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1 IL NOSTALGICO PASSATO DEL FESTIVAL DI AVIGNONE: IL PUBBLICO “IN AZIONE” TRA TEATRO POPOLARE E POLITICA CULTURALE Francesco Crisci Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche Università degli Studi di Udine prima bozza: FEBBRAIO 2014 rivisitato: LUGLIO 2014 Lavoro in corso di stampa. Citazione: Crisci F. (2014), “Il nostalgico passato del Festival di Avignone: il pubblico ‘in azione’ tra teatro popolare e politica culturale”, in De Biase F. (a cura di), I pubblici della cultura. Audience development, audience engagement, Collana “Pubblico, professioni e luoghi della cultura”, Franco Angeli, Milano, Cap. 22, pp. 375-418.

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IL NOSTALGICO PASSATO DEL FESTIVAL DI AVIGNONE: IL PUBBLICO “IN AZIONE” TRA TEATRO POPOLARE E POLITICA CULTURALE

Francesco Crisci

Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche Università degli Studi di Udine

prima bozza: FEBBRAIO 2014

rivisitato: LUGLIO 2014

Lavoro in corso di stampa. Citazione:

Crisci F. (2014), “Il nostalgico passato del Festival di Avignone: il pubblico ‘in azione’

tra teatro popolare e politica culturale”, in De Biase F. (a cura di), I pubblici della

cultura. Audience development, audience engagement, Collana “Pubblico, professioni e

luoghi della cultura”, Franco Angeli, Milano, Cap. 22, pp. 375-418.

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INTRODUZIONE

ALCUNI RIFERIMENTI TEORICI

UNA NOTA METODOLOGICA

Il materiale di ricerca

Un profilo del pubblico del Festival di Avignone

Il contesto di analisi: la storia del Festival di Avignone

IL PUBBLICO DEL FdA TRA RINNOVAMENTO NOSTALGICO E

PARTECIPAZIONE CULTURALE

L’esperienza nostalgica del pubblico nel segno del “teatro popolare”

Nostalgia esistenziale

Nostalgia estetica

La comunità del Festival di Avignone: il teatro popolare come azione politica

Il senso del dibattito pubblico (storie dalla comunità)

Trasmettere una fede (idealizzare la comunità)

L’estetica del rito di passaggio (autenticità dell’esperienza)

Stigmatizzare il tempo che passa (paradossi di significato)

CONCLUSIONI: LA COSTRUZIONE COLLETTIVA DI UN MODELLO DI

POLITICA CULTURALE

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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IL NOSTALGICO PASSATO DEL FESTIVAL DI AVIGNONE: IL PUBBLICO “IN

AZIONE” TRA TEATRO POPOLARE E POLITICA CULTURALE

Così come non è possibile pensare ad una educazione che non sia pubblica; allo stesso modo non riesco ad immaginare una forma di teatro contemporaneo che non sia popolare.

Jean Vilar

INTRODUZIONE

Ci fu un momento, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, in cui un preciso

disegno di politica culturale, per ragioni artistiche ma anche storiche, trovò concreta

espressione e manifestazione attraverso lo spazio scenico, la tecnica recitativa degli

attori, la semantica dei costumi e l’assenza di decori e scene tradizionali, la scelta

audace di un repertorio in continua evoluzione e rappresentato en plein air. Attraverso il

teatro, una coerente cerimonia laica, nella ricerca continua del cambiamento, divenne

comunque perfettamente riconoscibile ad un pubblico ampio, attento e partecipe.

Il Festival di Avignone (FdA) fu un progetto culturale concepito con ostinazione e

attuato con coerenza nel nome del “teatro popolare”: Jean Vilar, fondatore del FdA nel

1947, concepiva il teatro politicamente considerandolo come un “servizio pubblico […]

al servizio di una comunità”, espressione di un civismo in cui “la rappresentazione

teatrale è necessariamente un momento d’unione, per quanto effimera o illusoria”.

Le riflessioni seguenti si basano sull’idea che il “passato” costituisca il materiale di una

“esperienza nostalgica” che rende tracciabile il formarsi nel tempo della relazione tra

istituzioni culturali e pubblico dell’arte: in altri termini, la memoria e i riflessi di questa

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avventura artistica hanno prodotto segni che sono ancora piuttosto evidenti nell’attuale

mondo del teatro e della cultura, riconducibili alla concreta manifestazione di una

specifica idea di politica culturale.

Il caso del FdA permette di considerare alcuni aspetti della più recente letteratura di

marketing (Maclaran et al. 2009; Araujo et al. 2010; Peñaloza et al. 2011; Martin,

Schouten 2014). La dimensione nostalgica dell’esperienza di consumo, le comunità di

consumo e i processi di branding, collegati tra loro, interagiscono per fornire una

possibile chiave di lettura a queste due questioni:

- in primo luogo, sulla formazione nel tempo di un legame solido e dialettico tra il

FdA e il suo pubblico, con particolare riferimento alla formidabile coerenza che, in

oltre sessanta anni, si è venuta a creare tra l’autenticità di una poetica condivisa

(quella del “teatro popolare”) e una idea di pratica artistica divenuta patrimonio

culturale di intere generazioni di spettatori;

- inoltre, sulla costruzione collettiva di una vera e propria idea di politica culturale

basata sull’emergere di un modello organizzativo (il “teatro nazionale” inteso come

teatro pubblico, nelle modalità che si sono concretizzate in Francia nel Theâtre

National Populaire, TNP) centrato sul coinvolgimento di tutti gli attori, e in primo

luogo del pubblico (non solo teatrale), necessari ad alimentarne i fondamenti.

In prima approssimazione, associare FdA ed effetto nostalgia non è particolarmente

insolito o audace. L’atmosfera di ogni edizione del Festival è intrisa di quel rispettoso

sguardo all’indietro che nelle parole di Paul Puaux, alla guida del Festival dopo la

prematura scomparsa del suo fondatore, si sintetizza nell’espressione “non si succede a

Jean Vilar”. In tempi più recenti Bernard Faivre d’Arcier, successore di Paul Puaux,

evoca il “peso della storia” per richiamare quel gravoso obbligo alla coerenza

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organizzativa e artistica che a tutt’oggi pervade i protagonisti delle vicende culturali del

Festival. Ancora meno controverso è il collegamento con la poetica del “teatro

popolare”, e non solo perché in un certo periodo storico le due istituzioni culturali che

ne erano espressione (il FdA e il TNP) hanno condiviso la guida artistica e

organizzativa di Jean Vilar.

Il concetto di nostalgia evoca anche un attaccamento al passato non banale che attiene:

sia alle esperienze che hanno contribuito a formare, conservare e rigenerare l’identità di

singoli spettatori del FdA (Ruvio, Belk 2013); sia alla costruzione di quelle meta-

rappresentazioni che, caricando di significato un oggetto (l’esperienza di teatro e i suoi

modelli organizzativi) attraverso linguaggio e pensiero simbolico, sono un prerequisito

fondamentale per valori, credenze, priorità nel contesto culturale di una intera comunità

(Turner 1986). La memoria collettiva del pubblico non ha solo a che vedere con la

storia e i contesti sociali del Festival, ma riguarda letteralmente i processi di astrazione e

di ridefinizione dei comportamenti umani: il pubblico sembra avere coscienza tanto del

proprio ruolo (nel condividere un progetto culturale) quanto del contesto più ampio in

cui tale ruolo viene esercitato (all’interno di una idea di politica culturale emergente),

collegando il senso del sé con il significato nel mondo esterno (il vivere quotidiano, sia

materiale che sociale), definendosi così in relazione ad esso (Santoro, Sassatelli 2009).

Il paragrafo metodologico presenta il materiale di ricerca e il contesto di analisi,

introducendo le vicende del FdA necessarie ad inquadrare l’evoluzione del rapporto tra

l’organizzazione e il suo pubblico. La successiva rassegna teorica e la descrizione del

caso mirano a sostenere l’idea che il “valore economico” prodotto dagli attori sociali

che si incontrano da decenni ad Avignone dovrebbe stare nella costruzione di questa

rete d’azione collettiva che come un’onda si è propagata lungo tutta la filiera del teatro

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contemporaneo francese ed europeo. L’unità di analisi diventano le pratiche culturali

che alimentano nel pubblico il concetto di “esperienza nostalgica”: la sua dimensione

individuale (nostalgia “esistenziale” ed “estetica” dello spettatore) e quella collettiva (in

termini di comunità del pubblico attorno alla poetica del “teatro popolare”) rendono

possibile tracciare i segni lasciati dalle azioni di politica culturale che, nel tempo, hanno

prodotto e riprodotto se stesse, le identità individuali e collettive degli spettatori e le

istituzioni coinvolte in un incredibile progetto di intervento pubblico nella cultura.

ALCUNI RIFERIMENTI TEORICI

Christina Goulding (2001), studiando i visitatori della ricostruzione museale di un

villaggio vittoriano, distingue due tipologie di comportamento nostalgico che verranno

riprese nel caso del FdA: esistenziale ed estetico. La figura 1 riprende le definizioni

principali e le strutture del fenomeno. Le quattro dimensioni descritte nella figura

(stimulus, role reportoire, alienation e social contact) si declinano in modo specifico

facendo emergere le due varianti di reazione nostalgica.

Lo schema richiama specifici punti di vista presenti nella letteratura che ha introdotto il

concetto di nostalgia nelle consumer research. Se il materiale di una esperienza

nostalgica è il passato, allora è abbastanza ragionevole pensare alla nostalgia come

«[…] a preference (general linking, posititve attitude, or favourable affect) towards

objects (people, places, or things) that were more common (popular, fashionable, or

widely circulated) when one was younger (in early adulthood, in adolescence, in

childhood, or even before birth)» (Holbrook 1993, p. 104).

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In particolare, la propensione alla nostalgia influisce sui meccanismi di scelta in alcuni

contesti di consumo particolarmente “densi” dal punto di vista della memoria e in cui

determinante è il ruolo dal bagaglio di esperienze passate vissute del consumatore

(musica, film, fashion model, auto d’epoca, ecc.) (Holbrook, Schindler 1989; Holbrook

1993). Il concetto di nostalgia ha un naturale legame con il possesso personale di oggetti

come souvenir, fotografie, cimeli di famiglia, oggetti di antiquariato, doni i quali

permettono il materializzarsi dell’idea di “memoria” connessa con esperienze legate al

senso del passato (Belk 1988; Belk et al. 1989). Inoltre, il modo in cui la nostalgia viene

utilizzata nelle campagne pubblicitarie di prodotti e brand ha permesso di estenderne gli

effetti dalla dimensione individuale a quella collettiva (Stern 1992). Più in generale, in

differenti ricerche sui processi di consumo è stato evidenziato che la “storia” è una fonte

di valore (culturale e relazionale prima ancora che economico) nel momento in cui

diventa un “marcatore” di legittimazione e di autenticità (Peñaloza 2000).

____________________

Figura 1 - circa qui - ____________________

Figura 1 – Le struttura esistenziale e estetica della nostalgia fonte: nostra elaborazione da Goulding 2001

Lo schema di analisi proposto (figura 1) può essere completato recuperando le nozioni

di nostalgia personale e comune/collettiva introdotte da Davis (1979): diventa possibile

collegare il senso del “tempo che passa” (il passato viene evocato in età adulta e in

termini di patrimonio di esperienze vissute) e il manifestarsi attraverso il ricordo di

passaggi epocali nella memoria collettiva (guerre, rivoluzioni, invasioni, sconvolgimenti

economici, catastrofi ambientali).

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Dimensione individuale e collettiva sono tra loro intimamente intrecciate tanto da poter

supportare l’idea che brand con una lunga tradizione evocano facilmente sia le epoche

passate vissute da molte persone sia caratteristiche dell’identità individuale di coloro

che hanno fatto esperienza di quella storia: in altri termini, così concepiti, alcuni

processi di branding permettono di costruire legami tra consumatori basati sul senso del

passato e sulla condivisione delle esperienze vissute da intere comunità di persone

legate dal medesimo interesse e dallo scorrere del tempo (Brown et al. 2003). Il

consumo comunitario si collega a pratiche che ruotano attorno a prodotti, esperienze,

idee in grado di generare contatto, di costruire relazioni tra persone (Carù, Cova 2007;

Cova et al. 2007; Cova, Dalli 2009a, 2009b): quindi, non sono tanto le proprietà

funzionali o simboliche degli oggetti o delle esperienze di consumo individuali ad

essere rilevanti, quanto il fatto di consentire l’interazione con altre persone per cercare e

trovare la propria posizione nel contesto sociale e culturale di riferimento (tra gli altri:

Schouten, McAlexander 1995; Muñiz, O’Guinn 2001; Goulding et al. 2013).

La dimensione nostalgica nei processi di consumo si completa quindi collegandola al

concetto di comunità, introdotto negli studi di marketing e di consumer behaviour per

indagare fenomeni anche molto diversi tra loro. Le prime teorie sulle sub-culture di

consumo (Schouten, McAlexander 1995) descrivono la comunità in termini di

«developed strong interpersonal bonds, ritualized modes of expression and beliefs that

precluded other social affiliations in order to subvert dominant institutions» (Goulding

et al. 2013). La brand community differisce per il fatto di allontanare l’enfasi dall’idea

del cambiamento delle strutture sociali, concentrando l’attenzione sullo strutturarsi di

relazioni sociali attraverso «shared rituals and ways of thinking and traditions, as well

as a sense of moral responsibility towards other members, and religious zeal towards the

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focal brand» (Muñiz, O’Guinn 2001; McAlexander et al. 2002). Infine, le tribù di

consumatori, non essendo riunite attorno a singoli brand, si aggregano quando

«members identify with one another, have shared experiences and emotions, and engage

in collective social action all of which can be facilitated through a variety of brands,

products, activities and services» (Goulding et al. 2013, p. 815).

UNA NOTA METODOLOGICA

Il materiale di ricerca

Questo lavoro è parte di un più ampio progetto di ricerca sulla filiera dello spettacolo

dal vivo. La raccolta dei dati è cominciata nel 2005, il lavoro sul campo si è protratto

per le successive quattro edizioni del FdA e la fase di interpretazione e di analisi

prosegue tutt’ora su aspetti specifici di questo oggetto di indagine. Lo studio originario,

di stampo etnografico (Belk 2006; Belk et al. 2013), è stato condotto utilizzando diversi

materiali raccolti con varie tecniche e procedure: storie e episodi raccolti “di prima

mano”; racconti “in terza persona” e “note dal campo”; testimonianze audio/video e

materiale fotografico; interviste e racconti del pubblico; incontri tra artisti e spettatori;

conferenze stampa ufficiali; colloqui personali con diversi protagonisti del Festival.

Inoltre, è stato consultato il materiale d’archivio del FdA, gestito dall’antenna locale del

Dipartimento dello Spettacolo della Biblioteca Nazionale di Francia, costituito dal

patrimonio documentario della Maison Jean Vilar (MJV): una videoteca con

testimonianze audio/video e materiale fotografico di personaggi chiave del FdA; le

riprese di messe in scena di spettacoli storici del repertorio del Festival e del TNP e di

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eventi significativi della sua storia; un’ampia raccolta di volumi sulla storia del teatro,

sulla storia del FdA, sulla vita di Jean Vilar; monografie e ricerche di stampo storico, di

critica letteraria e teatrale, di sociologia dell’arte; i documenti amministrativi del FdA e

del TNP; le raccolte di riviste specializzate (ad es.: “Bref”, storica rivista del TNP); la

rassegna stampa del FdA, organizzata in diversi metri lineari di dossier dal 1947.

Le riflessioni di questo lavoro si concentrano sul rapporto tra pubblico e FdA,

attingendo dalla selezione di materiali proposta nella tabella 1.

____________________

Tabella 1 - circa qui - ____________________

Tabella 1 – Il materiale utilizzato fonte: nostra elaborazione

In particolare, le indagini pubblicate tra il 2002 e il 2008 sono da considerarsi come

fonti secondarie (nella tabella 1 abbreviati come: PubReinv; PubPart; PubFois;

PubEdu), frutto di analisi condotte per quasi due decenni dal gruppo di ricerca del

Dipartimento di Scienze dell’Informazione e della Comunicazione dell’Università di

Avignone, composto da Emmanuel Ethis, Jean-Louis Fabiani e Damien Malinas. Gli

altri materiali rappresentano una selezione delle più recenti e significative ricostruzioni

storiche del FdA (VoixFdA; HistFdA; PontFdA; Pub2005). Inoltre, sono stati individuati

alcuni testi dedicati al “teatro popolare” e all’idea di politica culturale incentrata sul

“teatro come servizio pubblico” (in particolare: il saggio di Laurent Fleury, d’ora in

avanti abbreviato con TNP; i numerosi scritti curati dalla MJV e basati sul materiale

d’archivio con gli scritti del fondatore del Festival).

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Un profilo del pubblico del Festival di Avignone

Nel presentare il risultato delle loro inchieste sugli spettatori ad Avignone Ethis, Fabiani

e Malinas non mancano di precisare che la natura “longitudinale” della ricerca, basata

sulla durata del fenomeno osservato, permette di approcciare il permanere e il

trasformarsi dell’entità-pubblico del Festival. In termini operativi, le differenti

metodologie di raccolta dati utilizzate ad Avignone permettono di apprezzare diverse

dimensioni di analisi (fonte: PubPart, pp. 56 e 58): da un lato «il volano quantitativo

del lavoro [di misurazione] ci permette di attribuire [al fenomeno] una dimensione

sociale [tradizionale]»; dall’altro, «l’aspetto più qualitativo permette di riflettere su cosa

lo spettatore misura partecipando alla manifestazione». Per indagare l’effetto nostalgia

ci si soffermerà soprattutto sulla seconda dimensione. Tuttavia alcuni dati provenienti

dalle differenti indagini realizzate tra il 1996 e il 2008 evidenziano aspetti che verranno

affrontati in seguito. Per quanto riguarda i dati socio-demografici più significativi:

- la ripartizione tra uomini e donne (40-60) conserva una certa stabilità nel tempo; lo

stesso dicasi per la composizione per classi d’età (circa il 60%, 35-64 anni; 18% per

la fascia d’età 25-34 anni; 17% hanno meno di 25 anni);

- alcune professioni sono pressoché assenti (agricoltori e operai, nonché piccoli

artigiani e commercianti non arrivano al 3 per cento, nonostante la popolazione

francese corrisponda a circa il 20 per cento degli abitanti);

- altre professioni, per contro, da sempre caratterizzano la struttura del pubblico del

FdA (il 40 per cento del pubblico fa parte di “quadri e professioni intellettuali

superiori”; poco meno del 30 per cento sono “professioni intermedie”);

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- gli studenti sono circa un quinto del pubblico, con una netta maggioranza di studenti

universitari o legati alle professioni dello spettacolo (sia artistiche che tecniche);

- tutto ciò si collega al livello di studi che caratterizza il pubblico, visto che oltre il 60

per cento ha completato studi universitari;

- infine, poco meno di un quarto degli spettatori provengono dalla sfera locale

(Avignone e dintorni) e altrettanti da Parigi e Ile de France (dato rilevante vista la

centralità della regione parigina nel contesto francese), mentre poco oltre il 10 per

cento appartengono alla sfera regionale, oltre un terzo provengono da altre regioni

della Francia e gli stranieri sono meno del 10 per cento.

La “carriera” dello spettatore al FdA sembra cominciare abbastanza tardi: l’età media

della prima partecipazione è di 29 anni (fonte: PubPart, p. 69); le varie inchieste

evidenziano che ogni anno gli “iniziati” (gli spettatori che dichiarano di essere al loro

primo Festival) si aggirano attorno al 25 per cento.

Questi dati diventano più significativi se si considera la quota degli spettatori che ha

partecipato ad edizioni precedenti del Festival. Un grafico basato sui dati del 2001

(fonte: PubPart, p. 68) è piuttosto interessante: oltre i tre quarti del campione di

pubblico dell’edizione del 2001 ha partecipato anche l’anno precedente; circa il 70 per

cento era presente anche nel 1999 e quasi il 60 nel 1998; il dato è del 50 per cento con

riferimento al 1997; mentre circa un terzo, un quarto e un quinto del pubblico del 2001

era presente rispettivamente nel 1993, nel 1989 e nel 1986. Per inciso, è sorprendente

notare che, sempre nel 2001, l’1 per cento del pubblico intervistato era presente a

ciascuna delle edizioni del FdA dal 1949 al 1957. La serie storica presenta una

straordinaria “regolarità” tanto da evidenziare che la co-presenza generazionale

caratterizza a tutti gli effetti ogni edizione del FdA. Considerando il dato della “prima

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volta al Festival” e le informazioni di questa serie storica, è possibile ipotizzare un

“tasso di rinnovamento” del Festival che, da un’edizione all’altra, supera il 40 per cento.

Questa composizione del pubblico, ad ogni edizione, sembra produca una sorta di

“appiattimento/stabilizzazione” del numero delle presenze. A ben vedere, considerando

i posti a disposizione per ogni edizione del Festival (sommando In e Off, circa 500mila)

e il numero medio di spettacoli per ciascuno spettatore (circa 10,5 tra In e Off) si ottiene

un dato piuttosto attendibile: ogni anno le presenze si aggirano attorno ai 45-50mila

spettatori. Ciò che rende interessanti queste informazioni è il fatto che esse restituiscono

una rappresentazione piuttosto precisa della “dinamica”, della “mobilitazione” e, quindi,

della “fedeltà” del pubblico nel tempo.

Ethis (fonte: PubPart, cap. 4) e Malinas (fonte: PubFois, cap. 5) suggeriscono poi di

considerare un altro dato che emerge dalla loro inchiesta: il tasso di “estivazione”

(termine mutuato dalla zoologia) fornisce una informazione sul periodo di tempo che

intercorre tra due partecipazioni al FdA da parte dello stesso spettatore (il tasso sarà pari

a 1 se si ritorna ogni anno). Questo tasso dipende dagli indicatori evidenziati in

precedenza: il tasso di rinnovamento del pubblico è costante; vi è una forte regolarità

relativamente a coloro che ritornano ad Avignone; il tasso del “primo festival” è

praticamente costante; infine, il numero di presenze è piuttosto regolare. Per gli

spettatori del FdA i risultati sono impressionati: oltre 7,5 partecipazioni al Festival nella

loro “carriera” (tanto da produrre un “ritmo medio” di partecipazione pari a 0,125,

ipotizzando di considerare le prime 60 edizioni) e uno scarto medio di 8 anni tra una

partecipazione e l’altra (con un tasso di estivazione medio dello 0,14) (fonte: PubPart,

pp. 105-108).

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Il contesto di analisi: la storia del Festival di Avignone

Le figure 2a e 2b delineano le tappe salienti della storia del FdA. La divisione

cronologica ricalca quanto proposto nella mostra Avignon, un rêve que nous faisons

tous, organizzata nel 2003 dalla MJV (fonte: Cahier_87).

____________________

Figure 2a e 2b - circa qui - ____________________

Figura 2a e 2b – Le tappe principali della storia del FdA fonte: ns. elaborazione da Cahier_87, Cahier_91, HistFdA, Festival_1, Festival_2, Vilar2

Gli episodi individuati sono stati selezionati confrontando diversi materiali (fonte:

Cahier_91) a cominciare dalla mostra del 2003 e dalla successiva esposizione del 2004,

provocatoriamente intitolata Vilar? Connais pas (Vilar? Non lo conosco), pensata per

aprire il nuovo corso del FdA dopo i drammatici eventi legati all’annullamento

dell’estate precedente.

Il succedersi dei “papi” alla guida artistica del Festival (espressione evocata nella

mostra del 2003) suggerisce quella che può apparire come una comoda successione

cronologica nella lunga storia del Festival: la morte prematura di Vilar nel 1971; il ruolo

di “traghettatore” di Paul Puaux; i percorsi “manageriali” intrapresi dagli anni Ottanta

fino a tutti gli anni Novanta da Combecque e Faivre d’Arcier; la fase di “rinnovamento”

nel decennio più recente. Tuttavia, la storia del FdA è contrassegnata anche da alcuni

passaggi chiave in corrispondenza di eventi critici che saranno presenti nell’analisi

successiva.

Il “mito della fondazione” e della “identificazione” («un uomo, una compagnia, un

luogo: la Corte d’onore del Palazzo dei papi») si collega alla fase che molti osservatori

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hanno definito “l’età d’oro” del Festival (a cavallo della metà degli anni Cinquanta).

Nel periodo in cui si identificava artisticamente con il FdA, prendendo ad esempio la

stagione tra il settembre del 1953 e l’agosto del 1954, il TNP di Vilar lavorò a 294

rappresentazioni di 11 spettacoli, di cui 4 nuove produzioni, andate in scena in 45 spazi

diversi in 21 città di 8 paesi stranieri, in 16 città della provincia francese e in 8 della

periferia parigina, garantendo contemporaneamente il cartellone della stagione del

teatro di Chaillot (all’epoca sede del TNP) e la presenza ad Avignone. La troupe del

TNP, in quello stesso periodo, era composta da una ventina di attori, accompagnati da

12 tecnici e amministrativi in tournée; mentre a Chaillot l’equipe organizzativa era

composta da altre 12 persone tra dipendenti e collaboratori.

Il 1968 e il 2003, sebbene per motivi differenti, costituiscono invece dei veri e propri

casi di “dramma sociale” (Turner 1986), particolarmente significativi per indagare le

fratture nella relazione tra l’istituzione culturale e il suo pubblico (fonte: VoixFdA;

PontFdA). L’edizione del 2005, per contro, rappresenta il più classico degli “incidenti

rivelatori” (Stern 1998; Belk 2006; Belk et al. 2013), una situazione in cui emerge in

modo particolarmente evidente la natura del “patto fondativo” su cui si basa il FdA

(fonte: PubEdu; Pub2005): il “lavoro del pubblico” è quello di contribuire a quello

spazio di discussione che ad Avignone ha per oggetto il profondo legame tra politica e

cultura.

Oggi il FdA ha un budget che oscilla attorno ai dieci milioni di euro; una

programmazione ufficiale (del “Festival In”) di 40/50 spettacoli, con una parte

significativa dedicata alla produzione, in collaborazione con alcuni dei centri di

produzione e delle compagnie teatrali più importanti della scena contemporanea (v.

figura 2b). Nel mese di luglio Avignone diventa una delle capitali mondiali delle

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performing arts, dividendosi l’attestato con Edimburgo (che ad agosto presenta lo

sterminato calendario del “Festival Fringe” accanto al cartellone “istituzionale”

dell’Edinburgh International Festival-EIF): tremila tra artisti, tecnici e organizzatori; più

di cinquanta fotografi e quattrocento giornalisti accreditati; tra i 100 e i 120mila biglietti

venduti dal solo Festival In, di cui oltre 20mila ingressi per le compagnie e i

professionisti. Dal 1963 il “Festival Off”, modello di auto-organizzazione proposto

dagli operatori teatrali locali, costituisce un’enorme “fiera” (circa 400mila posti a

disposizione), con più di un migliaio di spettacoli messi in scena, in un centinaio di

location sparse in tutta la città (anche negli spazi più impensati), per quasi un migliaio

di rappresentazioni al giorno in circa un mese di repliche. Un cronista degli anni

Ottanta, nell’accostare Festival “In” e “Off” li definì come “due ruote della stessa

bicicletta” (fonte: PontFdA; HistFdA).

Laurent Fleury (fonte: TNP) ricorda che la formula originaria del teatro popolare

risaliva agli anni Venti del Novecento con la fondazione del TNP a Parigi, ma i suoi

valori e principi poggiavano le fondamenta direttamente negli ideali della Rivoluzione

francese (oggi l’istituzione culturale-TNP è localizzata a Villeurbanne, vicino Lione).

Le riflessioni di Vilar su centralità del pubblico, contemporaneità del teatro, teatro

pubblico ed esperienze di democratizzazione più che di decentramento culturale si

svilupparono lungo tutto il periodo tra il 1938 e il 1971. In una conferenza stampa del

1969, egli si esprimeva in questi termini sulla formula del teatro popolare:

«In definitiva, il miglior riconoscimento per Avignone è quello di avere aiutato, con l’esempio e la pratica, attraverso la perseveranza e, per dio, attraverso la creazione, a trasformare la nozione stessa di spettacolo, facendo in modo di agevolare la nascita e quindi l’espansione disinteressata, a gettare le basi stesse, di una cultura al servizio di tutti o, almeno, a disposizione di tutti. Forse – e non si dovrebbe temere di chiederselo – forse la creazione di una autentica cultura popolare costituisce una illusione romantica. Essa è mai esistita? Questo teatro comunitario che tutti o quasi tutti sogniamo, intendo dire questo teatro non a tutti i costi rivoluzionario o impulsivo, ma che naviga con sicurezza controcorrente rispetto alle abitudini,

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alle tradizioni comode ed ecumeniche, alle politiche correttamente fissate, ai diritti acquisiti, il teatro per il popolo, per il popolare, per il lavoratore delle città così come per quello delle periferie più isolate, questo teatro non è altro che una utopia necessaria? Non è che un ideale? Come l’uguaglianza? O la libertà? Nonostante questa visione apparentemente pessimista della nostra impresa noi non ci siamo mai arresi nel nostro agire di sempre. Noi continuiamo e continueremo». (Fonte: Vilar1; Vilar2; Festival_1; tratto da Le Théâtre, service public)

Loyer e de Baecque (fonte: HistFdA) evidenziano come in tutta Europa, in quegli stessi

anni del Novecento, si diffusero esperienze del tutto simili, richiamando valori per i

quali diversi altri uomini di teatro si stavano battendo: come nel caso del Volksbühne a

Berlino, che prese forma proprio attorno al 1920; o più tardi, nel 1947, l’esperienza del

Piccolo Teatro di Strehler e Grassi, fondamento di quello che sarebbe diventato il

modello produttivo italiano del “teatro stabile” (i contatti tra Vilar e Strehler furono

molto frequenti); mentre la Schaubühne di Berlino, sotto forma di teatro privato, risale a

circa un decennio dopo (Thomas Ostermeier, direttore artistico dell’istituzione berlinese

dal 1999, è stato artista associato al FdA nel 2004).

IL PUBBLICO DEL FESTIVAL DI AVIGNONE TRA RINNOVAMENTO

NOSTALGICO E PARTECIPAZIONE CULTURALE

L’esperienza nostalgica del pubblico nel segno del “teatro popolare”

Il gruppo di sociologi della cultura di Avignone (fonte: PubReinv; PubPart; PubFois)

negli ultimi anni ha concentrato l’attenzione su specifiche unità di analisi per

completare le indagini statistiche realizzare tra il 1996 e il 2008: il ruolo dei “nuovi

arrivati”, concentrandosi sulla “prima volta al Festival” (in maggioranza, ma non

esclusivamente, giovani spettatori); i “fedeli”, coloro che costituendo gli spettatori di

lungo corso sono anche la memoria attiva del Festival (e non sono solo i professionisti

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del settore che comunque sono presenti ad Avignone in modo “interessato”); la

dinamica istituzionale e quindi le logiche di cambiamento della formula stessa del

festival, messa in discussione in particolare nelle edizioni del 1968 e del 2003, sebbene

in modi e forme differenti; infine, il dialogo degli spettatori, il senso della

“controversia” e del dibattito pubblico che fin dalle sue origini caratterizzano il FdA e

che si manifesta in modo originale nel 2005.

Questi aspetti risultano particolarmente utili per interpretare il materiale raccolto in una

prospettiva di esperienza di consumo nostalgica in quanto ne permettono di rintracciare

le strutture principali. La tabella 2 riporta una selezione del materiale sotto forma di

interviste in profondità e “sociogrammi” di spettatori raccolti tra il 2003 e il 2006.

A diventare di particolare interesse non è tanto la dinamica sociologica in sé quanto

l’analisi delle “pratiche culturali” degli spettatori, un «repertorio che influenza l’azione

non fornendo valori ultimi ma plasmando […] la cassetta degli attrezzi di abitudini,

competenze (skills) e stili con i quali gli attori costruiscono strategie d’azione»

(Swindler 1986). In prima approssimazione, quindi, queste riflessioni si collegano al

tema dell’identità del pubblico del FdA coerentemente all’ipotesi di lavoro del

“rinnovamento nostalgico degli spettatori”: come sottolinea Emmanuel Ethis (fonte:

PubReinv), si potrebbe infatti pensare che, “per essere ad Avignone, bisogna aver voglia

di trovare il proprio posto” e che “per tornare ad Avignone, bisogna poterlo ritrovare”.

Per inciso, l’etimologia del termine scientifico nostalgia si collega proprio all’idea del

“doloroso ritorno a casa”. L’asserzione per la quale “il materiale di una esperienza

nostalgica è il passato”, per quanto apparentemente semplice, può però nascondere delle

ambiguità.

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____________________

Tabella 2 - circa qui - ____________________

Tabella 2 – Interviste e sociogrammi utilizzati nell’analisi fonte: ns. elaborazione da PubReinv, cap. IX; PubPart, cap. II e VI; PubFois, capp. 4-5-6

Significativo è quanto scriveva Vilar poche settimane prima della sua scomparsa, frasi

interpretate da più parti come un amaro “testamento” (fonte: HistFdA) o un “richiamo al

passato” (fonte: Festival_1; Vilar2) per quanti non riuscirono o non vollero intendere la

portata della sfida, strumentalizzando le rilevanti questioni che egli poneva sul tappeto o

confondendo l’idea del “teatro popolare”, il luogo della sua nascita ed evoluzione, e

quello della sua espressione:

«Molti hanno confuso la missione di Avignone e la missione del TNP, e naturalmente hanno unito a questa confusione le idee politiche che essi stessi mi attribuivano – conservatrici o rivoluzionarie – o che avrei espresso più o meno chiaramente. Che cosa è il TNP? E’ un teatro politico o, invero, un teatro impegnato in tutti i tipi di querelle, dal 1951 al 1963. E questo, al di là di quali fossero le opere scelte, siano esse le più antiche, siano esse le più classiche e certamente non meno politicamente attuali […] rispetto alle più moderne […]. Cos’è e cos’era, al contrario, Avignone? Un luogo di incontri pacifici, di riflessione, di ricerca di un pubblico unito in una società evidentemente divisa. Un luogo di confronto tanto di idee quanto di stili, di ideologie e di morali. Da quindici anni dico che la teoria fondamentale consistente a lasciare intendere che la rivoluzione efficace arrivi attraverso il teatro non è solamente falsa, non solo è una sciocchezza, ma è una ipocrisia. La mia teoria, la mia ideologia, il mio lavoro erano, lo confesso, più modesti, ma anche molto più efficaci. L’ho già formulato in modo simile: svegliare, provocare, sviluppare, aguzzare la riflessione degli spettatori delle classi lavorative» (fonte: Théâtre Service Public, ripreso in Festival_1; Vilar2).

In realtà, Vilar mise continuamente in guarda dai rischi dell’utilizzo improprio del

“materiale del passato”, in un qualche riconducibili alle principali fonti di ambiguità che

tale atteggiamento poteva nascondere. Ad esempio, Loyer e de Baeque (fonte: HistFdA,

cap. 4) richiamano la querelle che vide coinvolti critica teatrale, artisti e intellettuali

della sinistra francese dell’epoca sulla marginalità “estetica” e “politica” che,

nonostante l’enorme successo di pubblico, sembrava stesse colpendo la poetica del

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“teatro popolare” tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Al FdA

e al TNP (in quel periodo entrambi sotto la gestione di Vilar) si imputava di aver creato

“un nuovo stile di teatro” che già in quel periodo non sembrava più in grado di

rappresentare la realtà con la stessa coerenza “politica” del “nuovo teatro” dell’epoca,

come nel caso della “rivoluzione brechtiana” in corso (il Berliner Ensemble si trasferì

nella sua nuova sede nel 1954 e Brecht morì due anni dopo). Famosa fu poi la polemica

con Jean Pual Sartre che nel 1955 affermava senza mezze misure che “il TNP non ha un

pubblico popolare, [inteso come] un pubblico operaio” (fonte: Cahier_97; HistFdA). A

ben vedere, in quegli stessi anni Vilar si stava preparando a diventare uno dei più grandi

interpreti dell’opera di Brecht.

La nostalgia usa il passato, il quale può essere evocato anche impropriamente, con

assoluta precisione o ricostruito in modo specifico, ma non è il prodotto dello stesso. In

questo caso le origini del “teatro popolare” venivano evocate a distanza di pochi anni

dalla concreta manifestazione della sua poetica per semplificare le posizioni di Vilar in

una contrapposizione di fatto inesistente: «[l’uno] vede il teatro come servizio pubblico

al servizio di una comunità riconciliata; [gli altri, i “brechtiani”] lo percepiscono come

un mezzo di emancipazione politica mettendo in scena una società divisa» (fonte:

HistFdA, p. 153). La nostalgia, invece, diventa una interessante chiave di lettura non già

delle realtà “passate” (vicine o lontane che siano) ma sugli stati d’animo del “presente”.

In primo luogo, quindi, sostenere che il materiale nostalgico derivi dal passato vissuto

personalmente da uno spettatore del Festival non significa sostenere che il passato

“causi” o “spieghi” l’attuale senso di nostalgia. In altri termini, il vissuto passato non è

la fonte motivazionale o la circostanza di innesco per una qualunque esperienza

nostalgica che invece dovrà necessariamente essere collocata nel “presente”: come

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sottolinea Davis (1979) «on the contrary, since our awareness of the past, our

summoning of it, our very knowledge that it is past, can be nothing other than present

experience, what occasions us to feel nostagia must also reside in the present, regardless

of how much the ensuing nostalgic experience may draw its sustenance from our

memory of the past» (p. 9).

Un altro aspetto controverso va superato: “quanto lontano deve essere il passato prima

che possa essere vissuto come tale?”. Nel caso delle ricerche di consumer behavior,

Belk (1990) evidenzia come il concetto di “tempo vissuto” (o di “durata”) possa

risultare più utile per comprendere la nostalgia. A tal proposito Davis (1979) sottolinea

che: «the ability to feel nostalgia for events in our past has less (although clearly

something) to do with how recent or distant these events are than with the way they

contrast – or, more accurately, the way we make them contrast – with the events,

moods, and dispositions of our present circumstances» (p. 12).

Infine, è lecito domandarsi fino a che punto sia possibile “sentire nostalgia per il

futuro”. La caratteristica distintiva della nostalgia legata allo “sguardo all’indietro” si

mantiene anche in termini di “proiezione in avanti” di uno stato di cose che non si è

ancora realizzato. Nel caso dei processi di produzione culturale il concetto di

“aspettativa” assume un significato molto preciso: è una continua ricerca di conferme

basate sull’immaginare che qualcosa che è ragionevole certamente si realizzerà. Per il

pubblico del FdA questo aspetto permette di considerare il fenomeno della trasmissione

culturale e dei processi di apprendimento legati alle esperienze culturali in termini di

“continuità culturale tra generazioni”: secondo Davis (1979), ciò suggerisce che «such

future imaginings of “conventionalized pasts” attest to some hidden facility of nostalgia

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to “feel forward” in time in much the same fashion as it “feels backward” would be to

falsify a key attribute of the experience» (p. 13).

Nostalgia esistenziale. La donna dell’intervista #01 (tabella 2, fonte: PubPart, p. 159)

ha poco più di quaranta anni, lavora nel settore pubblico e vive ad Avignone, tanto che

la sua presenza al Festival è fortemente radicata nel tempo: come suggerito da Belk

(1988, 1990), in questo caso il significato che attribuisce alla sua esperienza è legato

all’idea di festa, agli oggetti e alle persone del teatro di strada, alla pratica teatrale del

fratello che le ha permesso di vivere dall’interno le sensazioni che descrive, proiettando

se stessa in quegli spazi e in quel tempo passato:

D: «Quando è venuta per la prima volta al Festival?» R: «Ah beh, frequento il Festival fin dalla mia infanzia, sono nata qui, l’adoravo… fin da quando ero piccina, fin quasi dai suoi inizi visto che sono nata nel 1962, almeno credo… Ma forse il Festival esiste da più tempo, fin dagli anni Quaranta. Diciamo che ci vengo da quando sono in grado di capire un po’… Tanto che oggi posso dire di trovare l’atmosfera nettamente degradata, l’idea di festa è venuta meno: ogni anno le persone di Avignone ne parlano, ma quest’anno sembra che la questione sia ancora più presente. E questo è un peccato perché una volta c’erano molti più spettacoli di strada e credo che in generale questo sia un segnale importante: dava colore all’ambiente, lo rendeva più musicale, veniva voglia di partecipare alla festa. [Parlando del fratello che ha fatto uno spettacolo al Festival] C’era tutto questo nello spettacolo, era una commedia musicale in cui c’era una storia intervallata con scene al ritmo di Salsa, di danza Africana con dei ballerini e delle ballerine cubani, con ballerini africani; inoltre, si era deciso di fare ogni giorno una sfilata, in due riprese, una alle 18 e un’altra allo scoccare delle 22. Solo che alle 22 ci fu impedito di sfilare e di suonare i djembe: trovo questo tipo di divieti molto tristi anche se si invoca il diritto alla calma dei residenti. Capisco che tutto ciò possa disturbare, ma sono solo tre settimane in un anno [durata media del Festival In]. Eventualmente può avere senso nelle stradine come rue Carreterie o nei quartieri come attorno a rue Saint-Agricol, zone popolari, effettivamente abitate anche da persone anziane [sorride]. Ma in Place de l’horloge… prima lì c’era ogni genere di persone, un mondo folle, brulicante di pittori e artisti. Se provi a passare ora per place de l’Horloge ci trovi i pittori con le braccia incrociate: si tocca con mano la crisi finanziaria?»

Nel caso del pubblico del FdA, il racconto delle modalità con cui avviene la

trasmissione culturale permette di comprendere come valori e ideali sono recepiti per un

tempo che è strettamente connesso a quello delle proprie esperienze. In questa

testimonianza, il senso di “continuità rassicurante” (Goulding 2001) è dato da

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quell’atmosfera di festa in assenza della quale viene meno lo spirito che dovrebbe

guidare lo stare assieme. Quando assume il ruolo di cittadina di Avignone, il distacco

dell’intervistata diventa anche maggiore: quegli stessi luoghi del passato vengono riletti

alla luce di regole di comportamento che vengono considerate assurde durante quelle

“tre settimane in un anno”, in una città che nel suo ricordo doveva essere un

palcoscenico a cielo aperto. Emerge, inoltre, un senso profondo di disillusione in merito

all’idea di “accessibilità” agli spettacoli e ai luoghi della rappresentazione (il costo dei

biglietti nel Festival In; la “mercificazione” di ogni angolo della città nel caso del

Festival Off):

R.: «Non lo so, ma penso si tratti di un circolo vizioso: una volta, quando gli spettacoli erano più accessibili, costavano meno, questi pittori lavoravano di più… tutto ciò farebbe ancora più atmosfera, le terrazze dei caffè sarebbero più popolate di quanto già non lo siano… tutto va di pari passo… ma nel momento in cui si va a vedere uno spettacolo che costa 19 euro, io stessa lunedì sono stata a vedere uno spettacolo a 19 euro, beh, mi spiace, ma è difficile poterne vedere più di tre durante il Festival. Lo stesso vale per il costo sempre più caro delle sale… [riferendosi in particolare al Festival Off]: nel 1999 la meno costosa delle sale costava 20mila franchi. Per una compagnia sconosciuta che va lì solo per il piacere di stare tra amici e di mettere in scena qualcosa, ciò significa dedicare buona parte del budget all’affitto della sala senza avere alcuna certezza di rientrare dalle spese con i biglietti venduti. Trovo sia un peccato, perché tutto questo dovrebbe riguardare lo spirito di… di comunicare, di dialogare… ed è un dialogo a ben vedere con la gente, di raccontarsi storie, lasciare libero sfogo all’immaginazione di ciascuno, il tutto fatto assieme lungo tutto un mese [la durata del Festival Off]. Ma a questi prezzi… solo con un budget dedicato cospicuo poche persone potranno aprirsi a questo modo di fare cultura […]. Sarò un po’ pessimista, ma è la mia visione delle cose» (fonte: intervista #01, PubPart, p. 160).

La nostalgia esistenziale (collegata a quella che Christina Goulding definisce come

simple nostalgia, 2001) è riconducibile ad una sensazione piacevole o comunque

positiva derivante dal ricordo di un vissuto passato visto alla luce di alcune sensazioni

negative nei confronti del presente o di situazioni imminenti. Nel confrontare presente e

passato vi è una costante, rappresentata dal fatto che il passato viene rievocato con

l’aura di un tempo “quasi sacralizzato”. Questo tipo di nostalgia si manifesta in un

desiderio di ritorno ad uno stato di cose considerato preferibile o migliore pur

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riconoscendo che questa operazione è impossibile. Il breve viaggio a ritroso nel tempo

offerto dal patrimonio di esperienze passate o da una tradizione più o meno codificata

permette in sostanza l’opportunità di un temporaneo distacco dal presente.

Nostalgia estetica. Il caso del “disertore” (Sociog.#05, tabella 2; fonte: PubPart, p. 45)

presenta, invece, i tratti tipici della vicarious nostalgia (Goulding 2001) basata su parole

e azioni dal contenuto “estetico” (figura 1): uno spettatore che presenta un forte senso di

identificazione con figure o movimenti di altre epoche, una sorta di affiliazione col

passato o con periodi che vengono giudicati “esteticamente” o “intellettualmente”

superiori rispetto al presente.

Durante l’intervista lo spettatore dichiara che lascerà Avignone il 14 luglio, “per non

rimetterci mai più piede”; salvo dichiarare di tornare giusto nel 2006, edizione che

senza dubbio rappresenterà la sua ultima volta al Festival. Avrebbe già smesso, ma due

anni dopo l’artista associato del FdA sarebbe stato Josef Nadj (v. figura 2b), coreografo

originario della Voivodina che ha imparato ad apprezzare frequentando il teatro che

l’artista dirige da qualche anno. Presente ad Avignone fin dal 1968, questo “disertore

annunciato” restava per l’intera durata del Festival, sperimentando ogni forma

sistemazione: dal camping sull’isola della Barthelasse (enorme lingua di terra

all’interno dell’ansa che il fiume Rodano forma proprio all’altezza delle mura della

città); all’appartamento in un paesino sull’altra sponda del grande fiume, ospite di una

istitutrice «neanche troppo pulita», ma che a suo dire si era invaghita di lui.

Quell’anno si sarebbe trattenuto giusto un paio di giorni al Cloître Saint-Louis,

lasciando intendere che la comodità di condividere il cortile con l’edificio in cui ha sede

il Festival e il servizio impersonale del vicino albergo a quattro stelle non facevano che

acuire il senso di distacco di cui era pervaso. Rispetto alle sistemazioni di fortuna del

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passato, oggi poteva permettersi di alloggiare nell’albergo che regolarmente ospita molti

degli artisti del Festival.

In questo caso, l’idea di “alienazione” va ricondotta allo specifico contesto sociale del

FdA: le relazioni che oggi si manifestano negli spazi di Cloître Saint-Louis alimentano

il ricordo di una forza sociale e collettiva rappresentata dal pubblico di Avignone; un

pubblico i cui legami il “futuro disertore” ammette esistessero in un romantico passato,

ma che oggi egli dichiara di non riuscire più a percepire o distinguere.

In gioventù, figlio della buona borghesia di Saint-Etienne, aveva abbandonato gli studi

universitari subito dopo il 1968 per diventare un militante politico del partito comunista;

lasciate le funzioni pubbliche esercitate per il partito socialista nel suo Dipartimento,

oggi lavora a Parigi con il cognato, in una società di revisione.

La moglie è una psicanalista che, dal canto suo, fin dal 2003 aveva confermato i buoni

propositi di abbandono: «il Festival era una cerimonia» afferma «mentre oggi è

diventato il regno dell’idiozia, della volgarità, della promiscuità». E’ dalla metà degli

anni Novanta che ha dei «seri dubbi sulla natura del Festival» emettendo

immancabilmente il suo giudizio: «Il mito del decentramento culturale è morto. Il

quadro brechtiano che a lungo ha dominato la messa in scena è completamente avariato.

Il denominatore comune oggi è la trasgressione, è fare i propri bisogni sulla scena e

affermare che questa è arte [il riferimento è ad uno spettacolo di Jan Fabre]».

Rispetto ai nostalgici esistenzialisti, in cui il vuoto identitario viene visto come il

risultato del declino dell’autonomia individuale e del senso di perdita del concetto

stesso di sociale, di legame comunitario; il nostalgico estetico lamenta una sorta di

eccesso di intrusione nelle sfere individuali, alimentato ad esempio da tecnologie della

comunicazione tanto complesse da rendere impersonali le interazioni sociali e

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potenzialmente capaci di pervadere e danneggiare l’essenza stessa della vita di

ciascuno. Nell’intervista ai sociologi di Avignone assicura che non è lui ad essere

cambiato, ma il FdA, tanto che dichiara apertamente di preferire il Festival di

Edimburgo e di aver scoperto una certa passione per l’opera. Ricordando la qualità e

l’intensità dei dibattiti che avevano luogo al FdA in passato, termina l’intervista

affermando che «oggi, inoltre, ci sono troppi sociologi, o quanto meno troppa gente che

parla sempre di problemi sociali. In fondo», afferma «queste cose voi studiosi le sapete

già, ma non ne parlate, perché avete mani e piedi legati di fronte alle istituzioni».

Terminata l’intervista, il “disertore di Avignone” si dirige verso il parcheggio degli

Italiani, appena fuori le mura della città, l’unico disponibile nei giorni caotici del

Festival, per recuperare la sua potente auto tedesca.

La comunità del Festival di Avignone: il teatro popolare come azione politica

Secondo Brown et al. (2003) alcuni temi legati alle comunità di consumatori

caratterizzano in modo esemplare le forze sociali e culturali che animano la nascita e la

diffusione di una idea o di una pratica radicate nella tradizione e nel passato: la storia di

un brand; il senso di comunità dei consumatori; i valori autentici della comunità; i

paradossi di significato.

Il concetto di teatro popolare possiede una tradizione artistica e un tale radicamento

nella storia della cultura da fornire al pubblico la possibilità di scambiarsi racconti ed

esperienze che valorizzano un patrimonio culturale cui il pubblico attinge e che esso

stesso contribuisce a (ri)produrre. In secondo luogo, generare e condividere la poetica

del teatro popolare si collega al fatto che una comunità di spettatori ne riconosce le

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concrete manifestazioni attribuendole un valore simbolico meritevole non solo di essere

conservato o comunque ricordato ma di essere tramandato nell’azione, nella pratica.

I valori condivisi del teatro popolare lo rendendolo perfettamente circoscritto,

identificabile, specifico e unico per i membri di una comunità epistemica (Knorr-Cetina

1999) che ne riconoscono le caratteristiche “organizzative” del processo creativo e

attribuiscono importanza al fatto di avere accesso ad una concreta sperimentazione

culturale. Infine, la contemporanea presenza di “vecchio e nuovo”, di “passato e futuro”

le controversie e paradossi di significato che si possono generare nella traduzione del

concetto di teatro popolare hanno il compito fondamentale di segnarne i possibili

percorsi evolutivi e di alimentarne tanto il mito quanto il cambiamento.

Il senso del dibattito pubblico (storie dalla comunità). I principali elementi culturali e di

significato di una comunità sono le tradizioni e i rituali condivisi (Muñiz, O’Guinn

2001; McAlexander et al. 2002). Al FdA questi si declinano in termini di percezione

estetica delle opere e di dibattito pubblico incentrato non esclusivamente sullo

spettacolo teatrale ma, tramite questo, sul rapporto tra politica e cultura.

I racconti di una signora di circa sessanta anni (fonte: Interv. #08), a cominciare dal suo

episodio di iniziazione, sono piuttosto indicativi e ricorrono spesso tra il pubblico del

FdA: «Era il 1974 o il 1975. Avevo una ventina d’anni e sono andata a vedere alcuni

spettacoli dell’Off per sentire l’ambiente, respirare l’atmosfera. Eravamo una piccola

troupe e avevamo bisogno di vedere cosa si faceva in giro. Abbiamo assistito agli

spettacoli di strada e a qualche Off. Ci siamo fermati presto per mancanza di mezzi

economici!». Oggi ha l’abitudine di invitare i suoi amici in occasione del suo

compleanno che si celebra il 24 luglio, durante il Festival: «[L’ultima volta] ho invitato

una sessantina di amici. Alcune sono persone molto semplici, e non vanno mai a teatro.

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Ho portato tutti quanti a vedere uno spettacolo! E’ stato davvero un gran momento.

L’evento dell’anno!». Stimolata a ricordare una situazione che l’ha segnata in modo

particolare, riferisce della festa di compleanno per i suoi 50 anni e dello spettacolo che

aveva visto con gli amici in quella occasione, uno dei tanti dell’Off, ma di cui rammenta

perfettamente il titolo, Au bord de l’eau:

«Fu molto significativo. Non è uno spettacolo molto pesante, nel senso di complicato e profondo, ma è sottile e divertente. Ci ha dato molte emozioni. Non cerchiamo una sola cosa a teatro, come nella musica, cerchiamo aspetti diversi. Abbiamo bisogno di tutti i tipi di musica! Questo “piccolo” spettacolo è stato molto forte per me, più ancora che l’Ostermeier nella Corte d’onore, che ho perfettamente compreso e apprezzato, ma che non mi ha toccato. Voleva essere agitatore, è risultato pesante. Non ho neppure potuto apprezzare fino in fondo la bellezza della lingua tedesca. Si deve sentire uno spettacolo nella lingua originale. Non sono riuscita ad appassionarmi!»

Nella storia di Thomas e Stéphanie è possibile apprezzare, nella sua forma più

emblematica, il formarsi di un legame mediato da una esperienza condivisa (lo specifico

spettacolo teatrale) e la costruzione collettiva di un patrimonio culturale attraverso il

continuo confronto e la “controversia”.

Thomas e Stéphanie (Sociog.#01; fonte: PubPart, p. 40) si incontrarono alla cava di

Boulbon in occasione del Mahabharata di Peter Brook. Uno spettacolo «rimasto

insuperato», della durata di nove ore e che permise loro di trascorrere una intera notte

assieme, davanti «a degli attori straordinari impegnati a rifare il mondo davanti a noi,

per noi». I due terminarono la loro lunga notte di teatro con la promessa di rivedersi alla

fine del Festival per programmare assieme un viaggio in India, per prolungare così

l’emozione della loro più bella notte avignonese. A ben vedere, Thomas e Stéphanie

non rispettarono la promessa: a partire dal giorno dopo, infatti, furono inseparabili

compagni di una viaggio iniziato ben prima di quanto prospettato e che doveva passare

per una decisione ancora più impegnativa come il matrimonio:

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«Per noi il Festival aveva funzionato meglio di un qualunque club di incontri per single alla ricerca dell’anima gemella. Pensavamo che non occorresse altro tempo per decidere di stare assieme. Tutto ciò ci risultava molto logico e naturale. Ci pensavamo più legati l’uno all’altra di una qualunque altra coppia perché il nostro incontro era avvenuto nel segno di una favolosa opera teatrale. E’ un po’ come se il fatto di esserci emozionati assieme per l’epopea di Brook valesse molto più di lunghi mesi di frequentazioni».

Thomas e Stéphanie avevano sperimentato il potere “aggregante” di una esperienza

vissuta nel nome di una emozione condivisa. Dopo dieci mesi di perfetto idillio

l’edizione del Festival del 1986, questa volta frequentato in coppia sin dall’inizio,

cominciò a minare le certezze di Thomas e Stéphanie. Superata indenne la messa in

scena di Alfredo Arias de La tempesta, galeotta fu la lettura teatrale de L’uso della

parola di Nathalie Serraute: cominciavano ad emergere le prime discordanze sui rispetti

metri di giudizio. Quattro anni dopo maturò la rottura definitiva con Sogno di una notte

di mezza estate, proprio alla cava di Boulbon: «a mala pena riuscivamo a sopportare il

fatto di essere seduti l’uno accanto all’altra». Il divorzio si consumò nel settembre dello

stesso anno. Thomas, retrospettivamente, fornisce una interessante ricostruzione

dell’esperienza con Stéphanie:

«Il Mahabharata era un’opera fin troppo consensuale, conciliante per giustificare il fatto di innamorarsi di una persona che l’aveva amata nello stesso modo. Sono convinto che l’emozione culturale e quella dell’amore siano sentimenti intimamente collegati ma alla sola condizione che tutto avvenga su opere e situazioni che dividono il pubblico: se in una situazione di divisione e di contrapposizione tu e lei siete dalla stessa parte, beh allora c’è quasi il 100 per cento delle probabilità che la tua storia possa durare a lungo. Ecco come bisogna vivere il Festival oggi»

Thomas e Stéphanie non si sono mai più risposati. Ma la mattina precedente la loro

intervista con il sociologico di Avignone si sono ritrovati «per caso, alla biglietteria del

Festival […] e, incredibile coincidenza, l’uno e l’altra erano là nella speranza di trovare

un posto per Sisme Banzi est mort». Era lo spettacolo che Peter Brook avrebbe

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presentato all’edizione del 2006 del FdA.

Il FdA ha saputo captare e formare il pubblico attraverso un processo che Ethis

definisce di “rinnovamento nostalgico” (fonte: PubReinv). In ciò si esprime questa

tensione permanente da parte del pubblico sugli obiettivi stessi dell’istituzione culturale.

Questo accadeva negli incontri con gli spettatori al giardino di Urbano V (nei primi anni

del Festival); e in quelli più istituzionali che, tra il 1964 e il 1970, videro impegnati tutti

gli attori della politica culturale francese dell’epoca. Ed è ciò che accade tuttora: è

sufficiente partecipare ai quotidiani e animatissimi incontri con gli artisti o all’attesa

conferenza stampa di chiusura del FdA per osservare il pubblico “in azione”. Evocare,

ad esempio, la “profezia apocalittica” della morte del “vero teatro” o la minaccia che

pesa sulla natura del Festival, esprimere il disaccordo sui mezzi che il Festival utilizza

per raggiungere i propri obiettivi è condizione necessaria per la sua stessa riuscita.

Esiste un “patto fondativo” ad Avignone:

«tutto porta a credere che non sia stato radicalmente modificato nel corso del tempo: esprimere inquietudine sulla continuità del patto costituisce, per un paradosso solo apparente, un modo per riattivare il patto stesso. Avignone è lo spettacolo che si associa al dibattito: parlare dello spettacolo è parte integrante dello spettacolo stesso. Ma se l’espressione pubblica ad Avignone ha subito, nel corso del tempo, delle modifiche; ebbene queste sono state più congiunturali che strutturali. Talvolta gli organizzatori del Festival hanno preso le distanze dallo spazio di discussione che lo stesso Vilar aveva aperto; ma gli stessi organizzatori difficilmente esitano a mobilitare l’opinione del pubblico del Festival, anche la più critica, quando sentono che ve n’è necessità» (fonte: Pub2005).

Sebbene la sua storia abbia presentato momenti di gran lunga più drammatici, l’edizione

del 2005 del FdA può essere considerata come un episodio emblematico in tal senso.

Nell’editoriale che accompagnava il programma ufficiale del 2005 si leggeva:

«[questi artisti] interrogano, attraverso le loro creazioni, la nostra qualità di esseri umani nella sua dimensione spirituale e animale. [Essi] interpellano la relazione che intratteniamo con i nostri corpi, i nostri sogni e i nostri fantasmi, il nostro rapporto con la bellezza ma anche con la violenza che spesso coabitano in noi, il nostro rapporto con la scienza, con i nostri limiti e con la legge, il nostro bisogno di credere e di amare. […] Il corpo e la parola sono le materie prime di

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questi artisti del teatro e della danza […]».

Sfogliando la voluminosa rassegna stampa di quella edizione (fonte: HistFdA, p. 540),

gli spettacoli presentati nel cartellone ufficiale del FdA avevano profondamente diviso

l’opinione pubblica (spettatori e critica) a causa del linguaggio e della tecnica (teatrale)

utilizzati e della conseguente difficoltà di comprensione dei messaggi. Nei casi più

estremi, come nella “diatriba” tra Le Figaro (un vero e proprio “caso nel caso”) e Jan

Fabre (l’artista associato di quella edizione), le critiche erano riconducibili all’assenza

di un testo teatrale propriamente detto, all’uso eccessivo dell’immagine (a volte dai

contenuti definiti “forti”) e, più in generale, veniva messa in discussione la formula del

Festival e le scelte dei suoi due direttori. Banu e Tackels (fonte: Pub2005) in seguito

sottolinearono come non fosse possibile identificare un’unica corrente estetica

nell’ambito delle differenti esperienze artistiche che Jan Fabre propose ad Avignone.

Il dibattito sul “caso Avignone 2005” poteva essere ricondotto ad una delle analogie che

più spesso sono evocate per il Festival (fonte: HistFdA; VoixFdA). Nella sua indagine

sull’arte politica della tragedia greca, Christian Meier (2000) si domanda: «se l’arte di

Eschilo, di Sofocle e poi anche di Euripide era così fortemente politica o, più

esattamente, rivolta ai più profondi problemi della cittadinanza attiva e alla struttura

intellettuale della sua politica - come si spiega allora che essa possa avere ancora su di

noi un effetto così vivo e forte? Che si sembri “classica”? Qualunque cosa quest’arte

abbia significato per i Greci, non siamo costretti a saperlo per averne accesso, per

comprenderla, e per goderne esteticamente». Come sottolinea Fleury (fonte: TNP, p.

120-121), per molti osservatori il senso “politico” che Vilar attribuiva al “teatro

popolare”, fin quasi a considerare l’espressione stessa un pleonasmo, aveva molto in

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comune con il gioco cerimoniale e collettivo della tragedia nella polis ateniese del V

secolo. In Théâtre, service public (cfr.: Vilar1; Vilar2; Festival_1; Festival_2), Vilar

stesso si domandava: «Poiché non vi è più una identità comune, nel momento in cui

dominano le divisioni, come ritrovare a teatro, specchio dei suoi tempi, il senso della

cerimonia e della comunione?». La risposta di Vilar a questo dilemma rappresenta

l’essenza del teatro popolare: un teatro rivolto non già ad un pubblico particolare o di

una specifica classe sociale, ma destinato a quanti trovavano “cittadinanza” nella

comunità di Avignone.

Trasmettere una fede (idealizzare la comunità). In questo scritto, uno dei suoi testi più

citati, Vilar declina le caratteristiche del suo “strumento” di trasmissione della politica

culturale racchiusa nel concetto di teatro popolare:

«Invano riuscirete a strapparmi una teoria, una formula espressa in qualche aforisma, una logica razionale che possano spiegare quello che fu il nostro modo di lavorare. Se ce ne fu uno, non sono capace di esplicitarne le leggi, di redigerne i principi. […] A cosa serve la messa in scena? [Ad Avignone come al TNP] ho sempre cercato e cercherò sempre di assassinarla. Attraverso quali armi segrete o convenzionali? Ma nella maniera più semplice: rendendo una totale libertà all’attore nella ricerca del suo personaggio. […] Libertà di ricerca, libertà di creazione all’interprete, dunque, ma anche al maestro delle luci. Il quale assiste a tutte le prove sul palcoscenico ma anche a quelle sulla “lettura” del testo. Libertà al disegnatore dei costumi o al decoratore delle scene, al costruttore delle stesse, ma anche all’assistente alla regia che dirige le comparse e i figuranti. Libertà, infine, al compositore delle musiche. Libertà a chi ancora? All’autore? Al traduttore, o all’adattatore (se l’autore è morto)? Ebbene, per quanto concerne la costruzione dell’opera, e dunque la costruzione del testo drammatico, del testo per il teatro noi siamo tenuti a delle leggi ferree ma sconosciute: la libertà non esiste più. L’autore e il suo servitore (il regista) non possono e non devono agire in libertà. L’opera comanda ed è alle sue oscure costrizioni, comunque tutte da scoprire, che bisogna rispondere. La legge inevitabile del teatro è: “Essere compresi”. E comprendere la lezione d’insieme [del testo drammatico e spettacolare] è più importante del senso letterale». (fonte: “Bref”, n. 46, maggio 1961).

Le basi rituali dei processi di consumo, attraverso cui il consumatore sacralizza e

desacralizza le dimensioni delle proprie esperienze (Belk et al. 1989), hanno funzioni

precise all’interno della comunità (McAlexander et al. 2002). Nel passaggio precedente

Vilar sintetizzava l’essenza della poetica del teatro popolare con l’esigenza di una patto

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costitutivo tra artista e pubblico. In questa logica il “palinsesto” del Festival del 2005

esplorava una “storia” in cui, come suggerisce Jean-Louis Fabiani (fonte: PubEdu, p.

81), il pubblico vedeva tradita una fondamentale funzione di preservazione della

comunità definibile in termini di responsabilità morale che i membri provano nei

confronti dell’ideale dell’inclusione culturale e della comprensione estetica (Muñiz,

O’Guinn 2001). Il FdA sembrava, cioè, venire meno a quel necessario ruolo di garanzia

che da sempre era chiamato a svolgere attraverso quell’intenso lavoro istituzionale di

mediazione all’interno del settore della cultura.

Fabiani (fonte: PubEdu) in particolare ha preso in considerazione i dibattiti pubblici

organizzati ad Avignone dal CEMEA (Centro di Esercitazione ai Modelli

dell’Educazione Attiva, organismo internazionale storicamente presente al FdA, fonte:

HistFdA, cap. 4). Intervenendo ad uno degli incontri in presenza di Jan Fabre, Marie-

Françoise si rivolse direttamente ai responsabili del Festival: «noi tutti [spettatori qui

presenti] siamo degli animali coraggiosi», domandandosi poi fino a che punto si

potevano accettare quelle novità per un pubblico già disorientato per una proposta

culturale che sembra voltare le spalle ad una lunga esperienza di teatro di testo (fonte:

PubPart, p. 47). Marie-Françoise ha circa cinquanta anni e vive da sola a Digione, dove

è impegnata nel sociale. Il teatro è di gran lunga il suo divertimento preferito ed ha

imparato ad apprezzarlo e a “viverne in modo nuovo la dimensione collettiva” proprio

frequentando i CEMEA: nel 2005 era al suo dodicesimo FdA ed oggi continua a

frequentare i dibattiti del CEMEA soprattutto perché le ricordano la sua gioventù e

forse, come sembra trasparire dall’intervista con i sociologi di Avignone, un periodo

della sua vita meno solitario. Trova l’immagine dell’animale coraggioso

particolarmente calzante per descrivere il suo sentimento di partecipazione: ripone

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totale fiducia negli organizzatori e negli artisti in quanto, se presentano il loro lavoro ad

un pubblico, frutto di enormi sforzi creativi, è perché lo rispettano. E il «rispetto del

lavoro degli uni e degli altri», afferma, «è il primo imperativo». Marie-Françoise tende

infatti a pensare che se uno spettacolo non è piaciuto ciò può dipende in primo luogo dal

fatto che lo spettatore non ne ha compreso il significato. Non sono tanto la nudità in

scena o le immagini più o meno cupe e cruente a scioccarla: piuttosto si interroga sul

«pessimismo che è calato sulle ultime edizioni del festival» e che ammette non essere

«troppo lontano dalla vita reale»; ma ciò che spera per il 2006 e per le edizioni

successive, pur conservando lo spirito “audace e di rottura” degli spettacoli, è che le

diano delle reali ragioni di speranza.

Fabiani (fonte: PubEdu, cap. 9) non manca di sottolineare che i dibattiti del CEMEA

illustrano questa tensione tra “le scelte individuali e l’impegno collettivo” (Fournier

1998): lo spazio pubblico specifico che il dibattito ridefinisce permette di risolvere

almeno in parte le contradizioni che sorgono tra lo spettatore (al di là dello specifico

ruolo che interpreta all’interno della comunità del pubblico del Festival) e le istituzioni

(in primo luogo il Festival stesso, ma non solo), ma anche tra lo spettatore e l’artista

(con il rispettivo ruolo che entrambi hanno nella vita culturale), tra la sfera privata di

ciascuno dei due e l’incertezza degli umori collettivi che si producono in un Festival

estivo en plein air (Fournier 1998; McAlexander et al. 2002).

La partecipazione culturale e il senso del dovere tra i membri della comunità si

manifestano al FdA anche in forme piuttosto anomale: è il caso di due vere “istituzioni”

come la donna dai capelli brizzolati della Civette (il bar in place de l’Horloge da sempre

luogo di ritrovo dei festivalieri) e Ingrid, una simpatica signora belga che vive da una

ventina d’anni ad Avignone. Il loro modo di vivere il Festival è singolare.

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L’anarchica è il soprannome che i sociologi di Avignone hanno attribuito ad una signora

inconfondibile (fonte: Sociog.#06, in PubPart, p. 46 e PubReinv, p. 256): dalla metà

degli anni Novanta frequenta con incredibile assiduità quasi tutti i dibattiti pubblici,

esprimendo le sue opinioni non senza nascondere il senso di disapprovazione nei

confronti di quanti si arrischino a non condividere le sue sentenze sugli spettacoli del

Festival. Atteggiamento che non risparmia neppure alle amiche che, quasi

quotidianamente, incontra alla “Civette” e che non manca di colpevolizzare, con toni a

volte umilianti, nel caso in cui manifestino punti di vista divergenti sull’andamento

della stagione avignonese o sui temi della cultura in generale. I gesti, i toni e i

comportamenti di questa donna dai capelli brizzolati non sono cambiati molto a distanza

di una decina d’anni: si direbbe una spettatrice molto attenta e desiderosa di assecondare

lo spirito di discussione e di confronto che anima da sempre il FdA; tutto normale se

non fosse che nella realtà questa signora non vede nessuno degli spettacoli di cui parla

con tanto trasporto e che con tanto ardore affossa o incensa. Quando racconta la sua

esperienza di spettatrice del Festival, però, diventa possibile persino guardare con

benevolenza ad un comportamento che può apparire stravagante:

«Penso che fare il Festival sia soprattutto non vedere mai gli spettacoli perché tanto quelli li puoi sempre vedere altrove», cosa che per altro effettivamente lei fa, aggiungendo per contro che «invece le polemiche, l’ansia che si prova, i dibattiti, non si trovano come qui in nessun altro posto. Le mie giornate? Le comincio alla Civette. Mi scaldo leggendo il mio Libé[ration], poi cerco di recuperare Le Figaro per le critiche di Armelle Héliot che adoro, e poi mi muovo… Vado a vedere cosa c’è alla MJV, partecipo a tutti i théâtre des idées dell’In [le conferenze stampa del mattino con gli artisti del FdA], entro ovunque ci siano dei dibattiti, amo i dibattiti, soprattutto quelli più sanguigni… il vero spettacolo di Avignone è questo».

In ogni occasione, senza lasciarsi prendere dallo sconforto, non esita ad alimentare il

fuoco della polemica nel caso in cui l’evento non corrisponda alle sue aspettative.

Ovviamente la sua edizione preferita è stata quella del 2005: «ho assistito con gusto alle

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situazioni in cui gli Archambaudriller [è la contrazione dei cognomi dei due giovani

neo-direttori] erano costretti sulla difensiva». Per contro il 2006 si presentava «piuttosto

consensuale e molle», tanto da farle pensare con nostalgia all’edizione del 2003: «un

continuo montare della suspense terminata con l’apoteosi dell’annullamento. Storico!».

Se l’anarchica signora dai capelli brizzolati, in un certo modo, legittima la necessità del

confronto per rigenerare un’identità politica costruita collettivamente, tanto che le crisi

del Festival le hanno permesso di rivendicare un vero e proprio status sociale; il caso di

Ingrid permette di cogliere metaforicamente un altro aspetto dell’idea di impegno e di

contributo affettivo alla costruzione del senso di comunità tra gli appassionati del FdA.

Ingrid è un’infermiera ed è una grande lettrice nonché una sorta di collezionista

compulsiva di libri di teatro, di biografie di artisti e di personaggi famosi e di ogni

genere di testo che le permetta di avvicinarsi a quei «people dai quali possiamo

imparare un sacco di cose su noi stessi e sulla nostra epoca». Alle sue amiche trova

complicato spiegare come sui suoi lunghissimi scaffali di casa possano trovare posto: da

una parte, Les Illusions Comiques di Olivier Py (regista, attore, scrittore di teatro

direttore del FdA a partire dal 2013: v. figura 2b) o la biografia di Gérard Philipe (attore

storico del TNP, famoso per il connubio artistico con Jean Vilar); e, dall’altra, le

biografie di Lady D. o la sua collezione sterminata di romanzi sentimentali.

Invece di seguire le tracce dei dibattiti del FdA, Ingrid cerca di farsi una idea

“topografica” del mondo che ruota attorno al Festival: infatti, dedica la maggior parte

del suo tempo a seguire, scrupolosamente ma con discrezione e rispetto, le tracce degli

artisti famosi che si fermano ad Avignone. Ingrid non frequenta i luoghi ufficiali del

Festival In e raramente va a vedere gli spettacoli nell’Off, ma quando scopre che un

artista che lei ama particolarmente è presente nella programmazione del Festival decide

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di seguirne a distanza il periodo di permanenza in città, cercando di descriverne la

quotidianità e di tracciarne i percorsi preferiti: «molto presto ognuno di loro prende

delle abitudini, frequenta gli stessi luoghi ogni giorno, va a comprare il giornale alla

solito edicola, percorre le stesse strade della città». Agevolata in questa sua opera

dall’architettura stessa della Città dei papi, Ingrid colleziona in questo modo, anno dopo

anno, delle mappe con traiettorie colorate dedicate a ciascuno artista:

«Ed ecco qua la piantina Auteuil, la piantina Huppert, la piantina Py, e il mio preferito, Samy Frey… Abitava come me in via Bourguet, tre case più in là… Ed è anche la mappa che mi è meglio riuscita, tanto che una volta decriptato le sue abitudini, come quelle di tutti gli altri, quando mi viene voglia di incrociarli “per caso, più volte durante la giornata”, mi basta trovare la scusa per essere in quel momento nel posto giusto. Quando ci si incontra più volte, diventa poi facile scambiarsi un saluto, o cominciare a chiacchierare per un motivo o l’altro… Ad esempio un giorno Samy Frey era in fila dal suo solito giornalaio appena dopo di me e non era rimasto che un solo numero della sua rivista preferita. Per me stata una gioia potergli offrire la rivista in cambio di un caffè preso assieme per qualche minuto… E’ stato fantastico».

Ingrid, non dimenticando le sue origini, ha dato un nome singolare a questo suo

passatempo: la fabbrica del Vogelpick. Ingrid considera che la vita sia un po’ come

questo gioco di freccette tipico del Belgio e nel quale si desidera far credere che si vinca

per pura coincidenza, quando invece il giocatore è perfettamente in grado di controllare

la situazione. E’ la sua versione personale del Gioco dell’amore e del caso, un’opera

teatrale che un giorno spera di scrivere, illustrandola con le sue belle mappe di

Avignone: un testo che senz’altro potrà trovare posto sul ripiano di una qualunque

biblioteca abbastanza strana quanto la sua.

L’estetica del rito di passaggio (autenticità dell’esperienza). L’autenticità di una

esperienza si lega alla trasmissione culturale: la vita culturale delle persone più

prossime (Interv. #04), la sfera familiare (Interv. #06 e #10), il contributo di una

mediatrice (Interv. #05), il gruppo di amici artisti dilettanti (Interv. #06 e #8).

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La consapevolezza di sé porta gli spettatori del FdA a sentirsi simili tra loro e diversi da

altri soggetti che non appartengono alla comunità (Muñiz, O’Guinn 2001; McAlexander

et al. 2002; Goulding et al. 2013). L’autenticità risiede proprio nel significato che ogni

spettatore attribuisce all’esperienza culturale sulla base del contributo alla costruzione

della propria identità e delle proprie relazioni con gli altri (Corciolani 2011).

In questo modo, associare l’esperienza teatrale con il tempo e lo spazio diventa evidente

quando il senso di perdita passa per situazioni di esclusione che vanno a toccare

l’appartenenza e l’identità stessa dei membri di una comunità. Il 9 agosto del 2000, una

toccante lettera è indirizzata direttamente “Ai Signori Sociologi, responsabili scientifici

dell’inchiesta sui pubblici del Festival” (fonte: Sociog.#07 PubPart, pp. 48 e 64;

PubReinv). Yves e Dominique annunciavano che per la prima volta dopo quindici anni

non sarebbero più tornati ad Avignone: «Lasciare la Corte d’onore che ha alimentato

per così tanti anni la nostra dignità di spettatori ci procura oramai un vero dolore

fisico… Vi preghiamo di rassicurare gli organizzatori che la cosa non dipende per nulla

dalla loro programmazione».

Il problema di Yves e Dominique, riportano i sociologi, è “ben più sensibile e profondo,

difficile da spiegare”. Ciascuno di loro pesa circa 130 chili. Il tempo ha creato grossi

problemi ai loro corpi e “come si suole dire, si sono lascianti andare”. Il vero problema

è che mai avrebbero pensato che l’accumularsi dei chili nel tempo li avrebbe fatti

avvicinare sempre di più al momento di doversi allontanare da quelle pratiche culturali

che avevano coltivato per tutta la vita. Negli ultimi quattro anni avevano cercato di

frequentare la Corte d’onore prenotando tre posti per due, in modo tale da sedersi senza

arrecare fastidio eccessivo ai loro vicini ma:

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«ogni volta era un percorso ad ostacoli l’umiliante vis-à-vis con il personale della biglietteria, ai quali era difficile spiegare la necessità di avere questi tre posti vicini. Tant’è che lo scorso anno ci è stato consigliato di rivolgerci direttamente al servizio incaricato di prendersi cura delle persone portatrici di handicap»

Ricordando le parole di Jean Vilar sul fatto di riunire a teatro tutte le categorie sociali,

lista dalla quale non si sentono di poter escludere le persone obese, la coppia sottolinea i

motivi del loro abbandono: «Non torneremo ad Avignone in quanto non vogliamo

vivere la nostra passione per il teatro come un handicap culturale. Questa barriera

morale imposta per rispetto agli altri spettatori, è diventata per noi difficile da

sopportare». La dimensione delle sedie richiama alla mente di Yves e Dominique la

“standardizzazione” dello spazio teatrale inteso come spazio di relazione; accettare

passivamente “regole normalizzanti” può portare i membri della comunità a legittimare,

anche involontariamente, forme più profonde di esclusione culturale.

Per uno studente della scuola professionale per tecnico dello spettacolo (fonte:

Interv#07) il FdA rappresenta una “fase liminare” per eccellenza, il luogo

dell’apprendistato che, nel caso specifico, il ragazzo si è trovato a vivere per la prima

volta proprio nell’anno in cui il futuro stesso della sua professione veniva messo

fortemente in discussione:

D.: Mi potresti parlare della tua prima volta al festival? R.: Ci sono venuto per la prima volta in occasione del movimento degli intermittenti, nel 2003. Senz’altro presto lo diventerò anche io! E’ un festival che va molto lontano, è un simbolo del teatro. Lascia un sacco di emozioni quando se ne parla. E’ un festival molto bello, impegnato, con una gran quantità di pubblico, di professionisti. Questo lato mi piace molto. Lo scorso anno mi sono molto emozionato perché sono arrivato subito dopo l’annullamento. Avevo già trascorso diverso tempo manifestando a Parigi, nel tentativo di comprendere per davvero questa specie di treno lanciato in corsa che si era creato in occasione degli scioperi. Le persone erano sorprese, senza essere veramente coscienti del perché, visto che da oltre dieci mesi il sistema di indennizzo di disoccupazione degli intermittenti non funzionava più. Tutti i ministri hanno respinto ogni tentativo di riforma per mancanza di forza politica: in quella occasione, invece, la forza politica c’era, ma era una forza capitalista.

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Come nel caso di Marie-Françoise e degli spettatori che si aspettano dal FdA di farsi

garante dell’eredità materiale e simbolica del teatro popolare; allo stesso modo, per i

professionisti dello spettacolo il FdA rappresenta una struttura sociale imprescindibile a

cui attribuire un ruolo rituale ben preciso in termini istituzionali. La coerenza nel tempo,

il segno della continuità e l’apertura alle sollecitazioni di tutti gli attori della filiera della

cultura sono parte integrante di quei processi dal potere terapeutico che dovrebbero

permettere di tamponare e superare le crisi o le esperienze più dolorose.

R.: Impegnarmi nel movimento degli intermittenti, vedere dal vivo questo annullamento storico, cercare di trovare delle soluzioni convincenti, è stato tutto molto emozionante. Ero con un’amica, assistente al suono e alle luci di scena, avignonese e che conosceva piuttosto bene il Festival e le sue movenze. Era ancor più emozionata di me. Era sconvolta. D.: Eravate comunque d’accordo su quanto stava accadendo? R.: No, e neppure adesso a dire il vero, resta il disaccordo su diversi punti. Ed è questo ad essere interessante. D.: Su cosa eravate d’accordo e su quali aspetti invece vi trovavate in disaccordo? R.: Lei lavorava nell’Off e ha cercato di spiegare all’equipe artistica che desiderava fermarsi, scioperare. Fu una decisione molto dura da prendere, ma fece tutto con estrema coscienza e controcorrente. Fa parte di quel genere di persone che ha voglia di mostrare le cose in modo chiaro. Su questo aspetto ero decisamente d’accordo con lei e approvano tanta coerenza. Non ero invece d’accordo su certi punti che lei rivendicava, sui contenuti specifici della riforma. Ognuno avanzava le proprie richieste e dava il suo punto di vista su una moltitudine di aspetti differenti della riforma. E’ difficile ancora oggi spiegare chiaramente quali siano i nostri punti di disaccordo. Personalmente, solo ora sono riuscito a capirci qualcosa di questa riforma, ma non durante il festival. D.: Cosa ti ha spinto a tornare al Festival? R.: La curiosità, dal punto di vista umano e professionale. Questa curiosità è franca, è reale: volevo vedere se questo grande simbolo era ancora in grado di tenere la strada, dopo tutto quanto era accaduto.

Durante la sua storia il FdA è sempre intervenuto nei conflitti interni al sistema

culturale introducendo cesure, stabilendo nuovi confini, attivando processi di

cambiamento per eliminare i motivi dello scontro (fonte: VoixFdA; HistFdA; PontFdA).

L’ennesimo conflitto sul meccanismo di indennizzo di disoccupazione per artisti e

tecnici nel settore della cultura, rappresentava la situazione tipica in cui la

legittimazione del Festival doveva contribuire a sanare una crisi di autenticità: ciò che

veniva messo in discussione nel 2003 era un sistema unico nel suo genere e presente

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solo in Francia e che rappresenta motivo di identificazione per l’intera comunità dei

lavoratori intermittenti dello spettacolo.

Ad esempio, Emilie è incaricata della regia tecnica del Festival internazionale del

documentario che si tiene a Marsiglia da anni: «Sono intermittente da sei anni. Ho

lavorato per circa venticinque strutture diverse, nel teatro, negli eventi, nell’arte

contemporanea, nel cinema. Ogni contratto mi permette di lavorare per cinque-sette

settimane»; e puntualizza: «Può sembrare molto, ma l’equivalente fatto con un normale

contratto a tempo determinato non mi aprirebbe il diritto all’indennità di

disoccupazione. Se poi pensi che il periodo dei festival è molto raccolto in un anno,

questo mi obbliga a fare delle scelte. Da quando lavoro per il FID, ad esempio, ho

abbandonato il Festival di Cannes. Ho partecipato al Festival di Avignone in luglio [nel

2002], ad un altro festival in dicembre, ad una convention organizzata da una grande

impresa americana, tra ottobre e novembre. In inverno ci sono meno festival, meno

riprese e raggiungo allora delle strutture non sovvenzionate, che in genere non

avrebbero il denaro per pagarmi, nel teatro, nei cortometraggi, o nell’arte

contemporanea. Senza il sistema dell’intermittenza, queste strutture non-profit, che sono

il vero vivaio della creazione artistica, non esisterebbero [...]» (fonte: Le Monde, 24

maggio 2003). Nel febbraio del 2003, mentre gli scioperi degli intermittenti per mesi

agitano tutto il settore della cultura francese e prima di unirsi ai manifestanti di Parigi,

Bernard Faivre d’Arcier, allora direttore del FdA, commentava:

«E’ una nuvola scura quella che si addensa sul settore delle spettacolo, un problema di fondo che ritorna, perdura, di proporzioni sempre più importanti. Il regime di intermittenza è assolutamente capitale per la vita artistica e in particolare per lo spettacolo dal vivo, in quanto è il fondamento della nostra originalità europea. Naturalmente ha bisogno di essere modificato ma con dovizia, in modo progressivo. Rimettere in gioco lo statuto in modo brutale significa modificare tutto il paesaggio teatrale. Il Festival di Avignone (un gruppo permanente di 17 persone, in CDD e CDI), vive grazie agli intermittenti. I tecnici – incaricati del montaggio, ma anche della gestione dei luoghi durante il mese della manifestazione – sono nell’ordine dei 300 lavoratori impiegati

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dal festival. Un numero a cui si aggiungono anche gli intermittenti delle compagnie e gli artisti. Una rifondazione del sistema sarebbe pregiudizievole anche per il Festival Off, che vive di una sorta di economia parallela rispetto all’In. In gran numero di persone resterebbero per strada, senza lavoro» (da “La Provence” del 26 febbraio 2003).

Alla fine di giugno il sistema dell’intermittenza veniva prorogato con un accordo tanto

effimero e approssimativo da scontentare tutte le parti sociali. L’11 luglio, dopo quattro

giornate di braccio di ferro senza concessioni, davanti alla determinazione di una gran

parte delle compagnie invitate al Festival In di prolungare lo sciopero, Bernard Faivre

d’Arcier preferì chiudere il sipario:

«Credo che un po’ tutti aspettino questa dichiarazione. In questa fase abbiamo preferito mantenerci il silenzio per esaminare tutte le possibilità. […] Quindi, ora, posso annunciare che il 57° Festival non avrà luogo» (fonte: VoixFdA, cap. 19)

L’affaire degli intermittenti del 2003 era presto diventato il simbolo di una completa

assenza di dialogo tra il mondo degli artisti e la politica. Viste da Avignone, le tensioni

sociali che sembravano riguardare al massimo 100mila lavoratori in tutta la Francia

sfociarono in una rivendicazione collettiva. La grande maggioranza del pubblico del

Festival non faticò a schierarsi per quei knowledge worker della cultura la cui causa era

coerente con dei valori e con una identità culturale che consideravano legittimi e che

vedevano usurpati per motivazioni solo apparentemente di ordine economico.

Patrice (Sociog.#04) è un professore di filosofia esperto di teatro. Nel raccontare la sua

presenza al Festival, emerge un ulteriore aspetto del tipo di lavoro che il pubblico

svolge in modo formalizzato o meno all’interno della comunità.

Agli inizi degli anni Novanta, era membro del comitato di esperti per il teatro presso la

direzione regionale degli affari culturali della Bassa Normandia, organo consultivo del

Ministero a livello locale. Il suo impegno extra-lavorativo si è sempre svolto in modo

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volontario, ma questo non gli impediva di considerare il Festival un passaggio

obbligatorio per il suo impegno pubblico fin dal 1968, tanto da essere «un momento

forte della mia vita» afferma: da oltre trent’anni la sua carriera di spettatore è

indissolubilmente legata alla storia del teatro pubblico.

Patrice è uno “spettatore professionale”: può arrivare a vedere fino a 150 spettacoli in

un anno ma non è un professionista; ogni settimana, durante l’anno, va a Parigi per

assistere a due o tre rappresentazioni; si solito gira con un quadernetto dalla copertina

rossa sul quale annota tutte le sue impressioni; gli spettacoli a cui assiste sono scelti con

molta cura. La presenza ad Avignone di spettatori come Patrice è piuttosto comune:

l’episodio che racconta è significativo. Nel 2001 era riuscito a strappare ad una amica la

promessa di farsi ospitare in un appartamento in place de l’Horloge che al suo arrivo

trova però già occupato da un giornalista free lance di Libération e dalla sua compagna,

incaricati di coprire il Festival Off. Costretto a trovare alloggio nella zona industriale, a

ben dieci chilometri dal “teatro delle operazioni”, durante la sua permanenza avrebbe

condiviso il taxi con un collega altrettanto sfortunato con l’alloggio: si trattava di un

membro del partito socialista incaricato di organizzare proprio il dibattito sul

finanziamento pubblico alla cultura a cui lo stesso Patrice avrebbe dovuto partecipare

assieme ad un gruppo di politici della zona, moderato da una sociologia che sarebbe

arrivata appositamente da Parigi. Giornalisti, politici, operatori culturali, professionisti o

volontari a vario titolo impegnati nella cultura, trovano ad Avignone opportunità di

confronto, consolidando i “meccanismi collettivi” di quanti sono chiamati a diffondere

una pratica culturale che incarna le forme, l’immagine stessa e gli schemi d’azione di

una politica culturale emergente.

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Nel 2004, Patrice racconta di aver cambiato regione, di aver lasciato la sua compagna, e

di non aver rinnovato il suo incarico di esperto locale con il Ministero della Cultura.

Resta uno “spettatore professionale”, ma lamenta di avere difficoltà a continuare il suo

lavoro nel posto in cui vive ora: «ho a che fare con un direttore regionale piuttosto

conservatore […]» spiega, aggiungendo che si tratta secondo lui di «un cattolico

praticamente integralista, nuovo del mestiere e che rende la vita difficile sia suoi

delegati e consiglieri per il teatro, giunti oramai sull’orlo della depressione, sia alle

compagnie teatrali più piccole, sempre costrette a lavorare sul filo della linea di

galleggiamento». Oggi Patrice si interroga sulla «reale volontà dello Stato di impegnarsi

nell’azione culturale», ma non ha perso il suo entusiasmo per il Festival: «Ho sostenuto

la protesta degli intermittenti dello spettacolo nel 2003 […]; Hortence e Vincent [nuovi

direttori del FdA nel 2004, v. figura 2b] credo stiano lavorando bene, anche se certa

stampa vorrebbe far loro la pelle [il riferimento è all’edizione del 2005]; e il formato

che prevede gli artisti associati ha dato nuova coerenza e un soffio di novità al progetto

cultural del FdA». Patrice ha vissuto la sua carriera di spettatore oscillando sempre tra

due poli: da un lato, l’educatore e il professionista razionale e qualificato per il suo

mestiere; dall’altro, l’utopista che forse non “osa più sognare il grande cambiamento”

ma che è ancora convinto di poter combattere affinché l’attuale situazione migliori,

pensando ancora che il teatro abbia il potere di “agitare l’ordine costituito”.

Attraverso il Festival chi produce le politiche culturali (uomini di teatro, funzionari

pubblici, studiosi, politici), si ritrova a fare i conti con quella potentissima rete sociale o

“cassa di risonanza civile” costituita dal pubblico che ha “cittadinanza” ad Avignone.

Stigmatizzare il tempo che passa (paradossi di significato). Le storie sulla tradizione del

teatro popolare erano alimentate dal dialogo continuo e dalla ritualità con cui la

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tradizione stessa si perpetuava all’interno della comunità. Storie e rituali permettevano

di ridefinire continuamente i confini della comunità del pubblico del Festival, nel nome

dell’ideologia del teatro pubblico. Tutti gli aspetti che creano i legami sociali e il

formarsi della comunità, devono poi fare i conti con la necessità di preservare la

coesione emotiva e simbolica tra i membri (Kozinets 2001).

L’elemento ordinatore del rituale permette alle strutture sociali interne alla comunità

una divisione dei compiti che mira a proteggerne le strutture ma anche di permettere un

certo livello di adattamento. I membri della comunità diventano così dei garanti della

continuità, in una coerenza temporale che cerca di restare aperta al futuro. Tutto ciò

passa però ancora una volta per il confronto dialettico tra ciò che è “reale” e ciò che è

“autentico” (Brown et al. 2003; Corciolani 2011). In questo commento, una studentessa

di Avignone si esprime nettamente rispetto all’inadeguatezza del “tempo passato”. I

termini del raffronto sono la sua esperienza e l’urgenza dell’azione attuale, specie a

fronte della crisi del 2003, e l’esperienza della madre con un’utopia mai del tutto

realizzata e risalente alla crisi del 1968:

D.: Qual è il tuo primo ricordo del Festival? R.: E’ quello di Yves Mourousi che intervista degli attori in fondo a rue de la Republique. Ero molto fiera che la mia città passasse al telegiornale di Parigi! D.: Hai spinto delle persone ad andare al Festival? R.: Ho cercato di convincere mia madre che abita ad Amiens. C’è andata per la prima volta, sfortunatamente per lei, nel 1968! Il teatro era morto. Ho cercato di convincerla ma non era molto persuasa. Altrimenti, l’ho fatto scoprire a molti miei amici. D.: Pensi che il cambiamento sia possibile grazie al movimento degli intermittenti del 2003? R.: Può trattarsi di un coincidenza. Ma il 2003 ha permesso una rottura. Vilar è morto e si passa ora ad altra cosa. Lo abbiamo seppellito, è oramai così… Non ne posso più di sentir parlare “dei tempi di Gérard Philipe”, “del tempo di Vilar”! E’ finita, è morto da 30 anni! Abbiamo finalmente un festival che si apre ad altre esperienze.

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Tra tutte le esperienze passate entrate a far parte della memoria collettiva del pubblico,

la crisi del 1968 rappresenta senz’altro quella che viene più mestamente rievocata e

tramandata come un doloroso ricordo (v. figura 2a).

Due mesi dopo il “Maggio ’68” Jean Vilar si trovò a fronteggiare una delle sue più

amare esperienze (fonte: VoixFdA; HistFdA): paradossalmente, gli ideali di quella

gioventù contestatrice e le utopie che ne accompagnavano le rivendicazioni si rivolsero

contro il FdA, nato e sviluppatosi proprio nella logica della condivisione di una

esperienza realizzata da una comunità di persone che si riconosceva in un “metodo”, in

un modo attraverso cui incontrarsi, dibattere, conoscere il mondo attraverso l’arte.

Invece i manifestanti, in buona parte giunti da Parigi, misero in discussione l’essenza

stessa di Avignone, divenuto d’improvviso improbabile simbolo della “cultura

borghese”. La richiesta della gratuità degli spettacoli divenne una sorta di pretesto per

alimentare la confusione e rendere insostenibile la continuazione del Festival. Alcune

manifestazioni cruente si svolsero al grido di “Vilar, Béjart, Salazar!”, in cui il nome del

dittatore portoghese di ispirazione franchista veniva evocato più che altro in modo

inconsapevole per completare in rima uno slogan quantomeno inverosimile ma che

sconvolse profondamente Vilar (fonte: Festival_1; Festival_2). Il giardino di Urbano V,

ai piedi del Palazzo dei papi, da sempre dedicato al dibattito ad Avignone e utilizzato da

mesi come luogo per un forum permanente di discussione, fu invece preso d’assalto e

occupato dai contestatori (fonte: VoixFdA; HistFdA; PontFdA).

A ben vedere, quella edizione del Festival sembrava costruita in modo sapiente proprio

per quel tipo di sfida che si rivelò quanto mai d’attualità. Infatti, non tutto ciò che

accadde nel luglio del 1968 poteva essere ricondotto alla sola presenza ad Avignone di

Julian Beck e Judith Malina con il loro Living Theatre. Julian Beck venne contattato fin

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dall’anno precedente da Paul Puaux in persona, su mandato esplicito di Jean Vilar

affinché gli artisti americani potessero portare in scena ad Avignone il loro spettacolo

simbolo Paradise Now, realizzato in Italia dove si erano trasferiti. La tensione in città

indubbiamente crebbe quando, fin da maggio e con diverse settimane d’anticipo rispetto

all’avvio del Festival, parte della compagnia del Living Theatre si installò ad Avignone,

sotto gli occhi quantomeno stupefatti degli avignonesi.

In quella situazione, il Living Theatre e il suo fondatore, Julian Beck, si trovarono in un

contesto in cui, sia il pubblico del Festival sia i manifestanti, vedevano nei loro

spettacoli l’essenza stessa di ciò che stava accadendo, di quel movimento e di quel

passaggio storico. Jean Vilar, per tutta la durata della crisi e fino alla volontaria partenza

anticipata del Living, sostenne la presenza di Julian Beck ad Avignone: la considerava

una componente determinante per la riuscita del dibattito che poteva svolgersi ad

Avignone; Julian Beck era la personalità più adatta per tale scopo, e tra i due non vi fu

un contrasto evidente, proprio perché entrambi erano coscienti che assieme potevano

gestire la situazione (fonte: VoixFdA).

La presenza di due personalità che, sul luogo di una crisi, erano in grado di governarla,

di vedere più lontano rispetto a quanti si fecero invece travolgere dai fatti, non fu però

sufficiente ad evitare il disastro: quando in “siti complessi” vi sono presenti troppi

elementi “estranei”, di disturbo, e attori con percezioni e convinzioni troppo rigide su

ciò che sta accadendo, le probabilità che la crisi inneschi una escalation aumentano

sensibilmente. La situazione, infatti, sfuggì ben presto di mano alla municipalità e alle

forze dell’ordine; gli stessi cittadini di Avignone si fecero trascinare dal vortice creato

dagli avvenimenti; l’opinione pubblica e gli osservatori di buona parte della stampa

locale e nazionale, non svolsero di certo un ruolo di decifratori/mediatori di quegli

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accadimenti.

Alla fine, il Festival ebbe comunque luogo: alcuni spettacoli teatrali vennero disturbati

ed altri annullati; molte delle altre attività artistiche in programma furono realizzate

senza grossi problemi; il Living Theatre decise di abbandonare Avignone

spontaneamente e prima della fine del Festival, e ciò accadde, sostanzialmente, in punta

di piedi e senza particolari clamori. In quell’annata che probabilmente segnò un confine

definitivo tra ciò che il Festival era e ciò che sarebbe diventato, soprattutto da un punto

di vista artistico e di relazioni con il pubblico, ci fu una affluenza record, paragonabile a

quella delle edizioni più recenti (fonte: VoixFdA). All’epoca la stampa nazionale si

affrettò a dichiarare “la morte del teatro” e la “fine del Festival”: questioni che,

ciclicamente, ritornano in auge, per essere continuamente smentite dai fatti.

Nel caso del FdA un altro tema rilevante rispetto al ruolo del fattore tempo diventa

quello del confronto inter-generazionale sul formarsi delle pratiche culturali: in questo

senso le storie di Nathan e di Joséphine da un lato e la vicenda della mostra su Jan Fabre

alla MJV dall’altro sono sintomatiche.

Nathan ha quindici anni e negli ultimi cinque anni arriva alla stazione del TGV di

Avignone assieme ai suoi genitori, due professori, per trascorrere la consueta settimana

al FdA. Nel 2006 non è molto sorpreso nel costatare che ci siano delle persone

interessate ad intervistarlo per il suo ruolo di spettatore: in effetti, pensava di avere delle

cose interessanti da dire, ma si sorprende piuttosto che ci siano voluti cinque anni per

incrociare i sociologi di Avignone. Quando gli domandano da cosa dipenda il suo gusto

per il teatro Nathan risponde senza esitazioni: «I miei genitori mi hanno obbligato a

venire». Ma non soffre particolarmente per la settimana estiva che trascorre nella città

dei Papi: lo scorso anno ha trovato Christine Angot desolante «perché parlava

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continuamente di suo padre e delle sue sofferenze»; ma aggiunge anche di avere dei bei

ricordi, in particolare dello spettacolo di Jan Lauwers del 2004. La sua carriera di

spettatore è però iniziata all’Off: ma non apprezza particolarmente l’atmosfera

complessiva di Avignone, in quanto per le sue vacanze preferirebbe qualcosa di un po’

più tranquillo. Per quanto abbia le sue abitudini e i suoi spazi, «non tutto è così nero ad

Avignone», sa poco degli spettacoli che i suoi genitori hanno scelto per lui; in ogni caso

l’accordo prevede che possa aggiungere qualche spettacolo di sua scelta, come ha fatto

negli anni precedenti, appena avrà il tempo di dare un’occhiata al voluminoso

programma del Festival Off. Nel caso del Festival In non trova che ci sia troppa

violenza sulla scena e dichiara di essergli piaciuta in particolare la messa in scena del

Woyzeck di Ostermeier; piuttosto trova che ci siano troppi vecchi e troppo sesso.

Continuerà ad andare a teatro anche quando non saranno più i suoi genitori a

coinvolgerlo: non ha esitazioni sulla cosa, ma sogna comunque di andare anche altrove

e non solo ad Avignone, “per scoprire altre cose”. I suoi genitori non lo obbligano in

alcun modo e lui sa benissimo che se lo volesse potrebbe passare la settimana al fresco e

riposandosi a casa dei nonni, nel Poitou. Ma sa altrettanto bene che è ad Avignone che

può vedere un po’ d’azione: ha visto ministri, grandi attori, ha vissuto in prima persona

l’annullamento del 2003. Si rifiuta di pensare a se stesso come ad un ragazzo colto o

particolarmente istruito e sebbene dichiari di aver voglia di una pausa per il prossimo

anno, non nasconde che gli sarebbe difficile andarsene definitivamente.

Familiarizzare molto presto con l’esperienza culturale in generale e con determinati

contesti in cui l’esperienza culturale ha luogo produce effetti duraturi sulle pratiche del

pubblico. Ma può anche succedere che la predisposizione per il teatro possa presentarsi

dopo l’età della pensione. E’ il caso di Joséphine, pensiona corsa che non ha più

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mancato un solo FdA dal momento in cui, a settanta anni, ha scoperto il suo personale

piacere di recarsi ad Avignone durante l’estate. Venendo dalla Corsica si può presumere

che Joséphine prenda le sue precauzioni: a ben vedere si organizza con largo anticipo,

prenotando il nave per il viaggio ancor prima di conoscere il programma del Festival. In

effetti non è proprio lei a scegliere i suoi spettacoli: questa attività è delegata alla

sorella, come lei pensionata, ma che ha vissuto a lungo a Parigi ed è una assidua

frequentatrice del teatro. Ogni anno trascorre ad Avignone quattro o cinque giorni e

alterna gli spettacoli dell’In, quelli che la sorella si è incaricata di prenotare, e degli

spettacoli dell’Off, che Joséphine sceglie all’ultimo momento seguendo l’istinto, o

perché il bagatto (la carta del prestigiatore nei tarocchi) l’ha fatta sorridere attirando la

sua attenzione o semplicemente perché uno dei tanti volantini degli spettacoli dell’Off

le sembra particolarmente interessante. La sua conversione tardiva al teatro forse non è

una anomalia sociologica: la sua era una famiglia colta che conta anche degli studiosi,

rappresentanti di una antica borghesia di Bastia che, senza ostentazione, si è sempre

dedicata alle arti e alle lettere. Semplicemente la lunga chiusura dell’Opera di Bastia, ad

esempio, non le aveva permesso di dare seguito alla sua predisposizione nei confronti

della cultura viva. Con la riapertura del teatro Joséphine ha fatto l’abbonamento alla

stagione e ha cominciato a frequentare il festival del cinema che si tiene ogni anno in

città. Inoltre, si sposta abbastanza regolarmente in giro per l’Europa per fare turismo

culturale, come se la sua posizione geograficamente isolata in Corsia e il suo tardivo

coinvolgimento nei confronti della cultura esigessero un raddoppio degli sforzi per

recuperare il tempo perduto. Non si considera un soggetto interessante o parte di quel

pubblico che i sociologi che la stanno intervistando vorrebbero studiare: prende

volentieri le distanze da alcune proposte “meno consensuali” del programma degli

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ultimi anni, ma non le piacciono i giudizi perentori. Per Joséphine Avignone è una vera

piccola avventura “che ha ancora il gusto delicato delle vendemmie tardive”.

La disputa ricostruita di seguito riguarda una mostra allestita presso la MJV e

organizzata in collaborazione con il FdA: l’esposizione “For Intérieur-Exposition Jan

Fabre” che avrebbe accompagnato l’artista fiammingo lungo tutta la sua permanenza ad

Avignone. Jacques Téphany, direttore della MJV, nel numero primaverile dei Cahiers

della MJV così presentò la mostra:

«[…] Nel dicembre scorso [nel 2004], Vincent Baudriller ci ha reso partecipi di una sua inquietudine: non trovava alcun luogo corrispondente al progetto espositivo consacrato all’opera plastica di Jan Fabre. In quella occasione gli proponemmo che quella esposizione si facesse tra le mura della MJV. Ben presto abbiamo compreso tutte le difficoltà della proposta, misurato il suo paradosso, considerati i rischi. Non erano l’arte e la persona di Jan Fabre in discussione, quanto piuttosto ciò che entrambi rappresentano dell’arte contemporanea, l’immagine che essi ne danno. Sapevamo che alcuni dei più familiari frequentatori della Maison avrebbero avuto delle reticenze su questo progetto: “Pas de ça chez Vilar!”. Ma “questo” cosa? Non avvicinarsi all’artista associato del Festival, non sarebbe come rinunciare ad una collaborazione ancora più produttiva tra le nostre due organizzazioni […]? […] Senza rinunciare ad essere ciò che essenzialmente siamo, un centro di fonti documentarie, di riflessione, la [MJV] oggi sostiene un dibattito attorno ad un artista considerevole e discusso. Un dibattito, quindi, al centro del quale l’opera di Jan Fabre ha il ruolo di una leva, di uno strumento e non di un fine. Una disputa senza dubbio attorno alle imposture e alle aberrazioni ma anche ai colpi di genio di cui l’arte contemporanea è capace. Un invito, più che una provocazione, a incontrarci attorno ad un fenomeno sociale in cui si affrontano il guardiano del tempio e le perversità commerciali, sincerità artistica e “impiccagioni” [il riferimento è ad alcune installazione di Jan Fabre]. In breve, collocando l’opera di un artista come Jan Fabre al centro della Maison, noi possiamo sia scioccare che stupire positivamente, e aprire la riflessione comune sulle questioni pressanti di oggi attorno all’arte di essere contemporanei» (fonte: Cahier_94)

Quello stesso numero ospitava una lettera di Sonia Debeauvais, vice presidente

dell’Associazione e storica collaboratrice di Jean Vilar al TNP e al FdA, decisa a

prendere posizione su quel progetto, a volere affermare, ancora una volta, singolarità e

problematicità della MJV.

«Mi pongo molte domande circa il progetto di esposizione consacrata al Jan Fabre. […] Quali che siano le mie prevenzioni a riguardo dell’artista associato dell’edizione 2005, questa forma di collaborazione con il Festival mi sembra fruttuosa e non pregiudica la posizione specifica della Maison, così come percepita dal pubblico. Ma il progetto che sembra svilupparsi al momento con Jan Fabre mi appare molto chiaramente come di altra natura: facendone il

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soggetto della grande esposizione annuale della MJV noi ci schiereremmo sotto il gonfalone di un’altra famiglia di pensiero. Ci metteremmo a seguire una moda elitaria, che è contraria ai valori che noi difendiamo. Siamo – e almeno io lo credo – assolutamente d’accordo sui nostri obiettivi: trasmettere, con gli strumenti che ci sono propri, ciò che costituisce il valore del nostro patrimonio; aprirsi parallelamente al mondo contemporaneo e, quello che ai miei occhi e fondamentale, tentare di occupare un posto specifico nel mondo culturale in cui, attualmente, tutti i valori si mischiano in una gerarchia fabbricata dai media. Sono persuasa del fatto che siamo in grado di occupare questa posizione, anche se difficilmente. […] Ma se rincorriamo lo snobismo regnante, perderemo su tutti i fronti. Il pubblico non ci capirà più nulla, gli amici della Maison resteranno confusi, la nostra identità si perderà nella nebbia. […] So bene che il tempo scorre veloce, che non siamo ricchi, che una coproduzione con il FdA è di interesse per una sana gestione, aggiunta all’amicizia che ci lega all’équipe del Festival… Ma continuo a pensare fermamente che, per la prima volta, con Jan Fabre ci allontaneremo dalla nostra ragion d’essere. Tu troverai delle argomentazioni assolutamente giuste e esatte da oppormi. E farai probabilmente ciò che avrai deciso di fare. Ma era necessario almeno che ti scrivessi questa lettera, tutta d’un tratto e senza calcoli» (fonte: Cahier_94).

Le riflessioni di Jacques Téphany e i dubbi di Sonia Debeauvais riguardano un

fenomeno che metaforicamente può essere paragonato ad una pellicola fotografica che

registra ciò che le viene esposto: in questo caso la mostra di Jan Fabre rappresenta una

immagine che rischia di alterare l’affidabilità con cui l’organizzazione “pensa a ciò che

ha detto” per prepararsi a “registrarlo”. Come memorizzare in modo “non sfocato” il

“caso Jan Fabre” per lasciare una traccia “pienamente consapevole” nella memoria

organizzativa e del pubblico? A proposito, Roland Monod, allora presidente della MJV,

intervenne nel dibattito in questi termini:

«Non so se un dio nel rinnovamento si manifesti in Jan Fabre e se questo rinnovamento possa rispondere alle mie intime attese. D’altronde, la domanda non mi sembra tanto “perché Jan Fabre nella Corte d’onore?” quanto “perché non del teatro (di testo)?”. Il solo precedente: l’estate del 1968… La storia torna indietro o il teatro non sa più cosa dire, mentre si esauriscono le varianti sul come dirlo? Programmare uno spettacolo nella Corte d’onore è oggi come ieri una vera sfida per i direttori del Festival e per gli artisti. Vilar per primo, dal 1966, aveva previsto che il teatro era più del teatro. E aprì la Corte a Béjart. […] Vilar oggi farebbe appello a Jan Fabre? E cosa penserebbe di una esposizione dedicata all’opera plastica di questo creatore proteiforme nella Maison che porta il suo nome? Forse egli stesso ricorderebbe quanto ha lavorato con i pittori, che certamente la moda è il più inflessibile nemico dell’arte, ma anche che una ricerca creatrice affermata da più di venti anni (come nel caso di Jan Fabre) affonda senza dubbio le sue radici più in profondità della moda e non può essere semplice snobismo. La trasgressione non è sempre provocazione. Certi giorni, bisogna osare nel dire sì. L’Arte non ha per vocazione di suscitare uno spirito di consenso. “Non sono venuto per portare la pace ma la spada”. La spada che taglia e obbliga a scegliere da che parte stare […]. La [MJV] non è né un museo né un luogo di creazione, è un legame tra un passato non così lontano in cui il teatro si faceva con e per il pubblico e un presente di dubbi e di intimidazioni in cui il

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teatro prende a prestito troppo spesso dal poker le sue regole del gioco. Anche quella dello spettatore è una attività da preservare» (fonte: Cahier_94).

Per inciso, la mostra ebbe un successo notevole. Ma soprattutto ebbe il merito,

attraverso questa sorta di “imperfezione nel riflesso” generata dalla controversa figura

di Jan Fabre, di rendere disponibile il materiale della memoria per una ulteriore

riflessione. Una piccola disputa interna all’organizzazione per rispondere alla

tormentata questione del dare senso alle esperienze che passano.

CONCLUSIONI: LA COSTRUZIONE COLLETTIVA DI UN MODELLO DI

POLITICA CULTURALE

Il FdA rappresenta un contesto di analisi emblematico per comprendere le strutture del

rapporto tra una istituzione culturale e il suo pubblico. Laurent Fleury (fonte: TNP,

capp. 4, 5 e 6) individua tre rivoluzioni collegate al concetto di teatro popolare e che

rappresentano altrettanti motivi di interesse se declinati negli studi di marketing e

consumer behaviour e di management di una organizzazione culturale:

- la creazione di un modello organizzativo e gestionale coerente con una idea di

politica culturale basata sul concetto di “teatro, servizio pubblico”;

- il considerare il pubblico, seppur con modalità e atteggiamenti diversi, come

attore/agente con un suo ruolo determinante per la definizione e il perseguimento

delle politiche culturali che, in ultima istanza, proprio al pubblico sono rivolte;

- l’avere letteralmente inventato e poi coltivato con la pratica l’idea stessa di relazione

con gli spettatori, attraverso modelli teorici e strumenti operativi di straordinaria

attualità, sia considerati nel momento storico in cui furono utilizzati sia se ricondotti

al funzionamento attuale delle organizzazioni culturali.

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Nel primo caso, l’ethos del teatro popolare ha fornito una chiara identificazione, un

qualcosa di più di un esempio o di un caso rappresentativo, del senso più profondo

dell’espressione “servizio pubblico”, un ideale politico a cui una istituzione culturale e

il suo pubblico si sentono in obbligo di aderire e che ritengono necessario portare

avanti. Per una serie di combinazioni artistiche e storiche, il FdA e il TNP hanno

contribuito, non senza enormi difficoltà, alla definizione del concetto contemporaneo di

intervento pubblico nella cultura, sia in termini di qualità della decisione pubblica sia

sulle modalità di valutazione “istituzionale” e “politica” del necessario intervento

pubblico per il finanziamento della cultura.

In secondo luogo, la “valorizzazione politica” del pubblico del teatro, nel senso più

proprio di “politica”, è stata evocata attraverso l’idea del teatro popolare in due modi:

con la metafora ontologica del corpo politico, né più né meno dell’idea “classica” del

rapporto tra tragedia e politica nell’antica Grecia (Meier 2000); con la metafora,

strettamente collegata alla prima, della sfera pubblica critica in cui, liberato dal carattere

“commerciale”, di “divertimento elitario” e di “mero passatempo”, il teatro torna ad

essere il luogo per esercitare il controllo sul potere dell’autorità e dello Stato attraverso

la sfera collettiva (vedi: TNP, cap. 3).

Infine, l’adozione di una vera politica del pubblico e quindi di una gestione delle

pratiche culturali passava per l’adozione intelligente di strumenti per ottenere una reale

personalizzazione, l’instaurazione di un rapporto duraturo e di un impegno reciproco

basato sulla fedeltà a valori condivisi. Oggi, tali strumenti sarebbero superficialmente

ricondotti alla retorica di marketing della soddisfazione del consumatore e della

fidelizzazione del pubblico.

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L’elemento comune a queste dimensioni di analisi è sempre lo stesso, quel pubblico a

cui Jean Vilar prestò enorme attenzione. Tra il 1938 e il 1971, una grande quantità di

scritti si concentrava sul necessario ruolo del pubblico per la definizione stessa della

pratica culturale. Nel 1968, inoltre, fu attorno alla centralità degli spettatori che Vilar

costruì le basi per il suo progetto di riforma dell’intero sistema dell’Opera in Francia

commissionatogli dal ministero. Nella pratica quotidiana, l’interesse per il pubblico si

manifestò tanto ad Avignone, fin dalla sua costituzione nel 1947, quanto al TNP al

momento della sua “rinascita” nel 1951. La diffusione operativa delle sue idee era

perseguita con tenacia dal Festival e dal TNP: tra Avignone, en plein air, nella Corte

d’onore del Palazzo dei papi e nei luoghi del Festival; come a Parigi nel gigantesco

Teatro di Chaillot, nelle periferie della capitale, in tutta la Francia e nelle memorabili

tournée internazionali del TNP.

Una ulteriore peculiarità del FdA, come sottolineano gli studiosi del gruppo di ricerca di

Avignone, è rappresentata dal fatto di essere una felice eccezione nel panorama delle

indagini sul pubblico di una organizzazione culturale: è raro che un oggetto di studio

tanto complesso venga tenuto “sotto osservazione” con tanta continuità, lungo quasi

vent’anni. Emmanuel Ethis, Jean-Louis Fabiani e Damien Malinas (fonte: PubReinv;

PubPart; PubFois; PubEdu) sintetizzano il principale risultato della loro lunga

indagine: quello del FdA è un pubblico mediatore capace di trasferire nel quotidiano i

messaggi che il Festival mette in scena attraverso il “palinsesto” del suo programma

artistico. Il pubblico di Avignone non è composto da spettatori “ordinari”: «[…] è un

luogo privilegiato in cui si è costituito un dispositivo di presa di coscienza collettiva sul

concetto di cultura in generale» che non va inteso in termini pacifici o di consenso

condiscendente, in quanto in tale luogo «si è costruito, spesso nello scontro, un modo

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particolare di articolare il collegamento tra politica e cultura» (fonte: PubPart, p. 190).

Nel caso dell’analisi proposta, i tre temi che caratterizzano le vicende del FdA in

rapporto al suo pubblico permettono di verificare l’interazione tra prospettive differenti

negli studi di marketing (Maclaran et al. 2009; Araujo et al. 2010; Peñaloza et al. 2011;

Martin, Schouten 2014): esperienze di consumo, comunità di consumatori e processi di

branding convergono nel delineare il formarsi nel tempo della relazione tra istituzioni

culturali e pubblico dell’arte.

Questo lavoro fornisce, seppure indirettamente, qualche indicazione su come gestire i

fenomeni di brand meaning di una organizzazione culturale, considerando il pubblico

come una comunità che, attorno ad un progetto artistico e condividendone i valori, ne

alimenta nel tempo la diffusione attraverso i processi di trasmissione culturale.

L’esperienza nostalgica e le dimensioni nostalgiche dei processi di consumo

costituiscono sostanzialmente un possibile espediente per tracciare, per seguire nella

loro dimensione relazionale e nel loro intrecciarsi, i segni lasciati dall’istituzione

culturale e dal policy maker nel momento in cui il loro agire fosse incentrato su una

effettiva progettualità artistica e su una coerente idea di politica culturale. Non sempre,

specie in Italia, questo felice collegamento sembra caratterizzare la situazione delle

organizzazioni culturali e il panorama degli interventi pubblici nel settore.

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Nostalgic reactions (*)EXISTENTIAL AESTHETIC

Stimulus: «nostalgia was considered in the light of the individual’s perception of self and society, and how positive or negative appraisal of current life situations influenced the intensity of nostalgic longing in a stimulus situation»Role Repertoire: «The participation in a fulfilling and satisfying set of roles is one factor that appears to compensate for the anxieties of contemporary society. [...] A positive sense of self-will reflect the fullness of the individual’s role repertoire, which in turn has a relationship with their sense of identity»Alienation: «the growth in interpersonal isolation and loneliness, geographic isolation, the lack of social skills and intimacy, and the gradual erosion of such institutions. [...] Consequently, alienation is not just confined to the weak and helpless in society, rather it is endemic to those who feel that they lack power and control over their destiny»

Personally relevant heritage, familiar objects, narratives and people

Role overload, technological intrusion and personal "saturation"

Multiple role loss, death or loss of Significant others

Search for solitude and escape through imaginative day-dreaming about a more "romantic" age

Loss of control in the present, the past offers a sense of continuity

Social Contact: «The sense of belonging hypothesis proposes that we, as human beings, have a pervasive drive to form and maintain a minimum quantity of lasting, positive, and significant interpersonal relationships. [...] A sense of belonging, more than mere social contact, is the crucial factor in defining and maintaining a positive conception of self».

Demise of community and lack of quality relationships

VICARIOUS NOSTALGIA: Emotional sense of loss and contemporary emptiness

Awareness of environmental destruction, lack of power, loss of aesthetics and real artists

Historically craftsmanship, evidence of innovation and creativity

FIRST-ORDER NOSTALGIA: Simple acceptance that the past was better then.

Influences on the nostalgic reactions (*)

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PubEdu L'Education populaire et le théâtre. Le public d'Avignon en action, Presses Universitaires de Grenoble, 2008

Abbrev. Titolo NoteAutore/i

Jean-Louis Fabiani La ricerca si concentra sui dibattiti organizzati nel corso dell'edizione del 2005 del Festival di Avignone, un "anno particolarmente agitato" e significativo con riferimento alle varie forme in cui si è manifestato il rapporto con il pubblico.

PubPart Emmanuel EthisJean-Louis FabianiDamien Malinas

Avignon, ou le public participant. Une sociologie du spectateur réinventé, L'EntreTemps Editions, 2008

Il punto su quindici anni di ricerche sul pubblico del Festival di Avignone e una riflessione sulla formula organizzativa del festival e sulle modalità di interazione con il pubblico lungo tutta la sua storia

PubReinv Emmanuel Ethis(a cura di)

Avignon, le public réinventé. Le Festival sous le regard des sciences sociales, La Documentation Françaises, 2002

La ricerca condotta tra il 1996 e il 2001 è pubblicata nella collana "Questions de Culture" del Département des études et de la prospective, servizio studio del Ministère de la culture et de la communication francese.

PubFois Damien Malinas Portrait des festivaliers d'Avignon. Transmettre une fois? Pour toujours?, Presses Universitaires de Grenoble, 2008

Il ritratto del pubblico del festival con particolare attenzione alla prima esperienza culturale nella città e alle condizioni attraverso cui tali pratiche si generano e si trasmettono attraverso un enorme rituale collettivo

HistFdA Emmanuelle LoyerAntoine de Baecque

Histoire du Festival d'Avignon, Gallimard, 2007

Attraverso l'utilizzo sistematico di archivi pubblici e privati, una ricostruzione della leggendaria storia del Festival, fondato da Jean Vilar nel 1947 nel segno del "teatro popolare", laboratorio di politiche culturali centrate sul pubblico e sull'evoluzione dell'arte contemporanea

VoixFdA Bruno Tackels Les Voix d'Avignon (1947-2007). Soixante ans d'archives, lettres, documents et inédits, France Culture-Editions du Seuil, 2007 (con CD)

Il libro accompagna il CD dell'emissione radiofonica della serie "Le Feuilleton d'Avignon" andata in onda in 20 puntate su France Culture nel luglio del 2006. L'opera è stata realizzata con il sostegno del Centre National du Théâtre, del Festival di Avignone e del Ministero

PontFdA Bernard Faivre d'Arcier

Avignon vue du pont. 60 ans de festival, ActeSud, 2007

Una ricostruzione storica dell'evoluzione del Festival dal punto di vista di uno dei suoi protagonisti, direttore tra il 1980 e il 1984 e tra il 1993 e il 2003

TNP Laurent Fleury Le TNP de Vilar. Une expérience de démocratisation de la culture, Presses Universitaires de Rennes, 2006

La genesi della poetica del teatro popolare centrata sull'affermazione dell'intervento pubblico. un ideale di democratizzazione culturale in cui il pubblico è attore protagonista della politica culturale come risultato di una azione collettiva

Pub2005 Georges BanuBruno Tackels

Le cas Avignon 2005. Regards critiques, L'EntreTemps Editions, 2005

Ancora sul "Caso Avignone 2005", edizione realizzata con la collaborazione artistica di Jan Fabre: situazione emblematica di come ad Avignone si possa sviluppare il rapporto dialettico tra istituzioni culturali, pubblico e critica teatrale

Vilar1 Melly PuauxOlivier Barrot(a cura di)

Honneur à Vilar, ActeSud/Parcours de théâtre, 2001

Jean Vilar, fondatore del Festival di Avignone nel 1947 e nominato alla testa del TNP di Parigi nel 1951 fino al 1963, non mancò di testimoniare con i suoi scritti il senso della sua azione culturale. Morì nel 1971 a soli 59 anni.

Vilar2 Maison Jean Vilar Jean Vilar par lui-même, Maison Jean Vilar, 1991

Cahier_# Maison Jean Vilar Cahiers de la Maison Jean Vilar, periodico dell'Associazione

Le attività culturali e le pubblicazioni della Maison Jean Vilar perpetuano la memoria storica del fondatore del Festival e del suo pensiero. L'Associazione culturale organizza e gestisce l'Archivio storico del Festival e del TNP come antenna avignonese della Biblioteca Nazionale di Francia

Festival d'Avignon

Festival_1

Festival_2

Avignon. 40 ans de Festival, Hachette/Festival d’Avignon, 1986Avignon. 50 festivals, Editions locales de France, 1996

Pubblicazioni celebrative in occasione della 40^ e del 50^ edizione del Festival, nel 1986 e nel 1996.

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intervista

Interv. #01 2005

anno di nascita provenienza**

Frequentazione annua di...TeatroCinema Libri Altri festival Ristorantioccupazione*

1962 F segretaria amministrativa settore pubblico

Francese Avignone 20 30 2 8 2 o 3 volte al mese

Interv. #02 2005 1950 M educatore Francese Altre regioni 50 10/20 pochi 2 50

Interv. #03 2005 1957 F professoressa scuole superiori

Francese Chambéry 12 7/10 12 - 5/6

Interv. #04 2005 1926 M dirigente d'impresa

Francese PACA 5 5/6 50 1 24

Interv. #05 2005 1939 F commerciante in pensione

Francese Villeneuve-Lès-Avignon

10 durante il FdA

20 3 Mio marito non mi ci invita mai...

Interv. #06 2005 1958 M chirurgo dentista Francese Altre regioni 20 10 1/2 1 1/2

Interv. #07 2004 1982 M scuola profess. tecnico teatrale

Francese Parigi 4 50 10/15 - -

Interv. #08 2004 1954 F animatrice Francese Avignone 8 4 2 - -

Interv. #09 2003 1977 M attore Francese Québec - - - 1 1

Interv. #10 2004 1978 F studentessa Francese Avignone 50 12 - 1 1

Sociog. #01 2005 I divorziati Thomas e Stéphanie Due spettatori si incontrano nel 1985, al FdA, si innamorano nel segno di Peter Brook, ma tra amore e cultura...

Sociog. #02 2004 La fabbrica del Vogelpik

Ingrid, dal Belgio Le abitudini quotidiane degli artisti durante il FdA rappresentate in forma "topografica"... e tutto questo per "fare centro"!

Sociog. #03 2004 Nathan, il saggio Nathan, 15 anni Da cinque anni trascorre una settimana delle sue vacanze estive con i genitori che lo portano al FdA, ma a lui non dispiace...

Sociog. #04 1996/2004

L'ex-esperto Patrice, professore di filosofia

Va al FdA regolarmente dal 1968... è uno "spettatore professionista"... vede fino a 150 spettacoli in un anno...

Sociog. #05 2004 Il disertore Militante politico, lavora in una società di revisione

Ogni anno dice che sarà l'ultimo... ma è dalla metà degli anni '90 che emette il suo giudizio implacabile: il FdA è diventato il regno dell'idiozia, della volgarità, della promiscuità...

Sociog. #06 1996/2005

L'anarchica La donna dai capelli brizzolati

Già nel 1996 era alla Civette, per partecipare ad ogni dibattito pubblico su spettacoli che immancabilmente non ha visto!

Sociog. #07 2004 L'handicap culturale

Yves e Dominique Nel 2000, dopo 15 anni consecutivi di partecipazione, decidono di non tornare più al FdA a causa di un loro "handicap"...

Sociog. #08 2004 La gran debuttante Joséphine, dalla Corsica

A quale età si può cominciare a frequentare il FdA? A settant'anni si può finalmente scoprire il piacere per il teatro...

* Nel questionario l'occupazione è definita direttamente dall'intervistato ** Il questionario base prevede la distinzione in: sfera locale; sfera regionale (Provenza, Alpi, Costa Azzurra); altre regioni; Parigi e Ile de France; estero.

titolo protagonisti noteabbrev.anno

intervista