98117668 Enrico Castelnuovo Un Pittore Italiano Alla Corte Di Avignone

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da Un pittore italiano alla corte di Avignone di Enrico Castelnuovo Storia dell’arte Einaudi 1
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da Un pittore italiano alla cortedi Avignone

di Enrico Castelnuovo

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:Enrico Castelnuovo, Un pittore italiano alla corte di Avi-gnone. Matteo Giovannetti e la pittura in Provenza nelsecolo XIV, Einaudi, Torino 1962 e 1991

Storia dell’arte Einaudi 2

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Indice

Storia dell’arte Einaudi 3

I. La curia ad Avignone 4

II. Aspetti del mecenatismo papalesotto Giovanni XXII 11

III. Il palazzo dei papi 30

IV. Pittura profana e naturalismo avignonese 42

V. Matteo Giovannetti e la cappella di San Marziale 64

VI. La cultura di Matteo Giovannetti 94

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Capitolo primo

La curia ad Avignone

Avignone. Il nome sonoro della città provenzaleevoca, nella fantasia di molti, un oscuro periodo dellastoria del papato, la cattività di Babilonia, il pontefice,ridotto a creatura del re di Francia, arroccato in unatetra fortezza a picco sul Rodano; Roma abbandonata,le basiliche cadenti, la corruzione, il malcostume, ilnepotismo trionfanti. Ma lo stesso nome può prestarsiad altre risonanze, ed evocare lo sfarzo, il lusso, il fastodi una corte senza pari, un’atmosfera cosmopolita, gliarrivi e gli incontri di re e di ambasciatori, di letteratie di ecclesiastici, di mercanti; il confluire – o almenol’accostarsi – di due poteri e di due civiltà figurative: ilpotere dei papi e quello dei re di Francia, la civiltàtosco-romana e quella gotica francese. E chi sappia farrivivere le lacunose storie di santi condotte ad affrescosu per le pareti delle cappelle del palazzo, le pietre cor-rose delle muraglie, i blasoni delle chiavi di volta can-cellati dal tempo e dallo scalpello, potrà suscitare dinan-zi a sé le immagini di un passato splendente ora affida-to a eloquenti, seppure desolati, resti. Certamente allor-ché, il 5 giugno del 1305, il conclave di Perugia, dopolunghe, tortuose, estenuanti trattative, eleggeva al tronopontificio l’arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got,nessuno avrebbe potuto prevedere per la piccola cittàprovenzale un tale destino, un futuro cosí carico di even-ti. Si racconta che il cardinale Napoleone Orsini avesse

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un presentimento di ciò che sarebbe accaduto, quando,qualche tempo dopo, incontrando nell’anticamera papa-le Niccolò da Prato che di Clemente V era stato il gran-de elettore, esclamava amaramente: «Se io conosco benei guasconi staremo molto tempo senza rivedereRoma!»1.

L’incoronazione del nuovo pontefice avvenne in unquartiere di Lione situato in terra dei re di Francia, e lacorte seguí quindi il suo signore in un incerto peregri-nare, in Guascogna prima, poi nel contado venosino,stabilendosi infine, mentre Clemente V si arrestava nelconvento dei domenicani di Avignone, città del re diNapoli, a Carpentras, capitale del contado e possessopapale. Qui si trovava ancora quando il papa – il 20 apri-le del 1314 – spirò a Roquemaure.

Non era la prima volta che un francesce veniva ele-vato al soglio pontificio, né Clemente V era il primopapa che avesse trascorso fuori di Roma l’intero tempodel suo pontificato: Urbano IV, per esempio, e il suosuccessore, Clemente IV, non vi avevano mai messopiede, e del resto dal 1100 al 1304 i papi erano rimasticentoventidue anni fuori di Roma e soltanto ottantaduein Roma2. Nuovo piuttosto il fatto che un pontefice sistabilisse con la sua corte, e durante tutto il suo regno,non solo fuori di Roma, ma addirittura fuori d’Italia. LaFrancia, però, era divenuta da secoli la dimora sicura deipapi in caso di gravi torbidi romani o di imminentiminacce dell’impero. Era consueto che un papa vi si rifu-giasse, che vi morisse magari (come Gelasio II a Clunynel 1119), che vi venisse eletto e consacrato (Calisto II),e che vi tenesse concili.

Nessuno tuttavia aveva mai pensato di trasportarestabilmente fuori di Roma, sede di Pietro, la corte papa-le; né d’altronde essa aveva fino ad allora assunto un’im-portanza tale per numero e qualità di membri, che i suoispostamenti, i suoi trasferimenti temporanei in altri cen-

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tri, avessero conseguenze di rilievo per la storia della cul-tura, portassero ad approfonditi scambi di esperienze, aincontri di artisti, di letterati. Il mecenatismo papale,infine, non aveva ancora affrontata l’impresa di tra-sformare completamente il volto di una città, come orastava per accadere. Palazzi papali erano stati eretti adAnagni, a Orvieto come a Viterbo, ma nessuna di que-ste dimore era nata con lo scopo di eguagliare, o addi-rittura sostituire, il palazzo lateranense.

La politica artistica di Clemente V non conobbe gran-di realizzazioni: egli ebbe una parte assai attiva nellaricostruzione della cattedrale di Saint-Bertrand-de-Com-minges – della cui diocesi era stato vescovo –, si fececostruire un castello nel suo paese natale, a Villandrautsulle rive del Ciron, fondò nel suo feudo di Uzeste unachiesa collegiata ove volle essere sepolto, fece adattarea sua residenza, provvedendo anche a che ne fosse orna-ta di pitture la cappella, il priorato di Sainte-Marie-duGroseau presso Malaucène e diede un importante con-tributo alla costruzione della cattedrale di Bordeaux,ultima sua sede vescovile. Al suo servizio il ponteficenon ebbe che pochissimi artisti, è interessante rilevarecome tra essi fosse un orafo toscano, Tauro da Sienache, al servizio della curia dal 1299 almeno, l’avevaseguita nei suoi spostamenti in Provenza e che trovia-mo nominato nel 1319 come «sergente d’armi», un uffi-cio che veniva a ricompensare i servizi resi da laiciimpiegati dalla corte papale3. La situazione doveva radi-calmente mutarsi con i pontificati successivi di Gio-vanni XXII e di Benedetto XII, sí che Clemente V potéessere definito l’ultimo dei pontefici medievali4.

Il papato di Giovanni XXII rappresentò subito qual-cosa di nuovo. Anche il nuovo pontefice mantenne vivoil proposito di riportare la curia a Roma, ma fu da Avi-gnone che egli, autentico genio amministrativo, riorga-nizzò completamente, con l’aiuto del suo camerarius

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Gasbert de Laval, il sistema fiscale. Centralizzando lacollazione dei benefici e istituendo un rigoroso metododi tassazione riuscì, proseguendo sulla strada aperta daClemente IV, a procurare al tesoro pontificio un eleva-to gettito di imposte che permise di dare, malgrado cheil denaro venisse per la massima parte assorbito dalleguerre d’Italia, un tono assai elevato alla vita della corte.In conseguenza dei radicali mutamenti apportati al fisca-lismo pontificio la curia prese allora a intrattenere rap-porti complessi e sempre crescenti con le grandi com-pagnie bancarie italiane5. Il sistema politico-religioso delpapato andò sempre maggiormente assimilandosi allaorganizzazione accentratrice delle giovani monarchieterritoriali, che il pontefice, per anni cancelliere del redi Napoli Carlo II d’Angiò, ben conosceva6.

Sotto il governo dei papi di Avignone la corte ponti-ficia abbandonò aspetti organizzativi tipicamente medie-vali, modificò strutture e metodi sul modello delle gran-di monarchie, garantendo cosí sicurezza e continuitàalla propria azione, ma riducendosi spesso, proprio peraver abbracciato questa linea di condotta, a inseguireinteressi particolari e terreni, esponendosi alle critichepiú aspre. Da un lato dovette affrontare una battagliasenza speranza per l’affermazione della teocrazia papa-le contro gli sforzi di emancipazione del potere laico,degli stati, dei monarchi, dall’altra finí per imitare imetodi stessi di questi poteri.

Il concetto della plenitudo potestatis, irrealizzabilenella azione politica verso gli stati nazionali, fu ribadi-to e sviluppato all’interno della vita della chiesa, doveil pontefice andò gradatamente affermando la propriaassoluta autorità. Due aspetti sembrano in questomomento coesistere nell’azione del papato, uno moder-no, che si riassume nel passaggio dalla vita errabondaalla sedentaria, nella nuova politica fiscale, nelle guerred’Italia volte ad assicurargli una salda base territoriale,

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nella sfarzosa politica artistica; un altro piú legato al pas-sato, che si esprime nelle ultime lotte con l’impero e,soprattutto, nei sempre risorgenti progetti di crociata.Il totale fallimento di questi progetti, che pure eranostati tra le principali preoccupazioni dei papi di Avi-gnone, dimostra a sufficienza come l’orizzonte politico-ideologico stesse cambiando, rispetto a quello dell’etàprecedente7.

Il soggiorno avignonese dei papi è dunque il momen-to della mutazione, del passaggio tra il papato medieva-le e quello moderno, e non a caso fu proprio in questodelicato periodo che attacchi violentissimi furono por-tati contro la curia:

L’assalto muove da tutte le parti, dai rappresentantidelle grandi forze politiche, religiose e culturali del tempo,e va oltre ai singoli abusi per colpire, con una critica rivo-luzionaria, l’intero sistema della plenitudo potestatis prima,poi del fiscalismo pontificio, infine l’istituto stesso dellachiesa e del papato. Si tratta della grande crisi che culmi-nerà nello scisma, nell’agonia della civiltà medievale, è laribellione contro il principio autoritario e unitario delmondo medievale, il dibattito sui fondamenti e sul limitidell’autorità nel campo religioso e civile8.

Malgrado l’intento, sempre dichiarato, di ritornare aRoma, non appena le condizioni politiche generali equelle italiane in particolare l’avessero reso possibile, lasede del papa diviene stabilmente Avignone, di cui Gio-vanni XXII era stato vescovo tra il 1310 e il 1321. Èda questo momento che si inizia la trasformazione dellacittà da modesto centro, ancora provato nell’economiadalle conseguenze della guerra contro gli albigesi, a capi-tale dell’intera cristianità, a nova Roma. La corte papa-le cambia aspetto, vastità di funzioni e numero di addet-ti se ne accrescono singolarmente; essa assume ora una

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fisionomia nettamente mondana, diviene un grandeorganismo internazionale.

Centro della cristianità e sede della curia Avignoneaumenta a dismisura di popolazione e di importanza. Ree potenti vi convengono per risolvere gli affari in discus-sione con il papato, vi ergono dimore ove risiederedurante il loro soggiorno (il palazzo dei re di Majorca,signori di Montpellier, si ergeva dove verrà poi elevatoil collegio di San Marziale, la casa del delfino di Vien-ne entro la cinta del convento dei francescani, quello chesarà poi il monastero di Sant’Orsola era allora il palaz-zo del re di Napoli); prelati arrivano da ogni parte d’Eu-ropa per sbrigare una pratica, sollecitare un beneficio;postulanti, pellegrini, mercanti, banchieri riempionoogni casa.

1 Jacques-François de Sade, Mémoires pour la vie de François Pétrar-que, vol. I, Amsterdam 764, p. 22.

2 Louis Gayet, Le grand schisme d’Occident, Firenze 1889, p. 3;Guillaume Mollat, in Dictionnaire apologétique de la foi catholique,voce Papes d’Avignon, vol. III, Paris 1916, colonne 1535-1536.

3 Sulla corte di Clemente V cfr.: Bernard Guillemain, Le personnelde la cour de Clément V, in «Mélanges d’archéologie et d’histoire»,lxiii, 1951, pp. 139 sgg.; Id., La cour pontificale d’Avignon(1309-1376). Etude d’une société, Paris 1962, pp. 75 sgg.

Per l’attività artistica svoltasi sotto il suo pontificato cfr.: Mauri-ce Faucon, Les arts à la cour d’Avignon sous Clément V et Jean XXII(1307-34), in «Mélanges d’archéologie et d’histoire», ii, 1882, pp. 36sgg.; Robert Brun, Avignon au temps des papes, Paris 1928, pp. 11 sgg.;G. Mollat, Les papes d’Avignon, 9a ed., Paris 1949, pp. 33-36 (conampia bibliografia).

Sul priorato del Groseau cfr.: J.-F. de Sade, Mémoires ecc. cit., vol.I, p. 31; Ferdinand e Alfred Sauvel, Histoire de la ville de Malaucène,vol. I, Avignon 1882, pp. 107 sgg.; Michel Brusset, Malaucène, Car-pentras 1981. Sulla cattedrale di Bordeaux oggetto della munificenzadel pontefice cfr. J. Gardelles, La cathédrale Saint-André de Bordeauxse place dans l’histoire de l’architecture et de la sculpture, Bordeaux 1963;Id., Bordeaux ville médiévale, Bordeaux 1989, pp. 33 sgg.

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4 Max Dvo≈ák, Die Illuminatoren des Johann von Neumarkt, in «Jahr-buch der Kunstsammlungen der Allerhöchsten Kaiserhauses», xxii,1901, pp. 35 sgg., poi ripubblicato insieme ad altri scritti in GesammelteAufsätze zur Kunstgeschichte, München 1929, pp. 128 sgg.

5 G. Mollat, Les papes d’Avignon cit., pp. 44 sgg.; Yves Renouard,La papauté à Avignon, Paris 1954, pp. 101 sgg.; sui crescenti rapportidel papato con le compagnie bancarie cfr. Id., Les relations des papesd’Avignon et des compagnies commerciales et bancaires de 1316 à 1378,Paris 1941.

6 Oltre alle opere citate del Mollat e del Renouard cfr.: B. Guille-main, Punti di vista sul papato avignonese, in «Archivio storico italiano»,vol. CXI, 1953, p. 190 e, soprattutto la fondamentale ricerca dello stes-so Guillemain, La cour pontificale d’Avignon cit.

7 Niculae Jorga, Philippe de Mézières et la Croisade au XIVe siècle,Paris 1896, pp. 33 sgg.; Aziz Suryal Atiya, The Crusade in the laterMiddle Ages, London 1938; N. Honsley, The Avignon Papacy and theCrusades 1305-1378, Oxford 1986.

8 Giorgio Falco, La Santa Romana Repubblica, Napoli 19542, pp.320-21.

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Capitolo secondo

Aspetti del mecenatismo papale sotto Giovanni XXII

Sotto Giovanni XXII Avignone si avvia a essere unodei piú importanti centri culturali d’Europa. Vari ele-menti convergono in questa direzione: la rapida forma-zione della biblioteca dei papi e di quelle minori dei car-dinali, il vivace commercio dei manoscritti, il passaggiodi grandi intellettuali italiani, francesi, inglesi, boemi,fossero essi addetti agli uffici curiali, o venuti ad Avi-gnone come emissari dei loro re o come semplici viag-giatori; il soggiorno, infine, del giovane Petrarca.

La nuova vivace curiosità del nascente Umanesimoitaliano e la gloriosa tradizione classica del Medioevofrancese si incontrano a questo crocevia, e sarà un con-tatto ricco d’avvenire. La Francia del Trecento, con lasua eccezionale ricchezza di manoscritti di testi antichi,salvati dai naufragi dell’alto Medioevo grazie all’attivitàdegli scriptoria abbaziali carolingi e romanici, era unaterra promessa per i bibliofili e i letterati, che da Avi-gnone partivano a perlustrare le grandi biblioteche dellecattedrali e delle abbazie.

Da Nicholas Trivet a Convenevole da Prato, daRobert of Bury a Bernard Gui, ad Alvaro Pelayo, aDurand de Saint-Pourçain, ad Armando di Belviso, aRaimondo Superano, a Giovanni Colonna, da Petrarcaa Boccaccio, a Pierre Bersuire, da Marsilio da Padova aCola di Rienzo, da Jean de Jandun a Philippe de Vitry,

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a John Grauntson, a Marin Sanudo, a Luca di Penne, aDionigi di Borgo San Sepolcro, a Giovanni d’Andrea, aLuigi Marsili, a Francesco Nelli, a Giovanni Moccia, aLeonardo Bruni, per quasi un secolo molti tra i miglio-ri ingegni della cultura europea passano da Avignone, ocon Avignone mantengono stretti rapporti. Sono per-sonaggi disparati, di formazione, di orientamento cul-turale, di interessi molto diversi; sono giuristi, notai,canonisti, storici, teologi, letterati, musici, politici; ma,dagli ingegni piú conservatori a quelli piú moderni, tuttisono vivamente interessati, seppure spinti da diversemotivazioni, alla conoscenza della cultura antica: nonper nulla proprio qui ad Avignone, e non a Bologna o aMontpellier, Francesco Petrarca ricevette la sua educa-zione umanistica1.

Ragioni disparate hanno condotto questi uomini adAvignone, talora drammatiche come quelle che incalza-vano Cola di Rienzo, altre volte piú consuete: nellamaggioranza dei casi la speranza di ottenere un appog-gio, un beneficio, un impiego, l’intenzione di dedicareun’opera a un potente per ricercarne il favore. Papi ecardinali incoraggiano le ricerche ordinando commentia opere classiche (il costante acuirsi degli interessi perla cultura antica è testimoniato dagli sviluppi dellabiblioteca pontificia e dalla celebre lista dei libri meipeculiares del Petrarca) e soprattutto assegnando aglistudiosi i proventi di benefici ecclesiastici. Nella storiadella cultura trecentesca avignonese è questo un aspet-to di notevole importanza: un rilevante incremento deglistudi fu reso possibile infatti dalle prerogative papali,che in quel tempo si andavano affermando, di accen-trare, e di poter – di conseguenza – distribuire, un grannumero di benefici sparsi per l’intera Europa.

La sede della curia romana diviene in quel tempo unluogo d’incontro, un ponte gettato tra gli intellettuali diogni paese2; vi ebbero luogo contatti fondamentali non

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solo tra le varie culture dell’Europa occidentale, ma traqueste e quelle dell’Oriente cristiano, in particolarequella greca3. Piú di un secolo di ricerche, da quelle delFaucon, del padre Ehrle, dello Dvo≈ák, del Sabbadini,a quelle del Coville, dello Ullmann, del Simone, del Bil-lanovich, del Weiss, della Maier4 permettono oggi divalutare questa situazione in termini piú esatti di quan-to non fosse possibile quando imperava una condannatroppo generica; ne offre esemplare testimonianza l’af-fermazione del Billanovich che Avignone, durante ilsoggiorno dei papi, fu la capitale d’Europa, e che lecorti di Giovanni XXII e di Clemente VI promossero ilprogresso della cultura europea in misura sensibilmenteanaloga a quella in cui lo promossero le corti di LeoneX o di Clemente VII, anche se le ultime hanno trovatonei contemporanei e nei posteri un maggiore apprezza-mento5. Se queste affermazioni sono in certa misuraincontestabili, è d’altronde vero che sulle linee direttri-ci lungo le quali si muoveranno le ricerche e gli interes-si della cultura avignonese, l’azione diretta dei papi ebbeun’importanza, tutto sommato, ridotta. Il fenomenocomplesso di quella che potremmo chiamare la civiltàavignonese fu reso possibile dalla nuova fisionomia cheandava in quegli anni assumendo la curia, sotto l’im-pulso della volontà papale e degli incontri e delle espe-rienze stimolanti che derivarono dall’avere trasferito inFrancia la sede pontificia, ma si svolse poi in modoautonomo. La politica culturale dei papi non conobbeuna precisa linea d’azione, e consistette soprattutto nel-l’attirare ad Avignone, prevalentemente per ragioni diprestigio, un gran numero di letterati e di artisti. Daquesto punto di vista rimane tuttora valido quanto scris-se Gabriel Monod recensendo, sulla «Revue histori-que», il libro di Jean Guiraud, L’église et les origines dela Renaissance6 ove con una mole assai vasta, ma altret-tanto disparata di argomenti, l’autore tentava di riven-

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dicare al papato una precisa, cosciente e fondamentaleresponsabilità nel formarsi dell’Umanesimo e del Rina-scimento:

Pour nous, si nous accordons à l’église et à la traditionreligieuse une influence considérable sur la Renaissance,nous n’en accordons aucune en particulier à la Papauté,sinon l’influence qu’ont tous les mécènes qui aident etencouragent les artistes. Peut-être à Avignon la Cour pon-tificale a-t-elle contribué à créer un mouvement artistique.C’est là un fait insuffisamment éclairci, mais même là lespapes ne paraissent point avoir eu des tendances marquées.Le palais des Doms, que M. Guiraud fait rentrer dans soncadre, est, au point de vue architectural, une œuvre qui n’arien de la Renaissance, et les papes faisaient indifféremmenttravailler les artistes français et les italiens7.

Appare indubitabile oggi che i papi abbiano contri-buito in modo determinante a fare di Avignone un viva-ce centro artistico, ma altrettanto indubitabile è che leloro scelte, le loro propensioni, ebbero un peso moltorelativo sulla fisionomia del movimento che avevanosuscitato, e che per alcuni riguardi fu anzi questo aimporre alla corte certe sue nuove caratteristiche. L’e-sistenza del grandioso organismo in cui si era trasfor-mata la curia obbligava praticamente quasi tutti gli intel-lettuali europei a venire in contatto con essa per otte-nerne possibilità di sostentamento e di studio; è in que-sto senso che vanno visti i rapporti tra alcuni personag-gi che presto dovranno diventare accesi anticurialisti,come Marsilio da Padova e Jean de Jandun, e la corteavignonese. Avignone insomma divenne un centro cul-turale importantissimo per il solo fatto che vi risiedevala curia, per ciò che la curia era diventata, e per lostraordinario giro di interessi che attorno a essa gravi-tava. Esso ebbe una parte fondamentale nel diffondere

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in Francia la cultura protoumanistica italiana e d’altraparte nello stimolare lo sviluppo degli studi classici nellastessa Italia, arrivando a dar luogo a un rapporto multi-plo, una specie di cross-fertilization (come la chiamò Ull-mann)8, ove le esperienze di varie culture erano messe aparagone e arricchite dal reciproco contatto. A ciò siarrivò proprio nel corso del lungo pontificato di Gio-vanni XXII che gli studi degli storici politici ed econo-mici, venuti ad appoggiare quelli degli storici della cul-tura, hanno liberato dalle deformazioni di parte per-mettendo che ne apparissero in luce i caratteri di origi-nalità e di novità. Anche per le arti figurative furonoallora poste le premesse per un’analoga molteplicità dirapporti, una nuova cross-fertilization che diverrà impo-nente sotto i successivi pontificati di Benedetto XII edi Clemente VI. Il problema va visto entro l’ambito delmecenatismo artistico papale che assunse in questi anniun aspetto nuovo e tale da caratterizzare originalmenteil soggiorno avignonese della curia.

Indubbiamente tale fenomeno non aveva avuto i suoiinizi in Avignone. Senza risalire alla chiesa tardo-impe-riale o carolingia basterà ricordare i pontefici degli inizidel xii secolo: Pasquale II che fa riedificare a sue spesela chiesa dei Quattro Santi Coronati bruciata da Rober-to il Guiscardo, Calisto II che promuove con il suocamerarius Alfano il rifacimento di Santa Maria inCosmedin e fa decorare in Laterano la cappella di SanNicola con affreschi celebranti la vittoria della chiesanella lotta delle investiture e il concordato di Worms,oppure, alla fine del secolo, Celestino III. Nel Duecen-to il fenomeno non fece che prendere maggiore ampiez-za con i grandi lavori alle basiliche condotti da Inno-cenzo III, Onorio III, Gregorio IX. Verso la fine delDuecento compaiono poi quelli che possono essere con-siderati i diretti predecessori dei papi avignonesi, Nic-colò III, vero fondatore del Vaticano, costruttore del

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Sancta Sanctorum lateranense, Niccolò IV, BonifacioVIII soprattutto9.

Il problema è in verità piú complesso. Altro era statoil seguire, curare, sorvegliare un patrimonio venerabile,riparando alle rovine del tempo e degli uomini, agliincendi, ai saccheggi, ai crolli – una tutela esercitata delresto, anche se in tono minore, anche dai pontefici avi-gnonesi10 – abbellendo lentamente gli edifici piú rile-vanti; altro il cambiar d’un tratto volto a una città, ilcreare in pochi anni una miriade di nuove fondazioni,palazzi, chiese, cappelle, conventi, monasteri, collegi, iltrasformare un piccolo comune fino ad allora vissuto dicommerci e di agricoltura, in una capitale d’Europa.Alla continuità di Roma si sostituisce l’innovazione, ilrepentino cambiamento avignonese; la popolazione inve-ce di rimanere costante, o di diminuire come a Roma,si accresce vertiginosamente; è un po’ la situazioneromana del Giubileo resa permanente. A ogni modo sepure pontefici e cardinali della fine del Duecento (esem-pio illustre lo Stefaneschi)11 avevano aperto la strada aipapi avignonesi, l’impegno continuato di un attivo mece-natismo artistico esigeva in primo luogo un introito con-siderevole, in secondo luogo un gusto, un interesse, unapropensione personale, infine una intenzione politica.Tali condizioni, e altre ancora, vennero per l’appunto apresentarsi, a incontrarsi, a fondersi durante il soggior-no avignonese dei papi. Clemente V non aveva avutouna residenza fissa, il suo regno non era stato che uncontinuo viaggiare con soste piú o meno lunghe in sediprovvisorie appena adattate a riceverlo, mentre il com-plesso dei servizi della curia aveva trovato piú stabilerifugio in Carpentras. In attesa di tornare a Roma Gio-vanni XXII decide invece di stabilirsi ad Avignone contutti gli organi e gli uffici della curia, con i cardinali, icortigiani, i funzionari.

Per alloggiare il pontefice si rinnova l’antico palazzo

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episcopale, ne dirige i lavori il provenzale Guillaume deCucuron, e immediatamente ha inizio la decorazione deinuovi edifici. Un pittore tolosano, Petrus de Podio (Pier-re du Puy, Peire del Pueg), un religioso dell’ordine deifrati minori, viene chiamato in curia e vi diviene pictorprimus, pittore della cappella e del palazzo papale. Arri-va ad Avignone nel 1316 e fino alla sua morte, nel 1328,lavora con un gruppo di collaboratori quasi tutti occita-nici, tra cui Joan Oliver, con tutta probabilità lo stessomaestro, forse di origine inglese, che nel 1330 firma idipinti del refettorio della cattedrale di Pamplona. Oltreche alla residenza papale Petrus de Podio è attivo allacattedrale di Notre-Dame-des-Doms e nel castello pon-tificio di Sorgues. Fra i suoi numerosi aiuti francesi einglesi è un Petrus Masonerii, incaricato di molte impre-se nelle chiese avignonesi12. In questo periodo l’attivitàartistica va molto al di là dell’adattamento, a uso di resi-denza papale, del palazzo arcivescovile, o dell’aggiuntadi qualche cappella alla cattedrale di Notre-Dame-des-Doms. In una bolla del 21 novembre 1319 ilpontefice deplora lo stato rovinoso del chiostro roma-nico della cattedrale, la distruzione dei bassorilievi ecapitelli, l’abbattimento delle colonne di marmo nero.Grazie alla sua munificenza la chiesa di Saint-Agricolviene completamente ricostruita, sono fondate la certo-sa di Bonpas e la collegiata di Saint-Rémy, mentre silavora a Notre-Dame-du-Mont-Carmel, a Saint-Augu-stin, ai monasteri dei domenicani, dei francescani e aquelli di Saint-Clair, di Saint-Veran, di Saint-Laurent13.Al pari di un grande signore laico il pontefice si preoc-cupa di rinnovare, riattare e decorare gli antichi castel-li vescovili del contado, da Noves a Bédarrides, a Bar-bentane, a Mornas, a Châteauneuf-de-Gadagne, a Châ-teauneuf-Chalcernier (oggi Châteauneuf-des-Papes).

Un imponente nuovo castello ove saranno accolti gliospiti di qualità – Roberto di Napoli, Giovanni di Boe-

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mia – sorge a Pont-de-Sorgues, amenissimo paese allaconfluenza della Sorgue con l’Ouvèze, «locus felix ubifelicissimus amnis Sorgia decurrit ponsque refringitaquas», come limpidamente lo descriverà tra qualchedecennio l’erudito segretario papale Giovanni Moccia14.

Degli affreschi eseguiti per Giovanni XXII nulla èrimasto, ma il loro stile non dovette essere dissimile daquello dei dipinti di Pamplona dello Oliver, degli affre-schi del palazzo arcivescovile di Narbonne, di quellidella grande sala – probabilmente il refettorio dei cano-nici –, della «Maison de Mirabel» a Viviers, o di quellidella cattedrale di Cahors, la città di origine del ponte-fice, opere probabili delle stesse équipe attive al palaz-zo avignonese o ancora dai resti di pitture murali configure entro edicole gotiche emersi sull’arcone della pare-te destra del nartece della cattedrale avignonese, un edi-ficio in cui molto si lavorò al tempo di Giovanni XXII15:un linguaggio gotico strettamente bidimensionale, disce-so dall’Ile-de-France nella Linguadoca. Sarà solo conBenedetto XII che la pittura italiana si introdurrà sta-bilmente in Avignone e nel mezzogiorno della Francia.Gli affreschi della cattedrale di Béziers, opera di deri-vazione assisiate dovuta a maestri romani chiamati pro-babilmente dal vescovo – e dal 1305 cardinale – Béren-ger Frédol (illustre canonista, diplomatico e viaggiato-re, che i frequenti soggiorni a Roma avevano messo incondizione di ben conoscere quanto stava maturandonella pittura italiana sul finire del Duecento), rimango-no per ora un episodio isolato e senza conseguenze evi-denti, almeno nella Francia del sud-est, benché il lorocommittente fosse stato il piú importante personaggiodella corte di Clemente V16.

Un altro artista italiano, e di grandissimo rilievo,operante soprattutto nell’illustrazione di manoscrittiper un committente molto particolare e non per impre-se pubbliche e largamente visibili dovette essere pre-

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sente in Avignone fin dal 1320 circa. Si tratta dell’a-nonimo pittore e miniatore chiamato, dalla sua operapiú celebre, eseguita per il cardinal Stefaneschi, il«Maestro del Codice di san Giorgio». François Avril hainfatti identificato in un volume, il Liber Visionis Ese-chiel del vescovo di Lucca il francescano Enrico de Car-reto, dedicato a Giovanni XXII ed eseguito ad Avi-gnone intorno al 1321-23 (Parigi, Bibl. Nat., ms lat503), alcune splendide iniziali istoriate che gli appar-tengono. Questo ed altri suntuosi codici miniati (il mes-sale, della Pierpont Morgan Library, i Pontificali roma-ni di Boulogne (Bibl. Mun. ms 86) e di Parigi – ParigiBibl. Nat., ms lat 15619 – e lo stesso Codice di san Gior-gio da cui il maestro prende il nome), dovettero essereeseguiti ad Avignone tra il 132o e il 1330 con ogni pro-babilità per il cardinal Stefaneschi che era nella cittàpontificale dal 1309. Come avverte Luciano Bellosi il«Maestro del Codice di san Giorgio» deve essere statoad Avignone, prima dell’arrivo di Simone Martini, unodi quei protagonisti della colonia artistica italiana nellacittà, destinata ad avere in seguito una enorme impor-tanza per la storia della pittura europea. La sua preco-ce presenza nella città provenzale pone tra l’altro ilproblema delle differenze di gusto, di abitudini, di atte-se estetiche che dovettero esistere tra l’ambiente gra-vitante attorno al pontefice e quello che faceva capo adalcuni cardinali italiani17.

Una situazione particolare è quella di Tolosa ovel’influenza italiana arrivò piuttosto precocemente pervie diverse, forse, da quelle avignonesi. Gli affreschidella chiesa dei domenicani (in particolare quelli piúantichi della cappella di Sant’Antonino, circa 1340-41)e quelli scoperti nella ex chiesa degli agostiniani, sonoilluminanti testimonianze della graduale acquisizione dielementi stilistici italiani da parte dei pittori della Lin-guadoca18.

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In un primo tempo fu dunque la cultura figurativafrancese a dominare in Avignone almeno tra i pittori chelavoravano per il papa, ma non tanto quella del nord bensíquella occitanica. Se gli artisti venivano per la massimaparte dalla Linguadoca, la lingua parlata alla corte era ilprovenzale: Giovanni XXII non poteva leggere senza l’aiu-to di un traduttore le lettere che gli indirizzava Carlo IVe che erano scritte nella lingua in uso a Parigi19.

Qualche artista straniero oltre a quelli che lavorava-no per il cardinal Stefaneschi comincia già ad arrivarein curia. Si è già detto che Joan Oliver – il collaborato-re di Petrus de Podio – era probabilmente di origineinglese, inoltre un architetto britannico, Hugh Wilfred,costruisce tra il 1321 e il 1322 una cappella nella catte-drale di Notre-Dame-des-Doms e un pittore inglese èattivo ad Avignone e a Sorgues accanto al suo probabi-le conterraneo Oliver e a Petrus de Podio. Il suo nomeè Thomas Daristot e si è voluto ipoteticamente – ma conscarsa plausibilità – identificarlo con quel Master Tho-mas, figlio di Walter of Durham, autore della splendi-da decorazione dei sedilia nell’abbazia di Westminstere pittore di Edoardo II di Inghilterra20. Allo stesso Wil-fred, o forse a un Johannes Anglicus attivo tra il 1336e il 1351, si deve la tomba di Giovanni XXII nella cat-tedrale21. Questo monumento funebre sormontato daun alto baldacchino e isolato dal muro trova preceden-ti in molte tombe britanniche del primo Trecento; è untipo che si imporrà ad Avignone per le sepolture papa-li, tanto che lo si ritroverà esattamente rispecchiatonella piú tarda tomba di Innocenzo VI alla certosa diVilleneuve, opera del tagliapietre Thomas de Tournone dello scultore Barthélemy Cavalier. Il sepolcro di Gio-vanni XXII, ridotto ora a desolato e spoglio rudere, eratutto uno svettare di contrafforti, di guglie, di pinnacoli,un fremere di nervature su per i fasci di colonnine, pergli archi trilobati, per i timpani acuti, un fitto, colorato

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intreccio di rosoni, di mensole, di foglie, attorno alvuoto oscuro delle nicchie. Una folla di statue dovevaun tempo animarlo, ora sono sparite e l’alto monumen-to, infranto e rappezzato alla meglio, si erge sotto leampie volte gotiche della cappella come un gran naviglioabbandonato, in disarmo. Insieme agli artisti aquitani-ci e provenzali operano dunque degli inglesi; è un primosegno dei contatti, degli incontri, che si svolgerannosotto il segno di Avignone. Può darsi che Hugh Wilfrede Thomas Daristot siano giunti in curia al seguito dellamissione svolta in Inghilterra da due personaggi di primopiano della corte papale: i cardinali Gaucelme de Jean eLuca Fieschi. Un fenomeno significativo della civiltàavignonese è infatti proprio questo, che sovente un viag-gio diplomatico ha, come conseguenza, un contatto arti-stico. Un cardinale torna in curia accompagnato da unoscultore, da un pittore, da un orafo; un vescovo cheriparte da Avignone conduce con sé un architetto, cuiaffiderà, una volta rientrato nella sua diocesi, la costru-zione di una cattedrale, di un monastero, di un ponte.Il «Maestro del Codice di san Giorgio» e Simone Mar-tini arrivarono in curia sollecitati, verisimilente, da uncardinale; Giovanni di Drazic, vescovo di Praga, chia-ma, al suo ritorno in Boemia, l’architetto Guillaumed’Avignon; l’imperatore Carlo IV, che a Parigi era statoallievo di Pierre Roger il futuro Clemente VI, giunto inAvignone per rendere omaggio al suo antico maestrosalito sul trono papale, riporta in Boemia alcuni pittoriche si troveranno piú tardi citati nella corporazionedegli artisti di Praga22, e l’architetto Mathieu d’Arras(diocesi di cui il pontefice era stato vescovo) che inizieràla costruzione della cattedrale di Praga.

Attorno al Papa sono i cardinali, ricchi e potenti, daigusti svariati, talora rozzi ma sempre pieni di interessi,di curiosità. La ricchezza del sacro collegio era moltoaumentata da quando, nel corso del Duecento, gli era

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stata attribuita la metà delle ordinarie rendite papali, esoprattutto da quando si era generalizzato l’uso delcumulo dei benefici; al principio del Trecento inoltre lasua fisionomia era bruscamente mutata. Fino ad allorala maggioranza, pur esistendo già ai tempi di Urbano IVun solido partito francese, era stata di cardinali italiani:ora essa passa ai transalpini. Tra i ventiquattro cardinalinominati da Clemente V c’è un solo inglese e nessun ita-liano; tra il 1316 e il 1375 furono nominati cardinali uninglese, cinque spagnoli, quattordici italiani e novantafrancesi, originari, soprattutto, della Linguadoca23. Ilmecenatismo dei cardinali rinterza quello dei pontefici:essi installano sontuose dimore – le cosiddette livree (dalibratae, termine con cui si indicavano le case che veni-vano consegnate ai cardinali per residenza) – nei palaz-zi nobili della città che ampliano, trasformano e osten-tatamente muniscono di quelle superbe torri che prestodivengono una caratteristica del paesaggio avignonese eche Petrarca sferzerà con veemenza24. I prelati piúimportanti e piú ricchi si fanno costruire residenze dicampagna a Villeneuve, sull’altra riva del Rodano difronte ad Avignone, e sulle due sponde della Sorgue, aPont-de-Sorgues e a Gentilly. Arnaud de Via, cardina-le-prete di Sant’Eustachio e nipote di Giovanni XXII,si costruisce un palazzo ad Avignone, una residenza aVilleneuve e qui fonda e dota una chiesa collegiata dovevuole essere sepolto25.

Ce pape, – scrive César de Nostradamus di GiovanniXXII26, – eut une merveilleusement belle, noble, et magni-fique Cour, illustrée d’un grand nombre de Cardinauxtres-honnorables, pour la plus part de hautes et relevéesmaisons... Ce qui faict bien aisement croire, qu’Avignon dece temps devoit estre en sa superbe et florissante grandeur,ainsi que les vieils fragmants qu’on y void encor le tesmoi-gnent irreprochablement...

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Segue la lista dei cardinali e la semplice enumerazio-ne, l’accostamento dei nomi celebri e altisonanti nellaarcaica grafia secentesca si colora di riflessi preziosi.Sono i cardinali di Ostia, di Tuscolo, di Sabina,

de Canilhac, d’Albanie, Berenguier, Albe, de Sainct Seve-rin, de Bayonne, Neapolion, Teste, Cayetan, Raymond deFarges, Guillaume de Bergame, Pellagrue, Luce de Flisco,Bernard de Gournon, Jacques de Collonne, Saint Michel,Nicolas de Brancaz, Guilhen de la Motte, Prenestin,Matthieu, Pierre, des Prats, Saincte Agathe, Annibal deChecano, Jean et Pierre de Collonne...

I principi della chiesa vivono attorniati dalla ric-chezza e dal lusso nelle loro corti che potevano com-prendere fino a un centinaio di persone, chiamano adAvignone artisti per decorare i loro palazzi, le loro fon-dazioni, e hanno una parte di primo piano nell’incorag-giare gli studi e le lettere al pari delle arti figurative. Dueesempi possono perfettamente servire a inquadrare,anche da un punto di vista cronologico, la curiositàintellettuale e il mecenatismo dei cardinali avignonesi27:il commento alle tragedie di Seneca ordinato nel 1314dal cardinale domenicano Niccolò da Prato all’eruditodomenicano inglese Nicholas Trivet, e l’appassionataricerca che, attorno al 1372, il cardinale Piero Corsiniandava facendo di uno scritto di Plutarco sull’ira, di cuiaveva trovato notizia leggendo Aulo Gellio, una ricercache si concluse solo quando l’arcivescovo di Tebe, Simo-ne Atumano, riuscí a procurargliene il testo. Numerosealtre figure di cardinali vengono a confermare la conti-nuità e la vastità di questi interessi, da Giovanni Colon-na, amico e protettore del Petrarca, a Philippe de Cabas-sole che fondò nella sua diocesi di Cavaillon una pub-blica biblioteca.

Durante il lungo pontificato di Giovanni XXII si

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fece gradualmente strada un problema politico che ebberilevanti conseguenze sul terreno artistico: una voltapassata Avignone dal ruolo di sede temporanea, qualeViterbo o Orvieto, Rieti o Anagni o Verona, a quello disede abituale e forse, tacitamente se non dichiarata-mente, definitiva, diveniva evidente la necessità di egua-gliare, per quanto fosse possibile, la solennità di Romae lo sforzo delle corti monarchiche, conosciute spessodirettamente dai papi e dai cardinali avignonesi. Era unaquestione di prestigio, una risposta alla duplice sfida deimonarchi e degli esaltati zelatori di Roma, fervidi dientusiasmi archeologici. Il ricordo del palazzo latera-nense, carico di gloriose tradizioni con il suo tricliniopluriabsidato e le sue cappelle scintillanti di mosaici e dimarmi, adorne di affreschi che celebravano le vittoriedella chiesa; le immagini del nuovo palazzo vaticano edel suo giardino, voluti da Niccolò III in prossimitàdella basilica dell’Apostolo, dovettero costituire preoc-cupanti e sempre presenti termini di confronto per i papiavignonesi. La risposta venne dall’enorme palazzo, dallesue grandiose torri, dai suoi cortili, dai suoi giardini,dalle sue maestose sale voltate, la cui costruzione sicompì, con insueta celerità, nello spazio di poco piú diuna ventina d’anni.

1 Roberto Weiss, Lo studio di Plutarco nel Trecento, in «La paroladel passato», viii, 1953, p. 321. Assai significativo in questo senso losvilupparsi ad Avignone nelle costruzioni papali di un ambiente per lalettura e la riflessione solitaria che viene indicato con il termine di stu-dium. Cfr. Wolfgang Liebenwein, Studiolo, Berlin 1977, ed. ital. Mode-na 1988, pp. 19 sgg.

2 Giuseppe Billanovich, Petrarca letterato, I, Lo scrittoio del Petrar-ca, Roma 1947, p. 44.

3 R. Weiss, Lo studio di Plutarco ecc. cit., pp. 322 sgg.; Luis LopezMolina, Tucidides romançeado en el siglo XIV, Madrid 196o.

4 M. Faucon, La librairie des papes d’Avignon, Paris 1886-87; Franz

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Ehrle, Historia Bibliothecae Romanorum Pontificum tum bonifatianaetum avenionensis, Roma 189o; M. Dvo≈ák, Die Illuminatoren des Johannvon Neumarkt cit.; Remigio Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e grecinei secoli XIV e XV. Nuove ricerche, Firenze 1914; Alfred Coville, La vieintellectuelle dans les domaines d’Anjou-Provence, Paris 1941; BertholdLouis Ullmann, The origin of Italian Humanism, in «Philological Quar-terly», xx, 1941, pp. 20 sgg., ripubblicato in Studies in the ItalianRenaissance, Roma 1955, pp. 27 sgg.; G. Billanovich, Petrarca lettera-to ecc. cit.; Id., Petrarch and the textual tradition of Livy, in «Journal ofthe Warburg and Courtauld Institutes», xiv, 1951, pp. 137 sgg.; R.Weiss, Lo studio di Plutarco ecc. cit.; Franco Simone, Il Quattrocentofrancese, Torino 196o; A. Maier, Der literarische Nachlass des PetrusRogerii (Clement VI) in der Borghesiana, in Ausgehendes Mittelalter,gesammelte Aufsätse zur Geistesgeschichte des XIV. Jahrhunderts, II, Roma1967, pp. 255 sgg.

5 G. Billanovich, Petrarch and the textual tradition of Livy cit., p. 197;cfr. anche: Diane Wood, Clement VI. The Pontificate and Ideas of anAvignon Pope, Cambridge 1989, pp. 43 sgg.

6 Jean Guiraud, L’église et les origines de la Renaissance, Paris 1902.7 «Revue historique», vol. LXXX, 1902, p. 399.8 B. L. Ullmann, The origin of Italian Humanism cit., p. 29.9 Eugène Müntz, Etudes sur l’histoire des arts à Rome pendant le

Moyen Age, Boniface VIII et Giotto, in «Mélanges d’archéologie et d’hi-stoire», 1, 1881, pp. 111 sgg. Sulla Roma del Duecento cfr. R. Bren-tano, Roma before Avignone, New York 1974. Sulle imprese artistichedei papi Niccolò III e Niccolò IV cfr. E. Castelnuovo, Arte delle città,arte delle corti tra XIII e XIV secolo, in Storia dell’arte italiana, V, Tori-no 1983, pp. 202 sgg., con bibliografia.

10 Id., Les sources de l’histoire de l’art de la ville d’Avignon, in «Bul-letin archéologique du comité des travaux historiques», 1888, pp. 271e 281-82.

11 Arsenio Frugoni, La figura e l’opera del cardinale Stefaneschi, in«Atti della Accademia nazionale dei Lincei», serie VIII, 1950. Ren-diconti classe di scienze morali, storiche e filologiche, vol. V, pp. 397sgg.; Id., Coelestiniana, Roma 1954, pp. 103 sgg.; M. Dykmans, Ilcerimoniale papale dalla fine del Medioevo al Rinascimento, II. DaRoma in Avignone ossia il cerimoniale di Jacopo Stefaneschi, Bruxelles,Roma 1981.

12 Per i pittori di Giovanni XXII cfr.: J.-F. de Sade, Mémoires ecc.cit., I, p. 77 (in nota); M. Faucon, in «Mélanges d’archéologie et d’hi-stoire», 11, 1882, pp. 51 sgg.; iv, 1884, pp. 90 sgg.; Karl HeinrichSchaefer, Die Ausgaben der apostolischen Kammer unter Johann XXII,Paderborn 1911, cfr. indice alle voci de Podio fr. Petrus, MasoneriiPetrus; Léon-Honoré Labande, Les primitifs français; peintres et peintres

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verriers de la Provence occidentale, I, Marseille 1932, pp. 7, 64 sgg.; U.Robert Mesuret, Les peintures murales de Toulouse et du Comminges,Toulouse 1958, pp. 12 s9g., 42.

Sull’Oliver e la sua opera di Pamplona cfr. particolarmente JoséGudiol, Datas para la historia del arte navarro, in «Principe de Viana»,v, 1944, p. 287; G. C. Callahan, Revaluation of the refectory retable fromthe cathedrale of Pamplona, in «The Art Bulletin», xxv, 1953, pp. 181sgg.; J. Gudiol, Pintura gotica, in «Ars Hispaniae, Historia universal delarte hispanico», ix, Madrid 1955, p. 36; U. R. Mesuret, De Pamplonaà Toulouse. En torno a Joan Oliver, in «Principe de Viana», 1958, pp.9 sgg.; C. Lacarra Ducoy, En torno a Joan Oliver, in Actas XXIII cong.Int. Historia de Arte, Granada 1973, I, pp. 373 sgg.; Id., Aportación alEstudio de la Pintura Mural Gótica Navarra, Pamplona 1974; Id., Pin-turas murales navarras: nueva aproximaciòn a su estudio, in «Principe deViana», 1986, pp. 351 sgg.

13 La chiesa di Saint-Agricol fu ingrandita nel 1322 da GiovanniXXII che vi fondò un collegio di canonici. Documenti del 1322 ricor-dano l’erezione in questa chiesa di una cappella dedicata a sant’Andreae successivamente, tra il 1325 e il 1326, di un’altra dedicata a san Nau-fario ad opera del lapicida Berenguier Bermond di Noves (K. H. Schae-fer, Die Ausgaben der apostolischen Kammer unter Johann XXII cit., pp.292, 296, 300). In generale per l’attività edilizia ai tempi di GiovanniXXII cfr. Robert André-Michel, Avignon au temps des premiers papes,in «Revue historique», cxviii, 1915, pp. 289 sgg. ripubblicato assie-me agli altri suoi scritti su Avignone in Mélanges d’histoire et d’archéo-logie: Avignon, Paris 1920, pp. 14 sgg.; per la collegiale di Saint-Rémye la certosa di Bonpas, cfr.: M. Chaillan, Saint-Rémy-de-Provence sousle pape Jean XXII, Aix 1922; R. André-Michel, Les constuctions de JeanXXII à Bonpas, in «Mélanges d’archéologie et d’histoire», xxxi, 1911,pp. 369 sgg.

14 Alfred Coville, in «Comptes rendus de l’académie d’inscriptionset belles lettres», 1941, p. 398. Sulla costruzione del castello di Sour-gues e sui suoi dipinti cfr. E. Müntz, in «Mémoires de la société natio-nale des antiquaires de France», 1884, pp. 217 sgg.; M. Faucon, in«Mélanges d’archéologie et d’histoire», iv, 1884, pp. 81 sgg.

15 Sugli affreschi di Viviers cfr. Viviers: peintures murales de l’anti-quité à nos jours, Viviers 1985. Le pitture della cattedrale di Cahorsfurono eseguite sotto l’episcopato di Guillaume de Labroue, parentedel pontefice Giovanni XXII. Gli affreschi della cupola orientale sonoandati distrutti nel 1895 (se ne conservano le copie di Cyprien Calmonnelle Mémoires sur les peintures murales de la cathédrale, Cahors 1884,di Paul de Fontenilles), tuttora esistenti sono quelli della cupola orien-tale, cfr. Cyprien Calmon e Anatole de Roumejoux, Rapport sur ladécouverte de peintures murales du XIVe siècle à la cathédrale de Cahors,

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in «Congrès archéologique de France», sessione XLI, 1874, Agen eToulouse, pp. 413 sgg.; Raymond Rey, L’art gothique du Midi de la Fran-ce, Paris 1934, pp. 293 sgg.; Yves Bonnefoy, Peintures murales de laFrance gothique, Paris 1954, pp. 158 sgg.; Paul Deschamps e Marc Thi-bout, La peinture murale en France au début de l’époque gothique, Paris1963, pp. 167-68.

16 Bérenger Frédol fu vescovo di Béziers tra il 1294 e il 1305. Ebbefrequentissimi rapporti con l’Italia, prima come cappellano di OnorioIV, poi attraverso frequenti viaggi a Roma ai tempi di Niccolò IV e diCelestino V. Nel 1296 durante una riunione del clero francese fu inca-ricato di una missione a Roma. Malgrado il divieto di Filippo il Belloa Roma si recò anche nel 1302 per il concilio, pur continuando a man-tenere ottimi rapporti con il sovrano francese. Nel 1305 fu elevato alcardinalato da Clemente V e nel 1311 fu nominato penitenziere. Morínel 1323. Cfr. Paul Viollet, Bérenger Frèdol, canoniste; in «Histoire litté-raire de la France», vol. XXXIV, pp. 62 sgg., Paris 1914. Sugli affre-schi della cattedrale di Béziers: Miliard Meiss, Fresques cavallinesqueset autres à Béziers, in «Gazette des Beaux-Arts», ii, 1937, pp. 237 sgg.Le due campate della chiesa su cui si aprono le cappelle affrescate risal-gono al principio del secolo xiv (Pierre Lablaude, Saint-Nazaire deBéziers, in «Congrès archéologique de France», sessione CVIII, 1950,pp. 323 sgg.). Sei splendidi busti di angeli sono dipinti entro corniciarchitettoniche sullo zoccolo della parete nella cappella del Santo Spi-rito (la piú antica delle quattro che fiancheggiano la navata). Altriaffreschi (scene della leggenda di santo Stefano) sono dirimpetto nellacappella di Santo Stefano o dei Morti occupando l’intera parete difondo e le luci della finestra parzialmente murata. In questi ultimi l’im-pronta giottesca è particolarmente evidente: nella Apparizione di Gama-liel a Luciano l’architettura è analoga, come nota il Meiss, a quella assi-siate della Visione di Innocenzo III. Di singolare importanza è poi lascena della Disputa di santo Stefano con i Giudei che presenta, con unaprospettiva centrale che ricorda le due cappelle finte di Giotto agliScrovegni, l’interno di una chiesa a tre absidi.

17 Sul Maestro del Codice di san Giorgio si vedano i testi di L. Bel-losi e di F. Avril nel catalogo dell’esposizione L’art Gothique Siennoiscit., pp. 124 sgg.; cfr. anche F. Avril nel catalogo Dix siècle d’ènlumi-nuare italienne, Paris 1984, pp. 60 sgg. Opinabile è il tentativo di J.Howett (Two panels by the Master of San Giorgio Codex, in «Metropo-litan Museum Journal», 1976, pp. 87 sgg.) di rimettere in causa il ruoloartistico della città papale.

18 Sulle pitture murali del Trecento a Tolosa cfr. R. Mesuret e altri,Les peintures murales de Toulouse et du Comminges cit., con ampiabibliografia. In particolare sugli affreschi della chiesa dei domenicanicfr. A. Auriol, Les peintures de la chapelle de Saint-Antonin aux Jacobins

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de Toulouse, in «Congrès archéologique de France», sessione XCII,Toulouse 1929; P.-A. Lemoisne, La peinture française à l’époque gothi-que, Firenze 1932, pp. 28 sgg.; Raymond Rey, L’art gothique du Midide la France, Paris 1934, pp. 300 sgg.; Charles Sterling, La peinturefrançaise, les primitifs, Paris 1938, p. 23; Elie Lambert, L’église des Jaco-bins à Toulouse, in «Bulletin monumental», 1946, pp. 141 sgg.; Y. Bon-nefoy, Peintures murales de la France gothique cit., p. 159; Paul Mesplé,Les Jacobins de Toulouse, Toulouse 1954; Maurice Prin, La première égli-se des frères prêcheurs de Toulouse, d’après les fouilles, in «Annales duMidi», lxvii, 1955, pp. 5 sgg. Sugli affreschi della ex chiesa degli Ago-stiniani cfr. Paul Mesplé e Marcel Rascol, Peintures murales de l’églisedes Augustins de Toulouse, in «Les monuments historiques de la Fran-ce», n. s., vii, 1961, pp. 167 sgg. Sull’importanza del crocifisso dipin-to sulle due facce e sagomato, opera di un artista italiano per il cardi-nale domenicano Guillaume de Peyre de Godin (†1336) che fu Mae-stro del Sacro Palazzo, oggi al Musée des Augustins a Tolosa ha por-tato l’attenzione Maria Laura Testi Cristiani, in un saggio apparso su«Critica d’Arte», 1991.

Quanto al polittico del 1345, con storie della Vergine e della Pas-sione di Cristo nella cattedrale di Albi esso fu donato alla cattedraleda un canonico in tempi relativamente recenti e proviene come è statoaccertato (A. De Floriani, Bartolomeo da Camogli, Genova 1979) dal-l’oratorio di San Bernardino a Lavagnola presso Savona.

19 G. Mollat, Jean XXII et le parler de l’Isle-de-France, in «Annalesde Saint-Louis-des-Français», viii, 1903, pp. 89 sgg.; sulle origini meri-dionali della maggior parte del personale di corte cfr. F. de Ramel, Lesvallées des papes d’Avignon, Monaco 1954; Bernard Guillemain, Lesfrançais du Midi à la cour pontificale d’Avignon, in «Annales du Midi»,lxxiv, 1962, pp. 29 sgg.

20 Su Hug Wilfred cfr.: K. H. Schaefer, Die Ausgaben der apostoli-schen Kammer unter Johann XXII cit., p. 290; John Harvey, The GothicWorld, London 1950, pp. 103, 143; Id., English Mediaeval Architects.A biographical dictionary down to 155o, Gloucester 19871 p. 334. UnThomas Daristot inglese fu operoso nel 1321-22 al castello di Sorgues,nel 1333 al palazzo papale di Avignone, cfr. M. Faucon, in «Mélangesd’archéologie et d’histoire», iv, 1884, p. 93, K. H. Shaefer, Die Ausga-ben der apostolischen Kammer unter Johann XXII cit., p.311; L.-HLabande, Les primitifs français ecc. cit., pp. 7 e 64-65, L’ipotesi chevuole identificarlo con il Master Thomas pittore dei sedilia di West-minster (cfr. su questi: William Richard Lethaby, London and West-minster painters, in «Annual of the Walpole Society», i, 1911-12 pp.69 sgg.) è di J. Harvey (The Gothic World cit., p. 103) ma è scarsamenteprobabile perché il pittore citato nei documenti avignonesi appareessere stato una personalità di secondo piano strettamente dipenden-

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te dal capomastro Petrus de Podio. A Sorgues per esempio egli affre-sca una parte del castello «juxta modum et formas datos per fratremPetrum de Podio de ordine fratrum minorum, pictoris domini nostri»(M. Faucon, in «Mélanges d’archéologie et d’histoire», iv, 1884, p. 93).

21 Su Magister Johannes Anglicus cfr. F. Ehrle, Historia Bibliothe-cae ecc. cit., p. 614; K. H. Schaefer, Die Ausgaben der apostolischenKammer unter Benedikt XII. Klemens VI und Innocenz VI, Paderborn1914, pp. 51, 252, 681; J. Harvey, The Gothic World cit., pp. 81,103, 143; Id., English mediaeval architects cit., pp. 100-1. La tombadel pontefice malamente ricostruita nell’Ottocento perpendicolareall’altare è stata smontata ed è attualmente (giugno 1991) in corso diricostruzione con altra orientazione, dopo aver identificato le traccedella sua collocazione originaria, parallela all’altare. La statua giacentedel pontefice è composita, con una testa certamente ottocentesca,archetti, modanature architettoniche, pilastrini, pinnacoli o menso-le ecc. sono in parte originali e in parte appartengono alla rielabora-zione ottocentesca.

22 E. Müntz, Nouveaux documents sur les architectes d’Avignon auXIVe siècle, in «Bulletin de la société nationale des antiquaires de Fran-ce», 1890, pp. 202 sgg.; M. Dvo≈ák, in Gesammelte Aufsätze ecc. cit.,pp. 87-88; Alfred Woltmann, Das Buch der Malerzeche in Prag, Wien1898, pp. 37 e 47.

23 G. Mollat, Contribution à l’histoire du Sacré Collège de Clément Và Eugène IV, in «Revue d’histoire ecclésiastique», vol. XLVI, 1951, pp.22 sgg., 556 sgg.

24 Sulla ricchezza delle costruzioni cardinalizie: Ernest Renan,Discours sur l’état des Beaux Arts en France au XIV siècle, in Histoire Litté-raire de la France, tomo XXIV, Paris 1862, pp. 629 sgg.; M. Dvo≈ák,in Gesammelte Aufsätze ecc. cit., p. 126; R. Brun, Avignon au temps despapes cit., pp. 79-8o; Pierre Pansier, Les palais cardinalices d’Avignonau XIVe et au XVe siècles, Avignon 1926-29; M. Dykmans, Les palais car-dinalices d’Avignon. Un supplement du XIVe siècle aux listes du dr. Pan-sier, in «Mélanges de l’école française de Rome», lxxxiii, 1971, pp.389-438; M. C. Léonelli, Peintures des livrées cardinalices, in «Monu-ments Historiques», n. 70, 1990, pp. 40 sgg.

25 Leopold Duhamel, Un neveu de Jean XXII, le cardinale Arnaud de Via,in «Bulletin monumental» serie V, xlix, 1883, vol. XII, pp. 401 sgg.

26 César de Nostradamus, L’histoire et chronique de Provence, Lyon1624, pp. 335-36.

27 B. L. Ullman, The origin of Italian Humanism cit., pp. 31-32.

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Capitolo terzo

Il palazzo dei papi

La costruzione di un palazzo nuovo che, accanto allaresidenza del pontefice, potesse ospitare i principali uffi-ci della curia e chiudesse una volta per tutte il capitolodelle residenze di fortuna, fu iniziata e portata avantirapidamente da Benedetto XII, all’incirca un anno emezzo dopo la sua incoronazione. Il 5 giugno 1336 ilpontefice indirizzava al cardinale Pierre des Prés, vesco-vo di Preneste, e al patriarca di Costantinopoli, GozoBattagli, una lettera1 cui affermava la necessità che lacuria aveva di disporre di un proprio palazzo in Avi-gnone «in quo romanus pontifex quando et quamdiuexpediens sibi videbitur decenter valeat immorari». Ilproblema era dunque di erigere un palazzo apposito oveil pontefice romano potesse abitare quando volesse e pertutto il tempo che gli sembrasse necessario, senza esse-re l’ospite di nessuno, una condizione assolutamenteindispensabile per la dignità del papa e della curia.

Le dimensioni inusitate che la nuova dimora vennead assumere colpirono contemporanei e posteri. Petrar-ca, violento e sprezzante quando riconosceva in un’im-presa il sapore di una sfida alla maestà di Roma, parla,alludendo a Clemente VI che andava continuando nelpalazzo l’opera di Benedetto XII, di un «Nembrothpotente in terra e robusto cacciatore contro il Signoreche cerca di raggiungere il cielo con le sue superbetorri»2; un cronista contemporaneo ricorda come Bene-

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detto XII cominciasse a edificare la sua dimora dal suolonel posto ove era prima la residenza del vescovo, e dicele sale di una bellezza solenne e meravigliosa e le torridi un’estrema robustezza3. L’imperatore Sigismondodurante il suo soggiorno avignonese dell’inverno1415-16 ricevette del palazzo una cosí profonda impres-sione che volle portare con sé un dipinto che ne ripro-ducesse l’aspett04; Froissart: lo vanta come «la plus belleet la plus forte maison du monde» e anche se la suaestrema semplicità di linee sembrò nel Cinquecento alcancelliere Michel de l’Hôpital, mancanza d’arte e diraffinatezza, pure neanch’egli poté trattenersi dal mani-festare il suo stupore per la grandiosa solennità dell’in-sieme: «Moles etiam miranda Palatii. Materia et sump-tu; minimum aut nihil artis in illo est». È significativoche questo immenso castello, in cui prende forma unnuovo aspetto di quella integrazione delle arti che nelsecolo precedente si era svolta nell’ambito della catte-drale, sia stato il massimo monumento eretto dai papidi Avignone. Questo palazzo, che è quasi una città, è unpo’ il simbolo del nuovo papato, della rinnovata e dila-tata organizzazione dei suoi interessi terreni. Si aggiun-ga poi che un aspetto nuovo e rivoluzionario proprio deimetodi edilizi moderni, si rivela nella costruzione. Ledimensioni dei blocchi di pietra sono infatti rigidamen-te standardizzate, e solo in questo modo, che consentìun notevole risparmio di tempo, l’immensa costruzionepoté essere terminata in poco piú di vent’anni. Una talerilevantissima innovazione ha potuto per certi aspettiessere paragonata all’adozione, fatta da Luigi XIV, delsistema dei turni continui per gli operai che lavoravanoa Versailles, di modo che mai, né di giorno né di notte,ci fosse nel cantiere un solo momento di stasi5. Supe-rando di molto per magnificenza e grandiosità lo stessopalazzo di Filippo il Bello6 la residenza avignonese, conle sue sculture, i suoi affreschi, le sue vetrate, i suoi

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addobbi suntuosi, si pone come una solenne e grandio-sa prefigurazione, come un gigantesco antenato delledimore che, fra qualche decennio, si faranno erigere ilre Carlo V e i duchi di Borgogna e di Berry.

Attorno all’imponente cantiere si intesse e si precisala fisionomia cosmopolita della città. Vi si incontranoarchitetti di diverse regioni della Francia (dopo Guil-laume de Cucuron – l’architetto di Giovanni XXII –saranno – Petrus Piscis di Mirepoix, Pierre Obreri e infi-ne il settentrionale Johannes de Luperiis, diLouvres-en-Parisis presso Luzerches) e ymaginatorii del-l’Ile-de-France (Jean Lavenier – alias Jean de Paris –autore della tomba di Benedetto XII), vi convergonopittori francesi inglesi, italiani, miniaturisti (Andreasde Belvaco – de Beauvais – illuminator romanae curiae)e maestri di vetrate (Petrus de Proys) (de Paris?) tra il1336 e il 1339 esegue le vetrate della cappella Pontifi-cia) del settentrione. Mentre si innalzano sulRocher-des-Doms le torri gigantesche e si imbastisconole grandi sale sovrapposte del Concistoro e del Grantinello, la città si ingrandisce, rompe definitivamente ilimiti degli antichi remparts. È questo il momento in cuila cultura figurativa italiana penetra decisamente in Avi-gnone. Frequente l’arrivo di pittori italiani, dopo quel-lo, assai precoce come si è visto del Maestro del Codi-ce di san Giorgio sarà il caso di Simone Martini chedecora l’atrio della cattedrale7, poi, almeno per opera,Lippo Memmi e suo fratello Tederico. Nei documentiche riguardano la decorazione pittorica del palazzo sitrovano i nomi di un Filippo e di un Duccio di Siena,di uno Jacopo di Nicola, di un Pietro di Lippo8. Sembraprobabile che Benedetto XII – se non addirittura Gio-vanni XXII, come ha bene avvertito F. Bologna – abbiainvitato Giotto in Avignone per fargli eseguire, nelpalazzo, delle storie di martiri, un viaggio però chedovette rimanere allo stato di intenzione ma che poté

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concretizzarsi in altro modo, vale a dire attraverso l’in-vio di dipinti, di tele in particolare9.

Proprio questo dato, l’arrivo cioè di artisti italiani, edi qual rango, è determinante per la significativa colo-ritura che verrà ad assumere la fisionomia artistica delcentro provenzale. Si spazia qui su di un orizzonteamplissimo quale è quello che si apre nell’area di incon-tro di due grandi culture, nel momento specialmente incui una di esse veniva dall’aver elaborato soluzioni rivo-luzionarie (quali il ritrovamento dello spazio della rap-presentazione e la riscoperta del paesaggio) che in pochidecenni furono conosciute da tutt’Europa, e andavaproponendo quindi, attraverso fatti ed opere memora-bili, fondamentali indicazioni per il successivo svolger-si degli eventi. Quest’incontro, che significò conoscen-za, di artisti di due paesi e di due culture si sviluppò conmaggior forza negli anni del pontificato di Clemente VI,il magnifico signore limosino. Abile teologo, oratorefacondo ed efficace, brillante professore in Sorbona,cancelliere ascoltato e prediletto del re di Francia, abatedi Fécamp, vescovo di Arras, arcivescovo di Sens e poidi Rouen, fu uomo munifico e generoso con uno spic-cato gusto per il fasto e la magnificenza; gusto che spes-so si rivela, nei discorsi che gli attribuiscono i cronisti,come il prodotto di una meditata riflessione politica, diuna linea di condotta deliberatamente assunta e porta-ta innanzi al fine di alzare sempre maggiormente il pre-stigio del papato; cosí quando afferma di avere sempredinanzi agli occhi la massima di Cesare che non si doves-se partir mai scontenti dalla presenza di un principe,come quando dichiara che i suoi predecessori non ave-vano saputo essere papi10.

Clemente VI amò circondarsi di intellettuali: giuristi,teologi, letterati, umanisti, scienziati, filosofi, medici.Incaricava Petrarca di cercargli manoscritti di Cicerone;spirito largo e di tutto curioso fece tradurre una parte

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di un trattato filosofico – quella relativa all’astronomia– del rabbino Levi ben Gerson ove si trovava la descri-zione di uno strumento scientifico che l’aveva moltointeressato; per sua iniziativa, nel 1344 si riuní unacommissione di teologi e computisti per la riforma delcalendario, che però si separò con scarsi risultati dopolunghe ricerche sul «numero d’oro». A un ufficio dellasua corte era impiegato il chierico pavese Opicinus deCanistris11 i cui manoscritti ricchi di singolarissimi dise-gni sono la preziosa testimonianza non solo di un sin-golare caso psico-patologico, ma anche delle curiosità edei timori, degli interessi e della «visione del mondo»di un funzionario di curia a metà, circa, del Trecento.

Il prestigio, il lusso della corte sono la principalepreoccupazione del papa: «Non è solo per assicurare lecerimonie liturgiche, gli uffici domestici, la guardia, chesi mantengono duecentocinquanta o trecento servitori;i cavalieri, le damigelle, gli scudieri alzano il prestigio delpontefice»12. I postulanti, i parenti, l’umanità innume-revole che vive all’ombra della corte, che occupa sva-riatissimi impieghi nei servizi che si vanno sempre piúdifferenziando e specializzando, costituisce una preco-ce galleria di cortigiani, di quei personaggi cioè chesaranno caratteristici delle corti quattrocentesche. Biso-gna ammettere che il lusso, le feste, la straordinariavarietà e ricchezza degli addobbi e delle vesti (sottoClemente VI le spese per il vestiario salgono fino al 12per cento del bilancio apostolico, mentre sotto Giovan-ni XXII ne rappresentano il 3,35 per cento e sottoBenedetto XII, il 2,54 per cento)13 rispondono a un pre-ciso disegno politico. A una medesima volontà di pre-stigio si richiamano altri tratti dell’azione politica diClemente quali la sua concezione della crociata, di cuiassunse personalmente la direzione, affermandosi comeil «vero capo della cristianità contro gli infedeli»14 egiungendo ad armare galere a proprie spese; o i suoi ten-

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tativi, anch’essi poco fortunati, di riprendere, di controalla politica piú condiscendente di un Benedetto XII, ilcontrollo delle terre papali in Italia. Sotto il suo ponti-ficato si compie il gesto definitivo che trasforma Avi-gnone da residenza provvisoria a residenza normale deipapi: la città viene acquistata nel 1348 per ottantamilafiorini dalla regina di Napoli Giovanna d’Angiò.

Fu questo il suggello e la conclusione della politica finqui svolta dai papi d’Avignone; ciò che era inconfessa-ta intenzione diviene ora realtà, è nata una nuova sedeper la corte romana, una nuova residenza per il ponte-fice, una nuova capitale per la cristianità15. Il papa èormai sovrano della città ove siede, non è piú ospite diun altro monarca che potrebbe limitarne la libertà d’a-zione e le decisioni.

Nel quadro di questa politica di prestigio e di gran-deur la vita di corte ebbe un gran ruolo. Quella dei papifu la piú splendida corte d’Europa, la piú varia, la piúcosmopolita. Le feste, gli intrattenimenti, le cerimoniee i tornei che vi si tenevano riunivano volta a volta lafine fleur della nobiltà. Il maestoso palazzo eretto daBenedetto XII non basta piú ai bisogni e alle esigenzedi una corte sempre piú vasta, le grandi sale sembranoinsufficienti per ospitare le solennissime funzioni dellacapitale della cristianità. L’aspetto dell’edificio comin-cia ad apparire troppo severo, monastico quasi, come serispecchiasse l’austerità cistercense del defunto ponte-fice. Clemente VI decise di aggiungere al palazzo unnuovo, grandioso corpo e di ciò incaricò un architettodell’Ile de France, Johannes de Luperiis, che negliamplissimi vani della sala dell’Udienza e della cappellaClementina seppe creare delle architetture che sono trale piú grandi testimonianze del linguaggio gotico nelMezzogiorno. Né il mecenatismo di Clemente si arrestòqui, ché volle far ricostruire con particolare ampiezza esolennità il monastero benedettino ove giovanissimo era

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entrato nel 1301: la Chaise-Dieu. La solenne chiesaabbaziale eretta in un luogo isolato e selvaggio dellemontagne dell’Alvernia e le ciclopiche sale del palazzopapale di Avignone sono le significative testimonianzedel fasto e del volere artistico del nuovo pontefice.

1 Georges Daumet, Benoit XII, Lettres closes, patentes et curiales serapportant à la France, I, Paris 1920, col. 126, n. 127. Su Gozo Batta-gli cfr. E. Panofsky, Giotto and Maimonides in Avignone; A. Campana,Per la storia delle cappelle trecentesche della chiesa malatestiana di SanFrancesco, in «Studi Romagnoli», ii, 1951.

2 «Nembroth potens in terra et robustus venator contra dominumac superbis turribus celum petens» cfr. Paul Piur, Petrarcas «Buch ohneNamen» und die päpstliche Kurie, Halle 1925, pp. 198-99.

3 «Incepitque ibi a solo edificare palatium in loco ubi tunc eratdomus episcopalis, et tandem huiusmodi edificium, quasi quamdiuvixit, continuavit, in tantum quod suo tempore et per ejus ministeriumfactum est dictum palatium valde solempne mireque pulcritudinis inmansionibus et immense fortitudinis in muris et turribus, prout hodieluculenter apparet». Etienne Baluze, Vitae paparum avenionensium, ed.da G. Mollat, I, Paris 1915, p. 197-

4 Clément Faure, in «Mélanges d’archéologie et d’histoire», xxviii,19o8, pp. 195, 197. L’opera fu eseguita dal pittore Bertrand de la Barree dal lapicida Jean Laurent, con l’indicazione dell’altezza, della lun-ghezza e dello spessore delle torri, delle mura e dei tetti.

5 George Gordon Coulton, Art and the Reformation, Cambridge19532, pp. 470-71; F. M. P. Gasnault, Comment s’appelait l’architectedu Palais des Papes d’Avignon, Jean de Loubières ou Jean de Louvre?, in«Bulletin de la Société nationale des antiquaires de France», 1964, pp.126 sgg. F. Piola-Caselli, La costruzione del palazzo dei papi di Avigno-ne (1316-1367), Milano 1981. Libro assai ricco di notizie e di spuntidove tra l’altro vengono partitamente esaminate nei loro vari aspettile vicende della costruzione del palazzo tra 1335 e 1337 attraverso ilibri di conti di Petrus Piscis; S. Gagnière, Le palais des Papes d’Avi-gnon, Avignon 1983.

6 M. Dvo≈ák (Gesammelte Aufsätze ecc. cit., p. 126): «Die alte Resi-denz der französischen Könige, von der uns ebenfalls eine Beschrei-bung erhalten ist, erscheint dagegen arm und dürftig».

7 Sugli affreschi di Simone Martini nel portico della chiesa diNotre-Dame-des-Doms in Avignone cfr. E. Müntz, Les peintures de

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Simone Martini à Avignon, in «Mémoires de la société nationale desantiquaires de France», xlv, 1884, pp. 67 sgg.; Giacomo De Nicola,L’affresco di Simone Martini a Avignone, in «L’Arte», ix, 1906, pp. 336sgg.; Frederik Francis Mason Perkins, Gli affreschi di Simone in Avi-gnone, in «Rassegna d’arte senese», iv, 1908, pp. 87 sgg.; M. Meiss,Painting in Florence and Siena after the Black Death, Princeton 1951, p.133 (trad. it. Pittura a Firenze e Siena dopo la morte nera, in Arte, reli-gione e società alla metà del Trecento, Torino 1982). E. Castelnuovo,Avignone rievocata, in «Paragone», x, 1959, 119, pp. 28 sgg. La datad’arrivo, molto discussa, di Simone in Avignone è probabile sia da col-locare verso il 1336 (cfr.: André Peter, Quand Simone Martini est-il venuen Avignon?, in «Gazette des Beaux-Arts», lxxxi, 1939, periodo VI,vol. XXI, pp. 153 sgg.; Peleo Bacci, Fonti e commenti per la storia del-l’arte senese, Siena 1944, pp. 113 sgg.; Giovanni Paccagnini, SimoneMartini, Milano 1954, p. 94; J. Rowlands, Simone Martini and Petrar-ch, in «Apollo», 81, 1965, pp. 264 sgg.; Id., The date of Simone Mar-tini’s arrival in Avignon, in «The Burlington Magazine», 107, 1965, pp.25 sgg.; J. Brink, Francesco Petrarca and the problem of chronology in thelate paintings of Simone Martini, in «Paragone», 331, 1977, pp. 3 sgg.;A. Martindale, Simone Martini, London 1988). È verosimile che egli visia stato fatto chiamare dal cardinale Stefaneschi che intendeva farglidecorare l’atrio della cattedrale (come a Roma aveva fatto dipingere daGiotto quello di San Pietro) onorando il santo guerriero della cui chie-sa (San Giorgio al Velabro) portava il titolo, con un dipinto che rap-presentava san Giorgio e la principessa. Una tradizione sorta assai pre-sto in Avignone e tramandatasi poi nei secoli, ha legato a questo affre-sco la memoria della Laura petrarchesca. Già attorno al 144o ne par-lava Luigi Peruzzi (A. Bevilacqua, Simone Martini, Petrarca, i ritratti diLaura e del poeta, in «Bollettino del Museo Civico di Padova», lxviii,1979, pp. 107 sgg.), poi, nel 1472 i tratti di Laura erano indicati a Ber-nardo Bembo in quelli del personaggio femminile dell’affresco avigno-nese, successivamente Marco Antonio Michiel ai primi del Cinquecentoricorda di aver visto nella dimora padovana di Pietro Bembo un ritrat-to di Laura di mano ignota «tratto da una Santa Margherita che è aAvignon sopra un muro sotto la persona della qual fu ritratta Madon-na Laura» (la presenza del drago aveva evidentemente fatto scambia-re la principessa per santa Margherita). Sotto l’affresco correvano quat-tro versi latini costantemente riferiti al Petrarca fino a quando Giaco-mo De Nicola non ne rintracciò l’origine nel poemetto dello Stefane-schi sui miracoli e il martirio di san Giorgio. In tal modo l’attribuzio-ne del patronato dell’opera al cardinale Annibaldo di Ceccano, ritenutapacifica da quando André Valladier ne aveva parlato nel suo Labyrintheroyal de l’Hercule Gaulois triomphant (Avignon 16oo, pp. 29 sgg.) e fal-samente autenticata da una iscrizione apposta sotto l’affresco (il cui

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testo è riportato nel manoscritto degli Annales d’Avignon diJoseph-Louis Dominique Cambis-Velleron conservato nella Bibliotecadi Avignone), veniva a mutarsi in quella al cardinale Jacopo Stefane-schi. L’affresco con il san Giorgio venne distrutto nel 1828 e appenasi può avere un’idea della sua composizione attraverso la copia secen-tesca fatta eseguire da Marie-Joseph de Suarès per il cardinal Barberi-ni, rinvenuta e pubblicata dal De Nicola. Oltre a questa dovrebberoesisterne altre del principio dell’Ottocento poiché Alphonse Rastoul(Tableau d’Avignon, Avignon 1836, p. 167), lamentandone la recentedistruzione nota che un avignonese, tale S. Cousin, aveva copiato l’af-fresco ed era in procinto di riprodurlo in incisione. Dell’affresco, moltofamoso per secoli, rimangono in ogni modo varie descrizioni (cfr. L.-H.Labande, Le souvenir de Pétrarque et de Laure en Avignon et à Vauclu-se, nel numero unico pubblicato dall’Académie de Vaucluse per il sestocentenario della nascita di Petrarca, Avignon 19o4, pp. 79 sgg.). La piúantica, come osserva il Bevilacqua (Simone Martini, Petrarca cit., p. 117)è quella quattrocentesca di Luigi Peruzzi, viene quindi quella, non cita-ta da Labande perché resa nota da Ludwig von Pastor solo un annodopo la pubblicazione del suo articolo, che ne dà Antonio de Beatisnella relazione sul viaggio del cardinale d’Aragona del 1517-18 (DieReise des Kardinals Luigi d’Aragona durch Deutschland, die Niederlände,Frankreich und Oberitalien, 1517-1518, Freiburg Im Breisgau 1905, p.155) ambedue assai anteriori a quella celebre di André Valladier. Trale descrizioni settecentesche interessanti sono quelle che si trovano neimanoscritti dell’abate de Veras e di Esprit Calvet, nella Biblioteca diAvignone, nonché quella che ne dà il Della Valle nelle Lettere senesi (II,p. 95), tratta dalle informazioni che Stefano Borgia, segretario di Pro-paganda Fide, aveva potuto trovare nel 1782 nei manoscritti dell’aba-te de Veras canonico di Saint-Pierre ad Avignone.

Dopo la distruzione di questo dipinto anche lo stato degli affreschidel portale non ha fatto che peggiorare rapidamente. Al principio del-l’Ottocento erano ben visibili attorno alla lunetta del portale due figu-re di cui oggi rimangono solo inconsistenti resti. L’anonimo autore diuna Notice sur les peintures du palais des papes à Avignon, apparsa sullarivista marsigliese «La ruche provençale» nel 1819 (II, pp. 86 sgg.)afferma trattarsi di una Annunciazione, mentre una incisione contem-poranea, tratta da un disegno del Bence, riproduce due angeli di cuiquello di sinistra tende una corona sul capo della Vergine nella lunet-ta sottostante. L’anonimo della «Ruche» accenna anche alla freschez-za di colorito delle teste di cherubini nell’intradosso dell’arco cheincornicia la lunetta. Una gran parte di questo fregio, per fortunacopiato dal pittore avignonese J.-M.-A. Chaix, è andato perduto emolte altre menomazioni ha subito l’insieme dei dipinti da quando nel1844 Jean-Baptiste Joudou (Avignon, son histoire, ses papes, ses monu-

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ments et ses environs, Avignon 1842, pp. 440-41) scriveva: «Hâtez-vousde venir, sur le tympan du fronton inférieur existent encore un beaudessin et une composition simple et grandiose de Simon de Sienne: l’E-ternel, des gracieux anges, la Vierge et son fils; la main destructive dutemps efface insensiblement ces admirables fresques: chaque jour unfragment de plâtre se détache; bientôt dans ce triangle dont les mou-lures ont un style antique qui frappe vivement au premier abord, il nerestera rien de l’œuvre de Memmius». Il distacco effettuato nel 196oe i restauri del 196o-63 e del 1978-8o hanno permesso di salvare quan-to rimaneva degli affreschi e di portare in luce le splendide sinopie sot-tostanti (cfr. F. Enaud, Les fresques de Simone Martini à Avignon, in«Les Monuments Historiques de la France», 1963, pp. 114 sgg., D.Thiébaut, in M. Laclotte e D. Thiébaut, L’Ecole d’Avignon, Paris1983, pp. 140 sgg.). F. Enaud, Les fresques de Simone à Avignone et leurrestauration, in «Atti del Congresso Simone Martini» (Siena 1985),Firenze 1988, pp. 211 sgg.

8 Per i pittori operosi sotto il pontificato di Benedetto XII cfr. E.Müntz, Les peintures de Simone Martini à Avignon cit., pp. 70 sgg.; L.-H.Labande, Les primitifs français ecc. cit., p. 65. L’artista piú importantedel tempo di Benedetto XII fu Jean Dalbon che aveva il titolo diMagister e che fu impiegato dal pontefice in lavori sia ad Avignone sianel palazzo di Sorgues. Questi e un maestro Filippo, senese di nascita,avevano salari che arrivavano fino a quattro soldi giornalieri. Si noti aquesto proposito che il valore del fiorino mutò grandemente tra il1336 e il 1346. Mentre nel 1336 un fiorino equivaleva a 13 soldi, nel’46 era pari a 24 soldi. La paga di 4 soldi giornalieri nel 1336 era per-tanto analoga a quella di 8 soldi giornalieri percepita da Matteo Gio-vannetti e dai principali pittori della sua équipe sotto il pontificato diClemente VI. Se maestro Filippo era un pittore assolutamente di primopiano anche Duccio senese, il cui salario giornaliero variante nel 1336tra 2 soldi e mezzo e 3 era abbastanza rilevante, pari a quello di altridue pittori che portavano il titolo di Magistri (e cioè Domenico di Bel-lona, forse lo stesso Domenico che si troverà attivo al concistoro sottoClemente VI, e Davis) e superiore a quello di molti altri artisti il cuinome riapparirà sotto Clemente VI, come Pierre de Castres, PierreBoyer, Symonnet de Lyon, Robin de Romans ecc. (pagati tutti inragione di 2 soldi al giorno) doveva essere una personalità di qualcheimportanza. A giudicare dai registri dei conti quindi almeno due pit-tori italiani di rilievo lavorarono alla decorazione del palazzo papalesotto Benedetto XII.

9 La prima notizia di un rapporto tra Giotto e Avignone ha originimolto antiche, addirittura contemporanee all’artista. Essa si trovainfatti in un manoscritto dell’Ottimo Commento (1333-1334) (cfr. PierLiberale Rambaldi, Vignone in «Rivista d’arte», xix, 1937, pp. 357

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sgg.), ma, come ha notato Peter Murray (Notes on some early Giottosources, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», xvi,1953, pp. 58 sgg. e particolarmente 75 sgg.) nella fonte non è specifi-cato se si tratti di una vera e propria attività avignonese di Giotto ose il riferimento non riguardasse invece opere che Giotto aveva man-dato in Avignone. Successivamente, verso il 1471-74, Bartolomeo Pla-tina nelle sue Vite dei Pontefici dichiara che Benedetto XII «Jotum pic-torem... ad pingendas Martyrum historias in aedibus a se structis con-ducere in animo habuit». Fra Jacopo Foresti nell’edizione italiana(1491) del suo Supplemento de le croniche dichiara addirittura che Giot-to si recò in Avignone e che vi morí nel 1342. Tale leggenda ebbe unalarghissima diffusione: la si trova precocemente nel 1505 nell’opera deltedesco Johannes Butzbach, Libellus de praeclaris picturae professoribus(pubblicata da Alwin Schultz negli «Jahns Jahrbücher für Kunstwis-senschaft», ii, 1869, pp. 69 sgg.): «Zetus quidam tempore Benedictixi historias martyrum apud Avinionem ingeniosissime pingendo adveterem rursus dignitatem reduxisse dicitur» (cfr. John Archer Crowee Giovan Battista Cavalcaselle, Geschichte der italienischen Malerei, II,Leipzig 1869, p. 262, n. 99; Julius von Schlosser, La letteratura artisti-ca, Firenze 19562, pp. 205, 207; sulla popolarità di questa credenza cfr.E. Panofsky, Giotto and Maimonides in Avignon, in «Journal of theWalters Art Gallery», iv, 1941, pp. 26 sgg.; v, 1942, pp. 124 sgg.) efu largamente accettata fino a che non fu confutata dal Baldinucci nelleNotizie dei professori del Disegno. Sulla base dell’Ottimo Commento edelle Cronache del Foresti, Giorgio Vasari nella seconda edizione delleVite dichiara che Giotto dipinse in Avignone al tempo di Clemente V«molte tavole e pitture a fresco bellissime». Sul problema della cono-scenza ad Avignone di opere giottesche si vedano le intelligenti osser-vazioni e ipotesi di F. Bologna in I pittori alla corte angioina di Napoli.1266-1414, Roma 1969, passim, che sottolinea le possibilità che leopere inviate da Giotto ad Avignone fossero su tela. Cfr. anche Pier-luigi Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, Firenze 1986,pp. 386 sg., nota 59.

10 Cfr. D. Wood, Clement VI. The pontificat and ideas of an AvignonPope, Cambridge 1989, con ampia bibliografia.

11 Su Opicinus de Canistris cfr. Faustino Gianani, Opicinus deCanistris, l’Anonimo Ticinese, Pavia 1927; Richard Salomon, Das Welt-bild eines avignonesischen Klerikes, in «Vorträge der Bibliothek War-burg», 1926-27; Id., Opicinus de Canistris, London 1936; GiovanniMercati, Nota per la storia di alcune biblioteche romane, Città del Vati-cano 1952, pp. 1 sgg.; Ernst Kris, A psychotic artist of the Middle Ages,in Psychoanalytic Explorations in Art, New York 1952, pp. 118 sgg.(trad. it. Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Torino 1967); R. Salomon,A newly discovered manuscript of Opicinus de Canistris, in «Journal of

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the Warburg and Courtauld Institutes», xvi, 1953, pp. 45 sgg.; P. Mar-coni, Opicinus de Canistris. Un contributo medioevale all’arte della memo-ria, in «Ricerche di Storia dell’Arte», 4, 1977, pp. 3 sgg.

12 Guillemain, Punti di vista cit., p. 196.13 K. H. Schaefer, Die Ausgaben der apostolischen Kammer unter

Benedikt XII ecc. cit., pp. 174 sgg.; cfr. anche E. Müntz, L’argent et leluxe à la cour pontificale d’Avignon, in «Revue des questions histori-ques», vol, LXVI, 1899, pp. 5 sgg., 378 sgg.

14 Y. Renouard, La papauté à Avignon cit., p. 36.15 Etienne Delaruelle, Avignon Capitale, in «Revue géographique des

Pyrénées et du Sud-Ouest», xxiii, 1952, pp. 233 sgg.

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Capitolo quarto

Pittura profana e naturalismo avignonese

A una precisa iniziativa di Clemente VI risale la deco-razione pittorica di gran parte dell’immenso palazzo avi-gnonese di cui non rimangono oggi che pochi fonda-mentali esempi: i dipinti della camera del Papa, i ciclidella camera della Guardaroba, delle cappelle di SanMarziale e di San Giovanni e di parte della sala dell’U-dienza. Numerosissimi altri affreschi che adornavanocorridoi, cappelle, stanze, saloni, sono andati distrutti,ma dai documenti di pagamento si può dedurre che ingran parte del palazzo lavorarono a quest’epoca i pitto-ri papali.

Una parte degli ambienti del palazzo era stata affre-scata da una numerosa équipe già sotto Benedetto XII.Non è agevole, a causa della completa rovina in cuirestò per molto tempo l’antica cappella di Benedetto XII– ora, dopo una radicale ricostruzione ottocentesca, adi-bita a deposito degli archivi dipartimentali –, immagi-nare quale fisionomia queste pitture possano avereavuta, ma rimane almeno, sia pur pesantemente e assaiestesamente ridipinta dal pittore Rateau verso il 1935,la decorazione di un vasto ambiente, la camera stessa delpontefice nella torre degli Angeli. Documenti del 1337si riferiscono a pitture eseguite in questa torre, altri piúespliciti, tra il 1337 e il 13411, accennano ai precisiinterventi nella decorazione della camera. Il 21 marzo1337 uno Hugo, pictor romanam curiam sequentem, è

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pagato per la riparazione «picturae viridis camere papepalatii» e un altro accenno ad analoghe operazioni, con-cernente questa volta il pittore preferito da BenedettoXII, Jean Dalbon, è del 10 marzo 1339. Lo stesso JeanDalbon infine dipinge di verde quattro pertiche di legnoper la camera. Il colore dominante dell’insieme sembre-rebbe dunque esser stato il verde, un colore che oggi nonsi impone particolarmente (su uno sfondo azzurro cuposi dipanano rami fronzuti di un ocra chiaro) ma chesembra ben alludere al peculiare carattere della decora-zione ove si dispiega un autentico tripudio vegetale.Sulle pareti della camera si avvolgono, ben riconoscibi-li, rami di quercia e di vite su cui posano scoiattoli e pas-seri, dipinti in un modo abbreviato e vivacissimo – perquanto permette di giudicare l’onnipresente ridipinturasubita dagli affreschi –, che svela una acuta e vigileattenzione naturalistica. L’intera decorazione dellacamera intende creare un ambiente conchiuso, simulareun graticcio, un pergolato, un aereo padiglione arboreoi cui rami si stagliano contro un cielo di un cupo azzur-ro. L’idea stupenda non è però realizzata in modo illu-sivo; a stento si riconosce la continuità di quei rami chesi svolgono lentamente in grafici rabeschi. A tutta primale pareti sembrano adorne di una serie di grandi spiralifoliate puramente decorative; una superficialità e unabidimensionalità spiccate sono le caratteristiche domi-nanti della fascia mediana. Al di sopra, nella cornice,appaiono altri elementi diversamente significativi,innanzi tutto una esigua striscia di mosaici cosmateschi,di impronta chiaramente italiana, che si continua anchesulla grosse travi che sostengono il soffitto ligneo, poiuna serie di compassi quadrilobi entro riquadri separa-ti da guglie ornate di bifore, timpani, fioroni. Sia le cor-nici dei compassi, sia i bizzarri e inusitati pastiches archi-tettonici tra un riquadro e l’altro sono trattati prospet-ticamente. Anche qui però i pesanti interventi del

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restauratore hanno falsato decisamente i termini delproblema, gli elementi prospettici e illusionistici sonostati ripresi, sottolineati, fraintesi, gli eterogenei pila-strini sono in gran parte una invenzione di modernioperatori. Una corretta lettura del testo è oggi pressoc-ché impossibile e non può spingersi al di là della ele-mentare constatazione di una forte presenza italiana,facilmente ravvisabile nella fascia di mosaici cosmateschie nelle propensioni illusive dell’ornato pseudo-architet-tonico.

Le medesime propensioni, ma spinte a un gradoincomparabilmente piú avanzato, si rivelano nella deco-razione di due piccoli vani scavati nello spessore dellemura maestre est e sud, all’estremità dei quali si apro-no le grandi finestre da cui prende luce la stanza. Inentrambe le pareti di questi vani è rappresentato un dop-pio ordine di arcature dall’impronta nettamente goticameridionale, che simulano un loggiato aperto verso l’e-sterno, cui sono appese gabbie di uccelli, concepite pro-spetticamente, di varie fogge e tipi, per lo piú vuote.Questa finta architettura, questo desiderio cosí intensodi illudere lo spettatore trasformando l’ambiente in unasorta di loggia, di veranda aperta su tre lati, queste gab-bie senza ospiti, immobili, silenziose, che pendono dailoro fili quasi fossero vere e che riparano uno spazioreale, rendono questi due piccoli vani molto diversi dallagrande camera in cui gli eleganti, calligrafici girali nonriescono a far scordare il peso delle spesse pareti. La con-cezione della decorazione è profondamente differente,ma una certa analogia tra il trompe-l’œil pseudo-archi-tettonico delle logge e la cornice superiore ornata a com-passi quadrilobi della stanza mostra che tutti i dipintidevono essere stati eseguiti in un medesimo tempo. Èstata avanzata l’ipotesi2 che l’intera decorazione dellacamera dipinta una prima volta sotto Benedetto XII siastata rinnovata sotto Clemente VI, e che, conseguente-

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mente, al pontificato di questo papa, e piú precisamen-te agli anni in cui si attendeva alle pitture della torredella Guardaroba, spetti l’attuale decorazione. Per quan-to sia suggestivo attribuire al gusto vivace e alle incli-nazioni terrene di Clemente VI lo schiudersi del nuovonaturalismo che impronta di sé le decorazioni delle pare-ti della camera del Papa, occorre dire che ciò è assai scar-samente probabile. Il fatto che il 4 febbraio del 1344Robin de Romans sia pagato 22 fiorini «pro parte came-re pape palatii Avin. videl. pro parte illa pingenda, quefuit destructa pro conclavi» (K. H. Schaefer, Die Ausga-ben der apostolischen Kammer unter Benedikt XII. ecc.cit., p. 253), cioè probabilmente per ridipingere unaparte della parete settentrionale della camera del Papa,induce a pensare che molto difficilmente si sia dato l’av-vio in un tempo immediatamente successivo, a unanuova totale ridipintura della camera, secondo una con-cezione, per giunta, piú arcaica di quella seguita nelladecorazione della camera della Guardaroba. È probabi-le invece che le idee «spaziose» che si manifestano inalcune parti della decorazione, e specialmente nellelogge, che le gabbie discendenti dai modelli delle lam-pade giottesche di Assisi e di Padova, i pilastrini postidi spigolo, i capitelli, i peducci rigorosamente tridimen-sionali, tutti quegli elementi insomma che alludonosenza equivoco a un intervento di artisti italiani, si deb-bano a quel Filippo e a quel Duccio senesi la cui attivitàè bene documentata durante il pontificato di Benedet-to XII, se non addirittura al grande artista di Clemen-te VI, il viterbese Matteo Giovannetti, con tutta pro-babilità già attivo in Avignone negli ultimi tempi delpontificato benedettino3.

Il primo esempio giunto sino a noi della cultura pit-torica dell’Avignone papale è dunque questo importan-te testo di decorazione profana che, con la geniale inven-zione delle finte gabbie, viene a costituire un capitolo

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importante nella storia della natura morta, facendoseguito immediatamente alle nicchie e ai repositoridipinti da Taddeo Gaddi nello zoccolo della cappellaBaroncelli in Santa Croce. È significativo che si inizicosí una vicenda che avrà qualche peso sulla fisionomiache assumerà la nuova scoperta pittorica della natura.

Con un altro ciclo profano, per certo di non minorrilievo, si aprirà il pontificato di Clemente VI, ed èquello che orna le pareti della attigua camera della Guar-daroba, situata al terzo piano di quella nuova torre,detta appunto della Guardaroba, che fu una delle primeimprese dell’architetto Johannes de Luperiis non appe-na salito sul trono il nuovo pontefice. La torre, addos-sata a quella degli Angeli ove era la camera del papa,doveva servire a ingrandire gli appartamenti personalidel pontefice, che volle anche stabilirvi la sua camera daletto, abbandonando, almeno parzialmente, quella bene-dettina. Terminata la costruzione se ne iniziò immedia-tamente la decorazione. Vi lavorò un nutrito gruppo dipittori i cui nomi sono conservati nei documenti papa-li; spiccano tra essi Rico (Enrico) d’Arezzo, Pietro daViterbo, Robin de Romans e infine, citato in un docu-mento del 22 settembre 1343, Matteo Giovannetti4.

È la prima volta che si trova questo nome tra quellidei pittori del palazzo, e già esso è preceduto dalla qua-lifica di magister. Sarà la sua la personalità artistica dimaggior rilievo nei tempi di Clemente VI, spetterà a luiin Avignone quel ruolo di soprintendente ai lavori arti-stici, di vero e proprio Maître d’œuvre che a Fontaine-bleau tra due secoli sarà occupato dal Primaticcio5. Aquesto nome che i documenti ripeteranno costantementeper un venticinquennio sono legate le massime impreseartistiche del periodo. Per l’innanzi non si conosce grancosa di lui. Era un ecclesiastico, in un documento del 3onovembre 1336 è nominato da Benedetto XII prioredella Chiesa di San Martino a Viterbo6, piú tardi, in un

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testo del 17 novembre 1348, è chiamato «arciprete diVercelli»7. Si tratta con ogni probabilità della stessapersona che il 2 giugno del 1322 è nominata in una let-tera da Avignone di Giovanni XXII e il 16 agosto 1328in una da Viterbo dell’antipapa Niccolò V8, sempre inrelazione a un canonicato nella chiesa di San Luca inViterbo. Da questi scarsi dati si possono trarre pocheconclusioni: la prima, che se nel 1322 aspirava a uncanonicato non doveva essere nato molto dopo il 1300,e con tutta probabilità anzi sullo scadere dell’ultimodecennio del Duecento; la seconda, che almeno fino al1328 non si era mosso dall’Italia e che doveva trovarsia Viterbo quando l’antipapa vi teneva la sua corte; laterza infine, che quando si incontra per la prima voltail suo nome in relazione a un’opera pittorica dovevaavere almeno una quarantina d’anni e quindi un passa-to d’attività i cui documenti restano per ora completa-mente sconosciuti.

Aveva lavorato in curia prima del 23 settembre1343? Ove, intendendo la sua provenienza, si vadacon la mente alla città donde proveniva subito s’affac-cia il ricordo di quelle arcate dipinte a formare una log-gia nella camera del Papa, una finzione architettonicatanto simile agli aerei trafori della loggia del palazzopapale di Viterbo. Ma qualsiasi cosa sia accaduta prima,è certo che egli dovette avere una parte importantenella decorazione della camera della Guardaroba; la suastoria cognita comincia qui, ma non sarà facile rintrac-ciarne le fila.

In questa camera, attigua a quella del papa e cono-sciuta come «camera della Guardaroba» o, dal soggettodi una delle scene delle pareti, come «camera delCervo», Clemente VI fece installare il suo letto nel1344. Un ciclo di tempere ne ricopre completamente lemura con varie scene di caccia, di pesca e altri svaghicampestri; scialbato durante la permanenza dei milita-

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ri, esso è emerso dallo scialbo nel 19o6 e venne allorarestaurato, troppo drasticamente, dallo Yperman9. Lescene si succedono ininterrottamente su uno sfondo dierbe e di alberi: il continuo seguirsi sulle pareti delleimmagini di un paesaggio incantato fa sí che l’ambien-te sembri aprirsi da tutti i lati. Al di sopra corre un fre-gio di medaglioni polilobi, dalle cornici aggettanti e pro-spettiche che inquadrano blasoni, ancora al di sopra,sulle pareti di settentrione e di mezzogiorno, al di là diuna sorta di «davanzale» prospettico, è un secondo fre-gio con animali e paesaggi, analogo, a quello della stan-za al secondo piano della torre, decorata da BernardEscot e Pierre de Castres10. In alto le travi del soffittodecorate a motivi floreali, a rami, a racemi, confondo-no i loro fogliami con le chiome degli alberi che si alza-no dalle pareti.

Ogni cosa si staglia su un fondo di verzura, una vege-tazione erta e fitta, una macchia lussureggiante, unaforesta d’alto liccio. È una venaria nobilissima, unmanuale cortese che fissa i dati piú apparenti per tipiz-zare l’immagine di una nuova ars venandi con un dise-gno guizzante e sottile ove i personaggi fan figura dimanichini perché tutto è giocato sul costume, ove decal-comanie di levrieri affiorano dalle profondità fronzutee oscure, e cinture, spade, pugnali sembrano applicati inpastiglia.

Un’attenzione affettuosa, amorosa addirittura, sen-sibile fino a essere struggente per la scena mondana, lepiante, gli animali, la vita all’aperto traspare al punto dafare di questa camera un parallelo figurativo di certibrani del Petrarca:

Uva ficus nuces amygdale delitie mee sunt; quibus hicfluvius abundat, pisciculis delector, nunquam magis quamdum capiuntur, quod studiose etiam inspicio, iuvatque ianihamos ac retia tractare.

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Hic michi duos ortulos quesivi tam ingenio proposito-que meo consentaneos ut nichil magis... Est enim alterumbrosus solique studio aptus et nostro sacer Apollini; hicnascenti Sorgie impendet, ultra quem nichil est nisi rupeset avia prorsum nisi feris aut volucribus inaccessa. Alterdomui proximus et aspectu cultior et dilectus est Bro-mio...11.

Ludunt argentei pisces in gurgite vitreo, rari procul inpratis mugiunt boves, sibilant aure salubres leviter percus-sis arboribus, volucres canunt varie in ramis... 12.

Notazioni rapide e felici, appropriate ai diporti sil-vani della camera del Cervo.

Qui un gruppo di giovani scende in acqua, là sonoforeste impenetrabili ove si addentrano i cacciatori; irami son tutti popolati di uccelli e di figurine attente chesi son arrampicate fin lassú per scrutare, per richiama-re. Sulla sponda del vivaio, esemplato sui piscarii diPont-de-Sorgues e di Avignone ove venivano allevatilucci e altri pesci per la mensa papale13 sta un pescatoredal tipo plebeo, ben diverso dai suoi aristocratici com-pagni, quasi «aquaticum... animal educatum inter fon-tes et flumina, escam de scopulis eliciens»14. Non lon-tano è un cavaliere, fermo, tutto avvolto nel manto, conil braccio levato su cui posa un falcone, piú oltre è ungrande veltro scatenato contro il cervo, un falco cheguata immobile, botoli a coppie, lepri, furetti, conigli,tutti immersi nello sfondo grigio e verde da cui emer-gono i toni vivaci dei costumi, vinaccia, celeste, rosa,arancio, delle siepi frondose, degli alberi carichi di frut-ta e di nidi, smaltati di fiori, di farfalle.

Precedenti letterari delle inclinazioni, del gusto chesi appalesa con tanta evidenza nei dipinti della Guar-daroba non mancano in Francia. Pochi anni prima Jeande Jandun aveva esaltato la vita campestre con osserva-zioni vivaci e dirette facendo l’apologia della sua dimo-

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ra di Senlis nella De laudibus Silvanecti15 e un celebrepasso del Roman de la Rose è stato discusso da LouisDimier in relazione con il ciclo avignonese16:

Beaux oisillons en verts buissonsde toutes eau-es les poissonset toutes les bêtes sauvagesqui patûrent par ces bocages;toutes herbes, toutes florettesque valetons et pucelettesvont en printemps es bois cueillirque fleurir voi-ent et feuillir;oiseaux privés, bêtes domesquesbachèleri-es, danses, tresquesde belles dames bien paréesbien portraites, bien figuréessoit en métal, en fût, en ciresoit en quelconque autre matiresoit en tables et en parois,tenant beaux bacheliers aux doigtsbien figurés et bien portraits.

E sarebbe un brano che si presterebbe benissimoall’assunto se in quella sequenza di «... belles dames bienparées | bien portraites, bien figurées | soit en métal, enfût, en cire | soit en quelconque autre matire» non siintendesse l’eco di un topos splendido e antico che conl’accostante e tutto trecentesco naturalismo della came-ra del Cervo ha ben poco da spartire.

Tuttavia sulla base di questi indizi e di una presun-ta derivazione di questo ciclo da esempi nordici – araz-zi, tappezzerie – è stata imbastita una teoria che, richia-mandosi al soggiorno in Arras di Clemente VI ne ipo-tizzava uno spiccato gusto per gli arazzi e le chambrespeintes del settentrione, per concludere che, una voltapapa, il generoso mecenate avesse voluto ricreare, sulle

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rive del Rodano, la calda atmosfera di una dimora nor-dica dalle mura imbottite da morbidi tessuti. Purtrop-po delle chambres peintes del nord anteriori alla Guar-daroba non esiste piú alcun resto, né migliore è la nostraconoscenza di arazzi con scene e personaggi che appar-tengano alla prima metà del Trecento17.

Un confronto abbastanza convincente può peraltroessere suggerito tra la camera della Guardaroba e quel-la del conte di Savoia nel castello di Chillon, dipinta nel1342 – un anno prima della camera avignonese – da Jeande Grandson, con la caccia all’orso, al cervo, al cin-ghiale18. Le poche parti leggibili di questi affreschi, radi-calmente ridipinti dal pittore Ernest Correvon agli inizidel Novecento, e le piú antiche fotografie, attestanocome tra i due cicli contemporanei corresse una fonda-mentale differenza. Tutte le acute osservazioni spazialidi cui – malgrado i guasti dovuti allo Yperman – è riccala Guardaroba, mancano a Chillon ove le elegantissimefigure si susseguono piatte, calligrafiche, ridotte a purocontorno, suggestive immagini araldiche uscite dalloscudo di un blasone e campite sullo sfondo di una natu-ra emblematica. La differenza tra i due cicli appareesemplare e potrebbe essere assunta a termine di para-gone tra due modi se non di vedere certo di raffigura-re. Altri confronti che possono essere fatti, sia con lescene di caccia dipinte da un maestro francese in unasala del Collège de la Croix verso il 1336, sia con le piútarde pitture di Sorgues, ora al Musée du Petit-Palais adAvignone19, chiariranno la differenza fondamentale trapittura naturalistica francese e italiana nel Trecento.

Un nuovo sentimento della natura, che non si espri-meva solo nella curiosità per le bêtes sauvages della ména-gerie di cui i papi, al pari degli altri signori del tempo,disponevano, si andava in quegli anni sviluppando inAvignone, e non solo per ispirazione nordica. Bastereb-be a esemplificarlo tracciare la storia del viridarium dei

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papi, dal pomario di Benedetto XII al viridarium novumdi Clemente VI, ai grandi giardini di Urbano v per i qualifu cosí importante la suggestione del Petrarca20.

Non erano d’altronde ignoti alla cultura figurativaitaliana i problemi della decorazione profana, basteràpensare agli affreschi della torre comunale di San Gimi-gnano, avvicinati dal Longhi, sulla traccia del Cavalca-selle21 a Memmo di Fippuccio, il padre di Lippo Memmi,che era stato ad Assisi tra gli aiuti di Giotto. Del restocome, dopo Pietro Toesca, ha bene visto Otto Paecht«se si volesse tracciare la genealogia della piú anticaarte profana, la corrente principale sarebbe quella ita-liana (dal mezzogiorno di Manfredi alla Napoli degliAngioini e di qui alla Lombardia dei Visconti) con rami-ficazioni nell’arte francese»22.

Un singolare clima era quello che si era venuto acreare nell’Avignone papale, un clima di franca inclina-zione alla riscoperta dello spettacolo naturale, di affet-tuosa attenzione alla vita campestre, di acute descrizio-ni pittoriche di piante e di animali, di alberi e di prati.Questo stesso clima si manifesta con altrettanta vivacitàin certi passi del Petrarca come nella celebre miniaturadipinta da Simone Martini per il frontespizio del Virgi-lio annotato da Servio, di proprietà dello stesso Petrar-ca, nei brani paesistici del grande Maestro delle tavolettedi Aix, o in alcune illustrazioni del Codice di san Gior-gio eseguite, con ogni probabilità assai precocemente inAvignone, per il cardinale Jacopo Stefaneschi23. Si vedaad esempio come il grande illustratore di questo codiceabbia situato il combattimento tra san Giorgio e il dragosulle sponde di un bellissimo laghetto, ricco di freschee dirette osservazioni nei giunchi che si alzano sottilidalle acque e nelle screziate piume delle anatre, o comeabbia saputo immaginare un immediato e pungente pae-saggio collinare nell’Annuncio ai pastori dipinto sulbordo inferiore di una pagina ora alla Biblioteca Mor-

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gan di New York. Lo stesso clima infine si avverte nelladecorazione della camera del Papa e soprattutto nei pinimarittimi, nei fichi, nei gelsi, negli aranci, nei melogra-ni, della camera della Guardaroba.

È in questo momento e in queste temperie cui leultime, grandi idee di Simone, e il mirabile rapportoinstauratosi in Avignone tra lui e il Petrarca avevanoimpresso un inconfondibile tono, che nasce la decora-zione della camera della Guardaroba.

Il problema va dunque impostato in questo modo,entro questi termini, e ogni tentativo di contrapporre unpresunto «naturalismo» francese a una altrettanto ipo-tetica «astrazione» italiana sembra destinato a un incer-to futuro, cosí come non promettono risultati troppofecondi – e una pur accuratissima indagine ne fa fede –le ricerche miranti a riconoscere nella camera della Guar-daroba la mano dell’inafferrabile Robinus de Romanis24

o di qualche altro maestro francese, senza che delle loroopere sicure si conosca assolutamente nulla. Il sottoli-neare come l’ispirazione del ciclo della Guardarobarisalga alla cultura italiana (come già dal 1914 visto daRobert André-Michel) e in particolare simoniana – risul-tato del resto non nuovo, bene illuminato dal Toesca edal Longhi e largamente accettato26, – è sembrato oppor-tuno di fronte a un nuovo tentativo di riportare la que-stione indietro di decenni26, ma non significa certo cheuna collaborazione di artisti francesi alla decorazionedella stanza vada esclusa. Sembra in effetti che qui siriveli la presenza di più di una mano. Se nel pescatorecon la rete, dai tratti plebei, ritto sull’orlo del vivier, houn tempo pensato potesse riconoscersi27 l’interventodello stesso Matteo Giovannetti, la cui attività allacamera della Guardaroba è evocata dal documento del22 settembre 1343, almeno altre due mani appaionoaver qui operato. L’una, la principale, caratterizzata daun segno lineare, grafico, guizzante, che bene si avver-

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te per esempio nel personaggio a destra della Caccia conil falco e nelle corsive figurine della cosiddetta Baigna-de, ove la caduta del colore ha messo maggiormente inevidenza la qualità del segno28; propensa l’altra all’im-piego di fitte ombreggiature, quasi neocavalliniane, chebene si scorgono ad esempio nella figuretta di ragazzoarrampicato su un albero di fico sulla parete occidenta-le della camera. Che si debbano riconoscere in questedue diverse mani quelle dei pittori Rico d’Arezzo e Pie-tro da Viterbo, che un documento indica come attivi allaGuardaroba, è possibile, ma niente affatto certo, inmancanza di sicuri autografi di questi due artisti e acausa di qualche difficoltà nell’interpretazione deitesti29. In qualche brano infine si avvertono un grafismospiccato e una marcata bidimensionalità; sarà probabil-mente qui il caso di scorgere l’intervento di un aiutofrancese, forse Robin de Romans o Pierre Resdol.

Anche se le distinzioni di mani sono oggi malagevo-li per lo stato dei testi non c’è da esitare sul fatto che ilciclo della Guardaroba costituisca un glorioso episodionella storia della cultura figurativa italiana in Avignone.Max Dvo≈ák ricorda come – suscitato dagli esempi avi-gnonesi – sorgesse a Praga il palazzo di Giovanni di Dra-zic, a somiglianza delle livree cardinalizie che il vesco-vo aveva visto nella città provenzale30. Un ciclo comequesto della camera della Guardaroba ammirato dasovrani e da altissimi dignitari ecclesiastici ammessiall’intimità del papa, avrà una notevole importanza nellanascita e nello svolgimento di una certa pittura profanadella civiltà gotica «internazionale». I vivi rapporti trala corte di Carlo IV di Boemia e quella di Avignone spie-gano agevolmente come riflessi di essi si trovino proprioai confini delle terre imperiali, dal Trentino al Tirolomeridionale, come, a esempio, nel bell’affresco attri-buito a maestro Wenceslao nella Turmhalle della par-rocchiale di Merano, ove la prorompente, ricchissima e

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varia vegetazione che riempie tutto il campo del dipin-to non è lontana dall’autentico tripudio vegetale dellaGuardaroba31.

1 F. Ehrle, Historia Bibliothecae ecc. cit., pp. 603, 604, 625, 681 sgg.Un documento qui pubblicato del 18 marzo 1337 parla di un paga-mento fatto all’architetto Petrus Piscis «pro turri» (la torre degli Ange-li dove era la camera del Papa) «et... pro pictura turris», altri che siscalano dall’aprile all’agosto del 1337 insistono sulle pitture della torree fanno anche riferimento alla «pictura camere nove» che è probabil-mente quella del Papa. Un quadernetto di spese dello stesso PetrusPiscis (E. Ehrle, Historia Bibliothecae ecc. cit., p. 604, n. 120) porta,relativamente al mese di maggio del 1337, nuovi accenni alle «pictu-rae turris». Quanto alle menzioni dell’attività di «Hugo» e di Jean Dal-bon alla camera del Papa cfr. K. H. Schaefer, Die Ausgaben der apo-stolischen Kammer unter Benedikt XII. ecc. cit., pp. 72, 105, 154. L’in-tera decorazione di questo ambiente è stata scoperta sotto uno stratodi intonaco intorno al 1935 e fu drasticamente ridipinta dal Rateau.Qualche sondaggio in vista di un intervento di restauro è stato fattonegli anni Sessanta (R. Enaud, Les fresques du Palais des Papes d’Avi-gnon, in «Les monuments Historiques de la France», 1971, n. 2-3, p.4) cfr. D. Thiébaut in M. Laclotte e D. Thiébaut, L’Ecole d’Avignoncit., pp. 145 sgg., altri con risultati spettacolosi nella restituzione dellagamma cromatica, sono stati avviati agli inizi del 1991 sulle pitture conle gabbie degli uccelli. Non esistono copie di questi affreschi contem-poranee alla loro scoperta, quelle conservate nella biblioteca del Muséedes Monuments français sono state eseguite da A. Regnault nel 1954.Sul significato delle camere decorate con immagini di pappagalli cfr.H. Diener, Die «camera papagalli» im Palast des Papstes. Papageilu alsHausgenossen der Paepstes Könige und Fürsten des Mittelalters und derRenaissance, in «Archiv für Kulturgeschichte», 49, 1967, pp. 43 sgg.

2 M. Laclotte, L’Ecole d’Avignon, Paris 1960, p. 41. Laclotte ridi-scute questa ipotesi in M. Laclotte e D. Thiébaut, L’Ecole d’Avignoncit., pp. 25 e 119, note 14 e 15. Interessante il fatto che in una pare-te della camera della Guardaroba, decorata sotto Clemente VI, si tro-vino tracce di una decorazione a racemi analoga a quella della cameradel Papa, quasi che a un primo progetto di decorazione dalla concezionepiú arcaica ne fosse stato preferito in seguito uno piú moderno propo-sto da altri artisti. Ciò contribuisce a far credere la decorazione dellacamera del Papa piú antica di quella della camera della Guardaroba.

3 Avignone rievocata cit., p. 41.

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4 F. Ehrle, Historia Bibliothecae ecc. cit., pp. 626-29; R.André-Michel, Les fresques de la Garde-Robe au palais des papes d’Avi-gnon, in «Gazette des Beaux Arts», lv, 1916, periodo IV, tomo XII,pp. 293 sgg., ripubblicato in Id., Mélanges ecc. cit., pp. 19 sgg.; L.-H.Labande, Le palais des papes et les monuments d’Avignon au XIV siècle,vol. II, Marseille 1928, pp. 21 sgg.; Id., Les primitifs français ecc. cit.,p. 66; Marguerite Roques, Le peintre de la chambre de Clément VI aupalais d’Avignon, in «Bulletin monumental», 1960, volume CXVIII,pp. 273 sgg.; Id., Les peintures murales du Sud-Est de la France, Paris1961, pp. 163 sgg.; D. Thiébaut in M. Laclotte e D. Thiébaut, L’E-cole d’Avignon cit., pp. 148 sgg.

5 C. Sterling, La peinture française, les primitifs cit., p. 45. Che Mat-teo Giovannetti abbia, sin dall’inizio del pontificato di Clemente VI eprima ancora di ricevere ufficialmente il titolo di «pictor pape» che glitroviamo attribuito per la prima volta il 17 marzo del 1346 (K. H.Schaefer, Die Ausgaben der apostolischen Kammer unter Benedikt XII.ecc. cit., p. 313), soprainteso alle imprese pittoriche che si svolgevanonel palazzo, appare assai probabile data la frequente presenza del suonome nei documenti riguardanti acquisti di colore e di altri materialiper la pittura: un testo dell’8 dicembre del 1345 attesta per esempioche un acquisto di 65 libbre di terra verde dal mercante Andrea di Lucaavvenne «presente magistro Matheo Johanneti pictore, qui eandem pernos emi consuluit» (ibid., p. 312). Verisimilmente Matteo ebbe cosí aoccuparsi in quegli anni anche delle imprese cui non partecipava diret-tamente, come la decorazione del Piccolo tinello, per la quale il 5 ago-sto del 1343 vennero pagate 16o libbre di azzurro al tedesco HenrichDeboslat (ibid., p. 254), quella della «magnam cameram contiguamMagno tinello», della camera cioè detta del Paramento, per la quale il26 aprile del 1344 vennero pagati a maestro Niccolò da Firenze e a Ricod’Arezzo «pro se et eorum sociis» ben 200 fiorini (F. Ehrle, HistoriaBibliothecae ecc. cit., p. 628), o ancora l’affresco della Cappella Gran-de per cui Giovanni di Luca da Siena venne pagato 50 fiorini il 18 mag-gio del 1344 (ibid.) ecc.

6 J.-M. Vidal, Benoit XII, Lettres communes, vol. I, Paris 1903, p.259, n. 2816.

7 K. H. Schaefer, Die Ausgaben der apostolischen Kammer unterBenedikt XII. ecc. cit., p. 4o8.

8 G. Mollat, Jean XXII, Lettres communes, vol. IV, Paris 1907, p.100, n. 15 492; vol. VII, Paris 1919, p. 412, n. 42 707.

9 Testimonianze fotografiche dei restauratori al lavoro e dell’emer-genza degli affreschi delle camere sotto lo scialbo si ritrovano ne «l’Il-lustration» n. 3334 del 19 gennaio 1907, p. 43. Un rapporto del 30 gen-naio 1907 dell’ispettore dei Monuments Historiques Paul Boeswillald(Archives de la Commission des Monuments Historiques) concerne i

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lavori al palazzo dei papi e la scoperta dei dipinti della Guardaroba. Sulfeuilleton dello «Journal des Débats» del 26 febbraio del 1909 André Hal-lays porta una severa e giustificata critica ai restauri dello Yperman: «Icides couleurs ont été avivées, là des traits accentués, les fonds de verdu-re [quegli stessi ‘‘fonds de verdure’’ che Boeswillald nel suo rapportolamentava avessero ‘‘mallieureusement… poussé au noir’’] ont été com-plètement repeints et des inscriptions ont disparu». La stessa critica èripresa vigorosamente dallo Hallays nel suo Avignon et le Comtat Venais-sin (Paris 1909, p. 38) e nella introduzione della già citata raccolta di scrit-ti di R. André-Michel (Mélanges ecc. cit., p. xiii) ove sottolinea esser quasiimpossibile condurre una accurata analisi testuale sugli affreschi dellaGuardaroba, perché a causa dei restauri dello Yperman, «le document aété falsifié». Per altre notizie sulla scoperta delle pitture, sui lavori intra-presi per liberarli dall’intonaco e sui restauri dello Yperman cfr. il cita-to articolo di R. André-Michel, Les fresques de la Garde-Robe ecc.; cfr.poi F. Enaud, Les fresques du Palais des Papes d’Avignon. Problèmes tech-niques de restauration d’hier et d’aujourd’hui, in «Les Monuments Histo-riques de la France», 1971, pp. 71 sgg.

10 Ai due pittori furono versati 80 fiorini il 9 febbraio 1344 (F.Ehrle, Historia Bibliothecae ecc. cit., p. 627). Si veda una riproduzio-ne di questo fregio nel volume di L.-H. Labande, Le palais des papesecc. cit., II, p. 19 e la si confronti con le foto del fregio della cameradella Guardaroba a p. 22 del medesimo volume. Cfr. S. Gagnière, LePalais des Papes cit., pp. 45 sgg.; D. Thiébaut, in M, Laclotte e D. Thié-baut, L’Ecole d’Avignon cit., pp. 154 sg. La decorazione della stanzanel secondo piano della torre presenta molti elementi tridimensionalie illusionistici nella decorazione pseudo-architettonica. Maggiormentebidimensionale e lineare è la decorazione della stanza del primo pianodella torre eseguita da Robin de Romans cui venne pagata nel dicem-bre del 1343. Cfr. D. Thiébaut, in M. Laclotte e D. Thiébaut, L’E-cole d’Avignon cit., p. 154.

11 Francesco Petrarca, Le Familiari, ed. Vittorio Rossi, Firenze1937, vol. III, libro XIII, Lettera VIII, p. 86.

12 Ibid., vol. III, libro XVIII, lettera V, p. 249.13 I pontefici avevano dei vivai (piscarii) a Pont-de-Sorgues e ad Avi-

gnone. Vi si allevavano specialmente lucci per il cui nutrimento veni-va acquistata gran copia di minuti pesciolini. Cfr. K. H. Schaefer, DieAusgaben der apostolischen Kammer unter Johann XXII. cit., pp. 122,310, 312-13, 619; Id., Die Ausgaben der apostolischen Kammer unterBenedikt XII ecc. cit., pp. 320,341, 444; Joseph Girard, Le vivier despapes, in «Annuaire de la société des amis du palais des papes et desmonuments d’Avignon», xxxii-xxxiii, 1953-54, pp. 41 sgg.

14 Francesco Petrarca, Le Familiari cit., vol. I, libro III, letteraXXII, p. 150

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15 Histoire Littéraire de la France, vol. XXXIII, Paris 1906, p. 532.16 Louis Dimier, in «Bulletin de la société nationale des antiquaires

de France», 1924, pp. 173 sgg.17 L’esistenza di arazzi con scene di caccia nella prima metà del Tre-

cento è testimoniata dall’inventario del 1328 dei beni lasciati dalla regi-na Clemenza di Ungheria vedova di Luigi X il Caparbio. In esso si trovamenzione di «Huit tapis, d’une sorte à parer une chambre, à ymageset arbres, de la dévise d’une chace» (Chrétien Dehaisnes, La tapisseriede haute lisse à Arras avant le XVe siècle, in «Réunion des sociétés savan-tes et des sociétés des beaux-arts des départements», iii, 1879, p. 128).Le prime notizie precise su arazzi «a personaggi» acquistati per ilpalazzo papale sono però tutte posteriori alla data di esecuzione dellacamera della Guardaroba, solo un inventario del 1320 menziona «trespannos tartaricos lividos cum avibus» (L.-H. Labande, Les primitifsfrançais ecc. cit., p. 12) altrimenti occorre aspettare sino al 1355 quan-do Innocenzo VI fece venire da Parigi varie tappezzerie con storie disanta Caterina, di Maria Maddalena e di santa Marta (R. Brun, Avi-gnon au temps des papes cit., p. 187); verso il 136o arrivarono poi pezzidi Arras a piante e fiori segnalati negli inventari del palazzo del 1369e del 1377 (ibid., p. 189; L.-H. Labande, Les primitifs français ecc. cit.,p. 12). Occorre infine notare che le piú celebri camere decorate conaffreschi a scene di caccia sono per lo piú posteriori alla camera dellaGuardaroba: del 1349 quella del castello di Vaudreuil, del 1364 quel-la dell’Hôtel Saint-Pol a Parigi, del 1366 quella del Louvre. Cfr. R.André-Michel, Mélanges ecc. cit., p., 36; M. Roques, Le peintre de lachambre de Clément VI ecc. cit., pp. 281 sgg. Assai significativa è perònella stessa Avignone la decorazione di una grande sala dell’antico Col-lège de la Croix resto certamente di un’antica livrea cardinalizia, quel-la di Guillaume de Peyre de Godin, detto il cardinale di Bayonne(1312-36) o quella del cardinale Gaillard de la Mothe (1316-56), dipin-ta con ogni probabilità nel 1336 dove un lungo fregio con scene di cac-cia si stende nella parte superiore delle pareti, immediatamente sottoil soffitto. Questo fregio, certamente opera di artisti francesi, è accom-pagnato nella zona inferiore delle mura da grandi colonne tortili dipin-te che per il loro volume e la loro tridimensionalità mostrano di esse-re state realizzate da artisti italiani. Cfr. D. Thiébaut in M. Laclottee D. Thiébaut, L’Ecole d’Avignon cit., pp. 133 sgg. (con bibliografia),M. Cl. Léonelli, Peintures des livrès cardinalices cit.

18 Albert Naef, Chillon, vol. I, Genève 19o8, pp. 113 sgg., tavv.X-XIII; Joseph Gantner, Histoire de l’art en Suisse, II, Neuchâtel 1956,pp. 291-92; Enrico Castelnuovo, Théo Antoine Hermanès, La peintu-re du Moyen-Age, in Encyclopedie illustrée du Pays de Vaud, 6: Les Arts,Lausanne 1973; Daniel De Raemy, in La maison de Savoye en Pays deVaud, catalogo dell’esposizione, Lausanne 1990, p. 197.

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19 Sugli affreschi di Sorgues cfr.: Paul Jamot, Fresques de Sorgues,in «Monuments Piot», xxxvi, 1938, pp. 137 sgg.; Alfred Coville, Surles fresques de Sorgues, in «Comptes rendus de l’academie d’inscriptionset belles-lettres», 1941, pp. 383 sgg.; C. Sterling, La peinture françai-se, les primitifs cit., p. 46; Y. Bonnefoy, Peintures murales ecc. cit., p.161; E. Castelnuovo, in «Paragone», vi, 1955, n. 63, p. 55; M. Laclot-te, L’Ecole d’Avignon cit., p. 62; M. C. Léonelli, Un aspect du mécé-nat de Juan Fernandez de Hérédia dans le comtat: les fresques de Sorgues,in Actes du Colloque Genèse et Débuts du grand Schisme d’Occident(Avignon 1978), Paris 198o; D. Thiébaut, in M. Laclotte e D. Thié-baut, L’Ecole d’Avignon cit., pp. 203 sgg.

20 Pierre de Nolhac, Pétrarque et son Jardin, in «Giornale storicodella letteratura italiana», ix, 1887, pp. 404 sgg.

21 Roberto Longhi, Giudizio sul Duecento, in «Proporzioni», ii,1949, p. 50. Cfr. anche Giovanni Previtali, Il possibile Memmo di Filip-puccio, in «Paragone», xiii, 1962, n. 155, pp. 3 sgg.

22 Otto Paecht, Early Italian nature studies, in «Journal of the War-burg and Courtauld Institutes», xiii, 1950, p. 39. Questo importantearticolo del Paecht è ricco di osservazioni stimolanti che interessanoanche il «naturalismo» avignonese. Si notino, per esempio, i rapportiche ha con le decorazioni profane del palazzo dei papi l’illustrazionedel volume di Convenevole da Prato ove è una parafrasi pittorica delnome della città di Prato. La copia del manoscritto ove si trova questaillustrazione, ora al British Museum, fu eseguita per re Roberto d’An-giò (†1342). I legami che Convenevole da un lato, dall’altro gli angioi-ni, avevano con Avignone, illuminano questi rapporti di una luce signi-ficativa.

23 Il celebre Codice detto di san Giorgio perché reca, oltre ai testiper la messa dell’Annunciazione e per le messe da celebrarsi nella ricor-renza di altre festività, il poemetto sui miracoli e il martirio di san Gior-gio composto dal cardinale Jacopo Stefaneschi, nonché l’ufficio e lamessa per la festa di san Giorgio, fu eseguito per lo stesso Stefaneschi,cardinale-diacono di san Giorgio in Velabro. È possibile che la cultu-ra complessa del suo illustratore, il cosiddetto Maestro del Codice disan Giorgio (cfr. Giacomo De Nicola, L’affresco di Simone Martini cit.,pp. 336 sgg.; Raymond van Marle, in «Gazette des Beaux-Arts», 1931;Sofia Ameseinowa, in «Rivista d’Arte», xxi, 1939, pp. 97 sgg.; P. Toe-sca, Il Trecento, Torino 1951, pp. 816 sgg.; M. G. Ciardi Dupré delPoggetto, Il Maestro del Codice di San Giorgio e il cardinale Jacopo Ste-faneschi, Firenze 1981) e la personalissima fusione che gli è propria dielementi senesi, fiorentini (per questi si vedano le giuste osservazionidi Carlo Volpe, in «Paragone», II, 1951, n. 21, p. 4o e quelle di C.Bertelli a proposito di un codice del maestro di provenienza fiorenti-na e dalla data precoce del 1315 nel saggio, Un corale della Badia a Set-

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timo scritto nel 1315, in «Paragone», n. 249, 1970, pp. 14 sgg.) e goti-ci transalpini sia in parte maturata nel clima avignonese, ricco dei piúsvariati fermenti e altrimenti composito di quanto oggi non sia dato diimmaginare. Ad Avignone il Maestro del Codice di san Giorgio dovet-te arrivare verso il 1320, al servizio del cardinal Stefaneschi ed è pos-sibile che il Codice di san Giorgio sia stato qui illustrato nella terzadecade del Trecento, assai piú precocemente di quanto un tempo nonsi credesse. In tal modo la celebre miniatura con il San Giorgio che libe-ra la principessa al foglio 18v del codice non sarebbe in alcun modo deri-vata dall’analogo affresco di Simone in Avignone (cfr. De Nicola, L’af-fresco di Simone Martini cit., p. 337), ma si porrebbe invece come unprecedente. Sull’attività avignonese del Maestro del Codice di sanGiorgio si vedano in particolare gli interventi di L. Bellosi e di F. Avrilnel catalogo dell’esposizione avignonese, L’Art gothique siennois, Firen-ze 1983, pp. 124 sgg.

24 L’ultima attribuzione della decorazione della camera della Guar-daroba a un pittore francese è quella a Robin de Romans avanzata daM. Roques (Le peintre de la chambre de Clément VI ecc. cit.). Il nomedi questo pittore si trova ricordato in molti documenti del tempo diBenedetto XII (in questo tempo egli era pagato con il salario piuttostobasso di 2 soldi al giorno), concernenti, tra la fine del 1335 e il 1337la decorazione della cappella papale, della camera e dello studio del pon-tefice (L.-H. Labande, Les primitifs françois ecc. cit., p. 65). Successi-vamente lo si trova di frequente in documenti del tempo di ClementeVI, pubblicati dallo Ehrle (Historia Bibliothecae ecc. cit., pp. 312-13).Un testo del 23 dicembre 1343 attesta un pagamento di 20 fiorini aRobinus de Romanis «pro pictura camere pape super stufas per eumdepicta». Un altro del 4 febbraio 1344 regola in 22 fiorini la ricom-pensa per aver ridipinto una parte della camera del papa dopo il con-clave in occasione del quale era stato distrutto un muro. Tra il 1344 eil 1347 egli, spesso insieme a Bernard Escot lavora a Villeneuve nellaresidenza papale: dipinge qui la camera di monsignor de Camborniosuddiacono del papa per cui il 17 marzo 1344 è pagato 16 fiorini, lacamera del Paramento e quella del Papa, nonché due studi (200 fiori-ni il 18 maggio 1344 insieme a Bernard Escot), un deambulatorio e unacappella (6o fiorini il 17 marzo 1346 insieme a Bernard Escot) e altriminori ambienti. Nel 1347 insieme al pittore di vetrate Chrétien deCantinave stima i lavori eseguiti al palazzo papale da Besangon Bor-gognone, maestro vetraio. Sulla base di questi documenti e di osser-vazioni non piú che generiche su un presunto naturalismo francese con-trapposto a uno schematismo e a un intellettualismo italiani quanto-meno altrettanto ipotetici Mademoiselle Roques ha cercato di attribuirele pitture della camera della Guardaroba a Robin de Romans, identi-ficandola con quella tal «camera pape super stufas» di cui parla il

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documento del 23 dicembre 1343 e che invece è, con ogni verisimi-glianza, la camera del primo piano, quelle appunto poste «super stu-fas» della Torre della Guardaroba dove la decorazione ha caratteri goti-co-lineari. Questa identificazione è però inaccettabile (cfr. E. Castel-nuovo, Ragguaglio provenzale, in «Paragone», xi, 196o, n. 131, p. 47,n. 6) e la cifra pagata al pittore è piuttosto scarsa. Basterebbero que-sti due argomenti se non si volessero affrontare quelli stilistici che pursono lampanti per esitare nell’attribuzione a Robin de Romans di que-sti dipinti. Tutt’al piú potranno appartenergli quei racemi di cui si èrilevata la simiglianza con la decorazione della camera del Papa, unadelle cui pareti fu ridipinta dopo il conclave da Robin stesso. Ma c’èdi piú: un documento del 1347 che M. Roques non cita, e cioè il qua-derno dei pagamenti tenuto da Matteo Giovannetti durante il lavorodella sua équipe alla sala del Concistoro (pubblicato da Heinrich Deni-fle, Ein Quaternus rationum des Malers Matteo Gianotti von Viterbo inAvignon, in «Archiv für Literatur und Kirchengeschichte», iv, 1888,pp. 6o2 sgg.), prova che Robin veniva pagato 6 soldi al giorno controagli 8 attribuiti a Matteo e ai magistri Dominicus e Bartholomeus.Robin non era dunque un pittore di assoluto primo piano e appare scar-samente credibile che gli venissero affidati compiti come la decorazio-ne della stanza di Clemente VI nello stesso palazzo avignonese, diun’importanza cioè altrimenti rilevante dei lavori alla residenza estivadi Villeneuve dove lo abbiamo visto lungamente attivo.

25 R. André-Michel, Mélanges ecc. cit., pp. 25 sgg.; P. Toesca, Lapittura e la miniatura in Lombardia, Milano 1912, p. 412; O. Paecht,Early Italian nature studies cit., p. 39; E. Panofsky, Early Netherlandi-sh Painting, Cambridge Mass. 1953, p. 24; R. Longhi, Frammento sici-liano, in «Paragone», iv, 1953, n. 47, p. 7; Y. Bonnefoy, Peinturesmurales ecc. cit., p. 20; E. Castelnuovo, Avignone rievocata cit., p. 41;M. Laclotte, L’Ecole d’Avignon cit., p. 37; E. Castelnuovo, Ragguaglioprovenzate cit., pp. 37, 47.

26 La tesi «francese» è stata sostenuta da Betti Kurth nel suo arti-colo, Ein Freskenzyklus in Adlerturm zu Trient, in «Jahrbuch des kun-sthistorischen Institutes der k. k. Zentral-kommission für Denkmalp-flege», 1911, pp. 9 sgg. e in particolare pp. 85 sgg., che ebbe il meritodi fissare l’esatta datazione del ciclo contro alla prima ipotesi del Laban-de (Le palais des papes d’Avignon et ses nouvelles fresques, in «Musées etmonuments de France», 1907, pp. 109 sgg.) che lo aveva collocato agliinizi del xv secolo. Ad una origine francese del ciclo hanno pensato pure,seguendo la tesi della Kurth, Artur Weese (Skulptur und Malerei inFrankreich im XV. und XVI. Jahrhunderts, Potsdam 1927, pp. 65-66) eFritz Burger (Die deutsche Malerei, II, Berlin 1917, p. 251) che vi accen-na a proposito dell’affresco votivo generalmente attribuito a maestroWenceslao nella Turmhalle della parrocchiale di Merano.

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27 E. Castelnuovo, Avignone rievocata cit., pp. 41 e 50, n. 25; Id.,Ragguaglio provenzale cit., pp. 37 e 47, n. 7; Id. Un pittore italiano allacorte di Avignone, 19621, Torino, p. 43. Ho in seguito manifestato qual-che dubbio su questo riconoscimento in E. Castelnuovo, Matteo Gio-vannetti al Palazzo dei Papi ad Avignone, Milano 1965, p. 3. Gli esamitecnici sul ciclo della Guardaroba (cfr. F. Enaud, Les fresques du Palaisdes Papes d’Avignone cit., pp. 131 sgg.) hanno accentuato la mia per-plessità su questo punto.

28 Si noti che non è convincente l’accostamento proposto da E.Panofsky (Early Netherlandish Painting cit., p. 369, n. 7) di questodipinto con i disegni di Opicinus de Canistris.

29 Il pagamento di 26 fiorini a Rico d’Arezzo e a Pietro da Viterboè del 6 settembre 1344 e si riferisce alla pittura di una parte «garde-raube domini nostri, videlicet celo de azurio cum stellis et parietes,sicut alia pars extitit» (F. Ehrle, Historia Bibliothecae ecc. cit., p. 629).È singolare però che nella attuale decorazione della stanza non vi siatraccia di stelle, inoltre, come ha fatto notare M. Roques (Le peintre dela chambre de Clément VI ecc. cit., p. 294) è poco probabile che nellacamera si dipingesse ancora nel settembre del 1344 dopo che il cubi-cularius Giovanni La Guayla aveva acquistato il 10 giugno di quell’anno(K H. Schaefer, Die Ausgaben der apostolischen Kammer unter BenediktXII. ecc. cit., p. 273) un gran panno di saia verde per il letto del pon-tefice sito «in gardarauba nova subtus capellam novam pape». Que-st’ultimo argomento non è però di tal peso da escludere che la «Guar-daroba» di cui parla il documento del 6 settembre 1344 non sia pro-prio da identificarsi con la camera del Cervo la cui decorazione sareb-be stata condotta solo in parte nel corso del 1343 o avrebbe subitodanni non appena ultimata (e infatti la pittura deve essere condotta«sicut alia pars extitit»). Comunque sia Rico d’Arezzo sembra averavuto una parte importante nella decorazione della torre. Oltre aldocumento già discusso in cui il suo nome compare accanto a quello diPietro da Viterbo, egli viene pagato il 23 dicembre 1343 (R.André-Michel, Mélanges ecc. cit., p. 34, n. 2) per la decorazione dellascala a chiocciola della torre. Inoltre il 28 settembre del 1344 (K. H.Schaefer, Die Ausgaben der apostolischen Kammer unter Benedikt XII.ecc. cit., p. 278) egli veniva pagato per aver dipinto l’ingresso dellacamera del Papa. È probabile quindi che uno dei collaboratori italianiattivi alle pitture della camera della Guardaroba sia da identificarsi conil pittore aretino. Tra gli artisti transalpini furono Symonnet de Lyon,Bisson de Gévaudan e Jean Moys che avevano dipinto in quel tempovari deambulatori del palazzo e che, secondo M. Roques (Le peintre dela chambre de Clément VI ecc. cit., p. 291) avrebbero collaborato anchealle pitture della Guardaroba (secondo Marguerite Roques in questocaso il termine «garderauba» indica la camera al primo piano della

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torre) e della cappella di San Michele. Starebbe a provarlo un docu-mento del 4 febbraio 1344 la cui frase finale viene cosí trascritta dallaRoques: «Item pro dictis garderauba et capella nova pingendis X flo-rini avenionenses». Secondo la trascrizione piú attendibile dello Ehrle(Historia Bibliothecae ecc. cit., p. 627) il testo va invece letto «pro vitegardaraube et capelle nove...» e si riferisce a un intervento di questipittori alla scala a chiocciola della torre cui aveva lavorato anche Ricod’Arezzo. Un altro francese, Pierre Resdol della diocesi di Vienna, il27 settembre 1343 (K. H. Schaefer, Die Ausgaben der apostolischenKammer unter Benedikt XII. ecc. cit., p. 254) acquista 33 libbre e mezzod’azzurro «pro pingenda gardarauba pape», e probabilmente parteci-pa ai lavori di decorazione mentre forse ne rimane estraneo HenrichDeboslat, teutonicus autore della decorazione del Piccolo tinello (cfr.p. 34, n. 2) (R. André-Michel, Mélanges ecc. cit., p. 32; M. Roques, Lepeintre de la chambre de Clément VI ecc. cit., p. 292). Come si vede ledifficoltà maggiori nell’interpretare i testi che si riferiscono alle pittu-re della torre derivano dal fatto che tutte le stanze della torre vengo-no volta a volta indifferentemente chiamate con il nome di «Garda-rauba». Sulle differenti mani presenti nella decorazione della cameradella Guardaroba si veda F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napo-li cit., pp. 300 sg.; M. G. Ciardi Dupre del Poggetto, Il Maestro delCodice di San Giorgio e il cardinale Jacopo Stefaneschi, Firenze 1981, pp.190 sgg. Una buona analisi delle diverse ipotesi in presenza è quellafatta da D. Thiébaut in M. Laclotte e D. Thiébaut, L’Ecole d’Avignoncit., pp. 150 sg.

30 M. Dvo≈ák, Gesammelte Aufsätze ecc. cit., p. 74,31 Sui rapporti tra Avignone e la Boemia oltre al fondamentale sag-

gio di M. Dvo≈ák, Die Illuminatore des Johann von Neumarkt, già ripe-tutamente citato, cfr. Gerard G. Walsh, The Emperor Charles IV, NewYork 1924; Hans Adalbert von Stockhausen, Der erste Entwurf zur Stra-sburger Glockenschoss und seine kunstlerische Grundlage, in «MarburgerJahrbuch», 1938-39, pp. 379 sgg.; Aron Anderson, Tilldet bömiska gla-smariets historia pa Karl IV, in «Konsthistorisk Tidskrift», xvii, 1947,pp. 27 sgg., 73 sgg.; S. Harrison Thomson, Learning at the court of Char-les IV, in «Speculum», xxv, 1950, pp. 4 sgg.; Hermon Scharon, Illu-minated manuscripts of the court of Charles IV, in «Scriptorium», ix,1955, pp. 115 sgg. Sull’affresco di Merano e sui suoi rapporti con lacamera della Guardaroba cfr. Josef Weingartner, Die WandmalereiDeutschtirols am Ausgang des XIV und zu Beginn des XV Jahrhunderts, in«Jahrbuch des Kunsthist. Instit. der k. k. Zentralkommission fürDenkmalpflege», vi, 1912, pp. 50 sgg.; F. Burger, Die deutsche Male-rei cit., p. 251; Walter Frodl, Kunst in Südtirol, München 196o, p. 29.Su questo affresco cfr. E. Castelnuovo, I Mesi di Trento, Trento 1986,pp. 49 sgg.

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Capitolo quinto

Matteo Giovannetti e la cappella di San Marziale

Il documento che riguarda l’attività di Matteo Gio-vannetti alla Guardaroba non è certo dei piú esplicitiperché da esso non è dato di comprendere con esattez-za quale sia stata la parte del pittore viterbese nell’im-presa. Esistono per contro precise e molteplici testimo-nianze che lo indicano come autore della decorazionedella cappella di San Marziale, sita al secondo pianodella torre di San Giovanni. Un documento indica infat-ti che il 3 gennaio 1346 venivano pagati al MagisterMatheus Johanneti de Viterbio pictor gli affreschi esegui-ti nella cappella di San Marziale nonché quelli, ora scom-parsi, della cappella di San Michele; altri documenti neavevano precedentemente attestato l’attività sia nella«capella Garde raube» sia in quella «Magni tinelli apo-stolici»1. La «capella Garde raube», situata all’ultimopiano della torre della Guardaroba, era stata dedicata asan Michele, mentre a san Marziale era stata intitolatal’altra, detta «capella Tinelli magni» o «capella Magneaulae», che si apre sulla sala del Gran tinello. Anchequest’ultima sala che sarà devastata da un incendio nel1413, perdendo a quel tempo il suo arredo pittorico, erastata decorata ad affresco da Matteo Giovannetti che inquegli anni fervidissimi di attività andava dipingendomolti ambienti del palazzo avignonese e delle fabbrichepapali di Villeneuve2. Il 3 febbraio e il 3 aprile del 1346per esempio, dopo aver da poco terminato gli affreschi

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delle due cappelle, Matteo era pagato con la cospicuasomma di 213 fiorini e 17 soldi per aver decorato varideambulatori del palazzo, nonché la camera degli«Hostiari maiores» e la scala che portava alla CappellaGrande. Il compenso per il suo lavoro era calcolato sullabase di 10 soldi alla canna quadrata (misura che equi-valeva a due metri circa), mentre questo tipo di decora-zione era solitamente ricompensata con 4 soldi allacanna, e ciò significa che si trattava di un lavoro impe-gnativo e importante, come è del resto confermato dalfatto che il costo ne era stato inferiore solo di un terzocirca a quello delle pitture eseguite nelle due cappelle diSan Marziale e di San Michele (293 fiorini e 12 soldi).Quando si consideri che di questa decorazione non èrimasto nulla, come nulla è rimasto degli affreschi dipin-ti a quel tempo a Villeneuve nella vecchia livrea del car-dinale Orsini e nel nuovo hospitium del pontefice, sicomprenderà come gli affreschi tuttora superstiti nelterritorio avignonese non rappresentino che una benpiccola parte di quanto fosse stato allora dipinto traRodano e Durance.

Anche degli affreschi della cappella di San Michele,decorata a quanto sembra con «storie di angeli dellediverse province» (come specifica la lettera che il red’Aragona scrisse nel 14o6 al vescovo di Lerida chie-dendone copie), non restano che poche tracce di sino-pia malamente leggibile; ma per fortuna quelli della cap-pella di San Marziale hanno resistito sino a oggi, mal-grado i gravissimi deterioramenti che dovettero subirenel corso dell’Ottocento. Sono queste le prime opere chespettino con certezza a magister Matheus che, oltre adirigere i lavori, vi partecipò personalmente tra il gen-naio del 1344 e la fine d’agosto del 1345. Sarà di qui chedovrà partire ogni tentativo di scrivere la sua storia, diricercare come si esprimesse, nel narrare e disporre isacri episodi, la visione del mondo di questo chierico-pit-

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tore, alto dignitario della corte avignonese a metà delTrecento.

La dedica della cappella e la scelta del ciclo icono-grafico che l’avrebbe decorata – le storie e i miracoli disan Marziale – gettano una luce significativa su certetendenze della corte avignonese. Clemente VI avevavoluto far dipingere qui la storia della evangelizzazionedell’Aquitania a opera di quel Marziale che, grazie alculto sviluppatosi attorno alla sua tomba e all’imponen-te monastero che vi era cresciuto attorno, era stato pro-mosso da una fantasiosa agiografia al rango di discepo-lo di Cristo, di seguace di Pietr03. Già a partire dal ixsecolo si era cercato di spostare molto addietro l’arrivodi Marziale in Francia (che Gregorio di Tours aveva col-locato nel iii secolo) per fare di lui l’apostolo dell’Aqui-tania; ciò era avvenuto grazie soprattutto a una vita delsanto scritta verso l’anno ’8oo in un ambiente, comequello carolingio, desideroso di stabilire legami col pas-sato imperiale e romano e di ricollegarsi in qualche modoalla primitiva chiesa apostolica. Intorno a quegli anniinoltre, e precisamente nell’848, il sodalizio di fedeli checustodiva le reliquie del santo aveva dato luogo a unmonastero, ampliando di molto la propria importanza.Un altro fondamentale capitolo di questa vicenda ebbeluogo nell’xi secolo: tra il 1021 e il 1027 venne edifica-ta una nuova chiesa e in questi anni si colloca la pro-mozione ufficiale di san Marziale da confessore ad apo-stolo, «un vero apostolo dello stesso rango dei dodici,che ha vissuto nella vicinanza di Cristo e che ha ricevutodirettamente da lui l’investitura della sua missione: inbreve l’eguale di san Paolo o di san Matteo, e magariqualcosa di piú»4. Un monaco dell’abbazia, probabil-mente Adhémar di Chabannes, finiva allora di scrivereuna apocrifa vita del santo, presentandosi come se fosseAureliano, già sacerdote pagano e quindi discepolo diMarziale. La nuova chiesa è dedicata il 19 dicembre

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1027; del 1 novembre 1031 è una lettera pontificale diGiovanni XIX favorevole alla teoria dell’apostolato, nel1o6o vengono scoperte pretese epistole di Marziale. Ilculto era ormai solidamente stabilito e, proprio pochianni prima che si iniziasse la decorazione della cappellaavignonese, la leggendaria vicenda era stata ancora unavolta rievocata da Bernard Gui, inquisitore erudito,poligrafo e storiografo dei pontefici, unito da vincoli diamicizia a Pierre Roger, il futuro Clemente VI, cui nel1326 aveva dedicato un libro5.

Una fitta trama di legami unisce il pontefice allamemoria di Marziale e la scelta di un tale soggetto acqui-sta un chiaro significato: non si trattava solo di un santovenerato a Limoges, di cui un importante monasterobenedettino portava il nome, e che veniva per questoprescelto dal benedettino limosino Pierre Roger; si trat-tava soprattutto dell’apostolo, dell’inviato di Cristo, dicolui che con la sua missione aveva fatto delle Gallie unasede degna della vera chiesa. Marziale è il Pietro del-l’Aquitania – e il legame con l’apostolo verrà negli affre-schi avignonesi costantemente sottolineato –, grazie a luila modesta Avenio può oggi diventare una nova Roma.In Gallia come a Roma il sangue dei martiri, i miracolidegli apostoli hanno convertito i persecutori, gli incre-duli; la vergine Valeria, il duca Stefano, i discepoli,Austricliniano e Aureliano, sono con Marziale i prota-gonisti della vicenda. I sacri luoghi in cui essa si svolgenon sono Roma e Gerusalemme, ma paesi più raggiun-gibili dai nomi familiari di Tulle, Tolosa, Bordeaux,Agen, Limoges. I venerabili templi non sono piú le basi-liche romane o le antichissime chiese dell’Asia ma quel-le fondate da san Marziale, l’«Ecclesia Pictavensis inhonore Sancti Petri Apostoli», l’«Ecclesia Bituricensisin honore Sancti Stephani», l’«Ecclesia Claramontensisin honore Beate Virginis», l’«Ecclesia Lemovicensis inhonore Sancti Stephani». Per i pontefici avignonesi

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Marziale è addirittura una prefigurazione della loropotestà, rappresenta qualcosa di simile, ma di ancor piúsolenne, a ciò che per i re di Francia era san Luigi, lecui storie Jean Coste dipingerà nel 1356 nella cappelladel castello reale di Vaudreuil.

Il 7 luglio del 1343 una bolla datata da Villeneuve diClemente VI (che suonava: «Nos attendentes praeclaramerita sanctitatis, quibus Beatus Martialis, Aquitano-rum Apostolus, specialis in ecclesia dei verbo resplenduitet exemplo, necnon et insignia miracula, quibus ipsedum adhuc in carne viveret, et etiam post carnis molemdepositam daruit...»)6 ordinava di celebrare la festa disan Marziale; il 19 gennaio del 1344 Matteo Giovan-netti comincerà a dipingerne le storie nella cappella«magni tinelli».

Tutta la decorazione del sacello sito al secondo pianodella torre di San Giovanni, a esclusione di una Croci-fissione dipinta sull’altare a mo’ di paliotto, illustra i fattidella storia di san Marziale7. La narrazione si inizia nellavolta compartita in quattro vele e distribuisce due sceneper ogni vela, poi continua in due ordini sulle paretioccupando ogni porzione di superficie e distendendosianche negli sguanci delle finestre. Nel breve spazio dellavolta, entro ampli arconi, sotto un cielo d’oltremarinoprofondissimo rialzato dall’oro delle stelle e intarsiatodagli smalti dei mosaici cosmateschi, alberga una uma-nità libera, affettuosa, verace: sono le sembianze esem-plate al naturale di alteri signori laici, di potenti eccle-siastici, di popolani irsuti; un mondo costretto, stipato,accavallato nelle quattro vele dove le scene sono oppo-ste l’una all’altra come avviene alle pagine di un libroquando se ne distenda, prima di piegarlo in quaderno,il grande foglio. Immediatamente si avverte come si celisu per quelle volte una potente carica di novità, e dinovità importanti anche se convulsamente e disordina-tamente espresse, ed è assai singolare constatare come

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fino ad una trentina d’anni fa, quando Michel Laclotteed io non lo riproponemmo all’attenzione degli storicidell’arte, un ciclo di tanto momento non fosse stato,salvo rarissime eccezioni, che insufficientemente, fret-tolosamente valutato nelle poche pagine che gli eranostate dedicate. Il Cavalcaselle per primo, che pur seppefar uscire dalla nebbia della preistoria la fisionomia sti-listica dei cicli avignonesi, scriveva nel 18648 che gliaffreschi di san Marziale erano inferiori a tutti gli altriche contava Avignone, aggiungendo tuttavia che dipen-devano da Simone e che il nome di Giotto cui li avevaaccostati una mitica storiografia locale9 non aveva nien-te che vedere con essi. Rincarava la dose nel 1884 Eugè-ne Müntz, cui va il grandissimo merito di avere – gra-zie alle sue indagini all’Archivio Vaticano – risuscitatoil nome di Matteo dalle tenebre che per cinque secoli loavevano coperto10. «Dal punto di vista dell’armonia, delritmo e dei canoni decorativi è impossibile immaginareun insieme piú urtante, piú sgraziato»11. E certo non sipuò dir altro a voler giudicare questi affreschi dal puntodi vista dell’armonia e delle convenances décoratives. Pur-troppo perfino Pietro Toesca che a Matteo dedica pagi-ne belle, rigorose e acute del suo grande Trecento, nonvolle in questo caso vedere al di là di quell’apparentedisordine e criticò gli affreschi della cappella «sia per ilconfuso spartimento delle storie rispetto alla superficiemuraria non divisa cosí sobriamente come nella cappel-la di San Giovanni, sia per gli ornati di gusto senese matanto moltiplicati da rendere triti i particolari e gli sfon-di» specificando che «la poco giudiziosa divisione dellospazio e il conseguente disordine rese necessario al pit-tore di indicare con lettere alfabetiche la sequela dellesue storie»12. Pochissime le luci in questa vicenda. Ungiudizio illuminante viene da un suggestivo articolo diAdalbert von Stockhausen ove erano ripresi alcuni temidel saggio dello Dvo≈ák sulla cultura trecentesca boema

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e sui suoi rapporti con Avignone: «un tono locale dàcolore al tutto, nella stessa Siena gli affreschi avignone-si non sarebbero stati possibili»13.

Un avvio sostanziale alla comprensione dell’arte delGiovannetti e proprio di quei caratteristici accenti chepiú intensamente si sprigionano nel ciclo di San Mar-ziale, è da ravvisare negli interventi di Roberto Longhi14.Già quando accenna ai «nuovi accordi d’oro e d’azzur-ro» che potevano derivare a Carlo Braccesco da un viag-gio in Provenza compiuto «per vedervi Simone e Mat-teo da Viterbo» egli mostra di avere inteso la splenden-te sigla cromatica della civiltà avignonese e l’importan-za di Matteo; ma è soprattutto nella esemplare opera-zione critica che permise di restituire al catalogo delGiovannetti il raro Trittico dei santi Ermagora e Fortu-nato, ora scomposto e diviso, che meglio vennero defi-nite le curiosità e le intenzioni del grande viterbese.Allorché il Longhi accosta i due santini oggi a Venezia«a certi passi degli affreschi avignonesi di un grandeseguace di Simone», in base alla «intensa inclinazioneritrattistica» delle tavolette e ravvisa in queste «unaanticipazione alle tendenze dei francesi per un ritrattopiú denso, piú riconoscibile che non si cercasse nell’Italiatoscana» apre definitivamente la strada a una nuovavalutazione della portata storica che ebbe l’attività fran-cese del pittore dei papi. Anche il Ragghianti in un bril-lante articolo l’ha rettamente inteso il tono degli affre-schi di San Marziale laddove afferma che il loro lin-guaggio fondamentalmente senese e martiniano è arric-chito e complicato da spunti diversi, «da caratteri fisio-gnomici e compositivi, da pronunciate accentuazioni diincisi e financo estremi particolari icastici, da punteverso il grottesco, l’esacerbato, l’istintivo e l’improvvi-so» e dove sottolinea che forse queste forme libere eimmediate costituirono per i pittori francesi «un riferi-mento altrettanto o piú accetto, meglio compreso, della

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lingua illustre, carica di storia, quasi misteriosamentecifrata di Simone». Per parte mia ho tentato di fissarei caratteri di questi affreschi sottolineandone la grandeimportanza e i personalissimi elementi di novità conosservazioni che furono successivamente accolte erinforzate da nuovi spunti nella stimolante Ecole d’A-vignon di Michel Laclotte16.

Disordine urtante, confusione, mancanza di regole,tutti questi giudizi diminutivi potrebbero tradursi inelogi altrettanto appropriati: una libertà nuova rispet-to alle norme e ai canoni italiani, una urgenza di espri-mere con aderente immediatezza il vivace mondo checirconda il pittore: un italiano che trovava in curia, adAvignone, una cultura, degli interessi, dei costumi,tanto diversi da quelli che aveva lasciati a Viterbo, aSiena, a Orvieto, ad Assisi. Immediatamente egli vennecome ipnotizzato dal lusso, dallo sfarzo, dal fasto avi-gnonesi e dovette essere affascinato e incuriosito dallastraordinaria galleria di personaggi che gli sfilavanosotto gli occhi, per le strade della città, negli ambula-cri del palazzo: cortigiani, umanisti, teologi, astrologi,mercanti, giuristi, cardinali, musici, soldati, tutta gentenuova, diversa, di tanti paesi, di gusti magari piú rozzidi quelli dei committenti italiani, meno educata forse acapire la pittura, ma cosí viva! A comprendere questomondo sfarzoso, ridondante, disordinato, avviano alcu-ni brani della descrizione che un anonimo testimone fio-rentino fece del suntuosissimo convito offerto a papaClemente VI il mercoledì, 3o aprile del 1343, pochimesi prima che il Giovannetti iniziasse l’opera dellacappella di San Marziale, dal cardinale Annibaldo diCeccano nella sua residenza campestre di Gentilly sullaSorgue17. Varrà la pena di riportare per intero la descri-zione degli addobbi della cappella dove il cardinaleaspettava il pontefice:

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Era parata di finisimi drapi d’oro e di sete, di capolettidi lana, di tapeti per terra; insomma, in niuna parte delachiesa ned in terra, ned intorno, ned a alto, si vedeva se nodrapi d’oro, veluti, tapeti per terra, e capoletti, a maraviglia.Ed in costa del’altare, una sedia papale parata d’un drappoche propriamente pareva una massa d’oro in forma di sedia.L’altare ornato di croci, di reliquie, d’imagine d’oro, di pie-tre, di paramenti, di dosali, di tante cose e di si maraviglio-se beleze, che sarebe imposibile a credere a chi no le vide.

Oppure quella della camera preparata per il papa:

La grande camera fu cosí parata: che a capo del letto e dalato furono finisimi drapi d’oro e di seta, da tetto infinoal solaio; tutti nuovi, richisimi, di diversi colori e di mara-vigliosa beleza; e due cortine, l’una da lato al letto e l’al-tra da piede, tute fate di nuovo de l’arme del papa, tuttadistesa. Da piè del letto di lunge una canna, fu fatta unasegia papale, coperta da rico drappo d’oro e di seta, edornata di cuscini a maraviglia; e sotto à piedi fu messo untapetto veluto a modo degli altri tapeti, salvo ch’era tuttodi finisima seta e tutto nuovo: questo fu una richisimacosa a vedere. Intorno a tute le mura capoletti tutti nuovi,di nuove e diverse storie, bancali per la camera, e tapetituti per tera; e tuta piena. Il letto no si potrebe credere,scrivere quanto fu richisimo; la copritura di sopra fu difinisimi veluti vermigli. Fuvi suso un fodero d’ermelinocandidisimo, quanto mai si vide vergine neve imaculata.Il sopraletto tuto di drapi d’oro e di seta, come quegli dacapo ed intorno al letto. Ed un simile letto fu ne la mino-ra camera da dormire, parata d’intorno alle mura di simi-li drappi d’oro, e di cortine, e sopraletti, e tappeti perterra tuta piena.

Lo sfarzo trova accenti epici durante il banchetto,con le varie portate che simulavano ora castelli, ora fon-

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tane, ora giardini pieni d’animali che parevano vivi,nella descrizione degli intermezzi, dei tornei, delle estro-sissime mascherate che si seguivano tra un piatto e l’al-tro. In mezzo a questo lusso inaudito il divertimentomaggiore al papa e ai cardinali viene dal vedere gruppidi persone che, passando su di un ponte-trabocchettopreparato a bell’uopo, cadevano dentro la Sorgue:

Eravi el falso ponte sopra la Sorga; quindi si con-veniva pasare a vedere le dette danze, a udire gli sva-riati stormenti e le dolci melodie dele soavi boci.Onde per lo detto ponte ciascuno corse a pruova:quivi vedere batezare cherici, laici, i religiosi, udirele grida per lo cadere; queste cose mischiate co’suoni degli stormenti, co’ le voci de’ cagienti, era untumulto disusato da no’ potere credere: e gli ochi diNostro Segnore si spandeano sopra queste cose, dile-tandosi ne la diversità de’ nobili solazzi, con quellomodo temperato e maturo che si conviene a tantaSantità; e cosí i cardinali, che l’uno sopra l’altroistavano perché erano molte poche finestre sopra ladetta festa.

Allo sfarzo dei paramenti di San Marziale, agli araz-zi appesi ai muri, ai tappeti, agli azulejos per terrafanno pensare gli scarni, ma quanto evocativi, elenchidegli oggetti che Clemente VI trovò nel tesoro quandofu innalzato al soglio pontificio o di quelli che vilasciò18. Sono i piú svariati pezzi di oreficeria: taberna-coli, reliquiari a forma di testa o di braccio, croci pro-cessionali o stazionali di materie preziose, acquamaniliincrostati di smalto, tazze, piatti, bicchieri, fiaschi,bottiglie, posate, d’oro e d’argento; stole, pianete, casu-le, dalmatiche, albe, piviali solennissimi, guanti, «mani-puli» ad ymagines, cum aurifrisio, cum infinitis perlis,foderati de sindone rubeo, de taffetano viridi, de camoca-

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to rubeo, de tela rubea, cum horlaturis, cum aliquibusesmaltis, ricamati de opere anglie, cum historiis, cum yma-gine Christi et Apostolorum, cum figuris cervorum, ad aveset flores, ad aquilas nigras, ad aves simul sutos, frontali,dossali d’altare d’oro, d’argento, di stoffe preziose,paramenti d’ogni genere, oggetti d’ogni specie: unamagna arbor de corallo antiqua montata in argento sta alfianco di un draco argenti deauratus et esmaltatus; siaffiancano oggetti de opere lemovicensi, atrebatensi, deVeneciis, de Lombardia ecc., pettorali d’oro ad formamfolii vitis, ad formam aquile, ad modum crucis, con perle,smeraldi, zaffiri o addirittura cum lapide viridi habenteformam hominis.

Nelle pagine tinte di cosí vivaci colori dell’anonimotestimone prendono corpo le nude enumerazioni deglioggetti del tesoro clementino e verrebbe quasi fatto diadditare due poli della civiltà avignonese, sfarzosa egrossolana insieme, da un lato in quella «sedia papaleparata d’un drappo che propriamente pareva una massad’oro in forma di sedia», dall’altro nella vivace pirami-de fatta dalle teste dei cardinali, spettatori beati d’ungioco alquanto ribaldo, «che l’uno sopra l’altro istava-no perché eran molte poche finestre sopra la dettafesta».

Un’attenzione acerrima, instancabile guidava MatteoGiovannetti alla scoperta di questo mondo vario e viva-ce, spingendolo a certe osservazioni che forse il grandeSimone, suo augusto predecessore in curia, avrebbe tra-scurato.

Sta qui la fondamentale differenza tra i due artisti,quella differenza che impedí a Matteo di diventare undevoto ripetitore della poetica martiniana. Vede comequello di Simone l’occhio attentissimo di Matteo chescruta le stoffe lussuose di un paramento sacro, i pivia-li ricamati, le dalmatiche, le mitre, le stole ornate dicolombe, che si sofferma sui broccati di Lucca arabescati

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dal sottile graffito d’oro delle aquile, indugia sui mosai-ci cosmateschi di reminiscenza assisiate, sulle stuoiedipinte che chiudono le finestre e che addirittura tra-sferisce sulle pareti gli sfondi iridati della miniaturafrancese. È un mondo però piú popolare, piú modesto,anche piú volgare di quello fastoso, eletto, vertiginosodel Simone di Assisi con le sue alte colonne tortili, i suoicapitelli corinzi, le sue immense trifore, un mondo piúvicino alla vita vera, al fatto quotidiano, nei personag-gi, nei gruppi che assistono ai sacri eventi, nobili, bor-ghesi, religiosi, laici, cortigiani, plebei, soldati e conta-dini che pregano, che stupiscono, che discutono.

L’attenzione di Matteo non si fisserà esclusivamentesulle diverse fisionomie degli uomini, né sull’aspetto sun-tuoso degli oggetti, bensí anche sul modo di creare untangibile spazio per le sue scene. Sarà questo un proble-ma che durante la sua attività non lo abbandonerà mai eche arriverà fino a suggerirgli i piú azzardosi trompe-l’œil.Si può immaginare che effetto abbia dovuto produrresugli avignonesi, usi ai grafismi bidimensionali di Petrusde Podio, di Joan Oliver e degli altri nordici vedere –dopo l’alto prologo di Simone in Notre-Dame-des-Doms– le mura aprirsi a contener figure, sprofondar volte epareti per dar luogo a interni di chiese, di sale, a castel-li, a piazze, a campi, valli, colline.

Attente e continue sono nella volta della cappella diSan Marziale le ricerche di uno spazio abitabile rag-giunto ora entro i quattro muri del sacello ove è sospe-so il volo di un demonio lanoso, ora nell’aprirsi delgran portico sotto il quale il santo resuscita il giovanefiglio del signore di Tulle, ora nella sala ove gli angelialiano sotto i lacunari del soffitto. Occorre dire dellasolidità, della qualità tangibile dei grandi arconi in pie-tra, delle colonne intonacate; ricordare le vivaci e fre-quenti notazioni vere: la bifora nella casetta ove il santoresuscita il compagno Austricliniano, il rosone asim-

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metrico a intaglio artigiano, il castelletto merlato, lagrande finestra gotica aperta sul cielo, il familiare por-tale romanico con la doppia ghiera da cui si affaccia ungruppetto femminile.

E del resto l’idea stessa che ha presieduto alla orga-nizzazione del ciclo già si rivela in quella decorazione adarchetti trilobi che finge in basso una loggetta, e nei pila-strini dipinti, spesso abrasi ma bene visibili nei relevésdel Denuelle, che incorniciano gli affreschi delle pareti;i capitelli a grosso fogliame che li incoronano si affian-cano alle autentiche mensole scolpite su cui posano icostoloni in tal modo che le volte della cappella sem-brano poggiare sui finti pilastri. Originariamente ladecorazione pseudo-architettonica arrivava sino a terra:dal pavimento, donde si innalza lo zoccolo decorato afalse lastre multicolori, alle finte logge, a questi illusoripilastri è tutta una mirabile, artificiosa costruzioneaggettante su un piano piú avanzato rispetto alle sceneaffrescate che, per lo spettatore, devono apparire arre-trate, quasi viste attraverso amplissime finestre.

Le otto scene della volta, eseguite evidentemente perprime rispetto all’intero ciclo, sono opposte le une allealtre come schizzi di un taccuino. Considerandone il rap-porto con il quadro fissato dalle vele si vedrà che nellasistemazione molto libera Matteo si è saputo valere dellefasce rilevate dei costoloni per tagliarle genialmente (siveda l’inedita soluzione che situa Il battesimo di Tulle nelbreve campo dell’estremità di una vela), e del cupoazzurro delle volte per avvicinarle, tutte stagliandosisul medesimo cielo stellato. Infatti l’azzurro oltremari-no piú che il solito fondale astratto sembra suggerire unfavoloso firmamento ove accanto agli astri risplendonole lettere stupendamente arabescate impiegate per nume-rare le scene (proprio come nelle pagine di un libro), lecifre gotiche dei nomi dei protagonisti ordinate in bellecostellazioni calligrafiche.

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Il primo atto della miracolosa vicenda si svolge all’a-perto: su una asperità del terreno, all’ombra di un arbu-sto frondoso predica il Cristo, irsuto, i grossi piedi pian-tati saldamente sul terreno, la mano come una morsastretta al cartiglio. Il santo, fanciullo, i suoi genitori e alcu-ni del seguito del Cristo accovacciati sul terreno, ravvi-vato da ciuffi d’erba e di fiori, ascoltano pensosi, il padre,intento, si accarezza la barba con la mano, indietro dueapostoli tra un arbusto e il costolone aggettante si tengo-no stretti come in una grotta. Presso un fiumicello, sanPietro, pescatore succinto, battezza il giovinetto. Nel-l’altra parte della vela in una sobria architettura ravviva-ta dalle incrostazioni dei mosaici cosmateschi e tagliata discorcio dal costolone, il Cristo benedice Marziale inmezzo al gruppo degli apostoli; tutta la scena emana unsentore «curiale» e «avignonese»: gli arazzi tesi attornoalla stanza, i tappeti, i toni bruno marcio e verdognolodelle vesti rialzate d’oro, le mattonelle che smaltano ipavimenti, quelle stesse che l’architetto Guillaume deCucuron aveva fatto venire da Lione per il palazzo di Gio-vanni XXII e che poi tanta fortuna avevano trovato incuria (uno splendido pavimento a piastrelle policrome èstato ritrovato nel 1963 nello studio di Benedetto XII)19

le figurette rannicchiate a terra degli apostoli dalle chio-me fluenti, il libro, il cartiglio del Cristo.

La domestica scena di San Marziale esorcizza la figliadi Arnulfus in Tulle si svolge sotto un portico: in un’ar-cata del fondo spicca uno stupendo dittico profano, dueritratti di giovani cavalieri inquadrati da un’ogiva escompartiti da un tronco scabro. Uno di profilo, nasolungo, bocca sprezzante, i lunghi capelli biondi giú perla nuca, bruno l’altro, di tre quarti, cui il cappucciotirato su a mezzo scopre i riccioli sulla fronte. Siamoverso il 1344-45, il famoso profilo di Jean le Bon dondetalora si usa far iniziare la moderna pittura francese, èposteriore di una decina d’anni.

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Quando san Marziale ad Agen fa distruggere daldemonio la statua di Giove altri due cavalieri assistonodi sullo sfondo, zazzeruti e fieri, altieri piú che contri-ti. Frequente questo indugiarsi sui tratti di cortigianialtezzosi, di domicelli attaccabrighe, di dignitari vani-tosi, di prelati tonsurati con la barba di tre giorni. Nellacomune, e sempre diversa, vivezza di atteggiamenti sin-goli trovano puntuale conferma le osservazioni del Lon-ghi sui ritratti «densi e riconoscibili»: qui è il grossoecclesiastico che, una mano sul petto, assiste compuntodall’uscio all’incontro di Pietro e di Marziale, altroveinvece sarà il sacerdote pagano di Agen che, ginocchio-ni, le mani incrociate, scruta attento e timoroso il santo,altrove ancora di fronte a Marziale avvolto in ricchiparamenti sta il volto attonito del resuscitato figlio delsignore di Tulle. Ai piedi dell’apostolo è un superbo vol-pino screziato di bianco e di bruno, osservazione natu-rale e «cortese» che prelude ai celebri caniches del ducadi Berry20. Ma una sosta prolungata trasforma con accen-tuazione terrena gli ermetici stilismi di Simone: quilineamenti francamente plebei, volti allungati, doppimenti, mascelle quadrate, nasi appuntiti e grifagni, zaz-zere ora incolte ora cavallerescamente addobbate, barbeispide. È un’antologia di ritratti dei personaggi dellacorte, il religioso, il letterato, il burocrate, il parassita,il cardinal nipote e non sorprende che le numerose testestaccate dagli affreschi siano state vendute come ritrat-ti. Prendono qui tratti, abiti e figura umana i nomi chedalle pagine del Nostradamus evocavano gli splendoriavignonesi, i cardinali «de Canilhac, d’Albanie, Beren-guier, Albe...»

Nelle grandi lunette dell’ordine superiore e nellafascia inferiore ricorrono i momenti definitivi dell’av-ventura terrena di Marziale, le storie di Limoges, pur-troppo assai lacunose. Particolarmente significativi pergli orientamenti di Matteo Giovannetti sono gli episo-

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di delle pareti ovest e nord. Nella prima, al di sopra dellaporta, Cristo apparso a Marziale lo informa del marti-rio dei santi Pietro e Paolo. In un tempietto il Salvato-re indica al santo inginocchiato la vicenda. I fatti sisvolgono in un paesaggio montagnoso ed erto nel qualesi inerpicano i protagonisti. Pietro è crocifisso a unestremo, attorniato da un mirabile gruppo di astanti, inun luogo deserto e impervio Paolo è decapitato. Leanime dei due martiri raccolte dagli angeli vengono pre-sentate al Cristo miracolosamente apparso in alto tra letorri. In primo piano il tempietto dell’apparizione ripa-ra uno spazio reale, misurato e unificato dal fitto reti-colo del pavimento a piastrelle, ove i personaggi indica-no e narrano le vicende che accanto vengono illustratein uno spazio fluttuante, impreciso, indeterminato.Ancor piú significative le scene dell’ordine inferioredella parete settentrionale; una metà dell’affresco èoccupata dalla rappresentazione dell’interno della cat-tedrale di Limoges ove Marziale ordina sacerdote ilseguace Aureliano; un complesso approfondimento, sot-tolineato dalla fuga delle mattonelle del pavimento chesfonda veramente come in una tavola di AmbrogioLorenzetti maturo, è ricercato nell’apertura dell’edificioa tre navate, mentre il resto della scena, con il susse-guirsi, su per un terreno accidentato, delle tredici chie-se fondate da san Marziale, in un fantastico alternarsidi edifici tra boschi ingialliti, forre scoscese, colline, sivale di nuovo di uno spazio precipite, irreale, quasi com-mento figurato, edificante, alla trasmissione dell’apo-stolato che avviene all’interno della cattedrale. Ma nonsi esaurisce qui l’interesse di questa inusitata scena, gliedifici sacri che costellano l’incantato paesaggio boschi-vo sono infatti uno stupendo repertorio di tipi, unautentico museo della cultura architettonica di MatteoGiovannetti, un impareggiabile documento di quantonell’architettura gotica meridionale potesse impressio-

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nare, ritenere l’attenzione, la fantasia di un pittore ita-liano. «Inutile de faire observer, – scrive il Labande21,– que ces représentations n’ont absolument aucuncaractère d’exactitude... Matteo... n’avait pas vu lesédifices à rappeler dans sa composition. Les aurait-ilconnus, il ne se serait pas astreint à la vérité»; e certonon sono questi gli edifici fondati da san Marziale cuisi riferiscono le scritte, non sono queste le chiese di Bor-deaux, Le Puy, Agen, ecc., sono però, in molti casi, edi-fici, o parti di edifici, del contado venosino. È singola-re che nessuno abbia avvertito come non si trattasse dimere invenzioni, ma di schemi e di formule tratti daautentici edifici esistenti, sia pure trasformati, combi-nati insieme dalla fantasia del pittore. La chiesa di LePuy («Ecclesia Aniciensis in honore Sancte Virginis»)non è altro che – perfettamente riconoscibile dalla carat-teristica linea del suo fianco e dai possenti contrafforti– la chiesa di Montfavet, che in quegli anni venivaappunto terminata. Certo il protiro sormontato da uncampanile non trova confronto nell’edificio reale, maesso è attinto nei suoi elementi essenziali e sia pure conqualche modifica a quello di Notre-Dame-des-Doms. Lachiesa di Poitiers, «Ecclesia Pictavensis in honore Sanc-ti Petri Apostoli», è una chiesa fortificata assai similealla collegiata di Villeneuve, fondata nel 1332 da Arnaudde Via. Cosí la merlata chiesa di Mende ricorda le chie-se e i monasteri fortificati provenzali, dalle torri delmonastero di Montfavet a quelle delleSaintes-Maries-de-la-Mer, alle rovine di Saint-Ruf diAvignone. Altri elementi sono attinti all’architetturacivile: la loggia che unisce la chiesa di Bordeaux al cam-panile è ispirata ai grandi arceaux delle dimore cardina-lizie che scavalcano le strade per congiungere due edifi-ci facenti parte della medesima livrea. Le facciate alleg-gerite dai bei rosoni rivelano per lo piú edifici a tre nava-te in cui lo slancio verticale è contenuto da elementi

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orizzontali, in un modo che è tipico del gotico meridio-nale; talvolta sul fianco aggetta una cappella, una sacre-stia illuminata da un’ariosa bifora. Il repertorio è dun-que prevalentemente attinto a monumenti gotici – etalora romanici – di Provenza, cosí i campanili a vela,gli alti tiburi poligonali o quadrati, le finestre, i con-trafforti, gli archi rampanti. Da quest’ultimo elementoMatteo Giovannetti rimane vivamente impressionato,tanto da volerlo usare a piú riprese, cosí nella cattedra-le di Limoges ove Marziale ordina Aureliano – que-st’interno tra l’altro è del piú tipico gotico spazioso meri-dionale – cosí nell’aereo esterno della stessa chiesa che,nella scena superiore (l’Entrata di Marziale in Limoges)con singolare arcaismo e rappresentata insieme di fian-co e di fronte.

Se le ricerche di illusione spaziale sono prevalente-mente condotte nelle scene situate all’interno di edifi-ci, i segni di una propensione verso il reale non manca-no nelle scene all’aperto. Malgrado le gravi alterazionisubite dai colori le osservazioni naturali sono cosí vivenella rappresentazione di paesaggi campestri, di erbe, dialberi di varie e diverse essenze che bene si collocano nelclima medesimo donde sono uscite la miniatura simo-niana e la decorazione della camera della Guardaroba.Sono paesaggi ora fittamente boscosi, come nel riquadrodelle chiese fondate da san Marziale o nello sfondo delladistruzione degli idoli nella grande lunetta della pareteoccidentale, ora più impervi e aridi (Predica di Cristonella volta, Martirio dei santi Pietro e Paolo nella pareteovest, Martirio di santa Valeria nella parete est), ma sem-pre animati da ciuffi d’erba, da piccole piante, da cespidi foglie, da arbusti; sono i primi passi di una ricerca chesi andrà ulteriormente e decisamente affermando nellacappella di San Giovanni e in quella di Innocenzo VIalla certosa di Villeneuve.

Un’altra geniale caratteristica di Matteo che si trova

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per la prima volta in questa cappella, ma che sarà ripre-sa e condotta a prove spettacolari nelle cappelle di SanGiovanni al palazzo papale e di Innocenzo VI alla cer-tosa di Villeneuve, è quella di organizzare unitariamen-te le rappresentazioni degli sguanci delle finestre e dellepareti normali a essi, in modo da ottenere una maggio-re illusione spaziale, quasi che la parete si fosse per dav-vero trasformata in una stanza nell’interno della qualesi possa guardare da due diversi punti di vista. Le super-fici delle pareti meridionale e orientale della cappellasono interrotte da finestre che si aprono con larghisguanci nello spessore delle mura maestre. Come giànella camera del Papa si vengono cosí a creare due vanipiuttosto profondi anche se, a differenza della cameradel Papa, non praticabili. Queste soluzioni di continuitànelle mura, e la presenza degli spigoli, vengono utilizzatecon somma intelligenza dal Giovannetti. Egli giunge asottolineare, con un pilastro dipinto, l’angolo d’incon-tro delle due pareti, e sul pilastro fa posare due arconi,uno per ciascuna delle due superfici perpendicolari, inmodo da suggerire entro il muro, con sottile artificio,uno spazio, un ambiente.

Nella parete orientale, quella dell’altare, una tenera,impastata e fusa Crocifissione finge sul muro un paliot-to22 e lo spazio «vero» delle due scene (Cristo appare asan Marziale, Morte di san Marziale), ottenuto, come nellaparete sud, continuando le architetture negli sguancidelle finestre, è interrotto a destra da una mirabile teo-ria di apostoli, guidata dal Cristo e dalla Vergine, cheaccoglie l’anima di san Marziale; tutto un brano, que-sto, tenuto in superficie, quasi sul filo di due sole dimen-sioni, senza alcuna profondità.

Le ricerche di spazio sono ancor più sviluppate dun-que nelle pareti che nella volta ed è notevole che in alcu-ne scene l’approfondimento prospettico, ottenutomediante la particolare disposizione di elementi pseu-

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do-architettonici, venga ricercato solo per il luogo del-l’azione principale, contrapposto alla contigua, ripidasuperficie ove questa azione è illustrata ed esplicata.

Sulle pareti, come nella volta, abbondano i ritratticaratterizzati; risultato assai notevole è il cavaliere bion-do visto piú che frontalmente quasi di tre quarti, lachioma densa e mollemente ondulata, la bocca altezzo-sa, il collo carezzato dal chiaroscuro, gli occhi rivolti allospettatore, che avvicina, nella Guarigione di un paraliti-co che aveva toccato la bara del santo, un profilo irsuto eselvaggio in uno di quegli improvvisi e incongrui acco-stamenti cari a Matteo, possibili e anzi quotidiani nellestrade dell’Avignone papale. Ancor piú belli i ritratti nelmirabile interno di chiesa in cui san Marziale ordinaAureliano. Qui su uno scranno del coro, dalla cui spal-liera scatta la velenosa testa di un drago scolpito, siedeun fraticello il cui volto esangue e affilato di roditorepunta già sul profilo incisivo del beato Lussemburgoquale lo si vedrà dipingere in Provenza fra circa un seco-lo. Dietro la spalliera emergono le teste di un laico conla barba di una settimana, quella di un religioso maturocon i tratti marcati. Icastici ritratti si colgono nelle fat-tezze degli astanti che assistono, gli uni discorrendo, glialtri compunti, a edificanti avvenimenti dagl’intradossidelle finestre a est e a sud. Sopra l’altare, nello sguan-cio della finestra meridionale, spicca il personaggio inprimo piano che agita le mani in un gruppo di dignita-ri, un uomo di studio certo, un umanista. Proprio in que-sto stesso gruppo i due personaggi raffigurati all’estre-ma sinistra dietro al grosso domenicano che afferra perun braccio il suo accalorato interlocutore, introduconoun nuovo e rilevante problema, quello cioè della pre-senza e della partecipazione degli aiuti che il documen-to di pagamento menziona incontestabilmente attivinella decorazione della cappella. La discussione sui datidel documento ha portato a escludere la presenza tra gli

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aiuti di forti individualità dotate di una personalità e diun proprio linguaggio, e l’esame dei dipinti permette diconfermare questo giudizio. Dovunque le idee sonoquelle di una sola e medesima persona, identiche sonole curiosità, le osservazioni, le direzioni dell’indagine.Tuttavia è dato talvolta di scorgere nella realizzazionedi queste idee delle incertezze e, d’altra parte, degliinterventi e delle caratterizzazioni riconoscibili, distin-te da quelle proprie al linguaggio di Matteo. Certe testeappena disegnate, senza volume e senza profondità,appartengono per certo ad aiuti francesi e annuncianoquelle dei piú tardi, e del tutto francesi, affreschi di Sor-gues, come appunto nel caso dei due volti da cui era par-tito il discorso. Altri vistosi interventi di aiuti sononegli astanti della Guarigione del paralitico Sigeberto(scena O) nella grande lunetta della parete occidentale,in un altro gruppetto di personaggi nella Guarigione delparalitico di Agen (scena H, nella volta), nel gruppo fem-minile che assiste alla Resurrezione del figlio del signoredi Tulle (scena F, volta), in quello che dal Portale con-templa l’Esorcizzazione della figlia di Arnulpbus (scena E,volta), o ancora nel gruppo che spunta dietro la chiesanel Miracolo del corpo di san Marziale (scena T, paretesud) nonché tra gli astanti della Morte di san Marziale(scena S, parete est). Se in questi casi è altamente pro-babile che si tratti di collaboratori francesi per il segnosinuoso e corsivo che quasi traduce graficamente, linear-mente i volti plastici e torniti delle creature giovannet-tiane, altrove si avverte la presenza di collaboratorisenesi o in genere toscani.

Cosí nel Cristo che benedice il giovinetto Marziale(scena B, nella volta) si inquadra tra le figure degli apo-stoli un caratteristico volto barbuto e ricciuto che sipotrà ritrovare tra quelli degli apostoli della cappella diInnocenzo VI a Villeneuve. Anche altrove, qua e lànelle scene della volta, è dato di avvertire la presenza di

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artisti italiani diversi da Matteo, e forse tra essi è quelGiovanni d’Arezzo, che un documento del 21 ottobre1344 sembra indicare tra i collaboratori del Giovannet-ti in questa impresa23, cosí nel sacerdote barbuto ingi-nocchiato nel Miracolo di San Marziale ad Agen (scena G,nella volta) di una qualità veramente eccezionale, ma diun sapore arcaico che non si ritrova nelle piú immedia-te figure di Matteo. Sembra infine che sia possibile rav-visare la mano di uno dei pittori della camera dellaGuardaroba, quello precisamente che ha dipinto il pesca-tore del vivier con il retino sulla spalla, e cioè il pittoreche avevamo detto propenso all’uso di fitte ombreggia-ture quasi neocavalliniane, in qualche brano delle storiedi san Marziale, e per esempio nei tre soldati dellaDecollazione di san Paolo. In conclusione anche se manidiverse possono essere ravvisate nei dipinti della cap-pella di San Marziale sembra dunque che le sue carat-teristiche piú originali e profonde spettino a una solagrande personalità che accosta a crude accentuazioni insenso realistico immagini di un gusto gotico fluente escatenato tali da preludere ai risultati avanzatissimi chesaranno toccati dieci anni dopo nello stupendo arconedell’Udienza. Lo sfarzoso apparato gotico ripreso dalmondo aristocratico, conchiuso, elettissimo di Simone sitrasforma al contatto con la personale esperienza delle«cose viste» in curia. Le tappezzerie preziose, le mat-tonelle smaltate degli impiantiti, i tappeti orientali, ibroccati a grifoni alati, le stupende cappe di san Mar-ziale, le vesti sottolineate d’oro ai bordi, i rosoni in fili-grana, il castello merlato, ogivale attorno a cui si affan-na l’elaboratissimo demonio «mille artifex» fanno dacornice suntuosissima, aristocratica a una vicenda rac-contata in chiave popolare, sono una pubblica largizio-ne, una divulgazione generosa del tesoro segreto diSimone Martini.

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1 I lavori (se ne vedano i documenti in F. Ehrle, Historia Bibliothe-cae ecc. cit., pp. 628 sgg.) cominciano alla cappella di San Michele nonappena terminatane la costruzione; tra l’aprile e l’agosto del 1343 vivengono trasportate le impalcature lignee necessarie per la decorazio-ne pittorica e il 29 marzo del 1344 un documento riguarda le spesesostenute «pro pictura capelle domini nostri nove». Il 12 agosto del1345 maestro Chrétien de Cantinave viene pagato «pro tribus vitreisduplicibus per ipsum factis in capella nova facta super gardam robamdomini nostri», il 4 ottobre 1345 vengono trasportate via le impalca-ture che servivano ai pittori. Alla cappella di San Marziale si lavorò con-temporaneamente dai primi mesi del 1344 alla fine d’agosto dei 1345.Il pagamento definitivo per le due cappelle avviene il 3 gennaio del1346 (ibid., pp. 633 sgg.) Il testo specifica in primo luogo le spese perla cappella di San Michele, e cioè 71 libre e 9 denari per 504 salari gior-nalieri dei pittori che vi avevano lavorato tra il 19 gennaio e il 25 set-tembre del 1345, remunerati con paghe diverse, secondo quanto spe-cificato nel libro dei conti di Matteo; per i colori (al di fuori di quellipreziosi – oltremarino, oro, argento, ecc. – ricevuti direttamente dalla«camera») per i solventi, l’olio, le vernici, la colla, i vasi per tenere icolori, ecc. vengono pagate 7 libre, 17 soldi, 3 denari. Seguono poi lespese per la cappella di San Marziale: 89 libre, 10 soldi, 7 denari per640 salari giornalieri di pittori – sempre remunerati secondo paghediverse – che vi avevano lavorato tra il 12 ottobre del 1344 e il 1° set-tembre 1345; 13 libre, 15 soldi, 8 denari per colori, solventi ecc. Tota-le per le due cappelle 182 libre, 4 soldi, 3 denari. A parte sono calco-lati i salari di Matteo che aveva lavorato nelle due cappelle dal 19 gen-naio 1344 fino al 1° settembre 1345 per complessive 425 giornate lavo-rative, pagate otto soldi l’una (170 libre). Alcune osservazioni sono dafarsi a proposito di questo documento: esso prova in primis l’esisten-za di una vera e propria équipe di pittori attiva alla decorazione delledue cappelle sotto la direzione di Matteo che provvede direttamenteai pagamenti (si trova qui per la prima volta menzione del suo famosolibro dei conti, di cui una parte sarà rintracciata e pubblicata dal Deni-fle). D’altra parte il fatto che i collaboratori di Matteo Giovannetticominciassero a lavorare nella cappella di San Michele solo a partire dalgennaio 1345 e in quella di San Marziale dall’ottobre 1344, mentre eglivi lavorava già dal gennaio 1344, e l’esiguo salario medio degli aiuti cherisulta pari a poco meno di 3 soldi (mentre Matteo ne percepiva 8) faritenere che in queste équipes non esistessero personalità di rilievo eche pertanto il lavoro da esse eseguito sia stato completamente subor-dinato alle idee del pittore viterbese. Si rifletta per esempio sul fattoche per 425 giornate lavorative il Giovanetti riceve 17o libre, piú cioèdi tutti i suoi aiuti messi insieme che per 1144 giornate avevano rice-vuto 16o libre, II soldi e 4 denari.

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2 Per la pittura delle pareti del Gran tinello vengono pagati al Gio-vannetti, a 21 novembre del 1345, 119 fiorini (F. Ehrle, HistoriaeBibliothecae ecc. cit., p. 633). Rico d’Arezzo dipinse le tele del soffit-to (che erano state acquistate da Matteo) e per questo lavoro fu paga-to in misura di 4 soldi a canna quadrata, ciò che porta a credere che ladecorazione del soffitto del Gran tinello fosse abbastanza semplice (K.H. Schaefer, Die Ausgaben der apostolischen Kammer unter Benedikt XIIecc., p. 311); infine il 5 aprile del 1346 il Giovannetti ricevette un paga-mento di 43 fiorini, 13 soldi e 4 denari (F. Ehrle, Historiae Bibliothe-cae ecc. cit., p. 635) per una Madonna da lui dipinta sulla porta chedalla sala del Gran tinello immetteva nella cappella di San Marziale.Doveva trattarsi di una pittura suntuosa a giudicare dal prezzo pagatoche per un singolo affresco è rilevante, e dalla quantità di stagnole d’oroe di fogli d’argento che documenti del 25 gennaio e del 17 marzo dellostesso anno indicano consegnate al viterbese per questa pittura cuilavorò dal 19 novembre 1345 al 4 aprile 1346. A Villeneuve Matteolavora tre settimane alla cappella del palazzo di Napoleone Orsini, alsolito stipendio di 8 soldi al giorno (7 fiorini il 3 gennaio 1346, Schae-fer, Die Ausgaben der apostolischen Kammer unter Benedikt XII ecc. cit.,p. 312), poi il 28 aprile dello stesso anno riceve 6 fiorini e 12 denariper la decorazione di due camere del medesimo edificio. Questa voltanon doveva trattarsi che di una semplice tinteggiatura, infatti il lavo-ro era pagato in ragione di un soldo alla canna per la stesura dell’into-naco e di 9 denari alla canna (meno di un soldo!) per la pittura vera epropria. Lo stesso giorno Matteo era pagato con 160 fiorini, 11 soldie 9 denari per pitture da lui eseguite nella torre e in certe camere sottoun deambulatorio del palazzetto papale, in ragione dei soliti 4 soldi acanna, segno che le pitture delle residenze campestri di Villeneuveerano piú semplici di quelle del palazzo papale. È probabile che quicome ad Avignone il Giovannetti abbia diretto l’équipe dei pittori,composta dagli stessi artisti che si trovano attivi al palazzo papale:Robin de Romans, Bernard Escot, Francesco e Niccolò da Firenze,Rico d’Arezzo e Pietro da Viterbo (pagati 100 fiorini il 28 aprile del1344 per aver decorato le stanze superiori della dimora papale), Pier-re Boyer e Pierre Rebant ecc. È singolare che la villa del cardinale Orsi-ni acquistata da Clemente VI e da lui fatta suntuosamente decorare, equella fatta edificare ex novo dal pontefice siano state generalmenteconfuse (cfr. L.-H. Labande, Le palais des papes ecc. cit., II, p. 165; Fer-nand Benoit, Villeneuve-lez-Avignon, Paris 1930, p. 41) mentre unesame dei documenti pubblicati dallo Schaefer (Die Ausgaben der apo-stolischen Kammer unter Benedikt XII. ecc. cit., passim e particolar-mente pp. 31o e 430) mostra con assoluta chiarezza che si trattava didue edifici diversi tra i quali correva una strada tagliata nella roccia.Sull’acquisto dell’antica livrea Orsini da parte del cardinale Hugues

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Roger fratello del pontefice, cfr. H. Aliquot: Achat de la Livrée Orsinià Villeneuve pur le Cardinal Hugues Roger, in Institut de Recherches etd’Etudesdu Bas Moyen Age avignonnais (1.r.e.b.m.a.) et alii, Avignonau Moyen Age, Avignon 1988, pp. 111 sgg.

3 Nella moderna agiografia il piú accanito sostenitore di una data-zione precoce per l’apostolato di san Marziale nell’Aquitania è statoFrançois Arbellot cui si devono molte opere sull’argomento tra le quali:Dissertation sur l’apostolat de Saint Martial, Paris-Limoges 1855; Docu-ments inédits sur l’apostolat de Saint Martial et sur l’antiquité des églisesde France, Paris 186o; Etude historique sur Adhémar de Chabannes, in«Bulletin de la société archéologique du Limousin», xxii, 1873, pp. 104sgg.; Miracula Sancti Martialis anno 1388 patrata ab autore coevo con-scripta, in «Analecta Bollandiana», 1882, 1, pp. 411 sgg.; Livre, desmiracles de Saint Martial, Paris 1889, Etude historique sur l’ancienne viede Saint Martial, Limoges 1892. Le sue tesi sono state combattute consuccesso da Louis Duchesne (Saint Martial de Limoges, in «Annales duMidi», iv, 1892, pp. 289 sgg.); cfr. anche Charles de Lasteyrie, L’ab-baye de Saint Martial de Limoges, Paris 1901; Alfred Leroux, in «Anna-les du Midi», xiii, 1901, pp. 457 sgg.; Henri Leclercq, inChabrol-Leclercq, Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, ix,1, Paris 1930, col. 1109 sgg.

4 L. Duchesne, Saint Martial de Limoges cit., p. 320.5 Antoine Thomas, Bernard Gui frère prêcheur, in Histoire littéraire

de la France, XXXV, Paris 1921, p. 139.6 Bonaventure de Saint Amable, Histoire de Saint Martial, I, 1676,

p. 599.7 Quasi tutti gli episodi del ciclo sono stati tratti dalla vita dello

Pseudo Aureliano, alcuni dall’opera di Bernard Gui. Per l’origine deisingoli passi cfr. L.-H. Labande, Le palais des papes ecc. cit., II, pp. 32sgg.; George Kaftal, Iconography of the Saints in Tuscan Painting, Firen-ze 1952, pp. 686 sgg.

8 J. A. Crowe e G. B. Cavalcaselle, A History of Painting in Italy,London 1864, vol. II, p. 93, «In character and execution the frescoes,though inferior to the rest in Avignon, are of the same class of thoseof the lower chapel, and therefore by Simone and his school and notby Giotto». Le osservazioni del Cavalcaselle sugli affreschi avignone-si furono discusse da Léon Palustre (De Paris à Sybaris, Paris 1868, p.24), quindi da questo stesso studioso tradotte sul «Bulletin Monu-mental» del 1874 (tomo XL, pp. 665 sgg.) e recarono una notevole chia-rificazione nell’atteggiamento della cultura storico-artistica franceserispetto a un tema che finora era stato sfiorato in un modo per nullaaffatto rigoroso. Delle opinioni di Léon Palustre, che in ultima anali-si erano derivate dalle loro, dànno atto Crowe e Cavalcaselle nella edi-zione tedesca della Storia (Geschichte der italienischen Malerei, II, Leip-

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zig 1869, pp. 262 sgg., nn. 100, 103, 105) dove l’attenzione è richia-mata una nuova volta con forza sull’importanza dei cicli avignonesi esulla completa oscurità in cui essi sino ad allora erano stati lasciati daglistudiosi: «Die monumentalen Malereien in Avignon sind bisher fastunbeachtet geblieben. Von Vasari bis auf Della Valle hat Niemand überdie Bilder berichtet, mit denen die beiden Hauptkapellen und mehre-re andere Räume des Exilresidenz geschmückt sind...». Successiva-mente le scoperte del Müntz all’Archivio Vaticano vennero a confer-mare le deduzioni fatte col «solo criterio artistico» dal Cavalcaselle (G.B. Cavalcaselle e J. A. Crowe, Storia della pittura italiana, III, Firenze1885, p. 109, n. 1).

9 Sulla fede del Vasari si stabilí la tradizione di attribuire a Giottogli affreschi del palazzo dei papi. A Valladier, alla fine del Cinquecento,nei suoi Discours sur l’histoire d’Avignon (cfr. E. Castelnuovo, Avigno-ne rievocata cit., pp. 35 e 48, n. 14) attesta la paternità giottesca perle pitture del palazzo dei papi e questa rimane per secoli l’attribuzio-ne piú largamente accolta tanto che la si ritrova nelle Mémoires d’untouriste dello Stendhal, come negli autori piú incolti, quale un certoHassoux (Notice historique du palais des papes, Avignon 1939) che stor-pia il nome di Giotto in «Diotot» e fin nella corrente letteraturaamena. Cosí per esempio il nome di Giotto compare in un romanzo delpiù divertente gusto moyenageux, Elys de Sault ou la cour des papes aumilieu de XIV siècle di Madame Charles (Paris 1834): «A quelques pasde là le Giotto montrait une charmante esquisse commencée le matinmême sur une feuille de vélin, et que plus tard il devait reproduire surla toile par le procédé récemment inventé de la peinture à l’huile. Ellereprésentait une femme vue de profil; son front était élevé, ses sour-cils noirs, ses cheveux blonds et rattachés en nattes derrière sa tête.Sa robe verte, parsemée de viollettes et à manches étroites, laissait àdécouvert de blanches épaules; sa main effilée et mignonne tenait unefleur: c’était le portrait de la belle Laura de Sade, tel qu’on le voit enco-re à Avignon. On admirait, on exaltait cette parfaite ressemblance ettoutes les dames de la cour voulurent être peintes par le Giotto» (vol.I, p. 67). Nei Monumens de sculpture, peinture et architecture de l’anciencomté venaissin (Paris 1834) l’architetto A. Frary pubblica un’incisio-ne di tre dei profeti del Giovannetti nella sala dell’Udienza (Enoch,Giobbe e Salomone) attribuendoli nella didascalia a Giotto; la stessaincisione è riprodotta alla pagina 441 dell’opera di J.-B. Joudou (Avi-gnon, son histoire, ses papes, ses monumens, Paris 1842) ove l’attribuzionea Giotto degli affreschi delle cappelle di San Giovanni e di San Mar-ziale viene suffragata dall’autorità del celebre archeologo CharlesLenormant «dont l’opinion ne peut étre révoquée en doute» (p. 418,n. 1). Altrove invece, senza alcuna plausibile ragione compare il nomedi Giottino; il Mérimée l’avanza in alternativa a quello di Giotto e

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Alphonse Rastoul (Tableau d’Avignon, Avignon 1836, p. 12) afferma:«la couchette de fer du soldat français s’appuie contre les murs quedécora jadis le pinceau näif de Giottino». Lo Chaix (Des anciennes pein-tures cit., pp. 5 sgg.) avanza l’ipotesi che l’autore degli affreschi delpalazzo sia Spinello Aretino, mentre Jules Courtet, nel «Congrèsarchéologique de France» del 1855 (sessione XXII, Châlons-sur-Marne,Aix, Avignon, p. 445) propende per l’Orcagna che una tradizione risa-lente al Vasari («... fece alcune pitture, pur in tavola, che furono man-date al papa in Avignone; le quali ancora sono nella chiesa cattedraledi quella città») voleva fosse stato chiamato da Innocenzo VI «pourexécuter des tableaux en détrempe sur bois, qui fasaient, vers la fin duXVIe siècle, un des principaux ornemens de l’église du palais» («La rucheprovençale», 11, 1819, p. 87). Augustin Canton, nella prima edizione(186o) del suo volume Le palais des papes, potrà riassumere la situazio-ne enunciando la lista delle attribuzioni correnti: Giotto, Giottino,Simone, Orcagna, Spinello.

10 Eugène Müntz (se ne veda la biografia e una completa bibliografiaa cura di Georges de Manteyer nei «Mélanges d’archéologie et d’hi-stoire de l’école française de Rome», xxiii, 1903, pp. 231 sgg.) comin-ciò, su suggerimento del Denuelle, le sue ricerche sul fondo avignone-se degli Archivi Vaticani, non appena essi furono aperti al pubblico nel1879. Le indagini condotte negli archivi dipartimentali di Avignonenon avevano fino ad allora condotto per il periodo papale che a scar-sissimi risultati. Dalle ricerche dello Achard era apparso a malapena ilnome di Symonnet de Lyon, menzionato in un documento del 1349 ea questo pittore per l’errata interpretazione di un monogramma lascia-to da un antico visitatore su un affresco della certosa di Villeneuve furo-no per breve tempo attribuiti gli affreschi di Villeneuve, e dello stes-so palazzo dei papi (A. Canron, Le palais des papes, Avignon 18752, p.21). In effetti tutti i registri pontifici concernenti le entrate e le usci-te della curia erano stati portati a Roma e ciò spiega l’assoluta scarsezzadi documenti papali in Avignone e la buona fortuna incontrata dalMüntz fin dall’inizio delle sue ricerche. Il primo e fondamentale ritro-vamento fu quello del documento del 3 gennaio 1346 riguardante ilpagamento a Matteo Giovannetti delle due cappelle di San Marziale edi San Michele. L’autore degli affreschi del palazzo papale ritrovavacosí finalmente un nome, dopo secoli di oscurità. Occorre però ricor-dare qui la fondamentale eccezione rappresentata dal grande eruditosecentesco Joseph Marie de Suarès, vescovo di Vaison (cfr. E. Castel-nuovo, Avignone rievocata cit., pp. 35-36 e nn. 13 e 16) che in una sualettera da Avignone del 1° agosto 1635 cosí scrive: «Ho ancora rivi-sto col Signor Conte Bonarelli il palazzo e nella Cappella degli Angelinotai l’effigie di Clemente VI dipinta da Matteo Jannotzi da Viterbonel 1344. Ne farò cavar copia per l’Eminenza Vostra» (Biblioteca

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Vaticana, Cod. Barb. Lat. 3051, c. 24). Il nome di Matteo doveva esse-re stato ritrovato dal de Suarès o attraverso indagini negli allora ric-chissimi archivi avignonesi o, ma ciò sembra piú difficile, attraverso l’e-same di una firma o di una iscrizione trascurata dagli altri autori.Comunque essendo confinato in un passo di una lettera rimasto inedi-to fino ad oggi non poté essere acquisito dalla tradizione erudita avi-gnonese rimasta fissa sul nome di Giotto. Fu dunque il Müntz che ebbeil merito di aprire una nuova strada nelle ricerche sugli affreschi avi-gnonesi. La prima notizia della scoperta la diede in un articolo sul«Courrier de l’Art» (1, 1881, p. 79), ripubblicato poi nel «BulletinMonumental» del 1882, vol. XLVIII, pp. 90 sgg. e sulle «Mémoiresde l’Académie de Vaucluse» (1, 1882, pp. 153 sgg.). Per anni, fino allamorte avvenuta nel 1902 l’arte alla corte di Avignone fu uno dei temipreferiti delle sue ricerche e a essa dedicò un cospicuo numero di arti-coli in cui pubblicò via via i risultati delle sue ricerche d’archivio ediscusse, in rapporto a queste, i vari cicli avignonesi. Sarebbe stataintenzione dei Müntz di riunire tutto il vasto materiale che avevaestratto dagli Archivi Vaticani in uno studio complessivo, analogo aquelli fondamentali da lui pubblicati tra il 1878 e il 1898 sulle arti allacorte dei papi durante il Rinascimento; discutendo nel 1892 alcunidocumenti relativi al pontificato di Innocenzo VI («Revue de l’art chré-tien», 1892, p. 185) egli dichiarava: «Ces documents sont pris en quel-que sorte au hasard parmi les milliers de pièces de même nature dontje possède la copie et dont je prépare la publication “in extenso”». Ilprogetto non fu poi realizzato e il materiale raccolto dal Müntz, inparte, malgrado gli studi successivi, ancora inedito, è conservato allaBibliothèque Nationale di Parigi in tre grossi volumi (Français Nouv.Acq. 21 483/21 485, cfr. anche Walter Bombe, in «Repertorium fürKunstwissenschaft», 1929, p. 15).

11 «Au point de vue de l’harmonie, du rythme, des convenancesdécoratives, il est impossibile d’imaginer un ensemble plus heurté,plus disgracieux». In «Gazette archéologique», xi, 1886, p. 258.

12 P. Toesca, Il Trecento cit., p. 545. Sul modo di impaginare le scenecfr. M. Aronberg-Lavin, The Place of Narrative: Mural Decoration in Ita-lian Churches 431-1600, Chicago 1991.

13 Der erste Entwurf ecc. cit., p. 601: «Ein lokaler Ton färbt dasGanze – In Siena selbst wären die avignoneser Bilder nicht möglich!»

14 Roberto Longhi, Carlo Braccesco, Milano 1942, p. 19; Id., Via-tico per cinque secoli di pittura veneta, Firenze 1946, p. 44; Id., Calepi-no veneziano, XIII, Ancora del Maestro dei Santi Ermagora e Fortunato,in «Arte veneta», 11, 1948, pp. 41 sgg.

15 Carlo Ludovico Ragghianti, Studi sui primitivi francesi, in «La cri-tica d’arte», serie III, viii, 1949, pp. 46 sgg. Alcune imprecisioni rela-tive ai cicli avignonesi che si riscontrano in questo articolo sono pro-

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babilmente dovute al fatto che il Ragghianti ha attinto molte delle suenotizie al regesto estremamente infido pubblicato dal Dimier sulla«Gazette des Beaux-Arts» (lxxviii, 1936, periodo VI, tomo XVI, pp.35 sgg.).

16 E. Castelnuovo, Avignone rievocata cit.; M. Laclotte, L’Ecoled’Avignon cit., pp. 42 sgg. Nella seconda edizione, profondamentetrasformata, di questo volume (M. Laclotte e D. Thiébaut, L’Ecoled’Avignon cit.) D. Thiebaut dedica (pp. 155 sgg.) un’esauriente ana-lisi a questo ciclo. Per i restauri e il consolidamento di cui esso è statooggetto tra il 196o e 1969 cfr. F. Enaud, in «Les Monuments Histo-riques de la France», n. 2-3, 1971 cit., pp. 13 sgg. Cfr. anche M.Plant, The vaults of the Chapel of St. Martial, in «Source», 11, 1982,pp. 6; sgg.; Id., Fresco painting in Avignon and northern Italy. A studyof some 14th Century cycles of Saint lives outside Juscony, Arm Arbor1984 (microfilm).

17 Gaetano Milanesi, I due suntuosissimi conviti fatti a papa Clemen-te V nel 13o8, descritti da un anonimo fiorentino testimone di veduta, perle nozze Bongi-Ranalli, Firenze 1868. Eugenio Casanova ha ripubbli-cato questo testo nell’«Archivio della R. società romana di storiapatria», 1899, XXII, pp. 371 sgg., rettificando l’anno nel 1343 e ilnome del pontefice regnante in quello di Clemente VI.

18 Hermann Hoberg, Die Inventare des päpstlichen Schatzes in Avignon1314-1376, Città del Vaticano 1944.

19 Cfr. S. Gagnière, Le Palais des Papes d’Avignon cit., pp. 44 e 190sgg. Cfr. anche il catalogo dell’esposizione Les Fastes du Gothique,Paris 1981, pp. 415 sgg.

20 Paul Durrieu, Les petits chiens du Duc Jean de Berry in «Comp-tes rendus de l’académie d’inscriptions et belles-lettres», Paris 1909,pp. 866 sgg.; O. Paecht, Un tableau de Jacquemart de Hesdin?, in «Larevue des arts», vi, 1956, pp. 158-59.

21 L.-H. Labande, Le palais des papes ecc, cit., pp. 45 sg.22 Dalla copia del Denuelle appare che la Crocifissione della cappel-

la di San Marziale, ora ridotta al solo crocifisso e a scarsissimi altriframmenti, contava anche le figure della Vergine, di san Giovanni e diClemente VI inginocchiato ai piedi della croce. Cfr. anche L.-H. Laban-de, Le palais des papes ecc. cit., II, p. 32.

23 K. H. Schaefer (Die Ausgaben der apostolischen Kammer unterBenedikt XII. ecc. cit., p. 278) pubblica il documento di un pagamen-to effettuato a questa data a un Giovanni d’Arezzo per dell’azzurrofino «ponendo in pictura facienda in capella maioris tinelli». Dato chel’impiego di questo prezioso colore è esattamente specificato è proba-bile che questo Giovanni d’Arezzo fosse piuttosto un pittore cui veni-va rimborsato l’acquisto dei colori da mettere in opera che un mercante.Precedentemente un altro aretino, Bartolomeo di Ser Bandini, «Avi-

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nione commoranti» aveva ricevuto un pagamento il 1° settembre 1344(K. H. Schaefer, Die Ausgaben der apostolischen Kammer unter BenediktXII. ecc. cit., p. 278) per dell’azzurro fine d’Alemagna, senza che nefosse specificato l’impiego. In quest’ultimo caso è probabile si trattas-se di un mercante.

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Capitolo sesto

La cultura di Matteo Giovannetti

A questi complessi aspetti del mondo poetico di Mat-teo Giovannetti, prelato-pittore viterbese in curia neglianni 1344-1345, sarà necessario rifarsi per risalire di quialle radici profonde e prime del suo linguaggio.

Quando si pensi all’antica città in cui era nato nonsarà difficile immaginare come la mente del giovanepotesse essere stata profondamente e precocementecolpita dall’aspetto leggero e aereo del gotico viterbe-se, in ciò che esso aveva di piú schietto e originale: leariose logge del palazzo papale, gli alti baldacchini delletombe arnolfiane, le ampie campate delle chiese deiPredicatori e dei Mendicanti, le fonti irte di guglie, lebifore e le trifore che si spalancano oscure sulle giallefacciate di tufo, le colonnine nervose, i capitelli corin-zi dai ricci d’acanto grassi e carnosi, le chiavi di volta,gli spioventi precipiti, i grandi arconi rampanti, le cor-nici mosse, gli stemmi, i blasoni. L’architettura goticadi Viterbo cosí moderna, così avanzata, cosí oltremon-tana, che aveva improntato di sé l’intera fisionomiadella città quando essa, nel corso del Duecento, eradivenuta per tanti anni la sede del papa, quando le suecase, i suoi palazzi, avevano ospitato la curia romana ele sue chiese le spoglie di pontefici e cardinali, quandoi suoi governanti avevano coltivato la speranza che lacittà potesse sostituirsi a Roma, doveva necessaria-mente restare per sempre nella memoria di chi, nato

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entro la cerchia delle mura, tra Porta Romana e PortaFiorentina, in San Pellegrino o in Piano Scarano, aves-se conservato negli occhi il vibrante disegno goticodella fonte maggiore, le ombre che il sole suscita pas-sando attraverso i rosoni traforati o sfiorando i mosai-ci della tomba di Adriano V in San Francesco. Nessu-na città in Italia poteva vantarsi di avere avuto una cul-tura figurativa altrettanto precocemente, pienamente,originalmente gotica: «Tutto ha un sapore nuovo, unsapore non cittadino, non italiano anzi, tutto è perva-so dal sentimento dell’arte francese!»1.

Se un segno transalpino cosí eccezionale e pungentesi era effuso nell’architettura e, sia pure piú flebilmen-te, nella scultura, meno progredita era per contro lasituazione della pittura: una arcaica Crocifissione sullatomba di Monaldo Fortiguerra (1293) in Santa MariaNuova, che pure reca, nell’intradosso dell’arcosolio oveè dipinta, una decorazione vegetale di una sensibilità giàgotica, non costituisce certo un testo su cui abbia potu-to educarsi e crescere la grande e moderna mente diMatteo Giovannetti. Qualche suggerimento semmaiavrà potuto giungergli dalla decorazione della facciatadella Domus Dei (1303, ora nel Museo Civico di Viter-bo), di fronte alla chiesa domenicana. Non ne rimango-no ora che pochi frammenti al Museo Civico, un rilie-vo dai vivi sensi gotici – la Madonna con il Bambino cuiun santo presenta il visconte Gatti de’ Brettoni e lamoglie Teodora Capocci – e un esiguo resto delle pittu-re che lo circondavano, ma da essi ben si può scorgerecome elementi gotici si fossero innestati su un fondocavallinian02. La penetrazione di modi gotici nella pit-tura viterbese nei primi anni del Trecento trova con-ferma d’altronde in qualche affresco della cattedrale, oramiseramente frammentario, come quelli che ne ornanol’absidiola a cornu evangelii, o quelli, piú recenti, sullaparete d’ingresso, accanto alla porta sinistra. Accenti di

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sapore fiorentino – assisiate non lontani da quelli delMaestro della Santa Cecilia ebbero anch’essi qualchediffusione nel viterbese, e lo prova il trittico di Grego-rio e Donato d’Arezzo a Braccian03 databile al 1315.L’attività di pittori aretini in territorio viterbese è tral’altro particolarmente significativa quando si ricordi laviva collaborazione che ad Avignone uní Rico d’Arezzoa Pietro da Viterbo, due personalità importanti dell’en-tourage di Matteo, nonché la presenza del pittore Gio-vanni d’Arezzo che appare tra i collaboratori di Matteonella cappella di San Marziale. Assai significativa infi-ne, malgrado la sua condizione quasi evanescente, è ladecorazione di una piccola nicchietta sulla parete d’in-gresso della cattedrale, accanto alla tomba di GiovanniXXII, ove sono finte delle ampolle liturgiche con unaintenzione illusiva analoga e quasi contemporanea aquella espressa nei celebri repositori di Taddeo Gaddinella cappella Baroncelli. Se questa idea è stata, comesembra malgrado la scarsa leggibilità del testo, realizza-ta prima della partenza per la Francia di Matteo Gio-vannetti, essa, con quanto rivela di interessi per le pos-sibilità illusionistiche della pittura – e di converso perla natura morta –, costituisce un elemento assai inte-ressante per ricostruire il quadro della cultura figurati-va viterbese nei primi decenni del Trecento.

È probabile che in questa stessa Viterbo Matteo Gio-vannetti non abbia ricevuto solo la sua primissima edu-cazione, ma abbia anche svolto una certa attività. La let-tera di Niccolò V dell’agosto 1328 induce a pensare chequalche rapporto fosse intercorso tra lui e la sparutacorte dell’antipapa, un rapporto che si concretò forse inuna partecipazione del pittore ai lavori intrapresi nelconvento dei frati minori dove Niccolò V si era stabili-to durante il suo soggiorno viterbese tra l’agosto e ildicembre del 1328, o nell’interno del palazzo papale.Esso, a quel tempo, doveva essere in pessime condizio-

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ni e del tutto inadatto a ospitare un pontefice se pochianni prima – il 13 agosto del 1325 – Giovanni XXII siera rivolto al suo cappellano Roberto d’Albarupe, rettoredel Patrimonio di San Pietro, chiedendo che venisseroeseguiti i restauri necessari a ché l’edificio non cadessein rovina4. Oggi non resta piú a Viterbo alcuna testi-monianza pittorica che possa riferirsi con certezza al sog-giorno dell’antipapa e il palazzo pontificio non conser-va della sua decorazione pittorica che qualche fregio amotivi vegetali negli sguanci delle finestre, analogo aquelli che decorano l’intradosso della nicchia ove era ilsepolcro dei Forteguerra nella chiesa di Santa MariaNuova e pertanto databile non oltre la fine del Due-cento5.

Esistono però nelle chiese cittadine alcuni affreschiche mostrano strette affinità con i modi di Matteo Gio-vannetti. Il piú rilevante di essi è nella chiesa di SantaMaria Nuova. Si tratta di una Crocifissione con san Gio-vanni Battista, la Vergine, san Giovanni Evangelista,san Giacomo e la Maddalena inginocchiata ai piedi dellacroce, entro il vano di un arco cieco della parete sinistradella chiesa. L’archivolto è dipinto con una fine deco-razione cosmatesca, l’intradosso dell’arco con una deli-cata serie di santi al cui centro è il Cristo benedicente;sulle due minori pareti della nicchia, che continuano lasuperficie dell’intradosso, sono raffigurate le apparizio-ni di Cristo a due santi, ben conservata quella di sini-stra con un santo pellegrino, meno quella di destra. Unaqualità molto notevole si svela nelle teste drammatichee contratte degli angeli, nell’irsuto aspetto del Battista,nel chiuso volto dell’Evangelista, nel capo reclinato delCristo. Ma i brani piú belli sono forse le due giovanimartiri, santa Margherita e sant’Orsola all’estremità delsottarco, pungenti e sottili nella sapiente armonia checoncilia il linguaggio di un certo tempo di Pietro Loren-zetti a quello di Simone Martini, e la scena dell’appari-

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zione di Cristo nello sguancio sinistro. Molti elementisono chiaramente giovannettiani (il volto adusto e fierodel Battista, le mani del san Giacomo che afferranoconvulsamente il manto, le figurette allungate degliangeli rossi e azzurri, la testa del santo nello sguanciosinistro che ricorda molto da vicino certe teste dellavolta della cappella di San Marziale e particolarmentedella scena della distruzione dell’idolo «in Agedivo») finnei particolari grafici (i modi di rendere le sopracciglia,le barbe, le capigliature). Al di là dei singoli particolarisono estremamente eloquenti la drammatica umanitàdella raffigurazione e delle singole figure, la libertà fan-tastica che infrange i canoni fino a tramutare l’interascena in un drammatico, concitato colloquio.

Sarebbe estremamente suggestivo ritrovare qui, nellasua città natale, una testimonianza dell’attività di Mat-teo Giovannetti prima della sua partenza per Avignone,ma altri elementi si oppongono a questa ipotesi, né sitrova qui quel fluente, leggero, turbinante segno goticoche sempre appare nelle opere avignonesi di Matteo. Unconfronto del Cristo della Crocifissione viterbese conquello del finto paliotto nella cappella di San Marzialepotrà essere assai significativo. Le somiglianze sononotevoli nell’impianto delle due figure, ma alla tersitàcristallina e solida delle carni del Cristo viterbese sioppone il ductus piú morbido e fluido del Cristo di SanMarziale, cosí i due perizomi eccezionalmente similinello schema, ma assai diversi nella realizzazione, l’unodi morbido velo, l’altro di piú greve panno, cosí infinei due volti. Un generale ispessimento grava sulle figureviterbesi, le ombre sono più profonde, il chiaroscuro piúfumoso, le teste premono piú pesantemente sui corpi;certi tratti risultano infine del tutto inconsueti nell’o-pera certa di Matteo, cosí i singolari piedi del Cristodalle lunghe dita. Occorre pertanto credere che ove sitratti di un’opera di Matteo essa debba spettare alla sua

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giovinezza perché è difficile convincersi che non sia pas-sato un lungo lasso di tempo tra questa Crocifissione egli affreschi della cappella di San Marziale dipinti nel1344-45. Scrivevo nel 1962 che un dipinto come que-sto doveva collocarsi oltre la metà del secolo. Ora, dopoche Italo Faldi lo ha attribuito al Giovannetti, insiemea un frammentario volto di donatore nella stessa chie-sa, penso si debba anticipare la datazione. Tuttavia,malgrado la forte affinità che l’opera presenta con il lin-guaggio di Matteo, continuo a pensare che la Crocifis-sione di Santa Maria Nuova sia opera di un diverso pit-tore viterbese che doveva aver conosciuto intimamenteil linguaggio e le opere di Matteo Giovannetti, forse lostesso Pietro da Viterbo che sarà attivo in curia accan-to al grande concittadino.

Sempre nella stessa chiesa, su un frammento archi-tettonico che dovette in origine far parte della decora-zione di una tomba o piú probabilmente ancora dellacornice di un repositorio per le sacre ampolle è l’angelodi una Annunciazione di una finezza eccezionale e diimpronta alquanto senese, ove su una base fondamen-talmente simoniana si innestano, particolarmente nelvolto, elementi lorenzettiani; è l’opera di un pittore diformazione parallela a quella del Giovannetti ma chenon si riconnette con precisione ad alcun gruppo cono-sciuto e mostra ancora una volta la ricchezza e la com-plessità della cultura figurativa viterbese. Infine sullaparete sinistra dell’abside di San Francesco un san Gio-vanni Battista (frammento di una piú vasta composi-zione) è assai simile al Battista di Santa Maria Nuova6.

A Viterbo dunque, anche se non sembra possibile perora identificare con sufficiente probabilità alcuna operaautografa di Matteo Giovannetti, si possono avvertireprecise tracce della sua attività nell’influenza che il suolinguaggio ebbe sui pittori locali. Viterbo non è perMatteo un mero referto anagrafico, ma certo la città

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dove ebbe la sua prima formazione e dove, anche dopola sua partenza per la curia, rimase qualcosa delle sueinclinazioni e del suo linguaggio.

Sul giovane pittore esordiente nella capitale dellaTuscia non poté però mancare di esercitarsi il richiamoforte e insistito della vicina Orvieto. Fu qui probabil-mente che nei primi anni del terzo decennio del secoloegli incontrò Simone Martini, un evento che per il viter-bese fu veramente cruciale. La fisionomia artistica del-l’ambiente orvietano nei primi decenni del Trecentonecessita ancora di un adeguato chiarimento. La vitadella città umbra, meno provata di Viterbo dalla par-tenza dei papi, si accentrava allora attorno al gran can-tiere della cattedrale che raccoglieva tutte le energieciviche indirizzandole verso l’irraggiungibile propositodi eguagliare lo splendore e la grandezza di Assisi. Simo-ne Martini agli inizi del terzo decennio del Trecentodipinge per il vescovo di Soana Trasmondo Monaldeschiun polittico in San Domenico e lascia in altre chieseorvietane altissime testimonianze del suo genio. Pur-troppo le opere orvietane sono state spesso consideratecon una riprovevole distrazione che si è spinta fino anegare l’autografia di autentici capolavori quali lo splen-dido polittico di Boston, ove le figurette degli angelisulle cuspidi e il soave, vivacissimo Bambino dello scom-parto centrale sono tra i piú bei brani che Simone abbiadipinto in questo periodo. La attività orvietana del Mar-tini ebbe, come è stato opportunamente osservato7,importanza certa nel maturare dei suoi primi seguaci elasciò d’altra parte una rilevante impronta nella situa-zione locale: a Todi una frammentaria Crocifissione dielevata qualità mostra il valido seguito che i suoi modisuscitarono in Umbria, e altri segni se ne potranno scor-gere tra gli affreschi di quella modesta e suggestivapinacoteca orvietana che è la chiesa di San Giovenale8.Accenti di una singolare fronda martiniana si avverto-

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no infine nella Madonna di Misericordia in Duomo, fir-mata da quel Lipus de Sena che malgrado il gran pesodi un contrario parere di Retro Toesca sembra piú pros-simo a Lippo Memmi che a Lippo Vanni, quando, comeancor piú probabile, non si tratti addirittura di un terzoe fin qui ignoto maestro. Il quadro offerto dall’am-biente artistico orvietano non punta però in una soladirezione: un affresco della tomba Magalotti inSant’Andrea accenna al passaggio di Ambrogio Loren-zetti9, affreschi dagli accenti vivacemente gotici e addi-rittura transalpini rimangono in San Lorenzo in Arari(1330) mentre in duomo (una santa tra due donatorientro la seconda nicchia della parete sinistra) e nellostesso San Lorenzo (santa Brigida sul primo pilastrosinistro) altri dipinti mostrano quel delicato accordo tramodi gotici francesi e linguaggio senese che è proprio dicerta pittura umbra. Testi piú arcani e antichi resisto-no ancora infine sulle mura fatiscenti della badia deiSanti Severo e Martirio a testimoniare di una arcaica esottile fusione tra modi protogiotteschi assisiati e primipungenti fermenti gotici.

Assisi fu certo l’altra grande tappa della formazionedi Matteo, né poteva esser diversamente tanto grandeera il prestigio e l’ascendente di cui godeva la basilicaassisiate da quando l’eccezionale preveggenza e avve-dutezza dei suoi rettori aveva chiamato a decorarla imassimi geni che contasse la pittura contemporanea eaveva illustrato le sue pareti e le sue volte con una impa-reggiabile raccolta di capolavori. Tanto frequenti sonopoi le idee che nelle Storie di san Martino, dipinte daSimone nella chiesa inferiore di San Francesco, prelu-dono agli affreschi di San Marziale, che un soggiornoassisiate del Giovannetti, all’incirca attorno al 1320-25non appare dubbio. Qui sono le Esequie di san Martinoche prefigurano la scena di San Marziale resuscita il figliodi Nerva, signore di Tulle, là un particolare della Morte di

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san Martino ne annuncia con evidenza un altro del Cri-sto con san Marziale. Eppoi sono i tagli dei gruppi, lesiepi fitte delle teste degli astanti, l’apparizione improv-visa in un’apertura che si crea tra la folla, di due voltiaccosti che discutono, che esprimono stupore, meravi-glia; il gusto di certe architetture semplici, appena illu-minate dal mosaico, di logge, di volte stellate, di ampiefinestre. Tutto però in Assisi, come si è detto era piúsottile, piú cifrato, più arduo che in Avignone, sicchél’atmosfera rarefatta che circola sotto le volte della cap-pella di San Martino è assai diversa da quella pervia erespirabile della cappella di San Marziale.

Ma ancora altri incontri, altri compagni Matteo Gio-vannetti dovette ricercare nell’oscurità della chiesa infe-riore di San Francesco. E in primo luogo un altro gran-de senese, Pietro Lorenzetti, di cui poté studiare glisplendidi affreschi del transetto sinistro e di cui gli rima-sero soprattutto nella memoria certi brani della Croci-fissione: l’odio, l’ira, il dolore che gravano sui volti, l’e-mergere dalle celate, dagli elmi, dai cimieri dei profilitesi, dolenti o feroci dei soldati. Piú di un riferimentosarebbe possibile proporre tra certi brani della grandeCrocifissione di Assisi e altri delle scene della vita di sanMarziale in Avignone, ma a distanza di tanti anni – circaun ventennio perché sembra inoppugnabile la datazio-ne precoce degli affreschi assisiati di Pietro – non saràopportuno ricercarvi che qualche fondamentale e gene-rale suggerimento che dovette radicarsi profondamentenella mente del giovane Matteo.

Accanto a Simone e a Pietro, Assisi poteva offrire, achi vi giungesse nel corso del terzo decennio del Tre-cento, altri altissimi esempi. Non furono tanto i solen-ni affreschi del piú antico Giotto nella chiesa superio-re, remoti e quasi inaccessibili a una fantasia moderna,immediata e spontanea come quella di Matteo, ma testipiú comprensibili, raggiungibili e attuali, partecipi tutti

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di quel comune clima nato dall’incontro di fiorentini,senesi, umbri attorno al grande patriarca Giotto il cuilinguaggio si andava ammorbidendo in senso piú goticoe arricchendosi di luce e di colore. A questa civiltà assi-siate parteciparono accanto a Pietro, Stefano Fiorenti-no, il Maestro delle Vele e altri fin qui anonimi perso-naggi come il grande autore della vetrata di Sant’Anto-nio le cui osservazioni ritrattistiche e spaziose interes-sarono certo al Giovannetti10. Del pittore che Longhichiamò Stefano e che oggi si identifica con PuccioCapanna egli serbò memoria negli impasti morbidi eluminosi, teneri e fusi con cui condusse la Crocifissionedi San Marziale; del Maestro delle Vele che sviluppavain senso gotico il linguaggio del Giotto maturo, chedipingeva con succhi preziosi e profondi quasi di smal-to, molti spunti dovettero attrarlo, e in primo luogo quelsuo saper ambientare i piú avanzati e preziosi elementigotici in un universo spazioso, sotto «quell’alto stabbioa tettoia visto di sotto in su ove i travi sono scorciati inuna profondità di congegno che Paolo Uccello nonavrebbe piú raggiunto»11.

In quest’Umbria fervidissima dei primi decenni delTrecento ove senesi e fiorentini si incontravano e siaccostavano al gusto d’oltremonte portato dagli orafi,dagli scultori e dagli architetti, dovette trascorrere lagiovinezza di Matteo. Dai grandi cantieri attivi sullaterra umbra nel corso dei primi decenni del Trecento,ove erano convenuti artisti di diversa cultura e di dif-ferenti esperienze, nacque e si sviluppò una scuola pit-torica dalla fisionomia ancora in parte oscura, ma di cuialcune caratteristiche sono già individuabili: un segnogotico pungente e nervoso che bene si avverte per laprima volta nei grandi miniatori perugini del principiodel secolo, una predilezione per i colori vivi, tersi,quasi di smalti o di vetrata, per una certa fastositàpopolare, per una semplice e diretta espressività. Alcu-

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ni di questi aspetti, e soprattutto l’immediatezza e l’ac-corata espressività, trovano riconoscimento in unoscritto di Bernard Berenson che tratteggiando, sia purecon forti limitazioni, i dati salienti di un pittore, hamesso in luce alcune caratteristiche di tutta una cultu-ra figurativa. Nell’analisi di uno Speculum humanae sal-vationis della parigina Bibliothèque de l’Arsenal di cuicon retto giudizio aveva scorto l’origine umbra12 eglicosí definisce l’anonimo autore delle illustrazioni: «Pro-vinciale senza dubbio, e passato di moda ed ingenuo;ma deciso, libero da complicazioni deteriori, immedia-to nell’espressione e, a modo suo, disertissimo. Né cilascia mai in dubbio intorno alla qualità di ciò chesente; e non soltanto ci persuade della propria sincerità,ma ci impone col carattere intenso, appassionato estraordinariamente commosso della sua arte»... «lemalattie, i disordini, la peste, forse contribuirono afare degli abitanti della regione una razza intensamen-te emotiva, ardente, violenta».

La pittura trecentesca umbra è tuttavia rimasta perlungo tempo pressoché nel limbo degli studi soprattut-to perché i suoi valori, il suo tono libero e immediato direligiosità popolare, anche se non erano sfuggiti all’in-telligenza critica del Berenson, malgrado la sua forma-zione e i suoi prevalenti interessi tanto diversi, nonpotevano ricevere giusta comprensione e valutazione daparte di chi avesse tarato i propri strumenti di giudiziosu altri piú elaborati e aulici linguaggi. Solo RobertoLonghi ha ricostruito alcune delle grandi personalità e itratti più salienti e caratterizzanti di questa cultura inun corso universitario del 1956-57 edito sulla base degliappunti presi alle sue lezioni [R. Longhi, La pitturaumbra della prima metà del Trecento, in «Paragone», 281-83, 1973, pp. 4 sgg.] che ha letteralmente aperto aglistudi un’area e una cultura inesplorata13.

Ricordi del Giotto piú antico, sempre presenti in

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qualche singolo particolare, nella solennità dell’impian-to di un trono, nell’arcaismo di un volto, si uniscononelle opere di questi pittori a quelli del Giotto piú matu-ro, filtrati soprattutto attraverso l’esperienza del Mae-stro delle Vele; antichi stilemi ducceschi avvicinanoemozionate e convulse citazioni da Pietro Lorenzetti,piú recenti portati di Ambrogio, di Simone. A questomondo caleidoscopico, appassionato, stimolante, MatteoGiovannetti non rimase certo indifferente; un saporeumbro chiaramente si avverte in alcuni brani della cap-pella di San Marziale, come in quello ove l’anima disanta Valeria è portata in cielo dagli angeli o nel grup-po femminile che assiste al martirio di san Pietro; alcu-ne teste dei personaggi delle storie di san Marzialehanno la caratteristica forma a mandorla cosí tipica degliumbri, né sarà difficile infine rinvenire, qua e là negliaffreschi avignonesi, tratti simili a quelli che si ritrova-no in affreschi umbri da Assisi a Perugia a Subiaco. Nelcuore stesso dell’Umbria del resto, a Gubbio, un laceroaffresco propone ancora una volta il problema della for-mazione del Giovannetti e del suo rapporto con la cul-tura umbra. Si tratta di un san Giovanni Battista stac-cato nel 1910 dalla Chiesa di Santa Maria Nuova e oranella Pinacoteca comunale di Gubbio. Sebbene consun-ta e ritoccata l’opera ha conservato un vigore eccezio-nale e nei fitti capelli ricadenti sulle spalle, divisi in lun-ghe e pesanti ciocche, nella barba incolta, nell’austera eselvaggia bellezza del volto adusto, richiama certi esem-pi di quell’umanità plebea e ferina cara a Matteo Gio-vannetti. Quest’affresco è stato generalmente attribui-to all’eugubino Guiduccio Palmerucci, il cui catalogo delresto è puramente congetturale, ma bene il Toescaavvertí che è «di disegno piú largo e più forte di tuttele altre cose attribuite al pittore» e vi scorse un prece-dente all’opera del Maestro di Campodonico mentre ilColetti ne sottolineò le affinità col Giovannetti14. Anche

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in questo caso l’attribuzione al Giovannetti medesimonon può riuscire pienamente convincente; la impedi-scono una certa rigidezza del segno, una squadrata pla-sticità della figura, un panneggio scultoreo troppo scar-no ed essenziale per Matteo. D’altronde il resto delladecorazione della chiesa, e in particolare una Madonnacon il Bambino con la quale l’affresco del Battista eraoriginariamente collegato, si distacca troppo esplicita-mente dai suoi modi. Un’opera come questa, bene data-bile verso il 1335-40, costituisce tuttavia un rilevanteparallelo al linguaggio di Matteo e una prova di piúdella congenialità delle intenzioni, e in certi casi degliesiti, che si era stabilita precocemente tra la culturaumbra e il futuro pittore della corte avignonese.

Certi atteggiamenti dei pittori umbri dovettero dun-que trovare profonde rispondenze nelle propensioni diMatteo per una narrazione sincera appassionata e popo-lare, ma la definitiva sistemazione del suo mondo, l’in-telaiatura spaziale entro cui si svolgono le storie, ladimensione stessa che crea e articola i rapporti tra le coseraffigurate, egli dovette cercarla a Siena, nella Siena delquarto decennio del secolo, profondamente compene-trata ormai di spiriti fiorentini, ove le indefesse ricercheprospettiche fiorentine si trovavano esposte, meditate,dibattute nella predella della Pala carmelitana di PietroLorenzetti. Simone Martini con le Storie del beato Ago-stino Novello, Ambrogio Lorenzetti con quelle fiorenti-ne di san Nicola segnano in modo impareggiabile il par-ticolare accento della piú avanzata cultura figurativasenese sull’aprirsi degli anni trenta.

A Siena per Matteo si stabilí un rapporto particolar-mente fruttuoso, già iniziatosi forse in Umbria, quellocon Ambrogio Lorenzetti. Certe ricerche che il pittoreviterbese condurrà in Avignone, sviluppandole conti-nuamente dagli affreschi della cappella di San Marzialea quelli della cappella di San Giovanni a quelli infine

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della certosa di Villeneuve, hanno in opere di Ambro-gio il loro precedente immediato e ben si può intender-ne il senso ravvisando un possibile punto di partenzanell’Annunciazione di Montesiepi di Ambrogio Loren-zetti e ricordando gli affreschi di San Leonardo al Lagodi Lippo Vanni, un poco piú tardi ma chiaramente deri-vati da un originale lorenzettiano15. Non pare dubbioche il profondo interesse di Matteo per la rappresenta-zione di uno spazio tangibile, concretatosi nella genialeidea di utilizzare due superfici perpendicolari (quelledella parete e dello sguancio della finestra) per fingereuna camera esistente nello spessore del muro, sia statastimolata dagli esperimenti lorenzettiani di quel decen-nio, come d’altronde dalla grande lezione di Ambrogiodiscendono gli approfondimenti prospettici tentati negliinterni (tempietto dell’apparizione di Cristo, chiesa diLimoges ecc.), attraverso la convergenza verso un unicopunto di fuga delle linee di profondità, sottolineata dallaquadrettatura del pavimento. Se il legato fondamentaledi Ambrogio a Matteo Giovannetti consistette proprioin questo indefesso interesse, in questa vigile curiositàper i mezzi piú idonei a ottenere una plausibile, con-vincente rappresentazione dello spazio, a rendere que-sta dimensione esplorabile, misurabile, conoscibile, nonmancano d’altra parte negli affreschi avignonesi piúminute e disperse citazioni di singoli brani delle operesenesi di Ambrogio. Nell’affresco di Bonifacio VIII chericeve l’omaggio di san Ludovico di Tolosa in veste di novi-zio francescano, in San Francesco, alcuni purissimi voltidi giovani spettatori alludono, con tono certo piú arcai-co, ad altri che appariranno negli affreschi avignonesi eper esempio al fiero aspetto del giovane biondo con icapelli ricadenti in due bande nella scena della Resurre-zione di Drusiana della cappella di San Giovanni, cosícome singole parti degli affreschi lorenzettiani della saladella Pace, e in particolare certi brani del frammentario

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e sciupato Malgoverno ne ricordano altri nel Martirio deisanti Pietro e Paolo della cappella di San Marziale16. Unaadesione e un consenso cosí meditati, una comprensio-ne cosí attenta del valore di certe ricerche di Ambrogionon bastano tuttavia a espungere il nome di Matteo daquelli della cerchia dei seguaci di Simone, ma è certo checon queste sue propensioni egli dovette farvi figura unpoco da isolato, lontano com’era dalla grave e pateticasolennità, colorata di sottili umori arcaistici, del pitto-re che un tempo veniva chiamato «Barna» e in cui sivuole oggi riconoscere un familiare di Lippo Memmi,forse il fratello Tederico, ben affermato ormai in que-sto quarto decennio e di cui si avvertono tuttavia isola-ti riflessi in taluni affreschi di Avignone, dalle liricheraffinatezze del Maestro di Palazzo Venezia, o dallelievi e sottilissime varianti che il fine e sensibile LippoMemmi andava proponendo ai grandi temi simoniani.Matteo tuttavia molto apprese dal nuovo, radioso gustodelle sete trapunte sull’oro secondo una tecnica cheSimone aveva trasferito dalle botteghe dei doratori e deicarpentieri «di fino» in quelle dei pittori già con l’An-nunciazione del 1333 e che poi tanto seguito dovrà averenella sua cerchia17, e ciò bene si avvertirà nelle due tavo-lette del Museo Correr di Venezia. I segni di un rap-porto tra la cultura figurativa senese e quella avignone-se sono palesi del resto non solo in Avignone, ma nellastessa Siena. Il Brandi ha giustamente indicato la pre-senza di elementi giovannettiani in un trittichetto del-l’Accademia di Siena nonché in quella parte dell’affre-sco del Buongoverno che non spetta ad Ambrogio e cheegli ritiene rifatta una ventina d’anni dopo il compi-mento del ciclo18, ma un’altra testimonianza non è statafinora presa in considerazione. Si tratta di un Seppelli-mento di santa Marta, nel coro dell’omonima chiesa (oracappella dell’Orfanotrofio) che molto singolarmente ilBerenson attribuí al mediocre Martino di Bartolomeo,

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ma che è, come bene vide il Perkins, di indubbia e nonremota ascendenza martiniana19. Per un curioso casouna riproduzione dell’opera si trova in una pagina delvolume del Kaftal sull’iconografia dei santi in Toscanaproprio di fronte a quella ove sono illustrati gli affreschidi San Marziale di Matteo e il passaggio dall’una allealtre è piú che agevole sol che si guardino le figure diangeli con il turibolo dietro il sepolcro o quella del Cri-sto seguito da due angeli a una estremità della scena.Malgrado l’alta qualità, singolarmente avvertita dal soloMason Perkins, quest’opera è rimasta finora ben pocostudiata. Si tratta peraltro di un dipinto assai importanteper la commistione che vi si manifesta di un linguaggiodiscendente direttamente dal Barna, con accenti pecu-liarmente giovannettiani. Per ragioni stilistiche non sem-bra possibile datare questo affresco verso il 1340, unadata che pure sarebbe permessa dalla storia architetto-nica dell’edificio e che si collocherebbe, con tutta pro-babilità, prima della partenza di Matteo per Avignone.Ancora una volta l’ipotesi piú plausibile è che si trattidi un riflesso, abbastanza diretto e di elevata qualità,dell’inconfondibile linguaggio che Matteo Giovannettiandava formulando nella città provenzale, ripreso, inSiena, da un pittore strettamente legato al cosiddetto«Barna». Si noti in ogni modo che i testi di Matteo cuisi riattacca quest’opera sono piuttosto gli affreschi dellacappella di San Marziale, che quelli successivi.

Un’ultima componente infine dei modi impiegativerso il 1344-45 nella cappella di San Marziale discen-de dalla fase estrema dello stile di Simone che Matteoebbe modo di conoscere direttamente e quotidiana-mente in Avignone ove si può supporre fosse arrivatoverso il 134o all’incirca. Il fatto che Matteo ricevesse nel1336 un canonicato in una chiesa viterbese non sembrainfatti probante per decidere, come si è spesso fatto, cheegli si trovasse allora in curia: vari anni prima, quando

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di certo non era ancora in Avignone, il suo nome erainfatti comparso in lettere papali sempre a proposito diun canonicato a Viterbo. A piú riprese si incontrerannonegli affreschi di San Marziale citazioni dirette da certibrani degli scomparti del piccolo polittico simonianooggi diviso tra Anversa, Parigi e Berlino, attinte parti-colarmente dalla Andata al Calvario di Parigi e dal Sep-pellimento di Cristo di Berlino, e nell’Eterno Padre cheappare in alto tra gli angeli ad assistere al Battesimo diCristo nella cappella di San Giovanni, Matteo parafra-serà liberamente l’affresco del timpano diNotre-Dame-des-Doms; non a caso infine una paternitàgiovannettiana è stata sospettata per la bellissimaAnnunciazione ora divisa tra la National Gallery of Artsdi Washington e l’Ermitage di Leningrado20 che mostra– pur appartenendo, mi sembra, alla piú avanzata fasestilistica di Simone – un tratto di fresca, immediatapurezza che si impone anche sul fastoso splendore degliori. Un testo del Simone avignonese infine su cui Mat-teo dovette a lungo meditare, fu il ritratto del donato-re Stefaneschi nell’affresco della cattedrale. Grazie allostacco, alla pulitura e al consolidamento dell’affresco edella sinopia esso è oramai leggibile e alla sua interpre-tazione contribuiscono le buone copie dell’Yperman edel Denuelle tanto da poter affermare che la ritrattisti-ca di Matteo abbia tratto di qui un decisivo avvio. AdAvignone però Matteo non trovò solo il Martini e glialtri pittori italiani, qui incontrò artisti di ogni paese,qui poté vedere in sculture, miniature, vetrate, alte testi-monianze della civiltà gotica, qui soprattutto trovò unacultura, dei committenti, un costume, un ambientetanto diversi da ciò che aveva lasciato in patria da spin-gere la sua mente a immaginare la ricca, disordinata, ica-stica decorazione della cappella di San Marziale in unmodo che nell’Italia «toscana» per certo non gli sareb-be mai stato possibile realizzare.

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1 Pietro Egidi, Viterbo, Napoli 1912, pp. 16-17.2 Italo Faldi, Il Museo Civico di Viterbo, Viterbo 1955, pp. 61-62.3 I. Faldi e Luisa Mortari, La pittura viterbese dal XIV al XVI secolo

(catalogo di una mostra tenutasi al Museo civico di Viterbo nel set-tembre-ottobre 1954), Viterbo 1954, p. 26. Questa rassegna della pit-tura a Viterbo ha permesso anche di riproporre il problema del rapportodi Matteo Giovannetti, di cui erano esposti i due santi del Museo Cor-rer, con la cultura viterbese. Cfr. oltre al citato catalogo gli articoli aessa dedicati da Luigi Grassi («La Nuova Antologia», xc, 1955, pp. 87sgg.) e Federico Zeri («Bollettino d’arte», xl, 1955, pp. 85 sgg.); cfr.quindi I. Faldi, Pittori viterbesi di cinque secoli, Roma 1970.

4 Il documento ordina che non venga ulteriormente differito ilrestauro del palazzo la cui rovina era imminente: «Ne reparatio logienostre viterbiensis huc usque neglecta differatur ulterius, cum ex ipsiusruina, que imminet, grave nostrum et ecclesie Romane dispendium for-midetur...» Cfr. Augustin Theiner, Codex diplomaticus domini tempo-ralis Sanctae Sedis, Roma 1861, doc. 77, pp. 541 sgg.; Cesare Pinzi, Sto-ria della città di Viterbo, III, Viterbo 1899, p. 14o; Id., Il palazzo papa-le di Viterbo nell’arte e nella storia, Viterbo 1910, pp. 87-88. Sulla cortedi Niccolò V cfr. G. Mollat, Miscellanea Avenionensia III, La cour del’antipape Nicola V, in «Mélanges d’archéologie et d’histoire», xliv,1927, pp. 7 sgg.

5 Su questi affreschi cfr. Gary M. Radke, Medieval Frescoes in thePapal Palaces of Viterbo and Orvieto, in «Gesta»,1984, pp. 27 599. SulPalazzo e alcune disposizioni dei suoi ambienti che preludono a quel-le adottate in Avignone cfr. G. M. Radke, The papal palace in Viterbo,Ann Arbor 1981 (microfilm), specie pp. 235 sgg.

6 Sugli affreschi di Santa Maria Nuova a Viterbo cfr. AntonioMuñoz, Il ripristino di Santa Maria Nuova, in «Bollettino d’arte», vi,1912, p. 121; Domenico Sansoni, La chiesa di Santa Maria Nuova inViterbo, Viterbo 1914, particolarmente pp. 34-35; Andrea Scriattoli,Viterbo nei suoi monumenti, Viterbo 1915-2o, p. 192. Debbo esprime-re qui la mia gratitudine a Federico Zeri che mi ha indicato l’angelodell’Annunciazione dipinto sul frammento architettonico, mettendonein rilievo i rapporti con Matteo Giovannetti e a Italo Faldi per le discus-sioni che ho avuto con lui sulla Crocifissione di Santa Maria Nuova ela cultura pittorica viterbese nel Trecento. Su questa si veda I. Faldi,Pittori viterbesi di cinque secoli cit., pp. 6 sgg.

7 Carlo Volpe, Precisazioni sul «Barna» e sul «Maestro di PalazzoVenezia», in «Arte antica e moderna», iii, 196o, pp. 149 sgg. A Orvie-to erano «in antiquo» almeno tre polittici usciti dalla bottega di Simo-ne Martini con larghi interventi autografi del maestro: uno – ordina-to dal vescovo Monaldeschi – in San Domenico (ne rimangono il cen-tro – la Madonna col Bambino – e quattro scomparti nel Museo del-

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l’Opera del Duomo, altri due scomparti sono dispersi), un altro nellachiesa di Santa Maria dei Servi (ora nell’Isabella Stewart GardnerMuseum di Boston), un terzo, che si trovava in San Francesco, vennescomposto e disperso, il centro – la Madonna col Bambino e il Reden-tore benedicente nella cuspide – passò nella chiesa dei Gesuiti e di lí nelMuseo dell’Opera (di questo polittico facevano originariamente partela Santa Caterina già Liechtenstein, ora nella National Gallery di Ottawae i quattro tondi con profeti nel Musée du Petit Palais a Avignone).Per la vicenda critica delle opere orvietane di Simone cfr. G. Pacca-gnini, Simone Martini cit., pp. 123 sgg. Sull’attività di Simone adOrvieto cfr. Cristina de Benedictis, Sull’attività orvietana di SimoneMartini e del suo seguito, in «Antichità Viva», vii, 1968, n. 3, pp. 3 sgg.;M. Lonjon, Quatre médaillons de Simone Martini. La reconstitution duretable de l’église San Francesco à Orvieto, in «La Revue du Louvre etdes Musées de France», 1983, pp. 189 sgg.; B. B. Frederiksen, Docu-ments for the Servite origin of Simone Martini’s Orvieto Polyptych, in «TheBurlington Magazine», cxxviii, 1986, pp. 592 sgg.

8 Per la Crocifissione di Todi cfr. C. Volpe, Precisazioni sul «Barna»ecc. cit., pp. 156-57, n. 3; per la pittura in Orvieto nel corso del Tre-cento cfr. R. Van Marle, La scuola pittorica orvietana del Trecento, in«Bollettino d’arte», serie II, anno iii, 1923-24, pp. 305 sgg., Id., TheDevelopment of the Italian Schools of Painting, V, The Hague 1925, pp.91 sgg.; Pier Paolo Donati, Inediti orvietani del Trecento, in «Parago-ne», 229, 1969, pp. 3 sgg., Filippo Todini, Due note su Matteo Gio-vannetti, in «Arte Documento», 2, 1988, pp. 50 sgg.; Id., La pitturaumbra dal Duecento al primo Cinquecento, Milano 1989, passim. Pernotizie e indicazioni su affreschi trecenteschi nelle chiese orvietane cfr.Pericle Perali, Orvieto, Orvieto 1919; per gli affreschi di San Giove-nale oltre ai citati scritti del Van Marle cfr. Guido Cagnola, Affreschiin San Giovenale in Orvieto, in «Rassegna d’arte», iii, 1902, pp. 20 sgg.;J. A. Crowe e G. B. Cavalcaselle, A history of Painting in Italy, in, ed.Langton Douglas, London 19o8, pp. 186 sgg., n. 4; R. Van Marle,Simone Martini, Strasbourg 1920, pp. 171 sgg.; C. Pacetti, L’anticachiesa di San Giovenale in Orvieto.

9 R. Longhi, Tracciato Orvietano, in «Paragone», xiii, 1962, n.149, p. 6; F. Todini, Due note su Matteo Giovannetti cit., pp. 55 sg.

10 Cfr. E. Castelnuovo, Vetrate Italiane, in «Paragone», ix, 1958, n.103, p. 13.

11 R. Longhi, Giotto spazioso, ivi, iii, 1952, n. 31, p. 23.12 B. Berenson, Due illustratori italiani dello Speculum Humanae Sal-

vationis, II, in «Bollettino d’arte», II, anno v, 1925-26, pp. 353 sgg.13 I primi riflessi delle scoperte longhiane si ebbero in Franco Rus-

soli, Catalogo della Pinacoteca del Museo Poldi Pezzoli, Milano 1955, p.225; M. Laclotte, De Giotto à Bellini, Paris 1956, pp. 13 sgg.; M.

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Meiss, Primitifs Italiens à l’Orangerie, in «La revue des arts», vi, 1956,pp. 146 sgg.

14 P. Toesca, Il Trecento cit., pp. 672-73; L. Coletti, I Primitivi, II,Novara 1946, p. lxiv, n. 84: «singolari e strettissime somiglianze conMatteo Giovannetti riscontro nel Battista della pinacoteca di Gubbioattribuito al Palmerucci». Su questo giudizio non concorda M. Meiss,Un précieux fragment cit. Sullo stacco dell’affresco cfr. «Rassegna d’ar-te umbra», 1910, p. 130. Per F. Todini, La pittura umbra dal Duecen-to al primo Cinqucento cit., p. 253, l’affresco appartiene ad un anoni-mo maestro – lo «Pseudo Palmerucci» attivo nella prima metà del seco-lo e caposcuola del Trecento eugubino.

15 Ilse Borsook, The frescoes at San Leonardo al Lago, in «The Bur-lington Magazine», xcviii, 1956, pp. 351 sgg.

16 In particolare nel gruppo di soldati che escono da una porta dellacittà (cfr. riproduzione in George Rowley, Ambrogio Lorenzetti, Prin-ceton 1958, II, tav. 177) e nei due ragazzetti che si vedono, dopoun’ampia lacuna, alla destra di questa scena (ibid., tav. 158). GabrielColombe nel suo articolo, La filiation artistique de Matteo Giovannettide Viterbe, in «Mémoires de l’Institut historique de Provence», VI,1929, pp. 81 sgg., ha accennato di sfuggita a questi rapporti.

17 Sulla cerchia martiniana cfr.: Curt Weigelt, Minor Simonesquemasters, in «Apollo», xiv, 1931, pp. 1 sgg. (articolo importante che haposto le basi per distinguere differenti personalità operanti nella cer-chia martiniana anche se oggi alcune delle sue distinzioni possono sem-brare eccessive e fittizie ed ha sottolineato in modo assai sottile l’in-novazione tecnica delle stoffe dipinte sull’oro e la sua diffusione nellapittura senese); Evelyn Sandherg-Vavalà, Some partial reconstructions,I, in «The Burlington Magazine», lxxi, 1937, p. 177; Richard Offner,The Straus collection goes to Texas, in «Art News», xliv, 1945, n. 7, p.17; John Pope-Hennessy, Barna, the Pseudo-Barna and Giovanni d’A-sciano, in «The Burlington Magazine», lxxxviii, 1948, pp. 35 sgg.; M.Meiss, Nuovi dipinti e vecchi problemi, in «Rivista d’arte», 1955, pp.142 sgg.; Federico Zeri, La riapertura della Alte Pinacothek di Monaco,in «Paragone», viii, 1957, n. 95, p. 66; C. Volpe, Precisazioni sul«Barna» ecc. cit.; C. de Benedictis, La pittura senese 1330-1370, Firen-ze 1979; L’Art gothique siennois, catalogo dell’esposizione di Avigno-ne del 1983, Firenze 1983; Simone Martini e «chompagni», catalogo del-l’esposizione di Siena del 1985, Firenze 1985; A. Martindale, SimoneMartini, Oxford 1988; Pierluigi Leone de Castris, Simone Martini,Firenze 1989.

18 Cesare Brandi, Chiarimenti sul «Buon Governo» di AmbrogioLorenzetti, in «Bollettino d’arte», xl, 1955, pp. 119 sgg. e in «Bollet-tino dell’Istituto centrale del restauro», 1955, pp. 3 sgg.

19 Frederik Francis Mason Perkins, Pitture senesi, Siena 1933, pp.

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163 sgg.; B. Berenson, Italian pictures of the Renaissance, Oxford 1932,p. 334; G. Kaftal, The iconography of saints cit., fig. 774, col. 684. Ilmonastero di Santa Marta, originariamente eretto come ricovero perle vedove e oggi orfanotrofio femminile, fu fondato nel 1337; C. deBenedictis, La pittura senese cit., p. 44, attribuisce l’affresco al «Mae-stro di Palazzo Venezia».

20 C. Volpe, Un libro su Simone Martini, in «Paragone», vi, 1955,n. 63, p. 52. «solo un esame diretto ci autorizzerebbe a fondare ilnostro sospetto che sia questo un documento mirabile di un grande pit-tore, il quale, all’ombra del Martini, meditava già una propria umanitànuova, turbata nell’intimo degli antichi sensi liliali da umori che sonquasi gli stessi di un giovane Matteo Giovannetti, da Viterbo, forse giàdi Avignone».

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