Il Pellegrino al Gargano - Biblioteca Provinciale di ... · diploma di papa Innocenzo IV del 28...

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Il Pellegrino al Gargano I - TERRA DI PUGLIA. Quando, agli albori di questo secolo, Emile Bertaux, « ancien membre de l'Ecole de France de Rome », visitò i monumenti dell'Italia meridionale, ne rimase incantato e li esaltò in pagine memorabili e per molti versi ancora attuali 1 . Solo che, nella ispirazione e nella esecuzione di quasi tutti quei monumenti, egli vide una manifestazione del genio francese sul suolo italiano. Analogamente, Arthur Haseloff, recatosi piú tardi in Puglia, s'imbatté nella fatidica aquila sveva e ne seguí il volo di paese in paese, dalle pendici del Promontorio del Gargano al Capo di Santa Maria di Leuca 2 , senza tener conto di circostanze e documenti che sarebbero bastati da soli, almeno in certi casi, a snebbiargli la vista. Per questo, allorquando un amico, venuto a sapere che stavamo scrivendo un libro sulle « Cattedrali di Puglia » 3 , ci domandò quale fosse la nostra posizione rispetto ai grandi storici dell'arte e ai viaggiatori stranieri che in passato si occuparono piú o meno diffusamente dei monumenti della regione pugliese, non esitammo a rispondere che essa era di rispetto ed anche di gratitudine, per le fatiche pazienti e spesso geniali compiute da qualcuno di quegli scrittori; ma che ciò non poteva impedirci di reagire cosí al loro patente sciovinismo come alla leggerezza con cui qualche scrittore nostrano ne aveva condiviso le opinioni. D'altra parte, aggiungevamo, troppi anni erano trascorsi dalla pubblicazione delle loro opere, e nel frattempo altri elementi erano venuti in luce, altri vestigi, e specialmente altri nomi di artisti, tutti dichiaratamente pugliesi, o circostanze relative alla loro vita. E' questo, per dirne uno, il caso dello scultore Acceptus, operante prima che Normanni e Svevi si fossero stabiliti in Puglia, e cioè dal 1023 circa al 1050, 1 EMILE BERTAUX, L'art dans l'Italie méridionale, Paris 1904 . 2 ARTHUR HASELOFF, Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, Leipzig 1920 . 3 1 a ed., Roma 1960; 2 ,a ed., ibid. 1964 . 51

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Il Pellegrino al Gargano I - TERRA DI PUGLIA.

Quando, agli albori di questo secolo, Emile Bertaux, « ancien membre de l'Ecole de France de Rome », visitò i monumenti dell'Italia meridionale, ne rimase incantato e li esaltò in pagine memorabili e per molti versi ancora attuali 1. Solo che, nella ispirazione e nella esecuzione di quasi tutti quei monumenti, egli vide una manifestazione del genio francese sul suolo italiano. Analogamente, Arthur Haseloff, recatosi piú tardi in Puglia, s'imbatté nella fatidica aquila sveva e ne seguí il volo di paese in paese, dalle pendici del Promontorio del Gargano al Capo di Santa Maria di Leuca 2, senza tener conto di circostanze e documenti che sarebbero bastati da soli, almeno in certi casi, a snebbiargli la vista. Per questo, allorquando un amico, venuto a sapere che stavamo scrivendo un libro sulle « Cattedrali di Puglia » 3, ci domandò quale fosse la nostra posizione rispetto ai grandi storici dell'arte e ai viaggiatori stranieri che in passato si occuparono piú o meno diffusamente dei monumenti della regione pugliese, non esitammo a rispondere che essa era di rispetto ed anche di gratitudine, per le fatiche pazienti e spesso geniali compiute da qualcuno di quegli scrittori; ma che ciò non poteva impedirci di reagire cosí al loro patente sciovinismo come alla leggerezza con cui qualche scrittore nostrano ne aveva condiviso le opinioni. D'altra parte, aggiungevamo, troppi anni erano trascorsi dalla pubblicazione delle loro opere, e nel frattempo altri elementi erano venuti in luce, altri vestigi, e specialmente altri nomi di artisti, tutti dichiaratamente pugliesi, o circostanze relative alla loro vita. E' questo, per dirne uno, il caso dello scultore Acceptus, operante prima che Normanni e Svevi si fossero stabiliti in Puglia, e cioè dal 1023 circa al 1050,

1 EMILE BERTAUX, L'art dans l 'I ta l i e méridionale , Paris 1904 . 2 ARTHUR HASELOFF, Die Bauten der Hohens tau f en in Unter i ta l i en ,

Leipzig 1920 . 3 1 a ed. , Roma 1960; 2 ,a ed. , ibid. 1964 .

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quando l'arcivescovo Leone II occupava la sede di Siponto, tutt'una cosa con quella di Monte S. Angelo, suo paese natale 4. Ma ci sono casi non meno tipici, come quello di Simiacca barlettano e di suo figlio Luca. Il Bertaux, giunto a Barletta ed esaminatine sempre piú entusiasta i monumenti del periodo romanico, esclamava: « Qui dovette esserci senza dubbio un focolare d'arte borgognona ». Ebbene, il libro, il meraviglioso libro del Bertaux, è del 1904; dieci anni dopo usciva il secondo volume del Codice Diplomatico Barese con le " carte di Barletta ", e da quelle carte saltava fuori il nome di Simiacca « protomagister ecclesiae Sanctae Mariae », operante ancora nel 1162 con suo figlio Luca, « magister » nella medesima fabbrica. C'è bisogno di commenti?

Allo stesso modo le date di molti monumenti erano sospinte a far la spola tra il periodo normanno e il periodo svevo, a seconda degli interessi politici ed intellettuali degli scrittori. Valgano per tutti gli esempi di San Leonardo di Lama Volara, detto San Leonardo di Siponto, e della SS. Trinità di Montesacro in cima al Gargano. Di San Leonardo e della sua decoratissima porta laterale fu sempre detto (Lenormant, Bertaux, Gregorovius, Haseloff e in ultimo anche Willemsen) che appartiene al tempo di Federico II, mentre invece quella comunità monastica, già ricca al tempo dell'abate " Riccardus " (1157-1173) di ventimila ducati d'oro di rendita all'anno, si trovava al tempo di Federico in tale stato di decadenza da far assomigliare la sua chiesa piú ad una spelunca latronum che ad una casa di Dio. Né è vero che il monastero con la sua chiesa e il suo vastissimo ospizio fosse detto « di Terra Alemanna » perché concesso da Federico all'Ordine di S. Maria dei Teutoni, in quanto quella concessione ebbe luogo, per parte del papa Alessandro IV, solo nel 1260, cioè dieci anni dopo la morte di Federico. Comunque, quindici anni prima della morte di Federico il papa Onorio III parlava della memorabile opulenza di Pulsano come di cosa già trascorsa; e quanto a Montesacro abbiamo un diploma di papa Innocenzo IV del 28 ottobre 1235, dal quale risulta che quella badia, un tempo floridissima, non era in grado di pagare il viaggio a Roma di Giovanni, suo nuovo abate. Anche qui, come si vede, ogni commento è superfluo.

A parte la questione dei « magistri comancini » o « commageni », che va affrontata, per quanto riguarda il loro trapianto in Puglia, con nuove conoscenze e nuovi criteri, c'è poi chi si gingilla ancora a contrapporre arte romanica lombarda ed arte romanica pugliese e si domanda quale delle due si sia affermata prima ed abbia influito sull'altra. Vana accademia! Quando avessimo per caso accertato che Barisano da Trani, autore delle meravigliose porte di bronzo della sua cattedrale, conobbe l'Altare d'oro di Volvinio in S. Ambrogio a Milano, o che Lanfranco e Viligelmo, attivi in Modena, secondo l'epigrafe di fondazione di quel Duomo e la Relatio del magiscola Aimone, nel 1099 presero a

4 Cfr. la biografia che ne abbiamo data in Dizionar io Biogra f i co deg l i I ta l iani, I, Roma 1960, pp. 70-2.

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modello per i loro armoniosissimi archetti pensili quelli anteriori del Duomo di Bisceglie, non avremmo detto nulla di veramente conclusivo. L'arte è somma di esperienze, e nè gli artisti nè i popoli ne rifiutano alcuna, perchè valida.

Che direste, chiedeva un giorno E. Schmidt, di chi volesse trovare il germe del Pantheon nelle capanne circolari di fango erette dai Galli sotto le mura di Roma? E Benedetto Croce, riferendosi a quanto era stato scritto in piú occasioni da un Lenormant e un Bertaux, un Enlart e un Reymond a proposito di arte francese ed arte italiana in genere, avvertiva quanto errato fosse il loro metodo che poteva condurre a negare originalità all'Ariosto per quel che egli aveva derivato dalle Chansons de gente e dai romanzi della Tavola Rotonda. E specificava: « Castel del Monte sarà dunque un'opera di architetto francese allo stesso modo che l'Orlando Furioso è un'opera di letteratura francese », cosí come, aggiungiamo noi, il pavimento a mosaico del Duomo di Otranto, tuttora esistente, e quello del Duomo di Brindisi, malauguratamente scomparso, sarebbero opera di mosaicisti d'Oltralpe, sol perchè il prete Pantaleone, che li compose firmando e datando il primo nel 1165-66, il secondo, sembra, nel 1178, mostrava di avere anche lui una certa dimestichezza con i personaggi dei cicli leggendari di Alessandro, di Orlando e di Artú 5. Questi preti e questi monaci, questi giudici e questi notai eruditissimi, usi, fra l'altro, a redigere in versi leonini e trinini le invocazioni e le sottoscrizioni dei loro atti 6, conoscevano l'universo mondo. Chi ci meraviglierà nell'apprendere, ora che un nostro studioso ci ha messo l'occhio dentro, che la biblioteca della Abbazia benedettina di Trèmiti annoverava nel Millecento fra i suoi molti libri anche un Omero 7?

Il popolo pugliese era nel suo complesso un popolo colto, e la sua cultura, di origine prevalentemente classica, riceveva sempre nuovo alimento dal flusso continuo dei pellegrini ai suoi Santuari, dall'andirivieni dei Crociati dell'intero mondo cristiano, dai suoi sempre piú fiorenti commerci con i maggiori centri del Mediterraneo. Dominatori e predoni di ogni parte di Europa si avvicendarono per secoli sulla terra di Puglia detta « fortunata » come la disse Dante, perchè esposta, a causa della sua posizione geografica, alle diverse vicende della fortuna; ma non riuscirono mai ad essiccarne o alterarne la vena creativa. Lavorare ed innalzare la pietra era per la sua gente un modo, forse il primo modo, di cantare anche nel dolore. La piú maestosa delle basiliche pugliesi a matronei, San Nicola di Bari, fu costruita, per volontà del ceto marinaio e di un religioso « inclitus atque bo-

5 Per il pavimento di Pantaleone, cf. ora BRUNO LUCREZI; La cattedrale di Otranto e la Divina Commedia, in « La Rassegna Pugliese », I (1966), pp. 401-11 (con bibl.).

6 Cfr. FRANCESCO BABUDRI, La poesia nella diplomatica medievale pugliese, in « Archivio storico pugliese », VI (1953), pp. 50-84.

7 Cfr. ARMANDO PETRUCCI, L'archivio e la biblioteca del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, in « Bullettino dell'Archivio Paleografico italiano », n.s., II-III (1956-'57), parte II, pp. 291-307.

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nus », Elia, prima abate e poi arcivescovo, quando, sottratta al dominio greco, la città si mostrava già insofferente del dominio normanno, e la Cattedrale della stessa città risorgeva piú splendida di prima, poco dopo che la rivolta del 1156 era stata soffocata nel sangue. Quindi piú tardi si assisteva all'esplosione del barocco leccese, un fenomeno tutto locale, culminante nell'opera prodigiosa di Giuseppe Zimbalo, detto lo Zingarello. Ma pensate, spingendovi con la mente indietro nel tempo, alla civiltà preistorica e protostorica della regione, quale ci viene presentata, in misura piú unica che rara, cosí nei pubblici musei come nelle collezioni private, dal suo celebre vasellame dipinto, e in particolare da quello con soggetti fliacici, caratteristici del luogo; pensate a quel che fu nel mondo dello spirito Taranto: la Taranto di Pitagora e di Anassagora, di Livio Andronico e di Leonida, la Taranto cara a Platone e a Virgilio e a cui Orazio sognava sempre di poter ritornare, anche se a dorso di un muletto sfiancato e scorticato dal peso della bisaccia. Quel muletto lo ritroveremo mille anni dopo, o giú di lí, in due fra i piú originali e ben condotti capitelli pugliesi. Il primo nella cosiddetta « Tomba di Rotari », il secondo nella porta laterale di San Leonardo di Siponto. Nell'uno e nell'altro è figurato un uomo in cammino con la sua bestia, nel quale alcuni scrittori vollero vedere non un riflesso della vita locale, ma ... la storia di Balaam, mentre gl' indigeni vi hanno sempre ravvisato la figura del pellegrino medievale in viaggio verso il Santuario del Monte. Chi non riconosce nel rilievo dello sfondo le tipiche arcatelle cieche di un tempio di stile dauno-sipontino? Ebbene, nessuna cosa è tanto commovente quanto la vista di quell'uomo, non piú pagano (qui dove prima erano adorati Calcante e Podalirio) ma cristiano, che, incurante d'estate del torrido Atabulus e d'inverno del « tremolizzo grandissemo », sia egli un regnante o un villano, un porporato o uno scaccino, si va avvicinando, di tappa in tappa, di ospizio in ospizio, alla favoleggiata ed agognata sua meta. Cosí potessimo anche noi montare oggi fra tanto strepito di macchine frettolose, su quel muletto, con la bisaccia gonfia degli stessi sogni di un tempo, e rifare, un poco alla volta, tutto rivedendo e tutto riamando, la lunga strada di quella terra che ci fu, giorno dopo giorno, culla e dimora, ed ora ci è solo memoria ! I I - MONTE S. ANGELO - LA CATTEDRA DI LEONE.

Fra i prodotti piú considerevoli della scultura medievale pugliese figurano, com'è noto, tre cattedre marmoree, giunte a noi integralmente: una a Monte S. Angelo, nella Grotta di San Michele; un'altra a Canosa, nel Duomo di San Sabino; ed un'altra infine a Bari, nella Basilica di San Nicola. Di quest'ultima disse lo Schubring che gli svegliava nella mente l'immagine del sedile dell'Arconte nel teatro di Dioniso ad Atene; ma anche delle altre due si potrebbe dir lo stesso o qualcosa di simile.

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Quella di Monte S. Angelo, poi, scolpita dal fastigio ai leoni di sostegno in un solo pesantissimo blocco di marmo, quasi a suggerire la massiccia solidità del bel Promontorio che la vide nascere, ha pure una storia sua propria, complicata e burrascosa, che le conferisce un tantino di mistero e che giova comunque conoscere, ai fini di un giudizio appropriato sulla sua età e la sua fattura 1.

Il vescovo di Siponto, Leone, insediatosi, secondo la cronologia del Sarnelli e del Gams, nel 1034, o forse, secondo il Gay e il Klewitz, non piú tardi del 1023, si proclamava anche vescovo, o meglio arcivescovo, della sovrastante città di Monte Sant'Angelo, in cui era nato; ma ciò, ammesso o tollerato finché egli visse, doveva dar luogo alla morte, avvenuta nel 1050, a contestazioni e liti tanto lunghe quanto ostinate. E poiché nella competizione furono esibite alcune bolle false, qualcuno affacciò l'ipotesi che anche la cattedra marmorea fosse un falso, prodotto dalla chiesa di Monte S. Angelo, a riprova del suo « diritto ed onore » alla concattedralità con Siponto. Il Bertaux anzi vide nei due esametri latini scolpiti in sommo allo schienale della cattedra un'allusione alla controversia in atto. « Questa cattedra », dice l'iscrizione, con un ingegnoso espediente grafico in cui le parole terminali Siponto e Monte risultano unificate nelle desinenze (Sip-onti M-onti), « differisce per numero da quella di Siponto; il diritto e l'onore della cattedra di Siponto sono anche di Monte ».

Orbene, se falso ci fu, esso riguarda, a nostro avviso, soltanto l'iscrizione e non l'oggetto scolpito. Un monumento falso da produrre in giudizio si prepara per solito in fretta, tanto in fretta che assai spesso colui che lo crea cade in errore; ed una cattedra monumentale come quella di Monte S. Angelo, ricavata da un blocco unico di marmo ed intagliata finemente in ogni sua parte, non poteva essere concepita e costruita né in un giorno, né in un mese, né in un anno.

La tradizione vuole, nientemeno, che questa cattedra sia stata costruita per Lorenzo Maiorano, tra la fine del V e il principio del VI secolo, poco dopo, cioè, che l'Arcangelo Michele era apparso sul Gargano; ragione per cui è tuttora chiamata la « Sedia di San Lorenzo ». Ma, a parte il valore sentimentale della tradizione, intimamente legata con la leggenda dell'apparizione di san Michele e con l'enorme influenza che questa ebbe per diversi secoli sulla formazione della civiltà locale, sta il fatto che la cattedra appartiene stilisticamente al periodo romanico e si ricollega per mille versi ai numerosi monumenti sorti in quel periodo nella regione garganica. Nulla di strano dunque, che essa sia stata costruita per Leone, il quale, ripetiamo, amò sempre proclamarsi arcivescovo « di Siponto e del Monte Gargano » e risiedette quasi in permanenza sulla Montagna, non solo per amore al Paese natío, ma anche perché il degno tempio da lui incominciato, su fondamenta preesistenti, già a Siponto, non era ancora del tutto compiuto. E qui, a proposito del significato dei due esametri, in cui vengono distinte ed unificate al tempo stesso le due sedi, conviene ricordare come la città di

1 Per le questioni qui affrontate, si veda Cattedral i d i Pugl ia , pp. 37-40.

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Siponto e il Monte Gargano fossero nel Medioevo considerati talmente uniti, da far dire della prima che « portava sulla cima la chiesa di San Michele » (in cacumine supremo beati Arcangeli gestat ecclesiam).

Ma se la cattedra non è falsa, e falsa invece, come tutt'al piú si potrebbe pensare, è la sola iscrizione, in qual momento un tal falso sarebbe stato compiuto? La lite fra Siponto e Monte divampò subito dopo la morte di Leone, avvenuta nel 1050. Allora, dunque, in vista dei prossimi « pronunciamenti », il Capitolo di San Michele potrebbe aver deciso di far incidere sulla cattedra marmorea i due ingegnosi versi latini, che nelle sue previsioni dovevano tagliare la testa al toro. E se non proprio allora, ciò potrebbe essere accaduto nel 1059, quando, cessata la vacanza della sede di Siponto, che il vescovo di Trani aveva tenuta provvisoriamente per nove anni (la pretesa sua aggregazione a Benevento è ormai una favola), la lotta per il riconoscimento o no delle due distinte sedi si riaccese piú violenta. A meno che non si voglia pensare né al 1050 né al 1059, ma piuttosto al momento in cui, deceduto l'arcivescovo Gifredus, il Capitolo di Monte si accinse ad adire la Regia Curia, presso cui godeva di forti protezioni, ed il papa Alessandro III, temendo uno scandalo, emise da Benevento la bolla in data 25 aprile 1167, che oggi si vede scolpita al disopra delle porte di bronzo della Basilica di San Michele.

Il tenore della bolla, diretta ai sacerdoti della chiesa di Siponto, è il seguente: il Pontefice riconosce che la chiesa di Siponto e la chiesa di Monte furono considerate solitamente come una sola sede, ma non ammette che ciascuna delle due reclami un suo proprio vescovo, perché ciò sarebbe indegno e derogherebbe dall'onestà dell'una e dell'altra. Esorta pertanto i due Capitoli a mettersi d'accordo fra loro, per evitare che abbia a scoppiare la scintilla di uno scandalo, o una discordia permanente, là dove invece conviene che regni l'unione della fraterna carità.

Quanto ai ragionamenti del Bertaux per giungere alla conclusione che la cattedra marmorea di Monte S Angelo è « senza dubbio » contemporanea di quella di Canosa (1080) e di Bari (1098), è superfluo notare come le ornamentazioni accessorie, e specialmente le strisce di losanghe, che egli trova nell'una e nelle altre, si trovano già negli amboni locali di Acceptus (1041) e nelle lesene di Siponto. E ciò senza dire, come lo stesso Bertaux è costretto ad ammettere, che i motivi decorativi fondamentali, quali gl'intrecci dello schienale e di una delle sponde della cattedra, ed il bassorilievo di San Michele dell'altra sponda, « sono tutti propri di questo monumento », come lo sono, aggiungiamo noi, i riempimenti degli intagli ed intarsi con pasta di tartaruga, che Flodoardo di Reims vide sul Gargano già nel X secolo.

Nella fattura di questo mirabile blocco di marmo, estratto verosimilmente dalle cave dello stesso Gargano (le cave, poi chiuse, cui attinsero in sèguito i costruttori di Castel del Monte e della Reggia di Caserta) e composto in forma senza una sola giuntura, assistiamo al trionfo dei motivi ornamentali ad intreccio. Dinanzi a tali motivi, che

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i disegnatori ottocenteschi al sèguito dello Schulz ci spiegarono per primi, come raccontandoci una fiaba, in due dei loro piú ricercati grafici, e che ora ritroviamo suggestivamente velati dall'ombra della Grotta, nella edizione laterziana della Puglia di C. A. Willemsen e D. Odenthal 2, si parlò sempre, e si parla tuttora, di arte bizantina, arabo-moresca, musulmana, ecc., senza tener conto del fatto che anche al fondo di quei motivi c'è un elemento nostro, classico e paleocristiano, come, del resto, in tutte le manifestazioni artistiche del Gargano e, in genere, della regione pugliese. A parte l'« opus reticulatum », tenuto, come ci avverte Vitruvio, in grande onore presso i romani e in cui sono effettivamente adombrati i motivi ad intreccio, a chi ci chiedesse dove gli autori degli ornati di questa cattedra e di altri monumenti delle vicinanze, quali il diruto San Pietro, S. Maria di Siponto, Montesacro, Pulsano, S. Egidio « sotto Monte Calvo », ecc., trovarono i modelli o le loro fonti d'ispirazione, potremmo indicare sia Roma (il gran mosaico, per es., dei Gladiatori delle Terme di Caracalla, ora al Museo Lateranense, e i mosaici delle catacombe dei SS. Marcellino e Pietro presso il mausoleo di S. Elena in via Labicana), sia, per non spingerci fino ad Aquileia ed oltre, lo stesso Gargano, che sappiamo essere stato ricchissimo di ornamentazioni musive romane e paleocristiane, come ci confermano di tanto in tanto gli scavi. E ciò a prescindere dalla familiarità che gli « scriptoria » monastici della regione, da Siponto a Monte S. Angelo, da Pulsano a Tremiti, ebbero con la miniatura cassinese-beneventana, sempre florida, nel suo repertorio ornamentale, di motivi ad intreccio.

Né deve far meraviglia che queste forme, analoghe a quelle realizzate con lavoro d'intaglio a squadro e a sottosquadro in antichi « stampi » in legno, ancora in uso per marchiare il pane e i panni, e successivamente in matrici di libri tabellari e in genere in ogni figurazione xilografica, convivevano anche in un medesimo monumento (come nel caso della cattedra di Monte S. Angelo) con rilievi a tutto tondo, essendo siffatta convivenza, cosí bene illustrata dal Lavagnino, una delle caratteristiche della scultura romanica pugliese. Diremo infine, per conchiudere, che la cattedra di Monte S. Angelo recava un tempo, al pari di quella smembrata di Siponto, anche il nome dell'arcivescovo Leone, e se non lo si legge piú oggi, lo poté leggere ancora nel secolo scorso lo Schulz, come l'aveva letto, in epoca piú remota, e consacrato in un atto pubblico, un notaio del luogo.

1023-1050, dunque: la tesi di C. A. Willemsen e D. Odenthal, secondo cui tutto laggiú, in fatto d'arte, sarebbe sbocciato sotto il passo fatale dei Normanni e degli Svevi, ne esce, come si vede, un po' scossa. Proprio in quegli anni Monte S. Angelo, primo fra tutti i centri abitati che lo circondavano, si dava un libero reggimento comunale, e lo scultore "Acceptus", pugliese tra i pugliesi, firmava e datava il terzo dei suoi amboni monumentali.

2 CARL ARNOLD WILLEMSEN-DAGMAR ODENTHAL, Pugl ia -

Terra de i Normanni e deg l i Svevi , Bari 1959.

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III - MONTE S. ANGELO: IL MONUMENTO MISTERIOSO.

A breve distanza da S. Maria Maggiore, e quasi attaccato all'abside della diruta chiesa di San Pietro, si eleva il piú caratteristico monumento di Montesantangelo: la cosiddetta « Tomba di Rotari », che a giudizio della maggior parte degli scrittori è anche « il monumento piú misterioso dell'Italia meridionale », cosí per la sua forma come per l'uso a cui doveva essere in origine destinato, ma soprattutto, forse, per la epigrafe apposta al suo interno e intorno a cui ogni visitatore piú o meno colto si vôta da secoli il capo.

Il lapicida indigeno che incise queste lettere non doveva avere evidentemente troppa dimestichezza con i comuni caratteri lapidei, e invece di adottare forme tipicamente epigrafiche, trovò naturale attenersi alle forme della scrittura documentaria dei centri scrittorii locali, con speciale preferenza per la maiuscola allungata, di cui solevano servirsi gli scribi e i « notai puplici Garganici » per i « titula » delle loro carte. E chi sa che, non essendo egli un calligrafo, il modello della iscrizione, assai piú rifinito ed impreziosito di quanto non risulti dai grossolani calchi che ne furono ricavati in diversi tempi, non gli sia stato fornito da uno dei tanti Pantaleo, Orso, Pietro, Guglielmo, Giovanni, Maraldo, ecc., di cui son piene le sottoscrizioni delle carte pubbliche e private di Trèmiti, Siponto, Lèsina, Dragonara, Monte, Vieste e delle loro adiacenze.

Quando si voglia raffrontare questa epigrafe a qualcuna delle lapidi medioevali piú note, non si può non notare in essa la varietà insolita di alcune lettere, quali la A, la E, la R, l'intrusione inaspettata di un’a minuscola e l'eccessivo ricorso ai nessi, alle lettere inserte, alle abbreviazioni, ciò che, tralasciando il periodo piú arcaico, è tipico delle iscrizioni che vanno dai tempi di Gregorio II (bolla epigrafica in S. Pietro in Vaticano), Gregorio IV (bolla epigrafica nel portico dei SS. Giovanni e Paolo), Adriano II (Grotte Vat. Carme epigraf.), ai secoli XI (reliquiario di San Paolo del 1096) e XII (Memoria della Consacrazione di S. Maria in Cosmedin del 1125). La M piú frequente richiama quella che si vede, sempre a Roma, in un elenco d'indulgenze di San Martino ai Monti, della fine del sec. XII, nonché sul sepolcro del cardinale Conti nella Basilica Lateranense, che è del 1287. Un secolo circa, come si vede, fra l'una e l'altra. Ma in effetti, dopo esser passata, come in un dilettantesco « excursus », dalle antiche forme onciali, allungate ed addossate oltre misura, a quelle tipicamente visigotiche arabesche, la M di questa singolare epigrafe c'introduce alla fine, con la massima disinvoltura, in clima goticheggiante. E il tutto fra vezzi e fiorettature calligrafiche d'ogni sorta, solite a trovarsi piú in scritture membranacee che non in testi lapidari.

Questa epigrafe, dunque, è costituita di tre versi leonini incisi di sèguito su d'una sola riga, che il Bertaux trascrisse e riportò nel seguente modo:

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+ INCOLA MONTANI PARMENSIS PROLE PAGANI ET MONTIS NATUS RODELCRIMI VOCITATUS HANC FIERI TUMBAM IUSSERUNT HI DUO PULCHRAM 1.

Ma nello sciogliere le abbreviazioni, l'insigne studioso non si accorse che le pretese I terminali delle parole (« MONTANUS », « PAGANUS », « RODELCRIMUS ») non erano propriamente I, ma segni abbreviati della desinenza US (la US, appunto, che viene abbreviata nelle scritture medioevali, sia lapidee sia membranacee, o col segno simile ad un 3 o col « punto e virgola », rassomigliante ad una i col puntino); e in questo errore, che generava nel testo alquanto pretenzioso della iscrizione un triplice genitivo, grammaticalmente inesplicabile (cioè un triplice sproposito), si trascinò dietro tutti gli scrittori venuti dopo di lui. Ma, a parte ciò, il Bertaux congiunse mentalmente « MONTANI » e « PAGANI », facendo di uno dei due ordinatori della « tumba » un tal nativo di Parma, del quale, egli dice, non era indicato il nome, ma che s'era stabilito a Montepagano, distretto della provincia di Teramo, e un tal Rodalgrimo nato sul Gargano e forse a Montesantangelo, come si deduce dalla parola « MONTIS », dato che anche attualmente il paese è designato nella regione col solo nome di « Monte ».

L'interpretazione del Bertaux fu accettata e ribadita dal Fulvio 2, mentre il sottoscritto, preoccupato della triplice sconcordanza, grammaticale da essa risultante, se ne proponeva la soluzione, limitandosi frattanto a rettificarne almeno il senso nella parte riguardante la residenza del primo dei due fondatori della « tumba » e rigettando cosí l'assurdo legame fra « MONTE » e « PAGANO ». L'epigrafe aveva pertanto la seguente lettura, che tutti adottano al giorno d'oggi: « Un abitante di Monte, (di nome) Pagano, parmense di origine, ed un nativo di Monte, comunemente denominato Rodelgrino, codesti due (hi duo), ordinarono che fosse costruita questa bella tomba » 3. Ma l'assurdo grammaticale dei tre genitivi al posto di tre nominativi rimaneva sempre, senza che nessuno pensasse a correggerlo o a spiegarselo. Eppure la matassa non era tanto intricata quanto poteva apparire. Vediamo dunque di districarla noi, con la dovuta umiltà, tenendo presente, come dicevamo, la forma abbreviativa della desinenza US, e trascriviamo rettamente la epigrafe:

+ INCOLA MONTANUS PARMENSIS PROLE PAGANUS ET MONTIS NATUS RODELCRIMUS VOCITATUS HANC FIERI TUMBAM IUSSERUNT HI DUO PULCHRAM.

Cosí anche la caratteristica dei versi leonini, con le rime nel mezzo e nella fine, affidata per disperazione alla insussistente corrispondenza fra « MONTANI » e « PAGANI », è del tutto salva.

Quanto alle due parole « INCOLA » e « MONTANUS » (non già, 1 EMILE BERTAUX, L'art dans l'Italie Méridionale, Paris 1904. « Rodelcrimus »

dice propriamente l'epigrafe, ma nei documenti si legge anche « Rodelgrimus ». 2 L. FULVIO, La Tomba di Rotari, in Apulia, n. 1 fasc. II, Martina Franca, 1910. 3 ALFREDO PETRUCCI, Un monumento misterioso: la Tomba di Rotari, in

Emporium, Bergamo, nov. 1929.

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ripetiamo, « MONTANI »!), è probabile che l'autore della epigrafe le abbia concepite congiuntamente e che debbano pertanto esser lette come un solo vocabolo, « INCOLAMONTANUS », cioè « montanaro », come si è sempre chiamato e continua a chiamarsi anche oggi ogni cittadino di Montesantangelo, a qualunque classe sociale egli appartenga. Si avrebbe quindi la seguente lettura:

PAGANO, (CITTADINO) MONTANARO DI ORIGINE PARMENSE E UN NATIVO DI MONTE CHIAMATO RODELCRIMO ORDINARONO CONGIUNTAMENTE (HI DUO) CHE FOSSE ERETTA QUESTA BELLA TOMBA. Non bisogna dimenticare, a tal proposito, che siamo in un tempo in

cui non solo il « sermo vulgaris cottidianus », ma anche il latino letterario scritto si va giorno per giorno, e regione per regione, caricando di vocaboli e costrutti paesani, e che già fin dai primi anni del Mille, per esempio, lo zio è chiamato ziano (zianus et nepotes), che il terreno da lavorare a vigna si chiama pastinello (senza neppure la desinenza in us), che platea, tramutandosi in platia, e quindi anche in plassa, è matura già per diventare « la chiazza », ecc.

Ma chi erano propiamente il nostro Pagano e il nostro Rodelcrimo o Rodelgrimo, i cui casati ricorrono piú d'una volta nelle carte garganiche dei bassi tempi e che dovevano anche aver avuto rapporti di parentela fra loro, se la sorella di un Pagano, di nome Augessa, come risulta da una carta cavense di Lucera del 1109, aveva sposato un Rodelgrimo, figlio di Sygenolfo, allora dimorante in Lucera? 4. Erano due « boni homines », fra i piú in vista senza dubbio, e per censo e per cariche ricoperte, di quella interessantissima società « montanara » che s'era andata formando col rapido crescere del nuovo centro abitato intorno al Santuario dell'Arcangelo, méta ininterrotta di pontefici, di re, di imperatori, di principi, di porporati, di uomini d'alta cultura e di umili fedeli, provenienti in pellegrinaggio « ab ultimis terrarum finibus ». E se ci si domanda da qual sentimento furono mossi nel dar vita a questa curiosa e « bella tomba », risponderemo che lo fecero un po' per amore di cose belle (in un paese dove tutti facevano a gara per partecipare alla creazione di edifici sacri piú o meno monumentali e rialzarli quando erano per avventura caduti ed arricchirli quindi di suppellettili ed arredi preziosi) e un po' anche per salvarsi l'anima, cosí come lo scultore " Acceptus " aveva donato nel secolo precedente un ambone all'arcivescovo Leone « pro remedio et redemptione animae suae », e non c'era proprietario, di qua e di là dal Fortore e dall'Ofanto, che non facesse dono per lo stesso motivo ad una chiesa

4 C. ANGELILLIS, Guida breve del la Città di Montesantangelo (in cui sono riassunti tutti i precedenti studi dell'A. sull'argomento), Monte Sant'Angelo 1953. Cfr.: F. CARABELLESE, L'Apulia e il suo Comune nell'Alto Medio Evo, Trani 1905; T. LECCISOTTI, Le colonie cassinesi in Capitanata, II. Il Gargano, Montecassino 1938; nonchè i vari « Cartolari » e le raccolte di antichi documenti, editi ed inediti, relativi alle varie badie medioevali garganiche.

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o ad un monastero di una parte delle sue terre, dei suoi castelli, delle sue selve, delle sue « foveae » granarie, dei suoi « molendini », ecc. 5.

E qui, venendo all'essenziale, diremo che la « cappella » o « tribuna » di San Giovanni era limitata intorno al Mille al solo dado della galleria a pianterreno. Essa s'arrestava, insomma, alla cornice con bassorilievi nei fondati, tirata al disopra delle arcate a sesto acuto. Caduta piú tardi la cupola a calotta emisferica che poggiava su codesto quadrato poco piú su della cornice (quasi tutte le fabbriche del genere crollavano, all'urto dei terremoti, dal punto in cui nasceva la cupola), ecco intervenire i nostri due « galantuomini », Pagano e Rodelgrimo, l'uno « montanaro » oriundo di Parma, l'altro « montanaro » di Monte, i quali si assumono il còmpito di far ricostruire la parte caduta dello edificio, non però al modo di prima, ma con una singolare sopraelevazione parabolica, giustificata anche (si noti bene) dal fatto che il battistero era stato costruito in origine su d'una depressione del suolo di Monte. E a questa sopraelevazione, ricca di finestre e di ornati di diverse specie, il popolo dà il nome di « tomba », nel senso che a quel tempo era proprio della parola « tumba »; per cui il bel San Giovanni diventa d'ora in poi sulle sue labbra « San Giovanni in tomba ».

Si spiegano cosí molte cose: in primis, l'assoluta diversità di stile fra la galleria a pianterreno e la parte superiore dell'edificio, l'una archiacuta, l'altra a pieno centro; secondo, la assenza, all'origine, di una concezione unitaria della costruzione, per cui, mancando questa d'una razionale e comoda comunicazione fra un piano e l'altro, fu giocoforza ricavarne una incredibilmente angusta e bassa, nella grossezza d'un pilastrone di sostegno delle arcate laterali, cui si doveva giungere probabilmente con una scaletta mobile di legno, sostituita in tempi a noi piú prossimi da gradini di pietra, che sono, nel sereno ed armonico vano della galleria, un pugno nell'occhio; terzo, l'associazione, verificatasi a distanza dalla nascita dell'edificio ed altrimenti inesplicabile, dell'appellativo « San Giovanni » e del complemento « in tomba »; quarto, il fatto che i caratteri dell'epigrafe che reca i nomi di Pagano e Rodelgrimo ed indica quasi l'accesso alla fabbrica superiore sono del tutto diversi da quelli ancora leggibili nella fabbrica inferiore: nobili, ben misurati, veramente lapidari questi, d'una lapidarietà che la presenza dell'o a losanga di origine nordica (insulare) sembra voler ribadire anziché negare; incostanti, dilettanteschi, eclettici (per non dire raccogliticci) e provincialescamente compiaciuti del loro eclettismo, quegli altri; quinto, il fatto notevolissimo che quell'epigrafe non figura in un punto essenziale della fabbrica inferiore e con evidente riferimento ad essa, bensí al disopra dell'accesso intermurale alla fabbrica superiore, come per dire: « di qui si sale alla bella tomba eretta sulle mura del vecchio battistero da Pagano e Rodelgrimo ». Per me si va ...

Il « San Giovanni » cosí continuava a rimanere, col suo nuovo 5 Ved. « Cartolari » c.s. (San Leonardo, Montesacro, Trèmiti, ecc.). Cfr.:

ARMANDO PETRUCCI. I Bizantini e il Gargano al lume del Cartolario di Trèmiti, « Quaderni del Gargano », Foggia, n. 4, 1954.

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fastoso ed originale coronamento, quel che era sempre stato, cioè un battistero. Che i due generosi montanari Pagano e Rodelcrimo, accresciuto ed abbellito a loro modo l'edificio, si siano voluti riserbare il diritto di andarvi a dormire gli ultimi sonni, è anche probabile; ma ciò non ha nulla a che vedere con la parola « tumba » della tarda epigrafe, la quale, ripetiamo, riguarda solo la sopraelevazione a cupola parabolica del monumento e non il monumento intero.

« ... HANC FIERI TUMBAM IUSSERUNT PULCHRAM ... ». Pagano e Rodelcrimo, dunque, ordinarono congiuntamente che fosse alzata quella « bella tomba ». Ed ecco farsi avanti, come una Sfinge, l'ultimo enigma della cosiddetta « Tomba di Rotari ». Qual significato ha la parola « tomba »? Esclusa la ipotesi della sepoltura del Re longobardo e considerato che la parola tumba, come risulta dai numerosi esempi raccolti prima dal Fulvio e poi da altri, ebbe nel Medioevo il significato di rialzo, di prominenza ed anche di copertura a volta, scaturí naturale la supposizione che l'edificio fosse destinato all'uso di campanile o di battistero. Il Bertaux, per farne un campanile, immaginò un impiantito di legno, sostenuto dalla prima cornice sulla cappella quadrata, ed un'armatura per le campane sulla seconda cornice. Ma il Bernich osservò che non c'erano i buchi indispensabili per le testate delle travi, data l'insufficienza del cornicione a sostenere la pesante impalcatura, e che, essendo almeno uno degli ordini di finestre circondato da corridoio, il suono delle campane, anche nella ipotesi delle finestre esterne (per cui non si avevano elementi bastanti) non avrebbe potuto diffondersi bene 6. Bisognava quindi ricorrere all'ipotesi del battistero, che era stata avanzata anche dallo Schulz 7.

Il tipo di battistero adottato in tutta la Cristianità risponde alla forma dell'ottagono, essendo il numero 8, pel Cristianesimo, simbolico dei salvati dall'arca: « cum fabricaretur arca: in qua pauci, idest otto animae salvae factae sunt per aquam » 8.

Il battistero di Montesantangelo, quindi, rappresenterebbe una deviazione dal tipo normale. Ma già in qualche battistero premillenario s'erano avute deviazioni del genere, come in quello di Riva sul lago di Lugano, che è quadrato all'esterno ed ottagono all'interno, e in quello di Biella, che è ottagono soltanto nella parte superiore. E poiché quest'ultimo battistero ha una botola per la quale si discende alla tomba dei Melii, da qualche secolo adibíta altresí a sepoltura dei Vescovi di Biella, non è da respingersi l'ipotesi, già accennata, che i due facoltosi « montanari » Pagano e Rodelgrimo abbiano voluto anche loro, elevando sugli avanzi dell'antico « San Giovanni » quella magnifica fabbrica, riservarsi il diritto di farvisi seppellire.

Anzi, poiché talune forme dell'epigrafe sono da riportarsi, come vedemmo, ad epoca piú tarda di quella in cui i Rodelgrimo e i Pagano,

6 E. BERNICH, Il Battistero di Monte S. Angelo, in « Napoli Nobilissima », vol.

XV, fasc. IV, 1906. 7 H. W. SCHULZ, Denkmäler der Kunst des Mittelalters in Unteritalien, Desdra

1860. 8 Epist. Petri, I, tap. III, vv. 20-21.

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maschi e femmine, sono menzionati nei documenti a noi noti, si può legittimamente pensare che quell'iscrizione sia stata posta lí, dopo che il nostro Pagano e il nostro Rodelgrimo erano già passati di vita (e vi avevano forse trovato sepoltura, o per loro espresso desiderio o per volere dei concittadini riconoscenti), da persona che voleva salvarne la memoria. E questa, in verità, ci sembra l'ipotesi piú accettabile, data anche l'indeterminatezza dell'appellazione. Un fondatore del monumento, o anche d'una sola parte di esso, non avrebbe fatto scrivere di sé, al momento della costruzione, « un tal nativo di Monte, comunemente chiamato Rodelgrimo »! Non sentite che chi parla è un terzo ed ha voce e modi tutt'affatto diversi da quelli che avrà, per esempio, piú tardi e sul medesimo Monte, l'epigrafista del campanile angioino, in cui pure ricorrono i nomi di due congiunti: Giordano e Maraldo?

Ma ammettiamo che ciò non sia vero e che il modo e il tono usati dal nostro epigrafista siano soltanto una bella finzione letteraria, da porre sul medesimo piano della forma trascelta per il testo della epigrafe (tre discreti versi leonini, come abbiamo visto, con figure, trasposizioni e fioretti propri del tardo latino medioevale), quel che importa è che questa si riferisca, come effettivamente si riferisce, alla fabbrica che ha innanzi e non a quella che si lascia dietro, del tutto diversa, sia per impianto, sia per materiale e tecnica costruttiva, sia, infine, per stile, e che, ciò constatato, la parola « tumba » riveli a chiunque il suo vero e legittimo significato.

Giunti a questo punto, faremo un passo indietro e dopo aver ricordato come lo strano monumento di Montesantangelo suoni sulla bocca del popolo, da tempo immemorabile, non col nome di « Tomba di Rotari », ma con quello di « San Giovanni », e che perfino in scrittori tardi quali il Bacco, il Cavaglieri, il Sarnelli 9, esso riceve il nome di « Cappella di San Giovanni », « Tribuna di San Giovan Battista », « Chiesa di San Giovanni in Tomba », diremo che anche per esso, quando si voglia ricercarne le origini, bisogna risalire allo scrittore anonimo dell'Apparitio Sancti Michaelis. Costui, come sappiamo, visitò di persona nella seconda metà del sec. IX il Santuario del Gargano e ce ne lasciò una dettagliata e scrupolosa descrizione, inserita nel racconto dei tre episodi della leggenda di San Michele: l'Apparizione, la Vittoria, la Consacrazione, specificando che, prima di essere autorizzati ad entrare nella spelonca, i Sipontini, « riunitisi, fondarono e dedicarono, ad oriente di quel luogo, una chiesa al beato Pietro, principe degli Apostoli; e in quella chiesa posero altari alla beata Vergine Maria e a San Giovanni Battista » 10.

Il culto di San Giovanni, col sacramento del battesimo, nacque dunque sul Gargano quasi contemporaneamente a quello di San Michele, e cioè a mezzo il secolo V, quando, secondo la leggenda, era vescovo di Siponto Lorenzo Maiorano. Ma San Giovanni non ebbe

9 1609; 1680; 1680. Cfr.: ANGELILLIS, op. cit . ; G. TANCREDI, La

Tomba di Rotari , Manfredonia 1941. 10 Cfr.: ARMANDO PETRUCCI, Una vers ione gr e co -b izant ina

de l l 'Appar i t i o Sanc t i Michae l i s in Monte Gargano , Roma 1955.

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súbito un suo tempio, bensí solo un altare, eretto nella chiesa di San Pietro, e quell'altare, insieme con l'altro dedicato alla Vergine Maria, fu visto al suo posto nella seconda metà del X secolo dall'autore dell'Apparitio.

Quel tempio, però, o a causa di uno dei tanti rovinosi movimenti tellurici cui la montagna andò soggetta, o a sèguito d'una delle tante incursioni saracene (la piú grave delle quali fu proprio del 920), andò completamente distrutto; per cui, quando piú tardi, mentre intorno al Santuario s'andava formando una popolosa borgata, lo si volle ricostruire, si pensò di rialzare anche i due « altaria » della Vergine e di San Giovanni. E poiché la liturgia prescriveva ormai che il battistero fosse sempre costruito distaccatamente dalla chiesa matrice, furono per essi creati due appositi edifici, a breve distanza dal vecchio San Pietro. Nacquero cosí la chiesa primitiva di Santa Maria, che prendeva, quale matrice, il posto del distrutto San Pietro, e la « Cappella » o « Tribuna » di San Giovanni, che rappresentò il primo stadio dell'attuale « Tomba di Rotari ».

In tal modo si spiega anche come le tre fabbriche di San Pietro, Santa Maria e « Tomba di Rotari » risultino in pianta, in tutte le loro fasi, talmente vicine da apparire come addossate una all'altra e in certi punti addirittura incastrate.

Quando sarebbe avvenuta, dunque, la erezione in chiesa matrice dell'uno, e in cappella battisteriale dell'altro dei due « altaria » di Santa Maria e San Giovanni? Non prima della fine del X secolo, e assai probabilmente nel 900, dato che prima di allora i due altari erano stati visti in San Pietro dall'autore dell'« Apparitio ». Avremmo cosí, con un primo stadio di S. Maria Maggiore, anteriore alla costruzione gemella di Siponto, anche un primo stadio del battistero di Monte, detto poi impropriamente « Tomba di Rotari », a causa della sopraelevazione fattavi dai due cittadini di Montesantangelo, Pagano e Rodelcrimo 11.

11 La parola Tomba fu desunta dall'epigrafe; il nome di Rotari fu suggerito dall'errata lettura del nome di Rodelcrimo (Rod... - Rot...) nell'epigrafe stessa e, forse, com'ebbe a notare l'Angelillis, dall'equivoca interpretazione di due passi di Paolo Diacono (Hist. Lang., IV, 46, 47), in cui casualmente si parla a breve distanza e del Monte Gargano e della morte e sepoltura di Rotari, « iuxta basilicam beati Iohannis Baptistae » (Nota: In Modoetia ni forte Ticinensis est). Il monumento, com'è noto, sorge a guisa di torre entro lo stesso abitato di Monte S. Angelo, su di una pianta quadrangolare, che nella parte superiore si va sfaccettando in forma di ottagono regolare, per poi modificarsi in un giro elissoidale e terminare quindi con una sorta di calotta emisferica. Il movimento inconsueto di codesta struttura è piú manifesto all'interno, dove si vede, appunto, come la galleria del pianterreno, in se stessa compiuta ed omogenea, possa superiormente convertirsi in poligono, mediante piccole arcate impostate negli angoli ed inclinate all'indentro, e risolversi quindi, con inclinazioni a mano a mano piú accentuate, in un giro circolare di sezione ellittica, pronto a ricevere la calotta. Ma di ciò, e del posto che il « bel San Giovanni » di Monte S. Angelo, col suo caratteristico prolungamento parabolico, occupa nella storia civile e religiosa e nella storia dell'arte della regione, si dirà in altro luogo.

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IV - S. MARIA DI CALENA.

Calena, Calenella; avete mai sentito nomi di paesi e di contrade piú dolci e musicali di questi? A Calenella, in tenimento di Vico, si arresta oggi la ferrovia garganica, al termine d'una pineta quant'altra mai folta fresca fragrante, lasciando nell'animo del viaggiatore il rammarico che le avare rotaie non continuino ancora la loro corsa, per inerpicarsi almeno sullo sprone imminente di Montepuccio, vera scolta naturale del Promontorio, tra il levante e il ponente costiero, e poi scendere un'altra volta al piano, tra le ultime propaggini del bosco, fino a raggiungere, aggirando gli spalti petrosi di Peschici, la sorella maggiore: Càlena. Che cosa è rimasto di originario, oltre al paesaggio incantevole, alla località che si vanta ancora di questo nome una volta illustre? Al tempo di Leone, vescovo o arcivescovo (com'egli amava chiamarsi, anche se « sine suffragio ») di Siponto e di Monte S. Angelo, il suo tempio era una « ecclesia deserta », ma aveva già una storia di secoli, ed altra storia, di assai maggiore importanza, avrebbe avuta in sèguito, pur se di essa non si vedono oggi che pochi avanzi del periodo cistercense, incorporati in una vasta fattoria di proprietà privata 1. A codesti avanzi, per fortuna, sono da aggiungere le tracce della pianta su cui la chiesa sorgeva, in modeste dimensioni, e quelle della pianta su cui sarebbe risorta, dopo il Mille, con una navata centrale sormontata da due cupole e le navate laterali con copertura a semibotte.

La chiesa di S. Maria di Càlena, prima e dopo ch'essa fosse elevata a dignità di priorato e di badia, è una di quelle il cui nome ricorre piú spesso negli antichi documenti. Lo si incontra per la prima volta nel cosiddetto e tanto discusso « breve di Càlena », databile non al 1023 come pensava il Gay, ma al 1038 circa e nel quale si tratta di una larga donazione fatta dall'arcivescovo Leone alla badia benedettina di Trèmiti. In quel documento è citata appunto una chiesa deserta « in loco qui vocatur Càlena ». Chiesa deserta, dunque, probabilmente chiesa rustica, simile a quella di Calenella (Càlena minor), che tre castellani di Pèschici, Tripo, Giorgio e Teccamiro, possedevano nella rada dove ora, come dicevamo, si arresta inopinatamente la ferrovia garganica, e nel cui retroterra, quando eravamo ragazzi, i nostri vecchi ci mostravano con fare riguardoso i vestigi di antichissime informi costruzioni.

La Chiesa di Càlena, quella, cioè, maggiore, che i pirati avevano piú volte assalita e devastata, nonostante la torre di difesa di cui era stata munita sotto Lodovico II (872 d.C.), non aveva nel suo territorio al tempo del presulato di Leone da Monte S. Angelo (1034-1050) altro che una parva terricella e un pastinello (piccolo terreno a vigna); e poiché il dono sembrava troppo modesto, l'arcivescovo vi aveva aggiunto alcune selve « succise » e « non succise » ed altre terre di sua pertinenza, con il pretesto che, essendo troppo lontane dalla sua sede sipontina e montanara, non potevano essere da lui convenientemente

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coltivate. Motivazione, questa, che impegnava in un certo senso i monaci di Trèmiti a rimettere a cultura le terre e far rifiorire nello stesso tempo la chiesa.

Fu appunto in sèguito a questa donazione, confermata nel 1053 dal papa Leone IX, che la « ecclesia deserta » divenne un piccolo tempio romanico a cupola, di tipo schiettamente pugliese. Da questo piccolo tempio, trasformato ed ingrandito posteriormente dai Cistercensi, derivano verosimilmente alcune pietre lavorate, tuttora visibili nel contesto delle fabbriche successive. Tale, per esempio, l'erma scolpita a mezzo tondo sotto una delle grandi arcate della sola facciata superstite, che sembra riattaccarsi alle teste degli amboni di Acceptus, il padre della scultura romanica pugliese.

Per i monaci della badia benedettina di Trèmiti, avere lí, sulla costa del Gargàno, di fronte alle loro isole, una dipendenza come quella di Càlena, dalla parte di oriente del Monte Devio, quando ad occidente avevano già, oltre alla città di Devia, le dipendenze lesinesi e civitensi, era un grosso affare, sia d'ordine economico, sia d'ordine strategico. E furono loro stessi, probabilmente, a promuoverne l'elevazione da semplice « cella » a priorato prima, a badia poi. Ma Càlena, forte ormai della sua posizione e dei suoi vasti e floridi possedimenti, non tardò a dichiararsi indipendente e mettersi in lotta con Trèmiti. Fu allora forse che i calenensi incominciarono ad accrescere di mole e di potenza le fortificazioni del loro monastero, per difendersi cosí dai pirati mussulmani come dai confratelli delle isole Trèmiti. Ma le minacce continuarono sempre ad incombere sulla loro casa, come si può desumere dal bel verso leonino che ancora oggi si legge su di una porticina accessoria della fattoria in cui l'antica fabbrica s'è andata trasformando: verso che in origine doveva certamente figurare scolpito sull'architrave di uno degl'ingressi principali: « Invia cuique truci furi sum pervia luci ».

Aperta, dunque, alla luce, come chiusa ai predoni d'ogni fatta. Ma Càlena aveva anche, nel periodo della sua maggiore prosperità, alcune invidiabili dipendenze, quali San Nicola di Montenero e San Nicola Imbuti, l'una all'interno, sui monti verso Vico, l'altra prossima alla costa, tra Rodi e Sannicandro. Come le difendeva? Quella, forse, con l'ampio sbarramento dei suoi boschi, « succisi » e « non succisi », questa con la laguna litoranea di Varano, mentre qui il mare era a due passi e i pirati vi potevano sbarcare quando volevano, favoriti dal massiccio cuneo roccioso di Pèschici.

Il monastero di Montenero era tenuto molto caro dai calenensi ed ambito d'altro canto dai tremitensi, non solo per le sue ricchezze in olio, vino e agrumi d'ogni specie, ma anche e specialmente per i numerosi « molendini » di cui disponeva lungo la valle che scende giú dall'alta Vico allo sbocco del torrente Asciatizzo e che ancora oggi è chiamata « Valle dei Molini »; ma la chiesa e le fabbriche annesse, già trasformate dai canonici Lateranensi che vi giunsero nel Quattrocento, e quindi incorporate, al pari di Càlena, in una grossa fattoria ottocentesca, non presentano oggi piú nulla del loro aspetto primitivo, cosí

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com'è di tante altre chiese della zona, a cominciare da quella ingrandita e trasformata di San Pietro sita « supra montem » a Vico Garganico, che troviamo nominata fin dal 1113, con particolare rilievo, nei documenti di San Leonardo di Siponto.

La cella di San Nicola « de Monte Nigro », con i suoi molendini e tutte le sue pertinenze, è ricordata già in una bolla di Stefano X del 7 febbraio 1058, nella quale vengono confermate una per una le possessioni della badia di Càlena, compresa la cella di San Nicola Imbuti, sita ai margini del lago Varano e non meno ambita dell'altra per i suoi pingui pascoli e le sue ricchezze in pescagione e cacciagione. Ma né della chiesa né del monastero di questo favoloso San Nicola è rimasto piú nulla, dopo che il territorio su cui sorgevano, detto « imbuto » (da imbuo) perché bagnato dalle acque della laguna, fu destinato alla costruzione d'un idroscalo, in occasione della guerra 1915-18. Memorie, dunque, nient'altro che memorie, o vestigi e travestimenti spesso impenetrabili, ma non per questo privi d'incanto in una terra che, a parte le sue caratteristiche naturali, fu nel Medioevo teatro di importanti avvenimenti storici e soprattutto di singolari manifestazioni d'arte. Ricordiamo per esempio, il senso di mistero, misto a vivissima curiosità, da cui eravamo pervasi quando, fanciulli, ci spingevamo da soli o in frotta fino al fiumicello Lauri, in territorio di Sannicandro garganico, nostro paese natío. Su di un greppo, proprio a ridosso del molino ad acqua tuttora esistente ed attivo, vedevamo a fior di terra le fondamenta superstiti di alcune fabbriche diroccate, di cui nessuno sapeva dirci niente, e pensavamo ad un castello turrito, ad una chiesa affrescata, ai villici dei dintorni che traevano qui a macinare il loro grano e a sentire l'uffizio divino prima di recarsi al lavoro. Qualcuno ci tracciava di « fantastici » o peggio; ma oggi che in un documento del 1058 troviamo nominati e quel fiumicello e quel castello (castellum ubi dicitur Lauri) e quella chiesa (ecclesia vocabulo sancti Petri Apostoli), ci assale il desiderio di ritornare su quel greppo, per poter interrogare con occhi piú esperti quelle vecchie pietre ed allargare lo sguardo attorno, fino a tutte le pertinenze del castello, « vigne e terre coltivate ed incolte, - come dice il documento - alberi fruttiferi e non fruttiferi, selve acque e prati », e il molino e la navicella (il « sandalo ») e la stessa chiesa, che il conte Petrone, figlio di Gualtiero di Lèsina, vendette per 150 soldi schifati. 150 soldi: a quanto corrisponderebbero oggi? Non pensiamoci, e spalanchiamo anche noi l'anima alla luce, facendoci per un momento, in tanto riso di verde e di azzurro, tutti calenensi.

V - S. MARIA DI PULSANO.

Correva l'anno di grazia 1171, e le suore operaie del monastero di Santa Cecilia presso Foggia, stanche delle eccessive fatiche loro imposte dalla badia di Santa Maria di Pulsano in monte Gargano e dal

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convento di S. Nicola alle porte della loro stessa città, se ne rammaricavano con papa Alessandro III, allora di ritorno dalla vicina Troia. Il sommo pontefice ascoltava, e nominava una commissione d'inchiesta nelle persone del cardinale Manfredo, vescovo Prenestino, del cardinale Pero de Bono del titolo di Santa Susanna, e del cardinale diacono Giacinto, con l'incarico d'indagare sui fatti ed ingiungere all'abate mitrato di Santa Maria di Pulsano, che allora era il gran Ioele, e a quel prepotentuccio del priore di San Nicola di porre subito termine alle « vessazioni, estorsioni e maltrattamenti » di cui veniva fatto loro carico delle suore di Santa Cecilia.

« Vessazioni, estorsioni, maltrattamenti ... ». Di che si trattava? La mente, alla lettura del documento dell'Archivio di Troia pubblicato a suo tempo dal Carabellese, che l'assegnava al tempo di Callisto II, e cioè al 1120 1, è portata naturalmente a fantasticare di chi sa che scandali e fatti orrorosi. Ma niente di tutto ciò: solo, invece, se cosí vogliamo chiamarla, una rivolta operaia, una rivolta in soggòlo, tra le mura di un convento. Le monache di Santa Cecilia, infatti, o meglio quelle di esse che erano addette ai lavori di tessitura e sartoria, avevano il compito di fornire ai fratelli della casa madre tutto ciò che loro poteva occorrere per vestirsi, dormire, andare in giro e farsi lume nelle lunghe notti, e cioè panni di lana, lenzuola, cingoli, bisacciuole, sacconi, stoppini per le lucerne, ecc. (pannos, suderas, cingolas, besacciolas, saccos, papiros et alia ... ); ma i frati si mostravano cosí esigenti e pressanti nelle richieste che le povere operaie erano obbligate a tessere, tagliare, cucire, filare, compor treccioline di stoppa e di bambagia giorno e notte, senza tuttavia riuscire a contentar tutti; e alle pretese della casa madre si erano aggiunte a un certo punto quelle del convento di San Nicola, al cui priore era affidata la vigilanza di Santa Cecilia. Ve l'immaginate il frate grasso che si presenta stronfiando alla madre badessa e protesta per non aver trovato nell'ultima fornitura un cingolo che convenisse al giro della sua pancia, o il frate magro che si lamenta perché la tonaca gli sta addosso come la campana al battaglio? E ciò indipendentemente dal fatto che le richieste erano di gran lunga superiori ai bisogni. Che ne facevano i frati biancovestiti di Pulsano e di San Nicola di tanta roba? Se ne vendevano forse, Dio ci perdoni, una porzioncella?

Per fortuna non tutti erano della stessa risma, ed il maggior incolpato, il gran Ioele, non doveva saper nulla, con tutta probabilità, di ciò che accadeva di buono e di cattivo nei sottordini della badia; ad un certo punto, anzi, era tale in Pulsano il numero dei frati colti ed operosi nei diversi campi dell'architettura, della scultura e delle lettere, che l'Ughelli, nel definire quella badia, la diceva « ricettacolo di uomini illustri » (virorum illustrium receptaculum). E per alcuni di quegli uomini illustri, giova dirlo subito, lavorava un altro gruppo di suore di

1 Cfr. per questo documento e per le notizie sui due monasteri di Pulsano e di S. Cecilia, CIBO ANGELILLIS, Pulsano e l'Ordine monastico pulsanese, in Archivio storico pugliese », VI (1953), pp. 421-66, e in particolare le pp. 400-1.

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Santa Cecilia: quello delle calligrafe e miniatrici, che è dubbio abbiano preso parte alla rivolta.

La casa madre dell'Ordine dei pulsanesi aveva sede sulle pendici meridionali del Gargano, in un luogo fra i piú ameni del pittoresco promontorio, ma del tutto « impervio e solitario », detto sempre in antico Pulsano, e in mappe e documenti piú recenti Polsosano o Apolosano. Si vuole che il monastero e il tempio di Santa Maria, di cui ancora oggi si possono ammirare, nei pressi della boscosa Macchia, gli avanzi monumentali, siano stati costruiti qui, sui ruderi di precedenti costruzioni cenobitiche, da San Giovanni Scalcione da Matera, il « pastor bonus », dopo ch'egli si era recato in pellegrinaggio al santuario di San Michele Arcangelo, e cioè nel 1129 secondo alcuni, nel 1131 secondo altri. Ma fu sotto Gioele, terzo abate generale della comunità di Pulsano, e cioè fra il 1145 e il 1176, che questa toccò l'apice del suo splendore, con conseguente incremento delle fabbriche di sua pertinenza e delle sue attività di ordine superiore. E' a codesto periodo, appunto, che bisogna ascrivere le parti piú belle della chiesa giunta a noi mutila, con il suo armonioso portale, due finestre superiori ed un rosone finemente decorati, l'arco d'accesso al cortile, anch'esso abbellito di sculture ornamentali, e lo stesso arredamento sacro.

Lo Schulz ricorda appunto una grandissima acquasantiera, oggi scomparsa, sostenuta da un mensolone fra aquile, tutta ad intagli finissimi di foglie e pigne, dinanzi a cui doveva forse impallidire quella della Chiesa Vecchia di Molfetta.

Tra le cose a noi giunte quasi intatte c'è invece una tavola dipinta con la Madonna ed il Bambino su fondo d'oro, che destò non solo l'ammirazione dello Schulz, ma anche quella di Domenico Salazaro e che, essendo del tutto simile all'altra Madonna « deaurata » chiesta nel 1064 dal vescovo Gerardo all'abate di Tremiti per la chiesa superiore di Santa Maria di Siponto, sta a dirci come anche nel secolo successivo, e cioè al tempo di Giovanni Scalcione e di Ioele pulsanesi, quel tipo di Madonna continuasse ad essere fornito dai benedettini del monastero isolano alle chiese della propinqua sponda.

E le monache di Santa Cecilia? Esse erano molte, tanto che ad un certo momento si dovette ricorrere alla drastica misura di ridurle a cinquanta aspettando che il Signore chiamasse a sè le piú vecchie e sospendendo nel frattempo l'ammissione delle novizie. E delle molte una parte erano prevalentemente operaie, calligrafe e miniaturiste. Che queste abbiano continuato ad ornare carte almeno fino al 1244, è provato da un bellissimo codice miniato, " Martyrologium Monialium Pulsanensium Sanctae Ceciliae ", ora nella Biblioteca nazionale di Napoli, fermo appunto a quell'anno 2. Le altre invece seguitarono, anche se con diminuita frequenza e senza esose pressioni, ad apprestare tonache, lenzuola, sacconi, bisacciuole e stoppini per le lucerne della casa madre, fino a quando anche questa, come già le badie prossime di Montesacro e San Leonardo di Siponto, non prese a decadere. Nel 1235 la badia

2 Ms. VIII C. 13, membr. di cc. 60, scritto in beneventana di tipo cassinese.

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di Montesacro, già potentissima e doviziosa era ridotta in tale stato di povertà da non poter fornire al suo nuovo abate Giovanni i mezzi per recarsi a Roma a ricevere la conferma e la consacrazione papale, e non molti anni dopo la stupenda chiesa di San Leonardo di Siponto era cosí rovinata da sembrare non piú una casa di Dio, ma, come abbiamo visto, una « spelunca latronum ». La badia di Pulsano, invece, forse perché piú appartata e meno soggetta alle incursioni dei predoni, rimaneva attiva per diverso altro tempo, tanto che nel 1294 poteva perfezionare, col beneplacito di papa Celestino V, una permuta di beni con il monastero di Santo Spirito di Maiella e nel 1375 aveva ancora un suo regolare abate nella persona di « frate Antonio ». Ma le sue dipendenze e la sua potenza non erano piú quelle di una volta. Quindi, di anno in anno, tutto ruinava senza piú rialzarsi: mura, archi, celle, fortificazioni, mobilio artistico. Ed anche se pochi frati, di quelli che sarebbero poi passati ad altri Ordini, rimanevano ancora, dopo altre vicende ed un ultimo spaventoso terremoto, a guardare melanconicamente le vestigia di quello che era stato uno dei maggiori cenobi d'Italia, nessuno si ricordava dei loro bisogni.

Le monache di Santa Cecilia non esistevano piú, sembra, dal 1292, e le vecchie lucerne di Pulsano, prive di stoppini, s'impolveravano spente nell'ombra.

VI - S. MARIA DI TREMITI.*

« Madonnina del mare »: cosí è chiamata una statuetta in legno scolpito e dipinto, alta un metro circa, rappresentante la Madonna in piedi, dritta come un giglio, con il Bambino seduto sul braccio sinistro, che si venera nella chiesa già abbaziale dell'isola di S. Nicola, nel gruppo delle Trèmiti. A questa Madonna, di data e di provenienza incerte, in quanto la tradizione la dice venuta d'Oriente, mentre sembra modellata su di una statua di Giovanni Pisano, è dedicata da secoli una festa che si celebra a mezza estate e si conclude con una toccante processione sulle acque. Una leggenda, radicatissima nella mente del popolo, dice che in passato, nel giorno di quella festa, il mare fra la costa del Gargàno e le isole Trèmiti si abbassava, sí da permettere ai fedeli della terraferma che non disponevano di una barca di compiere il tragitto a piedi o a schiena d'asino. Ma per far ciò occorreva essere senza peccato, e piú d'uno, naturalmente, nonostante le buone intenzioni con cui s'era messo in cammino, finiva per cadere in pasto dei pesci. Ma, a parte la leggenda, c'è un documento del 1556, nel quale si afferma che non meno di « 2000 o 3000 persone, tra maschi e

* I documenti citati in questo capitolo sono tutti editi o ricordati nel Codice diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, a cura di Armando Petrucci, I-III, Roma 1961.

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femmine », arrivavano per il giorno della festa della Madonnina dalle coste del Gargàno e dal basso Molise a Trèmiti, « e a tutti, per la vigilia e festa, se gli dava da mangiare », salvo a prolungare il trattamento nel caso che « per il mal tempo, come sôle accadere » gli ospiti fossero costretti a procrastinare il ritorno.

La festa ha qualche somiglianza con quella ben nota di San Nicola di Bari, ma è piú pittoresca e nello stesso tempo piú intima e commovente, per il fatto che si svolge di sera, tra la luce del sole che tramonta ed il baluginío delle prime stelle, e comprende il giro delle due isole maggiori dell'arcipelago: quella abitata di San Nicola e l'altra boscosa di San Dòmino. Non vengon piú i fedeli della sponda opposta, né il mare si abbassa o si alza secondo i casi; ma ci sono molti turisti, attratti dalla bellezza del paesaggio e dalla pesca subacquea, qui piú propizia che mai; ed anche per loro è una gioia poter assistere alla processione o parteciparvi di persona, frammischiati all'umile gente del luogo. La Madonnina, avvolta per l'occasione in un manto di seta azzurra, tra fiori di campo e ceri accesi, esce dalla sua casa, portata a braccia da quattro robusti marinai, e si avvia, per i camminamenti della fortezza, alla marina, mentre la folla le si va assiepando intorno. Un peschereccio a vela, pavesato a festa, accoglie subito la statua per portarla in mare, e numerosi battelli gremiti di gente lo seguono da presso. Il sole intanto tramonta, e dai battelli le donne innalzano, lento e solenne, il canto rituale dei marinai tremitesi: « O Madonnina del mare - tu non ti devi scordare - di me. - mentre la barca cammina ... ». Poi la notte cade sull'isola. La Madonnina risale nella penombra lo scoglio di San Nicola per raggiungere la sua vetusta casa, e quando, consumati ormai i ceri, si abbassa per l'ultima volta, come inghiottita dalle pietre, sotto gli archi dei camminamenti che danno accesso alla fortezza ed alla chiesa, si ha l'impressione che non la si debba piú vedere. La cerimonia è finita; ma nell'ombra qualche voce canta ancora: « O Madonnina del mare ... ». Ed in quel canto è tutta la vita dell'isola, della sola isola abitata: il mare, la pesca, la solitudine, la attesa del forestiero, che rappresenta, specie nelle lunghe settimane invernali, l'unico contatto con il mondo.

Ma la Madonnina non è sola, sia nella chiesa, sia nel complesso monumentale dell'abazia fortificata, prima benedettina, poi cistercense, poi lateranense. Henri Bertaux, riferendosi al periodo benedettino, definiva l'abazia di Trèmiti « una Montecassino in pieno mare ». E tale, a giudicare specialmente dalle carte venute in luce di recente 1, doveva essere davvero, per l'ampiezza di suoi interessi in terraferma, per la dottrina e l'intraprendenza dei suoi frati, per l'attività del suo centro scrittorio e miniaturistico, per la ricchezza e varietà della sua biblioteca, di cui si conosce ora il catalogo, nonché per l'importanza delle opere d'arte possedute, alcune delle quali importate dall'Oriente e dall'Occidente, altre prodotte, a quanto pare, sul posto.

Oltre alla Madonnina la chiesa di Trèmiti vantava e vanta altre opere d'arte importanti, quali, per dire delle maggiori, il vasto pavimento a mosaico policromo, un Crocifisso dipinto del tipo detto « vi-

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vente », alto quasi tre metri e mezzo, ed un polittico veneziano in legno scolpito e dipinto. Il classico, incomparabile pavimento, che possiamo considerare composto non piú tardi del 1045, anno in cui la chiesa, secondo un documento già pubblicato dal Muratori, risultava già ricostruita « a fundamine », è l'unica testimonianza superstite di quella ricostruzione, che dovette essere veramente favolosa, mentre il Crocifisso rimane sempre un enigma, in quanto sembra uscito dalla bottega di Berlinghiero Berlinghieri (se non, com'è meno probabile, di Alberto Sozio), laddove la tradizione, avvalorata da alcune lettere greche e da un'iscrizione latina, lo dice venuto d'Oriente nel 747 d. C., in modo miracoloso, « nave la stessa Croce nocchiero il Cristo ». Il grande polittico ligneo, con l'Assunzione e l'Incoronazione della Vergine ed un popolo di figure scolpite a tutto tondo, rappresenta invece, senza problemi, la perpetua meraviglia della chiesa. Ma il rimanente? Le iconi dipinte, per esempio, e gli altri oggetti sacri di cui i Benedettini facevano piú o meno mercato, rifornendone le chiese della sponda garganica, in cambio di concessioni e benefici vari? Un documento sipontino del novembre 1064 ci apprende che l'arcivescovo Gerardo chiedeva all'abate di Trèmiti una « icona deaurata » per la sua chiesa ed una « scaramagna bona », in cambio di una parte delle saline di Siponto, ed un altro documento del dicembre 1068 ci assicura dell'avvenuto scambio. Una « icona deaurata » uguale a quella di Siponto arrivava poco dopo alla vicina chiesa abaziale di S. Maria di Pulsano. Ed il Crocifisso dipinto di S. Leonardo le Matine, quasi del tutto simile a quello di Trèmiti, donde veniva? E qui è opportuno ricordare che al tempo dei Cistercensi Trèmiti fu presa dai pirati della Dalmazia con uno stratagemma superante in astuzia e crudeltà quello del Cavallo di Troia, e nulla o quasi di ciò che essa possedeva poté salvarsi. Tutto quindi dovette essere rifatto nel secolo XV dai Lateranensi, stabilitisi a Tremiti nel 1412. Per prima cosa essi rifecero il portale di S. Maria al Mare: ciò che dimostra come quello antico fosse andato in rovina, abbattuto forse dai crudelissimi corsari di Omis in Dalmazia, i quali non contenti, infierirono, dicono i cronisti, perfino sulle pietre, « rapendo, scorrendo tutta la casa, struggendo... spianando la fabbrica ». Della costruzione del nuovo portale furono incaricati nel 1473 il durazzese (« Dyrrachius » o « de Durachio ») Andrea Alessi, allievo di Giorgio da Sebenico, ed il fiorentino Nicolò di Giovanni Cocari, allievo di Donatello, ma attivo a quel tempo, insieme con l'Alessi, a Traú ed a Spalato. Qui l'anno avanti avevano restaurato in collaborazione il campanile del Duomo; e qui forse li conobbe il priore di Tremiti Don Ambrogio da Milano, il quale s'impegnava, in data 20 ottobre 1473, di versar loro per la costruzione del portale, 38 ducati d'oro. Ma per farsi pagare, maestro Andrea e maestro Nicolò dovettero piatire ed arrabbiarsi per un pezzo, fino a che, messi alla disperazione, non citarono in giudizio l'Abazia. Questo avveniva il 27 febbraio 1475. Ma non sappiamo se i due siano stati soddisfatti come chiedevano, perchè i documenti a noi giunti, men-

1 Edite in Codice diplomatico, già cit.

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tre parlano del processo svoltosi davanti al giudice di Spalato, non ci dicono come esso sia andato a finire 2. Certo è che la corda fu tirata a lungo, date forse le potenti amicizie di cui l'Abazia godeva sulla sponda opposta, e solo nel 1480 fu pronunziata la sentenza, della quale però non si conosce il testo.

Il nuovo portale di S. Maria al Mare fu costruito in delicate forme rinascimentali nel mezzo della facciata tripartita, come in antico, da lesene alte e snelle; ma anch'esso corse il rischio di essere distrutto, quando nell'agosto del 1567 i Turchi si presentarono davanti alle Tremiti, intenzionati ad espugnarle a tutti i costi. Essi disponevano di 150 navi al comando di Alí Pascià, « generale del mare », e di migliaia di armati, al comando di Mustafà « generale di terra », mentre i difensori non erano che un pugno di uomini. Ma l'isola di San Nicola non era più quella di una volta: due abati ingegneri, Cipriano da Milano e Matteo da Vercelli vi avevano innalzato a piena regola d'arte robustissime fortificazioni, munendole di potenti artiglierie; ciò permise agli assediati di sostenere il combattimento per tre giorni di seguito e di uscirne alla fine vittoriosi. Avanti d'iniziare la lotta, tutti i frati si erano confessati e comunicati, « con animo deliberato di morire lietamente tutti », prima che i Turchi potessero metter piede nell'isola, e si erano quindi adunati nella « Cappella della Madonna », davanti alla statuetta in legno scolpito e dipinto della « Madonna del Mare », che ancora oggi, sormontando alle tempestose vicende del luogo, si venera nella chiesa. Ed a quella Madonna, sempre sorridente, sempre pietosa, ritornarono dopo la vittoria, per un Te Deum di ringraziamento, mentre i Turchi fuggivano sconfitti verso Levante, e le loro navi, come racconta padre Ribera, con le vele gonfie in poppa, « formavano quasi una grossa città in mare » 3.

Il portale della chiesa di Tremiti, dunque, resistette all'urto, nonostante la gracile e pericolosa grazia dei due ordini di sculture e di nicchiette ingegnosamente sovrapposti all'architrave ed alle colonne binate che lo affiancano; ma non cosí il grandioso porticato del nuovo chiostro, anche esso costruito dai Canonici Regolari Lateranensi ventun anni prima dell'assalto dei Turchi, come ci apprende l'iscrizione appostavi: « 1546 Ave Regina Coelorum ». Di codesto porticato, lungo in origine non meno di 55 metri, non è rimasto un solo lato, con 26 archi e ricercatissime decorazioni a tondini di schietta intonazione rinascimentale. Vogliamo dire che gli autori del portale, cosí mal ripagati, lavorarono meglio dei loro anonimi successori? E se non cosí, diciamo che il destino fu con loro piú benigno di quanto non fosse stato a suo tempo il frate pagatore della Abazia.

ALFREDO PETRUCCI

2 Cfr. PETAR KOLENDIC, Aleshi et Fiorentino aux iles de Tremiti, in « Bulletin de la Societé scientifique de Skoplie », I (1926), pp. 205-14.

3 PIETRO PAOLO RIBERA, Successo de' Canonici regolari Lateranensi nelle loro isole Tremitane.... Venezia 1606; per l'assedio cfr. anche MICHELE VOCINO, Nei paesi dell'Arcangelo, Trani 1913, pp. 45-8.

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