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Tariq Ramadan Riccardo Mazzeo Il musulmano e l’agnostico

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Page 1: Il musulmano e l'agnostico - Erickson...Tariq Ramadan Riccardo Mazzeo Il musulmano e l’agnostico Il conflitto tra la civiltà islamica e quella occidentale è davvero così inevitabile

Tariq Ramadan Riccardo Mazzeo

Il musulmano e l’agnostico

Il conflitto tra la civiltà islamica e quella occidentale è davvero così inevitabile come molti vogliono

farci pensare?

La religione è necessariamente un ostacolo alla sopravvivenza di uno

Stato pluralista e democratico?

Si può essere musulmani e, al contempo, europei?

In questo denso dialogo con Riccardo Mazzeo, Tariq Ramadan dà voce a quella che definisce la possibilità di una «coesistenza positiva» tra musulmani e occidentali. Contrario a ogni fondamentalismo, ma anche al laicismo più spinto che vede nella religione la causa di tutti i mali, egli ci avverte del pericolo di una umanità senza trascendenza che rinuncia alla qualità e alla densità che solo l’esperienza spirituale può fornire. Per resistere al ripiegamento identitario di un mondo che costruisce muri e alla tentazione di cedere alle sirene del populismo, per costruire relazioni inclusive e accoglienti e interrogare le rispettive appartenenze con capacità e coraggio.Nonostante questa posizione, Ramadan è spesso accusato di neofondamentalismo da una parte dell’intellighenzia europea e additato come un traditore occidentalizzato dall’Islam più radicale. Destino dei ponti, calpestati ma ineludibili.

www.erickson.it

€ 10,00

Tariq Ramadan è scrittore e accademico svizzero di origine egiziana. Tra gli intellettuali più influenti dell’Islam occidentale, è docente di Studi islamici contemporanei presso la Facoltà di Studi Orientali dell’Università di Oxford, dove insegna anche Teologia. Dirige il Centre of Islamic Legislation and Ethics (Qatar) ed è membro dell’UK Foreign Office Advisory Group on Freedom of Religion or Belief. Dei suoi numerosi saggi, sono stati tradotti in italiano Noi musulmani europei (2002), Il riformismo islamico (2004), Maometto (2007), Islam e libertà (2008), Europa domani. Conversazione con Tariq Ramadan (2008) e Il pericolo delle idee (2015).

Riccardo Mazzeo è editor storico della casa editrice Erickson, ha tradotto un centinaio di libri da inglese, francese e spagnolo e scrive sulle pagine culturali del Manifesto. Tra i suoi libri ricordiamo Conversazioni sull’educazione, con Zygmunt Bauman (2011), C’è una vita prima della morte? con Miguel Benasayag (2015), Il vento e il vortice, con Ágnes Heller (2016) e Parlare di Isis ai bambini, con Edgar Morin et al. (2016).

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Tariq Ramadan Riccardo Mazzeo

Il musulmano e l’agnostico

Il conflitto tra la civiltà islamica e quella occidentale è davvero così inevitabile come molti vogliono

farci pensare?

La religione è necessariamente un ostacolo alla sopravvivenza di uno

Stato pluralista e democratico?

Si può essere musulmani e, al contempo, europei?

In questo denso dialogo con Riccardo Mazzeo, Tariq Ramadan dà voce a quella che definisce la possibilità di una «coesistenza positiva» tra musulmani e occidentali. Contrario a ogni fondamentalismo, ma anche al laicismo più spinto che vede nella religione la causa di tutti i mali, egli ci avverte del pericolo di una umanità senza trascendenza che rinuncia alla qualità e alla densità che solo l’esperienza spirituale può fornire. Per resistere al ripiegamento identitario di un mondo che costruisce muri e alla tentazione di cedere alle sirene del populismo, per costruire relazioni inclusive e accoglienti e interrogare le rispettive appartenenze con capacità e coraggio.Nonostante questa posizione, Ramadan è spesso accusato di neofondamentalismo da una parte dell’intellighenzia europea e additato come un traditore occidentalizzato dall’Islam più radicale. Destino dei ponti, calpestati ma ineludibili.

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Tariq Ramadan è scrittore e accademico svizzero di origine egiziana. Tra gli intellettuali più influenti dell’Islam occidentale, è docente di Studi islamici contemporanei presso la Facoltà di Studi Orientali dell’Università di Oxford, dove insegna anche Teologia. Dirige il Centre of Islamic Legislation and Ethics (Qatar) ed è membro dell’UK Foreign Office Advisory Group on Freedom of Religion or Belief. Dei suoi numerosi saggi, sono stati tradotti in italiano Noi musulmani europei (2002), Il riformismo islamico (2004), Maometto (2007), Islam e libertà (2008), Europa domani. Conversazione con Tariq Ramadan (2008) e Il pericolo delle idee (2015).

Riccardo Mazzeo è editor storico della casa editrice Erickson, ha tradotto un centinaio di libri da inglese, francese e spagnolo e scrive sulle pagine culturali del Manifesto. Tra i suoi libri ricordiamo Conversazioni sull’educazione, con Zygmunt Bauman (2011), C’è una vita prima della morte? con Miguel Benasayag (2015), Il vento e il vortice, con Ágnes Heller (2016) e Parlare di Isis ai bambini, con Edgar Morin et al. (2016).

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Indice

Prefazione (di Hamza Roberto Piccardo) 7

i

Il posto della religione nelle nostre società 11

ii

Riallacciarsi alla filosofia 43

iii

La ricerca di senso 69

iV

Il pluralismo 87

V

Di fronte alla violenza e al terrore 99

Vi

Migranti e rifugiati 111

Vii

L’ambiente 125

Viii

Ripensare l’azione politica 137

Conclusioni (di Riccardo Mazzeo) 147

Indice dei nomi 157

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Prefazione

Quando nel 2002 pubblicammo, per i tipi di Città Aperta, Essere musulmano europeo di Tariq Ramadan, un testo per noi fondamentale, che deli-neava in modo mirabilmente chiaro e convincente quale dovesse essere la nostra Weltanschauung in Occidente, osai dire che lui era una rahma, una misericordia.

Nelle difficili condizioni di una comunità nella sua stragrande maggioranza formatasi dall’im-migrazione, con tutto il suo bagaglio di disagio psicologico e materiale, la tesi di Ramadan, e cioè che si potesse (e si dovesse) essere pienamente musulmani e al contempo europei, era in quel momento dirompente.

Era da poco avvenuta la tragedia dell’11/9 e stava cominciando a sorgere il fenomeno della islamofobia, sostenuto anche in termini teorici dal saggio The Clash of Civilisations (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale) di Samuel P.

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Huntington, che sosteneva l’inevitabile conflitto tra la civiltà «islamica» e quella «occidentale».

Non serve qui dissertare sul debito culturale e filosofico che la cultura occidentale ha nei confronti di quella islamica, esso è appurato dagli eminenti studi condotti e dalla realtà dell’interazione stori-ca, dalla mediazione tra il mondo antico e quello moderno sviluppata dalla sapienza islamica.

Si tratta piuttosto di convincere i musulmani e gli altri loro concittadini occidentali che non esiste nessuna sostanziale estraneità nei valori etici, e che l’islam non è una cultura specifica ma si declina e si coniuga alle realtà dei Paesi in cui insiste la sua presenza.

Un musulmano senegalese è un vero muslim e un vero africano, così come uno malese è fortemente collegato alla sua religione e al modus vivendi del suo Paese. Alla stessa maniera in Occidente, il musulmano immigrato, ma ben più di lui i suoi figli e nipoti e soprattutto i convertiti di ascendenza eu-ropea, possono tranquillamente assumere modi dei Paesi in cui vivono senza temere di perdere la loro identità, anzi corroborandola nel dialogo e apportan-do alle realtà socioculturali locali un valore aggiunto di impegno e solidarietà, oltre alla spiritualità senza la quale ogni azione del muslim è vana.

Il dialogo tra Tariq Ramadan e Riccardo Mazzeo, e di cui è testimonianza questo volume, a distanza di 15 anni dalla pubblicazione del testo di cui so-

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Prefazione 9

pra, affronta e approfondisce tematiche di grande spessore, la cui non risoluzione potrebbe essere esiziale per l’umanesimo condiviso da cristiani, musulmani e laici.

Va da sé che il conflitto è insito nella natura umana: si tratta ora di gestirlo virtuosamente affinché non diventi mai guerra ma occasione di fattivo confronto e arricchimento di tutti gli attori. L’elemento a favore di questa tesi è scontato: la so-pravvivenza dei valori di convivenza, accoglienza, rispetto e solidarietà. Quello contrario discende da interessi molto feroci e strutturati, talmente potenti e diffusi da scoraggiare i molti che li subiscono.

Siamo convinti che in questo tempo sia enorme-mente sminuita l’importanza del pensiero critico che interroga le rispettive appartenenze con capa-cità e coraggio e, tuttavia, dice una tradizione sacra a noi cara: «Se viene il giorno del Giudizio e hai una pianta da mettere nella terra, fallo!».

Il giorno finale non è certamente oggi, ma questo contributo di Tariq e Riccardo è una pianta da interrare e coltivare con attenzione e amore.

Hamza Roberto Piccardo

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I

Il posto della religione nelle nostre società

Riccardo Mazzeo: Quest’anno Marc Augé ha pubblicato un piccolo racconto di fantasia,1 in cui immagina che Papa Francesco, il primo aprile 2018, si sia affacciato al balcone di piazza San Pietro e abbia annunciato che «Dio non è morto», per aggiungere poi: «No, non è morto perché non è mai esistito» e ribadire con forza, prima di essere trascinato via dai rappresentanti della Chiesa: «Dio non esiste».

Augé conclude la sua «favola» descrivendo la rivoluzione avvenuta nel pianeta dopo le parole del pontefice: la desertificazione di chiese, moschee e di tutti gli altri luoghi di culto, la rinuncia del Dalai Lama a reincarnarsi, l’inizio di un dialogo reale fra israeliani e palestinesi, la fine della jihad

1 Marc Augé, La Sacrée semaine qui changea la face du monde, Paris, Odile Jacob, 2016, trad. it. Le tre parole che cambiarono il mondo, Milano, Raffaello Cortina, 2016.

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e la drastica riduzione di attentati: «Disorientati, privati del loro ruolo e senza causa, alcuni ex ter-roristi si suicidarono, ma in solitudine».2 In Iran uno sciopero generale decreta la fine del regime e le monarchie dei Paesi del Golfo si sfaldano l’una dopo l’altra, i veli scompaiono dai volti delle donne a Riad, a Kabul, a Teheran. «Gli invasati di Allah avevano perduto Allah e ritrovato la ragione».3 Islamofobia e antisemitismo cessano di esistere, tutti sono finalmente fratelli, si interrompono i flussi migratori perché si sta finalmente bene nel proprio Paese, e si lavora insieme a una vita mi-gliore per tutti: invece di sfornare armi, si offrono posti di lavoro e un sistema educativo di pregio. «La vita dopo la morte è la vita dei vivi, non quella dei morti, che non esiste più di quanto esista Dio. Il fatto che tutto abbia una fine è proprio ciò che dà valore agli inizi».4

Augé ha scritto una favola da cui traspare un’il-lusoria fede nella ragione, ma i presupposti da cui parte sono fittizi perché la sua posizione, in base alla quale azzerando le religioni il mondo trove-rebbe una sua realizzazione pacifica e armoniosa, sembra dimenticare quanti disastri abbia recato

2 Ibidem, p. 88 dell’edizione italiana. 3 Ibidem, p. 89. 4 Ibidem, p. 94.

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con sé l’Illuminismo. In L’uomo e la morte5 il nostro amico Edgar Morin ha raccontato i brancolamenti dei nostri remoti antenati: non avevano ancora gli strumenti per impostare le loro vite sulla sola ragio-ne, e cercavano di dare un senso al loro essere nel mondo affidandosi a credenze ultraterrene, a una vita dopo la morte o all’esistenza di un «doppio». Poi arrivarono le grandi religioni monoteiste, in cui le genti riposero le loro speranze, fino a quando il primo novembre 1755 un terremoto spazzò via oltre un quarto della popolazione della fiorente Lisbona, Voltaire ne parlò nel Candide e l’Illuminismo af-fermò la ragione come la risorsa cardinale contro le minacce e i capricci della natura.

I Lumi parvero sul serio offrire una direzione, un progresso ora lento ora fulmineo ma costante, che avrebbe dovuto migliorare le sorti della Terra e dei suoi abitanti. Menti illuminate come quella di Karl Marx prefigurarono rivolgimenti che avreb-bero garantito libertà e giustizia, ma la messa in pratica del comunismo si rivelò un disastro e un raggiro poiché, a parte i 25 milioni di morti, i gulag e una condivisione di povertà generale affinché la nazione fosse grande e gloriosa, fu subito chiaro che alcuni, in questa società di «uguali», erano «più

5 Edgar Morin, L’Homme et la Mort [1950], Paris, Editions du Seuil, 1970 e 1976, nuova edizione italiana L’uomo e la morte, Trento, Erickson, 2014.

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uguali» degli altri. Ne abbiamo una testimonianza tangibile nella statua di Lenin che troneggia sopra un palazzo: il Paese è sotto la sua scarpa, la piena parità fra le persone non è realizzabile se non assoggettandole, schiacciandole e, eventualmente, uccidendole.

I Lumi tuttavia hanno colpe ancora più gravi: l’immensa potenza tecnica che hanno conquistato ha prodotto artefatti e costruzioni che hanno migliorato la qualità della vita, ma anche armi di distruzione di massa come le due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, che non sarebbe stato necessario lanciare poiché il Giappone era pronto alla resa ma che, essendo costate milioni di dollari, dovevano ormai, per una logica utilitaristica perver-sa, essere usate per lo scopo prefissato.

Un altro peccato dei Lumi, ancora più pernicio-so, è l’immagine prototipica che li caratterizza. Bauman ha scritto che l’ancien régime era ben rappresentato dalla figura del «guardacaccia», ma che con l’Illuminismo si era affermata la figura del «giardiniere»: se la natura non era affidabile e aveva bisogno di essere corretta e riorientata dalla ragione, il mondo avrebbe dovuto essere trattato come un giardino da tenere ordinato e pulito, usando tutori per far crescere armoniosamente le piante e robusti rastrelli per ripulirlo dalle erbacce. Ora, sappiamo fin troppo bene che il delirio nazista ha identificato le erbacce con precise categorie di

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individui che mal si conciliavano con il suo dise-gno: ebrei, zingari, disabili, omosessuali… Tutto questo è senz’altro un delirio, che scaturisce però dalla ragione, dal malinteso bisogno di «mettere ordine», di «fare pulizia», di «dar vita a un mondo perfezionato».

Tariq Ramadan: La favola di Augé, si chiama così?

R.M.: Sì, l’ho conosciuto al Festivalfilosofia di Modena. Indubbiamente ha scritto buoni libri, ma con questo mi sembra che si sia un po’ disorientato, anche se sta riscuotendo un grande successo. In ogni caso, mi è parso opportuno cominciare con questo delirio, anche se…

T.Q.: Ma certo, appunto, sono contento che tu abbia fatto una scelta del genere poiché, effetti-vamente, ci permette di affermare due cose. La prima, e mi riallaccio alla considerazione che hai svolto dopo che hai parlato del libro, è pensare che oggigiorno la religione sia la causa di tutti i mali, tutti i demoni, tutti i deliri umani, e che una società o un’umanità senza trascendenza, ma riconciliata con la ragione, renderebbe tale ragione necessariamente «ragionevole».

Ora, io credo che ciò sia completamente irragio-nevole, assolutamente falso, e su due piani. Nelle

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IV

Il pluralismo

Riccardo Mazzeo: Parlare di pluralismo oggigiorno implica una riflessione sull’eteros, ovvero sulla diversità che caratterizza imprescindibilmente gli esseri umani. Pluralismo si coniuga con il termine baumaniano «mixofilia», ovvero la curiosità, l’in-teresse e il piacere che si prova nel confrontarsi con persone, culture e costumi differenti dai nostri. Oggi a prevalere è piuttosto la «mixofobia», cioè il trinceramento in una serie di valori (o pseudovalo-ri), consuetudini, princìpi nostri da contrapporre con decisione ai valori degli altri, ai loro abiti costituzionali.

Più di 200 anni fa Kant previde che se nel suo tempo era ancora possibile immaginare un luogo remoto del mondo in cui farsi i fatti propri e restare impermeabili a ciò che preme da fuori, un giorno la circolarità della Terra si sarebbe affermata come interconnessa e a quel punto, senza più alcun rifu-gio possibile dagli altri, avremmo dovuto scegliere

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se cercare e trovare una modalità di coabitazione pacifica o distruggerci a vicenda.

Non è facile rimanere lucidi e aperti in questo tempo di migrazioni massicce e di erosione delle certezze, in un Occidente in cui alla classe media e al proletariato si è sostituita una condizione di precarietà che ci fa angosciare per la sorte dei no-stri figli, pressoché condannati a un orizzonte che diminuisce anziché aumentare le loro possibilità, in cui le persone che vediamo arrivare dai luoghi dove infuriano le guerre e trionfa sinistra la miseria ci sembrano presagi di sventura per la sorte che potrebbe toccare anche a noi in un giorno magari prossimo. Certo è che l’unico modo di rimanere veramente umani è quello di rispettare la diversità, di aprire le braccia verso i nostri fratelli e cercare di salvarci tutti insieme.

Tariq Ramadan: Anche stavolta credo tu abbia fatto una buona introduzione al nostro dibattito per-ché, come spiegavo in precedenza, uso il termine «pluralismo» per evitare le imposizioni ideologi-che di una società che sarebbe un’unità culturale in opposizione al multiculturalismo, giacché le nostre società sono plurali e quel che si mette in evidenza qui è la necessità di considerare che tutte le nostre società lo sono, senza eccezione. Allora la questione che si pone è come realizzare questa chimica fra l’unità dell’umanità e la diversità di

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Il pluralismo 89

coloro che la costituiscono. L’unità e la diversità. Noi musulmani, e succede lo stesso con i cristiani e gli ebrei, abbiamo un doppio problema: la diver-sità esteriore e la diversità interiore. Ciò significa che vi sono differenti interpretazioni musulmane, differenti spiegazioni ebraiche, differenti interpre-tazioni cristiane e c’è questo intralcio religioso per cui non si sa bene come gestire la diversità, il che fa sì che per me sia più facile discutere con te che con un musulmano letteralista. Perché di fatto, come tu metti in evidenza, nelle nostre società bisogna definire la realtà del pluralismo, poiché in fin dei conti il pluralismo che cos’è? Quali sono le sue finalità? Da un punto di vista spirituale credo che Dio abbia voluto il pluralismo, rendendolo una necessità della nostra umanità. Ciò significa che in nessun momento devo credere di avere il diritto di convertire le persone, in nessun momento devo voler sperare che tutti mi somiglino, che tutti diventino musulmani, e che la condicio sine qua non del mio equilibrio umano, della mia umanità, è che vi sia una diversità, che vi siano persone che non mi somigliano. Tutto ciò passerà attraverso la differenza e talvolta attraverso lo scontro, il conflitto, vivrò la mia umanità nella differenza e nel confronto. Nel capitolo precedente mi avevi parlato del libro Elogio del conflitto, di Miguel Benasayag e Angélique del Rey, e perfino nella tradizione musulmana si dice: se Dio non avesse

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messo i popoli gli uni contro gli altri sarebbe stato un problema, il conflitto ha qualcosa di salvifico, sembra paradossale ma è così, nel senso che è un regolatore dell’umano, regola l’umano. L’umano in un potere assoluto sarebbe corruttore, mentre posto nel conflitto cerca le sue energie, le attinge…

R.M.: Si rinnova…

T.R.: Esatto, si rinnova è una bella formula, si riconcilia con la sua umanità. E allora, come si vive questo pluralismo? Come lo si vive nelle nostre società? Prima hai usato un’espressione, «coesistenza pacifica», a cui mi sono opposto abbastanza presto nel mio percorso, perché la co-esistenza pacifica può voler dire, ma so che non è ciò che tu intendi, può voler dire ignorare gli altri, ovvero vivere con gli altri ma metterli da parte, ignorandosi reciprocamente. Io ho deciso invece di parlare di «coesistenza positiva» poiché questa im-plica un’interazione. Ed è per questo che a me non interessa tanto vivere con gli altri quanto agire con gli altri. Ciò significa che la coesistenza positiva presuppone un’interazione perché vivere insieme deve portare ad agire insieme. Il pluralismo per me è l’azione comune. Per costruire uno spazio comune non serve la coesistenza pacifica ma è necessario conferire alle nostre società la mescolanza sociale, come hai detto tu, la mescolanza intellettuale. È

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V

Di fronte alla violenza e al terrore

Riccardo Mazzeo: Molti cosiddetti occidentali sono convinti che l’islam sia qualcosa di omogeneo che si oppone alla civiltà occidentale, che veicola valori incompatibili con quest’ultima. Sappiamo che di fatto non è così, e che le vittime principali dei terroristi non sono occidentali bensì altri mu-sulmani. Il problema è che in questa spinta verso la preservazione della propria area di tranquillità e di piacevolezza si tende ad attribuire all’altro caratteristiche che confermano la sensatezza dei nostri sentimenti di paura, senza investire alcuna energia nel tentativo di approfondire il nostro livello di conoscenza.

Posiamo lo sguardo soltanto su ciò che è vicino a noi e non ci avvediamo che esistono realtà che, pur lontane geograficamente, fanno comunque parte del nostro mondo. Troppo spesso gli statunitensi ignorano cosa accade non solo al di fuori ma anche all’interno del loro Paese, fuori dai confini del pro-

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prio Stato. In poche parole, non ritengono degno di importanza quel che avviene altrove e questo diventa sul serio un problema perché ai loro occhi sfugge che la vita umana non è importante solo quando viene rubata e violata all’interno di un tea-tro a Parigi, come è successo al Bataclan, ma anche quando viene recisa lanciando una bomba su un ospedale, uccidendo finanche bambini innocenti. La vita umana ha sempre lo stesso valore, ma per molti non è così, e allora se si verifica un attentato da noi, in Occidente, si parla di un disastro, di una tragedia, e lo è, non c’è alcun dubbio, ma ciò non toglie che sia una tragedia anche un evento analogo che si consuma in un’altra parte del mondo.

Questo impone riflessioni un po’ più articolate. Tu sai che di recente ho avuto un dialogo con Edgar Morin durante il quale eravamo d’accordo quasi su tutto. Morin diceva: nelle periferie delle nostre metropoli, le ragazze e i ragazzi, spesso im-migrati di seconda generazione, si ritrovano in una situazione in cui si sentono rifiutati dalla maggior parte della popolazione autoctona. Ad esempio, quando la polizia irrompe nelle loro case è rude, spesso violenta, ed eventi del genere innescano dinamiche tali per cui questi giovani, sentendosi rifiutati, tendono a rifiutare a loro volta.

Ecco dunque l’enorme importanza di un’edu-cazione che sia capace di occuparsi di tutti. A scuola, se ci si ritrova come compagno un piccolo

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musulmano, un piccolo cinese — ma soprattutto un musulmano visto che, dati prima Al Qaeda e poi l’Isis, il pericolo viene descritto come unicamente musulmano —, si rischia di guardarlo con sospetto. Ma che colpa ha un bambino musulmano della sua origine? Non ha idea dei sospetti che può suscitare, frequenta la scuola per diventare un adulto respon-sabile, osserva le regole, obbedisce a ingiunzioni che sono differenti da quelle occidentali, ma in definitiva è una giovane vita che vuole solo sboc-ciare e quindi bisognerebbe spiegare con chiarezza ai nostri figli che i bambini musulmani non hanno alcuna colpa di questa violenza che è circoscritta. Nel corso di una recente intervista rilasciata a una rivista italiana ho affermato che i governanti amplificano enormemente i pericoli legati a questi avvenimenti e che bisognerebbe esortare i piccoli a non aver paura giacché la violenza, il terrorismo, l’eventualità di essere uccisi esistono per ciascuno di noi, ma è infinitamente più probabile perdere la vita a causa di un incidente stradale che nel corso di un attentato.

Gli attentati in realtà vengono sfruttati da alcuni politici, come ha fatto Hollande. Hollande è alla fine della sua carriera politica, e io ne sono lieto perché non mi piace affatto, ma non possiamo dimenticare che quando a Parigi si verificò l’ec-cidio del 13 novembre 2015, la sua popolarità aveva raggiunto i minimi storici, solo il 28% dei

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francesi lo riteneva un buon presidente. Dopo l’attentato, però, gonfiò i muscoli, disse «siamo in guerra», aumentò il dispiegamento di poliziotti armati per le strade e magicamente il suo livello di gradimento si impennò fino a raggiungere il 50%. Non dovremmo farci manipolare da questa gente, e ancora una volta possiamo impedirlo solo con una scelta di resistenza e di educazione; non basta l’informazione, la cosa più importante è una vera e propria educazione. Che cosa ne pensi?

Tariq Ramadan: Il problema non è discutere di violenza dividendosi tra favorevoli e contrari, poiché siamo tutti contro la violenza, ma arrivare al nocciolo delle ragioni e delle cause che la sca-tenano, perché non si troverà alcuna soluzione alla violenza se non se ne affrontano le cause. E quando si parla delle cause, si tratta anche di definire il concetto di violenza. Un ordine economico che provoca mezzo milione di morti ogni due giorni, che produce fame e miseria in tutto il Sud del mondo, e perfino nelle nostre società attraverso la disoccu-pazione, un ordine del genere è a tutti gli effetti un ordine violento. Quando si parla della violenza che uccide innocenti, donne e uomini che non hanno fatto niente di male, è chiaro che un ordine così è violento. Se a ciò aggiungiamo che vi sono politici europei (tu hai parlato degli Stati Uniti, ma anche in Europa ci sono Stati che sostengono i regimi

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dittatoriali del Sud del mondo) che hanno motivato la partecipazione a guerre attraverso la menzogna, il quadro si rivela ancora più allarmante, giacché oggi si parla della Siria ma non ci sarebbe la Siria sul tappeto se prima, all’inizio degli anni Novanta, non ci fosse stato l’Iraq, una guerra scatenata da una colossale menzogna dell’amministrazione Bush sull’esistenza delle armi di distruzione di massa; non ci sarebbe la Siria se non ci fossero stati gli interventi francesi in Africa, o quelli degli Stati Uniti in tutto il mondo, e specialmente in America Latina…

Bisogna riposizionare il concetto di violenza all’interno di un ordine mondiale che di per sé è violento, voluto da politici che sono di per se stessi violenti, che uccidono le persone. Non è corretto estrapolare dal suo contesto, con l’ausilio dei media, una manifestazione di violenza e dire: ecco dov’è la violenza! Certo che questa è violenza, certo che dev’essere condannata, ma bisogna farlo insieme a tutti gli altri ordini di violenza. Ad esempio quella economica, che uccide senza armi, ma anche quella che lo fa con le armi come in Iraq, nello Yemen o in Nicaragua. Bisogna affrontare la questione degli ordini e poi quella delle ragioni, e comprendere, non giustificare, che in certe società, soprattutto in quelle del Sud del mondo, la violenza è, molto spesso, una forma di resistenza a un tipo di ordine altrettanto violento. Bisognerebbe capire che non