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Il Nodo junghiano Intervista a Luigi Zoja di Amedeo Caruso Luigi Zoja è quasi certamente lo psicoanalista italia- no più conosciuto all’estero. Si è formato all’Istituto Carl Gustav Jung di Zurigo, dove è diventato psicologo analista. Ha praticato la professione e insegnato a Zuri- go e New York. Attualmente lavora a Milano. Ha tenu- to corsi presso diverse Università italiane. Molti suoi articoli come opinionista psicologico sono comparsi sul giornale “Il Fatto Quotidiano”. Dal 1984 al 1993 è stato Presidente del CIPA (Cen- tro Italiano di Psicologia Analitica). Dal 1998 al 2001 ha presieduto la International Association for Analyti- cal Psychology (IAAP). Dal 2001 al 2007 è stato Presi- dente del Comitato Etico internazionale dello IAAP. Ha vinto due Gradiva Award, il più prestigioso ri- conoscimento americano per opere di psicoanalisi. Lar- ga parte dei suoi lavori, tradotti in 14 lingue, interpre- tano vari comportamenti problematici del giorno d’oggi (dipendenze, consumismo sfrenato, assenza di una fi- gura paterna, la proiezione in politica di odio e para- noia...) alla luce di miti, testi letterari e tematiche arche- tipiche. Ha curato questi testi e partecipato agli stessi con suoi interventi: Problemi di psicologia analitica: una an- tologia post-junghiana, Napoli, Liguori, 1983; La psico- logia analitica di fronte alle altre psicologie del profondo, Verona, Bertani 1986; L’incubo globale: prospettive jun- ghiane a proposito dell’11 settembre, Bergamo, Moretti & Vitali, 2000. Come unico autore ha scritto: Nascere non basta: i-

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Il Nodo junghiano

Intervista a Luigi Zoja di Amedeo Caruso

Luigi Zoja è quasi certamente lo psicoanalista italia-no più conosciuto all’estero. Si è formato all’Istituto Carl Gustav Jung di Zurigo, dove è diventato psicologo analista. Ha praticato la professione e insegnato a Zuri-go e New York. Attualmente lavora a Milano. Ha tenu-to corsi presso diverse Università italiane. Molti suoi articoli come opinionista psicologico sono comparsi sul giornale “Il Fatto Quotidiano”.

Dal 1984 al 1993 è stato Presidente del CIPA (Cen-tro Italiano di Psicologia Analitica). Dal 1998 al 2001 ha presieduto la International Association for Analyti-cal Psychology (IAAP). Dal 2001 al 2007 è stato Presi-dente del Comitato Etico internazionale dello IAAP.

Ha vinto due Gradiva Award, il più prestigioso ri-conoscimento americano per opere di psicoanalisi. Lar-ga parte dei suoi lavori, tradotti in 14 lingue, interpre-tano vari comportamenti problematici del giorno d’oggi (dipendenze, consumismo sfrenato, assenza di una fi-gura paterna, la proiezione in politica di odio e para-noia...) alla luce di miti, testi letterari e tematiche arche-tipiche.

Ha curato questi testi e partecipato agli stessi con suoi interventi: Problemi di psicologia analitica: una an-tologia post-junghiana, Napoli, Liguori, 1983; La psico-logia analitica di fronte alle altre psicologie del profondo, Verona, Bertani 1986; L’incubo globale: prospettive jun-ghiane a proposito dell’11 settembre, Bergamo, Moretti & Vitali, 2000.

Come unico autore ha scritto: Nascere non basta: i-

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niziazione e tossicodipendenza, Milano, Raffaello Corti-na, 1985; Crescita e colpa: psicologia e limiti dello svilup-po, Milano, Anabasi, 1993; Coltivare l’anima, Bergamo, Moretti & Vitali, 1999; Il gesto di Ettore: preistoria, sto-ria, attualità e scomparsa del padre, Torino, Bollati Bo-ringhieri, 2000, per il quale ha ricevuto nel 2001 il Pre-mio Palmi; Storia dell’arroganza: psicologia e limiti dello sviluppo, Bergamo, Moretti & Vitali, 2003; Giustizia e bellezza, Torino, Bollati Boringhieri, 2007; La morte del prossimo, Torino, Einaudi, 2009; Contro Ismene: consi-derazioni sulla violenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2009; Centauri: mito e violenza maschile, Roma-Bari, Laterza, 2010; Al di là delle intenzioni. Etica e analisi, Torino, Bollati Boringhieri, 2011; Paranoia. La follia che fa la storia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011.

Amedeo Caruso: Il Centro Studi di Psicologia e Let-

teratura ringrazia il Professor Luigi Zoja che siamo venu-ti ad intervistare a Milano oggi, 5 febbraio, per il nostro Convegno “50 anni senza Jung”. Il Professor Zoja ha ac-cettato di rispondere gentilmente ad un po’ di domande e quindi il nostro pubblico assisterà alla conversazione con questo eminente studioso junghiano, psicoterapeuta e psi-coanalista, che ha lavorato a lungo negli Stati Uniti e che mantiene grandi rapporti internazionali. È conosciutissi-mo all’estero e molto stimato anche in Italia. Professor Zoja buonasera. L’occasione di questo convegno ci ha portato fino a lei perché è una delle personalità di spicco dello junghismo contemporaneo, non soltanto italiano. Qual è oggi secondo lei l’eredità junghiana sia per il mondo culturale che per il mondo psicoanalitico?

Luigi Zoja: Direi – e non so se dipende da una mia rigidità o mancanza di apertura – che a me sembra tutto sommato la stessa che potevamo vedere negli anni ’60 e negli anni ’70, cioè non molto dopo la morte di Jung, di cui si celebra adesso il cinquantenario. Anzi una cosa che mi viene in mente è che l’anti-psichiatria degli an-

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ni ’60 e ’70 – a cui ero abbastanza legato anche se non vengo da uno sfondo di studi medici ma in parte da studi sociologici che mi interessavano di più, ero, di-ciamo così, un impegnato proprio prima di arrivare allo junghismo – ecco l’ antipsichiatria è stata ad esempio preceduta da Jung per il fatto che segnalasse come ab-bastanza pericoloso usare continuamente e introdurre anzi nuovi tipi di definizioni di malattia mentale. Que-sto era già stato anticipato da Jung moltissimo tempo prima, ma Jung non era più di tanto interessato a far parte di un movimento di rinnovamento politico sociale. A lui interessava il rinnovamento dell’individuo, ma proprio per la sua attenzione all’individuo Jung ha in-trodotto, praticamente a partire dal suo distacco con Freud, l’idea di individuazione e l’idea di una non-distinzione tra psicopatologia e psicologia generale. Questo era valido allora ed è valido ancora adesso. Mi sembra di ricordare una delle prime lezioni che ho sen-tito nel ’68 a Zurigo, era della Jolande Jacobi, che spie-gava perché si parla di psicologia analitica, cosa che a me sembrava assolutamente banale e mi chiedevo per-ché Jung non ha avuto più fantasia cercando una defini-zione che si distinguesse un po’ di più dal termine psi-canalisi. In realtà, Jung ha voluto rendere omaggio alla sua derivazione da Freud, ma al tempo stesso fondare un suo campo di studi, sottolineando il fatto che si in-teressava a una psicologia e non a un processo clinico, la psicanalisi, dove la clinica è solo una delle possibili applicazioni dell’analisi psicologica profonda, punto di vista successivamente condiviso anche da Freud, ma va sottolineato il “successivamente”.

A. C.: Dunque lei propende per il fatto che l’an-tipsichiatria italiana possa aver ricevuto un influsso mag-giormente da Jung che da Freud…

L. Z.: Io credo che tale influsso non fosse cosciente, che non fosse esplicito o forse semplicemente che non ci fosse una derivazione diretta da Jung. Era l’ambiente,

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il clima che veniva non solo dai decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Ma, come tutti i fenomeni culturali profondi e complessi aveva radici più lontane, e, quindi, risaliva anche più indietro. In generale, mi sembra che la psichiatria svizzera, per esempio, o di lin-gua tedesca in generale, che ha avuto comunque indiret-tamente molta diffusione in Italia, sia alla radice di tutte le derivazioni di psicoanalisi. Era molto influenzata, come tutta la cultura di lingua tedesca, dal romantici-smo dell’800, mentre Freud era più influenzato dal po-sitivismo. Diciamo che in senso buono, positivo, queste erano già le radici che hanno costituito poi lo sviluppo principale, anzi il filo continuatore di Jung e di altre ri-cerche psicoanalitiche.

A. C.: Prima mi stava dicendo che A Buenos Aires è stato pubblicato un testo, El libro rojo de C. G. Jung. Claves para la comprensión de una obra inexplicable, da un suo amico, il filosofo Bernardo Nante, che è una specie di commentario per meglio comprendere Il Libro Rosso di Jung.

L. Z.: Sì, Bernardo Nante, un filosofo di Buenos Ai-res mio amico, ha scritto questo commento ed io ne ho proposto la pubblicazione anche in Italia. Apparirà fra breve nelle edizioni Bollati Boringhieri.

A. C.: “Il Libro Rosso” è stato pubblicato nel nostro paese da pochissimo e quindi vorrei chiederle che impatto ha avuto su di lei l’uscita, a cinquant’anni dalla morte di Jung, di questo libro così fatidico, così speciale, così “se-greto”.

L. Z.: È difficile darle un’opinione precisa, dato che ho appena iniziato la lettura del Libro Rosso. Le dirò pe-rò che mi avevano proposto di fare la cura dell’edizione italiana e, proprio vedendo la mole del lavoro, ho rin-graziato per la stima ma non me la sono sentita di as-sumermi l’incarico… Ci sarebbe voluti anni ed anch’io comincio ad avere i “miei” anni! Si tratta di un campo, quasi una miniera in cui sprofondare, probabilmente

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per lungo tempo e con molti studi, ed è molto compli-cato rispondere. Dall’altra parte vedendo già le linee, leggendo la prima parte si può dire che come ricerca, come tensione, direzione di ricerca era già nota, perché Jung ne parla molto e costituisce forse anche il nucleo centrale del suo Ricordi, sogni, riflessioni. Quindi alcune anticipazioni un po’ si sapevano, un po’ circolavano nell’ambiente di Zurigo ed a Londra, dove sono andato a parlare con Sonu Shamdasani, per decidere se buttar-mi nell’impresa di curare Il Libro Rosso. Ne ho ricavato l’impressione che Sonu, curatore del testo appena com-parso in tedesco ed in inglese, abbia compiuto un lavo-ro ineccepibile. Ma lui se lo poteva permettere, perché ha tanti anni meno di me e fa lo storico di professione. D’altronde ci ha lavorato ben dodici anni, curando la prima edizione vera e propria, ed ha messo insieme un testo tedesco unificato, utilizzando quelle che pare fos-sero cinque diverse stesure fatte nel tempo da Jung di questo testo.

A. C.: Che cosa apprezza e che cosa utilizza oggi nel suo lavoro del patrimonio di sapere lasciatoci da Jung?

L. Z.: È quasi tanto logico dirlo che non vorrei che suonasse banale: la formazione e non l’informazione. Non a caso è stato Jung, e questo lo riconosce persino Freud nei suoi scritti, a suggerire l’analisi didattica co-me punto centrale, come elemento principale della formazione di nuovi analisti. Ancora l’esperienza per-sonale e quindi l’individuazione, che non è un concetto astratto, ma deve prima di tutto essere sperimentata per chi vuole diventare analista a sua volta. Quindi la depa-tologizzazione. Che io sia un paziente o un analista che si sottopone ad analisi didattica, l’analisi non cerca di “guarirmi” ma di aiutarmi ad essere me stesso. Devo non esser più in contraddizione con me stesso. Fra i contributi di Jung aggiungerei la non differenziazione tra impegno della crescita individuale e impegno morale. Questo impegno è parte dei comandamenti, è una for-

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ma più profonda del comandamento “Non mentire”. Una volta che noi prendiamo in considerazione la com-plessità della psiche e la dimensione profonda e indivi-duale della psiche, come possiamo applicarlo noi mo-derni o post-moderni, diciamo occidentali e laici? Il comandamento “Non mentire” deve estendersi anche al non mentire a te stesso, non mentire alle tue esigenze: non solo, dunque, non raccontare una falsità a un altro; ma anche: “cerca di essere quello che sei e non far finta di essere un altro”! Questa è indirettamente la principa-le leva clinica, se vogliamo parlare ancora di clinica e, diciamo, il cammino per stare meglio, il cammino di sa-lute in senso non clinico tradizionale.

A. C.: Come si è accostato alla psicologia analitica junghiana? Qual è stato il suo percorso personale?

L. Z.: Non c’è niente di segreto, è soltanto un po’ buffo e un po’ personale. Come lei saprà, visto che stiamo parlando di questo, una delle prime distinzioni che si imparano tra il pensiero di Freud e quello di Jung è che il pensiero di Freud appunto deriva dal modello medico, dalla matrice positivista scientifica. Quindi procede per causalismi, per cui tu reagisci a una cosa mentre quello di Jung è più complessivo. Pone un’attenzione sul finalismo, è teleologico, tiene conto del fatto che spesso, inconsciamente, vogliamo andare verso una direzione. Io, in realtà, quando mi sono indi-rizzato verso Jung e la psicologia junghiana, quello che ricordo è che volevo andar via da Milano, andar via dagli studi che avevo fatto, e dall’ambiente in cui ero cresciu-to. Mi spiego: mi trovavo in un frangente che non mi mandava verso “qualcosa”, quindi l’effetto era apparen-temente casuale. Io avevo studiato economia semplice-mente perché la mia famiglia possedeva un’attività eco-nomica. Così pensavo semplicemente di andare a pro-seguire il lavoro di mio padre in azienda. Prima di ter-minare, mi sono accorto che non era la mia strada. Non avendo fatto analisi, sentivo un forte disagio ma al tem-

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po stesso non lo capivo. Ho fatto una tesi in Sociologia, il mio professore di Sociologia l’ha apprezzata molto e mi ha fatto entrare in un gruppo di ricerca perché – lei è più giovane e non può ricordarlo – ma non esistevano né la facoltà di Psicologia né quella di Sociologia negli anni Sessanta, però mi ha fatto entrare in questo grup-po. Quindi dal ’67-68 ho lavorato con questi che erano anche gli iniziatori della Sociologia italiana. Io ero uno dei più giovani. Poi è esploso il Sessantotto e strana-mente io, così come non avevo potuto identificarmi nel mondo aziendale, non ho potuto più di tanto identifi-carmi in questo mondo “impegnato”. Ero interessato a questa ricerca, al rinnovamento della società. Curiosa-mente mi sono “disimpegnato” proprio nel Sessantotto, nel senso che ho avuto paura. I cortei che facevamo mi parvero troppo violenti. Ero un ragazzo molto intro-verso, timido, e ho cercato la psicoanalisi forse perché avevo anche io, diciamo la verità, bisogno di analisi e non l’avevo mai fatta. Sono andato a Zurigo e mi hanno preso, non so perché. Ero giovane e non avevo mai avu-to esperienza analitica, ma da lì in avanti è andata bene, e ho pian piano poi scoperto che era anche la mia strada. L’individuazione è anche, paradossalmente, molto diffi-cile da definire proprio perché la strada individuale è qualcosa di cui ci si accorge retrospettivamente, voltan-dosi indietro e vedendo che si è fatto quel cammino.

A. C.: E magari anche un buon cammino... L. Z.: Già, proprio così. Tenendo una conversazione

sull’individuazione al recente Festival della Mente di Sarzana, ho preso come esempio, giusto per illustrarla ai giovani – perché tutti lo conoscono – una famosa conferenza che ha fatto Steve Jobs (il creatore della “Apple”) su come è arrivato ad essere Steve Jobs, un uomo che si è accorto che cosa gli interessava davvero soltanto “dopo”... E ha capito!

A. C.: Ce la vuole raccontare questa storia? L. Z.: Dunque, si tratta di una famosa conferenza

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che ha tenuto a Stanford. Succintamente, per quello che ci riguarda, la cosa più interessante è che Jobs racconta che era all’università e si sentiva molto in colpa. La sua famiglia era senza molti mezzi, e i suoi stavano esau-rendo tutti i risparmi per mandarlo a una buona univer-sità, così come si usa in America, e costa moltissimo. Lui invece bighellonava, e faceva lavoretti per cercar di non pesar troppo sulla famiglia, seguendo però pochi corsi. L’unico corso che ricorda gli piacesse era un cor-so di calligrafia. Era affascinato dalle lettere ben scritte e, per farla breve, saltando poi a una decina di anni do-po quando, mi pare in un garage o in uno scantinato sviluppava i primi computer, ha avuto un’illuminazione. Ecco perché io ho questa fissa – si diceva – e sto cercando di sviluppare non un elaboratore (che oramai ce l’avevano tutti), ma un computer che affascini anche per la bellezza dell’oggetto e soprattutto per la bellezza della scrittura, e che si distingua dagli altri per questa eleganza. Si è reso conto delle motivazioni per cui aveva seguito una cosa, per la quale a suo tempo si sentiva in colpa, e cioè seguire un corso di calligrafia. Guardando indietro spesso ci si accorge del motivo profondo di azioni che abbiamo compiuto senza capirle.

A. C.: Una storia davvero istruttiva per psicoanalisti e non. Secondo lei quali sono i più importanti sviluppi in fatto di tecnica analitica junghiana?

L. Z.: Io direi che il grande contributo di Jung è ap-punto quello di proporre una disciplina olistica com-plessiva, che non si preoccupa molto di tecniche. È pur vero che, una volta detto questo, ci sono anche indiret-tamente, non perché lui le ha dogmaticamente descritte, le novità tecniche, per esempio nella interpretazione dei sogni. Il fatto che un sogno si legga sia al livello che Jung ha chiamato oggettivo, sia al livello soggettivo, in cui tutti i personaggi del sogno sono letti come una specie di teatro interiore. Quindi, non solo l’io che sta sognando corrisponde all’io sognatore, ma anche tutti

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gli altri personaggi presenti nel sogno corrispondono a parti della mia personalità. Questa è una psicologizza-zione, una simbolizzazione dei contenuti onirici che dobbiamo soprattutto a Jung. Ancora: una tecnica vera e propria è l’immaginazione attiva, a cui dobbiamo, per esempio, Il Libro Rosso, che è tutta un’attività immagi-nativa in cui, sostanzialmente, proprio per esperienza personale, Jung ha registrato gli incontri con figure e immagini archetipiche che potevano essere apparse la prima volta nei sogni, ma con le quali ha continuato a dialogare anche nello stato di veglia. Ha continuato ad interrogarle e a costruire dei dialoghi in cui appunto l’Io è solo una parte, ma anche il Contro-Io, diciamo il Filemone del Libro Rosso, è una parte ovviamente mol-to più inconscia, più profonda della personalità di Jung che gli risponde, come nei sogni, ma messo in moto da un’intenzionalità diurna. Questa è l’immaginazione at-tiva.

A. C.: Il mio punto di vista è che l’immaginazione at-tiva junghiana sia una diretta derivazione dell’ipnosi, tesi avvalorata anche dalle osservazioni di James Hall nel suo libro Hypnosis, a jungian perspective (un prezioso libro mai tradotto in italiano). Vorrei quindi avere un suo pa-rere sugli aspetti di trance e autoipnosi che caratterizzano i suoi scritti più autobiografici, come Ricordi, sogni, ri-flessioni. La mia idea è che si tratti di una vera e propria riutilizzazione – ad uso strettamente personale – di tecni-che ipnagogiche assimilabili all’immaginazione attiva da lui descritta. Come, se non in trance, possiamo immagi-nare Jung che riesce a scivolare agilmente in colloqui con personaggi straordinari, uno dei quali compare in Ricordi, sogni, riflessioni e che afferma candidamente che il suo guru spirituale è quello che ha fatto il commentario dei Veda e che era morto centinaia di anni prima! Dunque, non so se lei ha qualche idea in merito, io sono molto in-teressato all’argomento, e, diciamo, questo è uno degli a-spetti che secondo il punto di vista freudiano è abbastanza

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chiaro e definito ma in Jung non sembra esserci mai stata una rinuncia, un abbandono, un’abiura dell’ipnosi, l’ha soltanto chiamata in maniera diversa.

L. Z.: Certamente il ruolo dell’ipnosi e, in parte, an-che quello della parapsicologia, con la tesi con cui Jung ha indagato sui “cosiddetti fenomeni occulti” non è tra-scurabile. Al tempo stesso quello che mi sembra sempre importante ricordare e sottolineare è che Jung ha tenu-to un occhio fisso su questi fenomeni. Ha continuato a studiarli da scienziato, empiricamente, dicendo: “io af-fermerò quello che si può affermare, cioè che ho visto certe cose e che ci sono certe sensazioni, ma non mi pronuncio sul fatto che queste presenze psichiche den-tro di me possono corrispondere anche, alla presenza di un’anima di un’altra persona”. È sempre importante dirlo, perché, per tornare alla sua domanda riguardo lo stato attuale della psicoterapia e della psicologia jun-ghiana del XXI secolo, nel secondo decennio, in Italia e in generale nel mondo, la psicoterapia si restringe sem-pre di più, va purtroppo dentro un imbuto e torna pur-troppo a essere una tecnica. La psicologia di Jung, pro-prio per le sue premesse culturali, invece sopravvive con uno spettro più ampio e conserva questo statuto di in-dagine culturale più vasta, e queste grandi possibilità. Naturalmente in questo rischia anche di differenziarsi dalla maggioranza delle altre discipline e di essere, come dire, quasi sequestrata da troppi movimenti New Age o, al limite, dalla superstizione. Questa è una cosa che te-mo, perché l’ho sempre vista riapparire nei decenni, e forse in questo momento il rischio è ancora più alto. Bisogna rimanere rigorosi, e non eccedere dando spie-gazioni che non sono invece spiegazioni, ma proiezioni di una fantasia del soggetto stesso.

A. C.: A me sembra formidabile quando Jung, sempre sensibile e aperto ai fenomeni paranormali, ha la visione, in Ricordi, sogni, riflessioi, relativa al suo morire e al suo rientrare nel mondo e poi ha un’altra visione del me-

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dico che viene ucciso. Quando muore davvero il suo me-dico curante, mentre lui temeva che la fine riguardasse lui stesso, ecco che ricorda la vecchia storia di Ippocrate che viene fulminato da Giove, perché ai medici era concesso di curare e salvare tutti quanti quelli che volessero ma non di riportarli in vita una volta morti... e così Jung col-lega la morte del suo medico curante con l’aver osato ri-portare in vita un paziente e cioè Jung stesso che si salvò...

L. Z.: Lei parla del mito di Asclepio... A. C.: Sì ha ragione, ho confuso Ippocrate con Ascle-

pio, è decisamente un lapsus, forse perché le mie radici mediche mi fanno pensare automaticamente al giuramen-to di Ippocrate. Per esempio Jung racconta nel famoso in-contro con Freud del forte rumore nella libreria di quest’ultimo quando ha chiesto al maestro che cosa ne pensasse della parapsicologia. Entrambi avvertono questo piccolo boato e, mentre Freud dice che le ipotesi parapsi-cologiche sono sciocchezze, Jung ne preavverte un altro (che puntualmente accadrà), come a sottolineare la forza dei suoi presentimenti. Allora non crede che l’aspetto di trance e quindi delle visioni non sia nient’altro che la pos-sibilità di migliorare la nostra sensibilità e anche forse la sensibilità inconscia?

L. Z.: Ma è come la sincronicità! Ovviamente Jung ci ha lasciato in eredità proprio questa sottolineatura, che per certi fenomeni, particolarmente significativi, non è sufficiente e non è neanche così interessante limi-tarsi alla concatenazione spiegabile scientificamente. Bisognerebbe usare questa attenzione anche a certi altri tipi di connessione fra i fenomeni che osserviamo. Al tempo stesso è stato molto attento a non permettersi affermazioni generalizzanti su questo tipo di concate-nazione non causale e non scientificamente dimostrabi-le.

A. C.: Però sta di fatto che la sincronicità è una mera-vigliosa realtà quando siamo bravi a captarla.

L. Z.: A coglierla sì, ma non possiamo causarla, co-

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me invece possiamo provocare un evento chimico se connettiamo due sostanze.

A. C.: Ma se siamo bravi a capire… L. Z.: Allora ricaviamo il senso delle cose... A. C.: Io credo che sia emozionante il fatto che lui

l’abbia trovata insieme a Pauli che è stato suo paziente. E questo la dice anche lunga sulla capacità di collaborare ol-tre che di curare, che può avere uno psicoterapeuta.

L. Z.: E con l’assoluta compatibilità con le scienze vere e proprie, con le scienze tradizionali. Mi viene in mente che avevo trattato l’argomento, che avevo tirato fuori e imbastito con Hillman, una volta che era qui proprio su una di queste poltrone, e cioè l’eredità di Jung. Hillman ha fondato la psicologia archetipica, ma ha sottolineato che questa era un’eredità dalla psicolo-gia di Jung. Per non scindere gli opposti, per non disso-ciare il nostro animo e per non ignorare quello che ab-biamo nel profondo, l’attenzione va rivolta a ciò che per definizione è l’archetipo, il quale non muta, a ciò che appartiene all’animo umano dalla nascita. Non solo di noi e della cultura occidentale di famosi miti dell’antica Grecia, ma dell’uomo in generale. L’ar-chetipo è quello che esprime questa esigenza, il modello, la tendenza a produrre certe dinamiche psichiche che supponiamo esistano da quando esiste la psiche umana. Ma è un caso che si vada alla ricerca degli archetipi? E quindi di Jung il quale non perde di attualità? E, forse più in particolare, di un pensatore come Hillman? In-fatti, egli ha sviluppato l’archetipo proprio quando la nostra cultura si velocizza troppo o quando, come si di-ce, è diventato quasi banale e quasi scontato che ogni decennio apporti più novità di quante ne avvenissero prima in un secolo. Per cui rimaniamo sconvolti, e sor-ge questa estrema difficoltà-necessità di costruire il dia-logo con i nostri figli, perché crescono in un mondo il cui immaginario è nutrito in modo completamente di-verso, se non altro perché i mezzi audio-visuali conti-

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nuano a mutare e ad arricchirsi. Quindi l’immagi-nazione non è completamente separata dalla necessità primaria dell’uomo di sperimentare immagini, che siano archetipiche e che diano la possibilità di esprimersi a quello che l’animo umano ha da sempre, immutabile. Di fronte a questi eccessivi mutamenti esteriori si accentua l’esigenza di qualcosa di archetipico. Io penso che non sia un caso che un termine così pregnante come arche-tipo non solo torni, ma rimanga di attualità e questa, notiamolo, è di nuovo una grande carta che ci ha lascia-to la psicologia di Jung, che è stabile perché si occupa di ciò che nell’uomo è stabile. Invece Freud, come è stato detto del resto da lui stesso – visto che lo ha in parte ri-conosciuto – ha fatto nascere il suo studio psicanalitico basandosi sulla repressione degli istinti, e in particolare della sessualità, che ovviamente verso la fine del mille-ottocento nei ceti borghesi di Vienna era massima. Ma l’esistenza degli archetipi, che invece guida la ricerca di Jung, non è una variabile culturale e quindi non è un ca-so poi che Jung sia un visitatore di tutti i paesi del mondo. Sia che cerchi le radici degli archetipi in Africa piuttosto che in India e ancora nei miti del tipo più di-verso e nelle epoche più diverse. Queste invarianti dell’animo umano sono non solo uno degli accessori della psicologia di Jung, ma la sua vera sostanza, parti-colarmente attuale quando noi abbiamo bisogno di sta-bilità, sottoposti a delle pressioni di cambiamento così veloce.

A. C.: Ora Professore passerei un pochino a parlare del suo lavoro perché adesso, discutendo di archetipi, mi sembra che lei se ne sia occupato e se ne continui ad occu-pare con grande competenza e anche con grande passione. Li tratta nei suoi libri degli ultimi anni, mi riferisco, per esempio, a L’incubo globale, scritto anche con la collabo-razione di Hillman e di altri psicoanalisti internazionali. Mi sembra che ponga il dito sulla piaga della vera pro-blematica del perché della violenza, del perché della guer-

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ra, come avrebbero detto Einstein e Freud ai loro tempi, e vedo che il suo interesse è molto focalizzato sull’aggressi-vità, sull’arroganza, sulla morte del prossimo. I suoi inte-ressi mostrano tra l’altro un continuo riferimento, un con-tinuo richiamo all’Odissea, all’Iliade e ne Il gesto di Et-tore, che è uno dei suoi libri più amati dai critici ma an-che naturalmente da noi psicanalisti e pazienti, mette a punto una visione moderna parlando del mito, del gesto appunto di Ettore, della figura paterna. Vuole un po’ par-larci di come sta evolvendo la sua ricerca? Perché le per-sone sono violente? Perché noi non ci accorgiamo più del nostro vicino? Perché siamo così arroganti? Perché i ma-schi sono in questo modo? Mi piacerebbe che ci dicesse qualcosa riguardo a questo… oltre a complimentarmi per i suoi bellissimi libri.

L. Z.: La ringrazio. Magari io sono già abbastanza vecchio, ma quando sarò ancora più vecchio mi volterò indietro e dirò che è stata la mia individuazione e non lo sapevo. Cercavo una svolta nella mia vita dopo altre svolte, come quella di cui le parlavo nel Sessantotto. Per ricollegarmi a quella svolta, ricordo di aver letto un fa-mosissimo articolo di Pasolini. Me lo hanno segnalato a Zurigo, me ne ha parlato qualcuno o mi hanno spedito un ritaglio del Corriere. Comunque, in quella occasione Pasolini scriveva: “Mi sento a disagio e vi disapprovo, voi giovani viziati e violenti e mi sento più solidale con i poliziotti, semplici figli del popolo...”. Ecco, il poeta-regista mi ha dato un grande sollievo, perché ha messo in parole quello che sentivo anch’io ma che non avevo quasi il coraggio di esprimere: una critica alla violenza e agli eccessi appunto di questa generazione italiana, che in parte, va detto, era borghese, viziata e maschilista. Queste riflessioni sono in parte le radici con cui, nel tempo, non ho mai perso contatto. Senza abbandonare i miei interessi sociologici ed economici ho cercato di riassumere il mio pensiero nel libro La morte del pros-simo. A quei tempi – parliamo degli anni ’60 e ’70 – ci si

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occupava tanto di giustizia, si voleva un mondo miglio-re. Per carità, sempre si deve volere un mondo migliore e non risparmiare le energie ne accontentarsi pigramen-te. Però se ne parlava in quei tempi quando in Occiden-te e in particolare in Europa, lo dicono tutte le ricerche socio-economiche, la giustizia sociale aveva raggiunto il massimo, le differenze tra ricchi e poveri erano al mi-nimo storico, mentre la tassazione della ricchezza rag-giungeva il massimo storico. Adesso, col passare del tempo, ora che le differenze sono tornate ad aumentare strepitosamente e dove tutti i paesi, perfino la Svezia, che è il proto-modello della giustizia sociale, ormai si accontenta che le differenze e le ingiustizie aumentino, proprio adesso non c’è più questo coinvolgimento nei confronti dell’ingiustizia sociale nei propri paesi e della violenza in genere nel mondo. Non è assurdo? Un’altra eredità problematica è il fatto che purtroppo la violenza era un tarlo che è penetrato anche in coloro che voleva-no la giustizia e che sono diventati anche degli assassini: hanno, cioè, commesso la massima delle ingiustizie. Proprio giovani che venivano dal movimento insomma, quelli della mia generazione. Per me è rimasto qualcosa che ferisce ed è rimasta quasi una vergogna generazio-nale. Io sono nato nel ’43, dunque è la mia generazione. Ma perché troppo pochi si occupano di queste cose? Se ne occupavano un tempo e non se ne occupano più. Ci sono dei sentimenti proprio perché esiste, e questo ce lo ha insegnato Jung, non solo l’inconscio personale, ma anche l’inconscio collettivo, così come lei ricordava, così come è giusto ricordare, in particolare in un paese latino come l’Italia, dove si parla tanto di giustizia e ci sono anche delle ottime leggi, ma poi l’applicazione delle stesse è un’altra cosa. Come lei ricordava, persiste il maschilismo, come il fatto che la violenza sia soprat-tutto maschile, e che i reati in generale siano soprattut-to maschili, e specialmente i reati sessuali e la violenza sessuale. Insomma per queste cose ci sono stati movi-

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menti di gruppi, in cui se ne parlava un po’ troppo e si diventava fanatici, ma ora ritengo che tutto sommato se ne parli un po’ poco, soprattutto in categorie profes-sionali che dovrebbero essere titolate a farlo come gli analisti, soprattutto quando hanno un background so-ciologico. Quindi continuo e non riesco a smettere di affrontare questi temi. È diventata un po’ come una mia “tossicodipendenza”!

A. C.: Nei giorni scorsi, ho letto, anzi ho divorato, il suo libro I Centauri e mi sembra che la sua ricerca sia davvero sconvolgente. Ad un certo punto l’ho dato da leg-gere a mia sorella la quale ha letto il libro, anche lei rapi-damente forse anche aiutata dal fatto che era molto sotto-lineato come può vedere adesso che l’ho portato con me – perché desidero cortesemente un suo autografo. Sul libro c’è questa cosa bellissima che forse racchiude tutto il senso del libro: lei ha una vera, sana considerazione del mondo femminile non tanto perché femminile, ma in quanto è il pianeta più schiacciato dal mondo maschile e da questo mito del Centauro, che lei ha recuperato e che ha posto da un punto di vista, davvero archetipico, a capo di questo modo irrazionale di comportarsi del maschile. In suo o-nore ho messo anche una cravatta per la prima volta di un Centauro che mi pregerò di donarle alla fine di questa in-tervista, perché è l’unico che la possa indossare meritata-mente. Consideri il mio fregiarmene temporaneo solo co-me un trasporto sulla mia camicia, ma gliela regalo di tut-to cuore a nome mio personale e di tutto il Centro Studi di Psicologia e Letteratura fondato da Aldo Carotenuto. Se è d’accordo, sarei lieto se volesse ricordare al pubblico del nostro convegno la sua intuizione psicologica a partire dal paragone che lei fa tra i giocattoli femminili e quelli maschili, la bambola per le donne ed i soldatini per gli uomini...

L. Z.: La donna vive già una parte, un’anticipazione di quello che è l’identità femminile.

A. C.: Invece il maschio gioca con i soldatini, con le

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armi, e quindi fa l’esatto contrario... L. Z.: Da un lato fa l’esatto contrario, dall’altro non

c’è niente che dimostri che questo è il suo destino. È un suo modo di essere “culturalmente condizionato”. Mentre il giocare con la bambola è anche fisicamente un modo di essere che non va insegnato. Questa è una cosa che ho trattato, in parte, ne Il gesto di Ettore, è la complessità e anche la fragilità dell’identità maschile. Queste, del resto, non sono idee assolutamente nuove, perché in buona parte le riprendo da una donna, Marga-ret Mead. La donna, dunque, è più integrata in questa sua identità che è poi una prosecuzione. Nel maschio ci sono più identità, in buona parte culturali, sia quella del guerriero sia quella del padre e quindi, come dicevo nell’altro libro, dobbiamo cercare, con uno sforzo cul-turale ed educativo, di indirizzarle nella direzione del padre. Laddove questa forza, se esiste ancora, sia pro-tettiva e non solo verso il guerriero, dove questa forza si applica in modo distruttivo. Quindi sono due modi diversi di sperimentare l’essere, perché quello della bambina è già veramente l’essere. Questo lo prendevo da uno scritto di Franz Werfel, uno dei grandi autori ebrei austriaci con una forte anima e quindi con una componente femminile, un rispetto per il femminile in-teriore complessissimo. Tra l’altro forse ricorderà che è stato anche il compagno di Alma Mahler, parliamo quindi di una personalità femminile non da poco. Cer-tamente un rispetto per il femminile in sé per quello che può insegnarci sembra banale. Ma in grandi epoche storiche, come cercavo di dire anche in altri scritti, l’uscita dal Medioevo ed il Rinascimento hanno anche a che fare con la riscoperta del femminile. La cavalleria non è soltanto esibizionismo maschile, ma è anche la ritualizzazione dell’impiego della forza maschile al ser-vizio di un ideale, di un’ispirazione femminile. D’altra parte pure la scrittura di Dante dedicata a Beatrice e lo Stil Novo sono anche questo, almeno simbolicamente.

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A. C.: Così a dieci anni di distanza, da Il Gesto di Ettore lei è arrivato a I Centauri. Ma che speranza c’è per il maschile secondo lei da un punto di vista psicologico? A parte quello che lei suggerisce nel libro, se lo dovesse con-densare, non dico in un aforisma, ma se dovesse pensare quale può essere lo sforzo reale che dovrebbero fare i ma-schi presenti oggi a questo convegno?

L. Z.: La sola presenza ad un convegno per me già è confortante, così come è stato confortante esser stato invitato a qualche dibattito, sia da uomini che da donne dopo l’uscita del piccolo testo sulla violenza maschile. Questo mi fa abbastanza piacere. Ora, anche se può ap-parire banale, farei un accenno all’attualità. Noi viviamo, in questo momento, nel nostro paese un’attenzione particolare al problema della prevaricazione o “suppo-sta” prevaricazione da parte degli uomini potenti e del potere maschile. Lasciamo perdere se è la forza fisica o la forza politica o economica che influenza le figure femminili. Spesso mi hanno interpellato proprio per queste mie tematiche e mi sono tirato indietro rispetto ad interviste che puntavano troppo sull’attualità. Che cos’è? È una cosa derivata dal berlusconismo, le veline? Non hanno molto a che vedere con gli archetipi Berlu-sconi e le veline. Sono fenomeni di brevissima durata temporale, anche se vengono molto accentuati dalla po-tenza dei media, sia dalla potenza dei media alleati con la politica berlusconiana ma anche di quelli che la criti-cano, perché puntano troppo sull’attualità. Allora invi-terei di più a stare sul vero problema, cercando di af-fondare le radici nel profondo, cioè vedere quali sono gli archetipi che stanno dietro e non queste banalità. E comunque non mi sono fatto prendere, ho preferito ri-tirarmi. Questi riferimenti al berlusconismo, (tra l’altro qualcuno ne parla anche come figura paterna, il che mi pare un argomento molto fragile) è un affare di brevis-simo termine. Non so se lei ha presente lo studio che ho cercato di fare sul tema... Il rapporto dell’Occidente

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con la tematica del padre si sviluppa nei secoli, se non nei millenni. In questo sono favorevole all’attenzione, ma non alla banalizzazione. Ho portato come esempio quella che è la violenza maschile più concreta e atroce: lo stupro ma lo stupro di massa. Il fenomeno più gigan-tesco e più spaventoso è stato quello dell’Armata Rossa arrivando a Berlino. Erano circostanze storiche assolu-tamente particolari; è giustissimo che venga studiato e che venga rimeditato, perché non ci siano buoni o catti-vi in funzione delle ideologie. Siccome quelli erano l’Armata Rossa, i liberatori, e i nazisti erano i cattivi, al-lora non se ne parla, non se ne parla anche se è stato un evento mostruoso e dietro c’era Stalin, che è assoluta-mente un demonio come Hitler. Però, detto questo e riconosciuta la realtà storica, vediamo quali archetipi ci sono dietro, perché sarebbe assolutamente banale dire che il popolo russo o quella generazione sovietica era diseducata, che era colpa del marxismo piuttosto che dell’anima collettiva russa. Ecco, il fenomeno va studia-to ma va sempre collegato all’archetipo sottostante.

A. C.: Dunque al maschile non resta che fare un gran-de mea culpa, una storica riflessione su se stesso e dentro di sé?

L. Z.: Siccome c’è una psiche collettiva, una certa dose, senza esagerazioni, senza autoflagellazioni, ma una certa dose di vergogna collettiva la dovremmo pro-vare, perché abbiamo usufruito indegnamente della te-matica del padre. Si è passati dal padre al patriarcato, e quindi agli abusi di potere del patriarcato, oltre ovvia-mente all’abuso vero e proprio che è quello sessuale, che per fortuna resta ed è sempre stato minoritario. Pe-rò vanno riconosciute queste realtà, bisogna ammettere che quando si è in una posizione di potere si è più espo-sti, ed è molto difficile, proprio perché l’essere umano non è buono, che non venga utilizzato questo surplus, questa dose aggiuntiva di potere in senso cattivo.

A. C.: Bene, Professore, io la ringrazio e vorrei chiu-

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dere soltanto ricordando la bellezza dei suoi scritti in quanto lei poeticamente introduce nelle sue teorie psicolo-giche riferimenti allo scalpello di Michelangelo nel colti-vare l’anima, che è una metafora molto bella, anzi bellis-sima della ricerca di questa arte di levare, di togliere il su-perfluo e di trovare l’anima delle persone e delle cose sotto il marmo grezzo. E poi ancora la vorrei ringraziare perché chi scrive delle belle cose, quanto meno, se non ha una gratificazione economica, come prima si ricordava, però ha la gratificazione di chi legge i suoi scritti ed è davvero importante e quindi sicuramente questa intervista e questo incontro contribuiranno a far conoscere, anche se lei è già conosciutissimo, a diffondere di più e meglio il suo pensie-ro. Ora penso alla bellezza del racconto di Tolstoj che lei riporta in uno dei suoi libri sul dilemma relativo a quanta terra necessita all’uomo...

L. Z.: L’ho posto in conclusione del testo sul pro-blema dei limiti, del perché l’uomo vuole sempre di più, particolarmente oggi e particolarmente in Occidente. Nelle cosiddette culture tribali o tradizionali c’era una condizione statica ma anche dei legami. Le civiltà orien-tali, indiana o cinese, tendevano a mantenere e credeva-no in un tempo ciclico, ad esempio, per cui non ci deve essere uno sviluppo, una crescita continua. Invece noi vogliamo sempre di più e stiamo appunto rovinando il benessere che abbiamo ottenuto, questo è vero, proprio con l’eccesso. E uno dei brevi ma bellissimi racconti di Tolstoj, Di quanta terra ha bisogno l’uomo?, si rifà ad una vecchia fiaba russa. Un uomo ha ricevuto la pro-messa di poter ottenere tanta terra quanta riesce a cir-condare in una giornata camminando. Poi ha un sogno, interessante anche questo, che gli dice che forse sta fa-cendo un patto col diavolo. Ma, da uomo in fondo già moderno, il personaggio tolstojano lo nega e si concen-tra completamente nel fare uno sforzo per camminare moltissimo, e quindi ricevere molta altra terra. Allora comincia a correre e poi cammina e ancora corre sem-

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pre di più, in modo da includere una quantità di terreno sempre maggiore. Gli era stato detto di tornare però nella stessa posizione quando il sole sarebbe tramonta-to, altrimenti avrebbe perso e lui si affanna sempre di più perché non vuole rinunciare. Vede ancora una colli-na e vuole passargli intorno e, alla fine, comincia a non capire più se il sole sta veramente tramontando, e deve correre sempre di più perché non può arrivare quando è già tramontato. Poi apprendiamo, di colpo, tornando dalla voce dell’uomo che correva alla voce del narratore che dice che il buio che stava arrivando era il buio della morte, perché aveva chiesto troppo e gli scoppia il cuo-re nello sforzo! Voleva avere tanta terra ma di quanta terra avrà bisogno poi l’uomo? Avrà bisogno di non più di due metri, perché questa è la dimensione massima in cui si scava una fossa.

A. C.: A nome del Centro Studi di psicologia e lette-ratura e di tutti i presenti, che immagino numerosi al no-stro Convegno, La ringrazio e le auguro un buon lavoro e naturalmente le lascio questa cravatta con il Centauro di-segnato che da oggi diventa sua, perché è l’unico psicoana-lista che se ne può fregiare, allenato com’è ad allacciare e sciogliere “nodi junghiani”!

L. Z.: Se posso fare una piccola anticipazione in chiusura, tra qualche giorno consegnerò a Bollati Bo-ringhieri un lavoro al quale sto lavorando da nove anni, anzi da dieci. È una storia nella paranoia e al tempo stesso una paranoia nella storia. In questo, sono tornato un pochino sulla psicopatologia, la proiezione radicale del male negli altri. Io abitavo negli Stati Uniti durante il fatidico Undici Settembre e ho riscontrato questa pa-ranoia nel terrorismo islamico. Purtroppo devo dire che l’ho vista anche nella risposta delle politiche di Bush, e in tutto quel sentimentalismo e in quella semplificazio-ne sulla “guerra al male”. Insomma questa contrapposi-zione tra bene e male, al limite, diventa proprio un fe-nomeno di paranoia collettiva. Non so ancora se chia-

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merò questo libro La follia di Aiace, perché è il primo personaggio paranoico quando, volendo distruggere i nemici, nella tragedia di Sofocle, fa a pezzi in realtà gli agnelli. Ed è una bella metafora il fatto che se la prenda con degli innocenti! Il mio vuole essere un tentativo di studiare e sviluppare, ripartendo dalla metafora e da al-cuni miti, questa tematica nella storia. Come può im-maginare, i capitoli su Hitler e su Stalin son diventati sempre più lunghi, per questo è durata tanto tempo. È una ricerca su come una deformazione psichica come la proiezione paranoica, a differenza di altre psicopatolo-gie che per fortuna restano individuali, può entrare nel-la storia e quasi “fare la storia” in maniera distruttiva. Quindi un ritorno un pochino ad un nucleo clinico, ma anche alla storia stessa, alla quale penso bisogna essere il più possibile aderenti oggettivamente.

A. C.: Aspettiamo dunque il suo nuovo libro dal titolo provvisorio La follia di Aiace. Lo leggeremo con grande passione e lo attendiamo con ansia. Da questo momento si consideri socio onorario del Centro Studi di Psicologia e Letteratura fondato da Aldo Carotenuto. Nel ringraziarla le formuliamo i nostri migliori auguri per il suo lavoro e per la sua vita.

L. Z.: Grazie, grazie a lei per l’intervista e per la cravatta. Grazie anche al Centro Studi di Psicologia e Letteratura fondato da Aldo Carotenuto. Auguri per il vostro convegno.

Questa intervista è stata trascritta dalla dottoressa

Francesca Grisi (attuale tirocinante del Centro Studi di Psicologia e Letteratura) dal video che è stato realizzato a Milano per la regia della dottoressa Benedetta Rinaldi nel febbraio 2011 in occasione del 12° Convegno del Centro Studi di Psicologia e Letteratura “50 anni senza Jung” (svoltosi a Roma il 09/04/2011). Esprimo il mio ringraziamento alla collega e amica Benedetta Rinaldi ed alla tirocinante del CSPL Francesca Grisi per la loro

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gentile e preziosa collaborazione. Sono state effettuate correzioni non sostanziali, eliminando ripetizioni di pa-role e tutte quelle frasi pleonastiche che spesso caratte-rizzano una conversazione amichevole, ma che risulta-no pesanti per qualunque lettore che non abbia visto il video. Il testo è stato inoltre revisionato e approvato dal Prof. Luigi Zoja, al quale porgo la mia sincera e af-fettuosa gratitudine per le rapide operazioni finali di “limatura” del testo. (A. C.)

Abstract Amedeo Caruso Il Nodo junghiano, intervista a Luigi Zoja

L'autore dell'intervista, Amedeo Caruso, ha intervistato Lui-gi Zoja in occasione del 12° Convegno del Centro Studi di Psicologia e Letteratura dal titolo “Cinquanta anni senza Jung” svoltosi a Roma il 9 aprile 2011. Questa è la trascri-zione della video-intervista svoltasi a Milano nel febbraio 2011. L’eminente studioso junghiano, forse lo psicoanalista italiano più conosciuto all'estero, esprime le sue opinioni sul recente Libro Rosso e sull'eredità culturale di Jung. Affronta il tema della individuazione e percorre a ritroso il suo cam-mino verso la psicologia analitica. Sollecitato dall'intervista-tore Zoja parla anche dei temi a lui cari trattati nei suoi libri. Il professor Zoja si rivela un esperto ed appassionato cono-scitore di “nodi junghiani” per cui riceverà, a sorpresa, in grato ricordo dell'intervista, una cravatta con un Centauro disegnato, che Caruso gli porge come dono personale e del CSPL, con un esplicito richiamo al bel saggio “Centauri” dello stesso Zoja. Parole chiave: individuazione – Libro Rosso

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Amedeo Caruso The Jungian knot, an Interview with Luigi Zoja

The author, Amedeo Caruso, interviewed Luigi Zoja on

the occasion of the 12th Convention of the Centro Studi di Psicologia e Letteratura, entitled “Fifty Years without Jung”, which took place in Rome on April 9, 2011. This is the tran-scription of the video-interview conducted by Caruso in Mi-lan in February of the same year. Zoja, an eminent Jungian scholar, and perhaps the most well known Italian psychoa-nalyst abroad, expresses his opinion on the recently publi-shed “Red Book” and cultural legacy of Jung. He takes up the theme of individuation and traces his way to analytical psychology. Encouraged by Caruso, Zoja speaks also on themes important to him from his books. Professor Zoja al-so proves to be an expert on Jungian Knots. In this context, he will receive, as a surprise and in grateful remembrance of the interview, a necktie bearing the design of a centaur, which Caruso offers as a gift both personal and from the CSPL, an explicit reference to Zoja’s essay, “Centauri”. Keywords: individuation – Red Book

Amedeo Caruso, Direttore Responsabile del Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, vicepresidente del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, è Medico-Chirurgo, specialista in Medicina Interna e Psicoterapeuta. È stato medi-co di bordo dall’Achille Lauro, rimanendo coinvolto nel famoso sequestro della nave (ottobre 1985) che gli ha ispirato il primo lavoro sull'inconscio, la Sindrome del Giudizio universale. È esperto in Bioetica. È giornalista iscritto nell’elenco dei pubblicisti. Allievo di Aldo Carotenuto, ha perfezionato negli Stati Uniti le tecni-che di trance con Ernest Rossi, uno dei più eminenti discepoli di Milton Erickson. È docente dal 2003 della Scuola di Specializzazione in Psicoterapie Brevi ad Ap-proccio Strategico di Roma, della quale è anche psicoanalista didatta e supervisore. Ha pubblicato Viaggio nell’ipnosi, psicoterapia creativa (1994, Di Renzo editore, Roma); Di che sogno sei? (1997, Liguori, Napoli); Caro Papà (2003, Liguori, Napo-li); Psicopatologia sul Quotidiano (2011, Ed. Il Bene Comune, CB). Ha scritto il testo dello spettacolo teatrale Le Stanze dei Sogni (1998) rappresentato a Roma, Spoleto e vari teatri italiani. È condirettore del Giornale storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, nonché socio fondatore dello stesso Centro Studi. È mem-bro dello Jung Institute di Chicago e della Società Italiana di Medicina Interna. È socio fondatore del cineclub La Grande Illusione per il quale svolge attività di con-sulenza con “cine-psico-conferenze”. È autore di oltre 100 pubblicazioni sia di carattere medico che psicoanalitico. Ha collaborato al Manuale di Mediacal Humanities a cura di Roberto Bucci, 2006, Za-dig Editore. La sua ultima creazione drammaturgica si intitola Sogni e Misteri di

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Campobasso (dove si parla di Rodolfo Valentino del Capitano di Ventura Cola di Monforte e di Bob De Niro Senior e Junior) che ha esordito il 28, 29 e 30 maggio 2007 in occasione del Festival dei Misteri nel capoluogo molisano, e ripreso il 21 agosto 2007, sempre per la regia di Stefano Sabelli. Il suo racconto Nel labirinto del Minotauro è stato incluso nella raccolta di scrittori contemporanei 18+2, edizioni Il Bene Comune, 2010. Sta investigando da qualche tempo sulle radici psicoanalitiche del Cinema Italiano d’Autore e del Teatro Italiano d’Autore.