma di aiuti non più della metà di ciò che avevano perduto sotto forma di salario. L’illusione dell’ininterrotto “progresso” di tutte le classi era svanita senza lasciar traccia. Il relativo declino del tenore di vita delle masse era stato superato da un declino assoluto. I lavoratori cominciano ad economizzare sui loro modesti svaghi, quindi sugli abiti, infine sul vitto. Articoli e prodotti di qualità mediocre sono sostituiti da altri scadenti e questi da altri ancor più scadenti. I sindacati cominciano ad assomigliare all’uomo che si attacca disperatamente al corrimano mentre scende con un ascensore che cala rapidissimo.

Con il 6 per cento della popolazione mondiale, gli Stati Uniti detengono il 40 per cento della ricchezza del mondo. Pure, un terzo della nazione, come lo stesso Roosevelt ammette, è denutrito, inadeguatamente vestito e vive in condizioni subumane. Che cosa bisognerà dire dei paesi meno privilegiati? La storia del mondo capitalistico dopo la guerra del 1914-18 conferma inconfutabilmente la teoria della miseria progressiva.

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Il regime fascista, che porta semplicemente all’estremo limite il declino e la reazione impliciti in ogni capitalismo imperialista, divenne indispensabile, quando la degenerazione del capitalismo annullò ogni possibilità d’illusioni su un miglioramento del tenore di vita del proletariato. La dittatura fascista significa l’aperto riconoscimento della tendenza all’impoverimento che le più ricche democrazie imperialiste cercano ancora di nascondere. Mussolini e Hitler perseguitano il marxismo con tanto odio proprio perché il loro regime è la più orrenda conferma dell’analisi marxista. Il mondo civile s’indignò, o finse d’indignarsi, quando Goering, con quel tono tra il carnefice e il buffone che gli è peculiare, dichiarò essere i cannoni più importanti del burro, o quando Cagliostro-Casanova-Mussolini consigliò ai lavoratori italiani di imparare a stringersi ben bene la cintura sulle loro camicie nere. Ma non avviene sostanzialmente la stessa cosa nelle democrazie imperialiste? Per ogni dove il burro serve ormai a ingrassare i cannoni. I lavoratori di Francia, Inghilterra e Stati Uniti imparano a stringere la cinghia senza avere la camicia nera.

b) L’esercito di riserva e la nuova sottoclasse dei disoccupatiL'esercito industriale di riserva rappresenta un elemento indispensabile del meccanismo sociale capitalistico,

esattamente uguale alle macchine di scorta e alle materie prime nei magazzini degli stabilimenti o ai prodotti finiti già immessi nelle botteghe. Né la generale espansione della produzione né l'adattamento del capitale al periodico flusso e riflusso del ciclo industriale sarebbero possibili senza una riserva di forza-lavoro. Dalla tendenza generale dello sviluppo capitalistico, l'aumento di capitale fisso (macchine e materie prime) a spese del capitale variabile (forza-lavoro), Marx trasse la conclusione: "Più grande la ricchezza sociale... maggiore l'esercito industriale di riserva... più grande la massa in eccesso di popolazione consolidata... maggiore il pauperismo ufficiale. Questa è la legge generale assoluta dell'accumulo capitalistico".

Questa tesi, indissolubilmente legata alla "teoria della miseria crescente" e per decenni tacciata di "esagerazione", "tendenziosità", "demagogia", è divenuta ora l'impeccabile immagine teorica delle cose quali sono. L'attuale esercito di disoccupati non può esser più considerato "massa di riserva", perché la sua base non può avere più la minima speranza di ritrovare lavoro; anzi è suscettibile di ingrossarsi per un costante afflusso di ulteriori disoccupati. La disintegrazione capitalistica ha prodotto tutta una generazione di giovani che non hanno mai trovato lavoro e non hanno speranza di trovarne. Questa nuova sotto-classe, tra il proletariato e il semiproletariato, e costretta a vivere a spese della società. È stato calcolato che in nove anni (fra il 1930 e il 1938) la disoccupazione ha sottratto all'economia degli Stati Uniti più di 43 milioni di anni-uomo lavorativi. Ricordando che nel 1929, al massimo della prosperità, c'erano 2 milioni di disoc-cupati, negli Stati Uniti, e che in questi 9 anni il numero di lavoratori potenziali è aumentato di 5 milioni, la cifra totale di anni-uomo perduti deve essere incomparabilmente più alta. Un sistema sociale devastato da una simile piaga è malato senza speranze di salvezza. La vera diagnosi di questa malattia è stata fatta quasi ottanta anni fa, quando la malattia medesima era ancora un semplice germe.

c) Declino della classe mediaLe cifre indicanti l'accentramento del capitale mostrano nello stesso tempo che il peso specifico della classe media

nella produzione e la sua partecipazione al reddito nazionale sono stati in continuo declino, mentre le piccole proprietà sono state completamente divorate o ridotte e derubate della loro autonomia fino a divenire un semplice emblema di sforzi intollerabili e disperata indigenza. Nello stesso tempo, è vero, lo sviluppo del capitalismo ha considerevolmente facilitato la formazione dell'esercito di tecnici, degli amministratori, dei funzionari, impiegati, medici, avvocati, insomma del cosiddetto nuovo ceto medio. Ma questo strato, il cui affermarsi non era più un mistero nemmeno per Marx e il suo tempo, ha poco in comune con l'antica classe media, che nel possesso dei suoi propri mezzi di produzione aveva una tangibile garanzia d'indipendenza economica. I "nuovi ceti medi" dipendono più direttamente dai capitalisti degli stessi operai. Infatti la classe media è in grande misura la loro caposquadra. Inoltre in seno ad essa si è notata una notevole superproduzione, con la sua conseguenza di degradazione sociale.

"Dati statistici attendibili", dichiara un uomo così lontano dal marxismo come il già nominato Procuratore Generale degli Stati Uniti Homer S. Cummings, "indicano che moltissime imprese industriali sono completamente scomparse e ha avuto luogo una progressiva eliminazione del piccolo uomo d'affari come fattore della vita americana". Ma, obietta Sombart, "l'accentramento generale, con la scomparsa della categoria degli artigiani e dei contadini" non s'è ancora verificato. Come ogni teorico, Marx cominciò a isolare le tendenze fondamentali nella loro forma pura; diversamente sarebbe stato del tutto impossibile comprendere il destino della società capitalista. Lo stesso Marx era tuttavia perfettamente capace di considerare il fenomeno della vita alla luce dell'analisi concreta, come prodotto della concate-nazione di vari fattori storici. Certo, le leggi di Newton non sono invalidate dal fatto che la velocità nella caduta di un grave varia sotto condizioni diverse o che le orbite dei pianeti sono soggette a deviazioni.

Per comprendere la cosiddetta "resistenza" della classe media bisogna ricordare che le due tendenze, la rovina dei ceti medi e la loro trasformazione in proletariato, non si sviluppano né con un ritmo regolare né su una stessa scala. Dalla crescente preponderanza della macchina sulla mano d'opera deriva il fatto che più procede il fenomeno della rovina dei ceti medi, più esso supera quello della loro proletarizzazione; infatti a un dato punto quest'ultimo deve cessare completamente e addirittura invertirsi. Come l'opera delle leggi fisiologiche dà risultati diversi, in un organismo che si sta sviluppando, da quelli in atto in un organismo morente, così le leggi economiche dell'economia marxista si affermano diversamente in un capitalismo in sviluppo e in un capitalismo in via di disintegrazione. Questa differenza appare con particolare chiarezza nei reciproci rapporti fra città e campagna. La popolazione rurale degli Stati Uniti, che

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aumenta proporzionalmente con un ritmo minore di quello della popolazione totale, continuò ad accrescersi in cifre assolute fino al 1910, quando giunse a più di 32 milioni. Nei successivi vent'anni, nonostante il rapido aumento della popolazione totale, essa scese a 30,4 milioni, cioè di milioni 1,6. Ma nel 1935 risalì a 32,8, aumentando rispetto al 1930 di milioni 2,4. Questo giro di ruota, sbalorditivo a prima vista, non confuta minimamente né la tendenza della popolazione urbana ad accrescersi a spese della popolazione rurale né la tendenza della classe media a polverizzarsi, mentre dimostra contemporaneamente la disintegrazione del sistema capitalistico nel suo complesso. L'aumento della popolazione rurale nel periodo della crisi acutissima del 1930 è spiegato semplicemente dal fatto che circa 2 milioni di appartenenti alla popolazione urbana o, per essere più precisi, 2 milioni di disoccupati famelici si trasferirono in campagna, in appezzamenti di terreno abbandonati dagli agricoltori o in tenute agricole di loro parenti, per impiegare la loro forza-lavoro, rifiutata dalla società, nell'economia produttiva naturale e per vivacchiare alla meglio anziché morire totalmente di fame.

Cosicché, non si tratta tanto della solidità dei piccoli agricoltori, artigiani e bottegai, quanto della disperata precarietà della loro situazione. Lungi dal rappresentare una garanzia per il futuro, la classe media è un tragico, sfortunato relitto del passato. Incapace di schiacciarla completamente, il capitalismo è riuscito a ridurla al massimo grado di decadimento e rovina. All'agricoltore sono negati non soltanto il fitto dovutogli per il suo pezzo di terra e gli interessi sul suo capitale investito, ma anche larga parte del suo reddito. Parimenti, i poveri diavoli di città si trascinano nell'angoscia sul piccolo margine loro concesso tra la vita economica e la morte. La classe media non è pro letarizzata solo perché è depauperata. In ciò è altrettanto difficile trovare un argomento contro Marx quanto in favore del capitalismo.

d) Crisi industrialiLa fine del secolo scorso e gli inizi del presente sono stati caratterizzati da progressi così preponderanti del

capitalismo che le crisi cicliche parvero solo turbamenti "accidentali". Negli anni del quasi universale ottimismo capitalistico, i critici di Marx ci promisero che gli sviluppi nazionali e internazionali di trusts, consorzi e cartelli, introducendo un controllo pianificato dei mercati, presagivano il trionfo definitivo sulle crisi. Secondo Sombart, le crisi erano già state "abolite" prima della guerra ' 14-' 18 dal meccanismo dello stesso capitalismo, onde "il problema delle crisi ci lascia oggi virtualmente indifferenti". Ora, a soli dieci anni di distanza, queste parole suonano come inutile beffa, mentre solo nella nostra epoca la previsione di Marx si annuncia nella piena misura della sua tragica urgenza.È notevole come la stampa capitalistica, che tenta parzialmente di negare l'esistenza medesima dei monopoli, ricorra a questi stessi monopoli per negare parzialmente l'anarchia capitalistica. Se sessanta famiglie dovessero controllare la vita economica degli Usa, osserva ironicamente il "New York Times", “il fatto significherebbe che il capitalismo americano, lungi dall'essere «anarchico» e «non pianificatore»... è organizzato con grande precisione “. Argomento che fallisce il bersaglio. Il capitalismo è stato incapace di portare fino in fondo qualunque sua tendenza. Come l'accentramento di ricchezze non abolisce la classe media, così il monopolio non abolisce la concorrenza, ma solo la deprime e la mutila. Con i "piani" d'ognuna delle sessanta famiglie, le numerose varianti di questi piani non sono minimamente favorevoli a coordinare le varie branche dell'economia, ma piuttosto ad accrescere i profitti della loro cricca monopolistica a spese di altre cricche e dell'intera nazione. L'incrociarsi di questi piani, alla fine, non fa che accentuare l'anarchia dell'economia nazionale.La crisi del 1929 scoppiò negli Usa un anno dopo che Sombart aveva proclamato l'estrema indifferenza della sua "teoria scientifica" al problema stesso delle crisi. Dal vertice di una prosperità senza precedenti l'economia degli Usa. fu precipitata nell'abisso d'una mostruosa depressione. Nessuno ai tempi di Marx avrebbe potuto concepire convulsioni di tale ampiezza! Il reddito nazionale degli Usa era giunto per la prima volta, nel 1920, a sessantanove miliardi di dollari, ma per cadere non più tardi dell'anno dopo a cinquanta miliardi, una diminuzione, cioè, del 27% . Grazie alla prosperità degli anni successivi il reddito nazionale risalì, nel 1929, al suo massimo culmine: 81 miliardi di dollari, che però si riducevano nel 1932 a quaranta, diminuzione d'oltre la metà! Nei nove anni 1930-1938 vennero perduti circa 43 milioni di anni uomo-lavoro e 133 miliardi di dollari del reddito nazionale, prendendo come base lavoro e reddito del 1929, quando c'erano soltanto 2 milioni di disoccupati. Se tutto ciò non è anarchia, che cosa mai può dunque significare questa parola?

e) La teoria del disastroLe menti e i cuori degli intellettuali della classe media e dei burocrati delle associazioni sindacali operaie, furono

quasi completamente affascinati dalle conquiste del capitalismo nel periodo che va dalla morte di Marx alla guerra mondiale. L'idea del progresso graduale (evoluzione) sembrava essersi affermata per ogni tempo, laddove l'idea di rivoluzione era considerata un mero relitto di barbarie.

Alle previsioni marxiste vennero opposte quelle qualitativamente contrarie sulla distribuzione più equilibrata del reddito nazionale, sull'attenuarsi delle contraddizioni di classe e sulla graduale riforma della società capitalistica. Jean Jaurès, il più acuto dei socialdemocratici di quell'epoca classica, sperava di riempire gradualmente di sostanza sociale la democrazia politica. In ciò sta l'essenza del riformismo. Questa era l'alternativa della previsione. Che cosa ne resta?

La vita del capitalismo monopolistico nel nostro tempo è tutta una catena di crisi. Ogni crisi è una catastrofe. La necessità di salvarsi da queste parziali catastrofi mediante barriere doganali, inflazione, aumento delle spese governative e debiti apre la via a ulteriori crisi, ma più profonde e diffuse. La lotta per i mercati, per le materie prime,

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per le colonie rende inevitabile la tragedia della guerra, con la sua appendice di sovvertimenti rivoluzionari. Non è davvero agevole convenire con Sombart che, invecchiando, il capitalismo diviene sempre più calmo, sedato, ragionevole. Si potrebbe anzi dire che stia perdendo l'ultima traccia di ragione. Ad ogni modo non c'è dubbio che la "teoria del disastro" ha trionfato su quella del processo pacifico.

La decadenza del capitalismo

Per quanto caro possa essere costato alla società il controllo dei mercati, il genere umano fino a una certa fase, approssimativamente fino alla (prima) guerra mondiale, si è accresciuto e arricchito attraverso crisi ora parziali ora generali. La proprietà privata dei mezzi di produzione continuò ad essere in quell'epoca un elemento di relativo progresso. Ma ora il cieco controllo da parte della legge del valore si rifiuta di prestare ulteriori servizi. Il progresso umano s'è cacciato in un vicolo cieco. Nonostante i trionfi recentissimi della tecnica, le forze materiali di produzione hanno cessato di accrescersi. Il più chiaro sintomo del declino è il ristagno mondiale dell'industria edile, dovuto alla cessazione di nuovi investimenti nelle branche fondamentali dell'economia. I capitalisti non sono semplicemente più in grado di credere nell'avvenire del loro sistema. Costruzioni promosse dal governo significano aumento di tasse e contrazione del reddito nazionale, soprattutto se la maggior parte delle nuove costruzioni governative sia direttamente volta a fini bellici.

Il marasma ha acquisito un carattere particolarmente degradante nella più antica sfera dell'attività umana, la più intimamente legata alle fondamentali necessità di vita dell'uomo: l'agricoltura. Non più soddisfatti degli ostacoli che la proprietà privata nella sua forma più reazionaria, quella della piccola proprietà fondiaria, pone allo sviluppo dell'agricoltura, i governi capitalistici si vedono spesso indotti a limitare artificialmente la produzione mediante misure statutarie e amministrative che avrebbero spaventato gli artigiani delle corporazioni al tempo del loro declino. La storia registrerà che il governo del più potente paese capitalista concesse premi agli agricoltori che riducessero le loro colture, cioè che riducessero artificialmente il già declinante reddito nazionale. I risultati parlano da sé: nonostante grandiose possibilità produttive, date dall'esperienza e dalla scienza, l'economia agricola non riesce a venire a galla da una crisi impanatasi nella putredine, mentre il numero degli affamati, la preponderante maggioranza del genere umano, continua ad accrescersi più rapidamente della popolazione del nostro pianeta. I conservatori considerano politica sensata difendere un ordine sociale che s'è ridotto a così deleteria follia, e condannano la lotta socialista contro tale follia come deleterio sogno utopistico.

Il fascismo e il New Deal

Due metodi, per salvare il capitalismo storicamente condannato, gareggiano oggi nell'arena del mondo: fascismo e New Deal. Il fascismo basa il suo programma sulla demolizione delle organizzazioni sindacali operaie, sulla distruzione delle riforme sociali e sul completo annientamento dei diritti democratici, allo scopo di impedire una rinascita della lotta di classe proletaria. Lo stato fascista ufficialmente legalizza la degradazione degli operai e l'impoverimento dei ceti medi, in nome della salvezza della "nazione" e della "razza", nomi presuntuosi sotto cui si nasconde la decadenza capitalistica.

La politica del New Deal, che tenta di salvare la democrazia imperialista mediante concessioni all'aristocrazia del proletariato agricolo e industriale, è nel suo ampio raggio possibile solo a nazioni ricchissime e in questo senso è dunque politica americana per eccellenza.

Il governo americano ha tentato di addossare una parte dei costi di questa politica ai monopoli esortandoli a elevare i salari e a raccorciare la giornata lavorativa, ad accrescere cioè il potere d'acquisto della popolazione e a estendere la produzione. Leon Blum tentò di tradurre questo sermone in francese da scuola elementare. Invano! Il capitalista francese, come quello americano, non produce per amor della produzione ma per il profitto. È sempre pronto a limitare la produzione, anche a distruggere prodotti manufatti, se questo gli permette di aumentare la sua partecipazione al godimento del reddito nazionale.

Il programma del New Deal è tanto più incoerente in quanto, mentre fa prediche ai magnati del capitale in merito ai vantaggi dell'abbondanza sulla carestia, il governo dispensa premi per la riduzione della produzione. È possibile una maggior confusione? Il governo risponde ai suoi critici con la sfida: e voi potete forse far meglio? Tutto ciò significa che su basi capitalistiche la situazione è disperata.

Durante gli ultimi sei anni, in America, e cioè a partire dal 1933, il governo federale, i vari stati e le municipalità hanno versato ai disoccupati sussidi per quasi quindici miliardi di dollari, somma del tutto insufficiente in sé e indicativa solo di una parte minima di salari perduti, ma nello stesso tempo, considerato il calante reddito nazionale, somma gigantesca. Nel 1938, anno di relativa ripresa economica, il debito nazionale degli Usa superò di 2 miliardi di dollari il limite massimo di 38 miliardi di dollari e di ben 12 miliardi la punta massima raggiunta alla fine della (prima) guerra mondiale. Ai primi del 1939 anche il limite di 40 miliardi di dollari veniva superato. E allora?

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Il crescente debito pubblico è naturalmente un onere per la posterità. Ma il New Deal stesso era possibile solo a causa delle enormi ricchezze accumulate dalle precedenti generazioni. Soltanto una nazione ricchissima poteva abbandonarsi a una politica di tale sperpero. Ma anche una nazione siffatta non può continuare all'infinito a vivere a spese delle generazioni precedenti. La politica del New Deal con le sue vittorie fittizie e il suo autentico aggravio del debito pubblico è inevitabilmente destinata a culminare in una feroce reazione capitalistica. In altre parole, va lungo le stesse vie su cui muove il fascismo.

Norma o anomalia?

Il ministro degli Interni degli Usa, Harold L. Ickes, considera "una delle più strane anomalie della storia" che l'America, democratica nella forma, sia autocratica nella sostanza: "L'America, terra ove dominano le maggioranze, ma controllata, almeno fino al 1933(!), da monopoli che a loro volta sono controllati da un numero insignificante di loro azionisti". L'analisi è corretta, meno l'allusione che con l'avvento di Roosevelt il dominio dei monopoli o era venuto a cessare o s'era attenuato. Tuttavia quella che Ickes chiama "una delle più strane anomalie della storia" è una cosa ovvia, una delle norme indiscutibili del capitalismo. Il dominio del debole da parte del forte, dei molti da parte di pochi, dei lavoratori a opera degli sfruttatori è una legge fondamentale della democrazia borghese. Ciò che distingue gli Stati Uniti dagli altri paesi è solo il più ampio raggio e la più grande odiosità delle contraddizioni in seno a quel capitalismo. La mancanza di un passato feudale, immense risorse naturali, popolazioni energiche e intraprendenti, in una parola, tutti i requisiti occorrenti in un ininterrotto sviluppo della democrazia hanno prodotto una fantastica concentrazione di ricchezze.

Promettendo questa volta di portare la guerra contro i monopoli a un esito trionfale, Ickes incautamente si rifà a Thomas Jefferson, Andrew Jackson, Abraham Lincoln, Theodor Roosevelt e Woodrow Wilson come predecessori di Franklin D. Roosevelt. "Praticamente tutte le nostre più grandi figure storiche" egli disse il 30 dicembre 1937, "sono famose per la loro tenace e coraggiosa lotta contro la superconcentrazione della ricchezza e del potere in poche mani". Ma dalle sue stesse parole deriva che frutto di questa "tenace e coraggiosa lotta" è stato il completo asservimento della democrazia alla plutocrazia.

Per qualche inesplicabile ragione Ickes ritiene che questa volta la vittoria sia certa, purché il popolo comprenda che la lotta "non è fra New Deal e illuminato finanziere di tipo medio, ma tra New Deal e i Borboni delie sessanta famiglie che hanno portato gli altri finanzieri degli Usa sotto il terrore del loro dominio". Questo autorevole esponente del governo non spiega come i "Borboni" siano riusciti a soggiogare tutti gli illuminati finanzieri, in barba alla democrazia e agli sforzi delle "più grandi figure storiche".

I Rockefeller, i Morgan, i Mellon, i Vanderbilt, i Guggenheim, i Ford e compagni non invasero gli Stati Uniti dall'esterno, come Cortez nell'occupare il Messico: si svilupparono organicamente dal "popolo" o più precisamente scaturirono da quel ceto di "illuminati industriali e finanzieri" e diventarono, concordemente all'analisi di Marx, il naturale apogeo del capitalismo.

Se una giovane e forte democrazia nemmeno nei giorni del suo pieno vigore fu capace di frenare l'accentramento della ricchezza quando il processo era solo agli inizi, è possibile credere per un solo momento che una democrazia in putrefazione sia in grado di indebolire gli antagonismi classisti giunti al loro massimo limite? Ad ogni modo, l'esperienza del New Deal non ha offerto motivi per tanto ottimismo. Confutando le accuse dell'alta finanza al governo, Robert H. Jackson, personaggio di non media importanza nei consigli del gabinetto Roosevelt, provò, cifre alla mano, che durante la presidenza Roosevelt i profitti dei magnati del capitale avevano toccato vette di cui essi medesimi avevano cessato di sognare fin dall'ultimo periodo della presidenza Hoover; dalla qual cosa si deduce, comunque, che la lotta di Roosevelt contro i monopoli non è stata coronata da un successo maggiore di quello di tutti i suoi predecessori.

Ritorno al passato

Non si può che essere d'accordo col prof. Lewis W. Douglas, ex Direttore del Bilancio nell'amministrazione Roosevelt, quando condanna il governo che "mentre attacca il monopolio in un campo, promuove il monopolio in molti altri". Pure, è nella natura delle cose e non può essere diversamente. Secondo Marx, il governo è il comitato esecutivo della classe dominante. Oggi i monopolisti rappresentano la sezione più forte della classe dominante. Nessun governo è in grado di combattere il monopolio in generale, cioè contro la classe per la volontà della quale governa. Mentre attacca un aspetto del monopolio, è obbligato a cercare un alleato nelle altre facce del monopolio. D'accordo con le banche e l'industria leggera può vibrare ogni tanto un colpo contro i trusts dell'industria pesante, che, incidentalmente, non cessano di guadagnare profitti fantastici proprio a causa di ciò.

Lewis Douglas non contrappone la scienza all'ipocrisia ufficiale, ma solo un'altra specie d'ipocrisia. Egli vede la fonte dei monopoli non nel capitalismo ma nel protezionismo e, conseguentemente, scopre la salvezza della società non nell'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione ma nella riduzione delle tariffe doganali. "Se non si tornerà alla libertà dei mercati", egli predica, "è dubbio che la libertà di tutte le istituzioni, d'iniziativa privata, di parola,

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educazione, religione, possa sopravvivere". In altre parole, la democrazia, non restaurando la libertà dei traffici internazionali, ovunque e nei limiti in cui sia ancora potuta sopravvivere, deve cedere o a una dittatura rivoluzionaria o a una dittatura fascista. Ma la libertà dei traffici internazionali è inconcepibile senza liberi commerci interni, cioè, senza concorrenza. E la libertà di concorrenza è inconcepibile sotto il dominio dei monopoli. Purtroppo, il signor Douglas, come il signor Ickes, come il signor Jackson, come il signor Cummings e il signor Roosevelt stesso, non s'è preso il disturbo di iniziarci alla sua propria ricetta contro il capitalismo monopolistico e pertanto contro una rivo luzione o un regime totalitario.

La libertà di commercio, come la libera concorrenza, come la prosperità della classe media appartengono all'irrevocabile passato. Tornare indietro è oggi la sola cura dei riformatori democratici del capitalismo: ridare più "libertà" a piccoli e medi industriali e finanzieri, cambiar sistema monetario e creditizio in loro favore, liberare il mercato dalla minaccia dispotica del trust, eliminare gli speculatori professionali dalla borsa, ripristinare liberi traffici internazionali, e così via all'infinito. I riformatori vagheggiano perfino di limitare l'uso delle macchine e sottoporre la tecnica a una sorta di proscrizione, dato che la stessa tecnica turba l'equilibrio sociale ed è causa di molte preoccupazioni.

Scienziati e marxismo

Parlando in difesa della scienza il 7 dicembre 1937, il Dr. Robert A. Millikan, eminentissimo fisico americano, ebbe a osservare: "Le statistiche degli Stati Uniti indicano che la percentuale della popolazione «che presta la sua opera remunerata» è in costante aumento da cinquant’anni a questa parte, periodo in cui la scienza ha veduto le sue più rapide applicazioni". Questa difesa del capitalismo sotto specie di difesa della scienza non si può dire felice. E proprio in quest'ultimo mezzo secolo che "si è spezzata la catena del tempo" e l'interrelazione fra tecnica ed economia si è nettamente modificata. Il periodo a cui Millikan si riferisce comprende così gli inizi del declino capitalista come il più alto livello della prosperità capitalista. Nascondere gli inizi di questo declino, che ha proporzioni mondiali, equivale a levarsi a patrocinatore del capitalismo. Respingendo il socialismo con aria di noncuranza e con argomenti che non farebbero onore nemmeno a Henry Ford, il Dr. Millikan ci dice che nessun sistema di distribuzione può soddisfare le necessità dell'uomo, quando non elevi il valore quantitativo della produzione. Verissimo! Ma è un peccato che il famoso fisico non spieghi ai milioni di disoccupati americani esattamente come dovrebbero fare per contribuire ad aumentare il reddito nazionale. Prediche astratte sulla grazia e la salvezza dell'iniziativa individuale e l'alta produttività del lavoro salariato non forniranno certo un impiego ai disoccupati, né colmeranno il deficit del bilancio, né trarranno l'industria e la finanza nazionali fuor del vicolo cieco in cui si trovano.

Ciò che distingue Marx è l'universalità del suo genio, la sua capacità a comprendere fenomeni e processi di vari campi nel loro intimo nesso. Senza essere uno specialista di scienze naturali, Marx fu uno dei primi ad apprezzare il significato delle grandi scoperte in quel campo; per esempio, la teoria darwiniana. Marx dovette questa preminenza non tanto al valore del suo intelletto quanto alla virtù del suo metodo. Scienziati dalla mentalità borghese possono credersi superiori al socialismo; tuttavia il caso Robert Millikan non è che un'altra conferma del fatto che, in sociologia, continuano ad essere disperatamente ciarlataneschi.

Possibilità di produzione e proprietà privata

Nel suo messaggio al Congresso, agli inizi del 1937, il Presidente Roosevelt manifestò il desiderio di aumentare il reddito nazionale fino a novanta o cento miliardi di dollari, senza però indicare come. In se stesso questo programma è straordinariamente modesto. Nel 1929 quando c'erano 2 milioni circa di disoccupati, il reddito nazionale toccava gli 81 miliardi di dollari. Promuovendo le attuali forze produttive si potrebbe non solo realizzare il programma di Roosevelt, ma anche superarlo considerevolmente. Macchine, materie prime, operai, tutto è a portata di mano, per tacere del bisogno, da parte della popolazione, di prodotti. Se, nonostante tutto ciò, il piano è irrealizzabile, ed è irrea lizzabile, l'unico motivo è l'insanabile conflitto sviluppatosi fra proprietà capitalistica e bisogno della società di aumentare la produzione. Il tanto strombazzato dal governo National Survey of Potential Productive Capacity venne alla conclusione che il costo di produzione e servizi utilizzati nel 1929 totalizzavano quasi 94 miliardi di dollari, calcolati in base ai prezzi al minuto. Eppure se tutte le reali possibilità di produzione fossero state utilizzate, la surriportata cifra si sarebbe elevata a 135 miliardi di dollari, con una media annua di 4370 dollari per famiglia, sufficiente a garantire un tenor di vita comodo e decoroso. Si deve aggiungere che i calcoli del National Survey si basano sull'attuale organizzazione produttiva degli Usa, quale è stata determinata dalle anarchiche vicende del capitalismo. Se l'intero organismo dovesse venire riorganizzato sulle basi di un piano unitario socialista, i preventivi di produzione potrebbero essere largamente superati e un altissimo tenore di vita, sulla base di una giornata lavorativa estremamente breve, venir garantito a tutta la popolazione.

Quindi, per salvare la società, non c'è bisogno né di frenare lo sviluppo della tecnica, chiudere stabilimenti, concedere premi agli agricoltori che sabotino l'agricoltura, trasformare un terzo dei lavoratori in pezzenti, né di ricorrere alla dittatura di qualche pazzoide. Nessuna di queste misure, che sono una beffa scandalosa agli interessi della società, è

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necessaria. Ma è indispensabile e urgente separare i mezzi di produzione dai loro presenti parassitici proprietari e organizzare la società in armonia con un piano razionale. Allora sarebbe immediatamente possibile curare la società dei suoi mali. Tutti coloro in grado di lavorare troverebbero lavoro. La giornata lavorativa s'accorcerebbe gradualmente. I bisogni di tutti i membri della società verrebbero sempre più soddisfatti. Le parole "povertà", "crisi", "sfruttamento" non sarebbero più in circolazione. Il genere umano si trasformerebbe finalmente in autentica umanità.

Inevitabilità del socialismo

"Parallelamente al numero in costante diminuzione dei magnati del capitale..." dice Marx, "si accresce la massa della miseria, dell'oppressione, della schiavitù, della degradazione, dello sfruttamento; ma, insieme, s'accresce anche la rivolta della classe lavoratrice, classe in aumento numerico costante, e disciplinata, unita, organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistica... L'accentramento dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro giungono finalmente a un punto dove diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Questo involucro viene lacerato da una esplosione. La proprietà privata capitalistica suona a morto. Gli espropriatori vengono espropriati". Questa è la rivoluzione socialista. Per Marx, il problema di ricostruire la società non sorge da qualche ricetta, dettata da sue personali preferenze; deriva, ferrea necessità storica, da un lato, dalle forze produttive giunte a potente maturità; dall'altro, dalla ulteriore impossibilità di forgiare queste forze alla mercé della legge del valore. Le elucubrazioni di certi intellettuali che, trascurando la dottrina marxista, sostengono come il socialismo non sia inevitabile ma semplicemente possibile, sono prive di qualsiasi valore. Ovviamente, Marx non sottintendeva che il socialismo si sarebbe affermato senza la volontà e l'azione dell'uomo; una simile idea è un'assurdità. Marx profetizzò che, dalla catastrofe economica in cui il processo capitalistico doveva inevitabilmente sfociare, e questa catastrofe è già in atto sotto i nostri stessi occhi, non avrebbe potuto esserci altra via d'uscita che la socializzazione dei nostri mezzi di produ-zione. Le forze produttive abbisognano di un nuovo organizzatore e di un nuovo padrone e dato che esistere significa essere consapevoli, Marx non aveva dubbi che la classe lavoratrice, a costo di errori e mancanze, sarebbe venuta a capire la situazione reale e, prima o poi, ne avrebbe tratto le imperiose conclusioni pratiche.

Che la socializzazione dei mezzi di produzione, creati dal capitalismo, rappresenti un gigantesco beneficio economico è oggi dimostrabile non solo in teoria ma anche mediante l'esperimento dell'Urss, nonostante i limiti di quell'esperimento. I reazionari asserviti al capitalismo usano, non senza artifici vari, il regime di Stalin come spauracchio contro le idee del socialismo. Ma è un fatto che Marx non ha mai detto che il socialismo possa attuarsi in un solo paese e per di più arretrato. Le perduranti privazioni delle masse nell'Urss, l'onnipotenza della casta privilegiata, che si è elevata al di sopra della nazione e dei suoi mali, e infine la violenza dominante dei burocrati non sono conseguenze del metodo socialista di quell'economia, ma dell'isolamento e arretratezza dell'Urss, chiusa nel cerchio dell'assedio capitalista. La cosa straordinaria è che, in condizioni così eccezionalmente sfavorevoli, l'economia pianificata sia riuscita a dimostrare i suoi insuperabili benefici.

Tutti i salvatori del capitalismo, della specie tanto democratica quanto fascista, tentano di limitare, o almeno camuffare il potere dei magnati del capitale per impedire "l'espropriazione degli espropriatori". Tutti riconoscono, e molti di loro apertamente ammettono, che il fallimento dei loro tentativi riformistici deve inevitabilmente condurre alla rivoluzione socialista. Sono riusciti tutti a dimostrare che i loro sistemi per salvare il capitalismo non sono che vana e reazionaria ciarlataneria. La previsione di Marx sull'inevitabilità del socialismo viene così pienamente confermata attraverso la prova della risultante negativa.

Inevitabilità della rivoluzione socialista

Il programma della "tecnocrazia", che fiorì nel periodo della grande crisi del 1929-32, si fondava sulla giusta premessa che l'economia può essere razionalizzata solo mediante l'unione della tecnica al suo culmine scientifico con il governo a servizio della società. Una tale unione è possibile, purché tecnica e governo siano affrancati dalla schiavitù della proprietà privata. È qui che comincia il grande compito rivoluzionario. Per liberare la tecnica dalla cricca degli interessi privati e porre il governo a servizio della società è necessario "espropriare gli espropriatori", Solo una classe potente, tesa alla propria liberazione e avversa agli espropriatori monopolisti, può compiere questa impresa. Solo in unione con un governo proletario il settore specializzato dei tecnici può erigere una economia realmente socialista e nazionale, cioè un'economia socialista. Sarebbe meglio, naturalmente, raggiungere questa meta con metodi tranquilli, graduali, democratici. Ma l'ordine sociale che sopravvive a se stesso non fa mai luogo al suo successore senza resistenza. Se, ai suoi tempi, la democrazia giovane e nel fiore delle proprie forze si rivelò incapace d'impedire alla plutocrazia la conquista della ricchezza e del potere, è possibile sperare che una democrazia senile e devastata si dimostri capace di trasformare un ordine sociale fondato sul dominio incontrastato di sessanta famiglie? Teoria e storia insegnano che l'avvento di regimi sociali presuppone la forma più alta della lotta di classe: la rivoluzione. Anche lo schiavismo non poté essere abolito negli Stati Uniti senza una guerra civile. 'La forza è l'ostetrica d'ogni vecchia società che debba partorirne

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una nuova". Nessuno ha finora potuto confutare Marx su questo fondamentale principio di sociologia della società classista. Solo una rivoluzione socialista può aprire la strada al socialismo.

Il marxismo negli Stati Uniti

La Confederazione Nordamericana è andata più in là di molte altre nazioni nel campo della tecnica e dell'organizzazione della produzione. Non solo gli americani, ma tutto il genere umano costruirà su quel le basi. Tuttavia, i vari momenti del processo sociale in una sola nazione, e quella soltanto, hanno ritmi diversi, secondo particolari condizioni storiche. Mentre godono d'una formidabile superiorità tecnica e tecnologica, gli Stati Uniti hanno una cultura economica estremamente arretrata, tanto nelle sinistre quanto nelle destre. John L, Lewis ha più o meno le stesse vedute di Franklin D. Roosevelt. Data la natura del suo ufficio, le funzioni sociali di Lewis sono incomparabilmente più conservatrici, per non dire reazionarie, di quelle di Roosevelt. In certi ambienti americani, c'è la tendenza a ripudiare questa o quella teoria sovversiva, senza il minimo spirito scientificamente critico, come "non-americana". Ma dove si può trovare il criterio di differenziazione? Il cristianesimo fu importato negli Stati Uniti insieme ai logaritmi, la poesia di Shakespeare, le nozioni sui diritti dell'uomo e del cittadino e vari altri non importanti prodotti del pensiero umano. Oggi il marxismo appartiene alla stessa categoria. Il Ministro dell'Agricoltura Henry A. Wallace accusò l'autore di queste righe di "... una sottigliezza dogmatica ferocemente non-americana", e contrappose al dogmatismo russo lo spirito opportunistico di Jefferson, che sapeva come cavarsela con gli avversari. Evidentemente, al signor Wallace non è mai passato per il capo che una politica di compromesso non è funzione di un astratto spirito nazionale, ma prodotto di condizioni materiali. Una nazione che si stia rapidamente arricchendo ha riserve sufficienti per conciliare classi e fazioni avverse. Quando, d'altra parte, i contrasti sociali si acuiscono, ogni possibilità di compromesso scompare. L'America è scevra di "sottigliezze dogmatiche" solo perché ricchissima di zone vergini, di risorse inesauribili e, parrebbe, d'illimitate opportunità di arricchimento. Eppure tutto ciò non permise allo spirito di compromesso d'impedire la Guerra civile, quando l'ora suonò. Ad ogni modo, le condizioni materiali che determinarono il fondamento dell'"americanismo" sono ormai ogni giorno più relegate nel passato. Onde l'acuta crisi delle tradizionali ideologie americane. Il pensiero empirico, limitato alla soluzione di questioni immediate di volta in volta, parve abbastanza soddisfacente tanto negli ambienti operai quanto in quelli borghesi fino a quando la legge marxista del valore venne a risolvere i problemi degli uni e degli altri. Ma oggi quella stessa legge produce effetti opposti. Invece di promuovere e stimolare l'economia, ne mina le fondamenta. Le teorie eclettiche conciliative, mantenendo un atteggiamento sfavorevole o sdegnoso nei riguardi del marxismo, definito "dogma", e col loro fisiologico apogeo, il pragmatismo, si rivelano inadeguate all'estremo, sempre più inconsistenti, reazionarie e ridicole. Sono invece le idee tradizionali di "americanismo" che, divenute senza vita, "dogma" pietrificato, non generano più che errori e confusione. Nello stesso tempo, l'insegnamento economico di Marx ha acquistato particolare mordente e vitalità per gli Stati Uniti. Sebbene il Capitale si basi su fonti internazionali, preponderantemente inglesi, nel suo fondamento teoretico è un'analisi del capitalismo puro, del capitalismo in genere, del capitalismo come tale. Non c'è dubbio che il capitalismo formatosi sul suolo vergine, non-storico del continente americano è il più vicino a quel tipo astratto di capitalismo. Con buona pace del signor Wallace, l'America si sviluppò economicamente non in armonia coi principi di Jefferson, ma secondo le leggi di Marx. Non è più offensivo per l'orgoglio nazionale il riconoscerlo, quanto l'ammettere che l'America gira intorno al sole secondo le leggi di Newton. Il Capitale fornisce una diagnosi perfetta della malattia e una prognosi insostituibile. In questo senso la dottrina di Marx è assai più imbevuta di nuovo "americanismo" che non le concezioni di Hoover e Roosevelt, di Green e Lewis. C'è infatti tutta una serie di pubblicazioni, diffusissime, negli Stati Uniti, sulla crisi dell'economia americana. Finché coscienziosi economisti offrono un quadro obiettivo delle tendenze deleterie del capitalismo americano, le loro indagini, indipendentemente dalle loro premesse teoretiche, paiono dirette illustrazioni della teoria di Marx. La tradizione conservatrice si rivela, tuttavia, quando questi autori tenacemente si astengono da conclusioni definitive limitandosi a cupe predizioni o a divertenti assurdità, quali "il paese deve comprendere", la "pubblica opinione deve seriamente considerare", e simili. Questi libri sembrano un coltello senza lama. Gli Stati Uniti hanno avuto dei marxisti, in passato, è vero, ma erano uno strano tipo di marxisti, o piuttosto, tre strani tipi. In primo luogo, emigranti cacciati dall'Europa, che fecero quel che poterono, ma non riuscirono a trovare nessuna rispondenza; in secondo luogo, gruppi americani isolati, come i De Leonists, che, col passar del tempo, e a causa dei loro errori, si trasformarono in vere e proprie sette; in terzo luogo, dilettanti attratti dalla Rivoluzione d'Ottobre e curiosi del marxismo come dottrina esotica che aveva poco a che fare con gli Stati Uniti. Il loro tempo è passato. Albeggia ora la nuova epoca di un indipendente movimento di classe del proletariato e nello stesso tempo... di genuino marxismo. Anche in questo l'America in pochi lunghissimi passi raggiun-gerà l'Europa e la sorpasserà. Tecnica progressiva e progressiva struttura sociale si faranno strada nello spirito della dottrina marxista. I migliori teorici del marxismo appariranno sul suolo americano. Marx diverrà il mentore dei progrediti lavoratori americani. Per loro questa riassuntiva esposizione del primo volume diverrà soltanto il primo passo verso il Marx completo.

Lo specchio ideale del capitalismo

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Nell'epoca in cui fu pubblicato il primo volume del Capitale la dominazione mondiale da parte della borghesia inglese era ancora intatta. Le leggi astratte dell'economia mercantile trovavano naturalmente la loro più perfetta incarnazione, e cioè la meno legata a passate influenze, nel paese dove il capitalismo aveva raggiunto il suo massimo sviluppo. Pur basandosi nella sua analisi soprattutto sull'Inghilterra, Marx non aveva presente soltanto l'Inghilterra, ma l'intero mondo capitalistico. Si servì dell'Inghilterra del suo tempo come del migliore specchio contemporaneo del capitalismo. Ora resta solo il ricordo del primato britannico. I vantaggi della primogenitura capitalistica si sono trasformati in svantaggi. La struttura tecnica ed economica dell'Inghilterra s'è logorata. Il paese continua a dipendere per la sua posizione mondiale dall'impero coloniale, eredità del passato, più che da un attivo potenziale economico. Questo spiega, incidentalmente, la cristiana carità di Chamberlain verso il gangsterismo internazionale dei fascisti, carità che ha suscitato tanto stupore. La borghesia inglese non può fare a meno di accorgersi che la sua decadenza economica è diventata del tutto incompatibile con la sua posizione nel mondo e che una nuova guerra minaccia di provocare il crol-lo dell'impero britannico. Essenzialmente analoghe sono le basi economiche del "pacifismo" francese.

La Germania, al contrario, ha utilizzato nella sua rapida ascesa capitalistica i vantaggi dell'arretratezza storica, armandosi con la tecnica più perfetta dell'Europa. Con una ristretta base nazionale e scarsità di risorse naturali, il dinamico capitalismo germanico si è per necessità trasformato nel più esplosivo elemento nel cosiddetto equi librio delle forze mondiali. L'epilettica ideologia di Hitler è soltanto un'immagine riflessa dell'epilessia del capitalismo germanico.

Oltre ai numerosi incomparabili vantaggi di carattere storico, lo sviluppo degli Stati Uniti ha goduto della preminenza di un territorio incommensurabilmente più esteso e di ricchezze naturali straordinariamente più grandi, che non la Germania. Superata, e di molto, la Gran Bretagna, la repubblica nordamericana divenne agli inizi di que sto secolo la massima fortezza della borghesia mondiale. Là tutte le possibilità insite nel capitalismo hanno trovato la loro più alta affermazione. In nessun'altra parte del nostro pianeta la borghesia può in qualsiasi modo superare le conquiste attuate nella repubblica del dollaro, che è diventata, per il capitalismo del ventesimo secolo, lo specchio più perfetto.

Per gli stessi motivi per cui Marx preferì basare la sua analisi su statistiche inglesi, resoconti parlamentari inglesi, "libri azzurri" inglesi, noi siamo ricorsi nella nostra moderna introduzione a documentazioni fornite principalmente dalle esperienze economiche e politiche degli Stati Uniti. Non sarebbe difficile, naturalmente, citare fatti e cifre analoghe dalla vita di ogni altro paese capitalista. Ma ciò non aggiungerebbe nulla di essenziale. Le conclusioni rimarrebbero le stesse, solo i fatti citati sarebbero meno impressionanti.

La politica economica del Fronte Popolare in Francia è stata, come uno dei suoi finanzieri l'ha giustamente definita, una riduzione del New Deal "per lillipuziani". È più che ovvio che in una analisi teori ca sia infinitamente più comodo trattare con ordini di grandezze ciclopiche anziché lillipuziane. E la stessa immensità dell'esperimento di Roosevelt dimostra come soltanto un miracolo possa salvare il sistema mondiale capitalistico. Ma si dà il caso che lo sviluppo della produzione capitalistica ponga un termine alla produzione di miracoli. Inni propiziatori e preghiere abbondano, i miracoli non si verificano. Tuttavia è chiaro che se il miracolo del ringiovanimento del capitalismo avesse a verificarsi in qualche luogo, non potrebbe accadere che negli Stati Uniti. Ma questo ringiovanimento non è stato raggiunto. Ciò che i ciclopi non sono stati capaci di fare, ancor meno lo possono i lillipuziani. Gettare le fondamenta di questa semplice conclusione è lo scopo della nostra scorribanda nel campo dell'economia americana.

Madrepatria e colonie

"Il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare al meno sviluppato l’immagine del suo avvenire" scrisse Marx nella prefazione alla prima edizione del suo Capitale. In nessun caso questa considerazione va presa alla lettera. L'accrescersi delle forze produttive e l'approfondirsi delle contraddizioni sociali è senza dubbio il destino di ogni paese che si sia avviato sulla strada del progresso borghese. Tuttavia, la sproporzione fra ritmi e livelli, intrinseca a tutti gli sviluppi del genere umano, non solo è divenuta particolarmente acuta sotto il capitalismo, ma ha promosso la complessa interdipendenza della subordinazione, dello sfruttamento e dell'oppressione tra paesi dalla diversa fisionomia economica.

Soltanto una minoranza di paesi ha percorso completamente tutto il logico e sistematico processo di sviluppo dall'artigianato, attraverso la manifattura a domicilio, fino allo stabilimento, processo che Marx sottopose a un'analisi tanto particolareggiata. Il capitale commerciale, industriale e finanziario invase dall'esterno paesi arretrati, in parte distruggendo le forme primitive di economia locale e in parte soggiogandole al mondiale sistema industriale e bancario dell'occidente. Sotto la sferza dell'imperialismo, le colonie e le semicolonie furono costrette a non tener conto delle fasi intermedie, nello stesso tempo artificialmente persistendo su questo o quel livello. Lo sviluppo dell'India non ripeté lo sviluppo della Gran Bretagna; non ne fu che un supplemento. Però, per comprendere il tipo combinato di sviluppo di paesi arretrati e non indipendenti come l'India, è sempre necessario tener presente lo schema classico che Marx dedusse dallo sviluppo dell'Inghilterra. La teoria socialista del valore guida egualmente i calcoli degli speculatori nella City di Londra e le transazioni dei cambiavalute nei più remoti angoli dell'Hyderabad, con l'eccezione che in questo caso assume aspetti più semplici, meno sottili e scaltri.

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Le sproporzioni di sviluppo portarono benefici straordinari ai paesi più progrediti, i quali, anche se in grado diverso, continuarono a svilupparsi a spese dei più arretrati, sfruttandoli, trasformandoli in colonie, o, almeno, rendendo loro impossibile di far parte dell'aristocrazia capitalista. Le ricchezze della Spagna, dell'Olanda, dell'Inghilterra, della Francia furono ottenute non solo dal plus valore fornito dai loro proletariati, non solo dalle devastazioni inflitte alle loro piccole borghesie, ma anche dai saccheggi sistematici dei loro possessi d'oltremare. Lo sfruttamento delle classi fu sostituito e migliorato dallo sfruttamento delle nazioni.

La borghesia delle nazioni metropolitane poté assicurare una posizione privilegiata al suo proletariato, pagandola con una parte dei sopraprofitti spremuti dalle colonie. Senza tutto ciò, qualsiasi forma di stabile regime democratico sarebbe stata impossibile all'infinito. Nella sua manifestazione diffusa, la democrazia borghese divenne, e continua a essere, una forma di governo accessibile soltanto alle nazioni più aristocratiche e sfruttatrici. L'antica democrazia era basata sullo schiavismo, la democrazia imperialista sulla spoliazione delle colonie.

Gli Stati Uniti, che formalmente non hanno quasi colonie, sono tuttavia i più privilegiati fra tutte le nazioni della storia. I dinamici emigranti europei s'impossessarono di un continente ricco all'estremo, sterminarono la popolazione indigena, occuparono la parte migliore del Messico e si presero la parte del leone nelle ricchezze del mondo. Le scorte di grasso così accumulate continuano a essere utili anche ora, nell'epoca della decadenza, per ungere il meccanismo e le ruote della democrazia.

Recenti esperienze storiche, insieme con l'analisi teorica, attestano che il ritmo evolutivo della democrazia e la sua stabilità sono in ragione inversa della tensione dei contrasti di classe. Nei paesi capitalisti meno privilegiati (Russia, da una parte; Germania, Italia e simili dall'altra), che sono stati incapaci di generare una numerosa e salda aristocrazia del lavoro, la democrazia non si è mai sviluppata in misura alcuna, soggiacendo alla dittatura con relativa facilità. Tuttavia, la continua paralisi progressiva del capitalismo sta preparando lo stesso destino alle democrazie delle nazioni più ricche e privilegiate: la sola differenza sta nel tempo. L'irrefrenabile logorio delle condizioni di vita dei lavoratori rende sempre meno possibile alla borghesia concedere alle masse il diritto di partecipazione alla vita politica anche den-tro l'angusta cornice del parlamentarismo borghese. Qualsiasi altra spiegazione dell'esautoramento della democrazia da parte del fascismo è una falsificazione idealistica delle cose quali sono, volontà d'illudere o d'illudersi.

Mentre distrugge la democrazia nelle antiche madrepatrie del capitale, l'imperialismo nello stesso tempo impedisce il sorgere della democrazia nei paesi arretrati. Il fatto che nella nuova epoca non una sola delle colonie o delle semicolonie abbia consumato la sua rivoluzione democratica, soprattutto nel campo dei rapporti agrari, è interamente dovuto all'imperialismo che è diventato il freno principale al progresso economico e politico. Depredando le ricchezze naturali dei paesi arretrati e deliberatamente mortificando il loro indipendente svi luppo industriale, i magnati monopolisti e i loro governi contemporaneamente prestano aiuti finanziari, politici e militari ai gruppi più reazionari, parassitari, semifeudali di sfruttatori indigeni. La barbarie agraria artificialmente mantenuta è oggi la piaga più tragica della contemporanea economia mondiale. La lotta dei popoli coloniali per la loro liberazione, superando le fasi intermedie, si trasforma di necessità in una lotta contro l'imperialismo, allineandosi così con la lotta del proletariato nei paesi metropolitani. Guerre e sollevamenti coloniali a loro volta minano le fondamenta del mondo capitalistico più che mai, rendendo ancor meno possibile il miracolo della sua rigenerazione.

Economia mondiale pianificata

Il capitalismo si è conquistato il duplice merito storico di aver posto la tecnica su di un livello elevatissimo e di aver collegato il mondo intero con vincoli economici. Ha così fornito i fondamentali requisiti materiali per l'utilizzazione sistematica di tutte le risorse del nostro pianeta. Ma il capitalismo non è in grado di adempiere a questa urgen te funzione. I nuclei della sua espansione continuano ad essere circoscritti stati nazionali con le loro dogane e i loro eserciti. Eppure le forze produttive hanno da gran tempo superato i confini dello stato nazionale, trasformando così ciò che un tempo era un fattore storico progressivo in una intollerabile costrizione. Le guerre imperialistiche non sono che le detonazioni delle forze produttive contro i confini statali, che si sono rivelati loro troppo limitativi. Il programma della cosiddetta autarchia non ha nulla a che vedere con il ritorno a un'economia chiusa, autosufficiente. Esso significa solo che la base nazionale viene attrezzata per una nuova guerra.

Dopo il Trattato di Versailles, si credette generalmente che l'orbe terraqueo fosse stato bene suddiviso. Ma fatti più recenti hanno contribuito a ricordarci che il nostro pianeta continua a contenere terre che non sono state ancora saccheggiate o sufficientemente saccheggiate. La lotta per le colonie continua ad essere parte essenziale della politica del capitalismo imperialistico. Indipendentemente dalla completezza con cui il mondo viene spartito, il processo non ha mai termine, ma solo infinitamente pone all'ordine del giorno il problema di una nuova suddivisione del mondo in armonia con le alterazioni nei rapporti tra le forze imperialistiche. Questa è la ragione oggi dei vari riarmi, delle varie convulsioni diplomatiche e dei vari schieramenti di guerra.

Ogni tentativo di rappresentare la guerra attuale come un urto fra le idee di democrazia e di fascismo appartiene al regno della ciarlataneria o della stupidità. Le forme politiche cambiano, gli appetiti capitalistici rimangono. Se un regime fascista dovesse stabilirsi domani sull'una o sull'altra sponda della Manica, e quasi nessuno oserebbe negarne la possibilità, i dittatori di Parigi e di Londra sarebbero altrettanto disposti a cedere i loro possedimenti coloniali

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quanto Hitler e Mussolini le loro richieste coloniali. La lotta furiosa e disperata per una nuova divisione del mondo deriva irresistibilmente dalla crisi mortale del sistema capitalista.

Riforme parziali e pannicelli caldi non serviranno a nulla. L'evoluzione storica è giunta a una di quelle fasi decisive in cui solo l'intervento diretto delle masse popolari può spazzare via gli ostacoli reazionari e gettare le fondamenta di un nuovo regime. L'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione è il primo passo per un'economia pianificata, e cioè l'avvento della ragione nella sfera dei rapporti umani, prima su scala nazionale e alla fine mondiale. Una volta cominciata, la rivoluzione socialista si diffonderà di paese in paese con una forza incomparabilmente maggiore di quella con cui si diffonde oggi il fascismo. Con l'esempio e l'aiuto delle nazioni progredite, le nazioni arretrate verranno esse pure trasportate nella fiumana del socialismo. I putridi cancelli di pedaggio delle dogane crolleranno. I contrasti che lacerano l'Europa e il mondo intero troveranno la loro naturale e pacifica soluzione nel quadro di una Confederazione Socialista in Europa e in altre parti del mondo. L'umanità liberata si leverà ritta in tutta la sua statura.

Note

(1)La riduzione del primo volume del Capitale, fondamento di tutto il sistema dell'economia marxista, è stata fatta da Otto Ruhle con profonda comprensione di simile compito. Sono stati eliminati esempi superati dai tempi, poi citazioni da scritti che oggi hanno solo interesse storico, polemiche con autori ormai dimenticati e infine numerosi documenti che, quale che possa essere la loro importanza per la comprensione di una data epoca, non hanno posto in un'esposizione concisa, che persegue fini teorici più che storici. Nello stesso tempo, Otto Ruhle ha fatto tutto il possibile per conservare continuità al procedere dell'analisi scientifica. Deduzioni logiche e passaggi dialettici non sono stati, ne siamo certi, interrotti in nessun punto. È ragionevole che questo estratto esiga una lettura quanto mai attenta.

(2) La concorrenza come forza moderatrice, lamenta l’ex Procuratore Generale degli Stati Uniti, Mr. Homer S. Cummings, viene gradualmente eliminata e in vasti settori essa non è più che il “pallido ricordo di condizioni che hanno cessato di essere”.

(3) Un commissario del Senato degli Stati Uniti rilevò nel febbraio 1937 che in quegli ultimi 20 anni le decisioni delle dodici maggiori società anonime equivalevano a ordini impartiti alla maggior parte dell'industria americana. Il numero di presidenti del consiglio d'amministrazione di queste società corrisponde all'incirca ai numero dei membri del gabinetto del Presidente, branca esecutiva del governo della Repubblica stellata.

(4) Lo scrittore americano Ferdinand Lundberg, che nonostante tutta la sua coscienziosità di studioso è un economista piuttosto conservatore, scrisse nel suo libro che fece tanto chiasso: "Gli Stati Uniti sono oggi posseduti e dominati da una gerarchia di sessanta tra le più ricche famiglie, sostenuta da non più di novanta famiglie meno ricche". A queste si potrebbero aggiungere un terzo gruppo di, forse, 350 altre famiglie con redditi superiori ai centomila dollari annui. La posizione di predominio spetta al primo gruppo di sessanta famiglie, che dominano non solo il mercato, ma anche tutte le leve del governo. Sono esse il vero governo, "il governo del denaro nella democrazia del dollaro".