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IL MONDO E I LUOGHI: GEOGRAFIE DELLE IDENTITÀ E DEL CAMBIAMENTO a cura di Giuseppe Dematteis e Fiorenzo Ferlaino IRES PIEMONTE ISTITUTO DI RICERCHE ECONOMICO-SOCIALI DEL PIEMONTE

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IL MONDO E I LUOGHI:GEOGRAFIE DELLE IDENTITÀ

E DEL CAMBIAMENTO

a cura di Giuseppe Dematteis e Fiorenzo Ferlaino

IRESPIEMONTE

ISTITUTO DI RICERCHE ECONOMICO-SOCIALI DEL PIEMONTE

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L’IRES PIEMONTE è un istituto di ricerca che svolge la sua attività d’indagine in campo socio-economico e territoriale, fornendo un supporto all’azione di pro-grammazione della Regione Piemonte e delle altre istituzioni ed enti locali piemontesi.Costituito nel 1958 su iniziativa della Provincia e del Comune di Torino con la partecipazione di altri enti pubblici e privati, l’IRES ha visto successivamentel’adesione di tutte le Province piemontesi; dal 1991 l’Istituto è un ente strumentale della Regione Piemonte.Giuridicamente l’IRES è configurato come ente pubblico regionale dotato di autonomia funzionale disciplinato dalla legge regionale n. 43 del 3 settembre1991.

Costituiscono oggetto dell’attività dell’Istituto:– la relazione annuale sull’andamento socioeconomico e territoriale della regione;– l’osservazione, la documentazione e l’analisi delle principali grandezze socioeconomiche e territoriali del Piemonte;– rassegne congiunturali sull’economia regionale;– ricerche e analisi per il piano regionale di sviluppo;– ricerche di settore per conto della Regione Piemonte e di altri enti.

© 2003 IRES – Istituto di Ricerche Economico-Sociali del Piemonte via Nizza 1810125 TorinoTel. 011.66.66.411, fax 011.66.96.012

Iscrizione al Registro tipografi ed editori n. 1699, con autorizzazione della Prefettura di Torino del 20/05/1997

ISBN 88-87276-45-6

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Indice

V

INTRODUZIONE

Giuseppe Dematteis, Fiorenzo Ferlaino p. VII

PARTE PRIMA

SESSIONE IIMMAGINI E IDENTITÀ TERRITORIALI

IMMAGINI E IDENTITÀ TERRITORIALI p. 3Claude Raffestin

LA RAPPRESENTAZIONE IDENTITARIA DEL PATRIMONIO TERRITORIALE p. 13Alberto Magnaghi

SOCIOTOPIE: ISTITUZIONI POSTMODERNE DELLA SOGGETTIVITÀ p. 21Angelo Turco

SESSIONE IICOMPETITIVITÀ DEI LUOGHI

TECNOLOGIA, STRATEGIE AZIENDALI E ORDINE TERRITORIALE p. 35Michael Storper

VANTAGGI COMPETITIVI E SVILUPPO LOCALE. TRASFORMAZIONI E IDENTITÀ TORINESI p. 45Sergio Conti

IL YA A DU MONDE ICI p. 59Jacques Levy

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SESSIONE IIIRAPPRESENTARE E PROGETTARE IL TERRITORIO

PER UNA CRITICA RAGIONATA E RAZIONALE DELLA RAPPRESENTAZIONE DEI TERRITORI p. 67Roger Brunet

RAPPRESENTARE E REGGERE: LE REGIONI NEGATE p. 77Pasquale Coppola

IL PROGETTO E IL SUO PUBBLICO. A PROPOSITO DEL PROGETTO DI ESPOSIZIONE NAZIONALE SVIZZERA DEL 2001 p. 85Ola Söderström

PARTE SECONDA

LA DISCUSSIONE

IL TERRITORIO COME PRODUTTORE DI CONOSCENZE p. 91Cristiano Antonelli, Arnaldo Bagnasco, Giuseppe Dematteis, Fiorenzo Ferlaino, Riccardo Roscelli, Franco Salvatori, Gabriele Zanetto

NOVAE TERRAE p. 115

Marcello La Rosa

SISTEMI INFORMATIVI GEOGRAFICI (GIS)

I MONDI E IL LUOGO. RICERCA GEOGRAFICA E SISTEMI INFORMATIVI GEOGRAFICI p. 119Vincenzo Guarrasi

L’ESPERIENZA

ASPETTI DEL PAESAGGIO AGRARIO DEL ROERO E DELLA LANGA ALBESE p. 131Roberto Ajassa, Bortolo Franceschetti

APPENDICE A - SELEZIONE DEI LAVORI DEI GIOVANI RICERCATORI

I sistemi locali territoriali fra cambiamento delle forme di territorialità e territorializzazione dell’azione collettiva (Francesca Governa) p. 143

Dall’industria alla telematica: la rete interistituzionale del Vùlture-Melfese. Localismo e modernizzzazione in Basilicata (Italo Iozzolino) p. 151

Mappe effimere. Effetti urbani di un’esposizione nazionale (Marco Picone) p. 161

L’influenza del dialogo tra sapere tecnico e sapere comune in un contesto reale di pianificazione (Paola Pittaluga) p. 169

Sistemi culturali locali. Territorialità e patrimonio culturale in un sistema storico di piccola impresa (Ignazio Vinci) p. 179

APPENDICE B - IMMAGINI p. 189

APPENDICE C - IMMAGINI “NOVAE TERRAE” p. 217

VI

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VII

Introduzione

Giuseppe Dematteis, Fiorenzo Ferlaino

Perché un convegno

Questo volume raccoglie gli atti del convegno “Il mondo e i luoghi: geografie delle identità edel cambiamento”, organizzato a Torino dall’IRES Piemonte, dalla Società Geografica Italiana edal Dipartimento Interateneo Territorio del Politecnico e dell’Università di Torino.

Nella presentazione del convegno si indicava come obiettivo “il recupero di un sapere geo-grafico applicato ai problemi attuali della società, della politica e dell’economia”. La parola “re-cupero” sembra suggerire che il sapere geografico tradizionale si mostri ormai inadeguato difronte alla rapidità del cambiamento. Premesso che questo si può dire di tutti i saperi che la mo-dernità ci ha trasmesso, si deve ammettere che la geografia, come disciplina codificata tra il XIXe il XX secolo, incontra oggi particolari difficoltà a mantenere il ruolo che, pur con alti e bassi,ha svolto durante duemila anni di evoluzione della cultura occidentale. Dal pinax di Anassiman-dro, alla Geografia di Tolomeo, all’Imago mundi di Pierre d’Ailly, al Kosmos di Humboldt, finalle geografie universali di Reclus e di Vidal de la Blache, questo compito è sempre stato quellodi darci una rappresentazione multiscalare della superficie terrestre. Lo scopo: informarci suicontenuti, sull’ordine e il senso di uno spazio in cui, assieme agli altri, viviamo e ci muoviamo.Dunque una rappresentazione capace di soddisfare certe esigenze mentali comuni a tutti: mer-canti, guerrieri, filosofi, letterati, politici, pellegrini, sognatori sedentari, ecc. E anche tale da es-sere largamente compresa, accettata e condivisa.

Paradossalmente, la geografia, che nasce e si sviluppa per rispondere a questa esigenza di mo-bilità universale, entra in crisi negli ultimi decenni, quando tale mobilità assume un’accelerazio-ne e una generalizzazione straordinarie, al punto da modificare la nostra percezione dello spa-zio terrestre. Il vicino (noi) e il lontano (gli altri) s’intrecciano e si confondono. L’ordine spazia-le delle cose e delle popolazioni, che si fondava sulla prossimità dei luoghi e sulla presunta sta-bilità dei rapporti, è sempre meno evidente. Quello che la geografia ci faceva vedere come unmosaico sensato di luoghi sta diventando un caleidoscopio in continuo movimento.

Altrettanto paradossalmente, la recente riscoperta del valore dei singoli luoghi, delle loro speci-ficità e identità può non aiutare affatto la geografia, perché, come dice l’etimologia della parola,essa consiste nel collocare i luoghi in uno spazio che si articola su diverse scale, fino a quella plane-taria. Se la geografia descrive i luoghi – e non può evitare di farlo – è anzitutto per raccontarci laposizione che occupano, le relazioni che li legano ad altri luoghi e come le loro proprietà intrinse-che assumano aspetti e valori diversi in questo spazio di relazioni. Da sempre la geografia non è unsemplice catalogo di oggetti, ma è la costruzione di uno spazio, cioè di un insieme di relazionid’ordine transcalari tra oggetti localizzati: un sistema complesso che arriva fino al livello globale.

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Di qui un altro paradosso ancora: la crisi del-le rappresentazioni tradizionali del più globa-le dei saperi deriva da un cambiamento che vasotto il nome di “globalizzazione”.

L’idea del convegno è nata appunto dalla ne-cessità – non solo per i geografi – di riflettereintorno a questi paradossi e a queste tendenzecontradditorie. Infatti, se da un lato esse inde-boliscono la forza che il discorso geografico haavuto nel passato, non eliminano l’esigenza dacui esso deriva, quella di costruire una cono-scenza e un senso comune del nostro spazio divita. Quale nuova geografia può oggi rispon-dere a questa esigenza?

Per saperlo non bastava fare una critica dellerappresentazioni geografiche tradizionali, oc-correva anche capire perché esse si mostrinooggi, almeno in parte, inadeguate. Quindi: co-me è cambiata la domanda di immagini e di di-scorso geografico e perché? Quesito a sua vol-ta strettamente legato a un’altro: come sta cam-biando il nostro rapporto con lo spazio, daquello dei luoghi a quello dell’intero pianeta?

Gli interventi qui raccolti danno alcune ri-sposte a questi interrogativi. Nella prima ses-sione si è cercato di capire come si presentaoggi quel complesso rapporto spaziale con lecose e con gli altri, che va sotto il nome di “ter-ritorialità”. Nella seconda sessione il mutaredi tale rapporto è stato messo in relazione conle trasformazioni indotte dai processi della glo-balizzazione tecnologica ed economica e inparticolare con la spinta verso una crescentecompetitività dei luoghi. Su queste basi si è poiaffrontato, nella terza sessione, il problemadella rappresentazione dei territori, della suanatura performativa e quindi delle politicheche essa mette in atto. A questo punto si è in-serito il resoconto di una tavola rotonda in cui,con apporti di discipline ed esperienze diver-se, si è discusso di quello che oggi si presentacome un nodo strategico delle connessioni tralocale e globale: il ruolo del territorio nellaproduzione di conoscenza. Successivamente èstato ospitato un interessante intervento dedi-cato alle modalità odierne della rappresenta-zione geografica, in particolare ai SistemiInformativi Geografici (GIS) e all’analisi inter-pretativa delle trasformazioni territoriali loca-li. Il volume contiene infine alcuni interventi,selezionati tra quelli presentati al convegno, di

cinque giovani e promettenti ricercatori: unodi Francesca Governa sui sistemi locali terri-toriali nelle dinamiche della territorialità; unodi Italo Iozzolino sul mix di confluenze tra ilruolo posizionale e l’“occasione” del terremo-to nello sviluppo del sistema territoriale delVùlture-Melfese; uno di Marco Picone sul ruo-lo svolto dall’esposizione nazionale di Paler-mo del 1891 nel cambiamento dell’orienta-mento urbanistico della città; uno di Paola Pit-taluga che illustra l’interessante esperienza dipianificazione partecipata intorno al piano ur-banistico comunale di Seulo, nel Gennargen-tu; infine il lavoro di Ignazio Vinci sul concet-to di “sistema culturale locale” applicato al si-stema produttivo dell’area di Marsala. A que-sti lavori, che riprendono le tematiche del con-vegno si aggiunge, in modo non marginale, larelazione di Roberto Ajassa e Bortolo France-schetti sugli “Aspetti del paesaggio agrario delRoero e della Langa Albere”, che illustra altempo stesso una metodologia di analisi e l’a-rea visitata dai convegnisti nell’escursione po-stcongressuale.

Immagini e identità territoriali

Claude Raffestin ha avviato la riflessione sultema “Immagini e identità territoriali”, argo-mento della prima sessione. “Identitas – ci diceRaffestin – appartiene allo stesso spazio seman-tico di ‘tautologia’, è una relazione circolare,segno, almeno fino al XVIII secolo, di ciò cheè permanente, uguale a sé stesso, simile”. So-cialmente significa “non trasgredire i limiti de-finiti dalla comunità alla quale si appartiene inquanto la trasgressione suscita il caos, che è perdefinizione perdita di identità”. Pertanto l’i-dentità non è solamente uno stato, ma soprat-tutto un processo per rendersi simili e nel qua-le lo spazio, il tempo, il lavoro e la memoria so-no gli elementi portanti. Essendo un processoessa si decostruisce e si ricostruisce nel tempo,o meglio, attraverso il tempo, pertanto non vi èun’identità, ma un susseguirsi di identità che“lasciano delle tracce materiali o immateriali”.

Il processo non è differente dalla ricomposi-zione territoriale, che avviene attraverso la ter-ritorializzazione, deterritorializzazione e riter-ritorializzazione, ma i tempi, la “latenza”, so-

INTRODUZIONEVIII

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no diversi. Quando entra in scena il territoriooccorre ragionare partendo da relazioni trian-golari tra identità, linguaggio e territorio doveil linguaggio gioca il ruolo di mediatore tem-porale. Raffestin elabora quindi una riflessio-ne ricca dell’interfaccia lingua-territorio pro-ponendo un territorio del quotidiano, un ter-ritorio degli scambi, un territorio di riferimen-to e un territorio sacro, mentre per quantoconcerne la lingua distingue una lingua verna-colare, una lingua veicolare, una lingua di rife-rimento e una lingua sacra. Le immagini en-trano come maschere di questa interfaccia inmodo estremamente dinamico e l’anamorfosiidentitaria è in perpetua evoluzione. Chi puòignorare, si chiede, il fatto che i luoghi hannonumerose volte cambiato toponimo attraversola storia?

Alberto Magnaghi, riprendendo la riflessio-ne sulle immagini, le quali in qualche modomentono, poiché estrapolano alcuni elementidel territorio ingigantendoli o occultandoli,evidenzia come esse possano tuttavia “essereimmagini celebrative di valori territoriali e am-bientali utili nei processi di autoriconoscimen-to e di cura del territorio da parte degli abitan-ti; e per favorirne i processi di reidentificazio-ne con i luoghi”. In questa utilità Magnaghi in-travede la risposta al processo di deterritoria-lizzazione contemporanea. Il programma chepropone è chiaro: se si ritiene la deterritoria-lizzazione in atto una via insostenibile alloraoccorre riguardare ai luoghi e alle immaginiche ne celebrano la rinascita come “soggettimoribondi, ma purtuttavia viventi, reali, concui i nuovi abitanti, per sopravvivere, nellepause dei loro viaggi nel ciberspazio, dovran-no prima o poi intrattenere un rapporto di cu-ra e di valorizzazione”. La valorizzazione èpossibile attraverso la ricerca delle invariantistrutturali, che rimandano ad una lettura inchiave identitaria e patrimoniale anziché inchiave funzionalista. Solo così “la ricerca sul-l’identità dei luoghi perde il suo sapore ar-cheologico, museale, divenendo ricerca sul fu-turo possibile dell’insediamento umano”. Equesto è possibile attraverso una metodologiache correli alla descrizione fisico-geografica (isistemi ambientali, i caratteri morfotipologici,le strutture territoriali e urbane di lunga dura-ta, le invarianze, le persistenze, i sedimenti ma-

teriali), la geografia socioeconomica (i modellisocioculturali di lunga durata, i milieu, i sape-ri e i modelli produttivi, i sedimenti cognitivi),e infine la geografia politica (gli attori del cam-biamento, la città insorgente, il processo diformazione di nuove identità e aggregati co-munitari). Un percorso che non può risolversiin una serie di cartografie ma piuttosto in unipertesto, un sistema informativo complesso,che comprende il racconto, la testimonianza,la storia, la cartografia, ecc.

Angelo Turco nel trattare le problematicheinerenti l’identità pone l’accento sull’ethosdella soggettività “che se da un lato rispondeallo sgretolamento delle identità collettive,rappresenta altresì la risorsa focale per la lororicostituzione”. Dopo aver affrontato le con-dizioni culturali della soggettività, “vale a direquelle che potremmo chiamare le rappresen-tazioni sociali dell’individuo”, le condizionieconomiche, cioè tutto quello che ha a che fa-re con le risorse “che rendono possibile l’agireo le diverse modalità (alternative) dell’agire”,nonché le condizioni politiche della soggetti-vità inerenti le problematiche del potere e delsuo esercizio, Turco si sofferma a trattare lecondizioni geografiche della soggettività attra-verso un percorso analitico che lo porta a con-cepire l’identità come un’impresa narrativa. Inquesta impresa il soggetto “si autorappresentacome il protagonista di una storia” che resti-tuisce il passato come sequenze di eventi, at-traverso la memoria, e che prefigura il futuro,per mezzo di progetti.

Il racconto tuttavia non è statico, definitouna volta per tutte: “la combinatoria infinita-mente plastica delle pratiche, l’impianto ora ra-zionale ora allegorico dei materiali narrativi,l’intreccio inesauribile delle vicende che inte-ragiscono tra loro in modo sempre nuovo e sor-prendente offrono al protagonista della storianon già la possibilità di aggiungere ad un librogià scritto capitoli inediti, ma quella di riscrive-re continuamente quel libro, facendone, percosì dire, un testo perpetuo”; un testo che nonpuò che costruirsi in una relazione intima delsoggetto con il “luogo”, la quale diviene socio-topia quando si fuoriesce dall’esperienza indi-viduale per immettersi in quella collettiva,quando dal soggetto si passa all’attore sociale.

Il concetto di sociotopia esprime una cate-

INTRODUZIONE IX

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goria sintetica in grado di inglobare la normae la condotta sociale, gli spazi di autoricono-scimento collettivo e i “luoghi della memoria”,nonché le pratiche relazionali e l’interazionefisica e simbolica del soggetto con altri sogget-ti e con lo spazio. La sociotopia è pertanto unospazio pubblico ma anche qualcosa che si co-struisce dal basso, “come formazione geogra-fica nella quale si formula, si negozia, si defini-sce la legittimità”. Problematiche quali quellerelative allo sviluppo sostenibile, al rapportotra locale e globale e ai processi di costruzionedi realtà sopranazionali, come l’Unione Euro-pea, necessitano, per essere durevoli, di pro-cessi di legittimazione continui e quindi di in-cessanti postulazioni, critiche, negoziazioni.In tutto ciò si esplicitano la forza ma anche irischi della sociotopia entro cui può annidarsiuna deriva identitaria distruttiva, lacerante,del territorio e della società. Il richiamo ad“una militanza intellettuale decisa a preserva-re l’integrità del soggetto e, con essa, la profon-dità morale dei luoghi della nostra vita” appa-re centrale e interessa la geografia in quantoespressione di quei luoghi, di quei soggetti.

Competitività dei luoghi

La seconda sessione, dedicata alla “Compe-titività dei luoghi” si è sviluppata a partire dal-le riflessioni di Michael Storper (che non hapotuto essere presente al convegno ma cheaveva inviato il testo della sua relazione conlargo anticipo) sul rapporto tra tecnologie,strategie aziendali e ordini territoriali. La ri-flessione di Storper ha il grande merito di evi-denziare come il concetto di globalizzazionenon sia univoco e abbia sullo sfondo strategieaziendali differenziate che incidono sui terri-tori in modo diverso in base ai livelli di apertu-ra e di chiusura della varietà in tecnologie e tec-niche. Il concetto di varietà è centrale in quan-to esprime il dilemma in cui si trova ad opera-re un’impresa: “le imprese cercano di aprirsialla varietà per trarre vantaggio da quasi ren-dite, e si imitano, quindi si chiudono alla va-rietà, per comprimere i costi e ampliare i loromargini prezzo-costo”. La globalizzazione èquindi il processo di eliminazione della va-rietà, mentre essa cresce “con le specializza-

zioni settoriali e subsettoriali (prodotti o grup-pi di prodotti) delle nazioni e delle regioni”.

Storper individua quattro modelli d’azionee di organizzazione. Il primo, che definiscelean management I (“gestione snella I”) ponel’accento sulla limitazione dei costi fissi permezzo del subappalto o l’acquisto di quoteazionarie, “dove l’impresa capofila mantieneil controllo sulla proprietà intellettuale, i mar-chi, il marketing e talvolta le fasi finali dellapreparazione dei prodotti”.

Il secondo modello, detto lean managementII (“gestione snella II”), pone l’accento sui co-sti di produzione interni attraverso “un’orga-nizzazione decentrata al suo interno” e l’uti-lizzazione di forme di autonomia delle unitàoperative.

Le altre due forme di strategia aziendale nonsono invece orientate alla riduzione dei costi,ma alla massimizzazione delle sinergie. Nel ca-so della managed coherence I (“coerenza gestio-nale I”), l’impresa trae vantaggio dalle econo-mie di scala, mentre in quello della managedcoherence II (“coerenza gestionale II”) traevantaggio dalla fedeltà e reciprocità tra i mem-bri costituenti una filiera o una rete di transa-zioni, a livello economico e informativo. Le im-prese lean management possono sopravviveresoltanto su territori che offrano loro le condi-zioni che corrispondono alle loro strategie diabbassamento dei costi, per mezzo di deloca-lizzazione o di flessibilità. La risposta dei terri-tori e dello stato, ad esempio nell’Europa con-tinentale, è quella di rendere la fuoriuscita piùonerosa dei relativi benefici. Una risposta cheStorper ritiene non adeguata ai tempi, che ri-chiedono invece, come avviene ad esempio nel-le aree di distretto del NEC in Italia, “un insie-me di fedeltà territoriale e flessibilità, necessa-ria per l’innovazione e la regolazione e ora par-zialmente internalizzati a livello territoriale”. Ilprocesso è chiaro: meccanismi di “voice” e difedeltà, alto livello di flessibilità, esistenza diuna comunità industriale in accordo con istitu-zioni regionali, che, attraverso patti, esternaliz-zi certe risorse necessarie. Questo è il modellodel futuro, che richiede un nuovo ordine terri-toriale il quale va costruito “simultaneamente,sinergicamente, dal basso verso l’alto, nelleaziende e nelle collettività, nei parlamenti e ne-gli ambienti intellettuali di tutto il mondo”.

INTRODUZIONEX

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Sergio Conti pone al centro della sua rifles-sione la questione della produzione di cono-scenza, sottolineando come la ricerca di unasoluzione ai problemi posti dall’incalzare del-la competizione non si ritrova più nella ricercaesogena della tecnologia o dei metodi di pro-duzione “migliori”. Se una soluzione c’è, essadev’essere ricercata, al contrario, internamen-te alla regione stessa, nella capacità di coordi-namento fra produttori e acquirenti, istituzio-ni e altri attori locali. Il recente successo di al-cune regioni in Europa (per esempio, il Gal-les, la Rühr, la Westfalia, il Baden Württen-berg, la regione Lionese e la Catalogna), nonva ricercato nell’adesione alle tecnologie glo-bali e di avanguardia (biotecnologie, semicon-duttori, aeronautica, software, ecc.) ma piut-tosto nella “riqualificazione di risorse tecnolo-giche storicamente radicate dell’economia del-la regione”, che quindi “ribadiscono” compar-ti già esistenti attraverso strategie reticolari (diassistenza tecnologica e finanziaria, incorag-giando l’interazione fra attori, imprese, fra im-prese e istituzioni, fra istituzioni diverse) voltealla creazione di capitale sociale. Tutto ciò pre-suppone l’esistenza di “istituzioni fortementeinterventiste [...] capaci di stimolare la forma-zione di gruppi di interesse che condividonoun orizzonte normativo, una comune agendapolitica”. Qui emergono il ruolo regionale (lo-cale), quale “scala maggiormente appropriataper il perseguimento di strategie di coordina-mento e valorizzazione delle risorse localizza-te”, e il ruolo, centrale, della conoscenza e del-l’apprendimento, sia nella sua forma “esplici-ta”, ufficiale, codificata ed elaborata dai gran-di centri di ricerca, sia nella sua componente“tacita”, “tradizionalmente radicata nelle retisociali e culturali che costituiscono un sistemalocale”. Il successo economico e l’innovazionesi fonderanno sull’interazione e la reciprocitàdi questi due tipi di conoscenza che costitui-scono la base su cui definire i vantaggi compe-titivi di un sistema locale.

Conti passa poi a valutare, in questo quadroconcettuale, la posizione del sistema manifat-turiero torinese, anticipando risposte alla cri-si-trasformazione che lo attraversa. Risposteche si rivelano quanto mai complesse e artico-late nel passaggio, nel giro di un ventennio, dauna posizione di one-company-town fordista

ad una crescente diversificazione settoriale:“Sotto questa luce, il ‘vantaggio sostenibile’del sistema torinese, che giace peraltro sui fon-damenti della sua storia industriale, è un insie-me complesso di specializzazioni, di tecnolo-gie, di comportamenti (collaborativi e compe-titivi), di istituzioni”.

Conti individua alcune classi di sistemi loca-li di creazione del valore, tra cui spiccano la vei-colistica, il sistema dei beni strumentali, il de-sign e progettazione, l’aerospazio, il sistemainnovativo delle telecomunicazioni, e quellodella stampa e arti grafiche. Ad essi vanno adaggiungersi due sistemi di supporto: “il primo,‘avanzato’, fa riferimento all’elettronica e aiservizi specializzati; il secondo, più tradiziona-le, comprende la meccanica e la lavorazione digomma e plastica”. Ne deriva un modello or-ganizzativo nuovo, in cui “il centro può igno-rare le periferie e viceversa”, e che vede la na-scita di focolai autonomi di sviluppo, alimen-tati “sia dalle relazioni orizzontali di rete (conaltri poli), sia dalle relazioni verticali tradizio-nali con il retroterra locale”. Sul piano dell’a-zione politica la “nuova” articolazione dellospazio produttivo “non prefigura ipotesi di in-tervento radicali ‘dall’alto’, né la riproposizio-ne di immagini più o meno ‘nostalgiche’ […]ma richiede azioni e interventi, là dove si evin-cono le potenzialità, per consolidare relazionivirtuose e generare per questo forme di valo-rizzazione territoriale”.

Jacques Levy percorre, ed estende, il “filrouge” tracciato dagli interventi precedentinegando con forza l’isotopia spaziale che talu-ni vedono nel processo di globalizzazione: “lospazio mondiale di oggi nel suo insieme assu-me l’aspetto di una rete, i cui apici sono costi-tuiti da luoghi forti” e pertanto la mobilità delmondo contemporaneo, il “nomadismo” deisuoi capitali, deve essere visto “non come l’an-titesi dell’esistenza dei luoghi, ma al contrariocome una forza determinante della topogene-si”. La mondializzazione quindi non cancellail ruolo decisivo delle localizzazioni, ma piut-tosto valorizza certi luoghi e ne “devalorizza”altri facendo emergere nuove individualità,patrimoni accumulati e latenti legati alla posi-zione relativa del luogo. Espressione di tuttociò è in economia la riscoperta del distretto in-dustriale marshalliano, per lungo tempo cate-

INTRODUZIONE XI

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goria silente e abbandonata: è il concetto di“milieu innovateur” “che crea la specificità diun bene situato e definisce gli eventuali van-taggi comparativi”. La mondializzazione,quindi, non deve essere vista come una distru-zione dei luoghi, ma come “una topogenesi,una fabbrica dei luoghi” messa in atto dallamobilità che ci fa apprezzare differenze e cirende immuni allo stupore attraverso il rico-noscimento delle somiglianze delle piazze, del-le parrocchie, degli stili dei luoghi.

Secondo Levy la competitività di un luogo sipuò misurare in due modi ben distinti: “si puòprendere in considerazione la sua capacità didiffondersi all’esterno […] oppure si può con-siderare la capacità di attrazione, di polarizza-zione, di installazioni di origine esterna”. Lacombinazione del territorio con la macchinaproduttiva esistente dà luogo a situazioni geo-grafiche molto variabili, dove possono domi-nare: “la ‘chiusura difensiva’ (difendiamo le‘nostre’ imprese, impedendo agli altri di en-trare), l’‘apertura rassegnata’ (di fronte al falli-mento delle nostre imprese, diamo loro qual-che possibilità con gli stranieri), l’‘aperturadissimetrica’ (investiamo all’estero proteggen-do le nostre basi di partenza), l’‘apertura ge-neralizzata’ (usciamo e lasciamo entrare)”. Etutto ciò è generatore di luoghi: delle piazzeborsistiche “teste di rete” (New York, Londra,Francoforte, Tokyo, ecc.), sempre più poten-temente impegnate nella concorrenza tra loroe con altre piazze alternative, di alcuni quar-tieri delle grandi città sede di nuove impresetelematiche e di servizi: “dopo la Silicon Val-ley (la periferia sud di San Francisco), emergeuna ‘Silicon Alley’ intorno a Broad Street e asud di Broadway a Manhattan, mentre si iniziaa parlare di un ‘Silicon Sentier’ in un quartiereparigino”. I “non luoghi” di Marc Augé (aero-porti, periferie, ecc.) in questo senso non esi-stono: “più la mondializzazione si diffonde sututto il pianeta, più troviamo allo stesso tempoe sempre più, il mondo qui”.

Rappresentazione e progettazione delterritorio

Roger Brunet ha introdotto l’argomentodella terza sessione intorno al tema della “Rap-

presentazione e progettazione del territorio”.Dopo aver esposto le diverse implicazioni chesottostanno al processo di “globalizzazione”Brunet arriva ad una conclusione non sconta-ta: “vi sono nell’insieme maggiori differenzeda un certo numero di anni, tra le varie partidel mondo”. Sono soprattutto differenze so-ciali e locali, mentre diminuiscono le differen-ze geografiche tradizionali. E questo processopone nuovi problemi di scala al geografo: “og-gi per capire meglio il mondo come sistemadobbiamo lavorare su scala mondiale e dob-biamo lavorare nel contempo su scala locale,all’interno della città […]”. Come rappresen-tare le differenze e le organizzazioni spaziali,la differenziazione dei luoghi e la loro disposi-zione spaziale? Come rappresentarne le rela-zioni, le appartenenze e quindi la loro confi-gurazione e le forme di appropriazione dei ter-ritori, come cioè esprimere lo spazio sociale?

Il geografo oggi dispone di strumenti in gra-do di rispondere a tutto ciò attraverso figurediverse: dell’“appropriazione”, degli “anelliterritoriali”, dell’“aggregazione” e “segrega-zione”, della “gravitazione”, del “centro-peri-feria”, dei “camminamenti”, delle “reti”, della“rottura” e del “taglio”, della “conquista” edel “disimpegno”, ecc. Si dispone cioè di uninventario ricco che innova e riafferma la cartageografica in quanto strumento prezioso e in-sostituibile che ha in sé valenze non riscontra-bili con altri mezzi. La carta “possiede il gran-de vantaggio di essere sinottica, di mostrare iluoghi e la loro disposizione”, può essere “te-matica” ed esprimere fatti, può rendere visibi-le l’invisibile e quindi essere strumento di sco-perta (la proprietà fondiaria, il reddito, gli in-dicatori sulla salute, certi comportamenti,ecc.), può inoltre mostrare l’organizzazionesoggiacente, le correlazioni, ed essere elemen-to di comprensione di processi e di dinamiche.

In questa “presa di coscienza” si attua unprocesso di “interiorizzazione della specificitàdel territorio” che costituisce la ricerca stessadell’identità attraverso “forme di appropria-zioni del territorio”. L’organizzazione dellospazio e il sistema territoriale che sono alla ba-se di tali processi possono essere espressi, co-me suggerisce Brunet, per mezzo di “un pic-colo numero di figure” che il geografo puòrappresentare. Fuori da questo ambito di per-

INTRODUZIONEXII

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tinenza il geografo “non può dire niente” e “al-tri specialisti di scienze umane sono più capa-ci dei geografi nell’analisi delle rappresenta-zioni individuali o collettive”.

Un altro aspetto occorre infine considerare:“se queste rappresentazioni di cui parlo, que-ste rappresentazioni geografiche hanno unagrande capacità euristica, la loro capacità diprevisione mi pare resti limitata”. I geografi la-vorano su dati e fatti già avvenuti e quindi èimpossibile o azzardato prevedere i compor-tamenti degli attori nel futuro. Tuttavia più dialtri possono prendere qualche rischio inquanto lavorano su organizzazioni spaziali che“hanno una certa permanenza”, relativamentestabili. Ma lo scopo scientifico e ultimo dellecarte è quello di mostrare, di chiarire, di “gio-care a carte scoperte, contrariamente a certiatteggiamenti esoterici, e condividere il nostrosapere, non soltanto con gli uomini politici e idecisori di organismi di pianificazione del ter-ritorio, ma con i cittadini e le associazioni chesono in grado di dare anche il loro punto di vi-sta”, come dimostrano molti esempi che infi-ne passa a illustrare.

La risposta di Pasquale Coppola è stata for-temente critica: la cartografia non è neutrale,ma è impregnata di cultura, di uno sguardo, diuna metafisica che è espressione di egemoniee di subalternità: “Ben mezzo secolo prima deicannoni di Lepanto […] nella sontuosa carto-grafia allestita per Solimano il Magnifico s’in-cunea il seme della sconfitta, il riconoscimen-to della forza operativa dello sguardo che dalNord domina il Mediterraneo”.

Questa “forza culturale, politica e sociale delpunto di vista” si ripropone intatta e uno degliesempi lampanti è proprio offerto dalla “dor-sale europea” della DATAR-Reclus, e quindi diBrunet, rappresentata alla fine degli anni ot-tanta e ribattezzata dalla stampa francese “ba-nana blu” che traduce “una particolare visio-ne dell’Europa, costruita intorno all’asse poli-tico franco-tedesco e all’ampia sfera d’interes-si economici che lo sostanziano”. Sulla visionenordcentrica si impernia allora una visione po-litica e una centralità rappresentativa ed ege-monica della nuova Europa.

L’invenzione dell’Arco atlantico è un altromagistrale esempio di ridisegno che tradisceun punto di vista essenzialmente francese in-

torno al “TGV Atlantique” che dalla scala re-gionale vuole proporsi come infrastruttura direspiro continentale. Un ridisegno costruitosu “un ‘corema’ improbabile e al tempo stessointrigante come l’Arco atlantico, uno spazioche appare aggregato per la prima volta pro-prio nei documenti DATAR e che accosta regio-ni assai differenti tra loro per livelli dei reddi-ti, contesti economici, potenziali demograficie urbani”.

Così come improbabile appare la partizionedel “Mediterraneo centrale”, costruita su ter-ritori periferici, di risulta, “marginali rispettoai fulcri della lettura renocentrica”.

A tali rappresentazioni non si contrappone,soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno d’I-talia, alcuna interpretazione strategica del ter-ritorio, che invece “evapora” in documenti diprogrammazione privi di qualsiasi senso terri-toriale “che non sia una trita ed episodica let-tura dell’esistente”. Il dramma si riproponenella mancanza di sintesi alla scala intermedia“cioè a quel livello che sopravanza il locale mache talora riesce a scavalcare anche la dimen-sione nazionale”, espressione di un consape-vole disegno di cambiamento, di governo, diintervento strategico, di “un insieme coeso diattori sociali che abbia voluto imprimere ner-bo strategico a tale conoscenza, e – prima an-cora – abbia saputo acquisire piena consape-volezza geopolitica del proprio territorio, tra-sformandola in reale prassi di governo”.

Ola Söderström, attraverso la descrizionedei processi “in fieri” e degli attori dell’esposi-zione nazionale svizzera “Expo.02”, giunge aduna definizione dinamica e sociologica delprogetto e della rappresentazione, che si espli-cita come portato di successive mediazioni:“rappresentare è sempre creare portavoce, ela-borare un terzo enunciatore, designare un de-legato. In tutte queste strategie di rappresen-tazione si trova la stessa procedura”. Non esi-ste una rappresentazione ma piuttostoun’“economia della rappresentazione”. Ciò si-gnifica “descrivere il gioco che si stabilisce tratutte queste mediazioni – la perizia tecnica, leimmagini del progetto, la parola delle persone‘autorizzate’, ecc., piuttosto che fermarsi aduna sola di queste”. Si va quindi oltre la semio-tica elementare per entrare in un campo pluri-disciplinare, sociologico, politico, economico,

INTRODUZIONE XIII

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che pesca da teorie spesso diverse, dell’attore-rete, della teoria della giustificazione, ecc., eche restituisce ruoli, giochi, situazioni: “è ladiversità dei legami che stabiliscono le rappre-sentazioni tra gli attori e il pubblico di un pro-getto, che i nostri linguaggi di analisi devonopermettere di rendere intelleggibili”. La plu-ralità dei linguaggi e delle prospettive discipli-nari deve concorrere a forgiare i mezzi creativicapaci di sviluppare un’“economia politicadella rappresentazione”.

Territorio come produttore di conoscenza

In apertura della tavola rotonda, CristianoAntonelli avanza un’ipotesi che contrasta conla visione di crescente indifferenzialità dellospazio là dove si parla di innovazione: “la con-centrazione regionale dell’attività innovativa èstraordinaria e addirittura crescente”. Qual èil meccanismo che favorisce l’agglomerazio-ne? Per un economista “ci sono significativirendimenti crescenti nella produzione di co-noscenza tecnologica che sono riconducibilialla categoria delle economie esterne, e sonofortemente circoscritti in aree territoriali mol-to delimitate”. Esistono cioè poche regioni nelmondo in cui si innova; il resto è riproducibileed è dettato da un’economia tendente alla mi-nimizzazione dei costi e i differenti territori so-no pertanto soggetti a fenomeni di uscita, de-localizzazione, attrazione entro il classico qua-dro di un’economia a rendimenti costanti.

La conoscenza è quindi fondamentale per iterritori e interviene solo a livello locale. Nonsono in altri termini le economie esterne glo-bali, caratterizzanti le attività innovative ac-cessibili (ad esempio le nuove conoscenzescientifiche), a differenziare i territori, ma sol-tanto le economie esterne locali: “un’autenti-ca scoperta scientifica radicale, ad esempio chela terra è quadrata, piatta e anche ferma, scuo-terebbe tutti e tutti avrebbero accesso a que-sta conoscenza. Se però l’informazione non haquesta potenza dirompente, tale per cui ad es-sa si associano economie esterne globali, e vi-ceversa può essere assimilata e conosciuta solose si è in uno stato di contiguità spaziale e dicompetenze, allora le economie esterne sono,

le definisco, locali. Il raggio – a questo puntosi può anche sostenere che esiste un vero e pro-prio raggio d’azione – diventa rilevante se con-nesso alla categoria della comunicazione e piùspecificatamente alla categoria della comuni-cazione tecnologica”.

Arnaldo Bagnasco, dopo aver analizzato ilprocesso di modernizzazione in atto – destrut-turazione delle tradizionali comunità locali ericomposizione in quadri più ampi, eteroge-neità, differenziazione e complessificazionedelle città – giunge a distinguere “città e so-cietà semplici”, caratterizzate da una certa ri-gidità al mutamento, da “società e città adatti-ve”, caratterizzate da complessità e capacitàdi esprimere nuove sintesi culturali, nuovi mo-di di vita e di interazione socioeconomica. Tut-to questo è possibile esprimerlo col termine“conoscenza”, una categoria che va al di là“[…] di quella specificamente scientifica, tec-nologica, e delle applicazioni economiche diqueste” e che rimanda al “tema delle societàlocali che per la loro conformazione culturale,storica, economica, organizzativa, riescono adallargare o meno lo spettro delle variabili edelle dimensioni che sono messe in conto nelloro sviluppo”. Il rimando alla tematica dellesocietà locali evidenzia come il processo diglobalizzazione tenda a mettere in primo pia-no l’analisi territoriale, soprattutto quella re-gionale: “si tratta probabilmente dell’altra fac-cia del processo di globalizzazione: esso im-plica un parallelo processo di regionalizzazio-ne”. Le città, le regioni stanno ridiventandoattori importanti sulle scene nazionali e inter-nazionali in quanto soggetti più idonei a go-vernare i processi in atto e a esprimere rappre-sentanza politica. Entro questo schema la co-noscenza non è solo una conoscenza alta, laconoscenza scientifico-tecnologica, ma puòessere una conoscenza orientata alla specializ-zazione: “in fondo le innovazioni sono delle‘adattività’ alle quali sono chiamate anche so-cietà meno all’avanguardia” che possono tro-vare proprio nella conoscenza la base della lo-ro competitività.

Fiorenzo Ferlaino, riprendendo il dibattitodelle sessioni precedenti estende ancora di piùil campo d’attenzione negando che i valori eco-nomici siano gli unici su cui orientare cono-scenza e “sapere”. Il territorio, afferma, è

INTRODUZIONEXIV

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espressione di valori economici, ma anche “cul-turali e ambientali”, “normativi”, organizzati-vi. Oggi esiste un’egemonia “impalpabile” e ge-nerale dei valori economici, una forma di “me-tafisica influente” che informa l’agire e la crea-zione stessa dell’informazione e della cono-scenza; ma nella storia questo non è stato sem-pre vero e, nel futuro, può non essere ancoravero. Possono emergere territori in cui il valorenormativo, diverso dalla norma legislativa e in-teso piuttosto come secolarizzazione di regole,di precetti, di valori condivisi, può diventare“senso comune” e dar luogo ad una “societàmorale”. Il passaggio auspicabile è quello chepone in primo piano la sostenibilità dell’uomoe dell’intero sistema in quanto processo di libe-razione, forza creatrice e innovativa.

Riccardo Roscelli, riprendendo la ricorsi-vità di Antonelli tra conoscenza, capacità in-novativa e sviluppo territoriale, evidenzia co-me “il territorio produce conoscenze se ha giàdelle conoscenze sedimentate storicamente”.Le innovazioni nascono quindi laddove sonopresenti una serie di condizioni, “[…] dei fattimolto concreti, […] gli atenei e le scuole piùprestigiose, le testate di giornali nazionali, lesedi di importanti organizzazioni economiche,delle banche, di associazioni culturali, ecc.Non c’è dubbio che la conoscenza, o meglioun accumulo di buone conoscenze, qualifichiil territorio e a sua volta lo renda competiti-vo”. All’interno di questo quadro la formazio-ne appare un fattore centrale per il rafforza-mento del territorio e “chi non investirà in for-mazione di livello elevato sarà destinato a soc-combere nella competizione, oppure ad assor-bire le lavorazioni nei reparti residuali e anchenelle lavorazioni manifatturiere”.

Gabriele Zanetto parte dall’esperienza con-creta del parco scientifico e tecnologico di Ve-nezia, attivo dal 1997, edificato sulla vecchiazona industriale di Marghera e si interroga sulrapporto tra modernismo e postmodernismo,inteso, quest’ultimo, come “perdita della fedenella comprensione possibile, certa, esaustivae definitiva delle cose, riducibile ad una teoriaverificabile e scoperta una volta per sempre,inequivoca” e come “convinzione che i luoghisono plurimi, intersecati, polisemici”. L’ap-prendimento dei luoghi può essere visto dun-que “come capacità di discernere i processi

territoriali in corso in un territorio”. È quelloche è successo con l’esperienza di Marghera,che ha fatto emergere il dato inatteso di dete-nere tutti gli elementi per la “sostenibilità del-lo sviluppo” nato su “tracce” industriali taliper cui “un territorio compromesso, un terri-torio inquinato, ci ha costretti alla conoscenzadei meccanismi di sedimentazione e di dislo-cazione dei microinquinanti, dei composti chi-mici dannosi”, ad una conoscenza nata dal eper il territorio. Da questo apprendimento ènata la risposta orientata all’uso ottimo, eccel-lente, di quella eredità, di quel “luogo com-plesso”: “l’industria sporca ci ha suggerito ilparco scientifico e tecnologico, il porto ci hasuggerito il fiorire di un’attività logistica chepresto avrà molto più bisogno di software peril controllo del carico nel ciclo integrato di tra-sporto che non di banchine portuali”. I terri-tori ci parlano e vanno ascoltati: “in questosenso i luoghi vanno lasciati parlare. Con gran-de umiltà dobbiamo spiare le tracce di quelloche vi è stato fatto per capire come loro posso-no esplicitare il loro potenziale”.

Il dibattito successivo ha approfondito le te-matiche emerse e ha introdotto nuove temati-che, come il ruolo delle capitali regionali nellosviluppo territoriale, le autorappresentazionispaziali, i nuovi valori territoriali e ambientali.Si è sottolineato che per un geografo “il terri-torio è qualche cosa di più complesso che uncampo di esternalità con gradienti negativicentro-periferia […]. È una entità che si for-ma in un’interazione tra ‘abitanti’, che sonoanche produttori, e condizioni ambientali lo-cali specifiche. È il risultato di un rapportocoevolutivo in cui si creano queste accumula-zioni continue di tante cose, ma soprattutto diconoscenza. Non solo conoscenza tecnologi-ca: anche le architetture, anche i monumenti, imusei, i linguaggi, le tradizioni, le istituzionisono condensati di conoscenza” (GiuseppeDematteis). Queste conoscenze non sempresono innovazioni ma esprimono rapporti diterritorializzazione e deterritorializzazione chestanno a fondamento della storia della nostraciviltà. Qui risiede un primo senso molto ge-nerale di produzione e di conoscenza. Ma ilterritorio è anche “fonte di autoconoscenza, èun ‘conosci te stesso’ per chi ci abita ed è inquesto senso anche fonte di creatività, di crea-

INTRODUZIONE XV

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zione di valore. Un valore di conoscenza delterritorio assolutamente fondamentale perchéè alla base delle autorappresentazioni territo-riali su cui costruire progettualità strategica”.Infine è stato affermato che l’insieme di questiproblemi rimanda al problema più generale di“conoscere come costruire conoscenza”, la cuisoluzione passa anch’essa attraverso specifi-che modalità di organizzazione sociale e poli-tico-istituzionale del territorio.

Ricerca geografica e nuove tecniche

La seconda parte del convegno, ha avuto co-me focus il nuovo terreno di confine tra lo spa-zio geografico e i diversi strumenti di comuni-cazione e analisi oggi disponibili per la letturadel territorio e il cyberspazio .

La sessione è stata aperta da “Immagini esuoni”, curati da Marcello La Rosa, direttoredell’IRES Piemonte, rievocanti tracce di cultu-re e di diversità espressive e territoriali presen-ti nel mondo. Tracce certo non isologiche aduna visione stereotipata che sembra informareil paradigma economico dominante nonchégran parte della cultura “occidentale”. Unacritica tacita ai processi di deterritorializzazio-ne, che paiono oggi fortemente connessi all’u-so e alla diffusione dei nuovi strumenti tecno-logici e che pongono con forza la questionedell’astrazione delle comunicazioni e del lorodivenire elemento centrale dell’economia edella società, l’astrazione del lavoro e la domi-nanza delle reti telematiche e del cyberspazio,l’enfatizzazione conseguente del ruolo dellaconoscenza (della nostra), la crescente impor-tanza delle reti di relazioni poste dalla liberamobilità delle merci e dalla molto meno liberacircolazione degli uomini, delle persone. Tut-to ciò non ha, almeno fino ad oggi, diffusogrande contaminazione tra diversi, tutt’altro:lo sviluppo del turismo mondiale sta lì a riba-dire la separazione e la non comunicabilità trale culture, esportando una modalità univocadi contatto-non contatto, attraverso canali estrutture uguali in tutto il globo; il cyberspa-zio ha esportato la fascinazione e il feticismodelle merci, dei linguaggi e dei canoni esteticioccidentali; le nuove reti hanno esportato i no-stri modelli produttivi e le nostre modalità di

relazione. Non di contaminazione tra diversisi è trattato, ma più che altro di esportazioneunidirezionale di un modello. Questa è stataed è la globalizzazione. La caduta del Muronon ha aggiunto niente, anzi ha accelerato,semplificato e ricondotto all’essenzialità cul-turale fino a far apparire come “scontro tra ci-viltà” ciò che prima veniva mediato dallo scon-tro politico tra primo e secondo mondo.

La stessa avanguardia culturale ha giusta-mente risposto all’incomunicabilità semprepiù concreta dei fatti (disuguaglianze, guerreper il controllo energetico e delle materie pri-me, terrorismo, ecc.) con l’ostinata afferma-zione di un agire comunicativo quale modalitàpossibile di relazione. Un agire comunicativoorientato all’intesa. Un agire che si presentatuttavia nella doppia e ambigua veste sia di“complemento” che di “alterità”, rispetto al-l’agire orientato al successo; una razionalitàcomunicativa diversa e complementare alla ra-zionalità strategica finalizzata al perseguimen-to delle soddisfazioni e degli scopi. Nell’agirecomunicativo risiede una teoria forte della so-cietà per la quale la comprensione tra culturediverse, tra codici differenti, si attua nell’in-terpretazione e nel linguaggio: linguaggi diver-si e interpretazioni plurime che non rimanda-no solo alla coscienza di chi parla, ma appaio-no quale medium attraverso cui gli interlocu-tori si comprendono e realizzano un’intesa.Ma ancora una volta i fatti hanno seguito per-corsi diversi e l’ermeneutica del testo ha tro-vato una sua tecnologia nell’ipertesto, unanuova narrazione e teoria nella virtualizzazio-ne del testo, nell’“eterogenesi, divenire altro,processo di accoglimento dell’alterità”. Alte-rità ancora tutta “occidentalcentrica”, erme-neutica fatta solo su testi, sui nostri testi.

Ma possono le nuove tecnologie superare iltesto e avvicinarsi alle diversità linguistiche ecomunicative espresse dalla molteplicità cul-turale esistente senza mutarne le sorgenti, lefonti?

Il convegno ha posto con forza questa do-manda, sia attraverso la dimostrazione praticadi rappresentazioni telematico-informatichedi Sistemi Geografici Informativi (GIS), sia at-traverso l’esposizione delle nuove tecnicheipertestuali applicate ad oggetti geografici – inparticolare con la presentazione de parte del-

INTRODUZIONEXVI

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l’IRES dell’ipertesto sulla Geografia Ammini-strativa del Piemonte (a cura di Fiorenzo Fer-laino. Torino: IRES, 1999) – continuando cosìquella riflessione, peraltro recente in Italia, co-minciata quando in seno all’Associazione deiGeografi Italiani si è costituito il gruppo di la-voro su “Sistemi d’informazione e ricerca geo-grafica” e che ha avuto un “momento fondati-vo”, come afferma Vincenzo Guarrasi, nelColloquio internazionale sul tema “Fonder lelieu, instaurer l’espace: l’efficace des représen-tations géografiques”, che l’Associazione haorganizzato in collaborazione con il GroupeInternational d’Études sur le Représentationsen Géographie.

Nell’intervento introduttivo alla sessione“Ricerca geografica e sistemi informativi”Vincenzo Guarrasi ha formulato tre scenari sucui orientare la riflessione. Nel primo l’auto-mated geography rappresenta una vera e pro-pria mutazione del sapere geografico; nel se-condo essa non è che una protesi tecnologicadel geografo professionale che poco ha a chefare col sapere geografico accademico; nel ter-zo “essa costituisce un complemento essenzia-le dell’attività del geografo e un modo per par-tecipare di un più generale cambiamento in-dotto nella società contemporanea dalle tec-nologie digitali (telematica, GIS, multimedia-lità, ecc.)”.

Il primo scenario muove verso una “geogra-fia senza geografi” in cui carte tematiche, ana-lisi del territorio, analisi fisica e paesaggistica eogni altra elaborazione sono alla portata di tut-ti. Il secondo incorpora i GIS “nel novero del-le tecniche specializzate” allargando il solcotra tecnica e analisi. Il terzo, quello più proba-bile, rimette “in discussione la separatezza deidue saperi (cartografico e geografico)” e ten-de a ricomporre gli stessi.

In questo rapporto tra tecnica e geografia ilproblema appare più profondo in quanto nonattiene solo al tipo di mutazione del saperegeografico ma alla “mutazione del mondo geo-grafico, dell’oggetto dei nostri studi”. È veroche in fondo i GIS altro non sono che databaseposizionali, che legano dati a coordinate geo-grafiche, ma il loro essere modello della realtàcrea un “sistema di corrispondenze tra il mon-do digitale e il mondo reale […] che rappre-senta una sorta di deterritorializzazione” e che

definisce l’immagine cartografica e quindi, co-me sanno bene i geografi, una certa immaginedel mondo. Essendo un’applicazione tecnolo-gica, i GIS non hanno potenzialità illimitate.Possono rendere chiare le corrispondenze e la“logica spaziale di determinate relazioni”, pos-sono rendere attuale la transcalarità e il rap-porto globale-locale, possono aumentareenormemente la capacità di lettura dei feno-meni territoriali e forse, vorremmo aggiunge-re, possono aiutare a superare il “testo e la car-ta”, il “portato” profondo delle sorgenti elle-nistiche e giudaico-cristiane su cui poggia ilnostro sapere. Come fa notare Guarrasi “nonè un caso che uno dei progetti più recenti, sucui si concentra un grosso investimento dienergie, è il cosiddetto ‘Alexandria Digital Li-brary Project’. Intitolare la nascente bibliote-ca digitale ad Alessandria significa riconosce-re che l’idea di un sapere geografico universa-le è nata nella biblioteca di Alessandria in Egit-to. Forzando un po’ i termini della questione,potremmo affermare che i GIS ritornano lì do-ve sono stati per la prima volta concepiti dallamente umana. Perché le prime basi di un siste-ma informativo geografico non sono state po-ste in Canada, né negli Stati Uniti, non nell’ul-timo secolo, ma per l’appunto tre secoli primadella nascita di Cristo, nella biblioteca di Ales-sandria, e l’inventore si chiama Eratostene diCirene”.

Ma i nuovi strumenti restano circoscritti en-tro i confini tracciati ad Alessandria o riesco-no ad aprirsi a semantiche e modalità comuni-cative nuove? Negli ipertesti, ad esempio, il sa-pere “si libera” della serialità della scritturaper percorrere tragitti diversi, sentieri in unterritorio nuovo, multiscalare, pieno di bifor-cazioni. Il testo stesso tende a decomporsi e aintegrarsi con immagini, suoni e, si dice, in fu-turo con sensazioni tattili. Si supera, almenoin parte, e forse per la prima volta dopo la sco-perta e diffusione della stampa, la centralità eunicità relazionale del senso della vista e la fon-dazione stessa del mito originario: il mito gre-co dell’alfabeto secondo cui Cadmo, il re cuisi attribuisce l’introduzione in Grecia delle let-tere fonetiche, seminò i denti di un drago daiquali scaturirono uomini in arme. Nuovi uo-mini, con un nuovo potere che misero in crisila significazione prealfabetica dei sacerdoti.

INTRODUZIONE XVII

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Entro questo quadro nuove ipotesi possonoformularsi per proseguire sul cammino intra-preso.

La prima: i nuovi strumenti della “geo-gra-fia” (dove “grafia” richiama sia la carta che ladescrizione, il testo) completano il progetto diEratostene di Cirene. La seconda: essi, comenuovi denti di drago, creano “nuovi uomini” e“nuovi poteri” dando scacco ai vecchi “sacer-doti” depositari di un sapere che non riesce afuoriuscire dal testo e dall’ermeneutica deri-vante. La terza, che potremmo definire l’ipo-tesi canonica di McLuhan: “i nuovi media nonsono un modo per metterci in relazione con ilvecchio mondo reale; sono il mondo reale eriformano a loro piacere ciò che rimane delvecchio mondo”, sono quindi il nuovo territo-rio, la nuova geografia, il cyberspazio. La quar-ta, quella che forse è più auspicabile: i nuovistrumenti possono permettere la traduzionedi linguaggi e sorgenti in modelli differenti, inapprocci e relazioni diverse e aiutare così l’a-scolto e la comunicazione, verso la valorizza-zione delle diversità in un mondo globale plu-rireticolare.

Il convegno non si proponeva di dare rispo-ste definitive alle domande da cui siamo parti-ti e neppure di trattare il problema in modo si-stematico.Tuttavia ci sembra che su alcunipunti importanti ci sia stata una buona con-vergenza di attenzione e d’idee, mentre su al-tre questioni tuttora aperte emergano indica-zioni utili per tracciare nuovi cammini di ri-cerca.

Governare il cambiamento e riprodurre la diversità

Un tema che in vario modo attraversa tutti isaggi qui raccolti è quello del rapporto tra ter-ritori e conoscenza ed esso può essere un buonpunto di partenza per capire che cosa dovreb-be dirci la geografia nell’epoca della globaliz-zazione. Nell’età premoderna il sapere e ancorpiù il saper fare erano, per la stragrande mag-gioranza degli esseri umani, una risorsa pro-pria dei diversi contesti locali; la loro diffusio-ne avveniva attraverso una memoria transge-nerazionale anch’essa locale, in parte trasmes-sa e in parte incorporata nel territorio stesso.

Le conoscenze e le credenze generali avevanoun ruolo limitato e indiretto sui rapporti di ter-ritorialità attiva locali, che quindi erano moltodiversificati geograficamente. Di fatto, ognigruppo umano intratteneva con un ambienteterritoriale limitato (locale) un rapporto coe-volutivo, in cui la componente di “ibridazionelaterale” con altre culture locali decadeva ra-pidamente con la distanza, mentre la “fecon-dazione verticale”, ad opera di livelli gerarchi-ci superiori, aveva effetti omologanti piuttostolimitati, anche se geograficamente estesi, co-me in quelli che Braudel ha chiamato “siste-mi-mondo”.

Com’è noto questo rapporto tra il sapere-agire specifico locale e quello universale si èandato modificando durante l’età moderna,per arrivare, nella fase attuale postmoderna(in realtà ipermoderna), ad essere capovolto.Oggi, quando si deve costruire una casa o unastrada, coltivare un campo, sfruttare un bo-sco o un giacimento, fabbricare attrezzi, ecc.,lo si fa ricorrendo a tecniche e mezzi ovunqueuguali, adattando ad essi le condizioni delcontesto territoriale, ignorando le opportu-nità offerte dai vari contesti ambientali e so-vente anche i limiti che sarebbe convenienterispettare. In tal modo il rapporto coevoluti-vo delle società umane con il territorio-am-biente sta venendo meno a livello locale e atutte le scale intermedie, per configurarsi es-senzialmente come un rapporto globale tral’umanità e il pianeta (tra non molto anche al-tri pianeti). Ma questo comporta il venir me-no del processo di diversificazione ecologicae culturale dei territori, il quale ha accompa-gnato lo sviluppo delle società umane a parti-re dalla rivoluzione agricola del neolitico e checostituisce la ragion d’essere e l’oggetto stessodella geografia. Se quindi oggi la geografia èin crisi non è soltanto perché è difficile rap-presentare la superficie terrestre come unospazio iperconnesso o come un caleidoscopioin movimento, ma anche perché comincia amancare la materia prima della rappresenta-zione. In particolare, le diversità culturali chea partire da Erodoto hanno giustificato la de-scrizione dei luoghi e dei territori divengonosempre più finzioni, immagini folcloristicheal servizio del marketing turistico, nella dispe-rata rincorsa del modello del parco di diverti-

INTRODUZIONEXVIII

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mento tematico, come modello generalizzatoe vincente.

Dunque: fine della geografia? No, dicono al-cuni geografi: fine di questa geografia che avevail compito di descrivere luoghi ritenuti “reali”,quando il problema era quello di avere un rap-porto efficace con essi e, per mezzo di essi, congli altri; inizio di una nuova geografia postmo-derna, che, preso atto che non c’è più interazio-ne specifica con la materialità dei luoghi, ce lirappresenta come spettacolo. Altri invece, co-me gli autori di questi saggi, trovano oppostimotivi per negare che il compito della geografiasia terminato. Pensano che la diversità cultura-le, così come la biodiversità, sia una ricchezza euna risorsa da riprodurre e rinnovare attraver-so una sempre maggior conoscenza delle op-portunità e dei vincoli offerti dai vari ambientinaturali e storici del pianeta. Che quindi la ri-sposta della geografia alle tendenze omologantidella globalizzazione economica sia quella di

passare dalla descrizione dell’esistente localiz-zato a quella del potenziale localizzato: dalla de-scrizione di luoghi e regioni come entità date aquella delle “prese” che i diversi territori offro-no per la costruzione di sistemi territoriali ca-paci di uno sviluppo qualificato e durevole.

Cambia la prospettiva. Gli oggetti della geo-grafia diventano relazionali: si costituisconocioè all’incontro di certe caratteristiche ogget-tive del territorio con le attese progettuali deisoggetti che intendono operare su di esso.Quello che rimane è la necessità di conoscere iluoghi, di estrarre dal territorio, con i suoi abi-tanti, le conoscenze contestuali che, combina-te con tecnologie universali sempre più poten-ti, ma anche flessibili, permettano di riprodur-re, nel tempo e alle diverse scale, quel rappor-to coevolutivo con l’ambiente, che rende i ter-ritori ricchi e diversificati in termini non soloeconomici, ma anche ambientali, culturali, so-ciali e politico-istituzionali.

INTRODUZIONE XIX

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SESSIONE IIMMAGINI E IDENTITÀ TERRITORIALI

PARTE PRIMA

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Immagini e identità territoriali

Claude Raffestin

Riferimenti...

Una tendenza attuale, sempre più diffusa, consiste nel pretendere che le parole non abbianosufficiente importanza e quindi non sia necessario definire con molta precisione i concetti uti-lizzati. Non è raro trovare questa idea tra alcuni esponenti della scienza, che possono aggirare ladifficoltà con una esplicitazione formale. Le scienze umane raramente si trovano nella comodasituazione di poter sostituire alle parole una formulazione logico-formale oppure matematica.L’uso della lingua naturale è e rimane fondamentale, malgrado qualche incursione della logicaformale e della matematica. Qui si pone il problema di sapere che cosa si intenda per “immagi-ne” e “identità”. Un’incursione nell’etimologia non è quindi gratuita, in quanto ci può informa-re circa l’evoluzione di queste due parole, cioè sulla pratica e la conoscenza che ne avevano i no-stri predecessori.

Nel XII secolo la parola “immagine” possiede il significato di statua o visione onirica, veicolaaltresì il significato di imitazione, poiché imago è rappresentazione, ritratto, fantasma, apparen-za, opposto a realtà. L’opera di Pierre d’Ailly, Imago Mundi, è la rappresentazione del mondoche, secondo la cronaca, sarebbe stato annotato da Cristoforo Colombo. Questa immagine la-cunosa del mondo avrebbe suscitato le riflessioni visionarie del navigatore, fino a condurlo allascoperta dell’America: le immagini incitano e per questa ragione sono pericolose. Tornerò sullafunzione delle immagini quando sarà il momento.

La parola “identità”, deriva dal basso latino, identitas, utilizzata per tradurre la parola grecache ha dato luogo a tautologia, cioè l’identità perfetta ma senza alcun interesse in quanto la spie-gazione è circolare (in altre parole, tautologica). L’identità spiegata dall’identità stessa: l’identitàè l’identità ovvero ciò che si definiva l’ydemtite all’inizio del XIV secolo. Nel XVIII secolo è ilsegno di ciò che è permanente. Quanto all’identità contemporanea, sa di polizia: targa, docu-mento anagrafico, carta e foto d’identità, fino ad arrivare all’identità giudiziaria! È l’apparentepermanente che permette l’identificazione. Allora, il geografo sarebbe un poliziotto che conl’aiuto delle immagini bracca gli uomini e i territori?

In qualsiasi ricerca vi è un carattere di inchiesta, di storia, se riprendiamo la parola secondo ilsignificato che le attribuiva Erodoto, il quale, come Omero, ha verosimilmente posto il proble-ma delle immagini e delle identità, anche se solo a proposito dei Greci e degli Sciti. La storia diAnacarsi e di Scile è in questo senso rivelatrice: entrambi pagarono con la vita il fatto di avereofferto sacrifici a dei Greci. In altre parole, avevano trasgredito il costume degli Sciti: ”Gli Scitisono, anche loro, ostili al massimo verso qualunque costume straniero, di qualsivoglia popolo,ma soprattutto dei Greci...” (Erodoto, 1985, pp. 391-93). La trasgressione di Anacarsi e Scile si-

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gnifica che, scegliendo di fare riferimento arappresentazioni e immagini diverse sia daquelle scite che da quelle greche, hanno per-turbato il processo di identità che è il proces-so del “rendere simile”. Rendersi simile signi-fica non trasgredire i limiti definiti dalla co-munità alla quale si appartiene. La trasgressio-ne suscita il caos, che è per definizione perditadi identità. Solo il sacrificio permette di ritro-vare l’ordine e dunque di mettere fine alla con-fusione dei limiti. Questo problema è statotrattato e illustrato diffusamente da René Gi-rard nella Violenza e il sacro. I nostri due scitisono sacrificati e quindi mandati a morte dailoro, nella misura in cui si sono fatti iniziare aimisteri di Dioniso Bacchico (Erodoto, 1985).Hanno adorato altre immagini o altri idoli enel fare questo hanno perduto la loro identità.In effetti, hanno messo in pericolo l’identitàscita, trasgredendo con le loro pratiche gli usie costumi sciti: si sono resi dissimili.

L’identità non è solamente uno stato, ma an-che e soprattutto, un processo. Essenzialmen-te anche un processo per rendersi simili a chi,all’interno di un’area territoriale, dichiara diavere le stesse immagini, gli stessi idoli, le stes-se norme. “Rendersi simile” è liberare, perl’Altro, alla comunità del quale si desidera o sipretende appartenere, un processo dinamicod’identificazione che ci faccia riconoscere dal-l’Altro.

Se l’identità, per come era concepita nell’an-tichità, oggi non ha più lo stesso significato, ilprocesso fondamentalmente non è diverso nelsuo meccanismo. Conosciamo l’esempioestremo dei dissidenti sovietici, generalmentescrittori, poeti e scienziati, privati non solo deiloro diritti ma persino della loro identità, poi-ché alcuni sono divenuti apolidi. Hanno co-nosciuto la prigionia, se non addirittura lamorte e nel migliore dei casi, l’esilio, che è la“prigione dell’esterno”. Alcuni sono giunti si-no a rinunciare in parte all’uso della loro lin-gua materna, per pubblicare nella lingua delloro paese d’asilo. Penso, in particolare, a Jo-sif Brodsky, per citare un nome. Non è un ca-so se evoco un poeta, in quanto ogni poetamantiene relazioni strette e complesse con ilterritorio in cui è nato, dove ha appreso “lasua lingua”, che spesso è il suo territorio origi-nale e quindi primordiale. Ma il territorio rea-

le non è meno pregnante sull’uomo quandoanche sia sempre meno significativo. Quest’ul-tima osservazione mi porta impercettibilmen-te verso un altro poeta, Miguel Torga, che haposto la questione dell’identità nel suo diarioin un modo che senza dubbio farà sorridere igeografi contemporanei. Tuttavia, non resistoal piacere di citarlo: “Io chiedo che, nella de-scrizione scientifica di ogni più piccolo pezzodi mondo, figuri l’abitante dei luoghi conside-rato come un fattore naturale, allo stesso tito-lo di un rilievo o della vegetazione. Parallela-mente alle altre forme di conoscenza, vorreivedere in una descrizione geografica della Bei-ra un capitolo sull’indigeno della Beira. Sareb-be, secondo il mio modesto intendimento, uncontributo sostanziale per una migliore com-prensione dell’intima realtà di questa provin-cia. A metà di un capitolo su Alva, Caramuloe il vino di Dao, una rubrica dal titolo José Lei-te de Vasconcelos” (Torga, 1982, pp. 97-98).Queste righe sono state scritte a Coimbra il 21marzo 1943. Torga racconta peraltro di nonessere mai riuscito, con questa piccola idea, ainteressare uno dei suoi amici geografi. E ciòper evidenti ragioni, poiché senza saperlo Tor-ga ha posto in termini letterari, i lineamentidella territorialità, di cui il suo amico all’epo-ca non aveva probabilmente alcuna idea: lascienza ripete ciò che la poesia aveva già sug-gerito. Certamente, Torga si è ispirato al mon-do agricolo “poiché se l’ambiente impregnal’uomo, è l’uomo che in seguito lo incarna, lopolarizza e porta la testimonianza dello spiritoe dell’essenza di ciò che in lui è fondamentalee vivo” (Torga, 1982, p. 99) . E aggiunge “Ilmio amico geografo argomenta con le ragionidel metodo, definisce questa un’idea poetica,mi parla delle complicazioni scientifiche chenascerebbero da una geografia psicologica diquesto tipo. E di fronte a tali argomenti, io mitaccio: vinto certo, ma non convinto...” (Tor-ga, 1982, p. 99). Ho convocato Torga, al di làdel tempo, tanto più volentieri, in quanto que-sta geografia psicologica esisteva già nel mo-mento in cui scriveva, e questo non dispiacciaal suo amico geografo. Torga non fa che espri-mere, con le sue osservazioni, una filosofiavecchia di 80 anni nel momento in cui lui scri-ve: quella che Taine ha esposto nella sua storiadella letteratura inglese (Taine, 1863, pp. III-

PARTE PRIMA - SESSIONE I4

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XLVIII). Ignoro se Torga avesse letto Taine,ma poco importa, lo ha ritrovato con il suopensiero carico di osservazioni. Paul Vidal dela Blache, per contro, ha dovuto leggere Tainee, anche se lungo lo stesso filo conduttore del-le sue idee, come testimonia una prefazione,non sembra avere fatto un esplicito riferimen-to: “La storia di un popolo è inscindibile dallacontrada in cui abita” (Vidal de la Blache,1979, p. 3). E più avanti è Vidal che scrive:”L’uomo è stato, da noi, il discepolo fedele delsuolo. Lo studio di questo suolo contribuiràdunque a gettare luce sul carattere, i costumie le tendenze degli abitanti” (Vidal de la Bla-che, 1979, p. 4). Non esiste divario tra il poetaportoghese e il geografo francese. Ciascuno amodo suo ha posto il problema dell’identitàterritoriale attraverso le immagini prese a pre-stito dal mondo rurale. Si noterà quindi il ruo-lo che ha la terra, il suolo che gli uomini lavo-rano. L’identità, in questo caso, è costruita at-traverso la proiezione del lavoro nella fisicitàdelle cose: si costruisce e si rinnova, attraversoi gesti che gli uomini apprendono, per prov-vedere ai loro bisogni. Ma i gesti cambiano conil tempo, perché le attività stesse, e i mediatoriche le mobilitano insieme a loro, si trasforma-no. Le territorialità agrarie si sono evolute aun ritmo talmente rapido che ciò di cui parla-no Vidal de la Blache e Torga non ha più sen-so, ovvero se ha senso, si tratta del significatodelle cose dimenticate, svanite nel ricordo de-gli uomini e nella memoria etnografica. Da al-lora l’identità delle società agricole è formatada tracce, immagini risvegliate di solito da un“folklore” a vocazione turistica. Basti dire chequesta identità agraria non esiste più e le im-magini che ne risultano sono in larga misurascomparse.

L’identità è un processo nel quale lo spazio,il tempo, il lavoro e la memoria sono gli ele-menti portanti. Vorrei citare, a questo propo-sito, Ruth Benedict, un’antropologa un po’ di-menticata (Benedict, 1950, pp. 29 e sgg.). At-tribuisce a Ramon, un capo indiano, la se-guente metafora: “All’inizio, mi dice, dio hadato a ogni uomo un vaso d’argilla e fu in que-sto vaso che le genti bevvero la loro vita” nellospirito di questo modesto indiano, questa fi-gura è chiara e piena di significato: “Tuttil’hanno gettato nell’acqua, continua, ma i loro

vasi erano diversi. Il nostro vaso adesso è rot-to. Non esiste più. Il nostro vaso è rotto. Lecose che avevano dato senso alla vita del suopopolo, i riti alimentari della famiglia, gli ob-blighi del suo sistema economico, la succes-sione delle cerimonie nel villaggio, la posses-sione della danza dell’orso, il concetto di benee di male, tutte queste cose erano scomparse,e con loro, la forma e il significato della lorovita”. La matrice identitaria di natura agraria,come il vaso di Ramon, è distrutta.

L’identità come processo

L’identità si costruisce, si decostruisce e siricostruisce nel tempo o meglio, attraverso iltempo. Il vaso è veramente rotto, come affer-ma Ramon, o forse si è trasformato, rimodel-lato e riadattato, incessantemente alle nuovesituazioni? Non vi è un’identità, ma un susse-guirsi di identità. Queste identità, anche quan-do si disgregano, si erodono, e si cancellanopoco a poco, non scompaiono con il loro cari-co di persone e cose nel naufragio del tempo,lasciano delle tracce materiali o immateriali.La ricomposizione territoriale è parallela aquella dell’identità, ma con un intervallo di la-tenza più o meno lungo. Non vi è sovrapposi-zione tra le fasi di costruzione, decostruzionee ricostruzione dell’identità e quelle di territo-rializzazione, deterritorializzazione e riterrito-rializzazione che si susseguono. Sono sfalsate,le une rispetto alle altre, nell’esatta misura incui esse ubbidiscono a scale temporali non im-mediatamente comparabili. In effetti, le fasidell’identità e quelle del territorio sono legateal lavoro dell’uomo, secondo ritmi diversi. L’a-deguamento del territorio al lavoro, cioè alleattività, accusa sempre un ritardo rispetto agliadattamenti auspicabili. Le immagini identi-tarie e le immagini territoriali mantengonorapporti certi, ma le une e le altre costituisco-no delle anamorfosi dinamiche generate dailinguaggi disponibili. È necessario porre laquestione delle relazioni triangolari tra iden-tità, linguaggio e territorio. Il linguaggio inquesto caso, gioca il ruolo di mediatore.

Rossi-Landi, nella sua analisi del processodi produzione della realtà attraverso il lavoro,ha messo in evidenza una catena che collega il

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lavoratore, il materiale, lo strumento, l’opera-zione, l’obiettivo e il prodotto (Rossi-Landi,1985, p. 84). Questa catena esplicita ciò chepermette di mantenere delle relazioni con l’e-steriorità e l’alterità creando differenziazioni apartire da un sistema di limiti. Infine, l’instau-razione dei limiti dissimula la produzione ter-ritoriale che pratica una differenziazione cul-turale della natura o se si preferisce degli eco-sistemi naturali. Per semplificare, si può direche le suddivisioni sono convenzionali, inquanto rimandano ad accordi sociali che han-no un significato in una certa collettività, le cuirelazioni rispetto all’esteriorità e l’alterità ub-bidiscono a regolazioni che riflettono un ordi-ne specifico, in stretta relazione con il bisognodi localizzazione. Anche la produzione lingui-stica funziona solo su limiti. Che esista una re-lazione stretta, tra produzione linguistica eambiente fisico e sociale è evidente, ma que-sto non implica una segnalazione chiara edesauriente. È giustamente nelle lacune e nellemancanze che si evidenziano le differenze dicultura. Si potrebbe qui fare un accenno su ciòche sono tentato di chiamare il “paradigma la-cunoso” in mancanza di un’espressione piùappropriata. Le identità si radicano nel para-digma lacunoso, poiché sia le une che le altrenon esistono se non attraverso le loro differen-ze. Si tratterebbe insomma di individuare leculture attraverso la messa in prospettiva del-le loro lacune. Sono le lingue a mettere in sce-na le identità. Allo stesso modo la produzioneterritoriale può esserci o non esserci, a secon-da dell’elemento naturale o culturale. Ciò cheinfluenza questa produzione è la semiosferacollettiva.

Qualsiasi collettività fa riferimento a una se-miosfera, consapevolmente oppure no, che fapenetrare o blocca certi tratti: le lacune allorarivelano le chiusure rispetto a certi elementinaturali, oppure umani, che semplicementenon sono tradotti nella semiosfera. Questovuole dire che non esista in questo caso un’in-tersezione con una classe di utilità? La rispo-sta non è semplice, e in effetti si rischia di per-dersi in congetture, ma comunque ciò permet-te di affermare che esistano omologie tra lin-gua e territorio anche se non sono state esplo-rate a sufficienza. Tenterò di andare un po’ ol-tre in questa esplorazione, sempre nella pro-

spettiva di porre eventuali fondamenta allageografia culturale.

Infine, con la semplificazione che questopresuppone, propongo un’interfaccia lingua-territorio costituita da una tetratopica e da unatetraglossia in corrispondenza. Relativamenteal territorio, propongo un territorio del quoti-diano, un territorio degli scambi, un territoriodi riferimento e un territorio sacro. Quanto al-la lingua, distinguerò seguendo Gobard, unalingua vernacolare, una lingua veicolare, unalingua di riferimento e una lingua sacra (Go-bard, 1966).

Il territorio del quotidiano, quello della vitadi oggi, della vita di tutti i giorni è, per ripren-dere un’espressione di Henri Lefebvre, “quel-lo va da sé“. Va da sé? L’espressione sa di brut-to gioco di parole, non va da sé nella misura incui non si sa bene come definirla e giustamen-te, in quanto “va da sé”: forse è esattamente ciòche noi abbiamo tutti i giorni davanti agli oc-chi, o sotto agli occhi, e di conseguenza diven-ta invisibile, proprio per la sua continua pre-senza, ossia è troppo presente. Questo territo-rio che va da sé, è il territorio in cui è garantitala soddisfazione della piramide dei bisogni. Ineffetti, questo territorio del quotidiano è carat-terizzato maggiormente dal discontinuo, piut-tosto che dal continuo: è un arcipelago di luo-ghi che affiorano in un tempo di contestualiz-zazione che occorre vincere, per passare daun’“isola” all’altra. Questi luoghi, isolati gli unidagli altri, sono frequentemente luoghi termi-nali che ci rendono ciechi rispetto agli spazi in-tercalari che attraversiamo, ma che non abitia-mo realmente: spazi di mobilità. In generale,l’individuo che attraversa questi luoghi inter-calari è raramente attento alle loro specificità,in quanto è in attesa del luogo terminale, a me-no che non abbia delle ragioni assolutamenteprecise per essere attento, come può esserlouno scrittore o un pittore. Il territorio del quo-tidiano è allo stesso tempo quello della tensio-ne e della distensione, quello di una territoria-lità immediata, banale e originale allo stessotempo, prevedibile e imprevedibile in quantotutto vi è possibile, anche quando si ha la sen-sazione di un’eterna ripetizione: territorio deifatti di cronaca della stampa, è perfettamente“pronto a tutto”, nel senso che tutto può acca-dere. A questo territorio corrisponde una lin-

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gua quotidiana, o a volte una lingua vernacola-re. Questo vernacolo può essere un dialetto,una lingua parlata da un numero ristretto dipersone o semplicemente una lingua introdot-ta all’interno di una lingua di cultura, comel’inglese, il francese, il tedesco, lo spagnolo ol’italiano. Questi linguaggi vernacolari sono ge-neralmente gli idiomi più difficili da capire pergli stranieri, poiché sebbene siano relativamen-te poveri di parole, sono relativamente ricchidi espressioni idiosincrasiche e di giri di paroleche solo un uso frequente, per non dire quoti-diano, permette di padroneggiare. A questopunto, occorre introdurre due nozioni utili perla comprensione della lingua e del territorio.Si tratta della comunione e della comunicazio-ne. Una lingua non assume soltanto la funzio-ne di comunicazione ma anche quella di comu-nione. La prima funzione è certamente pre-ponderante, ma è inconcepibile senza la secon-da: nel linguaggio del quotidiano, la parte dicomunione è spesso molto importante e puòpersino superare la comunicazione. Posso or-dinare un pasto al ristorante, mettendomi riso-lutamente sul piano della comunicazione e uti-lizzare un minimo di parole, per fare sapere ciòche voglio, ma posso anche stabilire una rela-zione di comunione attraverso il linguaggio,che non cambierà affatto il contenuto del miomessaggio, in termini di efficacia, ma creeràuna certa convivialità con la cameriera o il ca-meriere. Tutte le forme di convenevoli nel lin-guaggio quotidiano hanno più riferimenti conla comunione che non con la comunicazione.Non si tratta di fare una distinzione quantitati-va, tra quanto pesa l’una o l’altra, se mai fossepossibile, ma semplicemente attirare l’atten-zione sul fatto che vi è una gran parte di ridon-danza nella comunicazione, giustamente im-putabile alla comunione. L’omologia con il ter-ritorio colpisce molto. In effetti, ci si trova difronte a cose comparabili nel territorio delquotidiano: vi sono tutte le produzioni territo-riali, la cui funzione si riferisce ad attività spe-cifiche, e tutte quelle che hanno un valore sim-bolico e il cui compito è comunicare l’immagi-ne, di un potere o di una ideologia con le qualisi ha, oppure non si ha, comunione. Presto cisi rende conto che il quotidiano è vissuto si-multaneamente, territorialmente e linguistica-mente. È l’abitare per eccellenza, è ricchezza e

povertà, banalità e originalità, potenza e impo-tenza allo stesso tempo.

Il territorio degli scambi articola livelli dif-ferenziati all’interno di un sistema di scale cheinteressa allo stesso modo la regione, la nazio-ne o il mondo. Territorio aperto e fluido, si co-struisce e decostruisce, in caso di relazioni esecondo la loro frequenza. Mentre il territorioquotidiano è individuabile, cartografabile,quello degli scambi è in costante rifacimento,in movimento perpetuo: per molti relativa-mente confinato, per alcuni è inteso su scalaplanetaria. È, sotto molti aspetti, incerto manon impreciso, dipende dalla natura delle re-lazioni di scambio che sono prese in conside-razione. Anche in questo caso la nozione di ar-cipelago può essere utile per capire che la na-tura dello scambio è caratterizzata dal discon-tinuo, a livello spaziale, temporale e pure a li-vello linguistico. Se prendo l’esempio del ter-ritorio svizzero, ho probabilmente a disposi-zione una delle migliori esemplificazioni di unterritorio di scambi nel quale occorre saper va-riare l’impiego delle lingue veicolari a un rit-mo molto rapido: su grande scala vi è una no-tevole variabilità, sconosciuta alla maggiorparte delle nazioni, variabilità rafforzata dal-l’ingerenza di una lingua veicolare stranieracome l’inglese, “quinta lingua nazionale” chesta soppiantando le vere lingue nazionali, inun certo numero di relazioni di scambio, siasul piano nazionale che internazionale.

Il territorio di riferimento è di una naturaassolutamente peculiare e non si può definirefacilmente poiché è allo stesso tempo, mate-riale e ideale. Come ha scritto George Steiner:“Nessuna società può fare a meno dei suoi an-tecedenti. Mancassero, in seno a una colletti-vità nascente o restaurata dopo un lungo pe-riodo di dispersione o di servitù, l’indispensa-bile passato, nella grammatica dell’essere, de-ve istituirsi per decisione dello spirito o delcuore” (Steiner, 1989, p. 14). Il territorio di ri-ferimento è giustamente quello degli antece-denti. Questo non evita il fatto che ci si pongamolti problemi, relativi alla sua interpretazio-ne. In effetti, materialmente, il territorio di ri-ferimento può anche non esistere, ma per con-tro può esistere nelle memorie o in una memo-ria collettiva, come ben dimostra la “storia”dei neri americani e di Israele (Steiner, 1989).

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Ogni società può avere un territorio di rife-rimento diverso, che può anche cambiare at-traverso il tempo. Ma in questo caso si puòparlare legittimamente di territorio? Certa-mente, nel senso di territorio di “rovine” o diresti che hanno nutrito l’immaginario europeonel corso dei secoli, ma certamente non nelsenso di territorio che si abita, nel senso piùimmediato del termine. Nessuno meglio diHeidegger, benché involontariamente, ha sa-puto rendere conto dello scarto che poteva es-serci tra il territorio di riferimento e il territo-rio reale. In un testo dal titolo Aufenthalte cheracconta di un viaggio in Grecia, il filosofo te-desco, con un candore e una ingenuità sor-prendenti, scrive: “La patria di Ulisse? Que-sta volta ancora molte cose non corrispondo-no affatto all’immagine che avevo sotto gli oc-chi, dai tempi del liceo di Costanza dove ave-vo iniziato la lettura di Omero, guidato daiconsigli di un professore. Di nuovo, come nelporto di Cefalonia, mancava quell’elementogreco i cui tratti si erano precisati meglio conil progredire degli studi, a favore di un spiega-zione approfondita con il pensiero antico [...].Invece di questo, eccoci in presenza di un pez-zo d’Oriente, di bizantinismo: un pope ci fecevedere la chiesetta con la sua iconostasi, e do-po aver ricevuto piccole offerte, accese dei ce-ri” (Heidegger, 1992, p. 23).

Se ho parlato del candore e dell’ingenuità diHeidegger è evidentemente senza alcuna iro-nia, ma per mettere in luce la sovrapposizioneche egli fa mentalmente, tra un territorio di ri-ferimento che conosce meglio di chiunque al-tro, quello della Grecia antica, e un territorioreale, che scopriva per la prima volta. È la ba-nale delusione del turista che scopre il divariotra un’immagine mentale e una realtà. La Gre-cia di Heidegger è quella degli autori che haletto e meditato e che si aspetta di ritrovare, senon intatti, perlomeno poco cambiati, nell’in-sieme. La sua delusione è stata notevole, mami ha dato un’illustrazione sognata del terri-torio di riferimento che, come si può consta-tare, è più in relazione con la cultura e con uncerto modo di pensare lo spazio e il tempo chenon con un territorio impegnato nella duratastorica e soprattutto, lo spessore della stori-cità. L’Italia, esattamente come la Grecia, èstata un territorio di riferimento per molti eu-

ropei del XVI fino al XX secolo, e similmentela Francia lo è stata a partire dal XVIII secolo,per l’Europa centrale e orientale lo è stata laRussia, tra gli altri. Proprio come l’Americapuò esserlo oggi, per una gran parte del mon-do ma naturalmente in un’altra prospettiva,oppure come l’URSS ha potuto esserlo ai tem-pi del comunismo trionfante. Questi territoridi riferimento non sono abitati nel senso ma-teriale del termine, ma possono esserlo in sen-so ideale, all’interno, grazie a, e attraverso, lalingua o meglio, le lingue. Heidegger ha abita-to la Grecia antica per tutta la sua vita, attra-verso la lingua greca, come altri hanno abitatol’Italia del Rinascimento attraverso l’italiano ecome alcuni contemporanei che non hannomai messo piede negli Stati Uniti, li abitanoattraverso l’angloamericano dei romanzi o delcinema. Le società sono composte di colletti-vità che non sono contemporanee le une ri-spetto alle altre, rispetto ai territori o alle lin-gue di riferimento.

Gli oggetti di riferimento, se mi passate l’e-spressione, appartengono al passato e/o alpresente e in alcuni casi anche al futuro, se siconsiderano i riferimenti agli universi utopici.

Il territorio sacro e la lingua sacra evidente-mente sono in stretta relazione con la religio-ne, ma non solo, come vedremo. L’Antico Te-stamento e l’ebraico costituiscono per il popo-lo ebraico un complesso territorio-lingua, cheha originato il “Libro”, vero crogiolo nel qualesi sono fusi tutti gli elementi che hanno per-messo la loro sopravvivenza fino a oggi. I cri-stiani hanno ripreso l’Antico Testamento equindi l’ebraico, ma aggiungendo il Nuovo Te-stamento con il greco. Gerusalemme e Romasono territori sacri, meta di pellegrinaggi. I mu-sulmani con l’arabo, il Corano e la Mecca han-no creato anch’essi una lingua e un territoriosacro. I grandi libri sacri realizzano veramentela fusione tra lingua e territorio, e l’uno e l’al-tro sono abitati nel vero senso del termine.

Qui conviene ritornare all’idea presentatain precedenza, vale a dire la distinzione tra co-municazione e comunione. La distinzione traterritorio e lingua sacra s’impone a doppio ti-tolo: il sacro, per eccellenza, è comunione ecomunicazione, si potrebbe aggiungere che loè in maniera assoluta, come manifestano gli in-tegralismi, di ogni specie, di oggi. L’evocare

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questo problema ci instrada su un camminoin cui troviamo un paradosso molto curioso,che si potrebbe formulare nel modo seguente:il sacro che postula la sicurezza tende a diven-tare un fattore di insicurezza quando è spintofino all’integralismo, quando invade tutto ilcampo sociale ed elimina tutto ciò che non glisi riferisce. Crea insicurezza con una sorta dichiusura, rompendo tutti i legami con l’alte-rità che gli oppone una differenza: vuole esse-re il limite assoluto, in altre parole, negare l’e-sistenza di ciò che non è lui. A questo punto ènegazione della comunicazione e della comu-nione con l’esterno.

Detto questo, il sacro procede solo dal reli-gioso. Gli stati possono ricrearlo a partire dal-le nozioni di popolo e di nazione. Espressionicome la “mistica repubblicana” oppure la “mi-stica fascista” o ancora il “sacro egoismo” ri-velano una sacralità laica che si radica nei mitipolitici. Questa creazione di una sacralità po-litica da parte del popolo e della nazione, devemolto alla rivoluzione francese che ha inventa-to un linguaggio, ovvero dei linguaggi, e un ter-ritorio, ovvero dei territori, esprimendo unasacralità politica di genere nuovo. La lingua eil territorio politico sono resi sacri da mecca-nismi le cui origini risalgono alle cosmologieideologiche che funzionano come un gerofan-te (gran sacerdote) rivelatore di un punto fis-so, di un centro che contrariamente alla reli-gione, non si situa all’esterno dell’uomo, ma inlui stesso, come una procedura di autosacra-lizzazione. Lo stato moderno ha sacralizzato ilterritorio e molte frontiere nel mondo sonocontrollate e difese, come lo erano in passatole mura di cinta dei templi e delle città. Non èun caso se i militari hanno preso dal vocabola-rio religioso il concetto di santuario. La stessacosa vale per la lingua, dopo la grande inchie-sta dell’abate Gregorio, sotto la rivoluzionefrancese: era necessario estirpare ciò che luidefiniva i “patois”, per fare trionfare una solalingua, quella che doveva veicolare la Dichia-razione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino.

Territori e lingue politiche “sacri” sono mes-si in relazione in occasioni di feste, cerimoniee sfilate grandiose, organizzate secondo litur-gie il cui ruolo è liberare o intrattenere la “fe-de” del popolo, nella grandezza e potenza del-le istituzioni. Tutta questa sacralità laica si

mantiene attraverso limiti astratti, che defini-scono gli ostracismi, sia territoriali che relativial linguaggio, la cui trasgressione è punita e re-pressa, qui, su questa terra, nelle prigioni e neicampi di concentramento.

Si sarà notato che la tetraglossia e la tetrato-pica sono interfacciate, senza tuttavia poterdire che gli elementi dell’una o dell’altra cor-rispondono esattamente; è comunque accet-tabile sostenere che qualsiasi sistema culturalesi può visualizzare come una canna d’organoproprio per le relazioni che si stabiliscono tralingua e territorio. In effetti, in una stessa zo-na, si trovano tutti gli elementi evocati in pre-cedenza, che si potrebbero rappresentare co-me “canne” di diversa altezza, corrispondentialla frequenza della relazione nel tempo e allasuperficie coinvolta nel sistema territoriale.Penso sia possibile parlare di strumenti terri-toriali e linguistici, che corrispondono a rela-zioni specifiche, il cui insieme definisce la ter-ritorialità altrettanto rappresentabile comecanna d’organo. Visto su un piano, si ha vera-mente di fronte un arcipelago, le cui isole so-no luoghi di proiezione del lavoro in moltepli-ci attività.

La griglia di analisi proposta qui è natural-mente rudimentale, ma possiede, ciononostan-te, il merito di creare un legame tra lingua e ter-ritorio, indipendentemente dalla cartografia.L’elemento comune a tutte queste attività è illavoro, che modella allo stesso tempo gli stru-menti culturali e gli strumenti territoriali. Se èpossibile una geografia culturale è attraversole relazioni di lavoro che la si dovrà cercare.

Questi strumenti o sistemi di proiezionemobilitati dal lavoro hanno un rapporto mol-to stretto con il tempo. Sarebbe d’altra partepreferibile utilizzare la parola durata che sot-tintende l’idea di memoria, la cui importanzaè notevole quando si tratta di cultura: “L’anti-ca credenza dei Greci, che facevano della me-moria la madre delle Muse, traduce un’intui-zione fondamentale rispetto alla natura dellearti e dello spirito” (Steiner, 1989, p. 29). Lamemoria è essenziale per mantenere radicatol’Io nella collettività: “Ciò che è inciso nellamemoria – e dunque suscettibile di essere ri-portato alla mente – garantisce la stabilità del-l’io” (Steiner, 1989, p. 29). La memoria e l’o-blio, indissolubilmente legati, costituiscono

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una tela di Penelope che ogni generazione fa edisfa, nello spazio e nel tempo. Per fare com-prendere questo rapporto, tra la memoria el’oblio, vorrei ricordare che “[...] i venezianihanno edificato su dei pali di larice chiese epalazzi” (Rigoni Stern, 1991). Questi pali dilarice, evidentemente non li si vede più, ma so-no ancora là, dopo essere stati strappati alleAlpi, secoli orsono, per servire da supporto auna delle più meravigliose culture urbane chel’Europa abbia creato. Gli uomini hanno di-menticato la natura alpina, che ha reso Vene-zia possibile, ma a partire dalla quale, tuttavia,hanno costruito questo paesaggio di pietrastupefacente che affascina tutte le generazio-ni; anche se in ognuna di queste si trovano au-tori che screditano e sminuiscono la città deidogi e gliene preferiscono altre. È nell’ordinedelle cose, e va bene così, in quanto questo ser-ve ancora all’eternità mentale della città checontinuerà, anche dopo la sua scomparsa acatturare l’immaginario occidentale.

Attraverso questa metafora voglio sempli-cemente dire che la memoria vissuta o sognatadi Venezia è costruita sull’oblio dei materialinaturali che l’hanno resa possibile. Dietro lamemoria di una cosa c’è quasi sempre l’obliodi un’altra che l’ha resa possibile. Dietro lamemoria di una cultura vi è l’oblio di un’altracultura che gli ha fornito gli elementi di cuiquesta si è nutrita prima di essere lei stessa di-menticata e permettere la creazione di un’al-tra memoria e così via, fino a che vi sarannocomunità e società. Gli elementi scomparsi diqueste culture lasciano le loro tracce nei lin-guaggi.

All’origine di ogni cultura si nasconde unarelazione fondatrice, un mito che collega latrasgressione a una proibizione. Il mito è unprodotto consustanziale della cultura. Non èfuori dalla cultura reale, ma molto addentro,anche se spesso non immediatamente visibile.I miti stanno alla cultura come i pali di laricestanno a Venezia. Per persuadersi è sufficien-te ricordare i miti letterari per capire che tuttele nostre letterature, costruzioni sapienti cer-to, si sono edificate su questi famosi pali di cuinon abbiamo sempre conservato la memoria.

Così ogni cultura opera su, e a partire da,elementi che lei stessa rifugge e dimentica, an-che se sono ulteriormente esumati, ripresi in

nuove forme. È il famoso passaggio dalla cosaall’immagine della cosa: passaggio dalla natu-ra all’immagine della natura, passaggio dallacultura alle immagini della cultura.

Le immagini e l’identità

Lingue e territori, a prescindere dalla loronatura, costituiscono un’interfaccia deforma-ta, come si è visto, ma sempre presente, checontribuisce ad alimentare rappresentazioniche possiamo benissimo definire immagini.Queste ultime non sono contemporanee leune rispetto alle altre, e servono da supportoalle collettività presenti, per identificare le lo-ro identità. Gli antichi territori agricoli e ur-bani, ad esempio, conservano le tracce di atti-vità scomparse, nate da un lavoro oggi cristal-lizzato. Non sono più territori vivi, poiché so-no più immagini che realtà, ma possono anco-ra nutrire l’identità attuale se la collettività lifa entrare in un circuito di nuove attività. So-no forme, le cui funzioni sono cambiate, recu-perabili nei contesti di nuovo lavoro.

Prodotti del lavoro sulle cose, queste imma-gini, riattivate dalla memoria e dalla cultura,sussistono a lungo, dopo la scomparsa dellecose. Queste immagini giocano lo stesso ruolodelle maschere a teatro e vorrei qui ricordareDario Fo: “È il valore del corpo che determi-na il peso della maschera. In poche parole, seio muovo qualche passo in avanti, la mascheraprende un determinato valore. Se, di colpocambio la posizione e cammino con un’altracadenza, ecco che assume un altro valore. Sot-to, la mia faccia rimane impassibile, senzaespressione, perché tutta l’espressione allamaschera, la dà il corpo” (Fo, 1987, p. 36).

Queste immagini dell’identità giocano il ruo-lo delle maschere a teatro. Non assumono tut-to il loro valore e il loro significato se non attra-verso i movimenti d’insieme di una comunità.Anche l’identità più logora può sopravviverese le sue immagini sono l’occasione di una ge-stualità collettiva che metta in scena progetti.

La celebrazione del patrimonio in tutte lesue forme con le immagini di paesaggi che nederivano è un modo di riannodare i legami concerte radici identitarie. È il problema dei fa-mosi luoghi della memoria che possono riu-

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scire a liberare identità se la loro implicazionenon è fine sé stessa ma è collegata a nuovi pro-getti collettivi. Le immagini da sole non han-no alcun dinamismo se non esiste un’interse-zione con le “utilità sociali”, immediate, dellacollettività. La storia è un cimitero di immagi-ni identitarie, la maggior parte delle quali nonrievoca altro che un passato amnesico, rispet-to alle intenzioni.

Detto questo, le immagini, come dicevo al-l’inizio, sono talvolta tanto più pericolosequanto fissate in una coscienza storica perver-sa. L’ultima crisi del Kosovo ci ha dato unesempio perfetto con la rivendicazione serbadel luogo della battaglia del Campo dei Merli.Molti popoli, tra cui gli albanesi, hanno altret-tante ragioni per identificarsi con questo luo-go. Chi può ignorare, d’altra parte, il fatto chei luoghi hanno numerose volte cambiato to-ponimo attraverso la storia. L’anamorfosiidentitaria è in perpetua evoluzione, come te-stimonia con un’eloquenza eccessiva tutta lastoria d’Europa. Si assiste alla stessa cosa nel-l’identificazione con i personaggi storici: Car-lo Magno illustra a meraviglia le erranze deltempo, ma questa è un’altra storia!

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La rappresentazione identitariadel patrimonio territoriale

Alberto Magnaghi

Affronterò il tema “immagini e identità” dal punto di vista del progetto urbanistico. La rela-zione di Raffestin suggerisce alcuni punti di riflessione.

Sostiene Raffestin: le immagini sono sempre dangereuses. Prima riflessione: io produco imma-gini, scenari territoriali, e quindi sono pericoloso. Per non sentirmi tale sento il bisogno mitigarel’affermazione: le immagini, le rappresentazioni, sono sempre intenzionali, selettive, in qualchemodo mentono, poiché estrapolano alcuni elementi del territorio, li ingigantiscono, ne occulta-no altri. La carta celebra una visione del mondo. Detto questo ritengo che ci possano essere im-magini celebrative di valori territoriali e ambientali che possono essere utili nei processi di auto-riconoscimento e di cura del territorio da parte degli abitanti; e per favorirne i processi di rei-dentificazione con i luoghi.

La seconda questione è quella della maschera. Ovvero: ciò che vediamo del passato del terri-torio è un simulacro di soggetti, di référence? Il problema è chiedersi se questo territorio è mor-to, moribondo o vivente, e se è necessaria la sua rinascita per un futuro sostenibile. Il problemadi fondo è: può proseguire all’infinito il processo di deterritorializzazione contemporanea, ri-spetto alla quale il territorio storico è un simulacro? Se si ritiene insostenibile questa via occorreriguardare ai luoghi e alle immagini che ne celebrano la rinascita come soggetti moribondi, mapurtuttavia viventi, reali, con cui i nuovi abitanti, per sopravvivere, nelle pause dei loro viagginel ciberspazio, dovranno prima o poi intrattenere un rapporto di cura e di valorizzazione. Acondizione appunto che non si considerino i luoghi come puri simulacri, rappresentazioni tea-trali o museali dell’identità passata, ma come potenziali produttori di nuova identità.

Vorrei discutere di queste questioni nel mio intervento e trovandomi seduto tra il professorRaffestin e il professor Turco, utilizzerò entrambi per costruire uno schema, molto semplice, chedescrive in modo operativo il processo di territorializzazione, la formazione di lunga durata delterritorio.

Territorializzazione, deterritorializzazione, riterritorializzazione (Raffestin, 1986), aumentodella massa territoriale (Turco, 1984): questo in breve il processo e lo schema che ho rielaboratoper rappresentare le identità di lunga durata dei luoghi, i loro tipi e le loro individualità (Ma-gnaghi, 2001) .

Perché è utile la ricostruzione storica del processo di territorializzazione e delle struttureidentitarie di lunga durata? Il contesto in cui operano oggi l’urbanistica e la pianificazione è an-dato rapidamente mutando: i nuovi linguaggi istituzionali pongono molti compiti di ricercaproprio sulle immagini e sulla rappresentazione identitaria.

Locuzioni come “descrizione fondativa” (legge regionale 36/97 della Regione Liguria) come“invarianti strutturali”, “statuti dei luoghi” (legge regionale 5/95 della Regione Toscana), “pro-

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getti strategici integrati” (PRS 1996-2000 dellaRegione Lombardia) indicano che nel linguag-gio amministrativo è iniziato (almeno nel lin-guaggio, anche se nella pratica ci sono moltecontraddizioni e incertezze) un percorso di ri-valutazione dei luoghi, delle identità territo-riali, delle peculiarità degli stili di sviluppo, inrelazione al problema della valorizzazione delpatrimonio territoriale. Questo percorsoesplorativo nella profondità del tempo e nellepeculiarità dei paesaggi è frutto della percezio-ne ormai diffusa degli effetti omologanti e di-struttivi di ricchezza dei processi di globaliz-zazione economica; della crisi identitaria se-guita alla fine degli statuti sociali del fordismoche prevedevano l’operaizzazione del mondo.Si ripresenta dunque la necessità di riguardareal territorio da cui ci si era liberati (tecnologi-camente, simbolicamente, esteticamente, so-cialmente) come potenziale giacimento per laproduzione di ricchezza durevole e autososte-nibile e di nuovi statuti societari. Tutta questatematica è legata alla sostenibilità, cioè alla pre-sa d’atto che i modelli di sviluppo passati, chesi fondavano su una riduzione del territorio inspazio astratto a supporto isotropo, inanima-to, di attività economiche, erano modelli cheproducevano, a lungo andare, insostenibilitàambientale, sociale, economica: soprattutto in-sostenibilità economica se si pensa che nei mo-delli analitici di Daly e Cobb (Daly, 1996; Daly-Cobb, 1990) si verifica un divario crescente,dopo il 1975 negli Stati Uniti, tra il prodottointerno lordo e il benessere, misurato con unaserie significativa di indicatori. Si arriva all’as-surdo che la crescita economica produce nuo-ve povertà. A partire dalla constatazione chequeste nuove povertà derivano in gran partedal degrado ambientale, urbano e dalla deter-ritorializzazione, il territorio assume un ruolotutt’affatto diverso da quello che aveva nellasocietà industriale fordista. Il territorio è rein-terpretato come individualità e come insiemedi giacimenti patrimoniali attraverso cui co-struire nuovi stili di sviluppo sostenibili o, me-glio, autosostenibili; un potenziale produttoredi ricchezza durevole nella sua complessa na-tura di sistema relazionale fra ambiente fisico,costruito, antropico. Il territorio acquista dun-que nuova centralità nella ricerca di modelli disviluppo sostenibili (Magnaghi, 2000).

Se attribuiamo una potenzialità positiva aquesto mutamento di ruolo del territorio è ne-cessario che geografi, storici, urbanisti, scien-ziati sociali e della terra si applichino alla ride-finizione di un corpus analitico multidiscipli-nare che consenta di rifondare i sistemi infor-mativi territoriali (che sono alla base del gover-no del territorio) in chiave identitaria e patri-moniale anziché in chiave funzionalista. La ri-cerca sull’identità dei luoghi perde il suo sapo-re archeologico, museale, divenendo ricercasul futuro possibile dell’insediamento umano.

In questa ricerca incontriamo molti problemi.La rappresentazione dei valori territoriali e

ambientali diventa un elemento fondamentaledel progetto. Evidenziare, descrivere questivalori significa produrre una rappresentazio-ne orientata alla loro trasformazione in risor-se, qualora la società li sappia “trattare” e uti-lizzare in modo durevole e sostenibile.

Questo cambiamento di ruolo del territoriopone molti nuovi compiti e molti nuovi pro-blemi. Quando si vogliono mettere in eviden-za i caratteri patrimoniali dei luoghi, occorrecorrelare nella descrizione la geografia fisica (isistemi ambientali, i caratteri morfotipologici,le strutture territoriali e urbane di lunga dura-ta, le invarianze, le persistenze, i sedimenti ma-teriali), la geografia socioeconomica, (i modellisocioculturali di lunga durata, i milieu, i sape-ri e i modelli produttivi, i sedimenti cognitivi),e infine la geografia politica (gli attori del cam-biamento, la città insorgente, il processo diformazione di nuove identità e aggregati co-munitari).

Il problema della costruzione di un “atlan-te” di questo tipo sta innanzitutto nella com-plessità e varietà dei sistemi di rappresentazio-ne contenuti in ogni suo capitolo; e poi nellenecessarie correlazioni fra i capitoli che eviden-zino le potenziali sinergie fra valori territorialie attori sociali atti alla loro reinterpretazione.

Ognuna di queste tre valenze del patrimo-nio territoriale (valori dell’ambiente naturalee costruito, potenzialità innovative del milieusocioculturale, ambiente politico del cambia-mento attraverso la reinterpretazione del pa-trimonio) presenta strumenti analitici e disci-pline, forme della rappresentazione, velocitàdei processi non coincidenti, anzi fortementedifferenziati. Ad esempio, la formazione di

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nuovi aggregati identitari è un processo legatoal pluriverso prodotto dalla mobilitazione dipersone, merci, informazioni su scala planeta-ria. Su uno stesso sistema territoriale locale siaddensano molti territori (ognuno dei quali èun territorio della quotidianità, dello scambio,di référence e del sacro, per usare lo schemainterpretativo di Raffestin) e molti linguaggi.La velocità temporale e spaziale del processoidentitario contemporaneo è molto diversa daltempo di formazione dell’identità morfotipo-logica dei luoghi, prodotta dall’accumulo diprocessi coevolutivi di lunga durata fra inse-diamento umano e ambiente.

Quindi il problema si complica all’infinito einsieme si complica il problema della rappre-sentazione e della descrizione.

L’atlante del patrimonio territoriale non puòrisolversi perciò in una serie di cartografie. Èpiuttosto un ipertesto, un sistema informativocomplesso, multimediale, con giacimenti diinformazione, con metodologie di rappresen-tazione che vanno dal racconto alla testimo-nianza, alla storia, ai dati, agli schemi, alla car-tografia numerica.

La nostra ambizione è che questi atlanti, cuistiamo lavorando, costituiscano la base deinuovi sistemi informativi regionali, dato chele stesse istituzioni pongono la domanda diriorganizzare i modelli di sviluppo in funzio-ne delle peculiarità delle identità dei luoghi,domanda a cui si sta rispondendo in modosperimentale.

Ad esempio le prime applicazioni della leg-ge toscana, che contengono espressioni miste-riose come “invarianti strutturali” e “statutodei luoghi” (Cinà, 2000), sono molto difformitra loro dato che l’indeterminatezza di questitermini porta i progettisti a interpretarne il si-gnificato. I progettisti hanno interpretato ilconcetto di invariante strutturale chi con i monumenti, chi con i sistemi ambientali, chicon i parchi, chi con i fiumi e le rappresentazio-ni corrispondenti. C’è anche chi ha interpreta-to le invarianti strutturali con le autostrade. Unminimo di chiarezza è quindi d’obbligo.

Ricordo che la parola “invarianti struttura-li” non nasce in urbanistica ma in biologia, do-ve definisce appunto le strutture che consen-tono a un sistema biologico di variare nel tem-po rispetto alle sollecitazioni del contesto

mantenendo la propria identità. La trasposi-zione del concetto in urbanistica è molto com-plessa perché non vuole solo dire individuarestrutture fisiche invarianti (quali ad esempiole strade romane, la localizzazione e la tipolo-gia delle città, i terrazzamenti, i monumenti,ecc.), ma soprattutto significa individuare regole della trasformazione territoriale chetengano conto delle invarianti strutturali, cioèdell’architettura delle relazioni fra ambientefisico, costruito, antropico, che permette al si-stema territoriale, nel cambiamento, di non an-dare in crisi, di perpetuarsi, anzi di accrescerela propria identità. La nostra “civilizzazione”tutto questo, purtroppo, non l’ha fatto.

La deterritorializzazione contemporanea èun processo senza ritorno che costituisce la re-gola insediativa dell’urbanizzazione contem-poranea, sia della città industriale, sia, soprat-tutto, della città postindustriale, attraverso lazonizzazione funzionale prima, e poi il trasfe-rimento nell’iperspazio, nel ciberspazio, dimolte delle relazioni e delle funzioni simboli-che e materiali della comunicazione. Conun’immagine sintetica si può dire che la piaz-za telematica sostituisce la piazza reale ridottaa parcheggio o a museo della città.

È un processo di deterritorializzazione che,come ho detto, pone un problema. È pensa-bile un processo all’infinito di deterritorializ-zazione?

Nelle nostre ipotesi di ricerca pensiamo chesia necessario un processo di riterritorializza-zione, di ricostruzione di una relazione tra l’uo-mo e l’ambiente, tra la natura e la storia, e chequesto rapporto (e non semplici protesi tecno-logiche) sia quello che può produrre una so-stenibilità e una durevolezza dei modelli inse-diativi che oggi sono andati perduti. L’incon-tro fra identità storica dei luoghi e nuovi abi-tanti (che dovrebbe avviare il processo di for-mazione dello statuto dei luoghi) è un incon-tro difficile. I nuovi abitanti sono ancora mol-to distratti (dal ciberspazio e dalle piazze tele-matiche, dal viaggio nelle reti lunghe della glo-balizzazione, dal divorare merci, energia congigantesche “impronte ecologiche”, dalle po-vertà estreme e relative in crescita nella mega-lopoli terzomondiale e nella “città globale”).Ma molti processi di formazione identitariahanno iniziato a sviluppare trame di neoradi-

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camento e di “cura” del territorio come anti-doto alle nuove povertà. Lo “sguardo” va mu-tando: dal senso di vergogna e distacco dal pro-prio territorio in molte periferie regionali altempo dell’operaizzazione e della metropoliz-zazione, a una reinterpretazione, nel movimen-to del ritorno, dei valori territoriali locali comerisorsa per un altro sviluppo. La riappropria-zione molecolare del territorio segue lo smar-rimento identititario della deoperaizzazione edella desalarizzazione nell’epoca postfordista.

In questo processo di riappropriazione rite-niamo importante individuare quelle che hochiamato “energie da contraddizione” o da“innovazione” (si veda la figura 1 a p. 190);energie in contraddizione-opposizione ai pro-getti di deterritorializzazione. Sono energie la-tenti o manifeste all’interno della società, so-no movimenti, comportamenti, culture, prati-che abitative e produttive che si cominciano aorganizzare attorno alla “cura dell’ambiente”.La “geografia politica” dovrebbe appunto in-dividuare, denotare e rappresentare attori,comportamenti, movimenti che possono co-stituire energie positive per la trasformazionedei valori territoriali in risorse per lo sviluppoautosostenibile. La rappresentazione della re-te degli attori virtuosi per la trasformazioneecologica del territorio e dei loro progetti im-pliciti o espliciti è un atto importante per lamodificazione del tavolo decisionale; questamodificazione verso una maggiore forza degliattori deboli o muti modifica gli scenari delletrasformazioni possibili.

Le energie della trasformazione possono es-sere energie locali, cioè di gente del luogo, op-pure esterne. Anzi, sovente i locali, quelli cheabitano da sempre in un luogo, sono portatoridi culture esogene che comportano la ristrut-turazione/distruzione dei luoghi. Una volta ivandali venivano dall’esterno, oggi vengono,in genere, dall’interno. Sovente invece chi vie-ne da fuori, dalla crisi delle culture metropoli-tane, porta nei luoghi una “cultura della cura”,una volta retaggio degli stili di vita non urbani.

Quando quindi si parla di “attori della cu-ra”, non si parla né degli abitanti locali, né de-gli abitanti globali, di quelli che cioè vivononel ciberspazio, bensì di coloro che, dentroquesta contraddizione, si muovono alla ricer-ca di una via innovativa. È tramite questi atto-

ri che forse un processo di riterritorializzazio-ne può avvenire.

Sul tema specifico delle invarianti struttura-li (“geografia fisica” nell’atlante) abbiamo ini-ziato all’università (Magnaghi, 1999-2000) unlavoro di ricerca che ha prodotto delle nuoverappresentazioni.

Sulla base dello schema citato (territorializ-zazione, deterritorializzazione, riterritorializ-zazione), abbiamo iniziato a elaborare alcunimodelli, ad esempio, sulla piana fiorentina1,dove emergono le trasformazioni e le persi-stenze presenti sul territorio considerato. Ven-gono rappresentati i caratteri strutturanti ilprocesso di territorializzazione in epoca etru-sca, romana, rinascimentale, emergono le evo-luzioni e i cambiamenti nelle gerarchie terri-toriali, nella struttura dei nodi e delle reti,emergono altresì gli schemi paesistici invarian-ti che si formano nel Pliocene e restano tali fi-no all’età contemporanea.

La piana fiorentina era inizialmente un lagopliocenico. Il ritiro del lago ha lasciato una zo-na aperta, umida, di divagazione del fiume,con caratteri che permangono nel processo diterritorializzazione storico: la centuriazioneromana, poi quella alto-medievale fino al pe-riodo lorenese.

L’insediamento è sempre situato al di sopradella faglia, dove c’è la via Cassia, la via roma-na. I centri urbani sono centri collocati cometestate di valli profonde che si affacciano sul-l’antico lago pliocenico. Un lago che non c’èpiù, ma è presente come memoria ambientale,traccia territoriale. La piana è un’area in cuinel tempo le attività umane avanzano e si riti-rano, ma sempre con attività legate allo spazioaperto, di divagazione del fiume, di spazioumido. Anche nelle coltivazioni c’è un movi-mento temporale di andata e ritorno che man-tiene una individualità, una personalità delluogo. Questo è lo schema che permane finoalla nostra civilizzazione. Civilizzazione chedimentica questa struttura profonda del terri-torio, questa regola che permette una forteflessibilità nell’utilizzazione e nell’uso dellospazio, rispettandone le invarianti strutturali.

La civilizzazione contemporanea invece“riempie” l’antico lago. Lo riempie di oggetti,aeroporti, superstrade, svincoli, fabbriche,magazzini, residenze, uffici. Non tiene più

PARTE PRIMA - SESSIONE I

1 Le tavole della piana fio-rentina sono elaborate daDaniela Poli. Si veda Poli(2000).

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conto della regola che determina il fronte, lastrada, l’allineamento dei nodi. Questo spazioallora va in crisi profonda (ambientale, urba-na, paesistica, ecc).

Cosa vuol dire ciò? Significa che il territoriodeve seguire una legge divina, immutabile?No. Tutte le rappresentazioni mostrano cheogni civilizzazione ha usato in modo comple-tamente diverso lo stesso spazio. Quella etru-sca lo ha trattato con una civilizzazione di col-lina, di pianura quella romana, di nuovo di col-lina quella medioevale, di collina protesa nellapiana agricola quella rinascimentale, ma tuttehanno interpretato regole di relazione virtuo-sa fra insediamento umano e ambiente chechiamiamo invarianti strutturali.

Sono regole relazionali e non forme da ri-spettare. Non ci interessa quindi riproporrein questa ricerca un discorso relativo al prose-guimento imitativo o stilistico di morfologie,di tipi edilizi, di tipi urbanistici. Facciamopiuttosto un discorso sulle regole rispettandole quali una civilizzazione può produrre un in-sediamento durevole in grado di autoripro-dursi. Esistono regole che se non rispettateconducono alla morte di un territorio.

Una precisazione: il territorio può morire, laterra chiaramente non muore. Gaia non muo-re perché trova nei secoli, nei millenni, il mo-do di riorganizzarsi in nuovi climax. Ma un ter-razzamento abbandonato, che è un’opera mil-lenaria dell’uomo, può morire come territorio,cioè come costruzione storica coevolutiva cheha plasmato un paesaggio, un microclima, unanuova fertilità dei suoli, delle culture produt-tive, un assetto idrogeologico, e cosi via. Tuttoquesto può morire, tornando natura.

Dipende da noi farlo morire o meno, non èun problema della natura. Alla natura nullaimporta se una montagna crolla, troverà nuo-vi equilibri idrogeologici e ecologici. Importapiuttosto alle comunità che stanno a valle e chevengono sepolte dalla frana e dalle alluvioni, eche perdono l’identità storica del luogo (pae-saggio, culture produttive, saperi, qualità am-bientale, ecc.).

Nelle nostre ricerche diamo molta impor-tanza alla “celebrazione”, cioè alla visione co-me “evidenziazione”, per rendere visibile l’in-visibile, evidenziare gli aspetti dell’invarianza,quei sedimenti materiali e culturali che posso-

no suggerire dei nuovi equilibri. Tutto ciò èpossibile se la rappresentazione, la celebrazio-ne, incontra una società che dialoga con que-ste invarianze.

La ricerca comporta in questo senso anchedelle “visioni”, delle rappresentazioni irreali-stiche, ad esempio tavole con molte “demoli-zioni” (dimenticanze, sulla carta), che peròhanno lo scopo di individuare i valori territo-riali di lunga durata, di fornire delle indicazio-ni suggestive, di mostrare gli elementi poten-ziali su cui cominciare a ragionare per un pro-getto. Sono immagini, in sostanza, che eviden-ziano il progetto di territorializzazione di lun-ga durata che può costituire il quadro di orien-tamento per recuperare la storia, per tracciareil disegno allusivo alla regola, un disegno dicostruzione di lunga durata del territorio.

Abbiamo fatto anche tentativi di definiresuggestivamente le invarianti con carte di sin-tesi molto olistiche, poetiche, per alcuni versipoco scientifiche, ma che esprimono il con-centrato, la sintesi, di tutte le carte analiticheprecedenti, le carte dei sistemi ambientali, deisistemi territoriali, ecc.

Per fare questo ci siamo ispirati per alcunedi queste carte allo schema di Morales, dellecarte interpretative della Catalogna (AA.VV.,1979).

Sono carte che evidenziano alcuni aspetti ri-tenuti caratterizzanti di un luogo e, in partico-lare, l’insieme del sistema ambientale nella suarelazione con il sistema insediativo di lungadurata. Ad esempio: • Sul Chianti fiorentino: un sistema di valli

(Pesa e Virginio) dove vengono evidenziatile trame agrarie diverse, i fiumi, i crinali, lapermanenza dei boschi di lunga durata, il si-stema insediativo della villa-fattoria.

• Nella zona dell’Alta Maremma, in partico-lare della val di Cornia, dove mettiamo inevidenza i valori territoriali e ambientali al-ternativi all’impoverimento avvenuto nel-l’entroterra negli anni dell’industrializzazio-ne (Piombino, l’Italsider, la centrale del-l’ENEL, la chimica, Scarlino) e dove attra-verso carte di sintesi di tutti i suoi valori am-bientali si forniscono indicazioni progettua-li alternative. Abbiamo preparato carte chesono visionarie, dove l’Italsider è segnatapochissimo, in bianco, la centrale dell’ENEL

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quasi non si vede, mentre appaiono un gran-de parco, il fiume, ecc. Sono carte di rein-terpretazione dei valori territoriali e am-bientali e che propongono una diversa con-figurazione del territorio.

Voglio ancora porre il problema della geo-grafia politica con un esempio tratto da un la-voro sull’area milanese (Magnaghi, 1995).

In questo caso abbiamo costruito uno sche-ma che è alla base di un modello di valutazio-ne polivalente fatto nel progetto di risanamen-to della regione milanese e che evidenzia gliorizzonti strategici per la rivalutazione am-bientale, individuando delle soglie di inversio-ne del degrado.

Il progetto è incentrato sulla valorizzazionedel sistema fluviale del Lambro (Magnaghi,1998). Il fiume Lambro ha avuto una serie diusi storici ricchissimi e complessi, nel tempo èstato un elemento di generazione di territoria-lità, di costruzione di territorio: territorioagrario, territorio urbano, tipologie urbane,irrigazione, pesca, navigazione, ecc.

Nella nostra civilizzazione gli usi del sistemafluviale sono prevalentemente incentrati sullafunzione di collettore fognario. Questo pas-saggio spiega molto del processo di deterrito-rializzazione: un fiume che è stato nelle varieepoche storiche sempre generatore di territo-rialità, come tutto il sistema delle acque dellaregione milanese, che ha favorito per secolil’aumento della fertilità del suolo, l’aumentodel valore del territorio attraverso le opere dicanalizzazione, captazione, redistribuzione,improvvisamente si trasforma in un elementodi rischio. E questo è un passaggio storico ra-dicale. Oggi l’immaginario di questo fiume èche esso sia un rischio, perché esonda, perchépuzza, perché è inquinato. Conseguentemen-te tutte le politiche istituzionali si sono attesta-te finora sulla riduzione del rischio. Riduzionedel rischio che vuol dire riduzione dell’inqui-namento e del rischio di esondazione.

In questo progetto noi lavoriamo con le po-polazioni locali adottando uno schema precisodi lavoro, metodi di pianificazione interattiva.Abbiamo quindi raccolto la progettualità loca-le e ci siamo accorti di una sfasatura straordi-naria fra quelli che sono l’aspettativa, i deside-ri e i comportamenti delle popolazioni locali,

ivi comprese le amministrazioni comunali, leassociazioni di difesa del fiume e le struttureorganizzate in generale, che sognano, pensanoe proiettano un immaginario di recupero delfiume alla sua funzione di generatore di qua-lità urbana e territoriale; e i piani, le politichefinora svolte, orientate a contenere i rischi cheil fiume presenta in quanto collettore fognario.

Cosa vuol dire questo? Significa che la ridu-zione del fiume a collettore fognario, a rischioidraulico e inquinologico, ha costituito un ab-bassamento radicale della qualità dell’abitare;oggi è diventato un bisogno rileggere quantoè stato fatto nella storia interpretando il fiumecome generatore di valori ambientali, territo-riali, urbani. Intorno al fiume si esprime unnuovo bisogno di ricchezza, intesa non solo insenso monetario. Si vuole rivedere, rileggere,reinterpretare il fiume come attore di una nuo-va riterritorializzazione.

Per dar corpo a questo immaginario noi ab-biamo ricostruito la struttura di lunga durata,le carte storiche della regione milanese con lazona dei laghi, tutte le piccole città, le zoneagricole, la zona irrigua, i tre fiumi, Lambro,Seveso e Olona che l’attraversano, il Ticino el’Adda. Abbiamo ricostruito il sistema delleinvarianti strutturali, ovvero dei rapporti vir-tuosi fra insediamento umano e ambiente, chehanno accumulato “valore aggiunto territoria-le” dalla colonizzazione romana fino ai primidel Novecento. La proporzione fra elementi,fra acque e insediamenti, fra uso della pianu-ra, uso della collina, è rimasta grosso modo in-variata e quindi la possiamo considerare comela struttura profonda del territorio.

Nel frattempo sono successe trasformazioninegli ultimi 50 anni che solo le carte possonomostrare. Un processo che ha generato unenorme degrado (espresso in una carta di sin-tesi, fig. 9 a p. 197) che ha dato luogo a unaforma nuova del territorio. Non più la formapolicentrica, complessa, ma una forma a mac-chia d’olio, di tipo centro-periferico, attraver-so un completo stravolgimento delle propor-zioni storiche del modello insediativo.

Il nostro progetto ha cominciato a riconsi-derare gli spazi aperti, la ricostruzione deglielementi dimenticati dal recente, e passato,modello di sviluppo, fornendo un’altra imma-gine del territorio.

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Quindi abbiamo creato nuove immagini.Immagini che lavorano sulla riconnessionedelle reti ambientali, che restituiscono al terri-torio paesaggi diversi da quelli dati dal pro-cesso di urbanizzazione, ricostituendo astenord-sud, che sono corridoi verdi, ricostruen-do un anello intorno a Milano, riutilizzando,ad esempio, il canale Villoresi entro una reteecologica orizzontale, e via dicendo. In questocontesto il disegno degli spazi aperti ridefini-sce il disegno degli spazi chiusi.

Lo “scenario utopico” di riferimento somi-glia alla situazione settecentesca.

La tendenza è ricostruire un sistema poli-centrico che superi il modello centroperiferi-co, a macchia d’olio, della città di Milano, e ri-costruisca il sistema complesso di sistemi am-bientali e territoriali leggibili nella lunga dura-ta. Lo scenario utopico non è una carta urba-nistica, non serve agli urbanisti per fare nor-me, è un “riferimento concettuale” che ha die-tro molte analisi, e quindi una “visione”, cheperò serve a far capire entro quale disegnooperare, serve a tracciare i confini entro cuicompiere scelte particolari, puntuali.

Il problema della pianificazione oggi è usa-re queste visioni per costruire tavoli di concer-tazione in cui gli attori si rendano conto e per-cepiscano l’importanza del bene comune, delpatrimonio territoriale, si riapproprino dellacostruzione delle loro rappresentanze degli in-teressi collettivi.

Ad esempio in Val Bormida, nel “dopo ACNA”, i progetti di sviluppo (ultimo il pianodella Comunità Montana che ho redatto) so-no stati accompagnati da un tavolo (consulta)in cui i diversi attori della valle, potessero ri-conoscere come propri i valori ambientali eterritoriali dimenticati dalla lunga fase di de-grado prodotta dall’industrializzazione, e po-tessero intravedere nella loro trasformazionein risorse la potenziale ricchezza del futuromodello di sviluppo sostenibile.

Attraverso il nostro progetto gli attori eco-nomici, gli agricoltori, le banche, le associa-zioni ambientaliste, i sindaci, hanno potutoconfrontarsi su una visione del futuro, riap-propriarsi di un territorio e di un progetto incui l’agricoltura, il bosco, il terrazzamento, ilfiume ritrovato, possono insieme costituireun’economia agroterziaria ricca e di alta qua-

lità. Una volta raggiunta la consapevolezza diquesto disegno comune intorno a cui produr-re ricchezza durevole, esplicitare i diversi in-teressi e le diverse rappresentanze, le azioniche danneggiano questo disegno vengono vi-ste come negative, vengono autorepresse dal-la comunità; superando così criteri di pianifi-cazione vincolistica verso l’autogoverno con-sapevole del patrimonio territoriale.

Come si vede, i compiti che attengono le no-stre discipline sono a mio parere molto com-plessi. La costruzione degli atlanti non è un’a-zione puramente descrittiva ma è un’azioneeuristica che produce progetto. Credo che lacostruzione di questi atlanti debba vedere dinuovo insieme molte discipline a lavorare pertrasformare rappresentazioni del patrimonioterritoriale, per trasformare la rappresentazio-ne istituzionale dei sistemi territoriali attraver-so cui si governa il territorio. I territori deinuovi abitanti sono molti, ma devono trovarecittadinanza in un medesimo luogo, prose-guendone la trasformazione attraverso nuovi“atti territorializzanti”: ciò richiede un incon-tro fra identità di lunga durata del luogo e nuo-vi abitanti, per la produzione di nuova territo-rialità e la trasformazione della babele dei lin-guaggi in nuovo spazio pubblico. Questo in-contro può darsi intorno alla costruzione discenari strategici di trasformazione che pon-gano gli attori di fronte alla necessità di rico-noscimento dell’interesse comune: la valoriz-zazione del patrimonio territoriale. Il “pattocostituzionale” fra gli attori fonda lo statutodei luoghi. Ma lo stesso scenario, la rappre-sentazione di un futuro possibile, è frutto del-l’ascolto delle diverse rappresentanze di inte-ressi e delle rappresentazioni conflittuali delterritorio che esse esprimono.

La costruzione dello scenario è dunque essostesso un processo interattivo, sociale, che de-situa poteri di rappresentazione enfatizzandola rappresentazione del territorio prodotta da-gli attori virtuosi per la trasformazione.

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Sociotopie: istituzioni postmoderne della soggettività

Angelo Turco

Il titolo di questa comunicazione presenta qualche singolarità. Vi si ritrovano termini che, atutta prima, non dovrebbero stare insieme. La postmodernità, per come è spesso percepita,sembra rinviare a qualcosa che stride con i processi di istituzionalizzazione. Ma ancora, parlia-mo di espressioni della persona o di movimenti sociali? E inoltre, la soggettività rinvia certo al-l’identità, una delle parole-chiave di questo convegno, ma attraverso quali percorsi? Cercheròdi muovermi all’incrocio di tali molteplici interrogativi, per mostrarne la qualità dialettica o an-che per riformularne geograficamente il contenuto problematico. Metterò l’accento, in partico-lare, su un ethos della soggettività che se da un lato risponde allo sgretolamento delle identitàcollettive, rappresenta altresì la risorsa focale per la loro ricostituzione. L’idea di sociotopia, in-fine, sosterrà il tentativo di mostrare la natura intimamente territoriale delle dinamiche evocate.Discuterò questa idea, che pure è nata nel corso di ricerche africane, con riferimento soprattut-to a situazioni e tradizioni di pensiero occidentali (Turco, 1999).

L’io come progetto riflessivo

Nello sforzo di definire la sua posizione critica di fronte al concetto di postmodernità, Giddens (1994) richiama un’idea di Roszak: “Viviamo in un’epoca in cui la stessa esperienza pri-vata di avere un’identità personale da scoprire, un destino personale da compiere, è diventatauna forza politica sovversiva di grandi proporzioni”. Credo che Roszak abbia profondamente ra-gione. Al medesimo tempo, l’analisi che egli fa circa le cause di questo stato di cose è discutibile,come lo stesso Giddens ha mostrato. Qui vorrei tuttavia fare un passo avanti, e soffermarmi sulcontesto in cui si dispiega questo “ethos della scoperta di sé”. Partiamo pure dalla risposta di Ro-szak. Viviamo in un mondo “troppo grande” che, avendo smarrito la sua connotazione apotropi-ca, non è in grado di alimentare alcun sentimento di sicurezza e si presenta, anzi, con fattezzeopache e vesti angosciosamente minacciose. Ne discendono, per un verso, una difficile decifra-zione dei quadri della quotidianità, per altro verso una percezione acuta di vivere in contesti dirischio, a causa di processi sempre meno governabili1. In questo mondo che in fondo ha traditola misura che lo aveva creato, e cioè l’uomo, l’autorealizzazione personale può sperare di com-piersi solo attraverso un ritorno alla natura, riallacciando quel legame arcaico con una vita plane-taria comune reciso dall’ambizione umana e da un progresso tecnico ormai autoreferenziale. È ilpernetarian paradigm, l’ideale filosofico della person/planet, come recita il titolo di un libro cele-bre di Roszak (1979): uno degli assi portanti dell’ecologismo radicale e il nocciolo duro, anche,di una corrente della psicologia contemporanea nota come transpersonal ecology (Fox, 1995).

1 K. Hewitt (1997) ponel’accento sul nesso tra peri-colo e modernità, sottoli-neando l’intima geographi-callness del disastro.

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Sono assai consapevole dei meriti intellet-tuali di Roszak e dei suoi allievi, come pure delvalore terapeutico della pratica psicanaliticache è venuta costruendosi grazie alle loroidee2. Ma proprio per questo, non vorrei chel’ethos della soggettività, da forza politica sov-versiva, finisse per trasformarsi in un’ennesi-ma “geremiade elusiva”, come direbbe Berco-vitch, non a caso così attento alle radici terri-toriali dei processi culturali nella storia degliStati Uniti (Bercovitch, 1992). Con l’aggravan-te che questa figura retorica, se dal puritanesi-mo in poi è pur servita a fondare una tradizio-ne nella cultura americana, oggi rischia disvuotare dall’interno il potenziale “sovversi-vo” di un soggetto impegnato riflessivamentenella propria realizzazione.

Sia consentito di seguire almeno due fila-menti critici a questo proposito, uno di tipoontologico, se così posso dire, e l’altro di tipostorico. In realtà, dobbiamo constatare comel’eccesso di fideismo naturalistico e, forse, dimiopia psicologica, abbiano permesso sì di ac-cogliere il dettato nietzschiano sull’uomo co-me essere incompiuto, senza tuttavia ritenerela lezione che ne discende e che offre, precisa-mente, alla modernità una delle chiavi privile-giate per accedere alla sua propria coscienza.È forse l’antropologia filosofica di Gehlen(1994) che maggiormente ci ha illuminato aquesto proposito, configurando la condizioneumana come incompiutezza ma, al tempo stes-so, come impulso verso l’azione e cogenza ver-so l’approntamento dei mezzi per svolgerequesta azione e per renderla adeguata allo sco-po, che è per l’appunto campare la vita comecompiersi umano: mai raggiunto, è vero, ep-pure incessantemente perseguito. Nasce daqui la critica gehleniana della tecnica comeinerenza umana, e, di riflesso, la necessità diconcepire come “naturale” l’integrazione de-gli artefatti umani, siano essi materiali o sim-bolici, nella costruzione dell’io come progettoriflessivo.

Per altro verso, sembra davvero audace pen-sare di far fronte con soluzioni personali a si-tuazioni che sono certamente di disagio, mache sono venute formandosi storicamente eche sono inserite nel seno di processi collettivisoverchianti. Non sto parlando soltanto dellanatura come costruzione sociale; non sto par-

lando solo del problema legato all’idea di na-tura che abbiamo in mente quando parliamodella natura3. Parlo dei quadri geografici con-creti nei quali e grazie ai quali si svolge la vitaumana, che sono il frutto di sedimentazionimateriali e simboliche immemoriali e che sa-rebbe non solo vano, ma ideologicamente pe-ricoloso pensare di poter cancellare con unsemplice atto di volizione.

Le condizioni sociali della soggettività

L’ethos della scoperta di sé è certamente unaffare intimo e personale. Esso tuttavia, a me-no di cadere in quella specie di trappola indi-vidualista che è l’ipostasi psicologica del sog-getto, non può neppure concepirsi senza unrichiamo netto alle condizioni sociali dellasoggettività. Queste postulano una relazioneforte e immanente tra individuo e collettività,nella quale l’uno per l’altra fungono, nelle di-verse situazioni, come vincolo e/o come risor-sa. Le condizioni sociali della soggettività pre-sentano a loro volta molteplici sfaccettature,che portano a distinguere piani della praticacollettiva che, pur diversi, sono nondimenostrettamente intrecciati. Ne ricordo quattro,evocando appena i primi e soffermandomi in-vece sull’ultimo che riguarda, specificamente,la territorialità.

Emergono dunque anzitutto le condizioniculturali della soggettività, vale a dire quelleche potremmo chiamare le rappresentazionisociali dell’individuo. Tali rappresentazioninon solo servono alla società per figurarsi i pro-pri componenti, ma vengono a loro volta in-troiettate dall’individuo che in base ad esse for-mula i propri programmi d’azione e le relativemodalità di esecuzione. L’importanza dellasoggettivizzazione culturale dell’individuo èstata per il vero a lungo trascurata. E ciò, no-nostante l’esistenza di alcuni grandi testi, co-me quelli di Elias, che scandagliano per un ver-so la concezione del carattere relazionale dellacoppia individuo/società (Elias, 1990), per al-tro verso l’idea della disciplina di sé come prez-zo da pagare per diventare una persona di buo-ne maniere, dunque “civile”, che è poi la pre-condizione del vivere insieme (Elias, 1982). Daultimo, su questa stessa pista, uno sforzo rag-

PARTE PRIMA - SESSIONE I

2 Si può vedere a titolo diesempio Roszak, Gomes,Kanner (1995)

3 Rimando in propositoall’eccellente sintesi diTorrance (1998).

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guardevole è stato compiuto da Taylor nel ri-comporre le fonti del sé come momento cen-trale per interpretare l’identità moderna (Tay-lor, 1989). Tutto comincia, nell’analisi di que-sto autore, con l’affermazione del valore dellavita pratica su quella contemplativa. È l’alba diuna nuova era, che seppure continua ad ali-mentare il sé attraverso la fede religiosa, si spe-cifica come modernità attraverso due sorgentiinedite che danno luogo a percorsi conflittuali:da un lato, le pretese (illuministiche) della ra-gione di porsi come matrice autonoma di sen-so; dall’altro, l’immagine (romantica) di unanatura che ci trascende e ci consente di attin-gere alle sue energie creatrici4.

Le condizioni economiche della soggetti-vità, in linea generale, hanno a che fare con lerisorse che rendono possibile l’agire o le di-verse modalità (alternative) dell’agire. Si capi-sce come esse esigano di essere continuamen-te riqualificate data la grande rapidità con cuisi formano e si disfano. Cruciali risultano, aquesto proposito, i fenomeni ben noti della fi-nanziarizzazione dell’economia, dell’innova-zione tecnologica e organizzativa dei processiproduttivi, infine della globalizzazione deimercati e della liberalizzazione crescente deiflussi di scambio. Le architetture localizzati-ve, a loro volta, partecipano attivamente a que-ste dinamiche, nel senso che le codetermina-no, oltre ad esserne influenzate: sicché, leesplorazioni dei meccanismi attraverso cui siforma il “valore” dello spazio come qualitàspecifica e infungibile dell’economia contem-poranea risultano cruciali dal punto di vistaanalitico, come ha mostrato in modo esempla-re Harvey5, ma altresì affascinanti sotto il pro-filo epistemologico (Barnes, 1996). Non è pos-sibile andare oltre su questo terreno6; basteràsolo sottolineare la connessione strettissimache esso mostra con le condizioni politichedella soggettività. Queste ultime infatti, nonsolo propongono i temi classici del potere edel suo esercizio, ad esempio, o della formadello stato, o della rappresentanza, ma ricon-figurano questi ultimi e ne aggiungono di nuo-vi proprio in rapporto al mutato ed estrema-mente mobile quadro dell’economia. Penso inparticolare che oggi nessun patto sociale, nes-sun “nazionalismo civico”, possa concepirsisenza ricomprendere in essi una preoccupa-

zione politica per il contenuto economico del-la pratica sociale. Le discussioni iniziate agliinizi degli anni novanta su un concetto di cit-tadinanza che assuma senza riserve l’idea dilotta contro l’esclusione sono assai rivelatrici;allo stesso modo pregnante è il tema delle“nuove condivisioni” come antidoto alle deri-ve autoritarie innescate dai processi di moder-nizzazione nei paesi di grande tradizione cul-turale come quelli islamici.

Da ultime, ma certo non ultime, le condizio-ni geografiche della soggettività: se ne è fattogià qualche cenno, ma converrà vederle in mo-do più analitico.

Geografia, soggetto, identità

È in realtà a questo punto che, una voltatracciato in termini non meramente antagoni-stici l’ambito complessivo dei rapporti tra sog-getto e collettività, si pongono i temi dell’iden-tità e del cambiamento, nonché della persi-stenza delle istituzioni territoriali di fronte al-la frammentazione e alla fluidità degli scenaripostmodernisti: voglio dire gli sfondi tematiciderivanti dai mutamenti di sensibilità con cuiqui mi limiterei a intendere il postmoderno.

È chiaro che questi temi, di nuovo, non pos-sono risolversi in coppie oppositive. Comin-cerò subito con il fare, a proposito della persi-stenza identitaria in scenari di cambiamentocome quelli che viviamo a scale multiple, unadichiarazione forte: dopo tutto ciò che hannodetto filosofi, psicologi, antropologi su questotema, sono portato, come geografo, a conce-pire l’identità come un’impresa narrativa. Èuna scelta, questa, che intanto mette fuori gio-co quel “postulato culturalista” di cui Bayartha fatto una critica senza ritorno7; ma, ancorpiù, nega la possibilità che l’identità possa es-sere ricostruita descrittivamente, se non come“critica del racconto”, nel senso che cercheròdi chiarire più oltre. Come si può dunque pen-sare questa identità narrativa? Proviamo a im-maginarla come una declinazione del soggettoche non tanto definisce se stesso in base a pre-dicati (del tipo: io sono così e così, io sono que-sto e quello), ma piuttosto si autorappresentacome il protagonista di una storia. Il dispositi-vo di narrazione consiste, diciamo un po’ sche-

SOCIOTOPIE: ISTITUZIONI POSTMODERNE DELLA SOGGETTIVITÀ

4 Forse la posizione della re-ligione – la quale sarebbepienamente partecipe delprocesso di formazione del-l’identità moderna, è vero,ma solo come “residuo pre-moderno” – soffre di unavisione alquanto eurocentri-ca delle cose. Mi domandocome si troverebbe “l’uomoagostiniano” di cui parla Ri-coeur commentando l’ope-ra di Taylor, in una prospet-tiva che integrasse maggior-mente l’esperienza america-na. In essa, secondo Bloom,il sé entra in relazione“solo” con un Dio “solo”: equesta è l’essenza della li-bertà; senza Spinoza (per ilquale “chiunque ami Dio diamore sincero non deveaspettarsi di essere riamatoda Dio”), ma con i sondaggiGallup (per i quali “noveamericani su dieci hanno laconvinzione di essere amatipersonalmente da Dio”). Sivedano, rispettivamente: P.Ricoeur (1998) e Bloom(1992).

5 In particolare ponendo ilpostfordismo tra i nucleifondanti della postmoder-nità: Harvey (1993).

6 Ma si veda, almeno, perun’efficace messa a punto:Conti (1995).

7 Bayart (1996). Il postulatoculturalista, secondo l’auto-re, consiste nell’isolare un“tratto culturale fondamen-tale” dal quale, poi, tutti icomportamenti – di un po-polo, di un paese – riceve-rebbero una spiegazione.

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maticamente, nella messa in rapporto di tre li-velli semantici che hanno come riferimentounitario l’azione: i) l’azione in atto, ciò che iofaccio, qui e ora; ii) l’azione ricostruita, ciò cheio ho fatto; iii) l’azione anticipata, ciò che iomi accingo a fare, ciò che farò.

Il flusso narrativo che definisce il soggettocome protagonista di una storia, e lo dota per-ciò stesso di identità, si alimenta certo di unapratica relazionale: la mia vita vissuta al pre-sente, come insieme di rapporti che io ho conil mondo, cioè con gli altri uomini, con gli ar-tefatti materiali e simbolici, con la natura.Questa pratica relazionale, che produce e allostesso tempo introietta incessantemente datiempirici, nel racconto si connette con altri duetipi di pratiche: la prima, che dirò memoriale,incaricata di restituire il passato per sequenzedi eventi, per episodi conchiusi, ma anche persemplici evocazioni (di fatti, di sensazioni, diodori, di suoni, di visioni), rifrazioni frammen-tarie, richiami ellittici; la seconda, che diròprogettuale, incaricata non solo (e forse nontanto) di prefigurare un programma, quanto(e forse soprattutto) di mettere entro un ordi-ne provvisorio il grande magma delle aspetta-tive che noi incessantemente maturiamo, e in-somma di dare una forma al desiderio.

L’identità narrativa si sostanzia di una vicen-da personale incompiuta e sempre/mai sulpunto di compiersi. Ciò per tre motivi che èbene richiamare distintamente, giacché ognu-no di essi contribuisce a fare dell’identità unarisorsa. Il primo ha a che fare con la quantitàdei materiali che vanno a comporre la storia:gli eventi sono tanti, e quindi mai integral-mente organizzabili in un racconto. Il sogget-to è più o meno consapevole di questo fatto,ma è certo che l’infinità degli elementi mobili-tabili, e quindi l’esercizio di un potere di sele-zione su di essi, consente di perseguire strate-gie di flessibilizzazione della propria immagi-ne secondo itinerari di “dimenticanza coeren-te”, come direbbe Lupesco (1971). Questaflessibilizzazione adatta il soggetto al nuovocontesto, lo “mette al suo posto”, per così di-re, in situazione di mutamento, e impedisceche il cambiamento si trasformi in declinazio-ni contraddittorie. Il secondo motivo ha a chefare con la dimensione anticipativa: la praticaprogettuale rende esprimibile un desiderio, si

è detto, e sottende, come si dirà, una qualchetensione realizzativa; ma è chiaro che fino aquando non si concreta essa resta solo l’oriz-zonte di un disegno che attende di compiersi.Il terzo motivo infine ha a che fare proprio conla messa in rapporto dei tre livelli semantici dicui abbiamo detto. La combinatoria infinita-mente plastica delle pratiche, l’impianto orarazionale ora allegorico dei materiali narrativi,l’intreccio inesauribile delle vicende che inte-ragiscono tra loro in modo sempre nuovo esorprendente offrono al protagonista dellastoria non già la possibilità di aggiungere a unlibro già scritto capitoli inediti, ma di riscrive-re continuamente quel libro, facendone, percosì dire, un testo perpetuo. L’autorappresen-tazione non procede dunque per quadri rigidima attraverso occasioni mutevoli di elabora-zione della propria immagine, del proprio po-sto nel mondo, del proprio ruolo nei rapporticon gli altri e quindi, in definitiva, delle pro-prie strategie d’azione.

Un primo punto è possibile ora stabilire, mipare. La concezione narrativa non fa dell’i-dentità e del cambiamento due polarità inqualche modo oppositive, ma postula il secon-do come elemento costitutivo della prima. An-cor più intimamente, essa fonda l’adattamen-to creativo del soggetto alle logiche della suapropria storia, trasforma in possibilità dellapersona che incessantemente si dispiega allavita ciò che potrebbe non essere altro che uninsieme di carichi obbliganti: ciò che sono sta-to, ciò che mi circonda, ciò che verrà. Si capi-sce alla fine come non di identità si dovrebbepropriamente parlare, ma di configurazioneidentitaria: una autorappresentazione del sog-getto che dipende strettamente dalla situazio-ne narrativa, vale a dire, ancora una volta, dal-la messa in rapporto delle tre pratiche e quin-di dall’intreccio che ne rende intelligibile latessitura.

L’identità narrativa si costruisce dunque,volta a volta, come un racconto nel quale ilsoggetto è protagonista. L’organizzazione del-la storia, a sua volta, incorpora le condizionisociali della soggettività, intepretandole e im-mettendole nel circuito dell’azione, ossia mo-dellandole secondo le esigenze della storiastessa. Ma come entrano, in tale circuito, quel-le particolari condizioni sociali della soggetti-

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vità che sono le condizioni geografiche? La ri-sposta è tutt’altro che semplice, non appena sicomprende che non basta affermare generica-mente l’importanza del luogo con l’argomen-to, tanto vero quanto vago e perciò irrilevantea fini analitici, che “la geografia c’entra sem-pre perché, in fondo, tutto accade da qualcheparte”. Cercherò pertanto di distinguere nongià le forme peculiari, ma due grandi modalitàcon le quali il territorio entra nei processi didispiegamento della soggettività, partecipan-do quindi alla costruzione dei racconti di cuisi sostanziano le configurazioni identitarie.Sarà necessario, corrispondentemente, evoca-re “figure” differenti sussunte dall’idea di sog-getto: l’individuo e l’attore sociale.

Il soggetto come individuo, si sarà compre-so anche dai ripetuti accenni fatti in prece-denza, è colui che tende a risolvere nella pro-pria dimensione interiore il suo rapporto conil luogo. Comunque si costituisca, e certamen-te, di nuovo, in forma narrativa e senza astra-zione dalle complessive condizioni sociali delsoggetto, il suo rapporto con il luogo acquistale vesti di una relazione intima e personale. In-tendo con ciò un arco vasto di interazioni chericomprendono anzitutto il corpo come en-tità psicofisica. Nel suo rapporto con la terri-torialità, il corpo esprime istanze primarieconcernenti ad esempio la pura estensione,che garantisce autoriferimenti non costrittivi,a loro volta metafore possenti di libertà; o an-che la qualità fisica dello spazio, che rendenon solo possibile ma gradevole la vita: parlodi cose come l’aria che respiriamo, l’acqua chebeviamo, la salubrità dell’ambiente, la stabi-lità idrogeologica; o ancora, l’intensità percet-tiva del territorio, vale a dire la qualità simbo-lica che, ostacolando la banalizzazione dellospazio, mantiene attiva la sfera emozionale. Inquell’arco di interazioni porrei altresì elemen-ti apparentemente eterocliti eppure tutti con-grui; richiamo senza pretese di esaustività: gliapprendimenti di tipo metrico-direzionalistudiati dalla psicologia cognitiva; il comples-so rapporto della persona con la sua dimora,su cui tornerò brevemente di seguito; la com-prensione fenomenologica del luogo e segna-tamente quella topofilia scandagliata da Yi-Fu Tuan (1974; 1977); le teorie psicanalitichedel luogo, e soprattutto dello spazio fisico-na-

turale, che vanno dagli archetipi junghiani al-l’ecopsycology.

È appena il caso di precisare che la relazio-ne individuale con il luogo ha una sua propriaautoconsistenza, e può esaurirsi come tale, vo-glio dire nell’ambito di una problematica pu-ramente psicologica. Essa tuttavia può ancheentrare in modi e tempi diversi come “prati-ca” nella figura sociale del soggetto. Tra i mol-tissimi esempi che a questo proposito si po-trebbero fare, vorrei rammentarne un paio.Uno riguarda, di nuovo, la corporeità dell’es-sere umano che si proietta nello (o introiettalo) spazio pubblico attraverso processi di in-terazione simbolica. In essi si intrecciano, par-ticolarmente, tattiche di socializzazione del-l’intimità e, all’inverso, di intimizzazione deglispazi della socialità. Tra le prime, possiamo ri-cordare la mutevole concezione della casa co-me luogo aperto, e che incorpora sempre piùl’esterno al suo interno (accrescimento deglispazi comuni, ad esempio, e ridimensiona-mento di quelli strettamente privati); oppurecome luogo chiuso, dove il fuori e il dentro so-no nettamente divisi e dove la segregazionespaziale, grazie anche alle nuove tecnologie(antenna parabolica, telefono e fax, Internete... congelatori sempre più grandi) giunge adassumere forme estreme di autoisolamentocome il cocooning. Tra le seconde, possiamoricordare la costruzione del territorio comeimmagine del corpo: il modellamento dellasuperficie terrestre non è che una familiariz-zazione dell’ignoto o una neutralizzazionedell’incerto ottenute attraverso l’amplificazio-ne crescente degli aspetti fisionomici e simbo-lici, consueti e affidabili, della figura umana(Turco, 1999).

Un ulteriore esempio concerne le esperien-ze del luogo che avvengono in contesti socialiimprigionati in una qualche ipostatizzazione:razza, religione, genere, etnia, seniorità. Qui ilrapporto individuale con il territorio non soloesprime una dialettica costante di identifica-zione/rifiuto tra il sé (spesso inteso come figu-ra fortemente corporalizzata) e il luogo, defi-nendo attraverso la mediazione geograficadello “stare dove” le complessità psicologichedell’esserci, dello “stare al mondo”. Esso di-venta altresì il fulcro concreto della socialità einsieme il segno di un disagio estremo, giac-

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ché io sono sempre l’altro e la mia presenza èsempre, al tempo stesso, un’esclusione. Inquesta chiave, esempi particolarmente forti civengono dal Sudafrica dell’apartheid, dovespiccano voci di alto tono come quella di Bes-sie Head (Falcone, 1997).

Dirò, per concludere qui, che la configura-zione identitaria del soggetto colto nella suadimensione individuale incorpora la geografiaeminentemente come luogo. Questa idea diluogo, per quanto complessa, può continuaread apparire riduttiva; probabilmente però, ta-le sensazione si attenua alquanto se si svilup-pano in modo adeguato alcune implicazioniimportanti, che mi limiterei a richiamare mol-to velocemente.• Il luogo, per cominciare, è una composizio-

ne territoriale che attraversa l’intero arconarrativo; esso pertanto, con un ruolo chenel linguaggio di Greimas si direbbe attan-ziale8, può intervenire nella storia sia comepratica memoriale, sia come pratica proget-tuale, sia come pratica relazionale, all’occor-renza migrando dall’una all’altra. Mi pareche una parte non trascurabile di studi ru-bricati genericamente come “geografia del-la percezione” evochino problematiche diquesto tipo. Mi pare anche che tutta una te-matica del sé affrontata dai geografi a parti-re da approcci sociologici o psicologici po-trebbe essere utilmente riconfigurata attra-verso analisi che approfondiscano lo statutonarrativo del luogo9. Mi pare altresì da se-guire con attenzione la pista del raccontocome earthing10: vale a dire come percorsoidentificativo che ruota attorno alla “terra”che non solo genera l’essere umano e ne for-ma la personalità, ma orienta le sue azioni ele riempie di senso. E mi pare infine che nel-la migrazione narrativa del luogo possanotrovare pertinenza ipotesi di atopia che, pre-se in assoluto, mostrano non pochi elementidi fragilità: mi riferisco ad esempio ai non-luoghi di Augé (1993), allo spazio delle rela-zioni impersonali di Luhmann (1985), ai nuovi contesti dei rapporti interpersonalicreati dai media elettronici studiati da Meyrowitz (1995).

• Il luogo, inoltre, è una composizione terri-toriale transcalare. Esso non è in nessun mo-do piccolo, in rapporto a qualcosa di gran-

de: su questo punto, l’insistenza sull’ecces-so di dimensione del discorso postmoderni-sta (tutto è più grande della mia vita, tuttosovrasta le mia capacità di comprensione)può rivelarsi francamente fuorviante, giac-ché condurrebbe a postulare, con la fagoci-tazione del “piccolo”, una dissoluzione delluogo. Del pari, il luogo non può essere ri-condotto a uno spazio di prossimità, comeopposto a una interazione denotata dalla di-stanza. Va ribadito, infatti, che in ogni casola logica della narrazione rende mobile epersino trasfigura non solo l’idea, ma l’espe-rienza stessa del luogo. Un piccolo posto de-finito da relazioni di prossimità (amore, adesempio) nel seno di una pratica memoria-le, può diventare un grande posto dominatoda relazioni di lontananza (potere, ad esem-pio) in una pratica progettuale: ed entrambiconvivono, nell’identità narrativa, con unposto che la pratica relazionale restituiscecome quotidianità di spostamenti e contattiordinari, dove prossimità e lontananza simescolano indistricabilmente.

• Il luogo, infine, è una composizione territo-riale che percorre la soggettività nella sua in-terezza. Nei diversi stati narrativi, dunque,il suo ruolo muta: esso può fuoriuscire dal-l’esperienza individuale e immettersi inquella collettiva, oppure alimentare la pro-pria fisionomia di ambito privato con riferi-menti di tipo comunitario.

Dal luogo alla sociotopia

Quest’ultimo punto, precisamente, richia-ma l’attenzione sul soggetto come attore so-ciale, il quale esperisce e assume la geografianon più come luogo, ma essenzialmente comesociotopia. Si tratta, possiamo dire in primabattuta, del territorio nel quale il soggetto siesprime pubblicamente come appartenente auna collettività, e in quanto tale consapevoledi partecipare all’elaborazione e alla realizza-zione di un disegno comune. La sociotopia or-ganizza pertanto la visibilità della norma cheregola (o pretende di regolare) la condotta so-ciale. A tale norma il soggetto attinge quandoagisce pubblicamente; al tempo stesso, egli nediviene elemento centrale nel momento in cui

PARTE PRIMA - SESSIONE I

8 “Il concetto di attante so-stituisce vantaggiosamente,soprattutto nella semioticaletteraria, il termine di per-sonaggio [...] giacché con-cerne non solo gli esseriumani, ma anche gli anima-li, gli oggetti o i concetti.”(Greimas, Courtés, 1993, p. 3). Lo statuto attanzialedel luogo – che non è un es-sere umano, né un animale,né (solo) un oggetto, né(solo) un concetto – è tut-taltro che ovvio; al contra-rio, esso esibisce una speci-ficità che si inquadra nelprocesso generale di territo-rializzazione e che va perciòricostruita in tutta la suaprofondità categoriale.

9 Si veda la rassegna criticadi Pile (1993, pp. 122-39).Un esempio interessante èdiscusso in: G. Greif, M.Cruz, Reconstructing UrbanBoundaries: the Dialectics ofSelf and Place, in Cybergeo(http://www.cybergeo.pres-se.fr).

10 Si veda l’analisi propostaper W. Soyinka da J.Wilkinson (1998).

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si mostra e, mostrandosi, giudica: prende cioèposizione su ciò che è permesso e su ciò che èvietato, quindi su ciò che è giusto e ciò che nonlo è, su ciò che è bene e ciò che è male, su ciòche è bello perché incorpora virtù sociali (ci-viche, repubblicane, religiose) e ciò che bellonon è perché quelle virtù ignora o addiritturacontrasta.

Le medesime pratiche sostanziano l’identitànarrativa del soggetto come individuo e comeattore sociale. Nel secondo caso, tuttavia, esseesprimono un rispecchiamento collettivo del-l’identità soggettiva e come tali, pertanto, ac-quistano contenuti e stili propri. Così, se par-lo di pratiche memoriali penso ai simboli altidella tradizione religiosa, civile, estetica, cul-turale di una società. Sono, precisamente, i va-lori condivisi che si cristallizzano al suolo e di-ventano spazi di autoriconoscimento colletti-vo: sono le “identità nazionali” con cui si sonomisurati i Michelet, i Vidal de la Blache, iBraudel; sono i “luoghi della memoria”, neiquali, con più pregnanza che altrove, la storiasi condensa in una geografia e alimenta la sen-sibilità, l’affetto, la passione degli uomini11.Allo stesso modo, se parlo di pratiche proget-tuali, penso in primis ovviamente alla politica.Ma occorre avere altresì in mente tutte quelleprospettive di ampia condivisione quali po-trebbero offrire, ad esempio, un movimentoreligioso, un militantismo civile, la stessa ri-cerca scientifica.

Restano, infine, le pratiche relazionali, sucui vale la pena soffermarsi un po’ più a lun-go. Facendo un passo avanti, in effetti, possia-mo dire che la sociotopia è un ambito di inte-razione fisica e simbolica nel quale il soggettodiventa competente: per meglio dire, esercitae sviluppa la sua attitudine a vivere con altrisoggetti sul territorio, ad abitare partecipati-vamente una terra che sente come sua. Questacompetenza topica ha radici biologiche su cuinon posso soffermarmi12 e componenti psico-logiche che ho evocato precedentemente; ciòche ora conta sottolineare, piuttosto, è che es-sa acquista una vera e propria forma solo nelladimensione sociale della soggettività. La com-petenza topica, in effetti, consiste nel saper ri-solvere, in contesti socializzati, problemi per-sonali che hanno a che fare, diciamo riassunti-vamente, con la localizzazione e il movimen-

to. Essa si organizza, a me pare, in base a treelementi di fondo. • Il primo ha a che fare con la circostanza che

il soggetto opera in un ambiente intelligen-te. Ciò vuol dire non solo che egli ha rap-porti con altri uomini sul territorio, ma al-tresì che interagisce con il territorio cometale, vale a dire con uno spazio dotato di va-lore antropologico, perché significato, o rei-ficato, o strutturato. Il territorio si componedunque di artefatti, tanto materiali quantosimbolici, che sono insieme depositi di sa-pere e dispositivi di comunicazione: vannoperciò interrogati e in qualche modo capiti,prima di essere sfruttati, modificati, ricom-binati.

• Il secondo concerne un soggetto che operain uno spazio pubblico il quale è, perciòstesso, fortemente codificato. Il territoriodella sociotopia è una disseminazione di em-blemi sociali. Emblemi a volte intuitivi, an-che se mai semplici: la società affluente, co-me nel grande mall bostoniano; la frontieradella civiltà, come nella Grande Muraglia ci-nese; l’efficienza liberatrice, come nell’aero-porto di Phoenix; il potere spettacolare, co-me a Versailles; il divertimento, come si im-para da Las Vegas; la fede, come in Gerusa-lemme, città santa per tutte le religioni delLibro. Emblemi a volte più complessi: l’e-stetica dell’avanguardia tecnologica, comenei piloni dell’alta tensione di Hydro-quebéc, icone paesistiche agili e possentiche percorrono la taiga canadese; la verità,come nell’enunciazione ritualistica malinkédella kumaba, la grande parola che narra vi-cende le quali sono dette “realmente acca-dute” solo perché è possibile indicare conprecisione il posto in cui sono successe; ifondamenti metafisici della civilizzazioneurbana, come nella moschea Hassan II diCasablanca; la democrazia della conserva-zione, come nei grandi parchi sudafricanidel post apartheid13. Emblemi consegnatiinfine all’inespresso, allegorie che trasfigu-rano lo spazio fisico in una sorta di incon-scio collettivo: la filiazione genealogica e ilripudio radicale, come nelle foreste (Harri-son, 1992); l’esistenza fetale, come nelle zo-ne umide (Giblett, 1996); il senso nascostodel territorio, come accade alle città costie-

SOCIOTOPIE: ISTITUZIONI POSTMODERNE DELLA SOGGETTIVITÀ

11 Non si potrebbe ridurre,evidentemente, il contenutodi questi depositi della co-scienza collettiva a mere di-dascalie del ricordo; illuogo della memoria, siaesso un paesaggio, un mo-numento, una casa, unapiazza, un fiume, una scenaurbana, un campo di batta-glia e molto altro, incorporasempre valenze di pedago-gia civile e può essere inqualunque momento mobi-litato in chiave ideologica.Tra i lavori più significativiche, pur da angolature di-verse, aiutano a riflettere suquesto punto, mi limito a ri-cordare: Mosse (1974),Hobsbawm, Ranger (1983)e Nora (1984).

12 Ma si vedano le pagine il-luminanti che ha scritto suentrambe le questioni Hall(1968).

13 Sugli ultimi esempi si pos-sono vedere in dettaglio, ri-spettivamente: Casti, Turco(1998, capitolo intitolatoStrutture di legittimità nellaterritorializzazione malinkédell’Alto Niger: Repubblicadi Guinea); Cattedra (1998);Cencini (1998).

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re che, come Genova di Fossati o Cadaquésdi Dalì, si vedono solo dal mare; l’ordineprecario della terra, come suggerisce l’in-combere del duninian, il disordine preco-smico, nella spazialità senufo (Turco, 1999,cap. V). Il territorio ha certo una traduzionevisiva nel paesaggio; in quanto referente col-lettivo, tuttavia, esso incorpora un aspettocerimoniale che ne esalta le qualità sceniche,lo dispone a una funzione teatrale, ne auten-tifica, con la pubblica esibizione, la naturadi artificio, di costruzione umana, ove si an-nodano i ruoli di attore e di spettatore (Tur-ri, 1998).

• Il terzo, infine, ha a che fare con l’intima es-senza dell’azione soggettiva. Per quantoorientata a risolvere un problema persona-le, infatti, essa esprime anche una dimen-sione partecipativa: il mio vantaggio è ilfrutto del lavoro di tutti; in parallelo, io coo-pero, così facendo (interpretando positiva-mente l’ambiente intelligente, ad esempio,o attenendomi alla cerimonialità), al benes-sere di tutti. Nel territorio della sociotopia,dunque, il soggetto agisce comunicativa-mente, nel senso habermasiano che il suodire e il suo fare sono orientati verso l’inte-sa (Habermas, 1986). Quest’ultimo punto ame sembra particolarmente importante. Lasociotopia è percorsa, ed è allo stesso tempomodellata, da una logica di scopo sempreduplice: una è di tipo funzionale, e concer-ne, per così dire, l’esecuzione di un pro-gramma per fini strettamente personali (va-do in centro a comprare un paio di scarpe eci vado in tram); l’altra è di tipo comunicati-vo e concerne l’esecuzione di un program-ma comunitario (vado in tram e pago il bi-glietto perché così dò una mano al traffico econcorro al funzionamento complessivo delsistema-città a cui siamo tutti fortemente in-teressati).

Territori di legittimazione tra veritàassiologica e deriva identitaria

La sociotopia è certo uno spazio pubblico(espace publique, public space), ma è anchequalcosa di più e di diverso. Essa non esprimesolo, infatti, un quadro di legalità, una strut-

tura territoriale dove ha corso il contratto so-ciale; è, piuttosto, la struttura in cui si acqui-sta e si difende il diritto di partecipare alla sti-pula di quel contratto, dove se ne verificano leclausole e dove si formano le condizioni di ese-cuzione. La competenza topica, in fondo, è lacapacità di vivere nel posto in cui si è scelto, oè capitato, di vivere; questa capacità è una qua-lità certamente personale, ma non un fatto in-dividuale. Essa si acquisisce, si dispiega, si di-fende nella condotta pubblica. Ma proprioperché si esprime, rischia nei comportamenti,si compromette nelle scelte, assume di fronteagli altri la responsabilità di sbagliare: ebbeneper tutto questo il soggetto reclama il dirittodi dire la sua, di disegnare le strutture territo-riali nelle quali la cooperazione interpersona-le fonda la solidarietà e la rende credibile. Lasociotopia, ecco il punto, si costruisce dal bas-so, come formazione geografica nella quale siformula, si negozia, si definisce la legittimità.Non si tratta dunque di un territorio esperitocome pura adesione ai modelli dominanti, co-me conformità alle regole dettate dai grandidispositivi del controllo collettivo. Si trattapiuttosto dello stampo in cui si modella la con-dotta sociale quale espressione di valori parte-cipati perché creati o ri-creati nell’azione. So-stanza delle pratiche memoriali, relazionali,progettuali, i valori, e particolarmente i valoriche cambiano attraverso la libera adesione enella consapevolezza comune, sono dunquegli autentici capisaldi dell’identità.

La sociotopia non è un simulacro di legalità:non va confusa con lo Stato o con una suaqualche articolazione minore, anche se può as-sumerne la forma. Sarebbe del pari un erroretirare in ballo, per definirla, la dimensione: gliesempi che posso fare mostrano un continuumscalare che va dalla polis greca e dalle realtàcomunali medievali italiane, a istituti regiona-li come il dyamana malinké o l’enb ajukru, fi-no a costruzioni continentali come il Mandenmandingo o l’Unione Europea, o addiritturatranscontinentali come la Umma islamica.Tutto ciò serve a dire che la sociotopia non tol-lera riduzionismi; essa è un ambito di esisten-za nel quale l’identità narrativa conferisce alsoggetto l’onere di stabilire un ponte tra la tra-dizione e l’innovazione: intendo dire tra un’in-terpretazione creativa di ciò che esiste e l’ine-

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dito attraverso cui, vivendo consapevolmenteciò che siamo, garantiamo l’edificazione di ciòche saremo.

Va ancora precisato che la sociotopia è sì unterritorio funzionale, il quale però si sottraealla tirannia di quella modernità messa a nudoda Gehlen: poco interessata ai contenuti ecompletamente presa dalle modalità realizza-tive (Gehlen, 1994, in particolare il cap. II).Essa è invece l’istituzione di garanzia propriodei contenuti, di cui le modalità realizzativesono parte integrante ma non prevaricante. Sitratta in definitiva di un territorio che istitui-sce una “verità assiologica” e la esibisce: quel-le solide ragioni, come le chiama Boudon, chesono estremamente preziose perché assicura-no il bene comune e, con esso, l’emancipazio-ne e l’affermazione del soggetto (Boudon,1995).

Mi pare che alla luce di questo ragionamen-to, molti problemi cruciali oggi sul tappeto ac-quistino nuova fisionomia. Penso anzitutto al-lo sviluppo sostenibile, una delle grandi ideeportanti di questa fine di millennio (Turco,2000); penso al rapporto sempre delicato tralocale e globale, e alle sintesi che tentano disuperarne l’opposizione; penso ai grandi pro-cessi di costruzione di realtà sovranazionalicome l’UE, già ricordata, dove il telos husser-liano – “portare la ragione latente all’auto-comprensione” – si misura con le tessiture sto-riche della politica e dell’economia (Lévy,1999). Come ognuno di questi esempi mostra,ci troviamo di fronte a un dilemma. O noicreiamo, ovvero favoriamo l’emergenza distrutture territoriali dove non solo si esercitala legalità ma dove si elabora altresì la legitti-mità: e allora in condizioni nelle quali l’iden-tità si configura come divenire inconcluso, an-che i processi di legittimazione devono esserecontinui e incessantemente postulati, definiti,criticati, negoziati. Oppure nulla sarà durevo-le giacché se il soggetto è sospinto nel recintodel suo individualismo, l’agire comunicativofarà fatica ad affermarsi. Rischia allora di in-stallarsi un vero regno della contestazione dif-fusa e della manipolazione ideologica, di cuila violenza urbana, la repressione politica, laconflittualità ambientale costituiscono esempitra i più incombenti e densi di conseguenze.

Ma, proprio in riferimento a questi aspetti

critici, vorrei chiudere con un argomento cherintraccia nella sociotopia, finora consideratacome un grande strumento di maturazionecollettiva, a sua volta un rischio per la società.La sociotopia è uno spazio dell’azione manife-sta, ed è ipso facto altresì uno spazio dell’os-servazione metodica. Nel mentre qualcunoappare, qualcun altro assiste: anzi, qualcunoappare proprio perché qualcun altro assiste, einversamente. La mia identità si specchia sem-pre, in qualche modo, in quella dell’altro: sirende visibile quindi non solo come espressio-ne del soggetto, ma altresì come permanenteimpresa drammaturgica. È in queste condizio-ni che un fatto così intimo e personale comel’identità, viene obiettivato. L’identità sogget-tiva si fa collettiva perché il suo racconto di-venta un metaracconto: la mia storia, che si ri-specchia in quella degli altri, viene osservata,viene interpretata. E però, nel momento stes-so in cui questa operazione ermeneutica vieneeffettuata, la mia storia cessa di avere le carat-teristiche che ho descritto finora: messa in di-scorso, essa pretende di essere una descrizio-ne, si ingegna di fissare attraverso predicati –magari sequenziali, magari tassonomici, ma-gari gerarchici – qualcosa che prima invece eradel tutto fluido. Se il mio racconto diventa unacritica del racconto, l’identità narrativa cam-bia radicalmente natura, diventa un’occasioneenunciativa, un discorso identitario (Turco,1995).

Due aspetti meritano di essere sottolineati aquesto proposito. Il primo è di carattere spic-catamente metodologico e ha a che fare conl’analisi del discorso, che ricomprende perònon solo gli schemi fondamentali della discor-sività, ma altresì le condizioni di enunciazio-ne, vale a dire le circostanze e il modo in cui ildiscorso viene detto. Questo fatto è spessoignorato; eppure, capiremmo ben poco di cer-te vicende politiche italiane degli anni novan-ta, specialmente settentrionali, se continuassi-mo ad analizzare i contenuti di verità – o an-che solo di coerenza verbale – senza tenereconto dei contesti di espressione della parola.

Il secondo aspetto riguarda il fatto che la so-ciotopia è un’arena nella quale si formano e siconfrontano interessi, ognuno dei quali puòavere una rilevanza sociale. È qui che il discor-so identitario può tradire la sua radice assiolo-

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gica e assumere il significato di ragione stru-mentale. Un’interpretazione, spesse voltesemplificata, finisce con il confondersi con ilsoggetto: ne coltiva interessi, ne sollecita pau-re, ne asseconda propensioni e fabbrica inquesto modo qualcosa che pretende di chia-mare identità collettiva. In nome di questaidentità collettiva, che è null’altro che un’ipo-statizzazione più o meno raffinata del sogget-to, si possono fondare “storie autorizzate”; ead autorizzarle può essere qualunque cosa, co-me continuamente vediamo: un’elezione poli-tica, un testo sacro, un trattato di commercioche ci vuole “liberi” o una teoria scientificache dimostra le virtù dello sviluppo segregati-vo. Conosciamo all’ingrosso il concatenamen-to: si tratti di razza, di sangue, di suolo, di lin-gua, di fondamentalismi di varia ispirazione,ecco sorgere nuove pretese legalizzatrici, nuo-ve norme di condotta sociale e alla fine qual-che grande mistificazione nella quale il sog-getto è espropriato della capacità d’eserciziodella sua ragione. L’identità, insomma, cam-bia di segno: da ancoraggio per il cambiamen-to consapevole, diventa un fuscello tra le on-de enormi di Hokusai.

Le geografie tranquille del quotidiano, perriprendere il titolo di un recente articolo diDi Méo (1999), coesistono con le roboantigeografie della mutazione: le une e le altrepossono secernere, attraverso le sociotopie,preziose reti di sociabilità; ma anche covare,le une e le altre, la possibilità drammatica chele tessiture civili siano lacerate e persino di-strutte da derive identitarie. Forse, allora, lapostmodernità non è solo il mondo nel quale,se è vero che i segni hanno la meglio sui refe-renti, il territorio può essere “prima duplica-to e poi dislocato” (Chambers, 1987): un gi-gantesco “clic” con un piccolo mouse; ma èanche il mondo di una militanza intellettualedecisa a preservare l’integrità del soggetto e,con essa, la profondità morale dei luoghi del-la nostra vita.

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SOCIOTOPIE: ISTITUZIONI POSTMODERNE DELLA SOGGETTIVITÀ 31

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SESSIONE IICOMPETITIVITÀ DEI LUOGHI

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Tecnologia, strategie aziendali e ordine territoriale

Michael Storper

Introduzione

Gran parte della geografia economica pone le economie delimitate territorialmente “in primopiano” e l’ordine generale in cui agiscono “sullo sfondo”, in uno sforzo volto a concentrare l’at-tenzione sul modo in cui i territori costituiscono un livello organizzativo centrale del capitali-smo contemporaneo.

In questo lavoro si vuole riflettere sulle modalità in cui tali territori si articolano in un ordinepiù vasto e su alcuni problemi che interessano il processo di sviluppo economico.

Per fare questo dobbiamo innanzi tutto ricordare alcune delle grandi questioni che i territorioggi devono affrontare nell’ambito del processo di sviluppo economico. Analizzeremo questaproblematica mettendo in primo piano l’impresa come agente in grado di determinare le rela-zioni tra i territori. L’intervento intende essere speculativo e tratteggerà questa materia com-plessa cercando di mettere a fuoco alcuni argomenti chiave.

La problematica dello sviluppo: varietà tecnologica e imitazione

Il problema dello sviluppo economico e territoriale è stato trattato sotto diversi punti di vista,tutti correlati alla dinamica centrale su cui si impernia la concorrenza e per la quale si avvia unprocesso di mobilizzazione delle risorse e la possibilità di accumulo della ricchezza.

Questa dinamica è “l’apertura e la chiusura della varietà”, in tecnologie e tecniche. Le impre-se cercano di aprirsi alla varietà per trarre vantaggio da quasi rendite, e si imitano, quindi sichiudono alla varietà, per comprimere i costi e ampliare i loro margini prezzo-costo.

La varietà di fatto è chiusa attraverso la globalizzazione dei mercati (ossia degli elementi pro-duttivi, dei prodotti, dell’adattamento locale dei prodotti). La varietà delle tecniche si riducequando accelera la diffusione tecnica e la conseguente convergenza di talune strutture tecnichedi produzione (sebbene non delle strutture organizzative).

La varietà cresce con le specializzazioni settoriali e subsettoriali (prodotti o gruppi di prodot-ti) delle nazioni e delle regioni. In quest’ambito vi è una scarsa tendenza alla convergenza. Ilcommercio internazionale è per molti versi parente stretto del trasferimento tecnologico e delcommercio tecnologico inter-prodotto: ciò è dovuto all’esistenza di vantaggi assoluti. Per dirlain altri termini, “la geografia della creazione della varietà è altamente variegata”.

Esiste inoltre una tipologia di varietà “all’interno” della convergenza tecnica di cui sopra: cisono specificità e differenziazione geografica nell’assorbimento e nella diffusione delle tecnolo-

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gie, dovute al fatto che la capacità dei sistemidi innovazione di mutare rimane altamente va-riabile. Inoltre, si verifica una sorta di adatta-mento locale della tecnologia attraverso lascelta delle tecniche.

Questi due ultimi processi sono responsabi-li di una parte importante della distribuzionegeografica del vantaggio competitivo ricardia-no, inter e intra settoriale. Insieme sono re-sponsabili delle condizioni strutturali che gui-dano i comportamenti delle grandi e piccoleimprese nel generare modelli di esportazionee commercio, sia tra regioni dello stesso pae-se, sia a livello internazionale (anche se solo ilsecondo è facilmente misurabile).

Le strategie aziendali rappresentano il mo-do in cui le imprese eseguono questa apertu-ra e chiusura. Le grandi imprese hanno unagamma di possibili “modelli” con i quali cer-cano di raggiungere questi due obiettivi, inparte dovuti alla specializzazione settoriale,ma non interamente. Esistono cioè una sceltae un margine di manovra per le imprese. Per-tanto il modello utilizzato da un’impresa, es-senzialmente una rappresentazione cognitivadi ciò che essa deve fare, è soggetto a un’inte-razione complessa con le istituzioni che si tro-vano nei vari territori in cui l’impresa deside-ra operare.

È in corso un dibattito in letteratura sull’or-dine e sul livello di causalità dell’interazioneimprese-territori: sono le imprese a imporrele loro volontà, modificando le istituzioni ter-ritoriali, le abitudini e le convenzioni a loropiacere? Oppure sono queste ultime a crearelimitazioni, selezionare e determinare la mo-dalità in cui le imprese, specialmente le gran-di aziende, si organizzano? È un dato l’esi-stenza di una sorta di “danza complessa” fat-ta di limitazioni reciproche e coevoluzione,dove sia le imprese che i territori sono sogget-ti a dipendenze di percorsi spaziali e tempo-rali intrecciati.

Quali sono le principali forme empirichedelle interazioni che sembrano emergere og-gi? Per vederle dobbiamo osservare le strate-gie aziendali e gli ordini territoriali emergenti,ossia il modo in cui i territori soddisfano le esi-genze economiche delle aziende.

Le imprese e le loro immagini delprocesso economico

Quasi tutta la letteratura manageriale ama eutilizza il concetto di “strategia” – che non èaltro che la versione degli economisti gestiona-li del concetto di “processo decisionale” – inquanto contiene l’idea di una serie di parame-tri decisionali, razionali e microeconomici fon-danti. Tuttavia, la letteratura sul managementtratta più empiricamente e realisticamente co-se come i mercati e i prodotti. I sociologi enfa-tizzano il concetto di struttura organizzativa edi dinamica, vale a dire gli imperativi interniall’organizzazione, come base di ciò che si puòintraprendere strategicamente.

Noi preferiamo qualcosa di molto diverso,che attinge alle teorie dell’azione. Come han-no suggerito gli approcci “costruttivisti” dellasociologia delle organizzazioni, le imprese co-struiscono immagini collettive, modelli, sche-mi attraverso cui filtrano le loro possibili ri-sposte a certi parametri decisionali, e integra-no le modalità che adottano per gestire tali pa-rametri, disponendoli in una sorta di ordinein cui un optimum perfetto non è raggiungibi-le nè possibile. Questa costruzione, in moltimodi, precede tali parametri filtrando le infor-mazioni e determinando la loro interpretazio-ne. Tali immagini sono sedimentate come pat-ti, accordi tra attori agenti all’interno di reti,come è stato recentemente suggerito dalla teo-ria dell’“attore-rete”.

Le condizioni competitive esterne, in altreparole, non sono risolutive, come nei modellieconomici tradizionali, in quanto sono indica-tive di ciò che deve essere fatto.

Nell’epoca contemporanea vi sono tre gran-di parole chiave che sembrano emergere nellacostruzione del “ciò che deve essere fatto” daparte delle aziende: flessibilità, innovazione, eun insieme di coinvolgimento e coordinamento.Sono parole ben note in tutta la letteratura ma-nageriale.

La prima e la terza costituiscono condizioniper la seconda: per innovare, un’azienda deveessere flessibile e deve coinvolgere e coordi-nare i suoi attori più importanti. Tuttavia laflessibilità e il coordinamento/coinvolgimen-to, si dice, coesistono solo con grandi difficoltàe sono spesso incompatibili.

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Questo è il motivo per cui, nella letteraturaaccademica sui nuovi modelli aziendali e siste-mi produttivi, queste interrelazioni sono spessomodellate in una sorta di equilibrio instabile.

Il problema diventa perciò come trovare ilpunto di equilibrio e mantenerlo. Si deve pri-vilegiare la gestione dell’incertezza oppure op-tare per rimanere potenti all’interno del mer-cato? Si deve privilegiare la flessibilità, per evi-tare situazioni di blocco in presenza di condi-zioni esterne che cambiano rapidamente, op-pure optare per vantaggi cumulativi di lungoperiodo, tollerando, in questo caso, i costi po-tenziali di mantenimento del modello anchequando le condizioni cambiano rapidamentee sono causa di perdite finanziarie?

La letteratura cerca tra le strutture organiz-zative quelle che corrispondano al punto incui l’impresa sia posizionata entro una funzio-ne di trade-off: reti, partnership e altre formefunzionali che si ritiene realizzino il giustocompromesso ed equilibrio. Poiché questicompromessi sono difficili e complessi da ge-stire, e poiché esiste una varietà di settori, visono molte possibili costruzioni e modalità or-ganizzative e concorrenziali che di recente so-no apparse nelle pratiche gestionali e che, noipensiamo, hanno effetti importanti e durevolisul territorio, e allo stesso tempo sono definiteda ciò che esiste sui territori.

Vi sono quattro principali modelli che at-tualmente affrontano questo compromesso.

Il primo si potrebbe definire lean manage-ment I (“gestione snella I”). L’obiettivo prin-cipale del management è evitare il rischio as-sociato ai costi fissi; il metodo principale percontrollarli è il subappalto o l’acquisto di quoteazionarie, dove l’impresa capofila mantiene ilcontrollo sulla proprietà intellettuale, i mar-chi, il marketing e talvolta le fasi finali dellapreparazione dei prodotti.

Il secondo modello si potrebbe definire leanmanagement II (“gestione snella II”), dove ècentrale, nella gestione, la pressione sui costiverso il basso. In questo caso, tuttavia, l’im-presa può trovare ostacoli a cercare un equili-brio verso l’esterno. Questi ostacoli potrebbe-ro includere le ragioni tipiche per non voleresternalizzare determinati costi a causa diasimmetrie nelle informazioni, a causa di pro-blemi nel controllo della proprietà intellettua-

le, della specificità degli asset, ecc., oppure es-sere dovuti all’esigenza delle imprese di inno-varsi in alcune aree in cui devono comunquecontinuare a tagliare e abbassare i costi. Uncompito questo che non si concilia sempre conil tipo di contratto che l’impresa deve onorarecon i fornitori esterni, il cui ruolo è appuntodi tagliare i costi. Quindi la seconda tipologiadi lean management è “un’organizzazione de-centrata al suo interno”, che opera sulla basedelle prestazioni in cui certe forme di autono-mia sono utilizzate per assegnare responsabi-lità a unità operative interne per raggiungerelivelli di performance spesso molto difficili.

Le altre due forme di strategia aziendale so-no, nella loro essenza, molto diverse dai mo-delli lean poiché il loro obiettivo principalenon è la riduzione dei costi, ma la massimizza-zione delle sinergie delle risorse presenti nel-l’impresa, con il presupposto che l’efficienzapuò realizzarsi da altro e non soltanto dallacompressione dei costi.

Nel caso della managed coherence I (“coe-renza gestionale I”), l’impresa è organizzatasecondo una matrice interna, che unisce ilcoordinamento verticale delle principali fun-zioni aziendali (ricerca, produzione, ecc.) per-mettendo una notevole autonomia “orizzon-tale” regionale alle diverse divisioni aziendaliche servono differenti aree di mercato. La stra-tegia aziendale, in questo caso, consiste neltrarre vantaggio da notevoli economie di scalalungo i suoi assi verticali, un modo per ottene-re efficienze sia di costo che di organizzazioneper alcune attività, nonché permettere alle di-visioni di rimanere vicine alle esigenze di mer-cato per valutarne il polso e per differenziare iprodotti per specifici mercati.

Forse il contrasto più forte rispetto al primomodello (lean management I), dove l’impresaminimizza i suoi impegni esterni e interni, è evi-denziato dalla managed coherence II (“coeren-za gestionale II”) o, come è stata definita, l’“im-presa social-comunitaria” (communitarian).

L’azienda si organizza essenzialmente intor-no ad una struttura interna che si cementa at-traverso la fedeltà e gli impegni a lungo termi-ne, ad una struttura esterna di partenariato edi fornitura che implica un certo livello di fe-deltà e reciprocità tra i membri della rete ditransazioni, a livello economico e informati-

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vo. I legami forti che legano i due livelli di si-stema produttivo dovrebbero essere sufficien-temente flessibili per permettere il ridispiega-mento della flessibilità stessa.

Alcune teorie sostengono l’esistenza di unarelazione determinata tra ciascun modello edate tipologie di prodotto: una corrisponden-za diretta in termini di efficienza tra come l’im-presa è organizzata e le tipologie di prodottoche essa produce. Questo sarebbe coerentecon l’economia dei costi di transazione e conbuona parte dell’economia istituzionale con-temporanea a cui ha dato origine.

Il lean management I sarebbe adatto ai benidi consumo non deperibili delle catene di vendi-ta di prodotti primari, dove l’obiettivo princi-pale dell’azienda è l’assorbimento di tecnicherelativamente standardizzate e molto diffuse.

Il lean management II corrisponderebbe acerte tipologie di servizi e alta tecnologia, inquanto permette la creazione di alcune tipolo-gie di tecniche e la diffusione di tecnologie etecniche già esistenti.

La managed coherence I si pensa sia presen-te essenzialmente nel settore dei beni di consu-mo durevoli, con costi fissi elevati, grandi esi-genze di coordinamento del loro sistema pro-duttivo e continui adattamenti.

La managed coherence II è preponderante inalcuni settori dell’high-tech e dei servizi, cioè trale imprese la cui principale attività è creare nuo-ve conoscenze e nuove tipologie di prodotti.

In questi modelli di gestione si possono ri-conoscere con facilità, rispettivamente il mer-cato mondiale, un insieme di industria e mer-cato mondiale, l’industria mondiale e un in-sieme di mercato mondiale intellettuale e in-terpersonale.

I precetti operativi adottati nel concreto daciascuno di questi modelli rispetto all’innova-zione, all’avversione al rischio e al modo di af-frontare le varie forme di incertezza sono piut-tosto mescolati con quelli degli altri modelli;in un certo settore troviamo spesso impreseche seguono vari modelli e non sembra ci siauna corrispondenza “uno a uno” tra il model-lo adottato e la performance dell’impresa.

Ciononostante sembra che i due modelli dilean management stiano diventando “i meta-concetti” dominanti o i “metalinguaggi” delleimprese, anche quando, paradossalmente, es-

se possono in pratica contare in parte su altriprincipi (sincretismo delle prassi, in altre pa-role) in base al loro mix specifico di prodottoo altre considerazioni.

Perché queste due costruzioni emergonocome punti dominanti di riferimento delleaziende a discapito della coerenza gestita o dialtre possibili costruzioni? Pierre Veltz (1996)sostiene che molto è dovuto a qualcosa di to-talmente ignorato dal management e dalla let-teratura economica: un deficit di elaborazionisul modo in cui gestire un’organizzazionecomplessa alle condizioni economiche degliultimi anni. In altre parole, nonostante le mi-gliaia di libri pubblicati da professori di ma-nagement e consulenti aziendali, e studiati afondo dalle scuole di business più prestigiosedel mondo occidentale, le imprese hannoadottato un pragmatismo minimalista nel con-cetto del “che cosa fare”, una sorta di incapa-cità a sviluppare alternative, elaborazioni in-torno al “che cosa si deve fare”.

Vi sono molte possibili ragioni che spieganoqueste scelte, alcune delle quali sono state og-getto di discussione in letteratura. Tra le mol-teplici forme di pensiero proposte dalla storiadelle scienze sociali sembra improbabile chequesti modelli emergano semplicemente co-me la soluzione ottimale, migliore e unica, delproblema “obiettivo” di “che cosa deve esserefatto”. Può essere possibile per contro, e co-me alcuni sostengono, che questo minimali-smo sia una costruzione che deriva dal pensie-ro economico angloamericano intorno al con-cetto di impresa e del relativo managementoriginato in quel mondo. Se è così, allora laparticolare costruzione di ciò che l’impresa è,di ciò che può fare, è stata diffusa attraverso ilcomportamento mimetico tra le principali im-prese del mondo, sul lavoro, tra i manager eall’interno del mondo di intellettuali profes-sionisti che formano i manager. Questo ci por-ta direttamente alla territorialità specifica deicomportamenti mimetici nella creazione distrategie aziendali oggi.

La territorialità delle strategie d’impresa

Un tale comportamento mimetico globale,in relazione a questo pragmatismo minimali-

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sta, è una forza per la convergenza d’azionedelle imprese. Ma perché il modello di leanmanagement in particolare?

Sembra un’estensione logica della propostadi Veltz che, invece di un progetto razionaledi liberalismo globale da parte delle imprese,evidenzia l’imitazione internazionale del prag-matismo minimalista delle stesse, il quale è di-ventato uno standard in assenza di qualcosadi meglio: una sorta di modello per difetto.Può essere che i think tank internazionali ab-biano un progetto di liberalismo globale, mail mondo delle strategie aziendali e quello del-le politiche economiche globali si sovrappon-gono solo parzialmente.

Tuttavia, quella che inizialmente era una co-struzione astratta sta diventando verosimil-mente un ostacolo reale a ciò che le impresepensano di fare, poiché si tramuta in un obiet-tivo fortemente iscritto, una prassi convenzio-nale nei “microcomportamenti” manageriali eaziendali, al punto da generare una sua eco-nomia esterna e operare come caratteristicadel mondo esterno in cui inserire un’impresa.

Il fatto cioè che molte imprese e i loro ma-nager debbano comportarsi secondo questiprincipi sembra diventato un elemento forma-tivo fondante dell’ambiente in cui qualsiasi al-tra azienda deve operare; diventa quindi unaprofezia che si autorealizza attraverso econo-mie esterne chiuse.

Le conseguenze territoriali dellestrategie aziendali

Le economie esterne non sono semplice-mente di natura economica, sono in gran par-te anche territoriali. I percorsi del modelloaziendale sono in molti casi dovute alla sua ter-ritorialità, nel senso che la struttura degli ac-cordi con istituzioni territoriali, i suoi asset re-lazionali, diventano parte integrante della mo-dalità operativa dell’azienda. Osserviamo ciòanalizzando un altro insieme di fatti tipici deiterritori di oggi, tipologie ideali diverse di ter-ritorio che corrispondono alle strategie idealiaziendali, già descritte.

Le imprese a cui mancano efficaci modellidel futuro, specialmente lean management I,tendono ad adottare un “modello di fuoriu-

scita” come comportamento territoriale. Taliaziende possono sopravvivere soltanto su ter-ritori che offrano loro le condizioni che corri-spondono alle loro strategie.

Le imprese che adottano queste strategiehanno due principali modalità di comporta-mento territoriale. Da un lato, ricercano lapossibilità di delocalizzarsi (disinvestimenti,rilocalizzazioni) senza pagare un prezzo trop-po alto per la fuoriuscita, come nelle regioniscarsamente popolate che cercano investimen-ti per il loro territorio, oppure scaricano la re-sponsabilità di questo sui loro fornitori ester-ni e subappaltatori.

D’altro canto queste aziende e i loro forni-tori esterni possono installarsi in regioni piùdensamente popolate, come gli agglomeratimetropolitani, per cercare una maggiore flessibilità e i vantaggi della specializzazioneche si trovano in tali sistemi economici, ma ta-li agglomerazioni tenderanno ad avere un ca-rattere istituzionale e convenzionale specifico,una versione pura di ciò che noi abbiamo de-scritto come il mondo-mercato: l’agglomera-zione diventa un sistema con un turnover mas-siccio e con un rischio diffuso di realizzare erompere i collegamenti con altre aziende, do-ve la legge dei grandi numeri è centrale. Ciò siadatta molto bene alla visione dell’economiadei costi di transazione dove la regola è l’az-zardo.

Dalla parte opposta dello spettro delle for-me organizzative possibili di economia terri-toriale vi è la forma socioeconomica territo-riale altamente regolamentata. Enormi costisono imposti alla flessibilità aziendale esterna,come quando l’azienda assume personale, li-cenzia, investe o si rilocalizza. La filosofia eco-nomica di tale politica da parte dello stato chela applica è obbligare l’azienda ad assumersitutti i costi sociali delle sue decisioni ricom-pensando lo stato per gli effetti esterni (socia-li) delle sue azioni oppure incoraggiando l’a-zienda a internalizzare tali effetti (tenere i la-voratori e reinserirli in azienda, riconvertire leattività di produzione in situ, ecc.). Rendendoquindi le penalità della fuoriuscita più onero-se dei relativi benefici.

Le vestigia di questa politica esistono anco-ra oggi, principalmente in Europa continenta-le. I maggiori dibattiti politici si sono concen-

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trati sull’efficacia e la pertinenza di questo ti-po di relazione stato-mercato.

Molti governi, capeggiati innanzi tutto daquello britannico e americano, ma possiamoincludere molti altri esecutivi e istituzioni in-ternazionali, hanno concluso che le politichefiscali e gli incentivi statali devono permetterealle aziende una maggiore “flessibilità”, le cuicaratteristiche principali risiedono sull’uso delterritorio e sull’entrata e l’uscita dal mercatodel lavoro.

Meno risaputo è che oggi vi sia una penuriadi imprese che aderiscono al modello di ma-nagement del tipo dell’impresa radicata e so-ciale coerente con le relazioni attuali tra statoe mercato. Gli economisti e i politici che oggitendono a enfatizzare la natura intrinseca chelimita la flessibilità delle politiche statali inrealtà semplicemente riflettono l’arte perdutadi questo stile di management, la scomparsadi quelle strategie aziendali.

Le strategie aziendali socialcomunitarieavrebbero orizzonti temporali molto più este-si rispetto a quelli delle strategie di lean mana-gement. Anche se le efficienze a medio termi-ne delle due strategie potrebbero essere simili(ed esiste la prova che possa essere così, e per-sino che le strategie comunitarie riescano a su-perare quelle del lean management), il brevetermine, tipico dell’approccio lean manage-ment, costringerà le strategie a medio terminesocialcomunitarie ad abbandonare il mercato.Esse infliggeranno cioè tali conseguenze ne-gative ai territori che perseguono una politicasocioeconomica altamente regolamentata alpunto che questi territori si riconfigurerannoper fare posto ad una maggiore flessibilità al-locativa, sia di entrata che di uscita. Il risulta-to è che le socioeconomie territoriali altamen-te regolamentate scompariranno, come purele corrispondenti tipologie di strategia azien-dale.

Ciò che colpisce di più è che di tanto in tan-to i dirigenti più importanti delle aziende scri-vono articoli o fanno discorsi per chiedere uncambiamento in direzione di relazioni territo-rio-azienda più strutturate, una maggiore fe-deltà e così via, e questi stessi dirigenti lamen-tano l’impossibilità di portare avanti tali stra-tegie in un mondo che è sempre più definitodal modello di una facile entrata e uscita, lo-

calizzazione e trasferimento. Il punto allora èche i territori evolvano insieme: il problemadelle politiche oggi non è più cercare di im-porre maggiori costi all’entrata e alla fuoriu-scita, ma lavorare con le imprese per sviluppa-re una nuova compatibilità. Tale compatibi-lità non si può identificare in ogni caso con lavecchia politica delle severe penalità fiscali perla mobilità dei fattori, bensì un insieme di fe-deltà territoriale e flessibilità, necessaria perl’innovazione e la regolazione, e ora parzial-mente internalizzati, a livello territoriale. Que-sto è il modello del futuro.

Alcuni autori hanno studiato i sistemi poli-tici in cui insistono attori con mezzi forti diespressione dei bisogni e delle preferenze, sen-za che ciò sia realizzato attraverso forme disanzione alla fuoriuscita.

Secondo Hirschmann (1970), essi combina-no la voice, il farsi sentire, alla fedeltà. La fe-deltà non significa che non possa esistere san-zione alla fuoriuscita attraverso il disinvesti-mento, sia da una relazione o da una regione,ma piuttosto che non sia la prima modalità ola prevalente modalità di agire.

Esiste invece una forma di patto ampiamen-te sostenuto, e strumenti procedurali che losupportano, per esprimere le esigenze all’in-terno di una comunità territorialmente identi-ficata di attori economici e una inclinazione autilizzare questo come risorsa importante.Nell’ambito dello sviluppo economico regio-nale queste caratteristiche sono proprie di si-stemi come quelli del NEC in Italia.

L’economia di queste modalità di partecipa-zione è molto complessa. Idealmente i mecca-nismi di voice permettono un alto livello diflessibilità, che altrimenti esigerebbero formedi facile uscita ed entrata, ma con conseguen-ze molto diverse poiché la voice viene eserci-tata da gruppi esistenti all’interno della comu-nità industriale. Quindi il sistema è progettatoper permettere loro di adattarsi alle circostan-ze variabili e per realizzarlo con i poteri esi-stenti senza disintegrarsi.

Il problema, come è ben noto nella lettera-tura economica delle istituzioni, è che la voicesi può anche utilizzare per proteggere posizio-ni e rendite monopolistiche, creando una scle-rosi istituzionale. Dunque la voice e la fedeltàesistono in una sorta di relazione sul filo del

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rasoio con la performance economica. La loroperformance è determinata da tipologie detta-gliate di patti e accordi istituzionali.

La voice e la fedeltà come base dell’econo-mia politica e territoriale devono raggiungereun mix di quasi internalizzazione delle risorseeconomiche su scala regionale, e ciò diversa-mente dal modello socialcomunitario chespinge le aziende a internalizzarsi, oppure dalmodello di uscita che permette una pienaesternalizzazione.

Le istituzioni regionali e settoriali e gli ac-cordi, i patti, permettono alle imprese di esse-re flessibili esternalizzando certe risorse nel-l’ambiente regionale in modo che esse non va-dano perdute. La controparte, per le aziende,è che esse possono quasi esternalizzare tali ri-sorse nell’ambiente regionale. Le aziende cioèpossono essere sistemi aperti, mentre le eco-nomie regionali sono sistemi quasi aperti, sen-za quindi che l’apertura dell’azienda crei costiintollerabili per l’economia regionale.

Le istituzioni regionali, per formare in mo-do efficiente e muovere la forza lavoro attra-verso un ambiente regionale fluido intera-ziendale o per assistere le imprese a coopera-re nell’innovazione oppure per diffondere letecniche che vengono dall’esterno, diventanoesempi di questa strategia, in cui le aziendepartecipano al funzionamento delle istituzio-ni attraverso la voice, ma, in cambio, conce-dono una maggiore fedeltà alla regione, pro-prio grazie ai vantaggi economici creati daqueste prassi.

Queste sono tipologie di istituzioni, conven-zioni e relazioni, difficili da creare e mantene-re ma i benefici economici e sociali sono note-voli.

Un ordine territoriale basatosull’uscita?

Il primo e l’ultimo tipo di queste tipologieterritoriali certamente esistono oggi. L’ultimoè spesso citato come un caso esemplare di svi-luppo economico e regionale, socialmenteequilibrato e fondato sull’apprendimento. Ilproblema è che sono relativamente pochi gliesempi. Dal punto di vista dell’azienda tran-snazionale è certamente possibile utilizzare il

lean management come modello generale difunzionamento e allo stesso tempo usufruiredei vantaggi di attività svolte nel primo e terzotipo di territorio. Il pericolo, allora, è che latraiettoria generale coevolutiva delle aziendee delle economie territoriale sia sempre piùuna versione di lean management e territoridalla facile entrata e fuoriuscita.

Quindi, il fatto che le storie di successo re-gionale orientato all’apprendimento esistanoin un ambiente più vasto porta ad un risultatoperverso: in termini organizzativi, conduce al-la proliferazione dei lean learners e in terminiterritoriali ad una divisione netta tra i territoridi uscita e i territori voice e fedeltà. Questo èun nuovo modello centro-periferia della geo-grafia economica.

Il paradosso è che ciò può essere ben lonta-no dalla situazione ottimale. Da un lato, l’ab-bondanza di territori che si organizzano perrendere facile l’entrata e la fuoriuscita, e cheLynn Mytelka (1998, pp. 203-23) definisce“tornei di posizionamento”, può permetterealle imprese di approfittare di un “menu à lacarte” di installazioni in cui i costi sono mini-mizzati e quindi possono essere fatalmente at-traenti per le aziende stesse. Il caso recentedella Mercedes in Alabama, dove i finanzia-menti alle imprese ammontavano a quasi400.000 dollari per ciascun posto di lavorocreato, ha messo il settore pubblico dello sta-to a rischio finanziario e ha provocato un di-battito, anche negli Stati Uniti ultraliberali,circa l’esigenza di stabilire delle regole di baseper la concorrenza interterritoriale.

D’altro lato questa geografia può non essereneppure ottimale per le aziende stesse; essepossono semplicemente impegnarsi in uncomportamento mimetico, organizzativo eterritoriale, e creare situazioni in cui le risorseterritoriali (patti, relazioni, istituzioni) nonesistono più o non sono più in grado di pro-durre in altro modo, dove l’azzardo divienequindi la modalità del business e dove la com-pressione dei costi a breve termine, da partedei concorrenti in questi ambienti, espellequalsiasi altra strategia prima che essa possaessere fruttuosa.

Ci si può chiedere, ad esempio, se tale ordi-ne territoriale emergente permetta un’eccessi-va frammentazione spaziale delle attività

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aziendali, per cui le aziende sacrificano i van-taggi della prossimità che porterebbero ad al-tre forme di efficienza, come ad esempio, unmaggiore apprendimento.

È stato dimostrato ad esempio, che il com-plesso militare e industriale americano era sta-to creato nel dopoguerra sulla base di una geo-grafia specifica: la Gunbelt (cintura di fuoco).La geografia della Gunbelt, la zona sudocci-dentale e la costa del Pacifico degli Stati Uni-ti, era stata creata essenzialmente per volontàpolitica, e sembra che abbia spinto ai margini(in termini geografici) le agglomerazioni pree-sistenti di produttori di beni ad alta tecnolo-gia, verso il nord-est e l’area centro-occiden-tale attraverso la via geografico-politica degliappalti diretti. Questo fatto non ebbe soltantodei gravi effetti economici sulle comunità, madiede luogo ad un livello generale di indirizzodell’apprendimento tecnologico che non fucerto ottimale.

Se generalizziamo questa lezione sulla con-correnza economica tra le regioni, talvolta suscala mondiale, e la applichiamo all’epoca at-tuale, essa ci può essere necessaria per consi-derare l’erosione di certi effetti di prossimità,conseguenze negative e involontarie dell’ordi-ne territoriale emergente e dei suoi legami co-evolutivi con le strategie aziendali.

Questo tipo di risultato presenta una diver-sa dinamica coevolutiva rispetto all’interazio-ne azienda-territorio del primo dopoguerra.Nel periodo d’oro del boom economico deldopoguerra le aziende sviluppavano i loro mo-delli manageriali e le politiche territoriali do-vevano fornire a livello nazionale e regionalele risorse mancanti necessarie alle aziende. Og-gi le aziende possono essere vittime del lorostesso successo di globalizzazione, oggi le loroscelte, per molte tipologie di prodotto, sonocosì vaste da offrire loro una possibilità “al difuori”, la possibilità quindi di non svilupparestrategie più efficaci e positive per affrontare iproblemi connessi, ad esempio, all’incertezzae all’apprendimento. E qui si ritorna al con-cetto per cui molte di loro si impegnano inpragmatismi aziendali minimalisti.

Quindi, non si può dire che le aziende dal-l’apprendimento snello (lean learning) nonsiano “radicate” nel territorio, come sostenu-to in letteratura. Alla luce di quello che abbia-

mo già affermato, esiste una tipologia di “ra-dicamento non-radicamento” territoriale, os-sia uno sviluppo territoriale basato sull’uscita.Ciò che le aziende fanno è intrinsecamente le-gato a quello che fanno i territori e viceversa.Qualunque analisi che veda ciò come una re-lazione univoca analizza solo una parte di que-sto quadro; la coevoluzione è l’oggetto perti-nente della nostra attenzione.

Una delle questioni principali della geogra-fia economica di oggi riguarda la zona di con-fine tra agglomerazione e dispersione. È unasfera teoricamente ed empiricamente com-plessa.

Sembra che certe forme di decentralizzazio-ne dell’industria indeboliscano il territorio,siano cioè dei classici processi di dispersione.Esistono, per un verso, tessuti metropolitanipolicentrici e vasti, come nel sud della Califor-nia, dove i vantaggi della localizzazione si pos-sono spalmare su enormi aree e si può verifi-care che alcune tipologie di agglomerazioneeconomica siano oggi più regionali che locali.Per diffondesi all’interno del tessuto metro-politano, le aziende devono adottare aggiusta-menti organizzativi: una maggiore internazio-nalizzazione, che altrimenti non si effettuereb-be, l’utilizzazione di efficienze logistiche chepermettano loro di creare collegamenti su sca-la metropolitana piuttosto che su scala locale.

D’altro canto, alcuni di questi processi pos-sono essere operativi a livello di sistema-città,dove i collegamenti sono dispiegati tra agglo-merati ad una notevole distanza gli uni daglialtri.

In entrambi i casi le aziende non sono forte-mente ancorate, come la maggior parte dellestorie sulle economie di agglomerazione so-stengono, ma allo stesso tempo non sono cosìlibere, come sostiene la classica teoria sulla di-spersione. Rappresentano una importante“zona grigia” territoriale, una nuova frontie-ra, dove le specificità e i flussi sono entrambioperativi in varia misura.

Il margine di manovra per le aziende e perle politiche territoriali ha un carattere diversoin questi luoghi rispetto alle economie territo-rializzate oppure alle economie di flusso. Ineffetti, tanto per speculare, può essere che cer-te aree metropolitane degli Stati Uniti a cre-scita rapida siano economie a zona grigia, do-

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ve alcune delle vecchie regole sul radicamentoe la specificità si piegano verso altre direzionima non secondo le modalità che le teorie sulleeconomie di flusso suggeriscono.

Affermare che l’ordine emergente non è ot-timale non è affermare che non funziona. L’as-senza di strutture territoriali migliori puòcompensare un mondo sempre più snello manon necessariamente un mondo che non puòfunzionare. Questo allora è forse uno dei pro-blemi collettivi di azioni di vasta portata che ilmondo capitalista deve affrontare in questa fa-se storica: come creare un ordine in cui le pos-sibilità di sviluppo economico e sociale chenoi sappiamo esistere nelle regioni che ap-prendono non siano mere isole che galleggia-no nel mare del lean management e della rapi-da entrata e uscita.

L’analisi presentata mette in guardia controla credenza che questo problema possa essererisolto in primo luogo attraverso interventi po-litici ad alto livello, ad esempio con regole pergli investimenti e il commercio internazionale,politiche di macroeconomia, politiche nazio-nali per l’occupazione. Le riforme sono certa-mente necessarie nelle aree in cui si manifesta-

no i pericoli di uscite illimitate e le “gare perla localizzazione”, ma queste riforme da sole,senza un’incessante opera di sviluppo, senzale basi di accordi e relazioni fondate sull’ap-prendimento tra regioni e aziende, sarannolettera morta. Un ordine territoriale che possaassicurare le basi di uno sviluppo economicoe sociale saldo si deve quindi, nel ventunesi-mo secolo, costruire simultaneamente, siner-gicamente, dal basso verso l’alto, nelle azien-de e nelle collettività, nei parlamenti e negliambienti intellettuali di tutto il mondo.

Riferimenti bibliografici

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Vantaggi competitivi e sviluppo locale. Trasformazioni e identità torinesi

Sergio Conti

Processi di globalizzazione, competitività, soggetti e luoghi

Sino a non molti anni addietro la prospettiva con cui si osservavano le vicende dell’economiamondiale veniva ricondotta a un modello di crescita sostenuto da alcune logiche precise. Que-sto poggiava, in estrema sintesi, su un ordine internazionale relativamente stabile, su politichemacroeconomiche nazionali coordinate e fondate su una gestione keynesiana della domanda, suun’organizzazione ford-tayloristica della produzione e sulla dominanza del modello d’impresaoligopolistica à la Chandler-Galbraith, infine su un insieme di regole del gioco che, a livello mi-croeconomico, combinassero la fissazione oligopolistica dei prezzi con la determinazione istitu-zionale dei salari.

Quei fondamenti, grazie ai quali le economie sviluppate avevano vissuto un’epoca gloriosa,non sono più rintracciabili. Da almeno due decenni, allorché si intravedono i segni di una incer-ta ripresa dell’economia, questi si accompagnano di regola a persistente disoccupazione, a sala-ri reali sostanzialmente stagnanti, a crescenti ineguaglianze nei livelli di profitto fra le imprese.In altre parole, nei decenni che hanno chiuso il XX secolo, i consueti indicatori macroeconomi-ci non hanno più rispecchiato la realtà del secondo dopoguerra.

È dunque diffuso il senso che uno spartiacque sia stato tracciato, al pari della consapevolezzache siano venute meno molte certezze consolidate. Inizialmente si sono vissuti anni di confusio-ne, cadenzate dalla ricerca di risposte a volte velleitarie, altre volte romantiche (come non ricor-dare, a questo proposito, l’immane letteratura avente per oggetto l’autonomia e l’autoconteni-mento regionale?), espressione della ricerca affannosa di strumenti e occhiali diversi dal passatocon i quali osservare le vicende economiche del nostro tempo. Ciò nondimeno, negli anni a noipiù vicini sembra che qualcosa sia apparso all’orizzonte, rendendo più nitide le immagini con-fuse e offrendo spiragli finalmente percettibili. Per capire meglio, è utile assumere in rapida ras-segna alcuni elementi chiave, i quali, pur non essendo esaustivi, paiono in grado di gettare unosquarcio di intelligibilità su fenomeni e processi intimamente complessi.1) Il primo, e forse più ovvio, è che con la crescente internazionalizzazione della produzione e la

conseguente e tendenziale ubiquitarietà dei fattori di produzione, va erodendosi la capacitàproduttiva di molti paesi e regioni a industrializzazione antica. È, questa, una consapevolez-za da tempo nota a chi pratica l’economia, che risale segnatamente ai fondamentali lavori diEdith Penrose (1959). Quell’economista controversa è stata forse la prima, infatti, a intro-durre l’idea secondo cui, dato che il vantaggio competitivo si basa su capacità scarse ed ete-rogenee, una regione o un’economia nazionale dovranno fondare il proprio successo su ca-pacità che altre regioni o paesi non possiedono (esse devono cioè essere rare) o non sono in

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grado di valorizzarle in un più ampio sce-nario economico e concorrenziale.Se è vero che non è possibile parlare di van-taggio competitivo in un mondo dove pres-soché tutti sono in grado di produrre glistessi prodotti o servizi in tempi e a costianaloghi, la storia recente insegna altresìche molte capacità produttive e le risorsedisponibili non sono in realtà diffuse, bensìlocalizzate (Maskell, 1998). Il costo del la-voro, per esempio, è tuttora un fattore fon-damentalmente immobile (non si spieghe-rebbero altrimenti i massicci processi di de-localizzazione che hanno coinvolto nume-rose economie del Terzo Mondo e dell’areapost socialista).C’è, tuttavia, un altro fattore, il quale giocaun’importanza crescente nell’economiacontemporanea, caratterizzato da elevataimmobilità: è la capacità di produrre cono-scenza. È noto, per esempio, che molte im-prese operanti in aree altamente industria-lizzate hanno risposto alla crescente ubiqui-tarietà e alla relativa riduzione del costo deifattori generando nuove forme di renditaimprenditoriale, fondate appunto sulla pro-duzione di conoscenza. Soprattutto nei pae-si industrializzati con costo dei fattori rela-tivamente elevato (primo fra tutti il costodel lavoro), la progressiva transizione versoun’economia della conoscenza può essereinterpretata, in primo luogo, come la con-seguenza della tendenziale globalizzazionedei fattori e dei mercati (Lundvall, John-son, 1994). In questi paesi e regioni il problema dellacompetitività giace in misura crescente sul-la capacità di creare, accumulare e utilizza-re la conoscenza meglio e più rapidamentedi altri. Ciò che è in agenda non è sempli-cemente la conoscenza prodotta (la quale ècomunque trasferibile da un luogo all’altroin modo relativamente agevole e in formacodificata), bensì la capacità stessa di pro-durla. Quest’ultima costituisce, infatti, unfenomeno dipendente strettamente dalleroutine e dalle pratiche radicate nei conte-sti locali e, conseguentemente, nelle impre-se che di questi contesti sono l’espressionetangibile. È questo, in altre parole, il nuovogrande fattore localizzato nell’economia

globalizzata contemporanea, fonte prima-ria del vantaggio competitivo dei paesi edelle regioni a elevato costo dei tradiziona-li fattori di produzione.

2) Non ci sono dubbi, in secondo luogo, che irecenti processi di globalizzazione dell’e-conomia si siano accompagnati a una cre-scita senza precedenti dei flussi internazio-nali di investimenti e di prodotti.Ciò che tuttavia può sconcertare maggior-mente chi osserva la nuova emergente eco-nomia mondiale è il fatto, vistoso ma inat-teso, per cui le diverse regioni e paesi pro-ducono beni e servizi differenti, e per di piùcon modalità e processi produttivi essi stes-si assai diversi fra loro. Ciò significa, com’èperaltro rilevabile dalle statistiche interna-zionali (Fagenerg, 1992), che la specializza-zione internazionale per prodotto è andatacrescendo sistematicamente, negli ultimilustri, coinvolgendo soprattutto le econo-mie del mondo industrializzato. Si tratta in-vero di una realtà a prima vista sorprenden-te in un’epoca in cui la diffusione del-l’informatica e dei messi di comunicazioneparrebbe incoraggiare come mai in passatola diffusione e l’imitazione della tecnologia.Ciò significa, in conclusione, che la cre-scente specializzazione delle economie na-zionali e regionali non discende più dalletradizionali economie di scala nella produ-zione – e dunque dal rapporto competiti-vità/prezzo – ma dalla natura del prodottoimmesso sui mercati, dalla conoscenza ne-cessaria per la sua realizzazione, dal tipo dibisogni suscitati e soddisfatti, dalla capa-cità di realizzare prodotti sempre più evo-luti senza negarne i tratti di originalità.

3) In queste condizioni, la possibilità di unacittà o di regione di proporsi con successosui mercati internazionali discende per lomeno da due condizioni essenziali. La pri-ma giace sulla capacità di imprimere un’i-dentità ai prodotti che essa propone, diffe-renziandoli da quelli dei concorrenti. La se-conda risponde al fatto che la ricerca di unasoluzione ai problemi posti dall’incalzaredella competizione non si ritrova più nellaricerca esogena della tecnologia o dei meto-di di produzione “migliori”. Se una soluzio-ne c’è, essa dev’essere ricercata, al contra-

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rio, internamente alla regione stessa, nellacapacità di coordinamento fra produttori eacquirenti, istituzioni e altri attori locali.La sfida è dunque di natura organizzativa,involgente gli attori e la loro capacità diazione e comunicazione. Si tratta di una di-mensione dell’agire economico la cui affer-mazione va di pari passo con la presa d’attodell’incapacità della teoria economica tra-dizionale (tuttora dominante) di includerel’azione dei soggetti in un universo logicoche non può emanciparsi se non si cessa diseparare la dimensione economica dalle al-tre dimensioni, le quali sono storicamentee territorialmente specifiche.

4) Quanto ho sin qui ricordato possiede, perconcludere, una esplicita cartina di tornaso-le. Il processo di globalizzazione (in partico-lare la formazione di reti globali d’impresa)mina alle radici la sovranità economica de-gli stati nazionali, ma nel contempo rafforzala posizione delle economie regionali spe-cializzate in attività economicamente com-petitive. Dal canto loro, le regioni si affac-ciano all’economia globalizzata promuoven-do strategie consapevoli di valorizzazionedell’economia incentrate sul rafforzamentodella propria area di specializzazione. Ciòspiega la diffusione di strategie e scelte poli-tiche (spesso di natura neomercantile) voltea promuovere e sostenere i sistemi maggior-mente dinamici presenti (cluster, utilizzan-do una terminologia nota), cioè insiemi diattività fra loro connesse e generatrici perquesto del valore economico.

La dimensione locale dello sviluppo

Queste considerazioni rimarrebbero co-munque nel regno dell’astrazione se non tro-vassero conferma in numerose “storie di suc-cesso” che in una certa misura hanno modifi-cato la carta geografica del mondo industrialecontemporaneo. Limitando volutamente lanostra osservazione alle regioni a industrializ-zazione antica, è agevolmente rilevabile, in ef-fetti, che molte di esse (in Europa, per esem-pio, il Galles, la Rühr, la Westfalia, il BadenWürttenberg, la regione lionese e la Catalogna,per ricordare le esperienze più note) hanno sa-

puto rimodellare con successo, negli anni a noipiù vicini, le proprie strutture produttive(Cooke, 1995).

Queste realtà differiscono significativamen-te tra loro, e ciò basterebbe a sostenere la tesisecondo cui sarebbe comunque insensato de-finire a priori un modello ideale “certo” voltoa dare soluzione agli enigmi e agli interrogati-vi sollevati dalle emergenze economiche e so-ciali del nostro tempo. Il discorso scientifico epolitico che può svilupparsi in questa direzio-ne non è, infatti, una cittadella ideale unitaria,retta da metodi e principi ispiratori fissati unavolta per tutte, ma un insieme di costruzionierette da comunità di ricercatori e di decisoriche parlano lingue diverse.

Ciò nondimeno appare del tutto legittimoassumere, dall’osservazione delle esperienzedi politica industriale e territoriale altrove vin-centi, alcune generiche ragioni del successo.Di nuovo, mi limiterò a una schematica (e for-zatamente incompleta) trattazione:1) Anzitutto, allo scopo di sgomberare il cam-

po da facili determinismi, è necessario ri-cordare che in nessun caso la “rigenerazio-ne” delle strutture produttive è stata realiz-zata cercando di attrarre quelle che con-venzionalmente sono definite come indu-strie a elevata tecnologia (biotecnologie, se-miconduttori, aeronautica, software, ecc.).Ciò non esclude, ovviamente, che una poli-tica tecnologica non sia stata perseguita. Es-sa è stata tuttavia diretta in primo luogo (eciò appare un elemento qualificante) all’u-tilizzo e alla riqualificazione di risorse tec-nologiche storicamente radicate dell’eco-nomia della regione.

2) In secondo luogo, il rilancio dell’economianon è avvenuto promuovendo improbabilinuove attività, ma ribadendo i compartimanifatturieri. Se tutti i casi prima ricorda-ti già possedevano in passato strutture in-dustriali integrate di diverso livello di com-plessità, la soluzione è stata trovata nel ri-spetto (oltre che nel sostegno) di questerealtà produttive, promuovendone assiemela specializzazione e la differenziazione funzionale (Rehfeld, 1995). Rovesciando itermini della questione, è possibile soste-nere che le storie di successo sono statequelle in cui era già presente (o latente) un

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ampio ventaglio di figure imprenditoriali eprofessionali all’interno di un limitato nu-mero di settori, ovvero la presenza di siste-mi produttivi parziali (o “clusterizzati”)fondati su legami organizzativi relativa-mente stabili.

3) In tutti questi casi, inoltre, sono state perse-guite e implementate strategie reticolari diassistenza tecnologica e finanziaria volte aincoraggiare l’interazione fra attori localiz-zati (fra imprese, fra imprese e istituzioni,fra istituzioni diverse). La creazione di capi-tale sociale (Putnam, 1993) esprime dun-que, sotto questa luce, forme di interventoa supporto della formazione di reti di pic-cole imprese, oltre che dello scambio del-l’informazione prodotta o acquisita, la qua-le prevede la massimizzazione della colla-borazione e dell’interazione a livello locale.

4) Infine, tutte queste regioni dispongono diistituzioni fortemente interventiste, capacidi stimolare la formazione di gruppi di in-teresse che non si limitano al perseguimen-to di specifici obiettivi concreti, ma condi-vidono un orizzonte normativo, una comu-ne agenda politica. Ora, è evidente che que-sta capacità istituzionale è perseguibile piùagevolmente a livello regionale (locale),rappresentando questo la scala maggior-mente appropriata per il perseguimento distrategie di coordinamento e valorizzazio-ne delle risorse localizzate. In altri termini,questi casi di successo scontano una sortadi regionalizzazione della politica regionale.

Se una sommaria conclusione può esseretratta da questa rapida rassegna, essa suggeri-sce come la rivalorizzazione dell’economia re-gionale non sia riducibile, in primo luogo, aun insieme più o meno ristretto di fattori eco-nomici (i quali sono comunque essenziali), maa un più complesso intreccio di fattori istitu-zionali, culturali e sociali1. In secondo luogo,essa dovrà trascendere qualsivoglia ipotesi dipolitica industriale e territoriale generica, perprevedere, al contrario, soluzioni strategicheselettive volte al perseguimento della coope-razione interindustriale entro un sistema di at-tori che congiuntamente possiedono la capa-cità di proporsi sulla scena internazionale. Intermini di metodo, ciò segna il passaggio da

una politica settoriale a una politica di sistema(locale), quale strumento per l’individuazionedei relativi punti di forza e di debolezza pre-senti nella struttura produttiva e, a partire daquesti, prefigurare politiche territoriali tese al-la massima valorizzazione delle esternalità del-la colocalizzazione (Cooke, Morgan, 1998).

Di sviluppo locale si è parlato in realtà diffu-samente negli ultimi anni, facendo di questoconcetto il protagonista indiscusso dell’analisiterritoriale e delle opzioni di politica econo-mica. La dimensione locale dello sviluppopossiede invero dimensioni molteplici, in ra-gione della pluralità intrinseca dei sistemi dicreazione del valore (alcuni di dimensione ur-bana, altri metropolitana, altri di più o menoampi aggregati di comuni, comprendendovi ipiccoli sistemi di nicchia, spesso fortementelocalizzati).

Negli ultimi vent’anni, com’è noto, lo svi-luppo economico è stato caratterizzato da duedinamiche a un tempo distinte e connesse: daun lato, come si è visto, la globalizzazione de-gli scambi economici e delle strategie finan-ziarie e produttive; dall’altro lato, l’emergenzadi economie regionali “floride” e innovativeche sembrano riproporre il ruolo del radica-mento territoriale come componente essenzia-le dello sviluppo.

Da un lato, molte imprese hanno progressi-vamente delocalizzato le proprie produzioniad alta intensità di lavoro nei paesi emergenti,alla ricerca di bassi costi del lavoro, e intensi-ficato il processo di innovazione tecnologica eautomazione nei paesi a economia avanzata.Ciò si traduce, dal punto di vista della dinami-ca territoriale, in un crescente sradicamentodelle attività manifatturiere dalle regioni e dal-le città a industrializzazione antica.

Dall’altro lato, alcuni comparti di attività edi industrie hanno teso a organizzarsi in mo-do tale da sfruttare i vantaggi competitivi chederivano dalla specializzazione, dalla piccolae media dimensione d’impresa, dal radica-mento nella comunità locale, dalla continuitàcon la tradizione artigiana. L’esempio classicoè costituito in questo caso dai distretti indu-striali italiani, ma i casi di sistemi manifattu-rieri locali di successo si sono moltiplicati nelcorso degli anni ottanta e novanta: la micro-tecnica e l’industria degli orologi meccanici in

PARTE PRIMA - SESSIONE II

1 Ciò trova solidi fonda-menti concettuali, da unlato, nella “nuova sociologiaistituzionale” con la sua en-fasi sul radicamento (Gra-novetter, 1985; Hudgson,1999) e, dall’altro, nelle tesidella scuola neoschumpete-riana, secondo cui l’innova-zione, in quanto fenomenoevolutivo, giace su un pro-cesso interattivo e prendeforma nelle routine istitu-zionali e sulle convenzionisociali (Doeringer, Tarkla,1990; Dosi, 1988; Freeman,1987; Lundvall, 1992).

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Svizzera, l’impresa dell’arredamento in Dani-marca, l’automazione e le macchine utensilinel Baden-Württenberg, la microelettronicanella Silicon Valley.

Questi due diversi processi sono altresì allabase di distinti orientamenti nella realizzazio-ne, da parte dei governi locali, di politiche industriali destinate a favorire l’insediamentoe la crescita di attività produttive. Da un lato,c’è il tentativo di attrarre grandi imprese “pièveloce” (footloose) ricorrendo agli incentivi ealle agevolazioni (infrastrutture, riduzione deicosti di insediamento e di impianto, riduzionedel costo del lavoro, ecc.). Questo orienta-mento interpreta le diverse regioni come concorrenti nell’attrarre investimenti esternialla regione che possano indurre processi dicrescita. Le critiche a questo approccio sononote: si tratterebbe di un gioco a somma zeroche non crea nuove opportunità di sviluppo,ma si limita a spostare le attività industriali dauna regione all’altra. Il consumo di risorse èspesso sproporzionato rispetto ai risultati con-seguiti, dal momento che la localizzazione diimprese multinazionali non garantisce un “re-troeffetto” positivo sulla struttura produttivae imprenditoriale locale.

Dall’altro lato, l’esperienza dei distretti in-dustriali ha rivitalizzato il dibattito circa le pe-culiarità locali dei processi di sviluppo econo-mico e sociale, dando vita a numerosi tentatividi avviare “artificialmente” distretti industria-li, milieux innovateurs, parchi tecnologici. Inquesto caso il limite principale è stato il tenta-tivo di rendere universali (e sostanzialmentemeccanicistiche) esperienze di sviluppo alta-mente contestualizzate e legate a specifichepeculiarità locali.

Sviluppo economico e dinamicadell’apprendimento

Ciò introduce uno degli elementi essenzialiche caratterizzano il moderno scenario com-petitivo e l’organizzazione funzionale dellospazio. Si sono ridotte, da un lato, le tradizio-nali relazioni gerarchiche (fra centro e perife-ria, fra poli e loro intorno, fra città e loro areemetropolitane) a vantaggio delle relazioniorizzontali di rete (fra grandi centri produttivi

e finanziari, fra sistemi compresenti su spazipiù o meno ristretti). Dall’altro lato, il supe-riore dinamismo di alcuni sistemi rispetto adaltri appare nondimeno sempre più legato allevariabili di luogo e di prossimità, ovvero allerelazioni verticali che essi instaurano con il re-troterra locale.

In questo quadro, uno dei fattori determi-nanti della competitività è dato, come abbia-mo visto, dal ruolo svolto dalla conoscenza edalle competenze territorializzate (quindi delradicamento, della specializzazione, dell’iden-tità dei prodotti e dei modi di produrre), e co-me tali difficilmente utilizzabili al di fuori dispecifici contesti e luoghi. Esse, per esprimer-si, necessitano di un’organizzazione sistemica(Veltz, 1998), la quale discende dalla qualità edalla densità del tessuto relazionale esterno einterno alle imprese. Ciò spiega, per altro ver-so, il motivo per cui si produce meglio, e spes-so a costi addirittura inferiori, nelle regioni acosto del lavoro relativamente elevato che nonin quelle a costo inferiore.

Numerosi cambiamenti nell’economiamondiale hanno stimolato, negli ultimi anni,la riflessione sul ruolo della conoscenza e del-l’apprendimento. Da un lato, la sopravviven-za e la competitività di settori a bassa tecnolo-gia ci induce a riconsiderare i rapporti tra sa-peri tradizionali e conoscenza scientifica e adabbandonare il pregiudizio secondo cui sol-tanto la tecnologia più recente e aggiornatapossa sostenere la competitività e lo sviluppodelle imprese e delle regioni. Dall’altro lato, laterziarizzazione dell’economia aumenta la ri-levanza delle competenze e delle professiona-lità “ad alta densità di conoscenza”: il succes-so e l’innovazione nel settore dei servizi quali-ficati si fondano esplicitamente sul capitaleumano (sulla conoscenza) posseduto dal tec-nico e dal professionista.

Questa attenzione alla conoscenza e all’ap-prendimento, che trova sempre maggiore spa-zio nelle riflessioni e nelle politiche di impor-tanti istituzioni internazionali, trova una pro-pria dimensione territoriale nei concetti di si-stema nazionale di innovazione e di learningregion (Lundvall, 1992; Malmberg, Solvell,1997).

Il concetto di sistema nazionale di innovazio-ne fa riferimento alla base nazionale di relazio-

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ni tra stato, ricerca e apparato produttivo chefondano e radicano alla scala nazionale il pro-cesso di innovazione. Il concetto di learning region interpreta, invece, in maniera più infor-male le regioni e i sistemi locali come reti, for-mate da agenti economici, istituzioni, centri diricerca e lavoratori qualificati, attraverso i qua-li la conoscenza viene generata e radicata local-mente.

Nella prospettiva dei processi di apprendi-mento localizzati, la distinzione tra conoscen-za codificata (o esplicita) e conoscenza tacita(implicita) assume un’importanza centrale.La prima è rappresentata dalla scienza e dallatecnologia ufficiali, codificate in testi e ma-nuali. La seconda è data, invece, dalle routinee dalle pratiche che, sviluppate quotidiana-mente nella produzione di beni e servizi, inte-grano e arricchiscono la conoscenza codifica-ta. In particolare, la conoscenza codificataviene tradizionalmente sviluppata nei grandicentri di ricerca, pubblici e privati e, successi-vamente, agevolmente trasferita attraverso imeccanismi del mercato. Viceversa, la cono-scenza tacita è tradizionalmente radicata nel-le reti sociali e culturali che costituiscono unsistema locale. Essa è, in altri termini, mag-giormente radicata nei luoghi ove viene pro-dotta e riprodotta.

Il successo economico e l’innovazione sifonderà pertanto sull’interazione e la recipro-cità dei due tipi di conoscenza. In particolare,questa prospettiva sulla conoscenza e sull’ap-prendimento conferisce un nuovo ruolo ai si-stemi locali:• da un lato, il sistema locale costituisce “l’in-

cubatore” dove il sapere codificato viene in-terpretato e integrato con il sapere tacito lo-cale, dove, cioè, gli attori locali utilizzano laconoscenza prodotta altrove alla luce dellapropria esperienza e delle proprie cognizioni;

• dall’altro lato, la conoscenza tacita deve es-sere codificata e resa trasferibile sul merca-to, in quanto ciò è condizione fondamentaleper il successo e l’integrazione del sistemalocale nel mercato mondiale; tuttavia, il fat-to che il sapere tacito sia difficilmente tra-sferibile – in quanto racchiuso in relazionisociali – fa sì che il principale mezzo per lacodificazione di questa conoscenza sia laproduzione stessa di beni.

Appare ovvio, a questo punto, che il siste-ma locale, sfruttando le conoscenze tacite chevi sono tradizionalmente radicate, acquisisceun importante vantaggio competitivo. Si trat-ta di una prospettiva che getta una luce nuovasull’analisi dei sistemi locali di industrializza-zione: le capacità e le conoscenze accumulatenel corso di una storia industriale secolare co-stituiscono il corpus di saperi indispensabiliper la rigenerazione dell’industria locale. Nonè un caso, come vedremo, che i due settorimaggiormente dinamici e competitivi del si-stema manifatturiero torinese (design e mac-chine utensili) siano proprio quelli in cui piùfelicemente si è compiuto l’accoppiamento trainnovazione tecnologica e conoscenze tacite eradicate, e in cui la tradizione e la competenzatorinesi hanno raccolto numerosi successi suimercati internazionali.

Una storia torinese

In questo quadro estremamente semplifica-to, la posizione del sistema manifatturiero torinese si rivela quanto mai complessa e arti-colata. Torino è stata per lungo tempo la piùemblematica delle one-company-town e il si-stema produttivo più rappresentativo del mo-do di produzione fordista: la dipendenza del-l’occupazione e della vitalità manifatturiera daun “unico” comparto produttivo ha costituitoa lungo l’indiscutibile base di sviluppo dellametropoli subalpina. Nondimeno, nel corsodegli ultimi 20 anni profondi cambiamentinella sua struttura demografica e manifattu-riera spingono urgentemente per un confron-to con i nuovi processi sopra descritti.

Da un lato, Torino deve confrontarsi con gli“effetti collaterali” del processo di globalizza-zione, che si consumano nella progressiva de-localizzazione delle attività legate al settore au-tomobilistico. Dall’altro, alla ricerca di alter-native e soluzioni volte a fronteggiare la crisidel regime fordista, il sistema torinese deve ne-cessariamente confrontarsi con iniziative stra-tegiche “nuove”, al fine di incrementare lacompetitività e la relativa autonomia della suastruttura produttiva.

In altri termini, l’interrogazione dei rappor-ti che l’industria, nel suo divenire, intrattiene

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con il territorio che la contiene e la sostienesconta un’interpretazione intimamente plura-le delle diversità, spezzando senza mediazioniun quadro di certezze che appariva sino a nonmolti anni addietro alquanto consolidato: es-so si compendiava nell’“ideologia” di un siste-ma produttivo proiettato verso una inevitabi-le monocoltura industriale. In queste paginesi sosterrà, al contrario, che il Torinese è – epuò essere – qualcosa di diverso dall’immagi-ne che nei decenni ne è stata costruita, avendoquell’immagine tenuto nascoste troppe cose,che negli anni che chiudono il millennio sonoesplose quasi inaspettate, consegnandoci unarealtà economica e sociale diversa e più reale,e per questo, forse, destinata a durare. Gli an-ni dell’industrializzazione e della polarizzazio-ne automobilistica avevano in sostanza celatoil fatto che il sistema torinese è un dedalo ditanti spazi e di tante realtà, e quindi di tantestorie che si dipanano con ritmi diversi, e cheproprio nelle differenze possono essere rin-tracciati i segni della forza del sistema.

Ma cosa è dunque successo in questi due ul-timi decenni? Dalle ceneri del modello di in-dustrializzazione ford-taylorista è andata for-giandosi, sulle spinte di una nuova e pervasivarivoluzione tecnologica e di una crisi socialeacuta, un’idea diversa dello sviluppo che ri-mescola regole e organizzazioni che si pensa-va dovessero riprodursi e durare. All’iniziosembrò che il sistema rischiasse di sgretolarsi.Invece si è capito che esso può reggere l’urtodei fatti nuovi, in alcune sue parti irrobustirsi,aprire la via a nuove forme di valorizzazione edi competitività.

La storia industriale recente si è orma fattacarico di dar ragione delle trasformazioniprofonde sopravvenute nel sistema torinese inseguito all’introduzione massiccia di innova-zione, sia in campo tecnologico che organiz-zativo (Conti, Enrietti, 1995; Volpato, 1996).Negli ultimi due decenni la realtà produttiva esociale della città ha subito significative tra-sformazioni, che in estrema sintesi possiamoricondurre a tre valenze fondamentali:• anzitutto, le economie di ampiezza sono an-

date sostituendosi alle economie di scala neldeterminare e consolidare le chiavi del suc-cesso del sistema produttivo;

• nel contempo, le routine organizzative delle

imprese torinesi, sia di grande che di picco-la e media dimensione, sono state alla basedel consolidamento di un sistema strategicodi creazione del valore esplicitamenteespressione della radicata produzione auto-mobilistica. Esso comprende, accanto al si-stema delle imprese fornitrici di componen-ti per veicoli, un solido tessuto di progettistie car designer e un rilevante insieme di pro-duttori di macchine utensili, con punte dieccellenza nella robotica e nell’automazio-ne industriale;

• infine, la massiccia introduzione di innova-zioni di processo ha indotto numerose im-prese tradizionali a spostarsi verso più effi-cienti combinazioni produttive, senza perquesto mettere in discussione la trama delletransazioni e i rapporti di “lealtà” con lagrande impresa dominante.

All’apice di questi processi è tuttavia opinio-ne consolidata che i caratteri strutturali dell’e-conomia torinese siano nei fatti confermati: ilsistema è tuttora caratterizzato da una struttu-ra imprenditoriale e industriale fortemente“integrata” e “concentrata”, pur rivelandositendenze verso una crescente diversificazionesettoriale. Sotto questa luce, il “vantaggio so-stenibile” del sistema torinese, che giace pe-raltro sui fondamenti della sua storia indu-striale, è un insieme complesso di specializza-zioni, di tecnologie, di comportamenti (colla-borativi e competitivi), di istituzioni.

Un ampio percorso di ricerca sulla strutturaproduttiva della città e della sua regione fun-zionale (Città di Torino, 1997; Provincia di To-rino, 1999) ha nei fatti consentito di identifi-care l’affermazione (e il consolidamento) di al-meno tre classi di sistemi locali di creazione delvalore 2.1) La prima è composta da tre sistemi aventi

valenza strategica: la veicolistica, tradizio-nalmente centrale nell’economia torinese;il sistema dei beni strumentali, che costitui-sce una fondamentale alternativa per lameccanica torinese; infine, il design e pro-gettazione, sistema che rappresenta il cuoredelle attività innovative nel sistema mani-fatturiero torinese. Questi tre sistemi stra-tegici sono profondamente radicati nellaregione metropolitana torinese, per tradi-

VANTAGGI COMPETITIVI E SVILUPPO LOCALE. TRASFORMAZIONI E IDENTITÀ TORINESI

2 Nel tentativo di ricercare ifondamenti della competiti-vità del sistema torinese èstato prioritario ridefinirel’oggetto di osservazione, in-troducendo il concetto di sistema locale di creazione delvalore. Esso presenta alcunirilevanti vantaggi. In parti-colare: a) l’idea di sistema sidifferenzia da concetti ana-loghi come cluster, aggrega-to, o filiera in quanto non siriferisce alle mere relazionifunzionali fra imprese ap-partenenti alla stessa indu-stria, ma piuttosto all’insiemedelle relazioni su cui si fondala competitività della regio-ne. Si tratterà pertanto dirapporti di fornitura, maanche di tutte quelle altrerelazioni su cui poggia la cir-colazione dell’innovazione edella conoscenza; b) l’enfasisulla dimensione locale del-l’attività economica vuolesottolineare come l’attenzio-ne sia concentrata sulle ri-sorse specifiche e non trasfe-ribili che incrementano, en-tro un contesto internazio-nale, la capacità competitivadelle imprese colocalizzate;c) il concetto di creazione fariferimento all’aspetto dina-mico del successo industria-le ed economico, considera-to in tutti i suoi aspetti (in-novazione, creazione diposti di lavoro, esportazioni,ecc.). Sotto questa luce, lacompetitività viene proget-tata, costruita e acquisita neltempo, in un processo di in-cremento e adattamentodelle conoscenze necessarieper competere sui mercatiinternazionali; d) l’esplicitoriferimento al valore, infine,insiste sul fatto che il valoreaggiunto deve essere forma-to e mantenuto all’internodel sistema locale. Infattiuno dei limiti principalidelle politiche volte ad at-trarre investimenti consistenel fatto che le attività a ele-vato valore aggiunto dellacatena produttiva restanospesso localizzate al di fuoridella regione. In questo con-testo, in particolare, il con-cetto di valore dev’essere in-terpretato nell’accezione piùampia possibile, facendo ri-ferimento non solamente alconcetto di valore produtti-vo aggiunto e, quindi, diproduttività, ma anche al va-lore aggiunto “sociale”,esprimibile in termini di oc-cupazione, crescita locale,remunerazione del lavoro,ecc. (Conti, Giaccaria,2001).

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zione il cuore pulsante dell’organizzazionefordista dello spazio industriale, ma dive-nuti progressivamente un importante mo-tore dello sviluppo di una più vasta area.Ciò vale, sebbene in maniera diversa, pertutti e tre questi sistemi. La rete di primifornitori e di subfornitori Fiat si è estesa, apartire dagli anni cinquanta e sessanta, sututto il territorio provinciale. D’altra parte,venuta significativamente meno la produ-zione torinese di autoveicoli, la localizza-zione dei designer e della maggior parte deiprogettisti può essere considerata un’im-portante forza centripeta (assieme alla pre-senza dei centri direzionali Fiat) che garan-tisce la coesione della veicolistica torinese.Analogamente, la produzione di macchineutensili si estende ormai su buona parte delterritorio metropolitano, sia per la presen-za di alcuni produttori specializzati, sia perla rete dei rapporti di fornitura fra le impre-se. Inoltre, soprattutto dopo l’introduzionedi raffinati sistemi di misurazione e auto-mazione, la presenza di imprese leader pro-prio in queste specializzazioni rappresenta,almeno potenzialmente, un importante vei-colo per la diffusione dell’innovazione.

2) Oltre ai tre sistemi strategici, sono stati iden-tificati cinque altri sistemi: l’aerospazio, so-prattutto per quanto riguarda la componen-te spaziale; il sistema delle telecomunicazioni,il quale, sebbene caratterizzato da momentidi alterna fortuna, costituisce una delle atti-vità maggiormente innovative nella manifat-tura torinese; il sistema della stampa e artigrafiche, che comprende alcune delle atti-vità di più antico radicamento nel territoriometropolitano. I rimanenti due sistemi co-stituiscono nicchie di rilevanza internazio-nale: il primo è il sistema dell’anti-intrusionee antifurto, con la presenza di alcune im-prese che occupano posizioni di leadereuropeo; il secondo è il sistema delle pen-ne a sfera, il quale si è radicato attraversouna fitta rete di relazioni tanto di produ-zione che di fornitura, ed è caratterizzatodalla presenza della piccola e media im-presa (sebbene, si noti, le imprese leadersi sono specializzate in maniera tale daevitare sia la competizione che i rapporticollaborativi).

3) A questi devono aggiungersi due sistemi disupporto: il primo, “avanzato”, fa riferi-mento all’elettronica e ai servizi specializza-ti; il secondo, più tradizionale, comprendela meccanica e la lavorazione di gomma eplastica. Questi due sistemi sono presentiin misura più o meno indifferenziata nel-l’intera regione torinese.

Competitività, tradizione meccanica ecreazione del valore

Su questo spaccato generale, considerazionimaggiormente problematiche si evincono tut-tavia osservando da vicino le trasformazionidella meccanica torinese, le quali, in larga mi-sura, non sono riconducibili direttamente allascala locale, ma dipendono dalle caratteristi-che del settore e dalle strategie dell’impresadominante nel Torinese.

Nel caso torinese esiste un’immagine con-solidata legata alla secolare presenza dell’in-dustria automobilistica. Nondimeno, questatradizione non può essere accettata acritica-mente, ma dev’essere interpretata e giustifica-ta alla luce dell’intreccio delle relazioni che siconsumano fra gli attori localizzati. In altri ter-mini, perché l’immagine di un luogo sia accet-tata non è sufficiente che essa corrisponda al-l’archetipo del settore predominante in termi-ni di occupazione e valore aggiunto. In tal ca-so, l’identificazione tra la regione torinese e lasua impresa maggiore non potrebbe nemme-no essere messa in discussione e ogni nuovaanalisi apparirebbe a priori priva di senso.

Al contrario, l’immagine di un luogo dev’es-sere confermata dalle relazioni locali, indu-striali, sociali e culturali, che radicano il setto-re nel territorio e gli conferiscono un vantag-gio competitivo. Ciò che deve essere portatoalla luce, in altri termini, sono le relazioni vir-tuose tra specializzazione manifatturiera, rela-zioni locali e competitività.

In realtà, la tradizione meccanica e i settoriad essa collegati costituiscono tuttora la spe-cializzazione manifatturiera in cui le relazionilocali proprie del Torinese possono conferirealla struttura manifatturiera un vantaggiocompetitivo rispetto ad altri luoghi. Inoltre siintende dimostrare come la meccanica torine-

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se non si identifichi tout court con la produ-zione veicolistica e con la presenza di Fiat edella relativa fornitura, ma comprenda altrespecializzazioni, oltre ad una profonda diffe-renziazione in segmenti diversi della compo-nentistica veicolistica. Nondimeno, la tradi-zione meccanica dev’essere in primo luogoconfrontata con altre specializzazioni produt-tive, che corrispondono ovviamente ad altreimmagini e interpretazioni del sistema mani-fatturiero torinese.

Sotto questa luce, il vasto insieme delle atti-vità meccaniche può essere ripartito in tre di-stinti sistemi manifatturieri (mesosistemaFiat, beni strumentali, veicolistica non Fiat)che, sebbene condividano la medesima tradi-zione, differiscono profondamente in terminidi radicamento, autonomia e relazioni con ilterritorio.

Il sistema Fiat, anzitutto, appare tuttoracomposto dalla triade Fiat-primi fornitori-subfornitori ed è caratterizzabile come segue:• La sua competitività è fortemente dipen-

dente dalla competitività della Fiat: l’exportnon sembra infatti costituire una valida al-ternativa al mercato locale.

• Sebbene i fornitori di componenti legati aFiat mantengano evidenti legami di cono-scenza personale e fiducia con l’impresamaggiore, nondimeno il loro radicamentonella realtà torinese appare allentato da al-meno tre fattori: la presenza di gruppi stra-nieri che hanno acquisito imprese locali peraccedere al cliente finale; la dipendenza dal-le strategie localizzative globali della Fiatstessa; il cambio generazionale alla guidadelle imprese, con l’introduzione di metodidi gestione maggiormente codificati.

• Le imprese fornitrici di componenti perce-piscono tanto la propria dipendenza dalcliente principale (per l’accesso al mercatoe le attività di design e progettazione) quan-to il proprio potere nei confronti dei subfor-nitori: si tratta chiaramente di una compo-nente di continuità con l’organizzazione ge-rarchica delle relazioni tra imprese che ca-ratterizza l’organizzazione industriale di ti-po fordista.

Per quanto riguarda invece i produttori dibeni strumentali, il sistema produttivo si orga-

nizza in maniera radicalmente differente ri-spetto al precedente.• La competitività del sistema discende dal-

l’elevata propensione alle esportazioni e dal-la percezione che gli attori hanno di un in-cremento della loro capacità concorrenzia-le. Quest’ultima si esprime principalmentesul mercato finale, piuttosto che nel rappor-to con uno o pochi clienti principali. In al-tre parole, i produttori torinesi di beni stru-mentali interpretano il problema del vantag-gio competitivo in termini di capacità dicompetere sui mercati finali, per lo piùestremamente specializzati. D’altra parte, ilradicamento della competitività è testimo-niato dal fatto che i produttori con più altapropensione alle esportazioni giudicano po-sitivamente il ruolo dell’ambiente locale, in-teso come atmosfera industriale, tradizionemanifatturiera, ecc.

• A loro volta, le relazioni informali con iclienti sono positivamente correlate con l’in-cremento della capacità competitiva. In al-tri termini, i produttori di beni strumentalisono soprattutto orientati verso il cliente,piuttosto che verso il fornitore (si tratta in-fatti di prodotti “su misura” per mercati di-versi). Per quanto concerne i rapporti di for-nitura, si distinguono quelli con i consulentiinformatici, essendo il software diventatouna componente integrante nella maggiorparte dei beni strumentali e nella meccanicadi precisione in particolare. Le esigenzequalitative di questo sistema sono in realtàgeneralmente superiori rispetto a quelleespresse dalla veicolistica, tanto che alcuniproduttori di beni strumentali fanno ricor-so alla fornitura di imprese meccaniche delsettore aeronautico, note per la qualità e il“rigore” delle proprie lavorazioni.

• Per quanto concerne le funzioni di designe della progettazione, la competitività èstrettamente legata alla capacità di gestireautonomamente la progettazione e di pro-durre continue innovazioni di prodotto edi processo.

• Relativamente al processo di apprendimen-to, anche in questo caso la controparte fon-damentale è il cliente, con il quale le impre-se produttrici di beni strumentali intratten-gono rapporti di “codesign” e “coprogetta-

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zione”. Sebbene la maggior parte dei clientisi trovi all’estero, l’ostacolo dettato dalla di-stanza geografica viene superato affidando-si alle competenze locali nei processi di desi-gn e progettazione: ciò riconsegna, sia purin modo diverso rispetto ad altri compartioperanti nel Torinese, una centralità strate-gica al territorio metropolitano.

La terza componente della meccanica tori-nese, infine, è rappresentata da imprese impe-gnate spesso in lavorazioni meccaniche non diprecisione (come lo stampaggio a caldo deimetalli), localizzate soprattutto nella sezionesettentrionale dell’area metropolitana, oltreche nel Canavese occidentale. Queste impresehanno visto progressivamente ridursi il pro-prio coinvolgimento nel sistema Fiat, con laconseguenza di reperire nuove applicazioni emercati. A differenza di altre componenti delsistema, questo segmento produttivo è rima-sto radicato nel settore della veicolistica, tal-volta orientandosi verso la componentisticaper motocicli e veicoli agricoli, in altri casi ver-so l’after market. Dal punto di vista dei com-portamenti organizzativi, questo sistema pre-senta caratteristiche intermedie tra la veicoli-stica Fiat e la produzione di beni strumentali:• I rapporti tra le imprese sono tuttora di tipo

gerarchico, con scarsa diffusione presso leimprese subfornitrici di attività di design eprogettazione.

• D’altra parte, questo tipo di imprese si dif-ferenzia dal mesosistema Fiat sotto nume-rosi punti di vista: un più intenso uso diinformazioni esterne al sistema locale; unaminor dipendenza dal cliente principale eun maggiore orientamento verso il mercato;superiore propensione all’export; maggioresensibilità rispetto alle condizioni logistichedel territorio provinciale.

Questi caratteri fanno della veicolistica nonlegata a Fiat un nodo strategico di sviluppo delsistema locale. Beni strumentali e mesosiste-ma Fiat paiono seguire una propria chiaratraiettoria evolutiva: i primi sono orientati alradicamento, il secondo alla globalizzazione.Per la veicolistica non Fiat la situazione è mag-giormente critica: essa appare in una fase deli-cata di transizione, in cui la rete di relazioni

personali e imprenditoriali (la quale, come si èvisto, sostiene i produttori di beni strumenta-li) non si è ancora formata. D’altra parte, il suoradicamento nel mesosistema Fiat appare pro-blematico, tanto per le trasformazioni sovralo-cali del settore autoveicolistico (globalizzazio-ne), quanto per la volontà degli imprenditorilocali di non rientrare nel mesosistema Fiat.

Immagini e rappresentazioni

Si apre, in conclusione, l’esigenza di ripen-sare il territorio negli anni della transizionepostfordista, la quale si afferma man mano chesi definisce una diversa articolazione dellospazio economico. In realtà, i processi coin-volgenti l’universo delle imprese hanno im-presso dei segni piuttosto limpidi al sistematorinese nella sua transizione verso il nuovomillennio.• Il primo è la tendenziale selettività dei con-

tenitori manifatturieri. Sia pure ad un eleva-to livello di generalizzazione, si prefigura latendenziale concentrazione delle struttureproduttive in aree circoscritte, espressionedi comportamenti volti a trarre il maggiorvantaggio possibile dalle esternalità funzio-nali (infrastrutturali in primo luogo).

• In stretta connessione con la tendenza pre-cedente, si evidenzia una sorta di morfoge-nesi nel disegno insediativo, segnato dal-l’interruzione di taluni processi storici di allineamento, che nei decenni precedentiparevano suggerire l’ipotesi di un ulterioreampliamento del ventaglio delle direttrici inuscita dal capoluogo. Se la distribuzione as-siale dei sistemi manifatturieri rappresentatuttora una tendenza marcata, essa non ap-pare più, tuttavia, un processo immutabilenel tempo e nello spazio. Nuovi processi diallineamento, alcuni parzialmente originalirispetto al passato, altri di sostenuto raffor-zamento di tendenze già precedentemente innuce, offrono una configurazione geograficadella rete di supporto che prefigura segni di-versi e nuove ipotesi di interconnessione, par-zialmente alternative rispetto al modello ge-rarchizzato formatosi nei decenni della spin-ta polarizzazione funzionale e spaziale incorrispondenza del capoluogo.

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• Si evidenzia, infine, la tendenziale scompo-sizione del sistema manifatturiero. Quest’ul-timo appare il fenomeno maggiormente ri-levante dal punto di vista problematico, nonscindibile dalla riqualificazione di settori eporzioni di territorio che trovano nella for-mazione di nuovi assi di sviluppo e di nuovecentralità i fondamenti della loro ricompo-sizione funzionale e spaziale.

Si tratta di processi tangibilissimi se soffer-miamo l’osservazione sui comportamenti deisingoli comparti della manifattura (fig. 1). Intermini sintetici, e relativamente ai compartistrategici dell’economia torinese, la dinamicadel sistema di produzione veicolistico denun-cia evidenti tendenze al radicamento nella fa-scia immediatamente a sud del capoluogo,consolidando le proprie relazioni storiche conla sezione meridionale della città, coinvoltaanch’essa in processi di riaggiustamento. Anord del capoluogo, l’espansione appare inve-ce fortemente selettiva, coinvolgendo specifi-ci poli e assi di sviluppo.

Nel contempo, la porzione occidentale delsistema è segnata dalla riduzione relativa delnumero dei produttori e dal conseguente “sci-volamento” delle strutture d’impresa verso learee più meridionali.

Dal suo canto, il sistema dell’automazioneindustriale e della produzione di macchineutensili esprime una dinamica parzialmenteantinomica rispetto alla precedente: se, in par-te, i comportamenti localizzativi dei produt-tori si sovrappongono inevitabilmente a quellidel settore della veicolistica (conferendo a spe-cifici ambiti del sistema un carattere di com-plessità e di innovatività), il fenomeno mag-giormente vistoso è dato dalla loro relativa dif-fusione (oltre che dal consolidamento) nei va-sti ambiti posti a settentrione e a occidente delcapoluogo, ponendosi peraltro quali poten-ziali elementi di riqualificazione funzionaledel sistema manifatturiero dello stesso capo-luogo.

Assumendo infine la dinamica più recentedella meccanica torinese (un comparto varie-gato, ma in alcune sue importanti parti in ri-qualificazione tecnologica e funzionale) l’im-magine di tendenziale scomposizione spazialedel sistema acquista superiore intelligibilità:

da un lato, il suo sviluppo si sovrappone aquello dell’automazione industriale e dei benistrumentali; dall’altro lato, si registrano nuoviprocessi di diffusione e nuovi marcati allinea-menti. In vaste sezioni della regione torinese,infine, la diffusione della meccanica (oltre chedell’automazione industriale e delle macchineutensili) realizza fenomeni di “sostituzione”delle produzioni autoveicolistiche.

Sintetizzando al massimo, queste tre diversema intimamente connesse fenomenologie in-terpretano sul piano fattuale principi e logi-che che l’analisi territoriale ha da anni postoal centro del proprio universo di senso: l’af-fermazione di principi a rete di organizzazio-ne dello spazio produttivo modificano vecchieconfigurazioni e valorizzano, per contro, ilruolo degli ambiti locali (subregionali), conte-stualizzando l’azione degli attori e differen-ziando di conseguenza organizzazioni e iden-tità impresse sul territorio.

Se riferito al sistema torinese, ciò prefiguraun’immagine più complessa, ma nel contem-po ricca di implicazioni problematiche e stra-tegiche, inaugurando un modo diverso di con-cepire l’assetto produttivo del sistema. Neconsegue che reti di sistema (sovralocali) e retilocali (contestualizzate, fortemente legate allaprossimità geografica e alla connessione fra gliattori) sono parte di un unico disegno com-plesso che si autoalimenta. Il miglioramentodella performance del sistema esprime ad untempo il miglioramento della funzionalità del-la rete nel suo insieme e quello dei suoi nodi(o reti locali), i quali diventano così sinergicialla tenuta e al rafforzamento della prima. Inquesto senso, un ruolo essenziale viene eserci-tato dai nodi di interconnessione, capaci di of-frire esternalità dinamiche tanto alle reti di si-stema che alle reti locali, assumendo per que-sto la funzione di sostenere il vantaggio com-petitivo sia dei sistemi territoriali che degli at-tori in essi contenuti (Dematteis, 1996).

Pur tenendo conto delle sue innumerevolivarianti, il “vecchio” modello polarizzato di or-ganizzazione dello spazio economico non era,in realtà, di difficile rappresentazione. Lascansione fra centri direzionali e periferie diesecuzione esprimeva una rigida divisione dellavoro e un alto grado di corrispondenza fraquesti elementi separati. Com’è noto, l’espan-

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sione del sistema era leggibile sullo spazio me-tropolitano tramite la formazione di direttricidi espansione submetropolitana e la conse-guente penetrazione dei territori ad essa ester-ni. Un sistema radiale di connessioni tecnichee funzionali metteva dunque in scena una mo-dalità di organizzazione della manifattura edella società la cui conseguenza prima, nel me-dio e nel lungo termine, era il sovraccarico lo-gistico e funzionale dell’area centrale, il qualesi esprimeva in diseconomie e disutilità nellagestione stessa della produzione. La specifi-cità torinese era da assumersi in termini so-prattutto sociali (di cui non è questa la sedeper andarne alla radice) e organizzativo-fun-zionali, riconducibili alle modalità in cui l’im-presa dominante ha intessuto nell’area funzio-ni e ruoli.

Nel “nuovo” modello di organizzazione del-la produzione, il centro può ignorare le peri-ferie e, viceversa, le periferie possono ignora-re il centro. Si creano, al contrario, focolai au-tonomi di sviluppo in larga misura autonomi,alimentati sia dalle relazioni orizzontali di rete(con altri poli), sia dalle relazioni verticali tra-dizionali con il retroterra locale.

Il sistema torinese non sfugge a questa logi-ca generale. I comportamenti d’impresa rile-vati indicano senza mediazioni la tendenzialescomposizione del sistema produttivo del nu-cleo originario: la formazione di sottosistemirelativamente coerenti al loro interno prefigu-rano, in sostanza, la formazione di una plura-lità di relazioni che contestualizzano la giu-stapposizione di sistemi diversi, le cui coeren-ze sfuggono in larga misura alla logica dellapolarizzazione urbana e metropolitana.

Selettività spaziale dei processi di valorizza-zione produttiva, affermazione di “nuove”forme di allineamento e concentrazione,scomposizone tendenziale del sistema territo-riale, sono dunque fenomeni che si compene-trano a vicenda in un unico grande disegno lo-gico. Essi riaffermano, nel contempo, condi-zioni storicamente prodottesi, ma che pareva-no eclissate dalla logica violenta della polariz-zazione fordista.

L’emergente geografia torinese coglie in so-stanza i tratti della “nuova” articolazione del-lo spazio produttivo così come questa si affer-ma dall’azione conscia e inconscia degli attori

della produzione. Se trasferita sul piano del-l’azione politica, essa non prefigura ipotesi diintervento radicali “dall’alto”, né la riproposi-zione di immagini più o meno “nostalgiche”di vecchie logiche e organizzazioni, ma richie-de azioni e interventi là dove si evincono le po-tenzialità per consolidare relazioni virtuose egenerare per questo forme di valorizzazioneterritoriale.

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Il ya a du monde ici

Jacques Levy

L’emergere di uno spazio di scala mondiale, di pieno esercizio – in altre parole la mondializza-zione – modifica profondamente il concetto di luogo, apparentemente semplice.

La reinvezione dei luoghi

In un contesto in cui domina l’interclusione, le posizioni relative degli oggetti si riducono aduna proiezione di coordinate su una distesa – riferimento – astratta (longitudine e latitudine)oppure esterna (gli spazi naturali). Si potrebbe allora parlare di semplici “località” di questi og-getti la cui componente descrittiva (dove si coltiva il grano? dove si fabbrica l’acciaio?) ha fattola bella stagione della “geografia generale”, quando quest’ultima studiava le proiezioni degli og-getti, separati gli uni dagli altri, e di uno dei loro attributi (la loro “localizzazione”) su un plani-sfero. A partire dal momento in cui si entra in un universo “leibiniziano” nel quale sono le posi-zioni relative degli oggetti a definire le caratteristiche dello spazio si può veramente iniziare aparlare di luoghi. La presenza simultanea e durevole, in uno stesso punto, di almeno due feno-meni, può allora essere considerata come un’opzione particolare (la copresenza) la cui alternati-va sarebbe una separazione, uno scarto tra questi fenomeni. La famiglia, il villaggio e sicura-mente la città, costituiscono esempi ben stabiliti del processo che implica una distanza zero tradiverse realtà.

Fare un luogo non è dunque un’invenzione recente. Ciò che cambia è l’effetto paradossaledella crescita e della generalizzazione delle mobilità. Maggiore è il numero di realtà che possonomuoversi (uomini, merci, capitali, idee, ecc.) e si muovono con efficacia, più il contrasto sirafforza con le realtà che sono invece “inchiodate al suolo” (espressione di Ratzel a propositodegli stati). Questi oggetti ancorati sono in essenza quelli che possiedono una forte complessità,grossomodo: le società, di ogni dimensione. Si può parlare per loro di beni situati, nella misurain cui il loro valore (a prescindere dal modo di misurare) sarebbe notevolmente indebolito se sispostassero.

In questo modo, in effetti si romperebbe la concatenazione delle varie dimensioni costitutivedi questi oggetti e si renderebbe improbabile la loro ricostruzione in un altro luogo, la fabbrica-zione di un altro luogo simile. La mobilità del mondo di oggi, dunque, deve essere vista non co-me l’antitesi dell’esistenza dei luoghi, ma al contrario come una forza determinante della topo-genesi. Lo spazio mondiale di oggi, nel suo insieme assume l’aspetto di una rete, i cui apici sonocostituiti da luoghi forti – le città e le altre situazioni spaziali (o geotipi) che coinvolgono le so-cietà. Se, su scala molto ridotta, li consideriamo come zone (cioè insiemi di luoghi), questi spazi

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offrono un folto incrocio di territori e di retiche costituisce il contributo geografico alla lo-ro complessità globale.

Per i massimi “operatori” del sistema mon-diale (imprenditori, responsabili strategici,politici, esponenti della cultura) esiste la pos-sibilità di scegliere i siti della loro azione, infunzione della valutazione che ne fanno, tenu-to conto dei loro obiettivi. Si deve aggiungereche la correlazione generale che caratterizza ilprocesso di mondializzazione oggi permette,quando è possibile, di moltiplicare i rapportitra luoghi in modo spesso indipendente dalladistanza euclidea. Il “nomadismo” dei capita-li, la mobilità minima degli uomini si verifica-no tra luoghi fissi. Non vi è alcuna contraddi-zione tra i movimenti, di qualsiasi natura, chesegnano la mondializzazione e il ruolo che gio-ca il fatto che i luoghi siano ancorati: infatti, ènecessario che le reti siano assicurate da testee che i flussi che circolano sugli archi vadanoda un nodo all’altro, da un luogo all’altro. Lamondializzazione, non cancella il ruolo decisi-vo delle localizzazioni, valorizzando anticheposizioni e favorendo l’emergere di nuove. Alcontrario, contribuisce a valorizzare certi luo-ghi ciò che al contrario può provocare la “de-valorizzazione” di altri. Nuove individualitàemergono, risultato di riletture multiple, di pa-trimoni accumulati e influenze esterne, legatealla posizione relativa del luogo, su scala di-versa. Gli “strumenti” di queste riletture nonsono neppure essi ripartiti in modo uniformesulla superficie della terra. Questi due aspetti(contenuto delle realtà quiescenti e filtrazioneattiva) convalidano la dimensione antropolo-gica dei luoghi, ma riposizionandola in uncontesto aperto e dinamico, in un divenire inmovimento.

Le dimensioni economiche di questo pro-cesso si aprono alla rivalorizzazione dell’ipo-tesi marshalliana. Quando all’inizio del seco-lo, Alfred Marshall avanza l’ipotesi che la red-ditività di un’azienda si debba misurare an-che con il suo inserimento in un distretto in-dustriale (quartier d’entreprises) lancia uncantiere che rimarrà per lungo tempo abban-donato dalle correnti dominanti della scienzaeconomica e che viene ripreso oggi da ricer-catori come Paul Krugman. Il concetto di di-stretto industriale può funzionare a scatti di-

versi: prossimità di fabbriche della stessa fi-liera, prossimità delle filiere dello stesso ra-mo, ma anche ambienti economici ed extra-economici favorevoli. Questa contestualizza-zione dell’attività economica sbocca su unconcetto oggi ampiamente accettato, quellodel milieu innovateur (ambiente innovatore).A poco a poco si scopre che è il luogo, in tut-te le sue dimensioni materiali e ideali, eredi-tate e innovative, che crea la specificità di unbene situato e definisce gli eventuali vantaggicomparativi. La cultura urbana, come insie-me di dispositivi favorevoli ad attività produt-tive, si rivela così come un elemento decisivonell’inserimento di una metropoli in seno al-l’Arcipelago Megalopolitano Mondiale(AMM) come è stato messo in luce da OlivierDollfus (1997).

La distinzione tra zone e luoghi, tra benimobili e beni situati, diventa un compito fon-damentale nell’analisi spaziale della mondia-lizzazione. È in ugual misura importante chele città, diventate la normalità delle società lo-cali, si trovino sempre più al centro del pro-cesso di innovazione, poiché offrono l’am-biente virtuale per incontri e interazioni,estremamente favorevole alle più disparate at-tività creative. Queste capacità risiedono infondo nel principio stesso di urbanità, graziealla presenza nella stessa società di densità ediversità. I livelli di urbanità delle città, chenon dipendono soltanto dalla loro dimensio-ne, costituiscono quindi indicatori centralidel loro rango, effettivo o possibile, in seno aspazi di scala mondiale. Le città, che erano,secondo il loro stesso principio, anche mondiche concentravano su una superficie ristrettauna parte delle ricchezze monetarie e cultu-rali del pianeta, si trovano ormai nel mondo,con partner, talvolta concorrenti, formati daaltre città paragobili e spesso più vicine le unealle altre che non rispetto allo spazio circo-stante. Questo insieme di città collegate traloro costituisce una trama di base dello spa-zio mondiale.

La mondializzazione, quindi, non deve es-sere vista come una distruzione dei luoghi, macome una topogenesi, una fabbrica dei luo-ghi. È pur vero che certi sistemi di luoghi so-no minacciati dal cambiamento di scala. Spa-zi nazionali vicini, che una volta erano con-

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trapposti, vedono svanire le loro differenze,ma nel tempo, nuovi dispositivi di differen-ziazione in seno ad uno spazio comune emer-gono proprio dove l’assenza di contatto crea-va mondi incommensurabili. Si può così con-testare che la mondializzazione abbia comeeffetto la banalizzazione dei luoghi. È vero,esistono luoghi generici, vale a dire oggettigeografici che si allontanano poco da un mo-dello comune. Spesso si citano gli aereoporti,la stazioni di servizio delle autostrade, oppu-re le zone pedonali, e Marc Augé è andato ol-tre, parlando di questi, come di “non luoghi”(Augé, 1992). Questi luoghi a bassa indivi-dualità e fortemente ripetitivi, che sembrapossano anche fare a meno dei nomi propri(e sfuggire quindi alla nozione di geon) nonsono una nuova realtà. Lo spazio messicanocolpisce il viaggiatore con la riproduzione, inqualunque città, grande o piccola, della stes-sa piazza centrale, il Zocalo, con i suoi edificiamministrativi e il suo chiosco per la bandamusicale. È in questo caso semplicementel’applicazione del modello “repubblicano”francese di copertura volontarista e uniformedel territorio da parte di un certo numero disegni spaziali fortemente simbolici come imunicipi. E procedendo con l’analisi retro-spettiva si incontra la piazza della chiesa, luo-go generico per eccellenza, moltiplicato dacentinaia di migliaia di esemplari nell’Europadelle parrocchie. Ciò che dà la specificità alluogo generico di oggi è la mobilità. Quelloche gli uomini inchiodati al suolo non pote-vano vedere, l’esistenza a poca distanza dalloro “paese” di un paesaggio simile a quelloin cui vivevano oggi buca ormai gli occhi diqualsiasi turista. E questo turista percepiscemeglio anche le piccole e grandi differenzeche caratterizzano i luoghi del mondo. Abbia-mo vissuto in un mondo dove la rottura tra leidentità e l’incommensurabile era brutale.Abbiamo ormai sotto gli occhi tutti gli statiintermedi tra somiglianza quasi totale (ma èmai assoluta?) e la più marcata eterogeneitàche ci stupisce ma non ci folgora più.

Il discorso della resistenza alla mondializza-zione può persino servire come risorsa allamobilitazione di una società locale o regiona-le, per rendere il suo territorio più competiti-vo (attraente o produttivo) e inserirlo così nel-

la mondializzazione. È il caso dello spazio aest delle Alpi (Svizzera tedesca, Baviera, Au-stria) che non è affatto in ritardo nella sua con-nessione alle reti mondiali grazie ad una coe-sione sociale ottenuta con un’identificazionespaziale molto conservatrice. Allo stesso mo-do, il vandeano d’adozione Philippe de Villiers crea a Puy-du-Fou un “parco temati-co” sempre più sofisticato, sugli standard or-mai globalizzati del genere, giocando sulla glo-rificazione dell’eterna ruralità della “razza del-la Vandea”. Questo ha come effetto, un di-spiegamento di energie inattese, in una zonaall’inizio poco attiva, per dare al luogo “Van-dea” una nuova possibilità tra i luoghi delmondo (Benko, Liptiez, 1992; Veltz, 1996;Pecqueur, 1996; Governa, 1997)1.

Più la mondializzazione si diffonde su tuttoil pianeta, più troviamo allo stesso tempo esempre più il mondo qui.

Quale competitività per i luoghi?

La mondializzazione sembra porre in ter-mini nuovi la relazione tra l’efficacia delle im-prese e quella delle società. Innanzi tutto os-serviamo, seguendo Paul Krugman (1992),che non si tratta della stessa cosa. Le espres-sioni mercantiliste come “impresa Francia”vorrebbero far pensare che la salute econo-mica di un territorio non è che la somma del-lo stato di salute delle imprese che hanno lasua “nazionalità”. Questo vuol dire dimenti-care che il concetto ha perso nel tempo il suosignificato per ragioni di scala: con i loro ca-pitali, la loro produzione, il loro mercato, leimprese multinazionali si diffondono spessosu spazi mondiali. Ma forse soprattutto perragioni di metrica: un’impresa può con il con-catenamento alla sua rete sposare un territo-rio... o cambiarlo, mentre le società, a pre-scindere dalla loro natura di stato geopoliti-co, sono inchiodate al suolo.

Lo spazio economico di un qualsiasi luogo,città, regione, nazione, continente, si com-prende in quanto configurazione produttivadi mercato istantanea (attraverso il PIL) e allostesso modo come potenziale (investimenti,ricerca, ma anche formazione, cultura, stili divita). Una valutazione di questo tipo è simile

IL YA A DU MONDE ICI

1 Grazie a Françoise Le-grand per le sue indicazionisu questo tema.

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per una certa parte a quella che le impresefanno per i loro diversi insediamenti sui siti.Ma solo per una parte, in quanto queste pos-sono andarsene, riorganizzarsi, concedendopiù o meno, eventualmente nulla, in terminidi spazio, a questo luogo all’interno della lo-ro struttura.

Che cosa accade quando un’azienda cam-bia la sua dimensione e, ad esempio, valica at-traverso la sua base le frontiere di uno statoda cui si sentiva fino a quel momento confi-nata? Entra a far parte di un processo di dif-fusione che diminuisce la parte relativa dellasua presenza nel suo sito d’origine. Se questadiffusione trae un maggior profitto dai van-taggi comparativi di una manodopera a bassocosto altrove nel mondo lascerà intatti, in unprimo momento, i posti di lavoro più qualifi-cati o rafforzerà persino le attività di design edi marketing nel luogo d’origine. Ma se,com’è il caso del 90% degli investimenti este-ri diretti (IDE) di questi ultimi decenni, l’e-spansione si verifica in paesi a livelli di vitacomparabili, che innanzi tutto sono dei mer-cati, inevitabilmente questa diffusione si tra-durrà in una perdita relativa dei posti di lavo-ro più qualificati nel paese di partenza, e an-che spesso in una perdita assoluta, in quantooccorre mobilitare le risorse accumulate perarrivare alla soglia critica che permette di en-trare in un nuovo mercato già ben presidiatoda altri. Il caso dell’automobile dimostra chequesta soglia si quantifica in decine di miliar-di di euro. Un certo numero aziende di origi-ne europea si sono rotte le ossa cercando dimettere piede in America del Nord. Diversa-mente, si tratta del fenomeno contrario perdefinizione, che si verifica quando un’azien-da esterna si insedia in un luogo. Molto spes-so sembra un buon affare, non solo per il po-sto di lavoro immediato, ma anche per lastruttura delle qualifiche professionali. Conqualche precauzione da prendere rispetto al-le condizioni di accoglienza del nuovo venu-to, questi posti di lavoro non sono obbligato-riamente più fragili rispetto a quelli delle im-prese autoctone.

Si può logicamente misurare in due modiben distinti la competitività di un luogo, ossiagli effetti positivi del suo ingresso in un mer-cato di scala superiore. Si può prendere in

considerazione la sua capacità di diffondersiall’esterno grazie alle competenze capitalizza-te nel know-how dell’impresa autoctona. Op-pure si può considerare la capacità di attra-zione, di polarizzazione, di installazioni di ori-gine esterna. Come hanno dimostrato moltiautori (Chaponnier, 1997; Delapierre, 1998),questi due criteri permettono di evidenziarequattro tipologie di situazioni: si può essereforti in un ambito debole e deboli in un altro,oppure allo stesso tempo si può essere forti edeboli. Una forte attrattività e un investimen-to debole all’esterno dimostrano una diffi-coltà degli attori economici locali di sfruttarele risorse della società in cui si sviluppano,mentre una buona espansione all’estero, as-sociata ad una debole accoglienza di capitali,corrisponde ad una canalizzazione esclusivadelle competenze locali a beneficio degli im-prenditori locali.

I concetti di “protezionismo” e “apertura”qui assumono significati più ampi rispetto al-le semplici politiche tariffarie o non tariffariedei poteri pubblici. Le cose succedono anchenella testa degli attori, soprattutto quando cisi trova in spazi, locali o regionali, che non di-spongono del livello di sovranità sufficienteper alzare barriere economiche regolamenta-ri. Le culture della “mondializzazione” diquesti attori si combinano con la macchinaproduttiva esistente, con i suoi punti forti edeboli, per creare situazioni geografiche mol-to variabili, dove può dominare la chiusuradifensiva (difendiamo le “nostre” imprese,impedendo agli altri di entrare), l’aperturarassegnata (di fronte al fallimento delle no-stre imprese, diamo loro qualche possibilitàcon gli stranieri), l’apertura dissimetrica (in-vestiamo all’estero proteggendo le nostre ba-si di partenza), l’apertura generalizzata(usciamo e lasciamo entrare). Questo generedi studio sistematico è ancora in massima par-te incompiuto: però contribuirebbe ad un’en-trata attraverso i luoghi nella geografia dellamondializzazione.

La legittimità di quest’approccio è confer-mata dalla chiamata ai luoghi delle attività piùglobalizzate. Così la gerarchia delle piazzeborsistiche continua ad affermarsi, con testedi rete (New York, Londra, Francoforte,Tokyo, ecc.) sempre più potentemente impe-

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gnate nella concorrenza tra loro e con altrepiazze alternative. Il fatto è che, malgrado lapossibilità di quotazioni istantenee e via In-ternet, l’ambiente economico, professionale,culturale e urbano gioca un ruolo decisivonell’insediamento dei servizi finanziari. Allostesso modo, nel settore dell’industria infor-matica e delle telecomunicazioni, apparente-mente le più immateriali e meglio connessealle reti informatiche, si osserva una tendenzacrescente alla localizzazione in alcuni quar-tieri delle grandi città. Dopo Silicon Valley (laperiferia sud di San Francisco), emerge una“Silicon Alley” intorno a Broad Street e a suddi Broadway, a Manhattan, mentre si inizia aparlare di un Silicon Sentier in un quartiereparigino, simile come localizzazione (vicinoalla Borsa e avvantaggiato da prezzi abborda-bili degli immobili). Gli inventori della tecni-ca della mobilità, dell’ubiquità e della volati-lità, sembra che ben difficilmente possano fa-re a meno degli scambi di informazioni e diservizi nel loro vicinato immediato, fatto diincontri fortuiti per la strada e di conversa-zioni al caffé.

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SESSIONE IIIRAPPRESENTARE E PROGETTARE IL TERRITORIO

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Per una critica ragionata e razionaledella rappresentazione dei territori

Roger Brunet

Vorrei innanzitutto situare la questione: situare e situarsi sono i minori dei riflessi per un geo-grafo. Suggerisco di considerare il momento attuale del quale parliamo come se fosse caratteriz-zato, dal punto di vista che oggi ci interessa, da cinque fenomeni più o meno collegati.

Il primo è quello che chiamiamo mondializzazione (in inglese globalization “globalizzazio-ne”). Esso ha due aspetti: un aspetto tecnico, geografico ed ecologico, che in generale dipendedalla riduzione delle distanze e dalla percezione di tale riduzione; e un aspetto strettamente eco-nomico, più originale e più temibile.1) Con il termine “globalizzazione” in realtà si nasconde oggi semplicemente una nuova strate-

gia delle grandi imprese che si attribuiscono il mondo intero come terreno di gioco, massi-mizzando i mercati e minimizzando le costrizioni, con l’obiettivo di sopprimere gli ostacoliche si frappongono (confini, nazioni e legislazioni locali). Tutto ciò ricorda l’epoca del lais-sez-faire, laissez-passer dei secoli XVIII e XIX. Credo sia utilissimo non confondere i dueaspetti e non credere che la globalizzazione sia un fenomeno nuovo e meramente tecnico chesi appresta ad annunciare la cosiddetta “morte della geografia”.

2) La globalizzazione crea reazioni molto forti contro l’idea dell’uniformazione del mondo e deldominio da parte della grandi aziende o di un paese imperialista, gli Stati Uniti. Queste rea-zioni si traducono in un’ascesa dei particolarismi locali, un rifiuto della solidarietà, uno svi-luppo delle ideologie della differenza e dell’identità, e la crescita di tutto ciò che si riferiscealle comunità; in breve e ivi compreso nelle nostre ricerche e nei nostri atteggiamenti di geo-grafi, si osserva un atteggiamento ontologico ossessivo.

3) Un terzo elemento della situazione è una sorta di creazione continua di differenze, su scalalocale e mondiale. Le aziende stesse ne hanno bisogno e ne traggono vantaggio. Questo feno-meno impedisce a qualsiasi geografo informato di parlare di “uniformazione del mondo”. Leaziende e gli alti strateghi creano incessantemente nuove differenze geografiche, a partire dadifferenze di tipo legale, fiscale, costo della manodopera, ecc., per ottenere rendite differen-ziate. Tutto questo si traduce in un fenomeno che a torto chiamiamo “delocalizzazione”, conla mobilità degli impianti, la rivalutazione e la rifabbricazione dei luoghi.

4) Collettività territoriali, regioni, province, città, ecc., prendono sempre più posto nella piani-ficazione urbana e nell’urbanistica, nella ricomposizione dei territori, e contribuiscono così adifferenziarli.

5) Nel momento in cui si stempera una parte delle differenze territoriali che avevamo l’abitudi-ne di giudicare fondamentali altre differenze si elidono. Da 25 anni crescono le differenze trale grandi parti del mondo. Il tempo in cui si pensava che si andava a “mettere al lavoro” ilTerzo Mondo, per potergli fornire i mezzi di sussistenza, è passato. È chiaro, che questa ten-

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denza neoliberista non facilita l’avvicina-mento. Soprattutto, le ineguaglianze au-mentano in generale tra gli individui all’in-terno di un territorio, soprattuto in terminidi reddito. Su scala europea le differenzesociali ormai sono più forti delle differenzetra i luoghi: l’Europa ha conosciuto il recu-pero regionale, un’aumento del livello di vi-ta delle sue zone meno sviluppate; per con-tro le differenze di reddito individuale au-mentano.

Si potrà concludere che il lavoro del geo-grafo è messo a repentaglio? In realtà questaevoluzione complica il nostro compito e ci ob-bliga a capire meglio le differenze di scala.Avevamo l’abitudine di lavorare su scala “me-so”; dobbiamo lavorare innanzi tutto su scala“macro”, quella del mondo intero, per megliocomprendere il mondo come sistema; e lavo-rare su scala “micro”, locale, in quanto le mag-giori differenze sociali si traducono in mag-giori differenze geografiche all’interno deiluoghi, soprattutto quei luoghi particolari chesono le città.

Abbiamo ritrovato tutte le parole chiave diquesta conferenza: mondo, luogo, identità, eovviamente cambiamento. A partire da que-ste, posso elaborare una serie di ipotesi, ovve-ro proposte, sulle quali vorrei articolare il miodiscorso.

Presentare e rappresentare il mondo

Prima proposta: noi geografi abbiamo il do-vere, la responsabilità di presentare il mondo,di rappresentare le sue configurazioni e le suedifferenze, capirlo e spiegarlo, cogliere le ten-denze e le sue trasformazioni. Come geografo,sono interessato di volta in volta alle differen-ze, alle organizzazioni spaziali e alle leggi.Dunque alle società degli uomini, ai loro com-portamenti nello spazio, al rapporto che han-no tra loro e che hanno con il loro territorio.E posso capirli solo se faccio riferimento allelogiche di produzione dello spazio. Ora, iocredo che anche quando il geografo si interes-sa essenzialmente a problemi umani e a que-stioni relative alla società, egli non abbia unavera competenza per trattare questi argomen-

ti se non parte dello studio del territorio – cioèda questo abbinamento/differenziazione deiluoghi, disposizione dei luoghi.

Sappiamo distinguere e definire i luoghi;che sono stati prodotti da attori, ovvero dallesocietà; sono luoghi situati nel tempo e tra tut-ti i patrimoni già evocati in questa sede, sonosituati gli uni in rapporto agli altri, hannoprossimità e sono situati lungo le traiettoriedel cambiamento. Sono legati tra loro, e for-mano territori e reti.

A monte si studiano i prodotti del passato,anche se di un passato molto recente: la formadei luoghi e la disposizione di questi ultimi ciinformano sul processo e sugli attori del pas-sato, sui fautori. Che si prendano queste trac-ce come un “testo” – come afferma Ola Sö-derström – oppure che si prendano sotto for-ma di immagini non importa: dobbiamo deci-frare queste tracce. A valle, queste stesse ope-re sono i luoghi dell’azione dell’uomo; limita-no e orientano questa azione. Queste “memo-rie” sono allo stesso tempo elementi dell’azio-ne di oggi e di domani.

Lo spazio geografico considerato come ecu-mene ci interessa in quanto prodotto-insiemedi memorie e in quanto ambiente dell’azione.Evidentemente ci troviamo nell’ambito stessodella “complessità”; ma evitiamo di prenderequesta parola a pretesto per non fare nulla efare di tutto; abbiamo i mezzi per studiare uncerto numero di fatti e di relazioni all’internodi questa complessità.

Le figure dello spazio

Seconda proposta: il lavoro delle società del-l’uomo, che produce spazio geografico, o ter-ritorio se preferite, crea figure significative.Ho bisogno in questo caso di una doppia ipo-tesi. Innanzitutto, la produzione di spazio conl’azione dell’uomo risponde a bisogni quoti-diani e a logiche sociali. Ogni gruppo umanoha bisogno di crearsi un riparo, nutrirsi, difen-dersi, scambiare, riprodursi, ecc. Con questotrae vantaggio dalle diverse risorse locali e, senecessario, crea nuove risorse. È sensibile alledistanze e alle rugosità che separano i luoghi:e la sua azione passa attraverso forme di ap-propriazione dei territori. In seguito, seconda

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ipotesi, questi risultati si traducono nello spa-zio attraverso configurazioni, campi, luoghi,reti più o meno complesse.

La loro complessità è un’ipotesi forte, risul-ta a mio avviso nella ricomposizione di figuregeneralmente semplici, che associano i luoghitra loro. Lo studio di queste figure è rivelato-re del modo in cui le società producono lospazio, e così di quello che esse rappresenta-no, il loro “essere” stesso. Queste figure la di-cono lunga sui processi in atto, sulle strategiedegli attori e persino sulle tendenze dell’evo-luzione: ciò che talvolta è stato definito lo“spazio firma”, nella misura in cui una firmapuò rivelare qualche cosa sulla personalità delsuo autore.

Ho parlato di figure, ma si potrebbe dire for-me, infatti, a mio avviso, i due termini sonoquasi sinonimi, con una differenza tuttavia:etimologicamente, la forma è uno stampo; ilsignificato primitivo è lo stesso della parolagreca morphé, un’apparenza esteriore, ciò chesi vede; come idea, la parola deriva da una ra-dice weid, che significa anche “ciò che si ve-de”; ecco perché spesso si fa il raffronto traforma e idea: si tratta sempre di apparenze. Lafigura ha un’etimologia diversa, è ciò che simodella, con le dita: fingere in latino, come ininglese finger, e alcuni etimologi pensano chequesta parola derivi da un’antica radica in-doeuropea, che evoca le cinque dita, pent. Per-sonalmente, preferisco uno spazio modellatodalle società, rispetto ad uno spazio che ci siaccontanta di vedere: figura è un termine chepreferisco rispetto a forma, e la parola è menooscura rispetto a secoli di ambiguità ovvero dimistica.

Disponiamo oggi di un inventario ragionatodelle figure, costruito in 20 o 30 anni di lavo-ro. Ben inteso ne avevamo viste apparire benprima, ma spesso mancava loro una prospetti-va teorica. Non posso presentarle qui in det-taglio, ma pensiamo a tutte le figure dell’ap-propriazione e delle maglie territoriali; a tuttociò che si riferisce alla gravitazione (il modellocentro-periferia, e numerose figure della dis-simetria); a ciò che si riferisce a camminamen-ti e reti; a tutte le forme di rottura e taglio; e aipassaggi in queste rotture, alle forme di con-quista e disimpegno; sappiamo riconoscere,definire, capire queste figure geografiche.

I privilegi della carta geografica

Terza proposta: la carta è una modalità dirappresentazione del mondo, originale e fe-conda. Tutte le figure di cui parlo possono de-scriversi con un testo, cioè con il discorso. Èanche la situazione dominante: ad eccezionedegli atlanti vi sono molte più pagine testualiche non immagini nelle nostre pubblicazioni.E ciò che io faccio in questo momento è un di-scorso, non una carta. Ma è necessario comun-que ammettere che rappresentare in modonon figurativo le figure è un po’ paradossale.Nella misura in cui il geografo pone l’accentosulle figure spaziali, la carta gli si impone co-me modalità di rappresentazione, privilegiatae originale. Non è il solo a realizzare le carte:ma è colui che le utilizza più intensamente, eprobabilmente con maggiore sapienza.

La carta possiede il grande vantaggio di es-sere sinottica, di mostrare non solo i luoghi maanche la loro disposizione. Qui non è possibi-le affrontare tutti gli aspetti della carta; ricor-deremo alcuni punti.1) Innanzi tutto occorre distinguere tra la car-

ta-fonte, tematica, e la carta per comunica-re. La carta tematica fornisce i dati e i risul-tati dell’elaborazione dei dati; ci è indispen-sabile. La carta per comunicare che utiliz-zano i giornali o i documenti di urbanisticanon è realizzata secondo le stesse regole; in-troduce le sue prospettive.

2) La carta tematica ha i suoi meriti. Ci indicache una certa cosa si trova lì e non altrove,ed è lì vicino a qualcos’altro, con altro. Os-servate le carte statistiche dell’Atlante delPiemonte; troviamo moltissime informa-zioni, situate nello spazio; nessun testo è ingrado di dire altrettanto; una tabella stati-stica che contenga le stesse informazioninon mostrerà mai le prossimità dei luoghi ela forma della distribuzione nello spazio.

3) La carta di per sé non è né più né meno fal-sa, né più né meno manipolabile di un te-sto o di una tavola statistica; in questo sen-so possiede lo stesso statuto: il lavoro di ba-se sarà stato serio, ragionato, attento, op-pure no. Con una piccola sfumatura: mipare più facile mostrare le incoerenze diuna carta rispetto a quelle di un testo o diuna tabella.

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4) La carta come rappresentazione del terri-torio è uno strumento di ricerca. Si scopro-no le differenze e i legami, è una miniera diproblemi e di ipotesi. Può esprimere l’invi-sibile, come noi sappiamo: la proprietà fon-diaria, i redditi, lo stato di salute, certi com-portamenti; numerosi elementi culturalinon si vedono nel paesaggio, ma si possonorappresentare sulle carte. Si possono rap-presentare anche le correlazioni, le regres-sioni, ecc., cioè espressioni più elaboratedelle differenze nell’organizzazione dellospazio.

5) L’interesse principale per un geografo, tut-tavia, risiede nell’analisi morfologica, nelriconoscimento e nell’interpretazione dellefigure geografiche che si rilevano. Vi si re-periscono forme attese o inattese. In que-sto senso si tratta di uno strumento prezio-so (ma solo uno strumento) che serve a pro-gredire nella conoscenza dei territori (strut-tura, dinamiche, sistemi) e delle società cheli hanno prodotti, che vi si riproducono, edi cui sono terreno d’azione. Per me, le car-te (di qualsiasi tipo) sono ottimi strumentidi scoperta e di descrizione delle figure del-l’organizzazione dello spazio: e dunque so-no utili per progredire nello studio dei rap-porti che esprimono queste forme, o che li-mitano, che esprimono in quanto fatti delpassato, o che limitano in quanto a com-portamenti futuri.

Senza temere il paradosso, direi che con lacarta non si tratta di “dare a vedere”, ma piut-tosto di “fare capire” e discutere, o più esatta-mente si tratta di “fare vedere per meglio di-scutere”. Ciò è vitale nelle nostre relazioni congli organismi di studio o di pianificazione ter-ritoriale, o di urbanistica.

La chiave è nelle figure

Questo concetto mi porta al punto centraledel mio discorso. Quarta proposta: la chiave dilettura delle carte si trova nelle figure e questoci permette di affrontare la doppia questionedell’identità e dei modelli. È fruttuoso in ge-nerale riconoscere queste forme del territorio,rappresentarle, decostruirle e ricostruirle, ve-

dere da dove provengono, quali sono gli ele-menti che le compongono. Un tale sforzo erastato fatto in parte nell’Atlante del Piemontedi Laura Socci qualche anno fa. Sarà necessa-rio farlo in altri atlanti, come l’Atlante delleAlpi Occidentali, in cui il riconoscere le for-me meriterà un lavoro approfondito.

Questo lavoro ruota intorno a queste dueparole chiave che sono tra loro collegate: iden-tità e modello. Vorrei affrontare la questionedell’identità, diversamente, e discuterne alcu-ni punti.1) Qualsiasi luogo, regione, territorio, possie-

de un’identità, è unico.2) L’identità, etimologicamente, si definisce

paradossalmente con la conformità. La ra-dice della parola è idem, lo stesso: è identi-co. Identico a che cosa? Identico ad unmodello. La “carta d’identità” (il passa-porto) vi definisce in termini di luogo e da-ta di nascita, colore degli occhi, statura,talvolta la forma del viso o il colore dei ca-pelli. Sono riferimenti a modelli comuni,che condividete, tutti voi, con una serie dialtre persone, ma la cui composizione fa divoi un soggetto unico.

3) L’identità di un luogo è il risultato dellasomma, della composizione di un certo nu-mero di somiglianze e di appartenenze. Sipuò descrivere una certa città con il suocontenuto, ma il modello si definisce inrealtà attraverso modelli che si hanno inmente, rispetto alla sua funzione o alla suaattività principale, come Torino, ovvero ri-spetto ad una situazione, città del Piemon-te, città della valle, ecc. Si tratta sempre dimodelli che si trovano dietro a queste defi-nizioni e che permettono di identificare fra-zioni di identità di un luogo o di un territo-rio.

4) Non si può identificare, e di conseguenzadescrivere in modo conveniente, un luogoo un territorio se non rispetto a modelli co-nosciuti, situandoli attraverso e all’internodelle figure che essi formano, reti, archi,centro-periferia, dorsale, ecc.

È del tutto normale e rassicurante constata-re che operiamo come le altre scienze: qual-siasi scienza opera con modelli, e attraversoquesti modelli identifica i suoi oggetti. Nello

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specifico noi lavoriamo nell’ambito del socia-le, della complessità e con una forte compo-nente aleatoria relativa al comportamento del-le società. Sicuramente non abbiamo i mezziprecisi per l’identificazione dei luoghi di cuidispongono i geologi per affermare “questapietra è scisto”, né abbiamo i mezzi di cui di-spongono gli zoologi i quali possono definireun insetto o un animale che occupano un cer-to posto in una classificazione rigorosa che se-gue forme precise, riferendosi a modelli. Cio-nonostante ritengo che l’organizzazione dellospazio nelle società ripeta un piccolo numerodi figure geografiche e anche di disposizionidi queste figure. Almeno è la mia proposta, emi pare derivi dall’esperienza. Abbiamo inmente alcuni modelli di organizzazione del pe-demontano (e non soltanto del Piemonte ita-liano), forme di agglomerazioni, litorali, ecc.:sono altrettanti modelli che permetteranno l’i-dentificazione di esseri geografici particolari,oggetti di studio.

Possiamo così apprezzare la differenza trala forma dello spazio che si studia, territorio,rete o luogo, e i modelli di cui si parla. Questoscarto è ciò che si definisce il “residuo”, ma inrealtà rappresenta il sale, la sua stessa origina-lità. Ma nell’identità vi è un’altra faccia, unafaccia di appartenenza. La prossimità nellospazio ha sempre contribuito all’identità, conl’appartenenza ai gruppi, alla tribù, al territo-rio. Da qui prende corpo tutta la letteraturasulle radici, sulle antiche associazioni delle pa-role “natale”, “natura” e “nazione”: tutte han-no la stessa origine etimologica: la nascita, l’o-rigine. Il tempo presente, nelle nostre societàconosce un ritorno di questa ricerca d’iden-tità attraverso la comunità territoriale, talvoltaa partire dalla radice o il biotopo, senza dub-bio legata a questa reazione che ricordavo inprecedenza, di fronte all’“uniformazione” ealla “globalizzazione”.

La ricerca dell’identità attraverso il territo-rio implica una presa di coscienza, un’interio-rizzazione della specificità del territorio, dun-que una forma di appropriazione dello stesso,e come corollario una forma di alienazione ri-spetto agli altri – e il sentimento di patrimonioin effetti non può che contribuire – come af-ferma Magnaghi. Si tratta di un comporta-mento che senza dubbio ha effetti positivi, ma

è anche fonte di esclusione, di comunitarismo,talvolta di razzismo; e a mio avviso, si trattapiù di un pericolo che di un progresso. Que-stione di dosi, senza dubbio.

Ora, come geografo, mi pare di poter lavo-rare sui sistemi locali, identificandoli attraver-so le forme, i processi, gli attori, forse ancheavere un’idea delle rappresentazioni di questiattori; ma non sono competente per trattare leidentità delle persone e il sentimento di iden-tità. Posso rappresentare un sistema territo-riale, identificare oggetti geografici confron-tandoli con modelli; ma non posso dire qual-cosa di pertinente sulle rappresentazioni indi-viduali e collettive che appartengono agli abi-tanti, agli utenti, ecc. Mi pare che tutti gliscienziati debbano poter ammettere quandooltrepassano il loro ambito di competenza. Ungeografo professionista non può comportarsicome un sociologo o uno psicologo dilettante.

Sicuramente può ricercare e informarsi; ma,a mio avviso, altri specialisti delle scienze uma-ne sono più competenti rispetto a noi su que-sto argomento, e non credo si possa confon-dere la geografia, a prescindere dalle richiestedi oggi, con un’ontologia. Tanto più che il geo-grafo ha l’abitudine di lavorare sui fenomenisociali e non sui problemi individuali. Temoche se ci spingessimo troppo in là, in questocampo, ci lasceremmo andare a discorsi su-perficiali, elucubrazioni prive di fondamento.Attenzione quando parliamo di “identità geo-grafica” (l’espressione compare nel vostro te-sto di invito al colloquio): possiamo parlarneseriamente se si tratta di definire l’identità diun oggetto geografico, di un “essere” o perlo-meno di un “essente” geografico; nel momen-to in cui si trattasse di parlare di identità per-sonale o anche collettiva, fondata sulla “geo-grafia”, temo che non potremmo dire molto.

Euristica e prospettiva

Quinta proposta: se queste rappresentazionigeografiche possiedono una grande capacitàeuristica, mi pare tuttavia limitata la loro ca-pacità previsiva. La questione che affronto orariguarda soprattutto i documenti di pianifica-zione territoriale e urbanistica, e i sistemi diinformazione geografica. La mia proposta è

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che non possiamo e non dobbiamo fare previ-sioni, ma solo, e con grande umiltà, procederea simulazioni: “Se fate questo su questo terri-torio, potrebbe accadere...”. È una forma diaiuto alla decisione già di per sé molto utile,ma che non può spingersi oltre.

Si possono osservare tendenze, e apprezza-re le probabilità che queste tendenze hannodi durare. Si può inferire che esistano situa-zioni “buone” e “cattive”, ma lo si può fare so-lo in funzione di ipotesi, alternative e chiare,sui comportamenti degli attori. In effetti, nonesistono situazioni geograficamente “buone”di per sé, esistono situazioni più o meno buo-ne, secondo i problemi che ci poniamo, e se-condo le azioni che si prevedono, che si trattidi un imprenditore o di un sindaco, ovvero delpresidente di una Regione.

Lavoriamo su situazioni già realizzate, sutracce, sulle opere passate, e nessuno è in gra-do di prevedere seriamente le decisioni degliattori, i comportamenti degli attori di doma-ni. Questo è vero per tutte le scienze umane, eabbiamo ogni giorno esempi di errori colossa-li. I più celebri sono quelli commessi dagli eco-nomisti, i quali pretendono di fare delle previ-sioni senza averne i mezzi: ma anche in demo-grafia, dove apparentemente spesso si dice “ildado è tratto”, non si è in grado di prevedereseriamente i comportamenti delle famiglie abreve termine, e si è sbagliato molto sulleestrapolazioni della popolazione mondiale.

Curiosamente, d’altro canto, il geografo for-se non sarebbe così fuori posto per discuteredi ciò che si potrebbe verificare, per il motivoprincipale che le organizzazioni spaziali han-no una certa permanenza (vedere l’esempiodel bacino di Firenze): il loro tempo è in gene-re più lungo di quello degli atteggiamenti e deicomportamenti economico-politici. Inoltre, lerappresentazioni del territorio hanno qualchevirtù, tipica dell’espressione e anche dell’inci-tazione, hanno talvolta un lieve lato “perfor-mativo” come si usa dire. È necessario quindiche abbiano un reale fondamento scientifico.

Mi limiterò a due esempi, che ci fanno ritro-vare le carte. Il primo è quello della (troppo)nota “banana blu”, il cui successo mediatico èstato eccessivo. Quando ho pubblicato questarappresentazione della dorsale europea, chepercorre l’Inghilterra fino all’Italia del Nord,

ho avuto molte reazioni a Parigi e altrove. Ora,queste reazioni sono state molto diverse. Alcu-ni, dimostrando ignoranza e persino volgarità,erano scandalizzati semplicemente perché Pa-rigi, evidentemente “il centro d’Europa comedel mondo e dell’universo”, non era nel mo-dello. Altri hanno capito e ammesso quest’im-magine, ma hanno avuto reazioni opposte: se ècosì, allora è necessario che Parigi sia collegataa questa “banana blu”, quindi occorre finan-ziare immediatamente le autostrade e le lineeferroviarie a grande velocità che collegheran-no Parigi a questa Europa, che è la più poten-te, la più vivace: oppure, se è così, allora Parigiè troppo piccola, occorre ingrandirla e raffor-zarla ulteriomente. Scioccamente mi hanno ac-cusato di volere rafforzare la centralizzazionequando invece non ho mai smesso di sostenereil contrario. Altri ancora, hanno scelto la “resi-stenza” e l’aggiramento dell’ostacolo: hannodetto “anche noi vogliamo la nostra dorsale”,il nostro arco, e hanno propugnato la causadell’“arco atlantico” o dell’“arco latino”. Al-cuni si sono serviti di questa immagine per far-si pubblicità: in Alsazia, nel Giura, hanno det-to “noi siamo nella dorsale, noi siamo i miglio-ri”, e hanno pensato così di attirare gli investi-tori. Beninteso, alcuni hanno pensato di poter“rompere il termometro” per poter guariredalla malattia (se di malattia si tratta!) e hannopreferito negare il modello, rifiutando di vede-re le carte di analisi che costituivano il suo fon-damento. Infine altri, poco numerosi ma i piùintelligenti, hanno capito che le città come Pa-rigi o Lione, che si trovano un po’ al di fuoridella dorsale, ma vicine a questa Europa po-tente, avevano tutto l’interesse a giocare il gio-co dei legami stretti con l’Europa sud-occiden-tale, con la penisola iberica dunque, a miglio-rare i legami con la Spagna e il Portogallo e per-sino il Marocco, un modo per ristabilire l’equi-librio nello spazio europeo in espansione.

L’altro esempio è quello della Corsica. LaRegione Corsica aveva rifiutato di attuare unapianificazione territoriale prevista dalla legge;il governo aveva richiesto ad un suo rappre-sentante, il prefetto, di sostituirsi alle autoritàregionali. Per il prefetto il problema era sem-plice: la Corsica era un pezzo di territorio fran-cese, la Francia metropolitana vista come ilsuo unico ambiente; il piano enumerava tutta

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una serie di proposte per sviluppare il turismo,conservare il patrimonio, migliorare l’ambien-te, ecc., necessarie, attese e senza vere conse-guenze. Dal punto di vista dei grandi lavori diinfrastrutture fondamentali vi era una solaidea: poiché abbiamo due capoluoghi, due ca-pitali, Ajaccio e Bastia, li collegheremo conun’autostrada (anche se percorre le monta-gne) e miglioreremo i loro collegamenti con lametropoli. Da lato est, sicuro, non vi è che unabarriera impermeabile e al di là una terra in-cognita – si dice sia l’Italia ma chissà... Ad uncerto momento, la Regione Corsica, ci ha ri-chiesto alcune contro-proposte, una riflessio-ne di esperti. Abbiamo proposto di vedere laCorsica da un altro punto di vista. Immaginia-mo che esista di lato qualche cosa che si chia-ma Italia; a sud si trova qualcosa che si chiamaSardegna; esistono già progetti e anche realiz-zazioni relative al gas o l’elettricità che il terri-torio della Corsica potrebbe utilizzare; la par-te più sviluppata e attraente della Corsica è lacosta orientale. Che cosa ne deriva? Sarebbepiù saggio allora migliorare le relazioni nord-sud su questa costa orientale, che facilitereb-bero i passaggi verso l’Italia del Nord e la Sar-degna; si cambierebbe in questo modo l’assedello sviluppo, giocando la carta dell’integra-zione europea piuttosto che una dipendenzasempre maggiore dalla Francia continentale;si darebbe la preferenza ad un Bastia-Bonifa-cio di pianura, piuttosto che ad un ipoteticoquanto difficile asse Bastia-Ajaccio di monta-gna; ben inteso, si collegherebbero meglio tut-te le città corse, ma in modo più ragionevole.Ecco il genere di carta di cui si può discutere;non proviene dall’abisso ma è fondata su mo-delli e su un ragionamento; non l’abbiamopresentata come l’unica possibile e neppurecome la migliore, ma solo come un’altra ipo-tesi di pianificazione territoriale. Per il mo-mento, è chiaro, non ha avuto alcun seguito.

Che fare?

Devo terminare cercando di rispondere alladomanda che mi avete posto e cioè “che cosafare?” Quali sono i compiti a cui tendere se-condo queste brevi osservazioni? Ci troviamonell’ambito della rappresentazione, ed è l’ar-

gomento del dibattito. Tutto è già stato detto,da oltre 40 anni perlomeno, sulle rappresen-tazioni e sulla carta, e mi accade di sentirmiun po’ stanco della ripetizione di alcuni di-scorsi: che il mondo si divide tra i terribili“scienziati” e i lucidi “umanisti”, o al contra-rio, tra i severi uomini di scienza e gli pseudopoeti; e che la carta “reifica” il territorio, ecc.Non è molto interessante discutere a lungoquesti argomenti. Preferisco offrirvi qualcheconclusione.1) Dovessi scegliere tra lo sforzo della rappre-

sentazione dei territori – e di sforzo si trat-ta quando è serio – e la facile affermazioneche qualunque “rappresentazione” è so-spetta, soggettiva, arbitraria, e quindi si puòdire che “tutto si equivale”, e quindi il miodiscorso vale i vostri discorsi, a prescindereda ciò che racconto, è chiaro: preferisco losforzo.

2) Questo sforzo mi sembra implichi veri pro-gressi nell’uso dei modelli e nell’identifica-zione delle forme spaziali per mezzo di mo-delli geografici di riferimento, purché la lo-gica sociale di questi modelli, sia esplicita.Che si sappia con che cosa si ha a che fare.Non vale la pena parlare di emergere di ten-denze o modelli di gravitazione se non si co-nosce ciò che sottendono, ciò che gravita ein nome di che cosa.

3) Dobbiamo sempre tenere presente la dif-ferenza radicale che esiste tra il saper rico-noscere le forme in senso scientifico e ciòche volentieri definisco lo sciamanesimo ela geomanzia. Quando vi trovate a dovervalutare un insieme di forme e di rappre-sentazioni avete una serie di soluzioni. Laprima consiste nel dire: “ho la rivelazione,sono l’unico a ‘vedere’ le ‘vere’ forme edesse mi ‘parlano’”: questo è il comporta-mento dello sciamano. Un altro atteggia-mento consiste nel reinventare le forme eapplicarle in un altro ambito d’interpreta-zione; è l’atteggiamento del geomante, ilquale, vedendo dei ramoscelli sparsi sulterreno, non conclude nulla sul ruscella-mento, ma decide che gli dei sono favore-voli e sfavorevoli rispetto ad un progetto.L’astrologia è fondata su questo trasferi-mento: si sono distinte nel cielo delle “for-me” illusorie, legate a punti che si trovano

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distanti milioni di anni luce gli uni dagli al-tri e non corrispondono a nessuna vera for-ma cosmica, e si prentende possano inferi-re sul vostro destino personale. Alcuni dinoi “vedono” forme, come si “leggono” ifondi del caffè. Riconoscere le forme geo-grafiche richiede più razionalità e un soli-do apprendistato; e non deve uscire dal suocampo di applicazione, che è doppio: cer-care di sapere come tali forme sono stateprodotte e come queste possono piegare leazioni umane.

4) Mi pare sia possibile applicare in geografia,un ragionamento scientifico. Non dico chela scienza sia superiore alla divinazione, masoltanto che io non sono in grado di divina-re, nessuno mi ispira e ho appreso qualcherudimento di comportamento scientifico.Si deve sempre fare la critica delle fonti – enon lo si fa abbastanza quando ci si trovadi fronte a carte. Si può e si deve disporredi modelli di riferimento. Si elaborano allo-ra ipotesi di ricerca e si può persino dedur-re proposte di ipotesi. Eppure, il testo in-troduttivo al congresso dice: “partendodalla descrizione fisica per arrivare alle teo-rie esplicative”; no, questo non mi basta; miaccade, accade a tutti noi di partire dalleteorie esplicative per tentare di vedere seuna certa configurazione geografica ha sen-so, e se la realtà corrisponde alle attese, alleconseguenze delle ipotesi formulate. Cre-do che il metodo deduttivo possa esisterein geografia, e gli esempi non mancano:mettendo a confronto ciò che è universalee singolare, e interrogandosi sulle logichesociali che producono le forme di cui si par-la, cambiando sguardo, azimut, proiezione,scala, e mettendosi nei panni degli altri; e,d’altra parte, lavorando in modo coopera-tivo, questo permette non solo di verifica-re, ma anche di confutare, come lo inten-deva Karl Popper.

5) Un altro richiamo nel vostro testo del col-loquio faceva riferimento all’idea di “co-struire il significato”. Al riguardo, è meglioessere prudenti, ovvero più chiari. Nonsappiamo, come geografi, attribuire un si-gnificato mistico o cosmogonico a oggettiterritoriali. Conosciamo rappresentazionigeografiche mistiche, come quella famosa

imago mundi dei tempi della filosofia scola-stica con Gerusalemme al centro, l’Eden inalto, cioè l’est, Gog e Magog (i terribili) asinistra, per forza a sinistra; non è più co-munque, (in linea di massima) il nostro mo-do di lavorare. Possiamo cercare dei lega-mi, solidarietà, retroazioni, elementi trai-nanti, gradienti, rotture, interfacce, luoghidel cambiamento. Se sappiamo trovar loroun “significato” è nel senso della direzionedel movimento, è forse nella coerenza e nel-le contraddizioni del sistema che studiamo,ma non si tratta di una visione metafisicadegli oggetti geografici. Che questa tenta-zione sia umana, ovvero diffusa in questitempi di smarrimento, è evidente. Nono-stante le mode dette del “postmoderni-smo” e in effetti “premoderne”, molto clas-siche se non persino arcaiche, mi auguroche questa tentazione rimanga lontana dalnostro lavoro e dal lavoro che facciamo congli organismi territoriali. La carta in questocaso deve essere un’illustrazione nel sensoetimologico del termine, quindi un chiari-mento; e non un’illusione, che in senso eti-mologico è un gioco che consiste nell’in-gannare.

6) Per lavorare meglio e rappresentare più fe-delmente la realtà geografica dovremmo fa-re attenzione sempre alla qualità dell’infor-mazione scientifica. Non possiamo dircisoddisfatti soltanto perché assistiamo aduno sviluppo dei sistemi di informazionegeografica. Si osserva, anche nei nostri pae-si, cosidetti avanzati, un regresso delleinformazioni statistiche sulle attività uma-ne o, in ogni caso, un’alterazione dell’ac-cessibilità dei dati. Questo è in parte dovu-to agli organismi produttori di dati, i qualisi sono trasformati in organismi commer-ciali, e i ricercatori si trovano talvolta in unasituazione difficile (in Francia al momentovi sono dibattiti in corso sul futuro dei cen-simenti e sull’accesso ai dati locali, moltodettagliati).

7) Infine, credo che dovremmo fare un sforzoconsapevole per sviluppare la cultura geo-grafica e la cultura cartografica. La cartanon “parla” da sola, deve imparare. Il mioamico François Durand-Dastès spesso di-ce: la geografia è come il cinese, si impara.

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Si crede basti avere una carta sotto gli oc-chi, per avere compreso tutto. Non è vero,e la memoria delle forme geografiche valbene lo stesso sforzo della memoria dei te-sti. Apprenderne l’uso ci permetterà di gio-care a carte scoperte, contrariamente a que-gli atteggiamenti esoterici, e si condividerà

il sapere: non soltanto con gli uomini poli-tici e i decisori in ambito di politiche di pia-nificazione territoriale, ma anche con i cit-tadini e le associazioni, in grado di esprime-re le loro aspirazioni e punti di vista a volteoriginali se solo li si aiuta con la rappresen-tazione dei luoghi e dei territori.

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Rappresentare e reggere: le regioni negate

Pasquale Coppola

“Gli occhi del caos brillano sotto i veli dell’ordine”J. C. F. Hölderlin

L’occhio vincente degli infedeli

La seconda metà del Quattrocento si aprì per l’Europa con un diffuso senso di paura. Nellatarda primavera del 1453, dopo otto settimane di assedio, le armate di Maometto II avevanopiegato i difensori di Costantinopoli e avevano spento definitivamente in un bagno di sangue ilmillenario Impero d’Oriente. I Balcani, già piegati dalla sconfitta dei principi serbi nella Pianadei Merli nel giugno del 1389, non offrivano più alcuna resistenza al dilagare degli Ottomani.

In quegli stessi anni, dall’osservatorio privilegiato di Venezia, il camaldolese fra’ Mauro andavafissando in splendidi planisferi la sintesi delle conoscenze geografiche del tempo (fig. 1 a p. 200)1.Il suo mondo dalle tinte variegate si ampliava con profili lontani, si addensava di toponimi esoti-ci, si riempiva d’interrogativi irrisolti, portando l’eco degli avventurosi viaggi dei navigatori por-toghesi che si spingevano intanto sempre più verso il Sud e verso l’Est. Ma queste meravigliosesumme del coraggio e del sapere occidentali esibivano al fondo una crepa che giustificava i brivi-di delle cancellerie e delle masse europee. Perché il loro orientamento con il Sud in alto esprime-va come una ratifica della supremazia dello sguardo di un Altro: di quel mondo arabo-musulma-no tanto temuto, che dal Sud aveva organizzato la sua avanzata e dal Sud, ancor prima delle sco-perte promosse dal Portogallo, aveva dato nuovo spessore di misure e nuovi confini al mondo.La potenza dei maomettani infedeli era così scritta nelle stesse rappresentazioni geografiche di-sposte a esaltazione delle sorti della dinastia lusitana che era il committente di fra’ Mauro.

Doveva passare poco più di un secolo perché nelle acque di Lepanto s’infrangessero le spintedi conquista dell’Impero ottomano e si spegnessero almeno in parte le paure dell’Occidente. Ilmerito della vittoria navale venne equamente diviso tra l’audacia di don Giovanni d’Austria, laperizia dei comandanti e degli equipaggi cristiani e il predominio tecnico che intanto le marine-rie occidentali andavano assumendo nel mondo delle vele e, ancor più, in quello delle boccheda fuoco2. Questo predominio si era già misurato nei decenni precedenti nello scenario delGolfo Persico e dell’oceano Indiano, dove i vascelli portoghesi avevano più volte respinto gli at-tacchi degli Ottomani (Cipolla, 1989, pp. 191-93; Braudel, 1966, p. 1261). La sconfitta in unaqueste spedizioni, appena dopo la metà del Cinquecento, era costata la condanna a morte diuno dei maggiori protagonisti della marineria musulmana, l’ammiraglio Piri Re’is.

Piri Muhi’d-Din Re’is era stato anche un grandissimo cartografo, autore del Kitab-i Bahriyye(“Libro della Marineria”), completato nel 1521 (fig. 2 a p. 201)3. Si tratta di un capolavoro del-la cultura turca del XVI secolo, nel quale – sotto forma di portolano – vengono illustrate le co-ste dell’Egeo e del Mediterraneo, con la perizia nautica che il suo redattore derivava dalla lungaesperienza nella guerra di corsa, maturata proprio in quei mari al servizio prima dello zio Kamal

1 Tra la vastissima bibliogra-fia in merito, si veda J.Cowan (1996).

2 Per un inquadramento ge-nerale, si veda F. Braudel(1966, II, pp. 1165-84).

3 Si veda il documentatissi-mo testo di M. Pinna (1997,II, pp. 166-67).

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Re’is e poi del mitico Hayr ad-Din “Barbaros-sa”. Se la sintesi di conoscenze sul bacino me-diterraneo è un pregio del tutto originale del-l’opera di Piri Re’is, l’ammiraglio del sultanoappare nondimeno debitore ai calchi della car-tografia nautica occidentale, che aveva allespalle già un paio di secoli di affermazioni, eagli isolari, che avevano connotato la produ-zione europea del XV secolo. E, benché moltedelle sue immagini restino orientate con l’O-vest in alto, come era consuetudine di una ma-rineria che muoveva dai porti dell’Est del ba-cino, le sue visioni d’insieme sono costruite sulNord, recando chiara la traccia del punto divista di quel nemico occidentale che ha ormaicostruito e imposto i suoi canoni alla rappre-sentazione dei mari. Ben mezzo secolo primadei cannoni di Lepanto, dunque, già nella son-tuosa cartografia allestita per Solimano il Ma-gnifico s’incunea il seme della sconfitta, il ri-conoscimento della forza operativa dellosguardo che dal Nord domina il Mediterra-neo. Assai prima di Lepanto si sarebbe cosìgiustificato il detto turco: “Allah ha dato la ter-ra ai musulmani, il mare agli infedeli!”.

La banana sul Reno

In effetti, le rappresentazioni del territorio,in primo luogo le sue cristallizzazioni carto-grafiche, traducono con maggiore o minoreefficacia e fedeltà il progetto che i referentipolitici e sociali sono in grado di costruire in-torno a tale territorio proprio in ragione dellecapacità egemoniche e degli strumenti di mo-bilitazione culturale di quanti le formulano.Si osserva in modo ricorrente una specie dicircolarità virtuosa che legherebbe oggetti,immagini, discorsi geografici “forti” a porzio-ni economicamente e culturalmente centralidi territorio e a classi dirigenti dinamiche, ca-paci di esprimere su queste regioni, e a parti-re da queste, un governo dotato di autorevo-lezza e respiro.

Avviene così che la forza culturale, politicae sociale del punto di vista, che sulle soglie del-l’età moderna attraversava in modo persinosubdolo le carte di fra’ Mauro e di Piri Re’is,facendone l’esaltazione dello sguardo e del po-tere dell’Altro, si riproponga intatta anche nel-

le rappresentazioni proposte oggi da alcunidei più avanzati centri della produzione geo-grafica e cartografica dell’Occidente.

Uno degli esempi più lampanti è offerto dal-la “dorsale europea”, disegnata dalla fertilecoppia DATAR-Reclus alla fine degli anni ot-tanta e ribattezzata dalla stampa francese “ba-nana blu”: una rappresenzione divenuta intempi assai brevi un termine di riferimentofondamentale della geografia europea di que-sto tornante di secolo (fig. 3 a p. 202)4.

Nessuno di noi negherebbe sostanza alla“dorsale europea” che per un’ampiezza di unpaio di centinaia di chilometri si estende dalSud-Est dell’Inghilterra fino alle coste liguri,abbracciando spazi metropolitani come quellidi Londra, della Randstad Holland, della Re-nania e del Nord-ovest padano. È la banda diterre imperniata in larga misura sul corso delReno che, salvo l’integrazione britannica, ri-percorre per l’essenziale l’antica partizione deipossedimenti assegnati allo scettro imperialedi Lotario. Una regione riemersa sempre conforza dalle varie carneficine e dalle tante di-struzioni materiali che avevano accompagna-to lo stabilirsi delle frontiere intorno al tragicofiume e coinvolta in molti suoi tratti sin daglialbori e con grande slancio nel processo dellarivoluzione industriale. Una regione che ha av-viato un ulteriore vigoroso processo di salda-tura e di sviluppo dalla fine del secondo con-flitto mondiale, quando la creazione di unaComunità del Carbone e dell’Acciaio, prima,e del Mercato Comune Europeo, poi, hannorafforzato il suo ruolo di principale corridoiodi transito, di cerniera e di riferimento pro-duttivo del nuovo spazio europeo che si anda-va generando. E già in apertura della stagionecomunitaria, costruita sull’impegno determi-nante di europeisti quali Robert Schuman eKonrad Adenauer, che proprio in queste con-trade avevano avuto i natali, era apparso chia-ro come la Lotaringia fosse di gran lunga la re-gione più dinamica del nuovo insieme sovra-nazionale: uno spazio che – secondo il rappor-to Marjolin 1961 – adunava circa il 45% dellapopolazione e il 60% del prodotto totale del-l’Europa a sei e che sin da allora minacciava,in mancanza di un’appropriata politica regio-nale, di lasciare ancor più indietro gli altri di-stretti meno sviluppati della Comunità5.

PARTE PRIMA - SESSIONE III

4 Si veda anzitutto R. Brunet(1989). Non va dimenticatoche il ministro francese Pa-squa fece distribuire, nel1993, 300.000 copie di undocumento destinato a in-trodurre il dibattito naziona-le sull’assetto del territorioche si apriva appunto conl’immagine della “banana”.

5 Quello di Robert Marjolinè il rapporto introduttivodella “Conferenza sulle eco-nomie regionali nelle Comu-nità” tenutasi a Bruxellesdal 6 all’8 dicembre del1961. Sull’assetto e sul ruolodella Lotaringia ci ha lascia-to un bel saggio F. Compa-gna (1964, pp. 171-88).

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Se la “banana blu”, che riprende e amplianei suoi contorni la Lotaringia, è un’indubbiarealtà dal punto di vista del potenziale urba-no, della trama di circolazione e degli assettiproduttivi, ciò non toglie che questa metaforaortofrutticola tanto innocente e digesta tradu-ca una particolare visione dell’Europa, co-struita intorno all’asse politico franco-tedescoe all’ampia sfera d’interessi economici che losostanziano. Questa sottolineatura di un’al-leanza, che la rivista “Limes” ha immaginifi-camente definito “Framania” (AA.VV., 1995a),pur con tutti i suoi realistici riferimenti, non èperò che una delle possibili interpretazioni de-gli assi forti dell’Europa. Di questi assi si po-trebbero indicare, infatti – ed è stato anchefatto – configurazioni ulteriori e più o menodiverse, in ragione degli elementi considerati6:come quella che si spinge a includere le duecittà capitali della stessa Framania; o comequella che taglia trasversalmente ed espandela dorsale distinguendola in un vecchio e unnuovo “cuore” (fig. 4 a p. 203); o come la plu-rima intersezione di reti evidenziata presso lostesso laboratorio di Reclus e battezzata conl’espressione treillage (fig. 5 a p. 203). Nulla è,del resto, più discutibile dell’“idea fatalista[...] secondo cui la Dorsale sarebbe l’incarna-zione contingente di un istmo inevitabile”7.

Ma la forza della “dorsale blu” sta nel forni-re un’immagine di efficacia immediata per unaporzione di spazio che non è solo un portantepolitico ed economico della costruzione del-l’Europa attuale, ma corrisponde pure, inqualche modo, a un “nucleo duro” dello stes-so pensare europeo. E nel trasformare, con lasua evidenza, questa centralità ideologica inuna centralità operativa.

Non si tratta tanto – almeno in questa sede– di verificare se questo tipo di rappresenta-zione onori ed esalti la logica dei “coremi”enunciata da Brunet e posta al fondo del lavo-ro del Groupement Reclus e della Maison dela Géographie di Montpellier8. Il punto cru-ciale è che il disegno della “banana” ha offer-to un perno, un operatore logico intorno alquale si è costruita l’intera visione degli inter-venti sul territorio dell’Unione Europea di fi-ne secolo. Vuoi per la qualità e la plausibilitàdelle immagini prodotte dai geografi francesi,vuoi per l’ampiezza e l’autorevolezza degli stu-

di della DATAR e per l’accorta opera di diffu-sione che li ha accompagnati, vuoi infine perla loro intelligente tendenza a riempire unvuoto nelle capacità di visione sintetica degliambienti comunitari9, sta di fatto che i pro-grammi più significativi dell’Unione si vannocostruendo a partire da queste immagini. Ilche significa, naturalmente, anche la possibi-lità di convogliare giganteschi flussi d’investi-menti, pubblici e privati, e un riferimento co-stante alla dorsale nell’elaborazione della po-litica delle reti che è forse oggi il fronte princi-pale, anche in termini d’impegno finanziario,dell’azione europea.

L’invenzione dell’Arco

È stato rilevato tempo addietro da AttilioCelant come la partizione delle regioni comu-nitarie proposta nel 1991 dalla DG XVI conl’etichetta di “Europa 2000” sembri ignorarelo studio formulato due anni prima dalla Mai-son de la Géographie (cfr. Celant, 1996, pp.11-30). La grande dorsale è divisa in due se-zioni e più di uno spazio è aggregato in ragio-ne di qualche compromesso politico di quelliche impregnano tanto spesso i passi dell’euro-crazia (fig. 6 a p. 204 e Commissione delle Co-munità Europee, 1991). Ma queste “varianti”non debbono trarre in inganno: al fondo, que-sto cruciale documento comunitario parla illinguaggio e assume i riferimenti proposti dalgruppo Reclus e dalla DATAR; e non sfugge af-fatto alla concezione dei pivot, delle direttricidi sviluppo e dei distretti periferici inquadratidai territorialisti francesi.

Una prova evidente sta nella riproposizionedi un “corema” improbabile e al tempo stessointrigante come l’Arco atlantico, uno spazioche appare aggregato per la prima volta pro-prio nei documenti DATAR e che accosta regio-ni assai differenti tra loro per livelli dei redditi,contesti economici, potenziali demografici eurbani (fig. 7 a p. 205). Ad accumunare questeterre sarebbe una certa marginalità rispetto alquadro continentale, ben sottolineata dalla pre-carietà delle comunicazioni. Ma vi sarebbe an-che una comune possibilità di giocare un ruolodiverso nella stagione di riassetto dei grandi po-li geoeconomici a scala mondiale che com-

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6 Una sintesi di queste mol-teplici configurazioni,anche solo da un punto divista dell’urbano, è prospet-tata in G. Dematteis, P. Bo-navero (1997, pp. 51-60).

7 In questo senso JacquesLevy, cui è attinta la citazio-ne, mette in guardia controla tendenza ricorrente a“scivolare sulla banana”: J.Levy (1997, pp. 142-43).

8 Si veda la teorizzazione,tra l’altro, in R. Brunet(1980, pp. 253-65).

9 Non va dimenticato che lascelta di varare, nel 1982, laMaison de la Géographie diMontpellier e il Groupe-ment d’Intérêt PubliqueReclus venne assunta conconsapevolezza strategica eampiezza di dotazioni dalgabinetto Mauroy, nelquale Roger Brunet era col-laboratore del ministrodella Ricerca ScientificaChevénement.

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porta la necessità per l’Europa d’inquadrare lesue terre di limite all’Occidente (i suoi fines ter-rarum) in una rinnovata prospettiva di apertu-ra e proiezione verso gli spazi esterni. L’Arcoatlantico sarebbe, dunque, un vasto fronte d’in-terfaccia, in particolare nei confronti delleAmeriche: un ruolo di recente ben interpreta-to dall’Irlanda, con la sua capacità d’attrarregli investimenti statunitensi, o dal Portogallo,con gli interventi volti a “riaprire” Lisbona al-l’oceano e a farne la soglia dell’Europa versouna parte significativa del Sudamerica.

Se il disegno di un piano comune lungo ilquale far convergere i destini di questo fasciodi terre esteso per non meno di 2.500 chilo-metri è un apprezzabile tentativo che investearee con un diverso grado di ritardo rispettoalle regioni motrici dell’Europa attuale, nonva comunque ignorato che l’invenzione del-l’Arco tradisce ancora una volta un punto divista essenzialmente francese. Il cuore dell’Ar-co, infatti, sembra porsi proprio nella Breta-gna, da qualche tempo una delle regioni piùdinamiche della Francia, raggiunta oggi daltracciato di una linea ferroviaria ad alta velo-cità, quella del “TGV Atlantique”, che scaval-ca in quest’ottica la pur rilevante dimensioneregionale per divenire un’infrastruttura di re-spiro europeo. Del resto, un documento dellaDATAR dei primi anni novanta è assai esplicitosu questo aspetto di centralità e sulle sue im-plicazioni: “Da un punto di vista geo-strategi-co – vi si osserva – le nostre considerazioni sul-la vulnerabilità urbana c’inducono a formula-re l’ipotesi che l’arco della sicurezza europearipercorra l’Arco atlantico e privilegi in parti-colare la sua zona centrale”10.

Come sempre, l’Arco implica frecce. E lamole degli investimenti che quest’immagineassai evocatrice di uno slancio di sviluppo ri-chiama concretamente sui margini occidentalidell’Europa ne fa una metafora territorialetutt’altro che innocente. Appare assai eviden-te qui come una rappresentazione forte e con-vincente sia in grado di convogliare forze con-crete in una regione anche quando questa pre-senti concreti elementi di coerenza interna eprofili di lettura d’insieme assai labili, anzi avolte del tutto contraddittori11.

Potremmo, per un’ulteriore riprova, guar-dare anche alla partizione che gli eurocrati di

“Europa 2000” hanno etichettato come “Me-diterraneo centrale”, includendovi il Mezzo-giorno e la Grecia. Una tale partizione risultadall’accorpamento, quasi in termini di risulta,di due dei Sud che compaiono sempre nellacarta della Maison de la Géographie, del tuttomarginali rispetto ai fulcri della lettura reno-centrica. Nel loro accostamento non vi è alcundisegno strategico, già la definizione è banalee persino impropria, le possibilità di tracciarvipercorsi e obiettivi aggreganti o di riconoscer-vi assi operativi di respiro sovraregionale sonomolto ridotte. Il tratto più evidente non è un“progetto”, ma uno stato: un comune stato diritardo in larga misura collegato, nella visionecomunitaria, alla problematica diffusa dell’in-sularità oppure a tratti naturali poco invidia-bili, quali l’estensione del vulcanesimo e delleterre ad alto rischio sismico. Ma, di norma, leregioni deboli non si producono in argomen-tazioni e immagini geografiche dotate di un re-spiro progettuale, vengono solo “fotografate”.E talora anche abbastanza male.

Il territorio evaporato

Se osserviamo le rappresentazioni che han-no intanto accompagnato gran parte degli in-terventi nelle regioni meridionali italiane ne-gli ultimi 20 anni ci accorgiamo agevolmentedella scollatura tra gli enunciati dei progetti,da un canto, e il loro radicamento – ma anchela loro praticabilità – in termini territoriali,dall’altro.

Prendiamo, ad esempio, una regione all’a-vanguardia come la Basilicata, che già negli an-ni sessanta si era data un centro autonomo diricerche territoriali e che assai per tempo(molto prima che il riferimento alla “rete” di-venisse una chiave di lettura e un credo supre-mo tanto diffusi) aveva enunciato, grazie a stu-diosi della portata di Rossi Doria, un disegnodi sviluppo imperniato sulle cinque principalidirettrici fluviali da riconnettere in una grigliacoerente mediante alcune arterie trasversali.Pure, nell’elaborare le ipotesi di un suo pianoterritoriale alla metà degli anni settanta, la Re-gione non trova di meglio che affidarsi allaconsulenza di uno studio romano che allesti-sce un documento discorsivamente vago, co-

PARTE PRIMA - SESSIONE III

10 Così J. Beauchard nellafiche circa “l’attractivité dela façade atlantique” inclusanel dossier DATAR su Pro-spectives et territoires(DATAR, 1994).

11 La rilevanza assunta daldiscorso sull’arco atlanticosembra confermare in parti-colare molte delle perples-sità già sollevate qualcheanno fa da Béatrice Giblin-Delvallet (1995, pp. 22-38).

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me se ne incontrano tanti nell’orizzonte degliesercizi programmatori, ma soprattutto privodi ogni plausibile appiglio alla lettura del terri-torio locale (Regione Basilicata, 1975). L’indi-zio più sconfortante di questa incapacità dirappresentarsi un territorio ai fini dell’azioneviene dalla cartografia d’insieme allegata al do-cumento. La carta dell’utilizzo del suolo è solouna cattiva ripresa fotografica della bella rile-vazione effettuata quasi 20 anni prima dal CNR

(fig. 8 a p. 206); ed è questa che fa poi ancorada riferimento principale a una schematica car-ta delle suscettività agricole (fig. 9 a p. 207). Inambedue appaiono – tra l’altro – in buona mo-stra varie centinaia di ettari a bosco in corri-spondenza della foce del Sinni. Peccato chequesta presenza forestale fosse reale solo alladata della rilevazione di terreno del CNR, mache poi da molti anni la riforma agraria avessecompletato il taglio di quel bosco, riducendo-lo a un’estensione di appena quattro ettari!

Viene fatto di pensare che il territorio sia quievaporato non tanto per la sciatteria posta nel-la stesura del “corredo” cartografico, quantoperché l’assenza di una reale sostanza strategi-ca del programmi esposti non richiede che siconiughino e si “vedano” le azioni insieme conil loro territorio di esercizio. La carta, in so-stanza, non è falsa perché il bosco è stato datempo tagliato, ma perché il piano che illustraè vuoto.

Forse ancor più lampante è il caso di undocumento allestito una decina di anni fa –dunque quando già la “banana blu” e i “co-remi” di Reclus si accingevano a dettar legge– per enunciare le ipotesi di sviluppo per laCampania (Regione Campania, 1990). Que-sto studio, che peraltro la Regione nella suaprolungata atarassia non ha poi adottato, noncontiene carte, sceglie invece la strada di “rac-contare” il territorio. Consente, dunque, diesplorare un po’ il versante della descrizionegeografica: che non è meno disseminato di in-dizi. Perché anche in questa circostanza siscopre rapidamente la natura accessoria di ta-le descrizione: non vi è alcuna interpretazio-ne strategica del territorio, questo funge damero fondale turistico12. “I Campi Flegrei –si legge tra l’altro – culminano con l’altura deiCamaldoli, a 459 metri, e i maggiori craterisono quelli degli Astroni, del Monte Barbaro,

di Agnano, della Solfatara. L’apparato vulca-nico, in connessione con l’isola di Procida,Ischia e Vivara, si estende nel mare, generan-do una costa variamente accidentata. Su unpromontorio tufaceo proteso nell’omonimoGolfo, a 28 metri sul livello del mare, è ubica-to il nucleo antico di Pozzuoli [...]” (RegioneCampania, 1990, p. 113).

E via di questo passo nell’inquadramento diuna sezione titolata “Aspetti territoriali delpiano”. Fino a involontarie forzature della na-tura: “Con ampia svolta il Volturno, ricevutoil Calore, circoscrive il Massiccio del Matese,per risalirne le pendici” (Regione Campania,1990, p. 117).

Il discorso territoriale in questa circostanzaè privo di qualsiasi senso che non sia una tritaed episodica lettura dell’esistente. Anche l’in-dicazione di “direttrici” di sviluppo, nel suodisarticolato proliferare, non ha nulla di cre-dibile, nulla che conferisca comunque pienez-za al significato di questa espressione.

Bisogna riconoscere che negli ultimi tempi idocumenti prodotti nelle regioni meridionaliper progettare le linee di sviluppo – là doveesistano – sono indubbiamente migliorati: cer-tamente pregevoli, per esempio, per respiro eper capacità d’inquadramento territoriale, so-no quelli allestiti dalla Regione Basilicata13.Ma una recente indagine assai opportunamen-te promossa dalla Fondazione Agnelli mostraquanto la capacità di elaborare una visionestrategica del territorio resti tuttora carentepresso gran parte dei ceti dirigenti del Mezzo-giorno (Viganoni, 1999). La carta che sintetiz-za i loro punti di vista circa assi, aree forti etrame di riferimento esibisce, specie in alcuneregioni, una singolare frammentarietà, checerto in buona parte corrisponde al reale in-capsulamento di molti spazi meridionali, maper il resto è prodotto di agenti in genere in-capaci di forzare i propri tradizionali orizzon-ti di riferimento (fig. 10 a p. 208).

Non è un caso che in questa circostanza sidisegnino maggiori elementi di consapevolez-za strategica in ordine all’uso del territorioproprio negli operatori di alcune regioni chetendono più incisivamente a staccarsi dal pa-norama del Sud, come appunto la Basilicata,o l’Abruzzo e il Molise, e che emerga dall’in-sieme una sola direttrice territoriale di qual-

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12 Ripercorro qui alcunedelle argomentazioni da megià sviluppate (Coppola,1992, pp. 115-44).

13 Per esempio, Regione Ba-silicata (1994); e sui pro-gressi complessivi di questospecifico attore regionale al-cuni dei contributi raccoltida L. Viganoni (1997).

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che evidenza e respiro, tra Napoli e Candela.Quest’ultimo riferimento, oltre a ribadire unavecchia aspirazione dei meridionalisti di Pu-glia e di Campania alla confluenza d’interessitra i due capoluoghi regionali, tende a confe-rire senso e compiutezza ad un allineamentofinora emerso in modo assai frammentariograzie a una serie d’investimenti industriali,soprattutto dopo il terremoto del 1980, e pri-ma ancora nell’embrionale disegno di alcuniesponenti del ceto politico irpino. Il fatto chetale disegno si sia espresso talora in formeclientelari e distorte non altera la sua preveg-genza, tanto più se si pensa che questi attorihanno spesso fatto del consenso plebiscitariodel ridotto irpino e della valorizzazione di que-sto suo ruolo di passaggio tra il versante tirre-nico e quello adriatico la base per affermazio-ni politiche di livello nazionale, imponendo –nel bene e nel male – un salto di scala alla let-tura di questa potenziale sutura14.

Il nodo del passaggio di scala verso l’alto ètutt’altro che irrilevante, specie oggi che la vi-sione d’insieme del Mezzogiorno come siste-ma territoriale debole tende a frammentarsiper l’abbandono degli strumenti unitari d’in-tervento e per l’emergere di alcuni distrettimeridionali più dinamici che rivendicano, piùo meno a buon diritto, l’accesso alla vasta ana-grafe dei localismi italiani. Anche se in vari do-cumenti di matrice governativa emergonoprospettive di respiro interregionale, comequel “corridoio ionico” concepito nel pianodei trasporti per la piena valorizzazione delloscalo di Gioia Tauro, sembra sempre più diffi-cile, in queste condizioni, dare alle figure e aidiscorsi geografici capacità di cucire le diffe-renti porzioni del territorio meridionale. Sot-to questo profilo, anche il rinnovato accentosugli istituti regionali, stante la modestia di ri-flessione sulla sostanza dei loro perimetri e deiloro contenuti territoriali, non giova alla ri-composizione dello sguardo.

Eppure ciò che sarebbe indispensabile alSud, anche per rafforzare il potenziale dellesingole porzioni emergenti verso l’orizzontevirtuoso dello sviluppo, è proprio una reinter-pretazione d’insieme, capace di scandirne ipunti di forza, le connessioni, i fronti di aper-tura. E capace anche di collegarli in modo ef-ficace con gli spazi intorno: lo stesso embrio-

ne di direttrice “forte” tra Napoli e Candelaha un senso limitato – e una relativa capacitàdi attrazione per gli investimenti – se non vie-ne prolungato fino a inglobare le spondeorientali del Mediterraneo e, sulle orme del-l’antico tracciato dell’Egnatia, il corridoio ter-restre che attraversa la Grecia fino a Salonic-co e a Costantinopoli per proiettarsi poi versoil Vicino Oriente e le rive del Mar Nero. Nona caso questa è la direttrice sovranazionale cheil rapporto sul Mediterraneo centrale stesoper “Europa 2000” tenta appunto d’inventar-si per conferire almeno un minimo di coeren-za e di valenza progettuale all’accostamentocasuale di marginalità disegnato dai cartogra-fi di Montpellier e di Bruxelles, come mostra-to nella figura 11 a pagina 209 (EuropeanCommission, 1995; P. Coppola, R. Sommella,1996, pp. 519-36).

Scale di lettura, scale di governo

Le esperienze qui sondate, tanto alla scalacomunitaria quanto a quella dell’Italia meri-dionale paiono confermare come la disponi-bilità di buoni cartografi – e quella di buonigeografi – non abbia perso le valenze che ave-va notoriamente espresso alla corte del re diPrussia. È pur vero che le formule di matura-zione e quelle di comunicazione dei discorsigeografici tendono oggi a modificarsi profon-damente in rapporto con lo sviluppo delle tec-niche e dei linguaggi e con le trasformazioniin senso democratico della società e del pote-re. Però ora, forse ancor più che nel passato,la conoscenza approfondita del territorio de-ve farsi linguaggio pervasivo ed efficace sevuole conseguire l’attuazione di un consape-vole disegno di cambiamento e di governo.

Sotto questo profilo sembra peraltro che l’e-lemento di fondo attraverso il quale la rappre-sentazione si aggancia alla possibilità di me-glio apprendere/reggere il territorio non stiatanto nell’affinamento della strumentazionemetodologica che accompagna l’evolvere del-l’universo delle scienze sociali. Un tale affina-mento è certamente indispensabile e – a se-conda delle circostanze e degli obiettivi – siale formule della descrizione fisica che gli ap-procci qualitativi o quantitativi, oppure le teo-

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14 Si rinvia in merito ad alcu-ne delle notazioni contenutenel saggio di C. Mattina(1998, pp. 107-24).

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rie esplicative di cui oggi si dispone, magariopportunamente miscelati, prospettano unaloro differente utilità e un relativo diritto dicittadinanza nell’orizzonte del discorso geo-grafico. Quel che appare davvero decisivo,però, è l’adozione di metriche di riflessione,di rappresentazione e di sintesi in sintonia coni tempi del sociale.

Se l’arte di fondo del geografo risiede nel-l’orientarsi in un labirinto sempre più nutritodi transcalarità, o – se si preferisce – nel domi-nare una spazialità differenziale sempre piùcomplessa, la capacità d’individuare la scalagiusta per modellare il nocciolo duro e coin-volgente dei progetti (e delle relative rappre-sentazioni) è la vera chiave di volta che rendepraticabile ed efficace, nella fruizione e nell’a-zione sociali, il suo discorso.

In questa prospettiva, la capacità di elabo-rare rappresentazioni “corematiche” comequelle disegnate dal gruppo Reclus non si ri-vela vincente solo perché esibita attraversouna grafica talora raffinata e suasiva, che purene rappresenta un momento qualificante. An-cor meno questo approccio si afferma per lasua frustrante pretesa di costringere la com-plessità del territorio e della sua mutevole sto-ria nell’astrattezza di un numero limitato di se-gni destinati a tradurre forme elementari diorganizzazione spaziale15. Ci pare, invece, chesia la capacità di privilegiare le sintesi alla sca-la intermedia (cioè a quel livello che sopravan-za il locale ma che talora riesce a scavalcare an-che la dimensione nazionale) la vera forza diqueste rappresentazioni, anche quando la lo-ro sostanza resti assai dubbia. È il tentativo,pur discutibile nei fondamenti scientifici, diriassumere per schemi i quadri regionali chepone questo modo d’intendere la geografia insintonia con le pulsioni in atto nell’UnioneEuropea, sempre più impregnate proprio diuna metrica regionale e interregionale, e ne faagevolmente una specie di laboratorio delleimmagini “ufficiali” (e delle filosofie di azio-ne) dei decisori comunitari.

Insomma, il discorso travalica la supposta“sostanza” delle rappresentazioni geografi-che e cartografiche per portarsi sulla loro fi-nalizzazione, chiamando pesantemente incausa il contesto sociale e le dinamiche politi-che ed economiche dentro le quali la cono-

scenza del territorio si produce. Il che nonmanca, naturalmente, di rendere ancor piùpesante la responsabilità dei produttori di di-scorso geografico16.

Se le formule più o meno povere o fantasio-se che “abbracciano” le regioni d’Europa ecercano di darne un’interpretazione finalizza-ta trovano così larga udienza e finiscono talo-ra per inverarsi di là del loro stesso fondamen-to è perché dietro di loro risiede l’elaborazio-ne e la crescita di una società “media” euro-pea che fornisce il sostentamento quotidianoe i vettori motivazionali alle reti di questa sca-la regionale trionfante: una società, insomma,che di dorsali, archi e reti fa la sua mobile al-ternativa alle gelide frontiere partorite dall’oc-chio geopolitico degli stati17.

E se nel Mezzogiorno – e per tanti versi nel-l’intera Italia – le regioni restano per lo più ma-lamente servite dalla conoscenza geografica etanto vagamente rappresentate è forse perché,al fondo, manca proprio quel fitto tessuto dimedietà e di reti sociali da cui si alimentanooggi una classe dirigente e un impalco territo-riale. Manca cioè un insieme coeso di attori so-ciali che abbia voluto imprimere nerbo strate-gico a tale conoscenza e – prima ancora – ab-bia saputo acquisire piena consapevolezza geo-politica del proprio territorio, trasformadolain reale prassi di governo18. Sicché, forse, de-dicarsi ora a costruire una plausibile geografiaregionale del Mezzogiorno (e dell’Italia), conle sue proiezioni europee e mediterranee, cheai cattivanti grafemi di Reclus sappia accostareuna pratica argomentativa adeguata alla ric-chezza di densità storica del territorio italiano(un disegno che verrebbe fatto di definire di“geografia regionale attiva”), potrebbe esseremomento non secondario di un nuovo mododi governare il territorio: un modo che segnil’emergere di ceti dirigenti più consapevoli, ca-paci di reggere la sfida europea non solo in ma-teria di contabilità e di tagli di bilancio.

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RAPPRESENTARE E REGGERE: LE REGIONI NEGATE 83

15 Si possono ricordare quile critiche proposte alla “co-rematica” da G. Dematteis(1995, pp. 20-22); si vedaanche il numero 76 di “Hé-rodote” polemicamente ti-tolato Les géographes, lascience et l’illusion (AA.VV.,1995b).

16 Assai opportunamenteBéatrice Giblin-Delvallet ri-corda ai cultori della “core-matica” le notazioni di unex direttore della DATAR, se-condo il quale “bisognaaver ben presente fino a chepunto gli scienziati, inquanto produttori di ogget-ti del pensiero, sono di fattoessi stessi responsabili o, co-munque, da responsabiliz-zare nei confronti delle rap-presentazioni che contribui-scono a fondare” (Giblin-Delvallet, 1995, p. 34).

17 Su questa dinamica si sof-fermano ora le affascinantiriflessioni del saggio già ci-tato di Jacques Levy (1999).

18 Su questa incapacità riba-dita a più riprese nella sto-ria dell’Italia unitaria siaconsentito di rinviare a P.Coppola, G. Lusso (1997,pp. 233-77).

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PARTE PRIMA - SESSIONE III84

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85

II progetto e il suo pubblico

A proposito del progetto di esposizione nazionale svizzera del 2001

Ola Söderström

Inizialmente avevo previsto di offrire qualche considerazione, riflesso di uno studio in prepa-razione sul visivo nel settore dell’urbanistica (Söderström, 2000). Allo stesso tempo, tuttavia,sono impegnato da più di due anni su un progetto nel quadro dell’esposizione nazionale svizze-ra Expo.02. Questa esposizione è diventata una sorta di telenovela, con i suoi drammi finanzia-ri e le sue eroine tradite. Ora, il rapporto tra rappresentazione e progetto si trova al centro diquesto affare singolare. In questo contesto, mi è parso difficile non parlarvene. Ho quindi scel-to trattare il tema di questo colloquio in modo molto prosaico, cercando di fare un’analisi a cal-do di alcuni tra gli avvenimenti che si sono verificati nell’ambito dello sviluppo di questa esposi-zione e che sembravano interessanti per il dibattito.

Mi occuperò in modo più preciso della questione delle mediazioni tra un progetto e il suopubblico. Focalizzerò il mio discorso sulle politiche di rappresentazione sviluppate dai vari at-tori di questa telenovela: il mondo politico svizzero, i media e la direzione dell’esposizione.

In questa mia analisi cercherò di identificare le relazioni tra diverse strategie di rappresenta-zione, vale a dire i linguaggi comuni o le procedure comuni. Trarrò come conclusione una pro-posta teorico-metodologica.

Esporre la Svizzera

Si tratta innanzi tutto di fornire qualche elemento di contesto rispetto a questa strana tradi-zione elvetica che è l’organizzazione di esposizioni nazionali.

La prima esposizione nazionale svizzera si tenne a Zurigo nel 1883. Da allora è stata organiz-zata un’esposizione ogni 25 anni in media. Expo.02 è la sesta.

Le esposizioni nazionali sono nate come esposizioni generaliste. Si tratta, da un lato, di una fieracampionaria industriale e commerciale: una vetrina e una celebrazione del commercio (Pred,1995). D’altro canto si tratta anche di una festa patriottica che esalta l’unità e i valori della nazione.

Nel corso del tempo, l’interesse dell’economia privata per questo tipo di manifestazione si èaffievolito. Anche il fervore politico è tendenzialmente in declino1. Le ragioni primarie per or-ganizzare questo genere di manifestazioni pubbliche sono ovviamente e progressivamente scom-parse. Sotto questo punto di vista, Expo.02 costituisce una bizzarria, un arcaismo. Ma poiché laSvizzera è una paese di inerzia la Confederazione ha inteso perpetuare questa tradizione e hasviluppato una nuova legittimazione per organizzare l’esposizione nazionale. Si tratta di un’e-sposizione di tipo culturale e artistico essenzialmente, che rafforza una tendenza già osservata aLosanna nel 1964, in occasione della precedente edizione. L’idea è quindi che la Svizzera nel

1 Ciò non ipedisce sussultinazionalisti periodici, legatiprincipalmente all’agendaelettorale elvetica.

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2002 offra una vasta esperienza artistica e allostesso tempo, una riflessione sull’identità na-zionale alle soglie del terzo millennio.

Altri segni del tempo: • questa esposizione è decentralizzata poiché

organizzata in quattro siti nella regione deitre laghi invece di essere ospitata, come ac-cadeva in passato, da una sola città;

• l’impegno dello stato è molto ridotto con uninvestimento pubblico del 15% soltanto, eun budget totale di 1,6 miliardi di franchisvizzeri.Estremamente controverso, questo proget-

to, battezzato inizialmente “Expo.01” e previ-sto per il 2001, è stato rinominato e rimandatodi un anno. La controversia è legata al fattoche la sua organizzazione è stata molto caoti-ca: si sono verificate molte successioni dei di-rettori in carica e le ipotesi di partenza si sonorivelate false ipotesi. Gli organizzatori, peresempio, puntavano sull’85% dei fondi priva-ti, benché la cultura del mecenatismo sia pocosviluppata nell’economia svizzera.

I numerosi soprassalti che hanno caratteriz-zato l’organizzazione di Expo.02 hanno crea-to moltissime chiacchere inutili intorno allatenuta o meno di questa esposizione. Ora, glistorici e i sociologi ci hanno insegnato che lecontroversie producono oggetti di riflessionee di studio molto interessanti. In effetti rendo-no più visibili o più leggibili le strategie degliattori e le interazioni.

È quindi su questa controversia che intendocentrare la mia analisi. Considererò, a questoscopo, un periodo breve: tra aprile e ottobre1999. Per iniziare vi parlerò delle mediazionielaborate dal mondo politico, in seguito dellemediazioni elaborate dai media e infine de-scriverò le rappresentazioni visive del proget-to diffuse dai suoi promotori.

Tre mondi, tre mediazioni

Primo mondo, il mondo politico. Ciò chetutti gli osservatori delle disavventure di Expo.02 hanno notato sono i non-investi-menti, ovvero il disinvestimento dal progettoda parte dello stato: non-investimento per-ché abbiamo già accennato allo scarso inve-stimento con finanziamenti pubblici e la de-

lega da parte dello stato del progetto e dellarealizzazione dell’esposizione ad un’associa-zione privata, creata ad hoc: disinvestimentoin quanto, in un momento di crisi, lo statonon ha voluto veramente soccorrere il pro-getto e neppure deciderne l’avvenire. Il Con-siglio federale ha preferito commissionareuna revisione ad un’azienda svizzera di con-trolling nel mese di agosto 1999, benché fos-sero già stati realizzati numerosi controlli.Questa impresa specializzata realizzava unrapporto il mese successivo. Ancor prima dipronunciarsi, e ancor prima che il rapportofosse stato redatto, lo stato lo aveva investitodi un ruolo decisivo. Questo rapporto, infat-ti, doveva approvare oppure disapprovare larealizzazione dell’esposizione e in caso affer-mativo doveva precisarne le condizioni. LaConfederazione, in seguito, si è pronunciatasul progetto all’inizio del mese di ottobre1999, riprendendo ampiamente le conclusio-ni di questo rapporto.

La mediazione principale, stabilita tra l’e-sposizione e il suo pubblico dal mondo politi-co, è stata quindi la perizia tecnica (expertise).È a questa che è stato delegato il potere di rap-presentare l’esposizione. Ciò che mi interessain questo caso non è attirare la vostra atten-zione su una tendenza generale della politicaad affidarsi alla perizia tecnica, ma semplice-mente l’utilizzo di ciò che si potrebbe definire“un terzo enunciatore”, la scelta di un porta-voce che permette di oggettivare la decisionepolitica.

Questo terzo enunciatore lo si ritrova ugual-mente, d’altra parte, in particolare nella co-struzione mediatica dell’opinione pubblica. Èil secondo punto che vorrei trattare in quest’a-nalisi della recente controversia sull’Expo.02.

La stampa ha giocato un ruolo molto attivo,nella formazione dell’opinione pubblica suquesta esposizione. L’opinione pubblica si èdelineata, ovvero costruita, come direbbero isociologi dei media, attraverso gli editoriali, icommenti a volte positivi altre negativi, mamolto spesso molto critici, rispetto all’orga-nizzazione e al contenuto dell’esposizione.

La “Tribuna di Ginevra”, ad esempio, rea-lizzava una prima pagina con il titolo “Aiutia-mo l’Expo a morire, l’eutanasia dell’expo”.Non si potrebbe essere più chiari...

PARTE PRIMA - SESSIONE III86

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Questi commenti costituiscono una partedella rappresentazione mediatica del proget-to: sono discorsi in prima persona...

Ciò che mi pare più interessante sono i di-scorsi in terza persona di questi portavoce dicui parlavo a proposito della politica. In altreparole, ciò che permette di dire ciò che non sivuole dire direttamente e che ha tutto l’aspet-to di un atteggiamento disimpegnato.

In questo caso abbiamo potuto osservaredue procedure. La prima è la creazione di ma-cro attori, personalità collettive. Le figure 2a e2b a pagina 211 illustrano, tra le altre, due traqueste personalità collettive.

Inutile dirvi che questi due macroattori so-no fiction narrative. La regione dei tre laghicorrisponde in realtà a telefonate fatte dall’au-tore dell’articolo a personalità del mondo eco-nomico e politico della regione. A partire daquesto si fa entrare in scena un nuovo attoredella telenovela Expo.02. In questo caso ve-diamo agire una figura classica della retoricageografica: i geografi creano volentieri, perlo-meno a partire da Vidal de La Blache, questipersonaggi territoriali investiti di responsabi-lità su progetti, qualità, ecc.

L’esempio relativo agli ambienti culturali èun po’ diverso. La delega dell’opinione passain questo caso attraverso i portavoce. Per crea-re questi macroattori degli ambienti “cultura-li” sono stati scelti personaggi per lo più esclu-si oppure molto estranei al progetto, ovveroautori di progetti concorrenti del progetto at-tuale come Mario Botta. Gli artisti, architetti,intellettuali direttamente coinvolti nel proget-to sono stati esclusi dalla selezione.

Ci si trova in questo caso sul versante di unaretorica utilizzata dall’antropologia e moltoben analizzata dallo storico delle idee JamesClifford (1998).

Clifford ha dimostrato come un antropolo-go Evans-Pritchard generalizzi a partire daqualche osservazione relativa ai Nuers, per di-re che “i Nuers pensano che...” oppure “nellacultura Nuer...”. In altre parole come, in ge-nerale, l’anedottica permetta di elaborare undiscorso antropologico.

Queste procedure di delega, questa sceltadi portavoce sono a loro volta strumenti di og-gettivazione, della rappresentazione, prodot-ta in questo caso dai media. Hanno contribui-

to a costruire potenti legami, essenzialmentenegativi, tra il progetto e il suo pubblico, equesto tanto più che gli organizzatori di Ex-po.02 hanno avuto molte difficoltà a creare iloro propri canali di comunicazione del pro-getto.

Allora, passiamo precisamente alle media-zioni elaborate dalla direzione dell’esposizio-ne. Sicuramente sono molto numerose: sonostati fatti molti discorsi, sono stati pubblicatimolti testi, sono state prodotte molte immagi-ni. Vorrei fermarmi su qualche immagine par-ticolare perché queste sono state (e sono an-cora) mediazioni centrali per gli organizzatoridell’esposizione (fig. 3 a p. 212).

Si tratta di modelli di studio prodotti nel1997. Uno studio svizzero era stato incarica-to di dare forma a ciascun sito espositivo (learteplages). In circa due anni queste immagi-ni sono riuscite ad attirare lo sguardo delpubblico. Hanno avuto un ruolo centrale dirappresentazione del progetto, emblemi diExpo.02. È stato realizzato un grande scher-mo dietro il quale si poteva lavorare. Le imma-gini hanno permesso di soddisfare la famosa“impazienza figurativa” che caratterizza il no-stro rapporto contemporaneo con il progetto,che sia artistico, architettonico o urbanistico.

Queste immagini del progetto in realtà, comevedremo, non hanno avuto questa funzione,cioè quella di portavoce temporaneo del pro-getto. Non hanno una funzione referenziale.

Alla fine del 1998 in effetti, la direzione diExpo.02 ha lanciato un concorso su invito peri vari siti. Nel marzo del 1999 sono stati pre-sentati alla stampa i vincitori.

Da allora è stato possibile gettare le primerappresentazioni visive dei siti alle ortiche. Inqualche modo è stata respinta la scala (le pri-me immagini dei siti) che aveva permesso alprogetto Expo di accedere ad un livello direaltà necessario, nell’opinione pubblica, perpoter utilizzare nuove icone, nuovi portavoce.Questo è uno dei rari episodi di successo nellapolitica di comunicazione della direzione delprogetto. Il paradosso quindi è che i primi mo-delli non hanno prefigurato una realtà presen-te e neppure una realtà futura, e tuttavia l’ef-fetto di prodotto reale, trasferito da queste im-magini del progetto, ha giocato perfettamenteil suo ruolo.

IL PROGETTO E IL SUO PUBBLICO 87

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PARTE PRIMA - SESSIONE III88

Un’economia della rappresentazione

Con queste immagini del progetto abbiamoattraversato le varie mediazioni, tra l’esposi-zione e il suo pubblico, elaborate da mondi di-versi, coinvolti in un affare divenuto estrema-mente controverso.

Nel descrivere queste mediazioni abbiamoosservato che rappresentare è sempre creareportavoce, elaborare un terzo enunciatore, de-signare un delegato. In tutte queste strategiedi rappresentazione si trova la stessa procedu-ra. In altre parole, come hanno dimostrato an-che altri autori negli ultimi anni, questo stu-dio rapido del caso dimostra che le rappresen-tazioni sono allo stesso tempo rappresentanti(nel senso politico del termine)2.

Dunque, qual è la morale di quest’analisi acaldo? Ci può aiutare a capire e analizzare lerelazioni tra rappresentazione e progetto (iltema della conferenza)? Ci aiuta forse a preci-sare prima di ogni altra cosa il campo di ricer-ca che dobbiamo considerare. Credo che di-mostri che quando si intende capire queste re-lazioni è necessario descrivere tutta un’econo-mia della rappresentazione. Ciò significa de-scrivere il gioco che si stabilisce tra tutte que-ste mediazioni – la perizia tecnica, le immagi-ni del progetto, la parola delle persone “auto-rizzate”, ecc. – piuttosto che fermarsi ad unasola di queste.

Dal punto di vista del metodo, penso chequest’analisi dimostri che si tratta di disfarsidi un’interpretazione che mette piattamentedi fronte un progetto (che costituirebbe il re-ferente) e la sua rappresentazione. Abbiamobisogno di altro che non sia semiotica ele-mentare. Abbiamo visto, con il caso dellerappresentazioni visive del progetto Ex-po.02, che il ruolo delle prime immagini delmodello in scala non è legato alla loro qualitàdi “rappresentazione-riferimento”, per ri-prendere il termine di Michel Callon3, ma alloro ruolo di legame tra un progetto in corso

e un pubblico che vuole qualcosa di concre-to e palpabile.

Ciò che i nostri linguaggi di analisi devonopermettere di rendere intelleggibili è quindi ladiversità dei legami che stabiliscono le rappre-sentazioni tra gli attori e il pubblico di un pro-getto. È il motivo per cui con questa breve ana-lisi ho mobilitato concetti che derivano da am-biti disciplinari diversi (la sociologia dei me-dia e l’analisi politica nel caso specifico). Be-ninteso, sul mercato delle idee si trovano teo-rie che propongono un linguaggio d’analisicoerente: penso alla teoria della giustificazio-ne (Boltanski, Thévenot, 1989) oppure allateoria dell’attore-rete (Latour, 1990) nella so-ciologia francese, oppure al concetto di “og-getto frontiera” (Leigh Star, Griesemer, 1989)nella storia delle scienze. La mia conferenzanon consiste quindi nel vendervi uno di questilinguaggi, ma piuttosto intende incitarvi a svi-luppare mezzi creativi per rendere conto di ciòche possiamo definire un’economia politicadella rappresentazione.

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3 Si veda la nota 2.

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PARTE SECONDA

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FRANCO SALVATORI Una tavola rotonda dal titolo “Territorio come produttore di conoscenza”ha, nell’economia dei lavori di queste giornate, lo scopo, secondo gli intendimenti dell’orga-nizzazione, anzitutto di raccogliere gli spunti di riflessione, gli argomenti forti e le suggestioniche sono emerse nel corso delle sessioni che ci hanno preceduto e nelle quali si sono articolatii lavori fin qui svolti. Tuttavia ora occorrerà discuterne attraverso la loro riarticolazione; unariarticolazione inversa, che parta cioè dal contributo di conoscenza del territorio, propria delsapere geografico applicato ai problemi imposti dalla odierna società civile e dal sistema dellaproduzione, e che porti a considerare come il territorio stesso sia “produttore di conoscenze”. Tutti i relatori presenti sono portatori di una specificità di conoscenza del territorio che è pro-prio dell’ambito disciplinare di appartenenza. Ma, almeno in parte, sono anche portatori diesperienze assai significative di gestione di risorse territoriali. Ciò permetterà di poter unireesperienze di speculazione e di operatività, considerando il “territorio” come oggetto ma an-che come soggetto. Ci sono dunque tutte le premesse per apportare quel contributo di sintesiche è nelle aspettative di questa tavola rotonda e che toccherà cogliere a Giuseppe Dematteis. Mi pare di avere colto nelle sessioni che ci hanno preceduto almeno due questioni ricorrenti,che costituiscono altrettante emergenze sulle quali forse varrà la pena di discutere: in primoluogo, la persistente concretezza di luoghi-territorio, a fronte di processi di portata spazio-temporale assai vasti, che apparentemente starebbero conducendo alla loro negazione; in se-condo luogo, la necessità che, in conseguenza di questo, la geografia concentri la sua attenzio-ne sui luoghi-territorio, a fronte di una domanda di conoscenza specifica solo parzialmentesoddisfatta e comunque in rapida espansione.Questi due elementi ricorrenti, più che argomenti forti potrebbero essere considerati provo-cazioni. Sarei grato se qualche riflessione al riguardo potesse essere fatta.

CRISTIANO ANTONELLI Penso che si possa partire con un buon riferimento empirico: la concen-trazione regionale dell’attività innovativa è straordinaria e addirittura crescente. Questo è ildato più rilevante in quanto si assiste ad un sostanziale decremento della concentrazione re-gionale dell’attività manifatturiera ed economica in senso lato. Certo, gli indicatori sono sem-pre discutibili, ma il dato relativo ai brevetti suggerisce che una quota particolarmente elevatadel numero di loro rilasci nel mondo sia localizzata in pochissime aree. E questo è un dato in-teressante che rimanda ad un questione: come mai così tanti brevetti e in così pochi posti delmondo? Come mai questo fenomeno si accentua nel tempo, mentre parallelamente si assiste –a causa della globalizzazione, dell’apertura di commercio internazionale, della crescita dimolti paesi meno avvantaggiati – ad un sostanziale decremento della concentrazione territo-

LA DISCUSSIONE

Il territorio come produttore di conoscenze

Cristiano Antonelli, Arnaldo Bagnasco, Giuseppe Dematteis, Fiorenzo Ferlaino,

Riccardo Roscelli, Franco Salvatori, Gabriele Zanetto

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riale dell’attività manifatturiera e anche del-l’attività dei servizi? Quando c’è concentrazione evidentementec’è qualche meccanismo che favorisce l’ag-glomerazione: in sostanza siamo alla presecon qualche fenomeno che è riconducibilealla categoria dei rendimenti crescenti.Quindi l’evidenza empirica indica l’esisten-za di una forte concentrazione territorialein pochi siti al mondo. Credo che si possadire che con dieci siti, definiti a livello diprovince o contee, o di dipartimenti france-si, si arriva al 60% dei brevetti depositati almondo. E questo è veramente significativo. Se si fanno indagini industriali, se si entranel merito di alcune specifiche industrie, siscopre, con regolarità, che i luoghi in cui siproduce innovazione in ciascuna specificaindustria sono di nuovo pochissimi, tre oquattro al mondo per industria. E questo èun altro fatto empirico. Poi ci sono interessanti fatti teorici. In pri-mo luogo credo che per gli economisti la di-mensione territoriale, che peraltro non hasubito particolari trascuratezze nel corso de-gli anni, sia tornata in auge e abbia addirit-tura assunto una certa rilevanza e centralitàdopo la metà anni ottanta, quando cioè lavariabile territoriale è stata associata alla va-riabile dei rendimenti crescenti e delle eco-nomie di scala. Da allora si nota un forte in-teresse da parte degli economisti nei con-fronti della distribuzione territoriale delleattività economiche e, più in particolare,dell’analisi della distribuzione territorialedell’attività innovativa. Qual è il nesso interessante e il punto checonsente di tenere insieme questi elementi?L’analisi economica (di ispirazione neoclas-sica che è di gran lunga quella dominante)ha difficoltà a trattare il fenomeno dei ren-dimenti crescenti. Si creano convessità, gliequilibri non sono più configurabili e si de-ve rinunciare a troppo per accettare i rendi-menti crescenti. Il risultato è che questi ven-gono accantonati. Se però si formulano ipo-tesi che consentono di circoscrivere il feno-meno dei rendimenti crescenti questi ultimitornano compatibili e integrabili nello sche-ma analitico. Penso che questo sia lo snodo.Ossia, ogni qual volta gli economisti riesco-

no a inventarsi una plausibile logica che cir-coscrive i rendimenti crescenti essi sono dinuovo, per così dire, accettabili. Sulla base di tale affermazione metodologi-ca io credo che si possa dire che fatti e teoriein questi anni convergono perché la sensa-zione, la letteratura, l’interesse in circolazio-ne gravitano verso la seguente proposizione:ci sono significativi rendimenti crescenti nel-la produzione di conoscenza tecnologica chesono riconducibili alla categoria delle eco-nomie esterne, e sono fortemente circoscrit-ti in aree territoriali molto delimitate. Quin-di, ciò che sta emergendo, secondo me, inletteratura, è lo sviluppo dell’ipotesi dei ren-dimenti crescenti insieme alla presa d’attodell’esistenza di pochi siti in cui si innova.Sostenere che i rendimenti crescenti ci sonoè un’ipotesi che naturalmente poi dovrà es-sere in qualche modo articolata e spiegata, eche viene accettata sotto due condizioni: so-lo nell’attività innovativa e solo in poche re-gioni al mondo. Tutto il resto dell’attivitàeconomica è riconducibile alla regola di ren-dimenti costanti e come tali integrabili in unquadro interpretativo generale. Il favore che gode in questo momento lageografia economica, e in particolare la geo-grafia economica dell’attività innovativa, sispiega proprio con questa particolare com-binazione di elementi. In sostanza, sempre per dare riferimenti daeconomista, ma anche per limitarsi nella ca-tegoria dell’economista, la teoria della cre-scita dominante di questi anni è la cosiddet-ta new growth theory e il suo paladino sichiama Romer. Ebbene, in poche parole,Romer e Krugman hanno trovato nella ri-cerca empirica e teorica, dei geografi in ge-nerale e dei geografi economici in particola-re, un eccellente luogo per verificare e cir-coscrivere. Dunque, l’attività innovativa harendimenti crescenti, ma è fortemente deli-mitata nello spazio. Io personalmente sono interessato a questeelaborazioni teoriche, le trovo accattivanti.Naturalmente hanno molte implicazioni.L’implicazione principale è che essere nelgruppo di testa delle regioni che hanno que-sti particolari caratteri è particolarmente im-pegnativo, poiché:

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• chi è dentro al circuito dei rendimenti cre-scenti ha gli ovvi vantaggi che, aumentandodi dieci gli input, l’output aumenta di dodi-ci, quindici, venti;

• chi sta fuori subisce barriere d’entrata e l’e-sclusione;

• chi sta dentro fa molti profitti, ha occupa-zione qualificata;

• chi sta fuori rischia continuamente di chiu-dere i bilanci in perdita e per essere in attivodeve limitarsi a salari modesti.

Credo addirittura che si potrebbe sostenereche i “McDonald’s job” sono fuori e i lavorida diverse decine di migliaia di dollari al me-se sono tutti dentro. L’economia del lavoroindica che gli spread dei salari ricalcano davicino quelli dell’attività innovativa. Le conseguenze di tutto questo sono nume-rose a livello di politica economica naziona-le e regionale e bisogna innanzi tutto fare iconti col fatto che se i siti al mondo sono po-chi, diciamo dieci o quindici, è abbastanzaimprobabile che tutte le altre regioni riesca-no a entrarci. Quindi una logica di seletti-vità deve esser presa in considerazione. Ciònon vuol dire rinuncia, ma consapevolezzache vale essere molto selettivi per segmentispecifici di conoscenza tecnologica e nonpretendere di ripetere ovunque le miticheSylicon Valley, RU 128 e quant’altro. Due parole ancora per entrare nel meritodelle specifiche cause di rendimenti crescen-ti localizzati. Il problema è combinare duefatti: rendimenti crescenti ma anche localiz-zati. E allora a me sembra che la letteraturaabbia fatto essenzialmente tre passaggi. Un passaggio è tutto imperniato sul concet-to di cumulabilità, che in fondo non è altroche la lettura dell’economista dell’afferma-zione newtoniana per cui “produrre scienzanon è altro che stare sulle spalle dei gigan-ti”. Ma questo vuole dire che dunque la cu-mulazione è incrementale. Nel gergo dell’e-conomista, lo stock di capitale non è depe-ribile e quindi i costi non sono marginali maincrementali, nel senso che se io ho già laconoscenza, i costi addizionali sono bassiperché ho accesso a tutto lo stock. Ciò è alcontrario del capitale fisso fisico che alme-no logicamente deperisce.

Inoltre, se è vero che produrre conoscenzasignifica stare sulle spalle di chi ci precede,vuol dire che io vedo più lontano grazie allespalle di chi è sotto di me. La cumulabilità,punto fondamentale e determinante dellaspiegazione dei rendimenti crescenti, e ilconcetto di costo incrementale, distinto dalcosto marginale, permettono, una volta chemi trovo “lassù”, in alto, sulle spalle diquanti mi hanno preceduto, di vedere, conun piccolo sforzo, ancora più lontano. Equesto è un concetto molto diverso da quel-lo di costo incrementale, di costo margina-le, che tiene conto invece di chi deve farsi,per così dire, di nuovo tutta la piramide diconoscenza. Un’altra considerazione è che i costi incre-mentali, e non marginali, che caratterizzanole attività innovative sono intrinsecamenteaccessibili. Gli stock di conoscenze, inten-do, sono accessibili non tanto all’interno diorganizzazioni, e quindi dentro l’impresa,ma all’esterno. Ecco che prende corpo ilconcetto di economie esterne locali, da nonconfondere con quelle globali. Un’econo-mia esterna globale è tale quando un’infor-mazione scientifica, l’accesso ad uno stockdi conoscenza, una particolare conoscenza,è accessibile in modo indeterminato. In que-sto senso lo spazio, la prossimità, la conti-guità, che non sono soltanto nello spazio re-gionale ma anche nello spazio delle tecni-che, sono irrilevanti. Queste sono le econo-mie esterne globali. Un’autentica scoperta scientifica radicale,ad esempio che la terra è quadrata, piatta eanche ferma, scuoterebbe tutti e tutti avreb-bero accesso a questa conoscenza. Se peròl’informazione non ha questa potenza di-rompente, tale per cui ad essa si associanoeconomie esterne globali, e viceversa puòessere assimilata e conosciuta solo se si è inuno stato di contiguità spaziale e di compe-tenze, allora le economie esterne sono, le de-finisco, locali. Il raggio – a questo punto sipuò anche sostenere che esiste un vero eproprio raggio d’azione – diventa rilevantese connesso alla categoria della comunica-zione e più specificatamente alla categoriadella comunicazione tecnologica. Quali sono i fattori che governano e defini-

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scono il raggio territoriale – sia nello spaziodelle tecniche sia nello spazio regionale –che regola il decadimento della facoltà di re-cepire e assimilare l’informazione? Io possopensare che esista un vero e proprio vettoreche definisce le competenze man mano chesi allontano dal cuore disciplinare, metodo-logico, scientifico della conoscenza. Ed èquesto il piano delle tecniche. Poi ho il pia-no del territorio, dello spazio regionale.Penso che tecniche e territorio siano forte-mente connesse. Chiuderei proponendo una’ultima osserva-zione. Sono passato dai fatti, dalla concen-trazione regionale ad una sorta di rapidissi-mo excursus della teoria economica di que-sti ultimi anni e vorrei ora tornare ad unpunto che per me è di straordinario interes-se: non soltanto c’è forte concentrazione re-gionale nell’attività innovativa, c’è ancheuna fortissima concentrazione dell’attivitàinnovativa nelle tecnologie. Ad ogni mo-mento dato, sempre usando i brevetti, chesono sempre organizzati per classi tecnolo-giche, si vede che essi non sono assoluta-mente equidistribuiti. Per esempio le nuovetecnologie della comunicazione dell’infor-mazione, benché i software non si brevetti-no, accentrano una quota rilevantissima deibrevetti in generale. Questo fenomeno, co-me è abbastanza intuitivo, non è stabile neltempo, per cui 50 anni fa non era così. Allo-ra, non soltanto c’è concentrazione regiona-le dell’attività innovativa ma c’è concentra-zione tecnologica, da non confondere conquella industriale – le imprese meccaniche,ad esempio, fanno innovazione in elettroni-ca, e brevettano in un campo tecnologico,l’elettronica, anche se appartengono all’in-dustria automobilistica. Concentrazione re-gionale e concentrazione tecnologica sonomolto elevate e tendono a coincidere. Forselo spazio delle tecniche e delle competenze,e lo spazio regionale, a loro volta, hanno for-ti elementi di coincidenza.

ARNALDO BAGNASCO Naturalmente anch’io,come implicitamente Antonelli, ho riflettu-to sul titolo che ci veniva proposto per la di-scussione: “Territorio come produttore diconoscenze”. Che cosa fa venire in mente a

un sociologo questo titolo un po’ enigmati-co? In realtà, può voler dire cose diverse. Ioho individuato due sentieri di analisi che sipotrebbero delineare. Il primo interpreta il titolo come la capacitàdi una società locale a produrre conoscen-za: il grado, la quantità, il tipo di conoscen-za che una società locale può produrre. E al-lora, la prima cosa che viene in mente ad unsociologo per dipanare il filo di questa ma-tassa è cominciare per esempio a indicaresullo sfondo la vecchia idea di “comunità”,le vecchie comunità tradizionali e ristrette,senza tempo. In realtà sappiamo che questosfondo non è veritiero, il concetto di “co-munità” si presta abbastanza male, come cidicono oggi gli antropologi, a interpretarele società del passato. Abbiamo tuttaviamolti esempi nel passato di società ristrette,isolate, che producevano poca conoscenzanuova, che riproducevano e a loro volta tra-smettevano una cultura tramandata ed ere-ditata, senza modificarla, una cultura tuttad’un pezzo, fortemente integrata. Se sullo sfondo c’è questa immagine noi sap-piamo che il processo di modernizzazione èandato proprio in una direzione che spezza-va le comunità locali e le ricomponeva inquadri più ampi. La seconda immagine che viene in mente aun sociologo è una famosa tipologia di Redfield e Singer i quali distinguevano lecittà “ortogenetiche” e le città “eterogene-tiche”. Le città ortogenetiche sono proprio quelleche partivano da una cultura tradizionale,depositata e, sviluppando la matrice origi-naria, davano luogo a una grande tradizionecon templi, produzioni artistiche, palazzi,scuole di pensiero. Poi le città sono diventate più o meno tuttecittà “eterogenetiche”, ossia città che com-binano tradizioni diverse, sensibili a con-fluenze culturali dovute a migrazioni, com-merci, vicende politiche. In questo modo so-no diventate società locali complesse, cheproducono in continuazione novità, non ri-conducibili ad un’unica matrice. Questa èdi fatto la strada delle città moderne. Se tutte le città moderne sono città eteroge-netiche nel senso che ho espresso di “società

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complesse”, differenziate, è chiaro che po-tremmo distinguere ancora oggi, se noi ri-flettessimo secondo questa linea di pensie-ro, tra città semplici, troppo semplici e città,viceversa, che facilitano nuove sintesi cultu-rali, vale a dire città adattive per il modo incui sono organizzate e congegnate. Le prime sono rigide, possono crescere an-che con molta forza sull’onda, ad esempio,di una specifica forma industriale di produ-zione che è tipica di un’epoca. Ma quandoquesta subisce una svolta importante e radi-cale, una città ortogenetica, proprio perchécresciuta soltanto sulla propria matrice, sitrova a mal partito. Le vecchie città indu-striali alla fine del fordismo possono essereinterpretate proprio in questi termini. D’altro canto la città, la vera città, da sem-pre la pensiamo come luogo dove sono pos-sibili nuove sintesi culturali, al limite fruttoanche del caso, che non interessano soltan-to l’economia ma i modi di vita, le relazioniinterpersonali, i movimenti culturali, lacreazione di nuove forme di interazione.Tutto questo possiamo immaginarlo sottol’etichetta “conoscenza”. Una conoscenzache va intesa al di là anche di quella specifi-camente scientifica, tecnologica, e delle ap-plicazioni economiche di queste, che espri-mono tuttavia una dimensione fondamenta-le di questo processo. Ecco, se noi percor-ressimo questo sentiero, esso ci porterebbea considerare come un territorio possa en-trare nel gioco della produzione di cono-scenza. E quindi entrano in causa i tipi diconoscenza, i soggetti produttori di cono-scenza, le forme organizzative della produ-zione di conoscenza, il governo di questiprocessi e naturalmente, sempre guardandoall’armamentario dei lavori dei miei colle-ghi, credo che potremmo, per questa stra-da, incontrare una quantità di problemimolto interessanti. Ad esempio, oggi sappiamo che l’economiaè diventata molto veloce, molto attenta a ri-torni degli investimenti quanto più possibilirapidi. Tutto questo implica un rapportodifficile con quel tipo di conoscenze che vi-ceversa sono a produzione lenta, ivi com-presa la ricerca scientifica e la ricerca tecno-logica. Ecco per esempio un interessante

problema implicito nelle cose che dicevaAntonelli. Un altro esempio è che la stessavelocizzazione dell’economia implica un’at-tenzione diminuita alle conseguenze indi-rette di una scelta economica razionale: unaminore attenzione alle condizioni di sicurez-za nella gestione dei servizi, con le conse-guenze che vediamo ogni giorno, ma più ingenerale una minore attenzione a conoscen-ze, a problemi e a vincoli di tipo ecologico,se questi non riescono ad essere opportuna-mente trasformati in investimenti economi-ci specifici. Ecco allora emergere il tema delle società lo-cali che per la loro conformazione culturale,storica, economica, organizzativa, riesconoad allargare o meno lo spettro delle variabilie delle dimensioni che sono messe in contonel loro sviluppo: le dimensioni ecologiche,quelle culturali. È un filo di riflessione chenuovamente appartiene al sentiero che stia-mo percorrendo in questo momento. A questo punto incrociamo però il secondosentiero, che in parte è collegato al primo. Ilmodo di intendere la frase “territorio comeproduttore di conoscenze” potrebbe essere:osservando il territorio oggi si vedono cosedi particolare interesse per l’analisi sociolo-gica, oltre che per l’analisi economica, comeci veniva mostrato un momento fa. Io sonoquindi d’accordo non soltanto con Antonel-li ma con tutti quelli che sostengono che og-gi si vedono cose importanti studiando l’or-ganizzazione sociale o economica in spazispecifici. Allora la domanda evidentementepotrebbe essere: perché diventa importan-te, o ridiventa importante, l’analisi territo-riale oggi? Si tratta probabilmente dell’altra faccia delprocesso di globalizzazione: il processo diglobalizzazione implica un parallelo proces-so di regionalizzazione. Questo problemaforse è emerso per la prima volta in terminiculturali, di fronte agli smarrimenti, agli ef-fetti di straniamento che la condizione diuna cultura sempre più aperta portava allepersone: la riscoperta delle piccole patrie,dei luoghi limitati, delle culture tradizionalia cui agganciarsi per motivi di identità e disicurezza. Questa è una dimensione certa-mente importante, ma lo stesso processo si

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è verificato in senso economico e anche a li-vello politico. A livello politico oggi possiamo dire che lecittà o le regioni stanno ridiventando attoriimportanti sulle scene nazionali e interna-zionali proprio in quanto tali, in quanto li-vello di governo dei processi. Le città, le re-gioni, in quanto società locali ridiventanoimportanti. Dal punto di vista politico que-sta è una vecchia verità per i sociologi, giàsottolineata da Max Weber: quando i poterisuperiori diventano confusi, incerti, e que-sto è naturalmente il caso della globalizza-zione ma anche il caso della costruzione del-l’Unione Europea, si fanno avanti le città, lecapitali regionali, come organizzatori di unospecifico contesto sociale. Certamente non dobbiamo cadere nell’in-genuità di un ritorno alle città-stato ma cer-tamente siamo in un intermezzo storico, perusare l’espressione di Weber, in cui le cittàhanno un livello di rappresentanza politicache è di tutta evidenza, in quanto luoghi distrutturazione dei fenomeni economici e so-ciali di oggi. Naturalmente, se guardiamo alla politicatutto questo potrebbe aprire una discussio-ne sulle nuove forme di governance locale.Queste nuove forme di governo sostituisco-no, o perlomeno complicano, il rapportocon il governo tradizionale delle città perchéimplicano la formazione di coalizioni com-plesse e variabili, a seconda dei problemi,con partnership tra pubblico e privato. Sipotrebbe dire che questa pratica, che è unaforma abbastanza interessante di trasforma-zione della politica contemporanea, è statasperimentata proprio in riferimento alle cittàe alle regioni, a partire dai piani strategici ecome risposta ai fenomeni di organizzazionestrutturale nuova che dicevo. Sono fenome-ni che si stanno sviluppando, a volte sono fe-nomeni soltanto iniziali, ma che devono es-sere osservati con grande attenzione. Se le cose che ho detto, secondo questo se-condo filone di ragionamento, hanno qual-che consistenza ne deriva, per i sociologi,una conseguenza molto importante e cioèche noi non possiamo, nelle nostre analisi,aggiungere la dimensione territoriale a po-steriori, dobbiamo integrare l’organizzazio-

ne spaziale dei fatti sociali come dato strut-turale dell’organizzazione della società. Questo è un passaggio, intanto complicato,ma che non è mai stato chiaro nella tradizio-ne sociologica. Se per esempio si prendeDurkheim, il problema di dove e come i fat-ti sociali andassero collocati nello spazio eralasciato alla “morfologia sociale”. La morfo-logia sociale era una disciplina che venivaprima o dopo la costruzione sociologica cheavveniva attraverso concetti astratti dallospazio. La sociologia oggi, ma anche le suecorrenti teoriche – penso a Giddens o aLuhmann – ci invitano a riconsiderare l’im-portanza della prossimità come condizioneed elemento fondante di strutturazione deirapporti sociali. Ho indicato due sentieri di riflessione chederivano e si incrociano in vario modo conquelli che ha indicato Antonelli. Ho allarga-to il campo di riflessione e mostrato come laconoscenza attiene ad ogni ambito conosci-tivo, non soltanto quello della scienza e del-la tecnica. Vorrei fare un’altra osservazionedi nuovo per estendere il concetto di cono-scenza. Antonelli ha fatto molto bene a sottolinearela conoscenza alta, la conoscenza scientifi-co-tecnologica, che orienta e guida. Ha con-siderato i processi scientifici ed economici“alti” e ha mostrato che questi tendono aconcentrare la propria produzione in areeristrette. È interessante che verso la fine del-le sue osservazioni cominciasse ad aprirequesto schema, affermando che chi non rie-sce a entrare in questo gioco può attivarneun altro e giocare comunque la carta dellaspecializzazione. Le innovazioni in realtàpossono essere di alto, ma anche di minorlivello, come suggerirebbe Schumpeter. Infondo le innovazioni sono delle “adattività”alle quali sono chiamate anche società me-no all’avanguardia. Viene in mente l’esem-pio, ormai di scuola, che si fa da molti anni:“nel distretto tessile di Prato c’è la figuradell’impannatore, che accetta un’ordinazio-ne a Londra, non sa ancora se c’è qualcunoa Prato che esattamente riuscirà a fare quel-la cosa, ma sa che troverà qualcuno abba-stanza flessibile da provarci; sa anche chequello troverà un meccanico che gli farà una

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modifica alla macchina che serve per le tes-siture e lavorazioni richieste e riuscirà allafine a far fronte all’ordine”. Anche questo èconoscenza e anche questo obbedisce allestesse regole di localizzazione, di struttura-zione di una società al suo intorno.

FIORENZO FERLAINO Rispetto agli interventiche mi hanno preceduto, farei un passo in-dietro per raccogliere l’invito di FrancoSalvatori a fare della tavola rotonda un mo-mento di sintesi delle cose che si sono dette.Darò dei flash sintetici e spero chiari. Il primo è che, secondo me, quando gli or-ganizzatori scientifici hanno dato questo ti-tolo si sono dimenticati di mettere il puntointerrogativo. La domanda è “territorio è unproduttore di conoscenze?”. Perché secon-do me questa è la questione che è nel con-tempo una forte provocazione. Cosa èemerso? Sono emerse riflessioni importantisu alcuni concetti geografici: luogo, territo-rio, spazio. Luogo, territorio e spazio sonoconcetti che agiscono sugli stessi elementispaziali ma sono ordinati nel senso che unocontiene l’altro e hanno caratterizzazionidiverse. Il luogo ha una caratterizzazione, si è detto,relativa all’identità – Raffestin diceall’“idem-entità” all’“idem-essere”, “esserela stessa cosa”. Possiamo dire che tutti i“luoghi” stanno sul “territorio”, ma nonpossiamo dire che tutti i “territori” stannoin un “luogo”. Quindi emerge un ordine. Territorio, è stato detto e io lo ripeto, ha unacaratterizzazione socioeconomica, ma pro-prio perché tutti i luoghi stanno sul territo-rio esso contiene qualsiasi caratterizzazionedell’identità: antropologica, dei “campi d’at-tenzione” – come si diceva una volta – ecc.Infine spazio, che è ancora un campo se-mantico più vasto che contiene il territorioe i luoghi: ci sono lo spazio sociale, lo spazioantropologico, lo spazio delle azioni e lospazio economico che stanno anche sul ter-ritorio, che esprimono il concetto stesso diterritorio. Tuttavia ci sono spazi che il terri-torio non contiene, ad esempio gli spazi for-mali pluridimensionali o gli spazi topologi-ci, ecc. Il dominio dello “spazio”, il camposemantico dello “spazio” sicuramente è un

più vasto di quello del concetto di “territo-rio” o di “luogo”. Ecco allora collocato unodei termini che compare nel titolo di questatavola rotonda: il concetto di territorio. Vediamo ora il secondo termine, “conoscen-za”. Vuol dire “coscienza”, “con-scienza” escienza deriva ancora da “scire”, e cioè da“sapere”. Allora “conoscenza” ha una va-lenza esplicativa ma anche comprensiva del-la scienza. Ci sono tutte e due le radici nellaconoscenza, conoscenza è comprendere espiegare. Allora il territorio come produttore dellacomprensione e della spiegazione non reg-ge; per cui la tesi della tavola rotonda che èuna tesi di sintesi non sta in piedi. Il territo-rio cos’è allora? Anche qui è emerso. Il ter-ritorio è significazione, ovvero “attribuzio-ne di senso”. Il territorio è senso, ma il sen-so ha bisogno di essere esplicitato e per es-sere esplicitato il senso necessita di un “va-lore”. Il territorio è espressione di valori.Vi sono secondo me tre grandi classi di va-lori espresse dal territorio, ovvero tre gran-di classi di senso; in primo luogo il valoreeconomico, di cui si è parlato approfondita-mente. Come si è visto non è un valore stret-tamente connesso con la rendita ma con uninsieme più complesso espresso più che dal-la “densità demografica” – alla Durkheim –dal concetto di densità socioeconomica: piùaumenta la densità socioeconomica, più ilterritorio esprime valore. Le città hanno unvalore diverso rispetto ad altri posti, hannopiù valore, così come i luoghi dell’innova-zione di cui parlava Antonelli. Un altro tipo di valore, e quindi di senso, èquello relativo ai valori culturali e ambien-tali, ai luoghi. Come ha evidenziato Magnaghi i luoghi sono un’espressione divalore e il territorio che li contiene espri-me tale valore e senso. Una terza forma di valore su cui inviterei ariflettere è il valore normativo, dove per va-lore normativo intendo le norme attraversocui la società si organizza, le regole. Il terri-torio è espressione di regole, espressione dinorme: non tutto si può fare su tutti i terri-tori. Il territorio è espressione di regole; cisono cose che si fanno in territorio e altre inun altro.

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Queste tre forme di valore e di senso sono inconflitto tra di loro. Oggi il valore dominan-te, il senso dominante, è quello economico.Ma non è sempre stato così. Vi è stato unpassato in cui il valore dominante, era quel-lo culturale e la rilettura contemporanea diquel periodo in chiave economica è, ancorauna volta, una deformazione ideologica del-la nostra “metafisica influente”, la nostrametafisica dettata dal valore economico.Io penso che in futuro il senso normativo, ilvalore normativo – e qui con norma intendoqualcosa di diverso dalla norma legislativa,intendo piuttosto la secolarizzazione di re-gole, di precetti, di valori – possa diventaresenso comune in grado di strutturare il ter-ritorio. Oggi la questione della sostenibilitàè interrelata a tutto ciò e impone una nuovasecolarizzazione, l’assunzione di valori noneconomici e forse nemmeno culturali ma,oserei dire, “morali”; l’assunzione del ri-spetto non soltanto dell’uomo ma anche de-gli animali e della natura. È una morale se-colarizzata che può strutturare il senso por-tante di una società nuova non più basatasull’economico, sull’interesse individuale,ma sull’autopoiesi sistemica e sul rispettodell’altro: in qualche modo una “società mo-rale” che pone in primo piano la sostenibi-lità dell’intero sistema, ovvero la relazionetra l’uomo e l’ambiente che non è altro chela relazione tra il sé e l’altro.

RICCARDO ROSCELLI Anche io ho pensato altitolo e a quali suggestioni il titolo stesso po-teva offrirci. Naturalmente io ho pensato dalversante del valutatore di processi e di pro-getti e quindi di uno che deve camminarecon i piedi per terra e su questo farò solo unabrevissima riflessione e poi due esempi. La riflessione è la seguente: il territorio pro-duce conoscenze se ha già delle conoscenzesedimentate storicamente. In qualche misu-ra questa può essere una tautologia, ma cre-do di non sbagliare dicendo che le innova-zioni più interessanti nascono in generaleproprio laddove i processi di conoscenza so-no più radicati e sedimentati. Un corollarioè che le innovazioni tecnologiche più inte-ressanti nascono laddove va a collasso uncomparto dell’industria manifatturiera più

matura. Penso a realtà precise, ad esempio aPittsburgh e a come il territorio ha giocatoun ruolo importante in questa strana cittàdove, fino a poco tempo fa, si girava veden-do acciaierie collassate. Questo non avviene casualmente ma per ilfatto che in questi luoghi sono concentrateconoscenze diffuse, anche professionalitàbasse che sono assolutamente indispensabi-li per lo sviluppo tecnologico. Queste inno-vazioni nascono laddove è presente una se-rie di condizioni, fatti molto concreti, comeevidenziano gli esperti di economia territo-riale o i geografi quando fanno le statisticheper valutare i livelli di competitività di certearee territoriali. Questi “fatti” sono gli ate-nei e le scuole più prestigiose, le testate digiornali nazionali, le sedi di importanti or-ganizzazioni economiche, delle banche, diassociazioni culturali, ecc. Non c’è dubbioche le conoscenze, o meglio un accumulo dibuone conoscenze, qualifica il territorio e asua volta lo rende competitivo. Vorrei accennare al territorio come fattorepotente di possibilità di sviluppo, anzi co-me elemento strategico per implementarestrategie di sviluppo. Ha fatto bene Anto-nelli a ricordare che il territorio è diventato,non da tanti anni, effettivamente dalla metàdegli anni ottanta, un elemento centrale pervalutare le potenzialità di sviluppo e anchedi concorrenza fra paesi e aree rilevanti delmondo. Non è casuale che la concentrazio-ne di innovazione, così puntuale sul territo-rio, sia avvenuta senza pensare al fatto che ilterritorio è una realtà complessa e decisivanella competizione tra mercati. L’altro punto è quello relativo al fatto, cheattiene al secondo corno del problema cuiho fatto un cenno, che la formazione – quic’è una differenza evidente tra accumulo diconoscenza e formazione – è un fattore cen-trale per il rafforzamento del territorio e perconsentire una buona competizione tra retiterritoriali. Parto da questo secondo problema ricor-dando che in fondo, sul tema della forma-zione e in particolare sulla formazione dellealte professionalità, noi abbiamo punti di ri-ferimento validi, accettabili. “Agenda 2000”prima e successivamente la discussione, più

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nazionale, che si è sviluppata intorno al co-siddetto patto sociale, individuano obiettivie traiettorie molto chiare, in qualche misurapersino praticabili – stranamente potrem-mo dire – e comunque ineludibili. Chi noninvestirà in formazione alta, in formazionedi livello elevato, sarà destinato a soccom-bere nella competizione, oppure ad assorbi-re le lavorazioni nei reparti residuali e an-che nelle lavorazioni manifatturiere. Sullo sfondo vi è il gravissimo problema deldeficit di competenze, che qualcuno defini-sce grave anche sul piano strutturale, che èandato accumulandosi in Italia nella forma-zione scientifico-tecnologica più elevata,nelle professionalità più elevate, che sonoquelle che creano possibilità di nuova oc-cupazione, come mi pare in fondo suggeri-va Antonelli. Per dire questo io cito un da-to che rende chiare le differenze e il diva-rio, e la fatica che sarà necessario fare percolmare questo divario: l’OCSE, evidenziache rispetto ad una media nei paesi europeidel 20% di formazione ad alta qualificazio-ne, in Italia si scende al 6-8%. Stiamo par-lando rispetto all’Europa e non rispetto al-le aree forti del Giappone, del Nord Ame-rica e così via. L’insufficienza dell’alta formazione si portadietro una debolezza nella spinta all’inno-vazione dell’industria, dei servizi orientatiall’amministrazione, nella creazione di nuo-va impresa, di inventiva nel campo dellanuova imprenditorialità e anche nella pic-cola imprenditorialità, spesso assai evolutadal punto di vista dell’innovazione, dellepossibilità di sviluppo e di occupazione. Misembra che questo elemento sottolineato,anche di recente, come priorità da parte del-la Commissione Europea, si presenti a noicome un obiettivo davvero strategico. A mepare che questo sia una delle condizioni es-senziali per consentire una competizione sa-na tra i territori. Sana nel senso di una com-petizione con regole del gioco in cui debbaessere compresa anche la solidarietà. Un esempio chiaro, praticato e recente, chetutti possono avere sott’occhio è il seguen-te: come è stato possibile per Torino vincerela lunga competizione per la localizzazionedella Motorola nell’area torinese nonostan-

te, in fondo, Torino avesse perso la compe-tizione simbolica con Napoli per la sede del-l’Authority nelle Telecomunicazioni – per laverità questione di ben poco conto rispettoa quella che si sta invece verificando. Bene,questa intesa è stata possibile oltre che peruna serie di coincidenze, tutte ben costruitee andate a buon fine, anche per una serie difattori precisi che voglio brevemente ricor-dare. Motorola aveva iniziato a sviluppareun’intesa interessante con noi, con il Poli-tecnico di Torino, per realizzare all’internouna serie di centri di ricerca e sviluppo cheavrebbero dato luogo ad un occupazionequalificata stimata, nel giro di qualche an-no, in 250 unità. 250 supertecnici nel setto-re della progettazione di terminali, di telefo-nini, di ultima generazione. Da questa inte-sa, gestita direttamente dal Politecnico conrapporti diretti con Chicago, con l’Univer-sità dell’Illinois con cui il Politecnico intrat-tiene rapporti ormai da molti anni avendomaster comuni nel settore dell’ingegneriadelle telecomunicazioni e dell’ingegneriameccanica, si è saldata una vera e propriastrategia, un accumulo di conoscenze su cuisi è costruito un ruolo positivo della città edegli altri attori economici presenti e che, infondo, riassume gli ingredienti che ho ricor-dato all’inizio: a Torino vi è una scuola di ec-cellenza tecnologica, riconosciuta a livellointernazionale, Torino è una città industria-le matura. È persino importante che ci sia laFiat e che ci sia stata – non so se ci sarà an-cora – l’Olivetti. Poi è importante che Tori-no sia una città capitale, una città bella, siala capitale del Barocco, che siano stati fattiinterventi di riqualificazione urbana impor-tanti, che sia una città d’arte, forse città son-nacchiosa ma culturalmente assai attiva, coniniziative di mostre, convegni, ecc., ma è so-prattutto importante che Torino sia diven-tata una città di livello internazionale nelcampo della formazione. Badate bene, pervincere la sfida per la Motorola l’Italia hadovuto competere con la Polonia, con laFrancia e con la Germania e poi Torino conCesena, con Napoli, con Genova e persinocon Vercelli. Chiudo dicendo che effettivamente il terri-torio va, per così dire, “coccolato”, in quan-

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to produttore di conoscenze accumulatestoricamente, e va anche coccolato sul ter-reno della formazione che a sua volta signi-fica maggiore conoscenza, maggiore com-petizione per una politica di sviluppo chesia in grado di creare oltre che nuova qua-lità anche nuova occupazione.

GABRIELE ZANETTO Qualche mese fa, con imiei studenti di Politica dell’Ambiente, mistavo occupando di una bonifica ambienta-le appena conclusa all’interno della zona in-dustriale di Marghera. Dopo averne consi-derata la progettazione, il cantiere e l’effica-cia stavamo visitando l’area bonificata, tira-ta a lucido e pronta ormai per una riqualifi-cazione destinata ad essere il primo centrodi logistica integrata alle spalle delle banchi-ne portuali. Alcuni tratti di questa superfi-cie – circondati dai vecchi residui edifici daabbattere, dall’aria spettrale per l’asporta-zione di ogni utile materiale, cui chi ci ac-compagnava alludeva col nome di “Saraje-vo” per l’analogia con le immagini televisivedella città martoriata dai bombardamenti –erano occupati da materiale messo in sicu-rezza, con le dovute scoline, con tutti i pie-zometri di controllo. Tra la ghiaia di quel-l’ordine recente, pettinata dalle ruspe, hoscorto e raccolto una placchetta di allumi-nio, con i due buchi che consentivano di fis-sarla al muro con due viti, con un numeroinciso sopra. Quell’area era stata per qual-che decina d’anni una fabbrica di fertiliz-zanti; tanto che la chiamiamo ancora così:l’“area ex azotati”. Quella placchetta contorta, a noi che vede-vamo di quel luogo il processo di bonificaambientale per la riqualificazione e una fun-zionalità proiettata su tutt’altro orizzonte,ha consentito di ridare senso a tutto quantorestava ancora dell’“area ex azotati”: il frut-to di scarto di quel lavoro sistemato in sicu-rezza nella discarica. Ci siamo divertiti a immaginare come mi-gliaia di operai avevano visto la palazzina de-gli uffici, che era ancora lì con la sua splen-dida architettura razionalista a reclamare lasua extraterritorialità – ribadita dalla puli-zia e dall’attenuazione di polveri e odori –rispetto agli impianti della fabbrica; o come

operai e impiegati avevano visto gli impian-ti, oramai scheletri di cui si era ansiosi disbarazzarsi (qualche scritta restava sui mu-ri, in odio a un lavoro duro e straniante), edi come loro o qualche ospite milanese, vi-sto che la direzione della grande impresaproprietaria era a Milano, avevano visto l’e-legante architettura della torre di raffredda-mento: gli uni come il simbolo di un lavoroduro e spesso pericoloso e gli altri come unadelle poche cose ostensibili della grandefabbrica.Abbiamo avuto la coscienza che un luogoera andato, e un luogo – in quegli stessi quat-tro ettari – stava nascendo. Ed è per questoche chi entra nel primo edificio di Vega, ilparco scientifico e tecnologico di Veneziaormai attivo dal 1997, con i suoi muri bian-chi e i suoi cilindri rossi, trova pennellate dicolore sui muri: fotografie che – con imma-gini scattate prima e durante le demolizionidei vecchi impianti industriali, vecchi dimezzo secolo o più – documentano lo statod’animo di chi quelle ruspe ha animato, can-cellando luoghi dove si era sedimentato ilsegno del lavoro con le tecnologie di un tem-po, con i rischi di un tempo, con l’indiffe-renza di un tempo alla qualità ambientale ealla salute dei lavoratori. Abbiamo fotografato pareti di cisterne ver-di di rame, scarpe dimenticate in uno stabi-limento dedicato al riciclo delle ceneri di pi-rite, e potrei continuare a narrarvi luoghi co-me questi ma non vorrei, come ci insegnaRoger Brunet (1984), che un postmoderni-smo che consideri i luoghi come la narrazio-ne di un rapporto, che spia le tracce di undialogo tra l’abitante e le cose che lo ospita-no, da cui ha imparato il senso del mondo edello spazio, che recano in sé l’immagine suaattraverso la sua opera, venisse preso per unpremodernismo descrittivo. Che cioè laconcezione del luogo come narrazione ve-nisse presa per le cartoline postali a cui ciaveva abituati una certa geografia convintadel predominio dello sguardo e della descri-zione. In mezzo, tra questi due atteggiamen-ti, c’è l’uso consapevole della modernità e laconsapevolezza di alcuni suoi tratti che giu-dico essenziali: ossia la modernità come fe-de nella comprensione possibile, certa,

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esaustiva e definitiva delle cose, riducibilead una teoria verificabile e scoperta una vol-ta per sempre, inequivoca. Il postmodernismo è la perdita di questa fe-de e certamente non per questo esso si fa ri-nuncia a tutto l’apparato logico di interpre-tazione ereditato dal moderno. È la perditadella fede che ci sia un luogo definibile unavolta per tutte, ed è la convinzione che i luo-ghi sono plurimi, intersecati, polisemici (Zanetto, 1978; 1982), indistricabili anchenello stesso spazio fisico, come per esempioci indica l’intervento di Sergio Conti.L’apprendimento dei luoghi può essere vi-sto dunque – con un linguaggio solo un po’diverso – come capacità di discernere i pro-cessi territoriali in corso in un territorio (Zanetto, 1982). Questo, nella mia esperien-za, è l’apprendimento fondamentale che sipuò avere da un territorio: capirne i lenti, oa volte – ci insegna Giorgio Botta (1993) –drammaticamente veloci cambiamenti, chepur sono cambiamenti ordinati, consequen-ziali, che producono trasformazioni (comesi dice di solito) spontanee, ovvero frutto diun immenso lavorio di aggiustamento del-l’operare di folle di attori che li vivono. Capire così il territorio, lasciarsi ammaestra-re dal territorio, vuol dire capire che la fedenella possibilità di avere un progetto è fuoridal nostro tempo, non ha più diritto di cit-tadinanza nella nostra cultura, perché pro-gettare una forma compiuta di territoriovuol dire negare che esistano processi apertie una pluralità di configurazioni possibili.Scrive Robert Musil – è una frase che citospesso e che tutti già conoscerete – che “ilbuon Dio, creando il mondo sorride, per-ché mentre lo fa così, sa che potrebbe farloin tanti, infiniti modi diversi”. Questo ci in-segna il territorio: che non può venire chiu-so in un progetto, mentre l’agire nostro nonpuò essere che l’individuazione dei processie l’indicazione degli strumenti con i qualinoi possiamo indurre un’accelerazione,un’amplificazione, un rallentamento di que-sti processi. Ma di nuovo il postmoderno ciinsegna che riconoscere un processo, inrealtà è crearne le fattezze e che solo questoriconoscimento vuol dire fare succedereeventi.

Quando una meravigliosa scuola di geogra-fia economica ha individuato la periodizza-zione dei destini economici delle zone indu-striali costiere (Zanetto, 1989), non solo leha fatte nascere, ma ne ha indotto prepoten-temente la trasformazione secondo quelleindicazioni. A ragione Pasquale Coppola citoglie l’illusione che i processi geografici e iluoghi siano qualcosa di diverso dalla dia-lettica e dalla competizione politica di attoriche spesso non sanno neanche dell’esisten-za gli uni degli altri. La consapevolezza dunque ci dà il territo-rio; la consapevolezza che il narrare è l’es-senza dei luoghi, che narrare i luoghi è assaipoco diverso dal forgiarli con atti materiali.Nella mia esperienza personale di ricercato-re adibito ad altri ruoli – e credo di esserestato chiamato qui per questo – non cono-sco e non riconosco più questo confine: trachi individua processi e li indica, e chi que-sti processi favorisce, rallenta o tenta diorientare, con la consapevolezza che sterza-te brusche producono effetti straordinaria-mente diversi da quelli sperati. Uno degli ammaestramenti più straordina-ri, proprio perché meno attesi, che Veneziaha dato a chi contribuisce, a chi vive, a chiabita quel territorio – a chi abita, bella paro-la da geografi – è stato quello della sosteni-bilità dello sviluppo. Quando abbiamo ini-ziato a immaginare uno sviluppo sostenibileper Venezia – per redigere una “Agenda 21locale” – ci siamo accorti, la città si è accor-ta, di detenerne perfettamente tutti gli ele-menti necessari. Perché su quelle pietre e suquel fango, su quelle barene, la sostenibilità,l’ossessione di una permanenza di un ordi-ne sociale, economico e quindi territoriale,hanno lasciato tracce per almeno cinque se-coli. L’ossessione di poter durare ha inse-gnato la logica raffinata dello sviluppo so-stenibile e i veneziani hanno capito perchéla svolta impressa dall’industrializzazionepesante del porto, quel tipo di sviluppo in-dustriale, quell’ordine, aveva messo in crisigli abitanti e le loro rappresentazioni. Nel 1976 il terremoto del Friuli si è fattosentire un po’ anche a Venezia, e i venezia-ni, giù per le calli e un po’ spaventati dallevisibili oscillazioni impresse a ieratici palaz-

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zi medievali, si dicevano gli uni con gli altri“xe schiopà Marghera!”. Ne eravamo tutticonvinti, perché solo di là poteva venire ilmale: il male supremo, il male della non so-stenibilità. Paradossalmente, i guai prodotti dall’indu-strializzazione ci hanno insegnato un saccodi cose. Un territorio compromesso, un ter-ritorio inquinato, ci ha costretti alla cono-scenza dei meccanismi di sedimentazione edi dislocazione dei microinquinanti, com-posti chimici dannosi a piccolissime quan-tità e riscontrabili con strumentazioni di-sponibili solo da pochi anni e sui quali Ve-nezia si è potuta presentare ad un congressointernazionale, tenutosi appunto a Venezia,come leader della conoscenza operativa. Èstraordinario il divario su questi problemifra la città di Venezia, le sue università, i suoicentri produttivi, e il Ministero dell’Am-biente. Straordinario per la rigidità del Mi-nistero e la raffinatezza di una città che hatrovato sul suo territorio lo spunto e le ri-sorse per affrontare i suoi problemi. “Dioxi-ne ’99” – il nome del congresso – ci ha tro-vati, unici, capaci di proporre apposite pro-cedure di analisi del rischio, di evidenziarela relazione tra l’inquinamento, il cibo e lasalute umana con una compiutezza che ci haposti all’avanguardia.Da questo apprendimento è nata la rispostaad una domanda imperativa: qual è l’uso ot-timo che si può fare di un’eredità, di un luo-go complesso, ricco di tracce? I suoi segni sipossono capire appieno solo con la dimesti-chezza (del luogo, delle sue memorie, dellesue tecnologie), e possono istruirci sull’usoottimo di quello che ci è stato tramandato.L’industria sporca ci ha suggerito il parcoscientifico e tecnologico, il porto ci ha sug-gerito il fiorire di un’attività logistica chepresto avrà molto più bisogno di softwareper il controllo del carico nel ciclo integratodi trasporto che non di banchine portuali. Èdifficile darne conto, ma creare un luogo èaffare assai più rischioso (e costoso) che aiu-tarne uno a evolvere, come ha appreso –troppo tardi! – il dottor Frankenstein. Per intanto Venezia ha risolto il problemadella compatibilità ambientale di un portoche sembrava pretendere, qualche decen-

nio fa, fondali profondi e larghi canali, mor-tali per la morfologia della laguna. Il portodi Venezia sta diventando un gestore diinformazioni, più che un gestore di gru cherovesciano rinfuse e polverose quantità dicarbone o di rottami di ferro. Esso sta di-ventando, comprendendo il processo di re-gionalizzazione indotto dall’attività turisti-ca, il più grande porto di base (home port)della crocieristica mediterranea, con le im-maginabili conseguenze sulla base econo-mica regionale. Questa voglia di rispondere alla domanda“qual è l’uso migliore dell’eredità?” ha uncorollario che mi sento sempre di metteresotto i riflettori: l’uso ottimo dell’ereditàsenza aspettarci regali; l’uso ottimo per com-petere ad armi pari. Il parco scientifico e tec-nologico di Venezia non ha nessun attore alsuo interno pagato a pié di lista da qualcheministero. Ci sono solo imprese che devonostare sul mercato, misurarsi con la loro pro-fessionalità e la loro capacità tecnologica. L’esperienza del parco scientifico è stata, inquesto contesto, straordinariamente illumi-nante. È una zona industriale orientata checerca di creare le condizioni per attirare altatecnologia e servizi rari. Era partito inge-nuamente con l’idea di perseguire la riquali-ficazione di una zona industriale prevalen-temente dedicata alla chimica, facendo ri-cerca per la chimica fine; poi sono successecose molto diverse. Insieme alle grandi atti-vità di progettazione di cicli chimici puliti(che diano meno rifiuti o rifiuti meno peri-colosi: la green chemistry), insieme allasplendida attività chimica per il restauro(che è l’incrocio dell’eredità di Margheracon quella del centro storico e il suo patri-monio culturale), ci sono altre attivitàstraordinariamente diverse, in particolare ilcentro ricerche di un’impresa leader nellacostruzione di motori e molta, moltissimatelematica. Come mai le eredità a volte danno frutti as-solutamente imprevisti? Perché i luoghihanno una capacità di “comandare” al di làdella nostra capacità di capirli? Pensavamoche Marghera potesse avere la chimica finecome eredità, e il restauro della carta, dei li-bri e degli incunaboli restasse nel centro

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storico. Non avevamo capito che potevamoessere la sede delle biotecnologie e della ri-cerca sulla meccanica, della telematica chela fa da padrona anche da noi. Il territorioaveva scritto una cosa che scioccamentenon sapevamo leggere con le nostre analisifunzionali: c’era scritto che Venezia è unacapitale. Quanto ho visto e sentito di Tori-no mi ha profondamente confermato inquesto ragionamento. C’è un vasto territorio che è fatto per avereuna capitale e che era profondamente a di-sagio per la sua mancanza funzionale. Comesempre, il potere non esercitato producedrammatici guasti, leggibili nell’aggrovi-gliarsi dei problemi che ha imposto al Vene-to il nuovo nome di Nord-Est. Venezia stariacquistando questa funzione di capitale,superando la tragedia di un ventennio chele ha portato una specializzazione su attivitàricche, il turismo in primo luogo, ma gerar-chicamente bassissime, che distruggevanola complessità del luogo e lo rendevano unbanale pezzetto di un territorio più vasto.Venezia per questi tre o quattro lustri ha gri-dato disperatamente di non volere perderecomplessità. Lo diceva in modi ingenui, stu-pidi, chiedeva aiuti, esenzioni fiscali, facevale barricate perché la Corte d’Appello nonse ne andasse a Padova, non voleva che leimprese uscissero dal centro storico. Inrealtà, quella società, quel luogo stavano di-cendo di voler mantenere una complessitàche è condizione prioritaria per mantenerela vita. E qui c’è una conseguenza davverostraordinaria. I luoghi sono capaci di fare gliabitanti perché quei piccoli distretti densi,implosi, dove si rannicchia la capacità di in-novazione, sono in grado di fare venire lepersone giuste, per l’obiettivo che essi stessi

propongono. E come sempre nella storia so-no le capitali, come ci ha appena detto Ba-gnasco, a chiamare gli abitanti, a estromet-tere quelli che non gli servono. In questo senso i luoghi vanno lasciati par-lare. Con grande umiltà dobbiamo spiare letracce di quello che vi è stato fatto per capi-re come loro possano esplicitare il loro po-tenziale. Possiamo farlo additandone alcu-ne fattezze, possiamo farlo rimboccandocile maniche, ma credo che il fatto fondamen-tale sia quello di essere opportunamente inascolto sapendo che la nostra società, forsefinalmente, è aperta abbastanza affinché ilterritorio ci istruisca.Vorrei concludere con una notazione neces-saria: la disponibilità postmodernista ad ac-cettare la pluralità dei mondi possibili tra-sferisce una parte della nostra funzionescientifica in un campo assai diverso. Seconveniamo che i luoghi siano una narra-zione delle relazioni tra abitanti e spazi, chele narrazioni possano di necessità essereplurime, si impone la rilevanza del pubbli-co che tali narrazioni sapranno attrarre (enon è indifferente quale pubblico). Narra-zione è – di nuovo – relazione, tra narratoree uditorio, variamente interessato e coin-volto nell’agire territoriale. Fatalmente,dobbiamo accettare che la geografia che co-struisce senso dei luoghi sia assoggettata aregole della comunicazione pubblicitariache le imporranno linguaggi smaglianti eaccattivanti (Zanetto, 1982). Si dirà: “non èsempre stato così?”; forse sì, ma la perditadi confini tra ricerca e azione, tra discorsoscientifico e narrazione qualsiasi impone,mi pare, l’irrobustimento delle regole di ac-creditamento di qualsiasi corporazione im-plicata.

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DibattitoMARIO CASARI (Università di Milano) Con-

cordo molto con l’affermazione che è statafatta sull’importanza della formazione di al-to livello per gli ambiti regionali. Però, rifa-cendomi ad una affermazione di Samuelson,il quale afferma che il 50% delle innovazio-ni di questo secolo sono piccole innovazio-

ni, diciamo allo stesso livello della ricerca-sviluppo, mi viene da affermare che è im-portante anche il livello minimo della for-mazione per lo sviluppo di un territorio. L’e-sempio della Corea lo insegna: un alto livel-lo di formazione scolastica dà ricadute, equesto anche per la localizzazione delle

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grandi imprese. Per esempio, l’attrazioneverso i paesi ex socialisti è dovuta spesso al-l’alto livello di qualificazione della popola-zione; l’inverso può dirsi ad esempio perl’Africa dove la popolazione è numerosa, mapurtroppo il livello di capacità professiona-le è basso. Esiste poi anche il discorso dellaprogettualità; infatti un territorio è fatto an-che dalla capacità di mettere a fuoco unaprogettualità intorno a prodotti, di utilizza-re quindi le conoscenze storiche o anche riu-scire a cogliere le occasioni nuove. Tuttavia,senza un buona formazione di base proget-tare è impossibile. Rimarcherei ancora que-sto elemento e sottolineerei come l’ignoran-za geografica della popolazione italiana è unfreno anche all’innovazione, alla valorizza-zione stessa del proprio territorio e quindianche allo sviluppo.

LIA DECANDIA (Università di Cosenza) Vorreiapprofittare di questo punto di vista dal Sud,o comunque in un certo senso “meridiano”,per riallacciarmi un po’ ai temi che nella ter-za sessione il professor Coppola ha riporta-to alla luce, per esprimere anche un po’ disenso di disagio nei confronti di un modo diintendere la conoscenza del territorio che,secondo me, è molto funzionale all’Europacentrale, alla “banana blu”. Mi sembra chein tutto il dibattito ci sia un’accentuazionedi una conoscenza semplicemente funziona-listica, di una conoscenza tecnologica, di unaconoscenza produttiva che lascia da parteuna conoscenza profonda, che certo forse èesclusa in questo momento dai processi dicompetizione dei luoghi. Certamente, nelle visioni di questa tavola ro-tonda i territori del Sud non hanno nessunfuturo nella competizione di questo mondofatto di industrie, fatto di uomini altamenteproduttivi. Ebbene, io penso che non sia co-sì. Per fortuna la storia è sempre aperta, ab-biamo la possibilità di inventarci anche altrimodelli che vadano oltre la “banana blu” eche vadano oltre un modo di conoscere chepone l’accento semplicemente sulle compo-nenti razionali. Credo che da questo punto di vista i territo-ri del Sud – ma parlo anche della mia isola,io sono sarda – abbiano una conoscenza dif-

fusa che è difficilmente monetizzabile se-condo le categorie di cui si è parlato ampia-mente, ma che forse possono essere una ri-sposta anche all’Europa malata di competi-zione, che possono offrire un’alternativa aun modo di pensare oserei dire “maschile”:preoccupato del dominio, dell’efficienza.Credo che ci siano forme di conoscenza chedebbano essere esplorate, la fantasia è sim-bolica, il “pensiero del meriggio” direbbeche “a ognuno attende la sua grande auro-ra”. Credo che, forse, smettendo di auto-compiacersi sulla dipendenza, dovremmoavere la capacità, dalla parte del Sud, di ri-pensarci anche in un’ottica fortemente pro-gettuale, pensando che tutto è ancora aper-to, che l’uomo del Nord ha fortemente bi-sogno di altre componenti, come ci dimo-stra l’economia che gira attorno alla psicoa-nalisi, che solo una cultura diffusa comequella del Meridione possa dare, dove c’èancora tempo per l’ascolto, dove ci sono deisegnali deboli che bisogna ripensare. Credoche possa esistere un’economia alternativa,rivolta alla qualità dell’uomo, e che essa per-metta di ridisegnare secondo altre formeun’immagine dell’Europa che non sia soloquella della “banana”.

VINCENZO GUARRASI Un altro frammento dipensiero “meridiano”, di diverso genere: iopenso che il luogo sia interazione dialogicapost narrativa. Perché dico questo? Perchéin fondo quello che sono venuto a prenderea Torino – non sono qui casualmente – è lacapacità che uomini di scienza di questacittà hanno sviluppato nel tempo di intera-gire fra di loro, cioè di ascoltarsi reciproca-mente. Possiamo fare tutti l’esperimento diprendere un economista, un sociologo, unurbanista e un geografo, metterli insieme inuna tavola rotonda. Si parleranno senzaascoltarsi. Perché ognuno non riesce a sen-tire, a capire il linguaggio degli altri. Io sono stato folgorato dalla relazione di An-tonelli, perché entrava nel merito delle que-stioni geografiche e ci portava dentro le sueteorie, i suoi modelli, le sue chiavi interpre-tative. Premesso che, di tutti i sentieri, quel-li che mi piacciono sono quelli che interrom-pendosi si sviano, allora dobbiamo provare

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a far incontrare i due sentieri di cui parlavaBagnasco, cioè quei due modi di intendere iltema di questa tavola rotonda. In questo in-crocio tra due sentieri ci sono le parole dellascienza, ossia la capacità del mondo della ri-cerca scientifica geografica, sociale, territo-riale di ascoltare il luogo, di recepire i segna-li del luogo, tradurli e rimetterli in circolo. Tutto questo si può tradurre in una doman-da, che è poi l’essenza di questo mio inter-vento: noi, uomini di scienza possiamo ope-rare per dilatare queste aree, questi orizzon-ti dell’innovazione scientifica e regionale?Ci possiamo accreditare di un discorso chenon si limiti a sbucciare le banane, ma cheprovi a elaborare nuove immagini anche delSud? Non trasferire conoscenze, ma tradur-le e interpretarle?

ALESSANDRO CAVALIERI (Istituto Regionaledella Programmazione Economica della To-scana) Venendo da una scuola di economiache è partita con Becattini negli anni settan-ta è ovvio che i raccordi fra luogo, sistemalocale ed economia appartengono alla “for-mazione genetica” e quindi sono stato mol-to confortato, e ho avuto anche molte illu-minazioni, nel vedere che un taglio geogra-fico dà ulteriori contributi, in particolaregrazie a quel meccanismo per cui l’analisidello sviluppo locale non può essere mai –anche per un economista – svincolata dalluogo.Becattini a un nostro collega che voleva lau-rearsi in sviluppo locale disse: “prima pren-di per due mesi la macchina, gira la Toscanae poi ne parliamo, vai a vedere cosa sono laval di Cornea, Prato, ecc.” Per due mesi fupagato dall’Istituto per girare in missione laToscana. Voglio dire che una volta cono-sciuta Prato, essa si sente riconosciuta, sisente analizzata. E probabilmente il suomeccanismo di sviluppo è basato anche suquesta riconoscibilità. Forse l’autocoscien-za e l’identità di Prato derivano anche dalfatto che a un certo punto è diventato unluogo in cui tutti si doveva andare a studiarequalcosa, così si è autoconvinta di esserequalcosa di diverso rispetto alla patria dei“lavoratori degli stracci” quale si sentiva al-la fine della seconda guerra mondiale. In

qualche modo, quindi, anche il processo ditrasformazione, di risalita, di innovazione, iltentativo di diventare ad esempio il leadermondiale per il tessile, anche nella selezionedei materiali, è stato un momento molto im-portante. Per cui quanto è stato detto su Ve-nezia mi conforta molto sul futuro di Vene-zia, perché da Venezia vengono a volte daparte di veneziani, studiosi, professori, vi-sioni un po’ più catastrofiche, che creanoun’immagine che tende poi a coagulare for-ze verso obiettivi diversi.Non so se sia chiaro il concetto, ma se io sen-to uno che mi dice che Venezia ormai è soloun museo e questo entra come elemento dibase nel dibattito culturale io poi vado a Ve-nezia e ci vedo solo un museo. Ora, dopoche ho avuto questa istruzione, andrò a Ve-nezia e cercherò di vederci qualcos’altro.Ciò cambia il rapporto tra me, analista, e illuogo. Incontrerò altri veneziani rispetto aquelli che incontravo prima. Mi ha molto persuaso questa ricerca dellacomplessità. Molto spesso Firenze e anchela Toscana tendono a uscire dalla loro com-plessità rincorrendo l’idea che si possa crea-re centri tecnologici come a Torino. Èprofondamente sbagliato, perché Firenzenon è Torino. E quindi, probabilmente, lacasualità che viene a Firenze dall’innovazio-ne tecnologica può essere un incrocio stra-nissimo tra esperienze diverse; per esempioè leader delle tecniche laser sul restauro –un incrocio fra il lavoro svolto dalla “Gali-leo”, che lavorava sul laser, e l’attivitàdell’“Opificio delle pietre dure” e degli altrilaboratori di restauro. È un incrocio stranis-simo che non sarebbe avvenuto se anche aFirenze ci fosse stata una visione semplici-stica, non complessa della realtà, come ca-pitale internazionale del turismo. L’altro elemento che vorrei richiamare peravere suggerimenti è invece il livello dellascala in cui si guarda un luogo. Io consideroquesto elemento decisivo. Prendiamo il ca-so di Firenze. Se io prendo Firenze dentrole mura, il turismo conta il 20-25%, ma i ce-ti che sono egemonici all’interno delle muracomandano per l’80%. Se mi allargo dallemura e rimango sempre nel comune di Fi-renze, il turismo scende all’incirca al 10%.

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Se comprendo in Firenze anche il suo siste-ma economico (con Scandicci accanto cosìcome il sistema veneziano comprende Me-stre, ecc.) il turismo scende al 6%. Allora Fi-renze non è una città turistica, come sistemaeconomico locale di governo, mentre lo èovviamente l’arcipelago toscano. È una cittàcomplessa e questa sua complessità mi fa ca-pire perchè la General Electric, dopo avercomprato il Pignone ed essersi rifiutata ditrascinare a Firenze il suo centro innovativovi ha portato la localizzazione della sua scuo-la di formazione per il management di me-dio-alto livello che aveva negli Stati Uniti.Ciò significa che 900 persone – tutti i mana-ger della General Electric mondiale – pas-seranno tutto l’anno a Firenze per stare inuna scuola che era una vecchia industria in-quinante, ripulita e acquistata dal Comunee probabilmente parleranno con altri e cree-ranno una nuova identità. Ecco, mi chiedo, questo è l’effetto casuale.Dopo che l’effetto casuale è intervenutoprobabilmente esso modifica l’immagine diFirenze, la crescita di Firenze. Perché ci so-no venuti? Probabilmente ci sono venutiperché è più facile convincere un manager apassare sei mesi fuori di casa se lo si porta a

Firenze invece che a Pasadena. Però, in que-sto momento cambia il livello di analisi. L’analisi dei luoghi è forse l’elemento che èmeno chiaro. Per voi geografi quando par-late di luogo, cos’è esattamente, qual è la suadefinizione? Cos’è quel luogo Venezia, cari-co di dispute e di avvenimenti, è un imma-ginario collettivo che io ho in mente? È unarealtà che si oppone alla regione, come misembra che sia stata vissuta per lungo tem-po? La definizione del luogo per me è im-portante, perché anche la Torino individua-ta dal professor Antonelli, di cui ho apprez-zato moltissimo la relazione, è una Torinolarga in qualche modo, è una Torino cherappresenta una capitale del Piemonte, nonè una Torino che sta dentro una cinta, è unaTorino un po’ più larga. Forse, come ho mo-strato per Firenze, è una questione di scala:a seconda di come si descrive, cambianol’immagine e l’autocoscienza del luogo.

FRANCO SALVATORI L’andamento dei lavori miconsiglia, anche per l’interrogativo ultimoche ci è venuto, di dare subito la parola aGiuseppe Dematteis, affinché da geografocominci a dare qualche risposta e a porre al-tri problemi.

PARTE SECONDA - LA DISCUSSIONE106

Interventi e risposte dei relatoriGIUSEPPE DEMATTEIS Ho chiesto di interveni-

re adesso invece che in chiusura, anche per-ché temo che sia difficile trarre conclusioni,mentre credo che ora si potrebbero tirare al-cune fila e rilanciare qualche spunto di di-scussione. L’idea del territorio come produt-tore di conoscenze ha trovato resistenze;quasi tutti si sono chiesti: “ma cosa vorrà di-re?”. La cosa mi ha un po’ sorpreso, perchéquando noi diciamo: il Piemonte produceautomobili, produce grano, riso, tessuti, nes-suno obietta: il territorio produce cose.Quando invece si dice che produce cono-scenza, allora la gente si allarma perché sirende conto che in questo modo il territoriodiventa qualcosa di simile ad una persona,poiché la conoscenza è un fatto mentale, è unfatto degli esseri umani. E allora si avverte un

certo scetticismo e quasi una resistenza, an-che se molti incominciano a prendere co-scienza di questa metafora. Ma è soltanto unametafora? Intanto ricordiamo che le metafo-re sono efficaci se c’è qualche relazione tra idue termini del traslato, ossia se si mettonoin gioco analogie in qualche modo esistenti,convincenti. E qui vorrei ricordare quelloche diceva Magnaghi, cioè che il territorio èvivo, ed è vivo perché può morire. Questa èun’idea che ci convince abbastanza. Ma come è vivo il territorio? Magnaghi lo hadetto in modo un po’ implicito, però ci hafatto capire che il territorio è vivo perché –lo ha ripetuto anche adesso Bagnasco – nonè un supporto passivo su cui si giocano rela-zioni sociali ed economiche che avrebberopoco a che fare con esso se non appoggiarvi-

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si sopra. Al contrario, c’è un ambiente intel-ligente – la “competenza topica” di cui haparlato Turco – e questo è qualcosa che ine-risce al territorio, che poi è fatto di luoghi.Allora la risposta alla domanda di Cavalieri(“che cos’è per voi geografi il territorio o illuogo?”) non può essere semplice. Per noi il territorio è qualche cosa di piùcomplesso del semplice campo di esterna-lità con gradienti negativi centro-periferiadi cui ci ha parlato Antonelli. Questo è unmodello analitico molto utile e non vogliocerto criticare chi lo usa, ma soltanto direche per noi geografi il territorio è qualcosadi più; è un’entità che si forma in un’intera-zione tra “abitanti” – che sono anche pro-duttori – e certe condizioni ambientali loca-li specifiche. È il risultato di un rapportocoevolutivo in cui si accumulano continua-mente esperienze, capacità e conoscenze.Non solo conoscenza tecnologica: anche learchitetture, i monumenti, i musei, i lin-guaggi, le tradizioni e le istituzioni sono con-densati di conoscenza. Vorrei dire di più. Ci sono stati filosofi co-me Merleau-Ponty e Deleuze, e ancora oggiMassimo Cacciari, che hanno elaborato ilconcetto di “geofilosofia” per mettere inevidenza questi legami che corrono tra rap-porti di territorialità e pensiero. Ad esem-pio Deleuze e Guattari, nel saggio Che cos’èla filosofia?, parlano di “personaggi concet-tuali” per indicare quelle idee che si forma-no a partire dal piano prefilosofico dei rap-porti di deterritorializzazione e riterritoria-lizzazione (utilizzano proprio questi termi-ni); portano l’esempio della Grecia, su cuiritorna poi Cacciari, parlando del Mediter-raneo. La geofilosofia ci fa appunto vederequesto rapporto del pensiero e della crea-zione concettuale con la terra, della creazio-ne dei linguaggi anzitutto (di cui ha parlatoRaffestin). Questi filosofi hanno ricordato anoi geografi che i concetti su cui si fonda lanostra civiltà – parlo di concetti quali “de-mocrazia-aristocrazia”, “amico-nemico”,“teoria”, “logos”, “mito” – sono nati in unambiente geografico ben definito attraversorapporti di deterritorializzazione e riterrito-rializzazione. Perciò la morte del territorioavviene quando si interrompe lo specifico

processo di accumulazione concettuale cheesso alimenta. Tuttavia, anche dopo la mor-te del territorio, certi concetti che sono staticreati in quel territorio e che sono diventatigenerali continuano a vivere in un nuovorapporto con altri territori. La Grecia ce neoffre un chiaro esempio. Noi non possediamo invece il concetto delTao a cui faceva implicito riferimento Za-netto nel suo intervento. Esso ci permette-rebbe di risolvere molti problemi, nel sensoproposto dallo stesso Zanetto, cioè di vede-re i processi prima delle cose solidificate cheessi producono, vedere la realtà come si svi-luppa, accompagnarla, ascoltarla e così via.Noi non possediamo questo concetto, per-ché non ci è stato trasmesso dalla nostra tra-dizione culturale, che corrisponde anche aduna geografia culturale ben precisa. E que-sto ce lo dicono appunto i filosofi che ho ri-cordato prima e che certo non sono deter-ministi. Dunque, questo è un primo sensomolto generale di produzione di conoscen-za da parte del (o per mezzo del) territorio.Un secondo senso è quello centrale nell’in-tervento di Antonelli. Bagnasco ha già ac-cennato al fatto che questo tipo di cono-scenza, a cui si riferiscono i modelli deglieconomisti, potrebbe anche essere ampliatoad altri campi meno strettamente economi-ci. Io vorrei approfittare di questa occasio-ne per suggerire qualche cosa di un po’ pro-vocatorio nei confronti degli economisti.Esiste un turismo nelle grandi città, parlo diNew York, di Parigi, ma anche di Barcello-na, ad esempio, il cui reddito prodotto è nel-l’ordine delle migliaia di miliardi di lire,quindi non sono cose piccole. E questo tipodi sviluppo ha poco a che fare con la cono-scenza dell’innovazione tecnologica a cui fa-ceva riferimento Antonelli, e invece ha a chefare con altre accumulazioni di conoscenza,che sono le attrattive culturali come le ar-chitetture, i musei, le differenze culturali,ecc. Insomma, ci sono fatti che costituisco-no conoscenza più o meno condensata in co-se sia materiali che immateriali. Questo tipodi conoscenza è anch’essa cumulativa e sicomporta come quelle che ci ha descrittoAntonelli, nel senso che anche ad essa cre-do che si possa applicare il discorso dei ren-

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dimenti crescenti localizzati. Ma questi ser-batoi di conoscenza non sono orientati sol-tanto verso la direzione che ci presentavaAntonelli, ma anche verso altre direzioni im-portanti. L’esempio di Firenze che facevaprima Cavalieri è molto interessante da que-sto punto di vista. Anche qui c’è stata un’ac-cumulazione di conoscenza non puramentetecnologica, che già da tempo induce loca-lizzazioni di scuole di formazione di alto li-vello. Anche questo è un fatto interessante.A questo proposito si potrebbe anche ricor-dare il discorso sul made in Italy, di Beccat-tini e dei distrettualisti. In questo discorsosono essenziali certe forme di conoscenzache non sono quelle dell’alta tecnologia, mache nascono legate a certi territori e alla lo-ro storia e diventano fattori di sviluppo, coneffetti analoghi a quelli derivanti, in altri ter-ritori, dalle applicazioni della big science. Abbiamo dunque anche una conoscenzache deriva dalla specificità di certi territori.Se noi sappiamo leggere, interpretare, capi-re queste specificità otteniamo guadagni diconoscenza. In parte li abbiamo osservandoil territorio dall’esterno, ma – come ci han-no ricordato Coppola, Söderström, Zanettoe altri ancora in questo convegno – il terri-torio produce ed elabora conoscenza ancheal suo interno. Il territorio è anche fonte diautoconoscenza, è un “conosci te stesso”per chi ci abita. Ed è in questo senso anchefonte di creatività, di creazione di valore –parlo di valore esportabile – quando chi vi-ve all’interno di un certo luogo riesce a ve-derlo con gli occhi di chi sta fuori, cioèquando riesce a capire quali sono le poten-zialità contenute nel suo territorio che sipossono tradurre in valori esportabili. Equesto è un valore di conoscenza del terri-torio, secondo me, di nuovo assolutamentefondamentale perché è la base delle auto-rappresentazioni territoriali. Pasquale Cop-pola ci ha fatto vedere che i territori forti alivello nazionale, ma anche a livello regiona-le e locale, sono quelli che sono capaci di au-torappresentarsi in un mondo più vasto. Cifaceva vedere come il Mezzogiorno e ancheil resto dell’Italia avessero debolezze da que-sto punto di vista. Questa capacità di auto-rappresentarsi all’esterno è anche stretta-

mente legata alla capacità di autoprogettareil proprio sviluppo territoriale: ciò si vedebene nei piani strategici di cui ha parlato Ba-gnasco. In conclusione credo si possa dire che oc-corre conoscere come costruire conoscen-za. E non è un gioco di parole questo, per-ché se la conoscenza, come ci hanno ricor-dato Conti e Antonelli, è il motore dello svi-luppo, diventa assolutamente indispensabi-le sapere se e come si costruisce conoscenzain certi luoghi piuttosto che in altri, in certimodi piuttosto che in altri. Soprattutto cre-do sia importante capire come collegare traloro in modo virtuoso, ossia in processi disviluppo sostenibile, conoscenze contestua-li, locali, e conoscenze generali, globali.

ARNALDO BAGNASCO Naturalmente sono sta-te dette cose molto interessanti. Io trovosempre cose interessanti quando mi invita-no i geografi alle loro conferenze. Potrei fa-re adesso osservazioni in molte direzioni madevo scegliere. Ne faccio due: una sulla ta-vola che si sta tenendo oggi, e un’altra cheparte da una domanda del pubblico. Allora, riprenderei un punto di Zanetto chemi sembra importante: la questione delle ca-pitali regionali. Lo riprendo solo per sotto-lineare che davvero mi sembra un oggettoimportante di analisi oltre che un soggettoeconomico e politico importante. Tutti sappiamo che l’urbanizzazione in Eu-ropa, anche se non dappertutto nello stessomodo, è caratterizzata dall’esistenza di mol-te città, di molte medie città. È una realtàche ha preso forma fra Medioevo e Rinasci-mento, e che si conserva come una risorsaper l’organizzazione sociale contempora-nea. Soprattutto le capitali regionali sono unelemento centrale oggi della struttura socia-le europea: organizzano i rispettivi territorie, per i motivi che cercavamo di vedere pri-ma, stanno riacquistando importanza. Essesono quindi un oggetto pertinente della ri-cerca sociale odierna e con un significatoeconomico e politico tutto particolare. Nonsempre le studiamo in quanto tali, però giàZanetto ci metteva sulla strada giusta per ca-pire bene che cosa sia una capitale regionaleoggi. Allora, andando a frugare nel bagaglio

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della mia disciplina trovo un’altra tipologiache orienta la riflessione a questo riguardo:la distinzione tra città “generative” e città“parassitarie”. Ci sono storicamente città che vivono paras-sitariamente assorbendo risorse dal conte-sto economico e sociale che organizzano, eci sono città che invece generano processieconomici culturali di innovazione di variogenere nel territorio che innervano. Dobbia-mo tenere presente questa distinzione percominciare a orientare la nostra analisi an-che sulle capitali regionali: ci sono capitaliregionali che hanno già innervato, stannocercando di innervare il territorio che gover-nano, o che aspirano a governare, ce ne so-no altre che, viceversa, sono capitali parassi-tarie del loro territorio, o almeno lo sono ingran parte. Poi ci sono delle grandi città chepotrebbero essere delle capitali regionali manon assolvono a questo compito e allora haragione Zanetto nel dire che le capitali re-gionali devono fare il loro mestiere. Il caso del Veneto è paradigmatico a questoriguardo, lo diceva già Cattaneo nel secoloscorso: il Veneto è un insieme di localismi,perché senza una vera capitale. Venezia daquello che ci è stato detto sta diventandouna capitale vera del Veneto e tutto questosarebbe straordinariamente importante peril Veneto in quanto regione. Questo secon-do me è un punto da riprendere e da sotto-lineare come tema di studio per noi sociolo-gi, ma immagino anche per i geografi.Vorrei invece dedicare due parole a quelloche diceva Lidia Decandia. Certamente c’èla questione del Sud che entra con una suaparticolarità in tutta questa discussione.Ascoltando, mi sono ricordato di una bellaespressione di Paul Valery, il poeta che parladella necessità di “dare un nome alle cose as-senti”: questo è il punto che mi sembra cru-ciale e in parte anche implicito nelle cose chediceva Decandia. Il vero problema non èparlare del Sud evidentemente, ma è quellodi riuscire a immaginare, per uno o più Sud,specifiche vie di modernizzazione. Questoevidentemente è lo straordinario e compli-cato problema con il quale ci si misura datanto tempo, e che negli ultimi tempi sem-bra avere preso una piega più interessante.

Qualche anno fa ancora ci si immaginavache lo sviluppo, la modernizzazione, avreb-bero coinvolto gradatamente e in modoomogeneo i paesi e le zone che fino a quelmomento non si erano ancora sviluppate.Oggi sappiamo che questa è un’immaginemolto povera e che viceversa bisogna fareattenzione alle risorse specifiche che per sestessi e per gli altri possono portare le zoneche incontrano problemi sulla via dello svi-luppo e della modernizzazione. Ci sono sta-te ricordate alcune di queste risorse: cultu-rali, di tradizione, specifiche. Sono risorse,in questo caso per il Sud, da organizzare inuna immagine, un nome, una presenza, un’i-dea del modo di essere oggi del Sud. L’idea di dare un nome è poi la capacità stes-sa di autorappresentarsi del Meridione. Lecose che ci ricordava Decandia sono impor-tanti, cruciali, possono essere risorse daspendere all’esterno, da esportare. Credoche dobbiamo tuttavia stare attenti a unatrappola, cioè immaginare che l’eredità delSud sia quello, o sia solo quello. Queste ri-sorse hanno bisogno di essere rielaborate,introdotte in nuovi discorsi e immagini chesiano spendibili oggi; debbono fare i conticon l’efficienza economica. Ma a parte que-sto, bisogna tenere in conto che l’eredità delMezzogiorno è anche una pesante eredità distrutturazione politica di queste zone. Usan-do le categorie che ho espresso prima si puòdire che ci sono state molte città parassitariein questo contesto. Grandi città parassitariehanno effettivamente condizionato il Sud.Queste sono cose dure. Voglio fare un esem-pio delle trappole che ci stanno sotto. Uno dei più autorevoli attuali sociologi ame-ricani, ascoltato molto dall’opinione pubbli-ca – Robert Putnam – ha scritto un libro im-portante sul modo di funzionare delle regio-ni italiane, segnalando anche il divario tra ilmodo di funzionare delle regioni meridio-nali rispetto ad altre zone del paese. Certa-mente ha dei riscontri empirici molto inte-ressanti e non gli si può dare torto; egli ri-conduce però da ultimo l’interpretazione ditutto questo a una storia antichissima, cioèla storia della cultura civica in queste zonedel paese: queste società meridionali all’ini-zio del millennio avevano vissuto una realtà

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di governi autoritari e non l’esperienza dellelibere città come nel centro e nel nord delPaese; si è così innescato un processo cumu-lativo, con la formazione di una cultura noncivica, che continua a esistere e continua adessere il freno fondamentale alla moderniz-zazione del Mezzogiorno. Che ci possa esse-re qualcosa di vero è possibile, discutiamo-ne. Sappiamo peraltro che ci sono anchemolte debolezze nell’interpretazione dellacosiddetta cultura civica, che non è affattoun oggetto chiaro. Però il punto fondamen-tale è che la vera cosa da spiegare è perchéeventualmente una cultura civica di quel ge-nere si è mantenuta nel tempo. In tal casodobbiamo rimandare alle strutture di gover-no dei processi di sviluppo; al perché in cer-ti snodi storici siano state prese certe stradepiuttosto che altre; al perché da ultimo a po-co a poco, passo dopo passo, si arrivi alla si-tuazione attuale. La storia deve essere spie-gata e non può essere ridotta alla forza diuna presunta cultura originaria non civica,che, per così dire, condanna all’arretratez-za. Ho ricordato questa interpretazione diPutnam perché è un’immagine di rappre-sentazione di una regione italiana che correper il mondo, corre nei libri degli antropo-logi, è considerata una verità. Dall’esterno,per tornare al discorso interno-esterno, noipossiamo combattere queste immagini e adesempio attirare l’attenzione sui processipolitici o sulle città parassitarie come ha fat-to anche qualche storico meridionale, piut-tosto che su questi dati di cultura che sem-brano condannare i meridionali ad esserequello che sono perché hanno la testa fattacosì, perché ce l’hanno dal Medioevo in poi. Se le cose stanno così, c’è bisogno di un du-ro lavoro intellettuale e di ricerca per con-trastare immagini così forti che continuanoa circolare per il mondo e nei libri di antro-pologia, sociologia, ecc., contemporanei. Eperò, allora, se c’è bisogno di fare un discor-so sulla cultura nelle zone meridionali, sullesue risorse oggi, come diceva Decandia, ab-biamo bisogno di tenere presente che unprocesso storico ha costruito strutture di go-verno nel Mezzogiorno, e rapporti tra que-ste strutture politiche di governo ed econo-mia che sono un freno straordinario alla mo-

dernizzazione, e che se noi non saremo ca-paci di analizzarle e di trasformarle avremocomunque una palla al piede straordinarianella modernizzazione del Mezzogiorno perle sue possibilità. In altre parole, quandopensiamo a una regione, come sono le regio-ni del Mezzogiorno che tra l’altro sono mol-to diverse tra di loro come sapete meglio dime, dobbiamo insieme pensare queste risor-se culturali con queste strutture di governoe di controllo della società meridionale chesono molto forti, in parte perdurano, e solorecentemente hanno cominciato ad esserescalfite da una serie di processi. Se ne vo-gliamo leggere uno, semplicemente a livelloculturale, ricordiamo, ad esempio, le ricer-che che hanno messo in mostra la crescitadell’associazionismo autonomo nel Mezzo-giorno. È un fatto straordinariamente inte-ressante da seguire. Ecco, ma tutto questoper dire che c’è molto lavoro intellettuale dafare che nessuno potrà dall’esterno dare unnome alle cose assenti e che questo proces-so ha qualche probabilità di riuscire se saràinsieme un processo culturale e politico.

GABRIELE ZANETTO Ha ragione Dematteis: laconoscenza è anche conoscenza codificata,quella più facilmente riconoscibile come ta-le, che può essere prodotta dal territorio. A Venezia è nata un paio di anni fa un’uni-versità internazionale che chiamiamo “Ve-nice International University”: è una fede-razione che comprende le nostre due uni-versità più altre tre o quattro sparse per ilmondo. Attualmente stiamo formalizzando le rela-zioni con la Jew University di Gerusalem-me; abbiamo perduto di recente il presiden-te perché lo hanno eletto presidente dellaRepubblica e quindi, garbatamente, si è di-messo e lo abbiamo rapidamente sostituito;speriamo non succeda niente altro. La Venice University offre, per esempio, unmaster in management perché ci siamo ac-corti che tutti i problemi che si incontranonella gestione delle aree costiere sono da noiconosciuti e affrontati. Così, mettendo in-sieme quello che sappiamo all’università, leconoscenze del Ministero ai Lavori Pubbli-ci, del Consorzio Venezia Nuova, del Magi-

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strato delle Acque, e un po’ di altre entitàprivate e pubbliche, facciamo un master dieccellenza senza molti sforzi. Viste le dina-miche tipiche del porto un master in logisti-ca sarà altrettanto facile da organizzare. Abbiamo inoltre enormi giacimenti culturalida utilizzare: ci manca la moschea, purtrop-po, ma abbiamo tre sinagoghe e una comu-nità ebraica, nonchè una comunità cattoli-co-armena che è sede del vescovo ordinario,direttamente dipendente dal patriarca di Co-stantinopoli; a Venezia è arrivata una fonda-zione internazionale per gli studi sulla pace,è nato un master che insegna alle imprese delTriveneto cos’è la cultura del Sud del Medi-terraneo e insegna agli immigrati del Sud delMediterraneo come siamo fatti noi. Sono tutte cose che diventano spendibili an-che se non sono poi fatturate, non vanno di-rettamente nel valore aggiunto, o non ci van-no per quello che valgono. Cavalieri ci ha fatto un regalo chiedendocicos’è il “luogo”. Lo sequestreremo per unpaio di settimane e gli narreremo alcune co-se. È un argomento importante del conve-gno. Si potrebbe dire, citando, che “il luogoè dove non c’è bisogno di andare perché cisei già”. È una affermazione molto più finedi una tautologia che rimanda di nuovo aVenezia. Voi sapete che si dice Venezia e poi bisognasubito dire qualcosa d’altro: il centro stori-co, la città lagunare, l’area metropolitana,ecc. L’area metropolitana è piuttosto com-plessa, c’è la città, quella che la chiamiamo“il pesce” perché la forma urbis rassomigliapressappoco ad un pesce immerso nella la-guna, e poi c’è la “terra ferma” del comuneche, è ormai il perno vero di un’area urba-nizzata, con mezzo milione di abitanti, e cheè profondamente integrata con quella di Pa-dova e con quella di Treviso, per 1.200.000abitanti. Questo corpo esteso a bassa den-sità, ma che si vede in un modo chiarissimodall’aereo o dal telerilevamento, da chi ci vi-ve viene denominato per pezzi: a Favaro sidice vado a Mestre, a Mestre si dice vado aMarghera, e non c’è nessuna soluzione dicontinuità. Ma c’è una percezione frammen-tata: siamo costretti a dire Venezia “dentroo fuori”.

Questa frammentazione non è altro che unsegno di luoghi, certamente, ma è anche unsegno profondissimo dell’incapacità di ra-gionare in termini geografici multiscalari,che non è multiscalarità semplice geometri-ca ma è molto più complicata. Il riconosci-mento di questa multiscalarità fa parte di unprocesso di ricostruzione di una immaginecomplessa di Venezia che ancora manca del-le funzioni rare, quelle che fanno di Veneziauna città con il ruolo di capitale. È per quel-lo che Mestre vuole separarsi, per questo ab-biamo perduto “un borgo selvaggio” chechiamiamo “Cavallino”, di 12.000 abitanti,un’area verde tra la Laguna e un mare lea-der in Europa per il turismo di campeggio eche ora rischia di divenire un “bailamme”,come Jesolo, coperto di palazzine dedicatead un turismo ad alta intensità: questo inte-ressa agli abitanti; il Comune di Venezia in-vece impediva che questo succedesse. Man-ca ancora un’identità forte, non frammenta-ta, che a volte ha bisogno semplicemente diessere detta, di essere riconosciuta, di essereproclamata. Quando il sindaco Cacciari cinque anni faha “abbassato l’acqua”, come diciamo noi,cioè ha attraversato il Canal Grande, con-dotto da me, a rendere omaggio al presiden-te della Regione, cosa che nessun sindacoaveva mai fatto dal 1970, è stato un atto mol-to proficuo che ha portato alcune decine dimiliardi dell’Obiettivo 2, gestiti dalla Regio-ne. Ma è stato un atto duro, di spaccatura diqualcosa: un sindaco che riconosceva cheesisteva la sede della Regione di cui Venezianon ha mai ritenuto di avere bisogno, per-ché il sindaco a Venezia è l’erede del doge enon riconosce nessuna autorità superiore alui. Quando i pescatori si sono visti perseguitatidalla Guardia di Finanza perché pescavanocon strumenti proibiti, sono venuti tutti sot-to la sede del palazzo comunale, a tirare lesirene delle turbosoffianti per dire che lorovolevano da vivere, ma il Comune non avevanessuna responsabilità su questo settore: cel’aveva la Regione. A chi lo dicevano? Al sin-daco, cioè al doge, al genio loci, allo spiritodella città. E questa è una complicazione cherende difficile definire la funzione metropo-

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litana di Venezia. Esiste una oggettiva diffi-coltà ad andare oltre la città storica, quel ter-ritorio che certamente produce conoscenza,che ha prodotto ben tre deputati europei“veneziani”, una quantità enorme rispetto ai70.000 poveri disgraziati che siamo. Quando si è proceduto alla costruzione delparco scientifico ci è stato chiesto come fos-se possibile chiamare “parco geologico-scientifico di Venezia” una struttura che è aMarghera, senza chiaramente capire cosavoglia significare “area metropolitana”. La riqualificazione della base economica ela costruzione della funzione metropolitanadi Venezia non possono essere concepite seintorno c’è uno spazio che non interessa,che non si sente proprio, se non si capisceche i 32 ettari di Marghera, con i suoi 100posti di lavoro per ettaro, all’80% laureati,muterà la rappresentazione e consentirà aquel pezzo di città una specializzazione me-tropolitana. Altrimenti, la domanda localenon farà che specializzarsi ulteriormente incose assolutamente banali. Qui il ragiona-mento di Guarrasi è molto stimolante: co-me farà un territorio caratterizzato da unastraordinaria fortuna nella geografia dellaglobalizzazione a darsi rappresentazioniidonee e vincenti se non ha una sua “lingua”,una rappresentazione comune? Lo dicevaRaffestin: o il Mezzogiorno avrà le sue cate-gorie e inventerà la propria rappresentazio-ne o si ritroverà sempre nelle aree periferi-che della Unione Europea. Si è tutti centro,si è tutti periferia, ma bisogna che si trovi ilmodo per costruire rappresentazioni ade-guate. Credo che il tipo di attività che ho in-trapreso – grazie a Giuseppe Dematteis pernon avermi chiamato neo-kantiano, chia-marmi taoista è un’innovazione che gradi-sco molto – sia intonata a quello che succe-de già e che le difficoltà presenti ancora aVenezia si scioglieranno e succederanno del-le cose certamente migliori.

FIORENZO FERLAINO È stato detto tutto. Pren-derò solo spunto dall’intervento di Decan-dia, perché secondo me ha posto un proble-ma al quale hanno in parte risposto, forsenon dico niente di nuovo. Ha posto un pro-blema vero che è il seguente: se i sistemi lo-

cali devono essere a rendimenti crescenti,del Terzo Mondo, del Sud Italia, ecc., cosafacciamo? Non riusciranno mai ad esserecompetitivi perché i rendimenti crescenti sipossono avere innovando oppure sfruttan-do la risorsa lavoro. E quest’ultima cosa giàsi sta facendo. Ha certo ragione Antonelliquando dice che i sistemi locali a rendimen-ti crescenti possono essere una decina nelmondo e prevarranno su tutti, ma hanno an-che ragione quelli che sostengono che i di-stretti industriali in Italia sono nati non inaree dove il milieu è fortemente innovatore,ma in aree dove il milieu non era assoluta-mente moderno e dove piuttosto l’accessi-bilità era scarsa, difficile. In Piemonte una delle cose che si può facil-mente verificare è che tradizionalmente(Biella ne è un esempio) i distretti si forma-no in aree a scarsissima accessibilità. Unnuovo distretto che forse potrebbe nascerenella valle del Po (tessile e abbigliamento)pare reggersi, in modo ancora piuttosto pre-cario, proprio sul lavoro, nel senso che si la-vora tanto, in modo flessibile e senza tantainnovazione. La stessa Prato – lo si vede intelevisione continuamente – oltre all’inno-vazione ha molti cinesi che lavorano, in si-tuazioni di sfruttamento piuttosto gravi. Daquesto fatto non se ne esce fuori. Decandia,Coppola e altri ancora hanno detto cosemolto interessanti: guardate che dietro il mi-lieu innovatore, la banana blu, c’è un mododi vedere, una metafisica che è quella attua-le, quella realmente operante. Io sono d’ac-cordo ad assumere la teoria del milieu inno-vatore, ma nelle aree dove non si ha innova-zione, e nel contempo non ci si vuole ridur-re ad essere aree di grande sfruttamento dellavoro, come si risolve il problema? Zanetto in qualche modo ha risposto: la que-stione è che il territorio, come espressionedi valore, non ha soltanto l’espressione eco-nomica. Io penso che esista un’espressioneetica che informa tutta la questione della so-stenibilità – Zanetto diceva che le cose chestanno facendo non sono fatturabili né van-no a incrementare il valore aggiunto. Questaè la chiave. La questione della sostenibilitànon è un problema risolvibile all’interno del-la visione del valore economico. Non è pos-

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sibile perché la remunerazione delle ester-nalità eliminerebbe probabilmente qualsiasivantaggio territoriale competitivo. È qui chesi aprono nuove strade per ragionare di ter-ritorio ed è qui che tutta la questione etica,delle norme etiche socialmente introiettate,dei valori e quindi della secolarizzazione,emerge con forza. Questo è un altro svilup-po, è un’altra società, è un’altra cosa. Il pas-saggio, che prima auspicavo, dalla societàeconomica ad una nuova società, che soloper capirsi chiamo “etica” – e che è in qual-che modo anche un ritorno verso forme “tra-dizionali” dell’agire anche se in chiave mo-derna, sistemica, autopoietica – non è altro.Io non so se il Meridione ha la capacità diavere la necessaria e moderna attenzione eti-ca al territorio; non mi pare: al contrariosembra che siano più i sistemi locali avanza-ti, quelli che hanno già sperimentato l’inno-vazione tecnologica e che si muovono oltre,

che guardano oltre la produzione, nel terri-torio, ad avere maggiori possibilità. Su que-sto però la riflessione è aperta.

Riferimenti bibliografici

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discipline. Milano: Cisalpino.BRUNET R.,1984 La regionalizzazione: essenza o gestione dello

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IL TERRITORIO COME PRODUTTORE DI CONOSCENZE 113

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Marcello La Rosa

Un congresso scientifico, come qualunque altra impresa umana, è una sorta di navigazione al-la volta di nuovi mondi e sovente prevede, al suo compimento, la divulgazione del diario di bor-do, ossia la pubblicazione degli atti.

Così come nelle spedizioni dei secoli passati raggiungere una terra inesplorata accresceva laconoscenza del mondo fisico, e le nuove rappresentazioni cartografiche che queste scoperte ge-neravano si diffondevano presso un più vasto pubblico, così gli atti di un convegno trasmettonoil sapere della comunità scientifica agli addetti ai lavori e non, arricchendone la cultura.

Con il convegno promosso dall’IRES “Il mondo e i luoghi: geografie delle identità e del cam-biamento”, giocare con la simbologia del viaggio per mare è particolarmente suggestivo poichéla metafora si raddoppia e si confonde con la realtà che descrive, divenendo quasi un’avventuraricorsiva. È un po’ come se un’idea si mutasse in realtà e una nozione in sapienza.

Durante il convegno è stato proposto uno slide-show multimediale i cui contributi iconografi-ci sono stati riprodotti in questo volume (nell’appendice C, da pagina 217). La scelta dei conte-nuti, presentati in un’alternanza di suoni e immagini appositamente ricercati e originalmentemontati, non è stata solamente il doveroso omaggio all’oggetto della trattazione, ma il risultatodel fascino che la geografia esercita anche su coloro che non sono cultori della materia. In veritàla ricerca di sonorità e di effetti visivi di grande impatto ha attinto a un’idea di geografia senzadubbio più tradizionale e romantica di quella che il dibattito ha inteso affrontare, più similecioè a quella che nell’introduzione viene definita come frutto di “finzioni, immagini folcloristi-che al servizio del marketing turistico” e di “luoghi rappresentati come spettacolo”. Eppurequel piccolo peccato, ossia l’aver indugiato, da organizzatori, su di un archetipo poco innovati-vo e per certi versi fuorviante, acquista oggi, alla luce del complesso delle riflessioni condottedurante i lavori, un senso che allora avevamo soltanto intuito. Si tratta del bisogno di recupera-re, là dove la scienza ha svolto egregiamente il suo compito, anche una dimensione popolare ecollettiva della conoscenza geografica, che consenta di raggiungere lo scopo fondamentale diogni processo culturale: la sua comunicazione all’umanità.

Per comprendere a fondo che cosa questo significhi nell’ambito che a noi qui interessa, risul-ta utilissimo riflettere su quelle che sono le rappresentazioni più immediate della geografia, valea dire le carte geografiche.

Le mappe sono sempre state strumenti di creazione, non solo per chi le realizza ma anche perchi le consulta con lo sguardo del discente o del sognatore. Le carte, prima di essere rappresen-tazioni scientifiche, sono, e sono sempre state, manifestazioni di creatività: un mondo di segnied elementi artistici capaci di comunicare tra loro e che possono essere compresi solo con altristrumenti di lettura.

NOVAE TERRAE

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Le carte geografiche subiscono l’influenzadella percezione dominante, delle incognite edelle domande del tempo in cui sono stateprodotte. Vengono realizzate nel tentativo didescrivere la Terra che si conosce e, al con-tempo, sollecitare l’immaginario per andareverso non si sa cosa.

Per molto tempo, le carte geografiche sonostate contemporaneamente strumenti di lavo-ro, opere d’arte e rappresentazioni fantastichedi un mondo in gran parte sconosciuto. Poi glistudi scientifici, gli strumenti di navigazione, icalcoli matematici, la perizia dei cartografi etutti i più sofisticati sistemi di rilevazione han-no ridotto progressivamente, sino ad annul-larlo, il margine della fantasia e delle incertez-ze. Oggi possiamo rappresentare con precisio-ne lo sviluppo delle coste, il corso dei fiumi,l’altezza delle montagne, la profondità deglioceani, la natura della flora, la dimensione deicentri abitati, il reticolato delle vie di comuni-cazione e persino la composizione mineraledei terreni.

Le carte sembrano ormai diventate unostrumento tecnico e neutrale, privo di errori epregiudizi, a cui possiamo tranquillamente af-fidarci per una giornata di trekking, una cir-cumnavigazione fra le isole greche o una tra-versata del Sahara.

Ma, per un singolare paradosso, nel mo-mento stesso in cui la realtà geografica può es-sere rappresentata con la massima accuratez-za tecnica, le carte sono divenute, per alcuneparti del mondo, inaffidabili.

Proprio come i percorsi della nostra vita –relazioni, famiglia, mezzi di sussistenza, em-patie, convinzioni e pregiudizi – che, tracciatida tempo e in modo marcato nella nostra co-scienza, sono tuttavia sottoposti a continuepressioni che tendono a stravolgerne l’ordine.E tra questi fattori esogeni, oggi, il più forte èsicuramente dato dalla globalizzazione: genti,idee, opportunità diverse e, con loro, anchenuove sfide.

Dinnanzi a simili provocazioni le convenzio-ni vacillano e non vale confidare nella fissità enella completezza delle proprie informazioni,per quanto appaiano precluse al raggiungi-mento della perfezione. Non prestare orecchioal senso più generale di quel che sta avvenen-do, per quanto non codificato e ancora impal-

pabile con gli strumenti scientifici, può con-durre ad un isolamento senza appello.

Blaise Pascal, già nel 1650, ebbe proprioquesta meravigliosa intuizione: “avevo tra-scorso lungo tempo nello studio delle scienzeesatte; ma la scarsa comunicazione che se nepuò trarre me ne aveva disgustato”.

Il viaggio, sia fisico che metafisico, partesempre dal bisogno di relazionarsi, di andareal di là di quanto si conosce e di come lo si pos-siede. L’altrove è sempre un luogo della men-te, della sua parte più immaginifica, la sola chepuò oltrepassare la frontiera della razionalità.

Pascal, in realtà, non disdegna affatto la fi-ducia nella conoscenza scientifica, anzi la pro-pugna e la nobilita, ma nemmeno cede allatentazione di farne una fede e in questo modogiunge dove Cartesio non volle arrivare: scor-ge i limiti della ragione e, al tempo stesso, ilvalico per il loro superamento.

Prima, dopo e oltre la conoscenza del mon-do, bisogna saper immaginare mondi.

Per calcare terre lontane è senz’altro neces-sario rappresentarle, ragionarle, renderle visi-bili attraverso gli strumenti più avanzati che lascienza mette a disposizione nell’epoca che aciascuno è dato di vivere. Ma a permeare que-sto sforzo razionale, così importante nella sto-ria dell’incedere umano, è l’intuizione. Senzadi essa non c’è guida ai passi della conoscen-za, non c’è spinta ad acquisire, a progredire.In una parola, non c’è cultura.

Il grimaldello per aprire il sapere a nuovosapere, l’arma bianca nella mano della scien-za, è evocata da Pascal con quella suggestioneche la definizione possiede soltanto quando èperfetta, forse proprio per questo difficilmen-te esplicabile, ed è l’ésprit de finesse.

Lo spirito di finezza non si contrappone al-lo spirito di geometria, al contrario lo comple-ta, lo supera, forse se ne burla perfino, ma so-lo dopo aver sudato sangue per compenetrar-ne ogni segreto e applicarlo. Quel che più con-ta nella loro relazione osmotica, nel lavorio in-cessante che l’incontro di geometria e finezzaproduce, secondo Pascal, è che all’uno spettadi ragionare mentre all’altro compete la com-prensione:

“Nell’ésprit géométrique, i principi sonopalpabili ma distaccati dall’esperienza comu-

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ne […] nell’ésprit de finesse i principi deriva-no dall’esperienza comune e sono davanti agliocchi di tutti […]. Per conoscere l’ésprit definesse occorre però avere una visione buona,ma buona per davvero, perché i principi sonocosì delicati e così numerosi che è quasi im-possibile che qualcuno non sfugga all’osserva-tore.

Ciò che fa sì che i geometri manchino diésprit de finesse è che non riescono a vedereciò che sta davanti ai loro occhi e che essendoadusati a ragionare soltanto sulla base dell’a-nalisi e della manipolazione di tali principi, fi-niscono col perdersi quando si trovano davan-ti a problemi di finesse.”

È la comprensione, ossia l’intuizione, la sen-sazione, il guizzo, a generare in ultima analisila gnosi, che prenda poi la forma di un’acqui-sizione scientifica, di uno stile letterario o diuna scoperta geografica.

La geografia incarna questo processo evolu-tivo in modo emblematico perché nasce perantonomasia dall’avventura e dall’esplorazio-ne, divenendo speculazione sulla scorta del-l’ansia e del coraggio di affrontare l’ignoto edi attraversare l’orizzonte.

La géométrie pascaliana, che ritroviamo neldisegno, nella prospettiva, nella plasticità, nel-la tridimensione, finanche nella avveniristicadigitalizzazione di catene montuose, reticolatifluviali e masse terraquee, cresce e si evolvegrazie a quell’altro ésprit, il suo alter ego ro-mantico e irrazionale. Dagli antichi planisferia Internet, qualcosa cuce i pezzi di scienza tradi loro e ne fa una coperta per il mondo. È lavolontà di domandare ancora e ancora all’uo-mo, alle sue potenzialità morali prima che aquelle intellettuali. È la duttilità, la preveggen-za, il colpo d’occhio capace di inglobare l’uni-verso. È il vero viaggio, quello dentro l’uomo,il solo che lo può portare ad aprirsi e che nonpuò avere fine.

La lezione di Pascal ci soccorre di nuovo,soprattutto oggi, quando è altissimo il rischiodell’atomizzazione, della specializzazione,della noia, quando la chimera dell’esaustivitàci blandisce e ci addormenta. La finesse ci ri-vela che non c’è visione satellitare che possafar piena luce su dettagli che il viaggiatore nondesideri in sé svelare, sperimentare e, infine, a

mo’ di chiusa ideale del circolo virtuoso, co-municare.

Viviamo in un mondo orfano di visioni e cri-tica, e ritengo che la geografia, da questa an-golatura spirituale, sia una scienza libera e li-berante proprio perché possiede uno sguardoche sa essere ad un tempo appassionatamentecritico e visionario. Essa, infatti, comunica unavisione utilizzando gli strumenti propri di di-scipline scientifiche diverse, che trovano peròla loro euristica unità interpretativa in un in-terrogativo che l’uomo nel guardare il mondosi è posto da sempre.

L’idea della reciproca dipendenza è propriadella geografia, ma molta gente incontra gran-de difficoltà ad adottare questo nuovo mododi pensare.

Farne uno stile e imprimerlo nelle mappementali che governano le nostre idee e in-fluenzano le nostre scelte è uno degli obiettivifondamentali della geografia.

Essa diventa un’allegoria dell’incertezza delnostro presente, dove il lumen razionale è ser-vito a troppi usi, utili e inutili, perché i suoicircuiti siano sicuri di reggere all’impatto deldivenire.

Questa insicurezza è una dimostrazione delfatto che il mondo e la conoscenza del mondonon procedono secondo la lineare semplicitàdel battito cardiaco, ma hanno bisogno dellesottigliezze della intricata mente umana, dellecomplicazioni dell’intelligenza.

Rimanendo nell’orbita pascaliana e pertantoda non geografo, ma da attento lettore degli at-ti di questo volume e simpatizzante della ma-teria, voglio concludere commettendo un er-rore certo e cioè trarre una conclusione suun’attività umana che per definizione non neha. In questo convegno mi sembra sia emerso– a dispetto della parola “morte” che soventevi ha aleggiato e che solo un certo tremebondopudore ha impedito che venisse pronunciata –che la geografia non è morta, che è accomuna-ta ad altri saperi scientifici in evoluzione dalparadigma della complessità e che questo siain grado, in questo specifico sapere, da un latodi elaborare una visione della realtà prevalen-temente antiriduzionistica con l’intento di con-nettere tra loro i suoi diversi aspetti, dall’altrodi elaborare un ripensamento epistemologicodella conoscenza che produce.

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La geografia, quindi, quale status dellarealtà in evoluzione, sembra essere da una par-te una teoria della conoscenza e dall’altra unarealtà da conoscere. Essa ci insegna che è dif-ficile sapere “a priori” di che cosa abbia biso-gno una comunità, e che non è facile stabilire“a priori” ciò che si debba prendere in consi-derazione e ciò che valga la pena trascurare.

Nella scienza geografica la complessità nonpare quindi essere quella della finta trans-di-sciplinarietà, ma un approccio funzionale aduna sua radicale ridefinizione rispetto ad unavisione semplificata che viene, troppo spesso,comunemente diffusa e percepita. Vuol dire

una geografia che ridefinisce le sue praticheordinarie alla luce delle differenze tra ciò chesi può generalizzare e ciò che è effettivo, masoprattutto con la capacità di confrontarsi conquello che esiste realmente.

Vuol dire trovare speranza nella ricchezzadella realtà e non in spoglie idealità. Forse èuna visione, non molto dissimile dalle imma-gini che abbiamo scelto, da sognatori, ma nonsi può prevedere altro che ciò che si desidera,mentre molti desiderano solo ciò che si preve-de. Si dicono idealisti, ma sono solo sfibratiopportunisti.

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I mondi e il luogo

Ricerca geografica e sistemi informativi geografici

Vincenzo Guarrasi

“The sky above the port was the colorof television, turned to a dead channel”

W. Gibson, Neuromancer, 1984

Il doppio movimento della geografia contemporanea

Nel 1984 William Gibson pubblica Neuromancer, il primo romanzo in cui il cyberspace e lavirtual reality si affermano come dimensioni chiave delle interazioni umane. Il 1984 è un annodecisivo anche per la geografia, perché in esso ha origine un doppio movimento, che avrà nellaCalifornia, e soprattutto in Los Angeles, il suo epicentro. L’Università della California di SantaBarbara si specializza nei GIS e tende a qualificare un nuovo tipo di professionalità geografica inconnessione con l’abilità e la competenza nell’impiego delle tecnologie informatiche. L’Univer-sità della California di Los Angeles (UCLA) si orienta piuttosto verso la geografia umanistica eculturale, e offre un contributo importante allo sviluppo di quel dibattito postmoderno (Minca,2001a, 2001b) che prenderà le mosse dalla pubblicazione del saggio di Jameson su Postmoder-nism, or the Cultural Logic of Late Capitalism (1984) e dal volume di Lyotard intitolato The Post-Modern Condition. A Report on Knowledge (1984).

Il doppio movimento che a mio giudizio anima le componenti più innovative della geografiacontemporanea risponde, pur con esiti divergenti, ad una medesima questione: cosa avviene sulterreno di confine tra lo spazio geografico e il ciberspazio? Il delicato rapporto tra i processi diglobalizzazione e le diverse forme di identità territoriale (che alimenta il dibattito postmoder-no), e lo sforzo orientato a incorporare nel ciberspazio, attraverso i GIS, le dimensioni costituti-ve (fisiche e umane) dello spazio geografico sono facce diverse della medesima medaglia.

Di tale doppio movimento la geografia italiana sembra avvertire un’eco lontana; tuttavia par-tecipa con un suo specifico itinerario di ricerca, che si muove proprio sul bordo di quell’abissodimensionale che il ciberspazio scava intorno al cuore stesso dello spazio geografico.

L’automated geography

Nel 1993 Jerome E. Dobson, chiamato a valutare un decennio di ricerca nel campo della co-siddetta automated geography1, afferma che i GIS rappresentano una rivoluzione tecnologicacompiuta – su di essi si fonda un’industria con un fatturato di 3 miliardi di dollari e più di 400sistemi in produzione – ma soprattutto una conditio sine qua non della ricerca geografica nel

1 Nel maggio del 1983 la ri-vista “The ProfessionalGeographer” dell’Associa-zione dei Geografi America-ni aveva pubblicato un arti-colo di Jerome E. Dobsondell’Oak Ridge National La-boratory (ORNL) sul temadell’automated geography.La stessa rivista ha poi dedi-cato nel 1993 una sezionespeciale dell’“Open Forum”ad una valutazione di un de-cennio di ricerche in questocampo, invitando lo stessoautore e altri studiosi di di-verse università americane atracciare un bilancio di pro-spettiva. I toni enfatici adot-tati da Dobson a propositodella automated geographycontrastano significativa-mente con il parallelo bilan-cio di Michael Dear: “Since1986, over fifty major arti-cles concerned with post-modernism and geographyhave been published in themajor journals, and an equi-valent number of commen-taries and critiques. Up until1989, this research focusedon three main areas: culturallandscapes and place-making; the economic land-scapes of post-Fordism andflexible specialization; andphilosophical/theoreticaldisputes over space and lan-guage. Since then, geo-graphers’ interest in post-modern issues matured,broadening and deepeningto include: problems of re-presentation in geographicalwriting and cartography; thepolitics of postmodernism,including feminism, orienta-lism, postcolonialism, andthe law; the constructionand boundaries of the self;and a reassertation of natureand the environment que-stion. I believe that postmo-dernism constitutes a mostprofond challenge to threehundred years of post-enli-ghtenment thinking” (Dear,1994, p. 300)

SISTEMI INFORMATIVI GEOGRAFICI (GIS)

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mondo amministrativo, degli affari e dell’uni-versità. Il dinamismo che i GIS hanno espres-so in questo ultimo decennio sia in termini diinnovazione che di diffusione induce a pensa-re che siamo ancora nello stadio iniziale di unarivoluzione tecnologica, scientifica e intellet-tuale (Dobson, 1993, p. 431).

Siamo entrati, dunque, nell’era della automated geography? Tutto dipende da ciòche intendiamo con questo termine e dal mo-do in cui concepiamo il rapporto tra sistemiinformativi e ricerca geografica. Tre sono gliscenari possibili: nel primo di essi l’automatedgeography rappresenta una vera e propria mu-tazione del sapere geografico, avvenuta per ef-fetto della “rivoluzione tecnologica”; nel se-condo non è che una protesi tecnologica delgeografo professionale scarsamente attinentealla ricerca geografica accademica; nel terzocostituisce un complemento essenziale dell’at-tività del geografo e un modo per parteciparedi un cambiamento generale indotto nella so-cietà contemporanea dalle tecnologie digitali(telematica, sistemi informativi geografici,multimedialità, ecc.).

Il primo scenario, che si ispira ad una sortadi millenarismo tecnologico, confermerebbe-ro una tendenza già manifestatasi nel corso diquest’ultimo decennio. Gli effetti a lungo ter-mine sarebbero radicali: la geografia cessereb-be di essere ciò che fanno i geografi. Utilizzan-do il geografo automatico, qualsiasi tecnico(persino l’uomo della strada) potrebbe con-durre analisi di ecosistemi naturali, paesaggistorici e spazi geografici. Le possibilità di suc-cesso di una “geografia senza geografi” sononaturalmente legate, in primo luogo, al gradodi formalizzazione del sapere geografico; insecondo luogo, all’importanza che assegnamoalla consapevolezza critica nella costruzionedi questo tipo di sapere.

Il secondo scenario appare invece piuttostosfavorevole all’automated geography. Esso fi-nisce per incorporare i GIS nel novero delletecniche specializzate che, pur essendosi svi-luppate dai germi del sapere geografico, han-no acquisito poi una sempre maggiore auto-nomia dal corpus di conoscenze che le ha ge-nerate. È la dinamica storica che ha interessa-to le tecniche cartografiche e che ha portatoalla formazione di due professionalità distin-

te: quella del cartografo e quella del geografo.La cartografia numerica non ha mutato i ter-mini del problema, anzi li ha accentuati: alcomplesso dei saperi tecnici se ne è aggiuntouno nuovo, la competenza informatica. Il sol-co si è così ulteriormente allargato, trasfor-mando una relativa autonomia in automatiz-zazione dei procedimenti cartografici.

Tuttavia i GIS non sono semplice cartografianumerica2. Essi sembrano destinati a rimette-re in discussione la separatezza dei due saperi(cartografico e geografico) e a promuovereuna ricomposizione. Movimenti significativisono già in atto e l’universo delle geoscienze èforzato a dialogare dalla necessità di offrireuna base interpretativa adeguata al complessodi informazioni geografiche a cui oggi siamoin grado di accedere attraverso la combinazio-ne di telerilevamento, cartografia digitale eGIS. Persino la più grande differenza, quellatra geografia fisica e umana, potrebbe ricom-porsi grazie alla richiesta di conoscenze inte-grate proveniente dalla gestione dei sistemiinformativi. Le tendenze alla ricomposizionedel sapere geografico allo stato attuale sonoperò così deboli da fare ritenere ancora impro-babile il connubio tra sapere geografico e tec-nologie digitali ipotizzato dal terzo scenario3.

La conversione digitale del mondo

Negli ultimi decenni del XX secolo si è av-viato un processo destinato ad influenzare nelprofondo l’universo della comunicazioneumana: una nuova versione del mondo – digi-tale – sta prendendo vita. Ormai ogni quoti-diano propone CD-ROM, enciclopedie o “en-ciclomedie”, ogni libreria dedica scaffali inte-ri a PC, manuali illustrativi dei software piùdiffusi, ecc. Tutto questo – ma il processo èappena iniziato – si risolve in una traduzione,conversione di nozioni già conosciute in infor-mazione digitale. Il sapere organizzato nei li-bri, nelle riviste, viene travasato nel mondo di-gitale, il quale utilizza queste forme di orga-nizzazione adattandole alla propria struttura.Ma non illudiamoci: la conversione del mon-do al digitale non si arresterà a questo stadio;la fase più creativa e innovativa di questo pro-cesso (che darà vita all’organizzazione di nuo-

PARTE SECONDA - SISTEMI INFORMATIVI GEOGRAFICI (GIS)

2 Il termine “GIS”, intesocome rappresentazione di-gitale dello spazio geografi-co, viene riferito comune-mente all’uso delle seguentitecnologie: computer carto-graphy; computer graphics;digital remote sensing; spa-tial statistics; quantitativespatial modeling.

3 Esso, prevedendo una feli-ce convivenza tra la geogra-fia umana e la geografia au-tomatica, somiglia al finaleposticcio imposto dalle esi-genze commerciali al BladeRunner di Ridley Scott.Anche in quel caso, l’Uomoe l’Automa, messe da partele diffidenze reciproche, siaccingono a convivere entrouno spazio edenico.

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ve componenti del sapere, ad una sua nuovastrutturazione) è soltanto all’esordio. I GIS so-no il contributo della geografia alla profondatrasformazione in atto.

A questa problematica “Geotema”, la rivi-sta dell’Associazione dei Geografi Italiani, hariservato il sesto dei suoi numeri monografici,intitolato Realtà virtuali: nuove dimensionidell’immaginazione geografica. Almeno il 60-70% di questo volume della rivista è dedicatoai GIS, ma la scelta del titolo da parte del cura-tore – ne sono sicuro, perché sono io stesso –si ispira al seguente ragionamento: stiamo par-lando dei GIS ma non solo di GIS perché noncapiremmo nulla se non inquadrassimo questisistemi di rappresentazione nello scenario acui essi appartengono. Perciò il problema ènon soltanto quale sia il tipo di mutazione delsapere geografico, ma quale tipo di mutazionedel mondo geografico, dell’oggetto dei nostristudi, sta avvenendo sotto i nostri occhi pereffetto della rivoluzione digitale e come ci col-lochiamo in tutto questo.

Per abbozzare alcune risposte a questa pro-blematica, ovviamente molto vasta e coinvol-gente, forse dobbiamo partire proprio dallanatura dei GIS e tenere conto del fatto che que-sti sistemi non sono stati costruiti dai geografi– anche se i geografi hanno avuto, nel mondoanglosassone e nordamericano in particolare,un grandissimo ruolo nella costruzione di que-sti sistemi – ma che c’è stata una convergenzafra discipline e saperi estremamente diversifi-cati. E ciò che è vero nella genesi di questi stru-menti è vero anche per il loro uso: i sistemiinformativi geografici non sono utilizzati sol-tanto dai geografi. L’elemento nuovo, che nonriguarda solo la sociologia della ricerca, è il fat-to che si costituiscono vere e proprie comunitàdi utenti dei GIS, che si incontrano periodica-mente e si confrontano sullo stato dell’arte esul livello di avanzamento di questi sistemi.

I GIS vengono definiti in molti modi diversi.Io personalmente prediligo una definizioneche è stata proposta dallo stesso Jerome Dobson. Mi piace tanto forse proprio perchénon la condivido fino in fondo. Dobson diceche i sistemi informativi geografici non sonoaltro che la “rappresentazione digitale del pae-saggio di un luogo”. Trovo suggestiva l’ideache un paesaggio, che è già immagine di qual-

che cosa, possa riflettersi a sua volta in un’al-tra rappresentazione, in un’altra immagine,come allo specchio, e che attraverso questogioco di specchi si possa ricostituire persino illuogo, quella cosa estremamente complessache è l’oggetto su cui tanto ci siamo tormenta-ti anche in questa sede e che è difficilissimo dadefinire, anche perché più mondi, dal miopunto di vista, convergono nel luogo (Guarra-si, 2001a).

Come rappresentazione digitale di un pae-saggio, cosa sono in fondo i GIS? Sono un da-tabase in cui ciascun oggetto ha una posizionegeografica, associato ad un software in gradodi svolgere funzioni di immissione, gestione,analisi e produzione di un output. Oltre allaposizione geografica, il database contiene an-che molti attributi che servono a distingueregli oggetti tra loro e le altre informazioni sullerelazioni tra gli oggetti4.

I GIS sono un modello di organizzazione didati: è questo l’elemento che maggiormente licaratterizza5. Essi creano nessi tra posizioninello spazio e tante altre cose (la gamma si èmolto ampliata negli ultimi anni con l’integra-zione dei GIS e dei sistemi multimediali).Qualsiasi cosa che immettiamo in essi diventaun analogo, una metafora se volete, di qualchecosa che supponiamo ci sia nel mondo reale.Si viene a creare un sistema di corrispondenzetra mondo digitale e mondo reale. Questo, dalmio punto di vista, è estremamente importan-te. Vorrei che si riflettesse su questo aspetto:in qualche modo, la navigazione in rete rap-presenta una sorta di deterritorializzazione.Siamo lì, nel nostro studio, con un personalcomputer connesso in rete, ma abbiamo lasensazione, l’illusione, di essere altrove, do-vunque, nel mondo.

Non è male che, pur in forma primitiva, at-traverso il sistema informativo geografico, sipossano fissare le coordinate del dove siamoin ogni momento: non è vero, infatti, che letecnologie, le telecomunicazioni in particola-re, eliminino la distanza. Chiamiamo, piutto-sto, la distanza a giocare un ruolo diverso ri-spetto al passato. Ancora una volta, per dirlacon Jacques Levy, entrano in gioco metrichediverse, geometrie variabili, ma non si eliminala distanza. E allora il sistema informativo geo-grafico, che comunque richiama l’universo

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4 Anche in Italia disponia-mo oggi di buoni manualiintroduttivi: ai lavori di Ga-gliardo (1989) e di Costa(1993) che hanno fatto, percosì dire, da apripista, si èaffiancato ad esempio il piùrecente e aggiornato testo diFavretto (2000).

5 Per la computer science unmodello di dati è costituitodall’insieme di regole usateper creare una rappresenta-zione dell’informazione,nella forma di entità discre-te e delle loro relazioni.

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della georeferenzialità entro il mondo digita-le, è uno strumento che non ci dice molto suiluoghi ma che richiama all’estensione della su-perficie terrestre e alla diversità dei mondi chevi abitano.

I GIS indubbiamente sono una tecnologia,e come tutte le tecnologie non sono onnipo-tenti. Incorporano in sé la logica cartografica,ossia un certo modo di strutturare la realtà, diorganizzare la rappresentazione del mondo,che la geografia è chiamata spesso a contrad-dire. Ai geografi non ho bisogno di ricordareche la relazione tra il discorso geografico el’immagine cartografica è dialettica. Basta ri-chiamare in proposito l’opera di Franco Farinelli, che, con grande passione, ci mette inguardia dalla apparente veridicità della carto-grafia moderna, che a suo giudizio non mani-festa un maggior grado di approssimazione alreale del segno figurato caratteristico delle im-magini premoderne (Farinelli, 1992). Da que-sto punto di vista, i GIS non sono ovviamentepiù veri della carta geografica, ma sembranotali. È per questo che non possiamo accettareuna rivoluzione tutta tecnologica, applicazioniaffidate esclusivamente agli informatici: uninformatico può anche credere che ciò che rap-presenta sia la realtà; il geografo sa che non ècosì, e come un grillo parlante non dovrebbemancare da nessuna favola tecnologica.

Come lo strumento cartografico da cui par-tono e che rendono più duttile, più flessibile epiù potente, i sistemi informativi geografici so-no molto ben orientati a trattare certi aspettidel reale – ciò che è visibile, tangibile, ciò cheha una prevalente organizzazione spaziale – esono meno efficaci a trattare altre dimensionidell’agire umano: il tempo, ad esempio, e lastoria. La grande forza di questi sistemi sta nelcogliere nessi geografici. Il gioco più diverten-te è la sovrapposizione di più carte o più stratidello stesso territorio per vedere il gioco dellecorrispondenze. Questi strati sono come tra-sparenti l’uno all’altro, e per trasparenza noicogliamo le convergenze, la logica spaziale dideterminate relazioni. Possiamo pertanto uti-lizzare, gestire ed elaborare numerose infor-mazioni per gli aspetti spaziali, ma difficil-mente potremo includere altre dimensioni.Della geografia, dell’organizzazione degli spa-zi geografici i GIS sono più sensibili a cogliere

– questo è un dato ormai consolidato – gliaspetti fisici rispetto agli aspetti sociali e rela-zionali. Ma un geografo sa che non è possibileraccontare, descrivere un territorio senza por-re l’accento su tutti gli aspetti relazionali cheentrano in gioco.

I geografi delle ultime generazioni ci hannopure complicato la vita perché ci hanno dettoche locale e globale non sono in antitesi e cheil globale sta dentro il locale. Quindi, anche lerelazioni della globalizzazione finiscono peressere presenti nella dimensione locale e terri-toriale degli eventi. Anche riguardo a questiaspetti il sistema informativo geografico èmesso duramente alla prova. In fondo, una po-tenzialità che va sviluppata in questo senso èla cosiddetta transcalarità. Attraverso i GIS,così come avviene in tutti gli atlanti, si puòpassare da una scala all’altra e quindi possonovisualizzare contemporaneamente dimensionidel fenomeno che si sviluppano e hanno effet-ti molteplici alle diverse scale.

Tre momenti rilevanti nell’evoluzionedei GIS

Tre mi sembrano i momenti salienti dell’e-voluzione dei GIS. Il primo, che corrispondeall’origine stessa di tale tecnologia, risale aglianni sessanta: generalmente si considera co-me prima prima esperienza nel settore GIS ilCanada Geographic Information System, svi-luppato da e per conto del governo canadeseal fine di cartografare e valutare l’uso del suo-lo del paese. Il suolo fu classificato in base adalcune variabili (grado di coltivazione agrico-la, grado di attrazione ricreativa, uso del suo-lo, ecc.) successivamente riunite in carte allascala di 1:50.000. Ogni variabile era calcolataper ciascun punto e quindi le carte potevanoessere concettualizzate come una serie di stra-ti (layers) o, in termini matematici, campi(fields), e il database come una torta a più stra-ti. La caratteristica specifica della classe deicampi nel modello di dati è rappresentata daldatabase che contiene un numero finito di va-riabili, ciascuna delle quali cartografabile re-lativamente all’area considerata dal databasee avente un unico valore in ciascun punto del-l’area (Goodchild, 1996).

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Un altro momento estremamente significa-tivo nella storia dei GIS è costituito dall’espe-rienza del Bureau of the Census degli StatiUniti nell’organizzazione del censimento nel1970. Anche in questo caso i campi costituiro-no un criterio concettuale valido per la crea-zione del modello di dati, poiché ciascun pun-to costituiva esattamente uno stato, una con-tea, una sezione di censimento, ecc. Quandoqueste due esperienze furono riunite dal labo-ratorio per la grafica computerizzata dell’Uni-versità di Harvard negli anni settanta, la visio-ne a strati del mondo dominò i GIS. Il softwa-re ARC-INFO fu creato e distribuito dalla Envi-ronmental Systems Research Institute (ESRI)ed è ancora oggi uno dei più diffusi GIS chenasce proprio dall’esperienza dell’universitàdi Harvard.

Il terzo momento rilevante, perché ad essocorrisponde un ulteriore impatto innovativo,tale da trasformare il GIS da tecnologia in unvero e proprio campo di ricerca, è quello cheè avvenuto quando il National Science Foundation degli USA ha consentito con unconsistente finanziamento la costituzione diun consorzio che comprendeva l’Università diSanta Barbara in California, la State Univer-sity of New York di Buffalo e l’Università delMaine, denominato “National Centre forGeographical Information and Analysis”(NCGIA). Questo centro è stato a lungo diret-to da Michael Goodchild, il quale ha redatto,nel già citato numero di “Geotema”, un sag-gio estremamente significativo per la rassegnache propone delle attività di ricerca del NCGIA. Dal tipo di attività che si sviluppa inesso si capisce quanto sia avanzato e consape-vole il programma di mettere ordine nella ver-sione digitale del mondo.

Non è un caso, infatti, che uno dei progettipiù recenti, su cui si concentra un grosso inve-stimento di energie, è il cosiddetto “Alexandria Digital Library Project”. Intito-lare la nascente biblioteca digitale ad Alessan-dria significa riconoscere che l’idea di un sa-pere geografico universale è nata nella biblio-teca di Alessandria d’Egitto. Forzando un po’i termini della questione, potremmo afferma-re che i GIS ritornano dove sono stati per laprima volta concepiti dalla mente umana: leprime basi di un sistema informativo geografi-

co non sono state poste in Canada, né negliStati Uniti, non nell’ultimo secolo, ma tre se-coli prima della nascita di Cristo, nella biblio-teca di Alessandria, da Eratostene di Cirene.

Le radici ellenistiche e le tendenze con-temporanee

Nello spazio di una biblioteca che aspiravaad essere la raccolta universale dei saperi,esercitando un’arte antica come la critica filo-logica dei testi, si è messo mano ad una cartadel mondo che è ben diversa dal famoso pinax,la carta di Anassimandro di Mileto. La diver-sità essenziale tra le due carte risiede in quellefamose linee astratte (grammai) che, subordi-nando la superficie terrestre alla logica dellospazio geometrico, consentono di posizionareogni località del mondo entro uno spazio dia-grammatico spoglio (Guarrasi, 1997). Quan-do si inventa un dispositivo di questo genere,il GIS è già fatto; manca solo la tecnologia disupporto. Il nostro assillo da allora è riempirele caselle di questa carta. La grande sfida è sta-ta lanciata da chi per primo ebbe l’ardire didisegnare la Terra, il mondo intero; non sap-piamo se, come afferma Eratostene, fu Anas-simandro a lanciare la sfida, anzi oggi questoappare piuttosto improbabile. Tuttavia unacosa è certa: quando la sfida viene raccolta tresecoli dopo, dallo stesso Eratostene, il pro-gramma fondamentale della geografia è giàmutato, poiché la cultura ellenistica ha già tra-sformato un sapere olistico in analisi spaziale.Da allora ci tormentiamo perché, da una par-te, il compito di riempire tutte le caselle diquesta mappa universale si è trasformato inuna vera ossessione, e, dall’altra parte, nonpossiamo fare a meno di interrogarci se le tes-sere, che andiamo collocando, appartenganoveramente allo stesso mosaico e si possanocombinare in un unico universo culturale.

Dunque, per effetto di un artificio (il dispo-sitivo inventato da Eratostene), un certo ordi-ne spaziale di eventi per noi è diventato ordi-ne razionale del mondo, la leggibilità del mon-do intero. È significativo che il National Centre che lavora sui GIS adotti come proprioprogetto fondamentale la costituzione di unabiblioteca digitale, chiamandola “Alexan-

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dria”. È un destino che si compie. E se voglia-mo rappresentare il mondo, lo possiamo faresolo nello spazio di una biblioteca, digitalecerto, ma pur sempre una biblioteca.

Con i sistemi informativi geografici si è ria-perto, quindi, un gioco antico che consiste nellavorare sul mondo e, provando a rappresen-tarlo, nel mettere continuamente in discussio-ne l’atto stesso di rappresentare. Gli esiti sonooggi del tutto imprevedibili perché i GIS dellenuove generazioni – il mondo digitale ha tem-pi evolutivi rapidissimi – rilanciano la sfidaspostando continuamente il campo di gioco: iGIS ormai non lavorano soltanto sull’intera-zione fra il mondo reale e la sua rappresenta-zione bidimensionale. Il terreno di sperimen-tazione più appassionante è quello che si svi-luppa in un gioco di relazioni tra il mondo rea-le e l’universo di rappresentazioni tridimen-sionali, connesse con il virtual reality modelinglanguage.

Nel gioco multiverso del confronto tra ilreale e il virtuale vi è un ulteriore scenario daprendere in considerazione: esso consistenella costruzione di mappe per orientarsi nelmondo digitale. Il ciberspazio induce a crea-re sempre nuovi modelli, guide, strumenti dinavigazione (Openshaw, 1996; Kitchin,1998; MacEachren, 1998). In questo proces-so il geografo deve, innanzitutto, riconqui-stare l’attitudine al mapping, costruire map-pe per orientarsi nel mondo. Fare mappevuol dire selezionare aspetti salienti dellarealtà, ossia scegliere, assumersi la responsa-bilità della scelta. I geografi avevano questotipo di competenza e di abilità ma poi, per lastrana storia che li contraddistingue, le tecni-che cartografiche si sono autonomizzate ri-spetto al geografo e al sapere geografico, co-stituendo una disciplina indipendente: nondobbiamo consentire che questo accada nuo-vamente con il GIS; dobbiamo provare a ri-lanciare la nostra attitudine a fare mappe e ainsegnare a fare mappe. Denis Cosgrove chia-ma performative mapping quel processo crea-tivo che non esaurisce i suoi effetti nel cam-po della rappresentazione, ma trasforma larealtà. Fare una mappa è un atto creativo,un’arte, che noi forse siamo ancora in gradodi praticare (Cosgrove, 2000; Söderström,2001).

Il mondo reale si sfaccetta sempre di più, siarricchisce di dimensioni nuove. Si provi aconfrontare una rappresentazione a tre di-mensioni con il mondo che essa si propone dirappresentare. Il mondo reale avrà sempreuna dimensione in più: la riduzione non si eli-mina, ma si ha in mano uno strumento moltopiù potente. Si provi inoltre a dinamizzare tut-to questo attraverso l’animazione: un’altraquinta si apre, e la rappresentazione cartogra-fica, immobile nella sua fissità, si mette in mo-to, diventa un processo che attraverso l’ani-mazione può provare a reintrodurre nel suolinguaggio spaziale la dimensione del tempo,e con esso strategie più efficaci di elaborazio-ne dell’informazione sulla storia e sui cambia-menti temporali, cambiamenti e identità.

Ricerche con i GIS, ricerche sui GIS

I GIS sono, dunque, uno straordinario cam-po di ricerca e, insieme, un importante stru-mento di ricerca: possiamo praticare con gran-de profitto sia ricerche con i GIS che ricerchesui GIS e sulle comunità che interagiscono at-traverso i GIS. Sono due possibilità estrema-mente interessanti e molto diverse l’una dal-l’altra.

Negli Stati Uniti da qualche anno si discutedel rapporto tra sistemi informativi geograficie società (Giordano, 1996). Che cosa, in so-stanza, consente di fare il GIS? In qualche mo-do consente di fare carte su misura. Quandoprendo le misure del territorio, prendo le mi-sure ad una società e provo a ritagliare perquest’ultima l’abito cartografico più appro-priato. La duttilità di questo strumento con-sente questo tipo di utilizzo. Dopo essere sta-to a lungo demonizzato dalla geografia radica-le come mezzo per affermare un controllo tec-nocratico sui territori delle società umane po-trebbe persino con il tempo rivelarsi uno stru-mento di partecipazione democratica al pro-cesso decisionale. Ancora una volta, comesempre avviene nelle relazioni tra scienza etecnologia, da una parte, e potere, dall’altra,quello che fa veramente la differenza non è ilmezzo in sé, ma l’uso che se ne fa. Quando sideve prendere una decisione e diversi attorisociali interagiscono, introducendo ciascuno

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il proprio punto di vista, il GIS può consentiredi simulare gli effetti territoriali delle diverseopzioni, elevando il grado di consapevolezzadelle soluzioni adottate. L’interazione umanapuò essere facilitata dall’uso di questi stru-menti e orientata verso l’adozione di scelte ter-ritoriali consapevoli. Tuttavia, non semprequesto avviene, anche perché la visualizzazio-ne dei problemi spesso acuisce le conflittua-lità piuttosto che elevare il grado di consensosociale.

I Gis di fronte alla differenza delleculture

Chiamare in causa il rapporto tra i GIS e l’in-terazione umana significa sollevare un proble-ma di fondo. Gli esseri umani non si differen-ziano soltanto per i punti di vista, ma ancheper le culture. In questo ambito si è veramen-te vicini ad un limite dei GIS: comunque li in-tendiamo, con la logica cartografica essi si por-tano dietro, o meglio dentro, un’immaginegeometrica del mondo; sono adatti a rappre-sentare la diversità culturale? Se noi vogliamorappresentare un mondo, un quartiere urba-no, un luogo dove convivono più culture, at-traverso il sistema informativo geografico, nonrischiamo di introdurre un linguaggio che, es-sendo di matrice geometrica, finisce già perschierarsi da una parte, e da una soltanto, del-le culture in gioco? Riguardo ai problemi le-gati all’interculturalità, la geografia contem-poranea ci induce ad essere estremamente esi-genti. Questo oggi viene percepito come unelemento decisivo per le grandi implicazionietiche; non è più il tempo in cui il mondo oc-cidentale, in virtù di una pretesa universalitàdei propri valori, possa arrogarsi il diritto diparlare a nome degli altri, di altre culture. Eallora, o si piega il GIS all’ospitalità di valori esensibilità differenti o la sua rigidità innatapuò divenire un forte argomento a favore dicoloro che avversano l’adozione di questo ti-po di rappresentazioni geografiche.

Il banco di prova decisivo è costituito dallaversatilità di questi strumenti informatici, nontanto nel rappresentare le altre culture, quan-to piuttosto ad essere impiegati da coloro chestrutturano la propria relazione con l’ambien-

te in termini non astrattamente spaziali. An-che in questo campo i ricercatori del Norda-merica propongono il quadro di esperienzepiù avanzate. Un repertorio molto vasto di dif-ferenze culturali piuttosto marcate è offertoad esempio dalle cosiddette first nations, ov-vero le culture autoctone d’America. Per l’ap-proccio dei GIS al tema dell’interculturalità èinteressante il tipo di esperienza proposto inCanada, a Calgary in particolare, da una gio-vane studiosa italiana, Stefania Bertazzon, e daNigel Waters: provare a non utilizzare il siste-ma informativo geografico per spazializzarela cultura delle popolazioni indiane d’Ameri-ca, ma vedere piuttosto se il modo di concepi-re le relazioni tra gli uomini e degli uomini conl’ambiente proprio di queste culture potessegenerare una matrice nuova nell’organizzazio-ne dell’informazione geografica. Il program-ma a cui hanno lavorato è un programma cheè denominato per l’appunto Traditionalknowledge.

Questi percorsi, esplorazioni, che in qual-che modo si richiamano al relativismo cultu-rale, pur superandolo di molto, possono esse-re importanti anche per gli europei: anche sein Europa, proprio perché gli indigeni non liabbiamo ancora messi nelle riserve – gli indi-geni siamo noi e la nostra cultura è depositatanell’ambiente che ci circonda – guardare den-tro il rapporto tra esseri umani e ambientevuol dire interrogarsi su noi stessi. Apparen-temente il compito è più facile; in realtà è piùdifficile, perché la nostra è una cultura del pae-saggio e quindi i segni materiali del mondo checi circonda ci rimandano come uno specchiol’immagine della nostra cultura. Ogni paesag-gio riflette l’estrema complessità della nostrarelazione con il mondo e diviene così un testinteressante per mettere alla prova la validitàdelle rappresentazioni digitali.

Per una nuova generazione di atlanti

La strategia di conoscenza adottata dallageografia nordamericana per relazionare traloro la varietà delle culture e la complessitàdelle forme di organizzazione territoriale, a cuii GIS ci consentono di accedere, acquisisconoun significato del tutto nuovo se riproposto

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nel vecchio continente. L’ambiente europeorappresenta, infatti, un palinsesto di paesaggistorici di grande valore, esposti a reali possibi-lità di degrado. Il rischio più grave è che si de-termini una frattura irreversibile tra l’ambien-te culturale, inteso come stratificazione di usi,funzioni e valori simbolici, e il sistema di valo-ri e modelli di comportamento che regolanola vita contemporanea. Ricostituire le condi-zioni di leggibilità del paesaggio storico è dun-que il primo obiettivo di ogni operazione tesaalla conservazione e alla salvaguardia del pa-trimonio culturale.

L’universo dei fatti culturali è di gran lungapiù esteso rispetto a quel complesso di ogget-ti cui convenzionalmente ci riferiamo con lanozione di “patrimonio culturale”. Esso coin-cide, infatti, con tutti i prodotti dell’uomo,nessuno escluso. Correttamente inteso, essosi dilata fino a comprendere la “natura” stes-sa, in quanto l’essere umano non appare ingrado di entrare in contatto con l’ambiente incui vive se non tramite quegli schemi, model-li e rappresentazioni che la sua cultura gli of-fre. Il discrimine vero, da questo punto di vi-sta, non passa tanto tra natura e cultura, maconsiste in ciò che distingue un universo so-ciale dall’altro. L’adozione della cultura, nel-l’accezione più ampia del termine, consentedi apprezzare nel giusto valore la straordina-ria varietà di forme in cui le diverse societàhanno saputo organizzare la propria vita nelterritorio; e questo vale per tutto l’arco delleoccorrenze che va dalla piccola alla grandissi-ma scala, ossia muovendo dalle identità regio-nali e locali agli spazi continentali. Se per unverso è auspicabile, dunque, che si parli di“beni culturali e ambientali”, perché questoci induce ad affrontare con un atteggiamentounitario il problema della conservazione del-l’ambiente storico e naturale, dall’altro è op-portuno che si esalti la valorizzazione delledifferenze culturali espresse dall’umanità nel-la sua storia.

Sotto questo profilo appare preziosa unastrategia di conoscenza – quella geografica –che oltre a chiedersi “quando?” è abituata ainterrogarsi sul “dove”. Nel caso dei beni cul-turali questo interrogativo non si pone nei ter-mini di una semplice localizzazione dei feno-meni indagati. La natura di questi particolari

oggetti è tale che essi non sono collocati in un“luogo”. Essi, piuttosto, generano il paesag-gio e rendono riconoscibili i luoghi in cui so-no situati. Funzionano come punti di originedello spazio geografico e come marche d’iden-tità territoriale. Un’indagine meramente de-scrittiva, che si limitasse a cartografare la di-stribuzione sul territorio dei fatti culturali (sitiarcheologici, musei, complessi monumentali,ecc.), risulterebbe estremamente riduttiva,operando sul suo oggetto un’intollerabile for-zatura.

Il programma di ricerca chiamato “Atlantevirtuale” ha preso avvio verso la metà degli an-ni novanta e ha visto impegnati geografi di di-verse sedi universitarie (De Spuches, 2002): sipropone di creare le competenze scientifichee tecnologiche necessarie per la progettazionee la realizzazione di un atlante virtuale del pa-trimonio culturale e ambientale, concepito co-me una raccolta sistematica di “ipercarte”, si-stemi di navigazione in un mondo di informa-zioni espresse in forma digitale. Grazie all’ap-plicazione di GIS e programmi multimediali,si intende costituire un archivio interattivo checonsenta al fruitore non tanto di consultareuna raccolta di carte già definita, ma di gene-rare le carte, attivando connessioni tra eventi,interrogando la banca dati secondo specificiitinerari di ricerca, aggregando e disaggregan-do informazioni in rapporto a coordinate spa-zio-temporali mutevoli.

I GIS oltre le cornici paradigmatiche

L’apertura della ricerca geografica, favoritadai GIS, alle altre culture sarebbe un eventoassolutamente sterile se in parallelo non siverficasse un affrancamento della disciplinadal dominio di un unico paradigma. È del tut-to evidente, infatti, che l’automated geographyaltro non è che la versione più avanzata delparadigma funzionalista. La ricerca di unaconciliazione tra i cultori delle diverse geo-grafie risale, per la verità, all’inizio degli anniottanta (Gould, Olsson, 1982). Troppo diver-genti erano allora i cammini di ricerca e trop-po aspra la contesa per acquisire posizioni diassoluta preminenza nel mondo accademicostatunitense, perché un programma di così

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ampio respiro potesse avere successo. Gli an-ni novanta avrebbero costituito un ambientemeno ostile in tale direzione se il dibattito po-stmoderno non avesse contribuito ad allarga-re il solco tra geografi “apocalittici” e “inte-grati” e reso improbabile la ricerca di un ter-reno comune6.

Alla luce di quanto avvenuto nel Nordame-rica, cioè nel cuore stesso dell’area di diffusio-ne dei GIS, appare di qualche rilievo esporrequanto avvenuto in parallelo alla periferiadell’“impero”: in Italia si avviano con notevo-le ritardo sia l’esperienza di ricerca con i GIS,sia la riflessione e il dibattito sull’uso di talitecnologie. Esse acquistano una certa consi-stenza soltanto negli anni novanta, quando inseno all’Associazione dei Geografi Italiani sicostituisce il gruppo di lavoro su “Sistemid’informazione e ricerca geografica”. Il lavorodei geografi italiani assume però fin dall’inizioconnotati del tutto peculiari: in primo luogoperché esso promana dall’iniziativa di geogra-fi di ispirazione umanistica, formatisi allascuola della geografia culturale di CostantinoCaldo e impegnati nello studio di oggetti cul-turali complessi come il patrimonio culturalee il paesaggio storico; in secondo luogo, per-ché fin dal primo momento di dibattito pub-blico si sceglie di tenere a battesimo il nuovogruppo affidando la relazione introduttiva aFranco Farinelli. Si tratta di una scelta di cam-po attiva e consapevole: si inizia, ponendo laricerca sui GIS sotto le insegne della criticadella ragione cartografica7.

Il serrato confronto teorico e metodologi-co che si avvia non perde mai di vista altri dueimportanti obiettivi: la formazione professio-nale di una nuova leva di geografi italiani chenon debba necessariamente rimanere confi-nata entro il perimetro ristretto della ricercaaccademica; il confronto con la più ampia co-munità GIS, costituita da società e istituzioniimpegnate nello sviluppo e nelle applicazionidei GIS al territorio8. Il momento fondativoessenziale di questa esperienza di ricerca e diformazione è costituito dal colloquio interna-zionale sul tema “Fonder le lieu, instaurer l’e-space: l’efficace des représentations géografi-ques” (Gibellina, 1993), che l’Associazionedei Geografi Italiani organizza in collabora-zione con il Groupe International d’Études

sur le Représentations en Géographie9. Inquella occasione si tentò di coniugare l’inda-gine sul terreno e l’applicazione di GIS e si-stemi multimediali, la quale troverà negli an-ni successivi ulteriori momenti di sviluppo edi approfondimento fino alla singolare espe-rienza del colloquio itinerante dal titolo “Paesaggi virtuali”, tenutosi a Palermo nel200010.

La geografia italiana fra tradizioneumanistica e innovazione tecnologica

Attraverso la mediazione della metafora eu-ristica di Giuseppe Dematteis (1985, 1995),della critica della ragione cartografica diFranco Farinelli (1992, 1995) e delle riflessio-ni sui limiti della rappresentazione (Mondadaet al., 1992; Farinelli et al., 1994) il dibattitosulla crisi della modernità ha fatto breccia co-sì nella geografia italiana. Il ritardo nella dif-fusione dei GIS nel nostro paese ha contribui-to a stemperare la contrapposizione, moltosentita oltre oceano, tra i cultori della geogra-fia umanistica e quelli dell’automated geo-graphy. Forse, anche in ragione della trauma-tica esperienza vissuta da chi negli anni ses-santa e settanta aveva tentato di introdurre inun ambiente accademico piuttosto tradizio-nalista i modelli analitici della new geography,nel caso dei GIS si è operato in maniera “dol-ce” nel promuovere l’innesto dell’innovazio-ne tecnologica sulla tradizione di studi geo-grafici, per non provocare inutili reazioni dirigetto. Ne è derivato un approccio umanisti-co, rinnovato nei metodi e nei contenuti, chetende a rivisitare le dimensioni classiche deldiscorso geografico e dell’immagine cartogra-fica, dei paesaggi e dei luoghi, esplorando lepotenzialità e i limiti delle nuove tecnologiedell’espressione.

Il dibattito postmoderno ha assunto una ci-fra italiana così chiaramente riconoscibile daattivare segnali di curiosità e di attenzione piut-tosto rare da parte della geografia nordameri-cana, normalmente così autoreferenziale. Ciòè apparso con evidenza nel corso del colloquioveneziano dedicato alla “Postmodern Geo-graphical Praxis” (10-11 giugno 1999) e neiprimi commenti sul volume edito dalla

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6 “La maggior parte dei geo-grafi ‘critici’ angloamericaniha infatti cominciato a riget-tare in maniera assai energicai diversi approcci di matricepositivista e, in particolare,quelli associati all’analisi spa-ziale: chi è rimasto fedele allalogica positivista è stato pro-gressivamente emarginato daldibattito ‘centrale’ della disci-plina, e neanche la rapida earrembante diffusione deiGIS è stata in grado di rivalu-tare il ruolo di questa posizio-ne epistemologica, semmai ilcontrario” (Minca, 2001b,21).

7 Ciò avviene a Palermo nel1992, dove si svolge la primagiornata di studi del GruppoAGEI.

8 Il confronto si svilupperàper tutti gli anni novantanell’ambito del “Progetto fi-nalizzato beni culturali” delCNR e attraverso la collabo-razioni con enti, come la Re-gione Sicilia, nella costruzio-ne di GIS finalizzati alla for-mazione di Piani paesisticiregionali e locali.

9 Al Colloquio parteciparo-no tra gli altri Gunnar Olsson, Mondher Kilani,Jean Bernard Racine, FelixDriver, Giuseppe Dematteise Franco Farinelli.

10 Al colloquio parteciparo-no come relatori GunnarOlsson, Ola Söderström,Giuseppe Dematteis, Christian Jacob, Franco Farinelli e Tiziana Villani.Ogni intervento si svolse inun luogo diverso della città:l’orto botanico, il teatro Garibaldi, il loggiato SanBartolomeo, l’osservatorioastronomico, la Zisa e l’exospedale psichiatrico (DeSpuches, Guarrasi, 2002).Nell’arco del decennioerano venute a maturazioneesperienze di ricerche e ri-flessioni maturate nell’ambi-to del “Progetto finalizzatobeni culturali” del CNR e delProgramma di ricerca nazio-nale, cofinanziato dalMURST, significativamenteintitolato “Logica cartografi-ca e Sistemi InformativiGeografici”.

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Blackwell che ne raccoglie i contributi (Minca,2001a)11.

Le tecnologie digitali, sempre più amiche-voli per noi geografi umanisti, forse ci posso-no abilitare a recuperare un aspetto della ri-cerca geografica che io considero decisivo: lacapacità di leggere una realtà complessa edestrapolarne un modello, una metafora, unadescrizione. Perché, se una carta geografica èil prodotto di un atto creativo applicato al ter-ritorio, dobbiamo provare nuovamente a iscri-vere le nostre mappe (le immagini del mondoche continuamente costruiamo) nel mondoreale. Operando in tal modo – ma con l’avver-tenza di non oscurare gli altri punti di vista odi soverchiare le altre voci – la realtà virtualetornerà ad apparirci non più come un surro-gato della realtà, ma come una via d’accesso,attraverso il luogo che abitiamo, ai molteplicimondi culturali che arricchiscono l’universodella comunicazione umana.

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PARTE SECONDA - SISTEMI INFORMATIVI GEOGRAFICI (GIS)

11 In quarta di copertinaleggiamo il commento diRob Shields della CarletonUniversity: “Key figures ofthe Italian geographical tra-dition contribute a bold ini-tiative to move geographicaldebates into line with cur-rent scientific standards.Their work, rarely availablein English, is a ‘must read’for those concerned withthe representation of globalflows and with cartographicpractice.” Ma soprattutto,nella sua afterword al volu-me Edward W. Soja affer-ma: “[...] hearing the criti-cal intellectual voices of theItalian geographers was ahighlight of Venice confe-rence for me, and these voi-ces now represent a crucialcontribution to the presentvolume” (Minca, 2001a, p.286).

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Aspetti del paesaggio agrario del Roeroe della Langa albese

Roberto Ajassa, Bortolo Franceschetti

I principali fattori della modificazione del paesaggio agrario nell’ultimo secolo

L’area del Roero e della Langa albese è caratterizzata da una prevalente economia agricola,soprattutto vigneto, e da attività artigianali e industriali spesso connesse con la lavorazione e latrasformazione dei prodotti dell’agricoltura. Non va trascurata, dal punto di vista dell’assettoterritoriale, l’incidenza dell’industria dolciaria Ferrero, per l’impulso dato alla coltura dellenocciole, che in talune aree ne ha soppiantato altre economicamente meno vantaggiose. È quin-di comprensibile che il prevalere nel territorio di un certa tipologia di attività agricole, dettata inlarga misura dalla morfologia collinare, dalla litologia del substrato e dal clima locale1, tenda acaratterizzare in modo preciso il paesaggio non solo del Roero e della Langa albese, ma anche dimolte altre aree dell’Astigiano e delle Langhe, conferendo all’insieme l’aspetto di un ambienteagricolo diffusamente antropizzato che, se a prima vista può apparire naturale, di fatto è in granparte controllato da scelte d’uso funzionali a chi ci vive2.

Un equivoco in cui talora cadono taluni ambientalisti, con una preparazione non approfondi-ta sulle complesse tematiche della percezione della geografia di un paesaggio, è infatti quello didefinire “naturale” un ambiente solo perché il suo assetto “appare” in equilibrio con le caratte-ristiche climatiche e fisiche del territorio che lo include. Che si possa definire “ecologico” unambiente le cui componenti naturali e antropiche sono tra loro in sintonia, anche se ciò dipendein parte da scelte indotte dall’uomo, può essere accettato: se non altro perché anche all’uomo,come a ogni altra entità biologica che occupa un territorio, va riconosciuto il diritto di modifi-carlo in modo da realizzare in esso l’habitat ottimale per il suo vivere. Non va però dimenticatoche ogni intervento antropico, anche se può apparire ecologicamente corretto, impone comun-que vincoli alla naturale evoluzione dell’ambiente in cui viene attuato, per cui questo non puòpiù definirsi “naturale”.

Nella Langa albese e in molte parti del Roero un elemento paesaggistico caratteristico è lapresenza del vigneto ovunque la situazione locale ne renda vantaggioso l’impianto. Nella Langaalbese l’estensione delle aree a noccioleto, anche se alquanto maggiore rispetto ad un passatorelativamente recente, è infatti del tutto subordinata rispetto alle aree occupate dai vigneti. Nonmancano anche altre scelte d’uso agricolo del suolo per l’opportunità di produrre in loco forag-gio per il bestiame, mais, frutta, ecc., specie dove i terreni, per natura, esposizione e assetto to-pografico, cioè per le loro caratteristiche fisiografiche, rendono meno vantaggiose altre colture.Talune aree, nel Roero localmente anche estese, sono lasciate a incolto produttivo (bosco ceduospontaneo). In passato le aree boscate erano molto più estese d’ora per la richiesta di legna daardere e altri usi, e per l’impossibilità, con l’aratro trainato da buoi, di dissodare versanti che su-

1 Adottando la classificazio-ne climatica di Thornthwai-te, finalizzata alle problema-tiche agricole, il clima sipuò definire: subumidoasciutto con debole surplusinvernale di precipitazioni,temperato moderatamentecaldo ma con inverno fred-do nell’Albese; subumidoasciutto con limitato sur-plus idrico tra febbraio eaprile, temperato con estatecalda e inverno freddo nellamedia Langa.

2 Accettata, in un territorio,la presenza dell’uomo nonsi può non riconoscerglianche delle obiettive neces-sità per cui, nel giudicare seun suo intervento sul pae-saggio esistente è positiva onegativa, vanno considerateanche le motivazioni dellascelta (valutazione del rap-porto costi-benefici). Adesempio, se un nuovo tipodi coltura comporta, da unlato, un aumento del 30%del reddito rispetto a quellofornito dalla coltura prece-dente e, dall’altro, un possi-bile maggior rischio del 5%di perdite di redditività perla una sua minore attitudinea ostacolare taluni tipologiedi processi di degradazionedei versanti, è comprensibi-le che di fronte al maggiorreddito il conduttore dell’a-zienda agricola scelga di ac-cettare i rischi connessi,anche se ciò, in assoluto,può non essere corretto.

L’ESPERIENZA

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peravano una certa pendenza. Esse sono oralimitate alle zone caratterizzate da asperità to-pografiche e da un substrato costituito da ma-teriale poco coerente o sciolto a prevalentecomponente sabbioso-siltoso-argillosa, che ri-chiede la presenza di una copertura boschivaper contrastare gli effetti dei processi di de-gradazione dei versanti.

L’attuale paesaggio del Roero e della Langaalbese è anche un bell’esempio di modifica-zione relativamente rapida dell’assetto terri-toriale di un ambiente, che, ben percepita dachi ritorna sui luoghi a distanza di tempo, ten-de a sfuggire a coloro che vi risiedono. Chi ri-vede questi luoghi dopo anni, nota subito letrasformazioni intervenute nell’architetturadel paesaggio geografico, perché i panoramiattuali gli appaiono assai diversi da quelli chericordava; ma per chi vi vive, una nuova co-struzione, un vigneto in più o in meno, unanuova strada o l’ampliamento e la rettifica diuna già esistente sono visti come scelte e inter-venti che rientrano nella naturale tendenzadell’uomo al miglioramento continuo del suohabitat e non come significativi momenti dimodificazione ambientale. Questo perché ladinamica di un paesaggio vissuto riflette il mo-do di recepire gli stimoli del progresso econo-mico, tecnologico e culturale da parte di chi viè stabilmente insediato.

L’originaria localizzazione dei centri abitati,tendenzialmente accentrati sulla sommità del-le colline o allineati lungo i crinali si spiega ri-cordando che, in passato, nella scelta delle se-di dei centri abitativi venivano privilegiate leposizioni dominanti e al riparo dai rischi difrane e inondazioni. Nel nostro caso tale scel-ta, per il raggio allora ridotto delle economielocali, risolveva al meglio anche il problemadei collegamenti tra borgo e borgo perché, se-guendo le strade la sommità dei crinali, si rag-giungeva il duplice scopo di evitare il supera-mento di forti pendenze e di operare in zonemorfologicamente abbastanza sicure, perchéal riparo sia dai dissesti di versante che dalleperiodiche alluvioni che colpivano i fondoval-le ospitanti i corsi d’acqua più attivi. Le nuovevie di comunicazione, che ora tendono a se-guire i fondovalle o tagliare i versanti a mezzacosta, se da un lato facilitano i collegamentitra i centri maggiori, dall’altro risultano più

esposte ai rischi connessi con i dissesti franosie gli eventi alluvionali3.

La tendenza dei centri abitati e della rete via-ria a spostarsi sui fondovalle prese avvio nellaseconda metà dell’Ottocento con la costruzio-ne della rete ferroviaria, i cui tracciati tendeva-no necessariamente a seguire i fondovalle e lecui stazioni agirono da punti di attrazione perl’insediamento di nuovi nuclei abitati e di atti-vità produttive. Non c’è alcun dubbio che lacostruzione della rete ferroviaria abbia rappre-sentato per gli abitanti dei luoghi il punto diavvio di una vera e propria rivoluzione am-bientale, perché la valorizzazione dei fondo-valle ridusse l’importanza sia di molti centri dicrinale che della rete viaria che li collegava.

Alla modificazione del paesaggio langarolohanno però contribuito altri fattori la cui inci-denza, anche se non traumatica perché diluitanel tempo, non è stata meno significativa. Talisono risultati la motorizzazione dei trasporti –che ha reso molto più rapidi i collegamenti trai vari centri e ha molto attenuato il vincolo del-la pendenza nella scelta4 dei nuovi tracciativiari e nell’adattamento di quelli esistenti – lameccanizzazione agricola – che ha consentitoil dissodamento di versanti a pendenza anchenotevole – la diffusione dell’uso dei combusti-bili liquidi e gassosi per la cottura dei cibi e ilriscaldamento delle abitazioni con conseguen-te drastica riduzione della necessità di riservedi legna da ardere.

Nella seconda metà dell’Ottocento e nei pri-mi decenni del Novecento la tipologia agricoladella regione era inoltre condizionata dalle al-lora limitate possibilità di controllo e interven-to da parte dell’uomo sulla dinamica dei ver-santi e dei corsi d’acqua, e dall’esigenza di pro-dotti agricoli qualitativamente e quantitativa-mente diversi da quelli attuali (foraggio per ilbestiame necessario per i lavori agricoli e il tra-sporto dei prodotti dai luoghi di produzione aquelli di utilizzazione; sufficiente estensionedelle aree a bosco ceduo per soddisfare l’ap-provvigionamento di legname da ardere e altriusi quale la disponibilità di piantoni di soste-gno per le viti, ora quasi sempre sostituiti dapali in cemento). Inoltre, quando l’energia datraino era fornita dagli animali, la tecnica diaratura non poteva che essere quella a giro-poggio, in cui i solchi hanno un andamento tra-

PARTE SECONDA - L’ESPERIENZA

3 Il paesaggio del bacino deltorrente Rea appare emble-matico del contrasto esi-stente tra un modello terri-toriale eredità di un passatoin cui più di ora si accetta-vano i condizionamenti na-turali, e quello che ora sitende a realizzare utilizzan-do le opportunità fornite datecnologie prima non di-sponibili. La presenza diuna rete viaria le cui le stra-de tendono a seguire lesommità dei crinali, il qua-dro abitativo caratterizzatodal prevalere di nuclei ubi-cati sui crinali o situati amezzacosta sulle parti altedei versanti (e dipendenti,per i servizi essenziali, qualisede comunale, scuole, ne-gozi di base, esercizi pub-blici, da centri abitati puressi di dimensioni relativa-mente ridotte) e l’adozionedi determinati tipi di coltu-re e tecniche di lavorazioneconsentono tuttora di rico-noscere, in molti aspetti delterritorio, scelte proprie diun recente passato in cui ivincoli ambientali condizio-navano più d’ora le sceltedell’uomo. L’attuale svilup-po di taluni centri abitati, icollegamenti più facili do-vuti all’apertura di nuovestrade e all’ampliamento,rettifica e asfaltatura diquasi tutte quelle esistenti,il rifacimento o l’abbando-no delle vecchie case ruraliperché obsolete o perchémal inserite nel contestoviario moderno, la costru-zione di nuove abitazioniconfortevoli e funzionali,hanno solo in parte modifi-cato il quadro strutturalepreesistente.

4 Prima dell’introduzionedel trattore, quando ognicascina di una certa rilevan-za possedeva una o più cop-pie di buoi poteva accadere,se la cascina era prossima atratti stradali eccessivamen-te ripidi, che coppie di ani-mali venissero occasional-mente noleggiati per far su-perare questi brevi tratti acarri troppo carichi perpoter essere trainati daglianimali aggiogati. Questaorganizzazione permetteva,a chi effettuava il trasporto,di non dover aggiogare piùcoppie di buoi per superareun tragitto per il quale,tranne in corrispondenza aquesti tratti più erti, era dinorma sufficiente per il trai-no di una sola coppia dianimali.

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sversale al pendio come delle curve di livello,non potendo i buoi arare né in salita perchétroppo faticoso, né in discesa per ragioni diequilibrio. Tale aratura è però possibile solosui pendii poco ripidi dove la coppia di buoiaggiogati si muove su livelli poco diversi (piùin alto l’animale sul lato a monte), altrimentine deriverebbero eccessivi scompensi nel tiro,cosicché sui pendii più ripidi lo scasso del ter-reno doveva essere fatto a mano. Ancora 30 an-ni fa mi capitò di vedere dissodati manualmen-te versanti a pendenza elevata in un substratoroccioso costituito da letti di marne e arenariepoco cementate: nel tardo autunno, le nuovesuperfici che si era deciso di acquisire alla col-tura venivano dissodate grossolanamente ser-vendosi del piccone o dello zappone, lascian-do all’azione degli agenti atmosferici (cicli ge-lo-disgelo, alternanza di piogge e di periodi diaridità) il disfacimento minuto delle zolle, inmodo che l’area sterrata fosse pronta per l’uti-lizzazione agricola l’anno successivo.

L’arrivo del trattore e della motozappa ri-baltò la situazione, permettendo l’aratura aritto-chino – in cui i solchi seguono la pen-denza del versante – ovunque essa era compa-tibile con la stabilità e la potenza del mezzomeccanico. L’aratura a giro-poggio vennemantenuta solo sui versanti a scarsa pendenzadove il trattore, anche muovendosi trasversal-mente al pendio non rischia di ribaltarsi. L’u-so del trattore, oltre a rendere potenzialmen-te arabili pendii prima trascurati perché trop-po ripidi o perché caratterizzati da un sub-strato eccessivamente coesivo per essere dis-sodato con la forza degli animali, ha anche fat-to venir meno l’esigenza di un adeguato parcobuoi, rendendo disponibili per altri tipi di col-ture appezzamenti prima utilizzati per la pro-duzione di foraggio.

L’aratura meccanizzata a ritto-chino, se daun lato ha esteso l’area collinare coltivabile,dall’altro ha accentuato la vulnerabilità dei ver-santi nei confronti di dissesti quali soliflussi,colamenti, smotte, trasporto per dilavamento,specie durante la fase precedente5 la buona ra-dicazione dei vitigni, cioè tra il momento delloscasso profondo del terreno e quello della mes-sa in produzione del vigneto. In questo inter-vallo di tempo, infatti, il versante è caratteriz-zato da una spessa coltre di terreno disgregato

che poggia su un substrato in posto più coesi-vo, per cui tra suolo dissodato e substrato inposto si crea una discontinuità fisica che, in ca-so di eventi piovosi violenti, favorisce l’inne-sco di un maggior numero di frane per cola-mento e smotte rispetto ai pendii in cui il vi-gneto è ben radicato e il versante è stato gra-donato per consentire l’irrorazione degli anti-crittogamici con mezzi meccanici. In questiversanti, meglio stabilizzati, la superficie di di-stacco dei movimenti franosi è di solito localiz-zata al di sotto della originaria superficie dicontatto tra suolo e substrato roccioso in po-sto ed è in relazione con fattori locali perché,su tali dissesti, l’incidenza del dissodamentoprofondo effettuato nella fase di impianto delvigneto non è quasi mai determinante, anchese va considerata come fattore predisponente.

Tra il momento dello scasso del terreno e laradicazione del vigneto la tipologia dei disse-sti superficiali di versante risente molto del ti-po di aratura. Quella a giro-poggio, se da unlato tende a contrastare l’azione erosiva dovu-ta al ruscellamento delle acque di pioggia, per-ché i solchi trasversali rispetto al pendio nerallentano la velocità di scorrimento, dall’al-tro favorisce l’infiltrazione dell’acqua nel suo-lo fino a ridurlo a una fanghiglia che cola a val-le (frane per colata); tuttavia, essendo l’aratu-ra a giro-poggio possibile solo su versanti ascarsa pendenza, tali frane sono in genere didimensioni ridotte. Nell’aratura a ritto-chino,invece, ove i solchi seguono la pendenza delversante, la tipologia dei dissesti connessi conprecipitazioni di forte intensità è alquanto di-versa, perché in questo caso i solchi favorisco-no il rapido fluire a valle delle acque dilavanti,con attivazione di processi di erosione per ri-voli che producono solcature profonde anchemolte decine di centimetri e aumento in nu-mero e dimensioni delle frane per colata. Do-ve le nicchie di distacco di queste frane richia-mano l’acqua che dilava il circostante pendiopuò avviarsi un processo complesso in cui alladinamica della frana per colamento si sovrap-pone quella del ruscellamento superficiale.

L’aspetto negativo di quest’ultimo tipo didissesti, oltre che nel danno oggettivo subitodal vigneto di fresco impianto che può venircompletamente sconvolto, consiste nel fattoche, una volta risistemato il versante, di essi

ASPETTI DEL PAESAGGIO AGRARIO DEL ROERO E DELLA LANGA ALBESE 133

5 Una valida opera di con-servazione del suolo è giu-stificata, oltre che dalla ne-cessità di prevenire frana-menti più o meno vistosi,dall’opportunità di mini-mizzare l’asportazione dellaparte superiore del suo pro-filo ad opera del ruscella-mento laminare e per rivoli,e dell’azione battente dellapioggia (splash). L’erosionelaminare, oltre a impoverirel’orizzonte di suolo piùricco di humus, è un attivofattore di convogliamentodi materiale fine nei corsid’acqua, che la corrente flu-viale può tenere per lungotempo in sospensione e chespesso è la maggior causadei danni provocati daglieventi alluvionali accompa-gnati da esondazione delleacque.

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non rimane praticamente traccia. Di molti del-le centinaia di dissesti di questo tipo che col-pirono i pendii della Valle del Belbo in occa-sione del nubifragio del autunno del 1968 nonrisultava più alcuna evidenza già in una ripre-sa fotoaerea a raggi infrarossi effettuata nellatarda primavera successiva. La rapida scom-parsa delle loro tracce fa sì che se ne perda ra-pidamente il ricordo, e con esso la percezionedella reale dimensione della vulnerabilità pro-pria del versante posto a coltura.

Un altro tipo di movimento gravitativo com-plesso, sempre in relazione con eventi piovosidi forte intensità e in parte confrontabile conquello appena descritto, colpisce talora pen-dii ripidi dissodati in passato, ma ora coltivatia prato stabile perché per la natura del suolo,l’esposizione o l’eccessiva ripidità sono statiritenuti non più vantaggiosamente idonei peraltre colture. Una coltre prativa stabile si com-porta, nei confronti del fluire verso il bassodell’acqua che imbibisce lo strato superioredel suolo (scorrimento subsuperficiale), comeun tappeto poco permeabile che ne contrastala pressione, la quale tende ad aumentare damonte a valle lungo il pendio. Dove essa supe-ra la resistenza della coltre prativa questa siscrepola lasciando scaturire acqua (una speciedi sorgente temporanea) il cui scorrimentoconcentrato provoca il distacco di ampie partidella coltre erbosa che riveste il pendio. Nederivano dissesti di versante caratterizzati, amonte, da una nicchia di suolo nudo perchéprivato della sua coltre prativa (una specie di“rasoiata”) e, a valle, da un deposito di mate-riale fangoso che ricorda gli accumuli dellefrane per colata, ma la cui evidenza raramentepersiste nel tempo. Il materiale asportato dalversante, quando il dilavamento superficiale èmolto intenso, viene infatti distribuito sul fon-dovalle come un velo e ben presto mascheratodalla ricrescita dell’erba. L’aspetto più negati-vo di tali processi sta nel fatto che essi sonosottovalutati perché, a causa della rapidascomparsa delle loro tracce, solo il loro rileva-mento immediato può documentarne la realedimensione e diffusione e quindi la loro effet-tiva incidenza sulla dinamica del versante.

Dissesti superficiali di versante, diffusi neglieventi piovosi particolarmente intensi, sono isoil slips, piccole smotte di dimensioni varia-

bili da una decina a qualche centinaio di metriquadrati. Essi colpiscono soprattutto la coltredi suolo che riveste i pendii a reggipoggio (cioèquelli in cui affiorano le testate degli strati) chepresentano le pendenze maggiori, e sono in re-lazione con la discontinuità fisica che esiste trasubstrato roccioso in posto e coltre di terrenodissodato che poggia su esso. In questi versan-ti, in cui lo spessore della coltre di depositi elu-vio-colluviali poco coerenti tende ad aumen-tare da monte a valle, lo smottamento si mani-festa quando la spinta di taglio verso il bassoche agisce sulla coltre eluvio-colluviale superala resistenza di attrito interno per l’eccessivapresenza di una imbibizione di acqua. Si trat-ta di un processo ripetitivo perché, dopo unprimo smottamento, il pendio ricostituisce ilsuo equilibrio fino al momento in cui la coltredi deposito eluvio-colluviale non supera nuo-vamente lo spessore critico limite perché si in-neschi un nuovo smottamento. Su questi pen-dii, la migliore difesa contro tali processi è l’in-sediamento di una copertura boschiva.

Soil slips si osservano anche su versanti rela-tivamente poco ripidi, ma con locali rotture dipendenza. Una loro attenta analisi indica cheil più delle volte essi sono in relazione con si-tuazioni in cui non è estraneo l’intervento del-l’uomo, colpendo accumuli inerbiti di mate-riale di riporto proveniente da scavi effettuatisulle scarpe a monte di strade a mezza costaampliate prima della loro asfaltatura. Taloraquesti dissesti interessano locali rotture diequilibrio in pendii a profilo convesso (cioèun po’ rigonfi) perché colpiti da creeping e so-liflusso (lenti o lentissimi processi di colamen-to del pendio, che spesso sono accentuati daltipo di uso agricolo del suolo e da una non me-ditata ubicazione degli scarichi delle acquedelle cunette stradali). Nei pendii a prato sta-bile i movimenti di creeping e soliflusso in attonon sono sempre di immediata rilevazione. Nefacilita il riconoscimento la presenza di scon-nessioni nella coltre erbosa o di tratti ove l’er-ba appare più verde e rigogliosa che in altri:tutti indizi della presenza di discontinuità nel-la struttura e tessitura del suolo e nel suo con-tenuto in acqua.

Attira talora l’attenzione, nei pendii a frana-poggio coltivate ad arativo, la presenza di iso-le, anche estese, incolte o arborate a ceduo

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spontaneo. Si tratta di solito di aree coinvoltein frane per scivolamento planare con forte di-sgregazione della zolla franata, così da sconsi-gliarne un recupero all’agricoltura in tempibrevi.

L’indubbia maggior diffusione dei dissestidi versante rispetto al passato, oltre al preva-lere dell’aratura meccanica a ritto-chino suquella a giro-poggio a trazione animale, trovauna sua giustificazione indiretta anche nellaintroduzione del gas liquefatto, del gasolio edell’olio combustibile per il riscaldamento ela cottura dei cibi, che portò a limitare l’esten-sione delle aree a bosco ceduo ai soli versantisenza altre alternative d’uso per ripidità, tipodi subtrato e situazione di franosità ed erodi-bilità per ruscellamento laminare o per rivoli.Emblematico, a questo proposito, il sito delle“rocche” di Pocapaglia, presso Bra, caratte-rizzato da veri e propri piccoli canyon.

Non c’è dubbio però che la maggior partedelle modificazioni dell’uso agricolo del terri-torio ne abbiano comportato una valorizzazio-ne, in termini di aumento del reddito locale,di tipologia abitativa (riattamento del vecchiopatrimonio edilizio6, costruzione di nuove abi-tazioni sparse e sviluppo di taluni centri abita-ti), di presenza, di potenziamento di serviziprima carenti e di promozione di attività pri-ma marginali (ad esempio quella turistica). Unpurista del paesaggio, confrontando il pano-rama attuale con quello di un passato anchenon troppo lontano, potrebbe forse recrimi-nare sulla perdita di taluni aspetti della sua ori-ginaria peculiarità. Personalmente, ad esem-pio, non posso scordare l’impressione di pae-saggio fiabesco che mi diede la vista delle som-mità dei crinali dominate dai loro castelliemergenti da un mare di nebbia in un autun-no degli anni sessanta. Forse il medesimo pa-norama mi si presenterebbe ora meno fanta-stico per la presenza di edifici dalla linee piùadeguate alle esigenze del modello di vita at-tuale, ma un paesaggio geografico vissuto nonpuò che essere in continua trasformazione,perché è specchio dell’evolvesi nel tempo delmodo di vivere di chi vi abita. Un ambientevissuto non può essere un museo da conserva-re per il turista, ma un qualcosa in continuatrasformazione, il cui modificarsi documental’evoluzione del modo di vivere un territorio

da parte di chi vi è stabilmente insediato e del-la sua idea di “habitat ottimale”.

A questo punto può essere opportuna unariflessione sul problema, caro agli ambientali-sti e motivo di controversi dibattiti, delle con-seguenze di eventi catastrofici, quali i dissestidi versante e le esondazioni che anche di re-cente hanno colpito quest’area del Piemonte:ossia in quale misura il disordine idrogeologi-co con cui le Langhe e il Roero si trovano a do-ver convivere possa risultare accentuato, ri-spetto al passato, da scelte d’uso del territorioambientalmente non corrette o quanto menopoco lungimiranti quali: un non sempre avve-duto sviluppo della rete viaria, leggerezze otrascuratezze negli interventi sul reticolo idro-grafico, acquisizioni all’edificabilità di aree ini-donee, eccessiva diffusione di colture che han-no portato al dissodamento di versanti a pen-denza elevata. Si tratta di problematiche tuttein qualche modo ricollegabili ai fattori chestanno alla base delle modificazioni del pae-saggio langarolo a partire dalla seconda metàdell’Ottocento: nuova viabilità stradale e fer-roviaria, meccanizzazione dei trasporti e del-l’agricoltura, riduzione delle aree boschive.

Gli effetti sui fondovalle dell’esondazionedei corsi d’acqua che vi scorrono presentava-no senza dubbio aspetti di rischio e vulnerabi-lità inferiori a quelle attuali prima dell’insedia-mento in essi delle reti ferroviaria e stradale, edel conseguente sviluppo abitativo, produtti-vo e commerciale. Il problema della valutazio-ne della validità delle scelte effettuate è peròmolto complesso, perché accanto a scelte d’u-so del territorio le cui componenti di rischiopotevano essere previste e correttamente va-lutate in termini di costi-benefici già al mo-mento (talora più di un secolo fa) in cui furo-no effettuate, ci sono anche realtà molto arti-colate. È questo il caso di interventi effettuatiin tempi successivi, ognuno di per sé apparen-temente accettabile in termini di impatto am-bientale, ma i cui effetti, sovrapponendosi neltempo in modo imprevisto, sono divenuti mo-tivo di eventi calamitosi ritenuti “imprevedi-bili” al momento delle singole scelte. Pur con-venendo che talora il termine “imprevedibile”è usato come comodo paravento delle lacunecognitive del pianificatore nella fase di valuta-zione dell’impatto sugli equilibri territoriali

ASPETTI DEL PAESAGGIO AGRARIO DEL ROERO E DELLA LANGA ALBESE 135

6 Ricerche sulle tradizionipopolari della gente delleLanghe ancora esistenti nel-l’Ottocento hanno portato aspiegare la struttura nonomogenea di certe vecchiecascine, quasi tutte abban-donate o cadenti, con l’u-sanza, quando un figlio vo-leva mettere su famiglia de-cidendo di restare nell’abi-tazione paterna e questanon aveva locali sufficientiper ospitare la nuova fami-glia, che il futuro sposoprovvedesse costruendo unnuovo locale a ridosso del-l’edificio esistente. Se nellazona vi era disponibilità dibuona argilla, poteva esserelo stesso futuro sposo a fab-bricare i mattoni necessariutilizzando come stampoun piccolo cassetto semprepresente nella madia di fa-miglia. Questi mattoni, didimensioni maggiori diquelli normali di fornace etalora malamente cotti incasa, erano noti come“matun d’la madia”.

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esistenti delle scelte previste, non si può nega-re che nelle valutazioni di rischio proprie dimolti decenni fa fossero impensabili ipotesid’uso del territorio ora ritenute “normali”.

Soffermandosi su imprevedibilità che talinon sono, uno degli autori ha avuto modo difar parte di un gruppo di lavoro chiamato adanalizzare alcuni aspetti dell’evento alluviona-le che colpì la valle del Belbo nel 1968, e di ve-der pubblicati i risultati della ricerca in un vo-lume inviato a tutti i principali centri ammini-strativi della zona. Ciò che più stupì, rivisitan-do i luoghi dopo l’alluvione del 1994, fu il con-statare che i dissesti di versante e di fondoval-le conseguenti a questo nuovo evento cata-strofico ripetevano da vicino quelli rilevati nel1968. Sebbene sui muri del vecchio munici-pio di uno dei centri più disastrati fosse statoindicato con una piccola lapide l’altezza rag-giunta dall’acqua nell’alluvione del 1945, al-tezza non superata nelle successive alluvionidel 1968 e del 1994, non ci furono remore aprogrammare e realizzare la costruzione dinuovi edifici pubblici e privati proprio dovel’acqua aveva raggiunto, sia nel 1945 che nel1968, il livello maggiore. Certo, sul piano for-male, l’aver ignorato gli eventi pregressi nellescelte d’uso del suolo urbano può essere giu-stificato col fatto che, al tempo delle decisio-ni, la legislazione prevedeva l’obbligo di con-siderare solo gli eventi estremi degli ultimidieci anni; ma cosa impediva di tener conto diquanto accaduto in un passato piuttosto nonlontano? D’altra parte sembra proprio di chiè stato colpito da un evento catastrofico natu-rale, come ho potuto verificare in situazionianaloghe, una rapida perdita di percezione de-gli eventi negativi unita ad una specie di spiri-to di sfida alla natura, nella egoistica convin-zione, più che speranza, che la prossima cala-mità, se si verificherà, sarà problema di altri7.

Questo modo di percepire eventi di pienaconfrontabili con quello del Tanaro del 1994può essere psicologicamente motivato dai lun-ghi tempi di ritorno, valutabili intorno al cin-quantennio per il Tanaro e ai due-tre decenniper il Belbo suo affluente. È innegabile che al-cune decine di anni possano apparire un lassodi tempo abbastanza lungo per far perdere lamemoria dell’evento accaduto, specie tra co-loro che non lo hanno direttamente vissuto e

quando l’originaria topografia dei luoghi è sta-ta notevolmente modificata dai successivi in-terventi sul territorio. Per esemplificare, moltidegli edifici danneggiati o demoliti nella pie-na del Tanaro del 1994 (ad esempio la fabbri-ca Ferrero di Alba) non esistevano nel 1945.Ma anche tempi di ritorno assai inferiori alcinquantennio, propri delle più recenti pienestraordinarie del Belbo (1945, 1968, 1994),sembrano venir percepiti dalla popolazionecome giustificazione alla rimozione dalla me-moria dei fatti e della possibilità del loro ripe-tersi. Anche se questo modo di pensare puòessere motivato da uno psicologo, non perquesto giustifica, sul piano operativo, scelteche alla fine hanno comportato anche perditedi vite umane.

Astraendo dalle superficialità di lettura ditalune realtà territoriali che stanno alla base dimolte valutazioni poi dimostratesi errate, re-sta il fatto incontrovertibile che sia i versantiche la rete idrografica sono entità dinamicheattive in cui forme, assetti e condizioni di equi-librio variano nel tempo. Ne consegue che unintervento fatto oggi, e valutabile in buona fe-de come compatibile con la realtà esistente,può risultare non più tale tra 10, 20, 30 anni,perché nel frattempo si sono, o sono state, mo-dificate le condizioni locali dei pendii o la ten-denza evolutiva del tratto fluviale in cui esso èstato attuato. Nel caso della piena catastroficadel Tanaro nel novembre del 1994, motivo difatti particolarmente disastrosi furono, adesempio, i terrapieni d’accesso ai ponti ferro-viari e stradali che superano i corsi del Tana-ro, del Belbo e dei loro maggiori affluenti. Sesi confronta la cartografia attuale con quelladella seconda metà dell’Ottocento e della pri-ma metà del Novecento, si nota a prima vistacome la naturale evoluzione dei tracciati diquesti corsi d’acqua sia stata condizionata, intempi successivi, dalla costruzione di questiponti, che hanno imposto un’artificiosa stabi-lizzazione di tratti di alveo tendenzialmente inevoluzione, e dal confinamento dei letti flu-viali ordinari su larghezze talora molto infe-riori a quelle proprie dei letti naturali di pienaordinaria, determinando per tali corsi d’acquacomportamenti idraulici di piena straordina-ria anche per portate prima definibili di pienaordinaria.

PARTE SECONDA - L’ESPERIENZA

7 Viene così a porsi il pro-blema del concetto di calamità naturale. È banaledefinire naturale una cala-mità solo perché essa conse-gue ad un evento naturale,in quanto il concetto di ca-lamità si richiama ai dannida esso inflitti all’uomo ealle sue attività. Questo per-ché un evento naturale, inquanto tale, non è né nega-tivo né positivo perché esso,di per sé, opera secondotendenze evolutive indiriz-zate alla realizzazione dellecondizioni ottimali di equi-librio tra i vari fattori fisicidell’ambiente naturale vistocome insieme. Per poter de-finire calamità naturale unevento naturale occorreperciò verificare se non siastato l’uomo a creare le con-dizioni perché esso abbiaassunto la caratteristica dicalamità. Troppo spesso siscorda che l’uomo può con-trollare le tendenze naturalisolo entro certi limiti: ognipasso in più si ritorce im-mancabilmente a suodanno. Da queste precisa-zioni deriva che si possonodefinire calamità naturalisolo gli eventi catastroficiconseguenti a fattori deter-minanti e predisponenti na-turali ragionevolmente im-prevedibili. Il carattere diragionevole imprevedibilitàche un evento naturale devepossedere per poterlo defi-nire calamità naturale vaesteso anche alle dimensio-ni dell’evento e al momentodel suo accadere, il che pre-suppone che l’uomo si sia,in qualche modo, posto ilproblema della probabilitàe possibilità di esso.

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Questi ponti, così come i loro terrapienistradali di accesso, non vennero però costrui-ti in tempi successivi, giustificando così, almomento della loro progettazione, un’analisidella loro incidenza sul territorio limitata alsingolo intervento, a scapito di una valutazio-ne globale dell’insieme dei vincoli che le ope-re pregresse avevano già imposto all’evoluzio-ne naturale dei tracciati dei corsi d’acqua.Nella piena del 1945, sicuramente confronta-bile per volume con quella del 1994, i fondo-valle del Tanaro e del Belbo erano molto me-no urbanizzati che nel 1994; molte delle abi-tazioni demolite o danneggiate nel 1994 nonesistevano nel 1945, così come non esistevanomolte delle attuali prese d’acqua, difese disponda e correzioni di alveo. Se queste opere,da un lato, hanno stabilizzato il tracciato delTanaro e dei suoi tributari (fattore per certiaspetti positivo), dall’altro hanno però accen-tuato la velocità di deflusso delle acque inal-veate abbreviandone i tempi di corrivazione,col risultato che le piene possono essere oradi durata minore ma di portata maggiore (fat-tore negativo) che in passato. In altri termini,la piena del 1945, pur essendo confrontabileper portata con quella del 1994, a causa dellediverse condizioni fisiografiche e urbanistichedel bacino del Tanaro di allora, provocò dan-ni inferiori a quest’ultima.

Premesso che un evento di tali dimensionipuò essere solo subito, per cui l’unico tipo diprevenzione possibile risiede in scelte di di-fesa passiva quali l’imposizione di vincolid’uso per le aree di fondovalle, il ripristinonella valle del Tanaro della situazione urba-nistica e territoriale preesistente manterreb-be alta, in caso di piena confrontabile, la pro-babilità del ripetersi di quanto accaduto. Ivincoli d’uso delle aree di fondovalle conti-gue ai corsi d’acqua (aree di pertinenza flu-viale) dettati dall’autorità di bacino del Po edalle leggi regionali, sulla base delle indica-zioni fornite dall’evento alluvionale del 1994,rappresentano il più efficace intervento di di-fesa passiva possibile, dato che in termini dirapporto costi-benefici non sono ipotizzabi-li, per le caratteristiche fisiografiche dei baci-ni del Tanaro e del Belbo, interventi sugli al-vei in grado di garantire il contenimento dipiene ad essa paragonabili.

Il clima e i tipi di suolo e di substrato, ei loro riflessi sulle colture agrarie specializzate

La coltura della vite e le altre colture agrariespecializzate (frutteto, noccioleto, ecc.), oltreche una componente essenziale e caratteristicadel paesaggio, rappresentano, come già antici-pato, una importante risorsa economica delsettore collinare piemontese. Esse si sono svi-luppate e conservate nella regione per operadell’uomo, che ha utilizzato in modo opportu-no le risorse ambientali a sua disposizione, so-prattutto il clima e il suolo e la loro combina-zione favorevole in questo territorio. In parti-colare ha svolto un ruolo dominante, nelle scel-te di diversificazione della produzione vinicolae nell’esaltazione delle qualità dei diversi viti-gni, la conoscenza dei caratteri specifici dei ter-reni e delle relative proprietà fisico-chimiche.

Il climaPer tutti i tipi di colture, ma soprattutto per

la vite, i fattori climatici più importanti sono latemperatura (misura del calore fornito dal so-le) e l’umidità. Le piante assorbono tutto il ca-lore disponibile anche con cielo coperto essen-do esso indispensabile per lo sviluppo dellapianta altrettanto quanto la luce. La vite, adesempio, interrompe il suo periodo di quie-scenza invernale non appena l’aria e il suolo co-minciano a riscaldarsi e la temperatura di que-st’ultimo supera i 9-10 gradi centigradi. I pro-cessi di respirazione foliare e di assorbimentoda parte delle radici raggiungono la massimaefficienza ad una temperatura di 25-27 gradicentigradi , al di sopra della quale vitalità e pro-duttività della pianta diminuiscono rapida-mente. Il miglior assorbimento del calore dal-l’atmosfera e dal suolo si ottiene con la sceltadelle esposizioni più idonee e con la disposi-zione dei filari in modo da favorire l’accumulodi calore nel terreno in funzione dell’insolazio-ne, disponendoli, a seconda dei casi, parallelialla linea di massima pendenza oppure a giro-poggio (va da sé che la disposizione dei filari,come accennato in precedenza, deve tener con-to anche di altri fattori, come la pendenza deiversanti, la modalità di lavorazione, ecc.)

L’apparato radicale, che si spinge talora aprofondità notevoli, predilige terreni caratte-

ASPETTI DEL PAESAGGIO AGRARIO DEL ROERO E DELLA LANGA ALBESE 137

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rizzati da una buona capacità di ritenzione idri-ca – ma in cui non vi sia ristagno d’acqua che lirende asfittici – poiché l’eccessiva aridità con-diziona negativamente lo sviluppo della vite edel grappolo. L’umidità atmosferica è impor-tante perché favorisce la formazione della ru-giada e quindi l’assorbimento di acqua ad ope-ra degli apparati fogliari, specialmente nella tar-da estate se il periodo secco si prolunga troppo;essa non deve comunque essere troppo elevataper evitare l’insorgere di malattie da fungo.

In Piemonte le condizioni climatiche più fa-vorevoli alla coltura della vite si hanno pro-prio sui versanti meglio esposti delle zone col-linari. Qui le gelate primaverili, assai dannosenella fase di fioritura della vite, sono meno fre-quenti e persistenti rispetto a quanto si verifi-ca nei fondovalle e in pianura, in particolarenei periodi umidi, quando la combinazionegelo-umidità rappresenta una condizione dirischio elevato per molte colture. Sui rilievi,l’assenza pressocché totale di nebbie consenteinoltre il rapido riscaldamento del suolo. Du-rante le piogge l’acclività dei versanti favori-sce il regolare drenaggio delle acque di preci-pitazione lungo i pendii. L’acqua è infatti unacomponente molto importante nello sviluppodella vite e nel processo di formazione deigrappoli, sia nella stagione primaverile chenella stagione estiva, purché non vi sia un ri-stagno di essa nel suolo, che è mal tollerato da-gli apparati radicali.

Le precipitazioni autunnali, spesso intensee abbondanti, si manifestano solitamente do-po la maturazione delle uve, fase in cui un ec-cesso di precipitazioni, oltre a rallentare e im-pedire il completamento della maturazionestessa, potrebbe provocare danni agli acini. Lamaturazione risulta inoltre avvantaggiata dal-l’escursione termica giornaliera relativamenteelevata, per l’alternanza delle miti temperatu-re diurne con quelle notturne assai più fre-sche, che caratterizza queste zone nell’ultimoscorcio dell’estate e all’inizio dell’autunno. Ilgrado di maturazione dell’uva è infatti il prin-cipale fattore che concorre alla determinazio-ne della qualità del vino.

I suoliIl suolo, nella definizione più usata (Soil

Conservation Society of America, 1976) “è un

corpo naturale costituito da particelle mineralie da sostanza organica, contenente al suo in-terno acqua e aria, capace di sostenere un con-sorzio vegetale”. Esso si sviluppa nella zona diinterfaccia tra atmosfera e litosfera e rappre-senta l’ambito naturale dove è più evidente lasovrapposizione tra il sistema fisico-geologicoe il sistema biologico. I suoi caratteri fonda-mentali sono determinati dalle complesse inte-razioni di processi chimici, fisici, biologici, at-tuali e del passato, che avvengono al suo inter-no, e dai fattori esterni che condizionano la di-namica dei processi che presiedono alla suaformazione (processi pedogenetici)8. Il proces-so di formazione dei suoli è quindi funzionedella natura e intensità dei fattori che lo condi-zionano, quali il clima, la morfologia dei luo-ghi, la natura del substrato roccioso, il tipo divegetazione e, rilevante in aree di diffusa e an-tica antropizzazione, l’uomo. Il grado di evo-luzione di un suolo nel tempo è evidenziato daltipo di profilo pedologico che si sviluppa.

Sulle colline della Langa e del Roero questifattori determinano la formazione di vari tipidi suolo, i cui principali caratteri chimico-fisi-ci e grado di evoluzione dipendono essenzial-mente dalla natura del substrato, dalla morfo-logia e, subordinatamente, dall’uso del suolostesso. In altre parole la pedogenesi è fonda-mentalmente condizionata dalle caratteristi-che della roccia madre (composizione mine-ralogia, struttura del deposito, ecc.), dalle ca-ratteristiche dei versanti (pendenza e suo rap-porto con la giacitura degli strati), dall’inten-sità dei processi erosivo-sedimentari in atto e,come già accennato, dall’uso del suolo da par-te dell’uomo, il quale può interferire in modosignificativo e in tempi molto rapidi sull’evo-luzione del suolo stesso, per esempio con unaaccelerazione del fenomeno di ringiovanimen-to del profilo. Nell’area in esame la considere-vole varietà di suoli è connessa con la naturalecomplessità del paesaggio collinare, in cui unafitta rete di incisioni fluviali, talora con ampifondovalle, separa rilievi più o meno elevati olunghe creste degradanti da sud a nord, e colsuccedersi di più formazioni sedimentarie ca-ratterizzate da facies litologiche diverse. I suo-li che si formano hanno solitamente un profi-lo poco differenziato o moderatamente evolu-to, di tipo A-C o A-(B)-C9.

PARTE SECONDA - L’ESPERIENZA

8 Il suolo è la risultante deiprocessi di disgregazione fi-sica e di alterazione chimicache operano nella parte piùsuperficiale della crosta ter-restre, in presenza di mate-ria organica e di acqua.Esso è in rapporto dinami-co con l’ambiente circostan-te. La pedogenesi è fonda-mentalmente condizionatadai fattori tipo di substrato,morfologia, clima, attivitàbiologica (vegetazione,fauna, uomo) e tempo,come sinteticamente indica-to nella formulazione S=f(g, m, c, b) t.

9 Con A, B, C si indicano gliorizzonti che caratterizzanoil profilo dei suoli. Rispetti-vamente: A = orizzonte su-perficiale di alterazione,ricco di materia organica; B= orizzonte intermedio diaccumulo di prodotti di al-terazione; C = orizzonteprofondo di transizione allaroccia madre.

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I suoli del primo tipo sono i più diffusi. Pre-valgono sulle pendici collinari e sono relativa-mente comuni anche nei fondovalle lungo i di-versi corsi d’acqua e alla base dei versanti. Sitratta di suoli nella prima fase di formazionein cui la pedogenesi si manifesta quasi esclusi-vamente con fenomeni fisico-chimici di alte-razione della roccia madre e con la formazio-ne dell’orizzonte organico superficiale (oriz-zonte A). Sui versanti l’evoluzione di tali suoliè condizionata dai processi erosivi e dallamaggiore o minore diffusione dei fenomenifranosi; sui fondovalle è condizionata dai pro-cessi di acculo di sedimenti alluvionali e/o col-luviali. In entrambi i casi il profilo viene co-stantemente ringiovanito, poiché tende ad as-sottigliarsi o ispessirsi anziché svilupparsi ver-so forme più “mature”. Le pratiche agricole,quali l’aratura profonda sia a ritto-chino che agiro-poggio, o gli scassi per l’impianto del vi-gneto possono accentuare tali processi. Spes-so nei terreni coltivati si individua un orizzon-te uniforme (Ap), dovuto alle ripetute aratu-re, di spessore equivalente alla profondità del-la lavorazione, poggiante direttamente sullaroccia madre più o meno alterata.

I suoli a profilo A-(B)-C, più evoluti, sonomeno diffusi. Si sviluppano sui versanti colli-nari a pendenza moderata o sulla sommità deicrinali, laddove la pedogenesi prevale sull’e-rosione, e nei principali fondovalle dove sonorelativamente più comuni. In generale, sottol’orizzonte più superficiale (A) è presente unorizzonte B di spessore assai variabile e talorapoco evidente, in cui prevalgono ancora i pro-cessi di alterazione rispetto a quelli di accu-mulo. Più potenti dei suoli di tipo A-C, hannosolitamente una modesta o buona capacità diritenzione idrica. Anche su questi suoli, le pra-tiche agricole, in particolare aratura e fresatu-ra, possono produrre vistosi fenomeni di rin-giovanimento del profilo, innescando proces-si di erosione superficiale e formazione di unorizzonte superficiale Ap che maschera i ca-ratteri originari del suolo.

Le proprietà fisico-chimiche dei suoli di-pendono prevalentemente dal tipo di rocciamadre da cui derivano, ossia dalla formazionesedimentaria sui cui si sviluppano. I processipropri della pedogenesi operano infatti in mo-do differente su rocce con diverso grado di

compattezza, resistenza all’alterazione e com-posizione mineralogica come le marne, le sab-bie, le arenarie e i depositi alluvionali, cioè iprincipali litotipi affioranti nella regione. Tes-situra, grado di acidità del suolo, riserva mi-nerale e, nel caso dei suoli più evoluti, tipo diaccumulo sono le proprietà maggiormente in-fluenzate dalle caratteristiche della roccia ma-dre e sono altresì le proprietà che concorronoalla determinazione dei caratteri organoletticidei grandi vini prodotti nella regione.

Le associazioni di suolo tipiche dei diversisettori della Langa e del Roero sono quindi dif-ferenziabili in relazione al substrato geologi-co, e gli areali di produzione dei principali vi-ni DOC di queste zone, rispecchiando la natu-ra del suoli, rispecchiano la tipologia della for-mazione geologica che dà origine a questi suo-li. Il suolo, infatti, determina nelle uve caratte-ri particolari che, con la vinificazione e l’invec-chiamento svolti con le modalità previste ne-gli appositi disciplinari, conferiscono al vinole sue proprietà specifiche quali aroma, colo-re, corposità, idoneità all’invecchiamento.

Un esempio significativo di ciò è dato dal vi-no prodotto con uve del vitigno Nebbiolo,molto diffuso nella viticoltura piemontese, chenelle diverse zone di produzione assume ca-ratteristiche organolettiche specifiche e, diconseguenza, denominazioni differenti. Limi-tandosi all’area dell’Albese e del Braidese, ilNebbiolo dà origine a ben quattro vini DOC: ilRoero, nell’omonima zona sulla sinistra delTanaro dove affiorano le sabbie plioceniche infacies “Astiana”10; il Barolo, a sud-ovest di Al-ba, nell’areale della arenarie di Diano d’Al-ba11, delle marne di S. Agata Fossili12 e, subor-dinatamente, sulla formazione di Lequio; ilBarbaresco a sud-est di Alba, la cui produzio-ne si estende in massima parte sulla formazio-ne delle marne di S. Agata Fossili; il Nebbiolonei dintorni di Alba, sulle formazioni di Dia-no d’Alba e di S. Agata Fossili.

Sulla relazione esistente tra suolo e caratteri-stiche dei vini si possono fare analoghe consi-derazioni anche per la produzione del vinoDolcetto. È questo un vitigno molto diffusosulle colline delle Langhe e dell’Astigiano, amaturazione precoce, che non ama terreni ec-cessivamente sabbiosi perché tendenzialmenteasciutti e, soprattutto “freddi”, cioè non ido-

ASPETTI DEL PAESAGGIO AGRARIO DEL ROERO E DELLA LANGA ALBESE 139

10 Formazione delle sabbiedi Asti nota anche comePliocene in facies “Astia-na”. Affiora sui due latidella valle dal Tanaro daAlba ad Asti e su essa siestende il Roero. È rappre-sentata da sabbie e silt gial-lastri con livelli ghiaiosi eintercalazioni marnose fos-silifere. L’associazione pe-dologica è dominata dasuoli poco evoluti (regosuo-lo e suoli rendiziniformi), ilcui sviluppo è condizionatodai rapidi e continui proces-si di ringiovanimento delpaesaggio di questo settorecollinare. L’accentuata ero-sione in atto è morfologica-mente evidenziata dalla pre-senza delle note “rocche”(particolarmente suggestivea Pocapaglia) e porta allaformazione di suoli a profi-lo A-C, solitamente profon-di per la degradabilità dellaroccia madre, ben drenati, atessitura franco-sabbiosa e areazione neutra e subalcali-na. Dove affiora la facies“Piacenziana” (argille diLugagnano) i suoli sono si-mili a quelli descritti ma laloro tessitura è tendenzial-mente limosa o franco-limo-sa.

11 Formazione delle arena-rie di Diano d’Alba (Torto-niano). Sabbie di color gri-gio-bruno o giallastro, talo-ra con conglomerati allabase, che sovrastano un’al-ternanza di strati decimetri-ci di arenarie a letti sabbio-si, marnosi e arenaceo mar-nosi fossiliferi e marnosi,che danno origine a suoli atessitura equilibrata francao franco-sabbiosa confron-tabili, per taluni versi, conquelli della formazione di S.Agata Fossili. Le arenarie diDiano d’Alba sottostannoalla formazione gessoso-sol-fifera (Messiniano). La pre-senza del gesso nel suolo in-cide sulle caratteristiche or-ganolettiche dei vini e suiloro effetti secondari. Poi-ché non sempre i terrenigessosi affiorano in superfi-cie, un modo per verificarela loro presenza era quellodi informarsi se la conse-guenza di una sbornia abase di vini prodotti in uncerto terreno era, al risve-glio, la sensazione di un“cerchio sulla testa”.

12 Formazione delle marnedi S. Agata Fossili (Torto-niano). È rappresentata damarne e marne argillose gri-giastre fossilifere, talora

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nei a trattenere il calore acquisito per irraggia-mento durante il giorno. In questo settore del-la Langa il Dolcetto è presente con tre tipiDOC: il Dolcetto di Dogliani, il Dolcetto di Al-ba e, più a Sud, il Dolcetto delle Langhe Mon-regalesi. L’area di produzione del primo, cheprobabilmente è quello più conosciuto, si al-larga nella valle del Rea, presso Dogliani, inmassima parte sugli affioramenti della forma-zione di Lequio13, caratterizzata da alternanzedi marne e sabbie; il Dolcetto di Alba è invececoltivato nella zona di produzione del Barolo,

del Nebbiolo d’Alba e del Barbaresco, in pre-valenza sulle marne di S. Agata Fossili e, in par-te ancora, sulla formazione di Lequio; il Dol-cetto delle Langhe Monregalesi viene coltivatosulle marne della formazione di Murazzano.

Riferimenti bibliografici

SOIL CONSERVATION SOCIETY OF AMERICA, 1976 Resource Conservation Glossary. Ankeny, Ia:

Soil Conservation Society of America.

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passanti a marne biancastreo azzurrognole. Affioranonel settore nordoccidentaledella Langa cuneese, sui ri-lievi prossimi al fiume Tana-ro dando luogo a un paesag-gio meno aspro di quellodelle rocche. L’associazionepedologica comprende siasuoli poco evoluti del tipoA-C, sia suoli mediamenteevoluti del tipo A-(B)-C(rendzina e suoli bruni cal-carei). Il primo tipo prevalesui versanti a reggipoggio, ilsecondo su quelli a frana-poggio. Sui pendii più accli-vi si possono sviluppareforme calanchive. I suolisono relativamente profondie mostrano una tessituraprevalentemente franco-li-mosa, una struttura evidentee abbastanza stabile, e unareazione subalcalina (pH >7) per la relativa abbondan-za della componente calca-rea della marna.

13 Formazione di Lequio(Tortoniano-Serravalliano).È costituita da sabbie, talorada arenarie, in strati fino a50 centimetri, di colore gial-lo rossastro, alternate ritmi-camente con marne siltosegrigiastre in strati menospessi. Il paesaggio non cam-bia rispetto a quello che ca-ratterizza l’areale di affiora-mento formazione di S.Agata Fossili, ma l’associa-zione di suoli che ne derivaappare più complessa e arti-colata. Infatti, anche se ap-parentemente assai simili traloro, i suoli della formazionedi Lequio si differenzianoper essere tendenzialmentesabbiosi, acidi (pH < 7),piuttosto dilavati e poveri inbasi sulle arenarie (suolibruni acidi), e a tessiturafranca e reazione subalcalinaper la presenza di carbonatidove il substrato è marnoso(suoli brini calcarei). Taledifferenziazione è ben osser-vabile sui terreni appenaarati sia per la diversa colo-razione del terreno, sia perla diversa compattezza.

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LA SELEZIONE DEI LAVORI DEI GIOVANI RICERCATORI

APPENDICE A

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I sistemi locali territoriali fra cambiamentodelle forme di territorialità e territorializzazione

dell’azione collettiva

Francesca Governa*

Introduzione

Il dibattito sul locale e sullo sviluppo locale ha avuto, recentemente, un deciso aumento d’in-teresse non solo dal punto di vista teorico e della ricerca, ma anche dal punto di vista politico,operativo e delle pratiche. Come sostiene Alberto Magnaghi, “in piena epoca di globalizzazionelo sviluppo locale è ora al centro delle politiche comunitarie, dell’attenzione delle grandi impre-se multinazionali, delle politiche regionali; così come rappresenta lo sfondo del dibattito politi-co che investe il federalismo, il regionalismo, il neo-nazionalismo, il secessionismo” (Magnaghi,1998a, p. VIII).

In questo quadro, il territorio è riportato al centro delle preoccupazioni analitiche e operati-ve; è il punto di riferimento sul quale si costruisce, e rispetto al quale valutare, l’azione colletti-va. Esso è sottoposto ad un crescente interesse, sempre più spesso visto e interpretato come ca-tegoria concettuale pertinente per impostare strategie di azione basate sulla valorizzazione delpotenziale endogeno dei singoli luoghi e sulla “costruzione” della identità collettiva dei soggettilocali. Del resto, la capacità di migliorare i livelli di prestazione, ad esempio in termini di svilup-po locale, di un territorio definito come ambito specifico degli interventi riveste un ruolo sem-pre più importante nella legittimazione delle diverse forme dell’azione. Inoltre, è ancora nel ri-ferimento al territorio che emerge la capacità di strutturazione dei conflitti che si configuranosempre più come conflitti territorializzati.

L’aumento di attenzione nei confronti del territorio e delle sue specificità attesta, anche se con-fusamente, il cambiamento in atto nella percezione dello spazio e negli stessi rapporti che la so-cietà e gli individui intrattengono con esso. I territori, da entità date, delimitate da confini ammi-nistrativi, sono sempre più spesso interpretati come ambiti territoriali dinamici e attivi, la cuipossibilità/capacità di reagire attraverso risposte proprie agli stimoli che provengono dal rimo-dellarsi continuo delle reti di flussi globali si definisce attraverso l’azione comune dei soggetti inessi operanti. Inoltre, mutano anche le forme della cooperazione interistituzionale: dal vecchiomodello della cooperazione istituzionalizzata, che derivava dal precedente modello della ammi-nistrazione piramidale e gerarchica, in cui erano predefiniti sia le funzioni, sia gli ambiti territo-riali implicati, alle forme del partenariato, della governance, della pianificazione strategica, ecc.

Per affrontare tali questioni e cercare una possibile interpretazione dei cambiamenti in atto, ilpunto di vista che intendo adottare in questa relazione si pone nella ridefinizione attuale dellainterazione territorio, soggetti, azioni. La lettura incrociata dei rapporti fra territorio, soggetti eazioni può essere condotta facendo riferimento a modi e punti di vista diversi, anche se non ne-cessariamente separati. Un primo modo è di porsi dal punto di vista del cambiamento delle di-

* Politecnico e Universitàdegli studi di Torino - Dipartimento InterateneoTerritorio.

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namiche di sviluppo dei sistemi urbani e terri-toriali, in particolare per quanto riguarda laridefinizione attuale dei territori e della terri-torialità; un secondo modo è di concentrarsisui cambiamenti delle forme e delle modalitàdell’azione collettiva, in particolare sulla ten-denza verso la territorializzazione dei modellidi azione. L’ipotesi che intendo sostenere è cheinterpretare le dinamiche territoriali contem-poranee utilizzando il concetto di sistema locale territoriale permetta di alternare i duepunti di vista da cui guardare il cambiamentoe trovare un elemento di convergenza fra diessi. Senza entrare nel merito degli aspetti teo-rici e metodologici insiti all’interno di questoconcetto, che meriterebbero un ben più ap-profondito trattamento, il mio obiettivo è diindicare alcune possibili linee di ricerca chesembrano permettere una possibile concet-tualizzazione dei “territori pertinenti” in cui,e attraverso cui, si costruisce l’azione colletti-va dei soggetti.

Interpretare la geografia del cambiamento: i sistemi locali territoriali

Il concetto di “sistema locale territoriale”indica, prima che un’entità territoriale defini-ta e delimitata, un aggregato di soggetti in in-terazione reciproca i quali, in funzione di spe-cifici rapporti che intrattengono con un certoambiente, o milieu locale, si comportano, incerte circostanze, come un soggetto collettivo(Dematteis, 1995). Le ricerche svolte su que-sto argomento si sono per lo più rivolte a chia-rire i concetti alla base di questa definizione,cercando possibili legami e confronti fra i di-versi approcci al tema del locale e dello svilup-po locale (Magnaghi, 1990; 1998b; Tosi, 1994)e concentrandosi sull’analisi delle possibilitàdi “risposta” autonoma dei singoli sistemi lo-cali agli stimoli globali. In particolare, la di-scussione sui concetti di “milieu” e di “rete lo-cale” (Governa, 1997) ha messo in evidenza ilcontenuto dinamico e attivo del riferimento alterritorio e alle sue specificità, individuabilenei processi di interazione rete locale/milieu.Essi sono processi “circolari”, in cui ognunodei due termini è matrice, e contemporanea-mente esito, del rapporto stesso. Il milieu è in-

fatti pensato come un insieme di “prese”, dipotenzialità espresse da un determinato terri-torio che, per realizzarsi e porsi come risorsedel processo dello sviluppo, devono essere ri-conosciute e colte dalla rete locale, espressio-ne della soggettività sociale1.

Il concetto di “presa” nello studio del mi-lieu è di Augustin Berque, secondo il quale ilmilieu si manifesta come “un ensemble de pri-ses avec lesquelles nous sommes en prises”(Berque, 1990, p. 103)2. Con tale concetto simette pertanto in evidenza la natura relazio-nale del milieu che permette di descrivere erappresentare i flussi di relazione che legano isoggetti agli oggetti, le componenti oggettivealle componenti soggettive dei singoli territo-ri. Il rapporto soggetto/oggetto, aspetti sog-gettivi e aspetti oggettivi, ha una rilevante por-tata teorica ed epistemologica. Ad esempio,Nicholas Entrikin centra il suo studio sulbetweenness of place in quanto, adottandoquesto punto di vista, è possibile descrivere“the basic tension that exists between the re-latively subjective, existential sense of placeand the relatively objective, naturalistic con-ception of place” (Entrikin, 1991, p. 7).

Muovendosi in questa prospettiva, i sistemilocali territoriali sono definibili nella relazio-ne tra componenti oggettive e componentisoggettive, e individuabili sulla base del rap-porto tra due polarità interagenti: le caratteri-stiche specifiche del milieu locale e l’insiemedelle relazioni a rete che connettono fra loro isoggetti della rete locale e gli stessi con il mi-lieu. All’interno dei sistemi locali territoriali, ilegami orizzontali fra i soggetti che interagi-scono nelle reti locali derivano, almeno in par-te, dalle relazioni verticali che essi intratten-gono con le componenti dello specifico mi-lieu, viste come possibili “prese” per la costru-zione di progetti condivisi.

Questa interpretazione del concetto di siste-ma locale territoriale si collega a quanto sostie-ne Marcel Roncayolo (1993), secondo il qualele città sarebbero definite non tanto dalle fun-zioni e dai servizi che si trovano al loro inter-no, quanto piuttosto sulla base delle volontà dicambiamento e di innovazione che emergonodal gioco degli attori. In questa prospettiva, lecittà si configurerebbero come potenziali “at-tori collettivi” (Bagnasco, Le Galès, 1997b) in

APPENDICE A - LA SELEZIONE DEI LAVORI DEI GIOVANI RICERCATORI

1 Per quanto riguarda ilconcetto di rete locale, essaè formata da soggetti localicon caratteristiche diverse, iquali, nell’articolazionedelle dinamiche territoriali,rivestono ruoli almeno par-zialmente differenti. Unaprima distinzione è fra sog-getti locali “puri”, il cui am-bito d’azione prevalente, senon esclusivo, è quello loca-le, e soggetti locali “trasver-sali”, che agiscono contem-poraneamente a livello loca-le e a livello sovralocale.Inoltre, altra importante di-stinzione è quella relativaalle caratteristiche dei lega-mi, in particolare dal puntodi vista della loro “forza” inriferimento ai noti lavori diMark Granovetter (1973).

2 Le prese sono, dunque,delle “propriétés invarian-tes de l’objet [...] bienqu’elles n’existent en tantque prises que dans et parune certaine relation. [...]Bref, ce sont des réalitésmésologiques: ni l’en-soi dela physique, ni le pour-soide la psychologie, mais l’a-vec-soi d’un potentiel qui seréalise dans la relationd’une société à l’espace et àla nature” (Berque, 1990, p.103). Berque deriva la no-zione di presa dalla teoriadelle affordances, cioè le ri-sorse e possibilità di azionedisponibili nell’ambiente epreadattate ai bisogni co-gnitivi e di azione degli abi-tanti, formulata dallo psico-logo James J. Gibson, di cuiè stato da poco tradotto initaliano un libro del 1979(Gibson, 1999). La teoriadelle affordances è stata re-centemente ripresa ancheda Rullani (1998) nella de-scrizione dei caratteri istitu-zionale dello sviluppo eco-nomico locale. In questocaso, le affordances sarebbe-ro “l’equivalente evoluzio-nistico delle ‘economieesterne’ del distretto mar-shalliano” (Rullani, 1998, p.16).

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relazione alla capacità/possibilità dei meccani-smi relazionali fra gli attori locali di fare con-vergere su un’idea condivisa di cambiamentoazioni e interessi che, all’inizio, non si riferi-scono né alla medesima scala temporale, né al-la medesima scala spaziale. Di conseguenza, lacapacità/possibilità di suscitare convergenzefra soggetti diversi, con interessi diversi e, al li-mite, conflittuali definisce l’identità dei singoliterritori non tanto come riferimento per “esse-re”, ma per “divenire” (Massey, 1993).

Così intesa, la questione dei sistemi localiterritoriali apre diversi ordini di problemi ditipo teorico e operativo, che vanno al di là del-la definizione di strumenti e categorie concet-tuali. In primo luogo, solo se e quando l’aggre-gato di soggetti si comporta e agisce come unsoggetto collettivo, il sistema locale territoria-le può essere geograficamente definito e deli-mitato. I sistemi locali territoriali possono per-tanto essere visti come entità territoriali inter-medie, dotate di autonomia, identità, capacitàauto-organizzativa che si definisce e si costrui-sce nella interazione fra i soggetti, organizzatinelle reti locali, e le componenti del milieu.Essi sono quindi visibili e interpretabili in rap-porto alle modalità, alle logiche e ai meccani-smi dell’azione collettiva. Ma, quali sono le ca-ratteristiche dell’aggregato di soggetti, dellespecificità e delle caratteristiche territoriali lo-cali in cui e attraverso cui si costruisce l’azio-ne collettiva che definisce il sistema locale ter-ritoriale? Di che tipo sono i rapporti che in-trattengono i soggetti fra loro e con il milieu?Quali sono le circostanze che fanno sì che que-sto aggregato di soggetti si comporti come unsoggetto collettivo? Con che limiti (anche tem-porali) e in che senso l’azione di un aggregatodi soggetti può essere collettiva?

Fra cambiamento delle forme diterritorialità e territorializzazionedell’azione collettiva

Un primo modo attraverso cui guardare ilcambiamento in atto nel rapporto territorio,soggetti, azioni è quello di porsi dal punto divista della ridefinizione attuale dei territori edella territorialità. Come sostiene GiuseppeDematteis “la frammentazione e riarticolazio-

ne operata dalle reti globali non ha affatto eli-minato la territorialità. Possiamo dire che l’haesaltata a livello locale-regionale, l’ha indebo-lita a livello nazionale e l’ha fatta rinascere, co-me nel caso dell’UE, alla scala macroregionalee continentale, ma in forme ben diverse daquelle ‘westfaliane’ dei vecchi stati nazionali.Ha sconvolto cioè quell’Ordnung und Ortnung(radicamento ai luoghi) in cui C. Schmitt rico-nosceva le condizioni essenziali delle normefondanti la convivenza umana” (Dematteis,1997, p. 39).

Posta in questi termini, la centralità del ter-ritorio diviene anche, e forse soprattutto, cen-tralità della territorialità e delle nuove formeattraverso cui essa si costruisce e si rappresen-ta (Dematteis, 1999)3. Il tema centrale sembrain altri termini essere il fatto che i cambiamen-ti in atto frammentano e modellano i territori,ridefinendo la territorialità e i principi su cuiessa si costruisce. È il riconoscimento del“mondo in frammenti” di cui parla ancheClifford Geertz (1999), una frammentazioneche è, allo stesso tempo, sociale e territoriale ein cui si determina la distruzione dell’identitàe della coesione locale, ma anche, al contrario,la (possibile) auto-organizzazione dei singoliframmenti in strategie di risposta e di resisten-za alla globalizzazione (Pile, Keith, 1997). Inquesto processo, si moltiplicano le apparte-nenze territoriali dei soggetti a diversi fram-menti, i quali, a loro volta, seguono strade,percorsi e strategie evolutive che sono spessoslegate dalle strade, dai percorsi e dalle strate-gie evolutive dei frammenti spazialmente vici-ni, ma che invece si avvicinano a quelli di fram-menti spazialmente lontani.

Fenomeni di frammentazione sociale e diframmentazione territoriale, di frammentazio-ne distruttiva del locale e di (possibile) ricom-posizione dei frammenti sono, nella maggiorparte dei casi, due facce della stessa medaglia.Basti pensare alla dual city e alle città globali(Castells, 1989; Sassen, 1991) in cui funzioni,classi sociali e processi territoriali di assolutaeccellenza convivono e si dispiegano quotidia-namente accanto a fenomeni di disgregazione,di esclusione, di degrado sociale e fisico. Ogniframmento è, infine, simultaneamente, una“parte” di territorio e una “figura” in grado diesprimerne l’identità e l’essenza4. Come inter-

I SISTEMI LOCALI TERRITORIALI FRA CAMBIAMENTO DELLE FORME DI TERRITORIALITÀ E TERRITORIALIZZAZIONE DELL’AZIONE COLLETTIVA 145

3 Nella formulazione diClaude Raffestin la territo-rialità può essere considera-ta come “insieme di relazio-ni che nascono in un siste-ma tridimensionale società-spazio-tempo” (Raffestin,1981, p. 164). Del concettodi territorialità esistono co-munque diverse accezioni:si vedano, ad esempio, ledifferenze fra Sack (1986),Turco (1988), Poche (1996)e Thrift (1996).

4 Sulla relazione frammen-to/territorio, anche in riferi-mento al principio ologram-matico di Edgar Morin vediDebarbieux (1996).

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pretare queste duplicità? Quali sono i mecca-nismi che portano alla (possibile) composizio-ne e ricomposizione dei frammenti in ambititerritoriali specifici in cui si definiscono le nuo-ve forme della territorialità contemporanea?

Sempre mantenendo al centro dell’attenzio-ne la questione del territorio, un secondo mo-do di interpretare il cambiamento in atto, èquello di concentrarsi sui cambiamenti dellemodalità di intervento e delle forme attraver-so cui si costruisce l’azione collettiva5. Sem-pre più spesso, il dibattito su questo argomen-to indica come “innovazione” delle forme edelle modalità dell’azione collettiva la tenden-za verso la loro territorializzazione (Faure,1997). Tale tendenza è sottolineata sia nelle ri-flessioni che affrontano tale problema con ri-ferimento alle pratiche “al lavoro” in ambitoitaliano o europeo, sia nelle riflessione di tipoteorico-metodologico, in particolare in alcunirecenti contributi sul tema della governance edel management urbano e territoriale.

Per quanto riguarda il primo gruppo di ri-flessioni, vanno ad esempio considerate alcu-ne esperienze di “intercomunalità” in Francianelle quali il tema della intercomunalità è de-clinato in termini “territoriali” più che “istitu-zionali”, ponendo cioè attenzione alle formevariabili di aggregazione intercomunale che sidefiniscono secondo le specificità territoriali,le questioni implicate, i contenuti e i proget-ti6. In Italia, una spia di questa tendenza puòessere considerata la moltiplicazione deglistrumenti di intervento sul/nel territorio, e/ol’uso nuovo di strumenti più tradizionali, che

ricercano una stretta relazione fra azioni e ter-ritorio, anche come ricerca di dialogo fra di-versi settori di intervento7.

L’insieme di questi cambiamenti può essereriassunto in una generale tendenza “strategica”dei processi di pianificazione che, consideran-do le pratiche al lavoro nel contesto italiano(Bolocan, Salone, 1996), rimanda a tre enuncia-ti principali8. In primo luogo, il riconoscimentodi nuove forme di rappresentanza degli interes-si, con la conseguente accettazione in positivo,ossia non come vincolo ma come risorsa, dellapluralità e dell’articolazione degli attori e degliinteressi coinvolti nelle trasformazioni urbane eterritoriali; in secondo luogo, l’apertura dell’a-rena decisionale verso forme di concertazione epartnership fra i diversi attori, sia nella formadella partnership pubblico/privato, sia in quel-la della partnership pubblico/pubblico (le pri-me per lo più rivolte ad attivare le risorse nonsolo economiche dei diversi attori coinvolti; leseconde, al coordinamento e alla cooperazionedei diversi attori istituzionali); infine, l’impor-tanza crescente assunta dal riferimento alle spe-cificità locali per la realizzazione di azioni sulterritorio di tipo integrato, rivolte a inserire lacittà o il territorio di riferimento nella competi-zione internazionale e, parallelamente, a con-trastare fenomeni di esclusione sociale9.

I cambiamenti che guidano le forme e le mo-dalità dell’azione collettiva rimandano alla rin-novata attenzione con cui, a partire dal dibat-tito anglosassone, si guarda ai modelli di azio-ne che si riferiscono all’idea della governanceurbana e territoriale10. In termini generali, la

APPENDICE A - LA SELEZIONE DEI LAVORI DEI GIOVANI RICERCATORI146

5 Per inquadrare meglio iltema, andrebbe ovviamentechiarito, almeno a grandilinee, che cos’è l’azione col-lettiva, quali sono le sue logi-che, in che senso e con chelimiti un’azione può esserecollettiva (Olson, 1965). Inmaniera necessariamenteschematica considero questofilone di ricerca come quellorelativo alla policy: le politi-che pubbliche sono vistecome azioni collettive, cioècome “insieme delle azionicompiute da un insieme disoggetti (gli attori), chesiano in qualche modo cor-relate alla soluzione di unproblema collettivo” (Dente,1990, p. 15).

6 Esempio di una lettura“territoriale” del tema del-l’intercomunalità sono gli ar-ticoli contenuti nel dossiercurato da Pelletier e Vanier(1997), in particolare, Brunet (1997). Di grande in-teresse anche il dibattito su-scitato in Francia dai conte-nuti della “Loi d’orientationpour l’aménagement et ledéveloppement du territoi-re” (n. 95-115 del 4 febbraio1995) e della “Loi d’orienta-tion pour l’aménagement etle développement durabledu territoire” (n. 99-533 del25 giugno 1999) – revisionedella precedente – nellequali si stabilisce, fra le altrecose, che la politica di svi-luppo (sostenibile) debbaessere basata sulla presa inconsiderazione formale dei“pays” con un richiamo di-retto ad una nozione centra-le della geografia regionalevidaliana (Chamussy, 1997).

7 Un “indizio” della tenden-za verso la territorializzazio-ne dell’azione collettiva inItalia può cioè essere consi-derata l’introduzione distrumenti di intervento sulterritorio che prefigurano,pur nelle diversità, modalitàdi azione in stretta relazionecon il territorio di interven-to. Esempi di tale tendenzasono i contratti di quartiere,i programmi di recupero ur-bano, i programmi per losviluppo sostenibile del ter-ritorio, nonché il controver-so panorama della “pro-grammazione negoziata”che, così come contenutonella delibera CIPE del 21marzo 1997, comprende leintese istituzionali di pro-gramma, i contratti di pro-gramma, i contratti d’area e ipatti territoriali. Non è miaintenzione entrare nel meri-

to del panorama legislativo e normati-vo di tali strumenti, peraltro complessoe in continua evoluzione, né discutereil contenuto di “innovazione” o di“continuità” insito in tali strumenti.Per quest’ultimo aspetto si può vedereSalone (1997); sui patti territoriali, DeRita, Bonomi (1998).

8 La tendenza strategica della pianifica-zione può essere riassunta nell’impor-tanza assunta dalle “forme di interazio-ne tra gli attori sociali messi in giocodal piano e dal [...] coordinamento di-namico tra iniziativa puntuale e quadridi compatibilità allargata” (Curti,1996, p. 73). In quest’interpretazione,l’aspetto rilevante della pianificazionestrategica è la ricerca di strumenti re-golativi flessibili, capaci di favorire ac-cordi fra diversi soggetti e di facilitareun processo di mutuo apprendimento

nel corso del processo. Esistono peròdifferenze sostanziali fra i diversi ap-procci strategici alla pianificazione ur-bana e territoriale, individuabili, adesempio, facendo riferimento alle lorodiverse “provenienze” (Calvaresi,1997).

9 È chiaro il rischio che il riferimento aisoggetti locali, al territorio e alle suespecificità si riduca ad un riferimentopuramente rituale o strumentale, cosìcome anche l’attenzione verso i proble-mi dell’esclusione siano consideratiunicamente in quanto necessari albuon funzionamento del sistema prin-cipalmente dal punto di vista economi-co. In questo senso è del tutto condivi-sibile la frustrazione dichiarata da AshAmin e Stephen Graham (1999) versole politiche urbane che ostentano il lin-guaggio dell’accordo e della coopera-

zione fra i diversi attori urbani, presup-ponendo, nel migliore dei casi, unacittà priva di conflitti e, nel peggiore,una totale manipolazione dell’intera-zione sociale nel processo di pianifica-zione da parte delle élite e dei loro so-stenitori che desiderano la coesione so-ciale allo scopo di rendere la città at-traente per gli investimenti e per inuovi ceti medi.

10 Il tema della governance è, attual-mente, al centro di una crescente atten-zione; la bibliografia sta quindi diven-tando numerosa ed è difficile districar-si. Le diverse interpretazioni della go-vernance urbana e territoriale emergo-no chiaramente nell’insieme di articoliraccolti nel numero di “Les Annales dela Recherche Urbaine” curato daQuerrin e Lassave (1998) tutto dedica-to ad una riflessione sulle teorie e sulle

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governance definisce una modalità di azionepubblica diversa, e almeno in parte contrap-posta, rispetto a quella del governo (government) della città e del territorio. Taledifferenza rimanda, in primo luogo, ai limitidella separazione classica fra stato, mercato esocietà civile (Jessop, 1995). Mentre, schema-tizzando al massimo, nei principi del governoè centrale il ruolo dell’attore pubblico, la go-vernance prefigura una modalità di interventoche coinvolge un insieme complesso di attori,basato sulla flessibilità, sulla partnership e sul-la volontarietà della partecipazione. Diversisoggetti, anche non istituzionali, hanno quin-di la possibilità di svolgere un ruolo attivo nel-la definizione delle scelte e delle azioni di in-teresse collettivo: sono cioè molti i soggetti chesi pongono come (possibili) attori delle azio-ni. In questa prospettiva, la governance si con-figura come modalità di azione rivolta verso lacostruzione di tavoli di concertazione dove,più che la gerarchia delle competenze prede-finite, conta la costruzione degli interessi ingioco, delle attese e delle intenzionalità espres-se dai diversi soggetti.

In questa prospettiva, la governance può es-sere considerata come una modalità di orga-nizzazione dell’azione collettiva attraverso lacostruzione di partenariati e coalizioni di at-tori orientati verso il raggiungimento di unobiettivo comune (Bagnasco, Le Galès,1997b). Essa assume quindi le forme di unprocesso di organizzazione fra differenti atto-ri, al cui interno il soggetto pubblico svolge unruolo centrale di pilotage o direction (Jessop,1995). Inoltre, a differenza della governancedell’economia, che è rivolta in maniera pres-soché esclusiva al raggiungimento dell’effi-cienza economica delle imprese, la governan-ce urbana e territoriale si confronta, o dovreb-be confrontarsi, anche con il problema dellarappresentanza degli interessi, inserendo fra isuoi obiettivi la dimensione propriamente so-ciale e politica dell’azione (Bagnasco, LeGalès, 1997b)11.

Alcuni contributi recenti hanno però messoin evidenza che se la governance urbana e ter-ritoriale definisce unicamente un modello diazione basato sulla interazione fra attori diver-si, in realtà essa non può essere considerataun’idea nuova. Per Simin Davoudi, ad esem-

pio, “city has traditionally been associatedwith governance, the arena where politiciansand administrators manage and organize thecity by articulating and translating politicalphilosophies into programmes of action” (Davoudi, 1995, p. 225). In questa prospetti-va il problema è individuare i principali cam-biamenti che stanno segnando le modalità del-l’azione collettiva e che, almeno in parte, con-figurano l’attuale richiamo all’idea di gover-nance in termini innovativi. Tali cambiamentisarebbero da mettere in relazione, secondoPatsy Healey (1995), con la crescente “irre-quietezza” (restlessness) delle società occiden-tali del tardo capitalismo e, quindi, con la crisidel modello fordista. Il problema è quindiquello di capire come i cambiamenti nella go-vernance di città e territori possano essere col-legati e interpretati alla luce del più generalecambiamento delle dinamiche economiche esociali attuali.

A tal fine, Margit Mayer (1995), riferendosialla teoria della regolazione, individua trecambiamenti principali dell’attuale riferimen-to all’idea della governance urbana. In primoluogo, il coinvolgimento nell’azione politicalocale di un numero crescente di attori pub-blici, privati e semipubblici con la conseguen-te ridefinizione del ruolo delle autorità locali;in secondo luogo, la crescente importanza che,nell’ambito delle politiche locali, stanno assu-mendo le strategie di sviluppo pro-attivo perla definizione del profilo competitivo dellecittà al fine di situarle nella gerarchia interna-zionale; infine, e collegato a questo, la cre-scente importanza delle politiche economichee la necessità di prefigurare modalità d’inter-vento in cui interagiscono diversi settori conriferimento ai principi del progetto integrato.

In maniera più specifica, Patrick Le Galès(1998) individua sei dimensioni fondamentaliche definiscono i contenuti attuali di un’azio-ne di governance: l’integrazione interna, l’integrazione esterna, la territorializzazione, ilruolo dell’azione pubblica, la definizione de-gli obiettivi e l’orientamento alla strategia. Leprime tre rivestono un particolare interesseper i miei fini, in quanto fanno riferimentoesplicito al rapporto, anzi all’interazione, diun certo territorio con l’azione collettiva. Inparticolare:

I SISTEMI LOCALI TERRITORIALI FRA CAMBIAMENTO DELLE FORME DI TERRITORIALITÀ E TERRITORIALIZZAZIONE DELL’AZIONE COLLETTIVA 147

pratiche che a tale “model-lo”, anzi a tali modelli, pos-sono essere ascritte; si veda,in particolare, l’articolo diOsmont (1998). Oltre aitesti di Healey (1995, 1997)e Le Galès (1998), ampia-mente citati, sono anche in-teressanti gli studi di Lefè-vre (1998) e Jouve, Lefèvre(1999) che si confrontanodirettamente con esempi estudi di caso.

11 La differenza fra la conce-zione di governance svilup-pata in ambito economico equella applicabile al territo-rio e alla città può anche es-sere letta come generale su-bordinazione delle diversedimensioni dell’azione loca-le rispetto alle politiche eco-nomiche di cui parla Mayer(1995).

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• la dimensione della integrazione interna, os-sia la capacità di integrare le organizzazioni,gli attori, i gruppi sociali, i diversi interessiinterni ad un certo ambito territoriale, al fi-ne di elaborare una strategia comune o del-le politiche, indica la capacità di azione pro-pria di un ambito territoriale specifico;

• la dimensione della integrazione esterna, os-sia la capacità di rappresentazione collettivaall’esterno nei confronti dello stato, dell’U-nione Europea, delle altre collettività locali,inserisce chiaramente il riferimento all’am-bito territoriale in un’ottica di apertura ver-so l’esterno12;

• la dimensione della territorializzazione, os-sia il riferimento ad un certo territorio comeambito, pertinente e specifico, dell’azionecollettiva.

Discutendo la dimensione della territorializ-zazione, Le Galès riconosce nella regolazioneterritoriale un tipo emergente di regolazioneche si affianca alle forme classiche fondate sulruolo dello stato, del mercato o della coopera-zione/reciprocità fra i membri della comunità:“la regolazione politica non passa più sola-mente attraverso la gerarchia ma prende for-me nuove da analizzare. La considerazione deiterritori infranazionali come costruzioni so-ciali e politiche allora può essere un contribu-to utile alla riflessione” (Le Galès, 1998, p.59). Nel caso della regolazione territoriale sa-rebbe cioè il territorio a svolgere il ruolo cen-trale di “operatore” della regolazione. Che co-sa siano questi territori infranazionali che svol-gono un ruolo centrale in questo approccionon è, però, del tutto chiaro. Il problema è af-frontato in generale, facendo riferimento allaquestione, peraltro ambigua, del cosiddetto li-vello intermedio: “non si sa mai se si dibattedi un livello originale di strutturazione e di re-golazione della politica o del sociale ovvero diun livello che è attraversato da logiche macroo micro rese più visibili a questa scala” (LeGalès, 1998, p. 60)13.

Conclusioni

I due modi precedentemente indicati di in-terpretare il cambiamento, ossia la ridefinizio-

ne delle forme della territorialità e la tendenzaverso la territorializzazione dell’azione collet-tiva, convergono e si confrontano su un aspet-to importante: la centralità del territorio, dientità territoriali intermedie che si configura-no sempre più come ambiti territoriali specifi-ci di appartenenza e di azione14. Tali territorisono visti come livelli intermedi non solo dalpunto di vista spaziale, ma anche dal punto divista dei valori, degli interessi, della capacitàdi comportamento collettivo. Essi si definisco-no attraverso l’articolazione di diversi puntidi vista. In particolare, il punto di vista simbo-lico e affettivo, secondo cui il livello interme-dio è ridefinito come ambito territoriale del-l’appartenenza, del radicamento e degli anco-raggi, con tutte le differenze terminologiche econcettuali del caso; o il punto di vista, moltopiù concreto, del territorio politico, dell’am-bito territoriale degli interventi e dei progetti(Poche, 1996).

La compresenza di diversi aspetti nella defi-nizione del significato e del ruolo del territo-rio locale è sottolineata anche da Cox e Mair(1991) che parlano di “locality as localised so-cial structure” e “locality as agent”. Secondoquesti autori, il locale come struttura socialelocalizzata è un insieme di relazioni sociali aduna particolare scala spaziale, dentro cui sonodefiniti interessi concreti. Viceversa, il localecome agente non è solo lo scenario in cui sisvolge l’azione, ma è l’azione stessa attraversocui i diversi soggetti si mobilitano localmentee si organizzano in una maniera che non sareb-be possibile se agissero separatamente15. Que-sti due aspetti del locale sono legati fra loro inmaniera asimmetrica: il locale come agentepresuppone il locale come struttura sociale lo-calizzata, ma non è valida la relazione inversa.

Il concetto di sistema locale territoriale rias-sume questi due aspetti che sembrano andarein due direzioni almeno in parte differenti. Se-guendo la prima direzione, si sottolinea il fat-to che il sistema locale territoriale è un vissuto,presuppone la compresenza. Nella seconda di-rezione, invece, il sistema locale territoriale esi-ste quando si conquista la sua autonomia met-tendo in valore le sue specificità. Interpretarele dinamiche urbane e territoriali con il con-cetto di sistema locale territoriale permettepertanto di concettualizzare un possibile ele-

APPENDICE A - LA SELEZIONE DEI LAVORI DEI GIOVANI RICERCATORI

12 Il riferimento all’integra-zione interna non implicaquindi chiusura o riferi-mento esclusivo ai soli sog-getti locali “puri”, ma anchela capacità di un certo am-bito territoriale di far agirelocalmente i soggetti locali“trasversali”.

13 Sulla questione del livellointermedio in relazione aiprocessi dello sviluppo lo-cale si può vedere il librocurato da Arrighetti, Sera-valli (1999).

14 La relazione fra cambia-mento delle dinamiche disviluppo dei sistemi urbanie territoriali e cambiamentodelle forme e delle modalitàdell’azione collettiva è alcentro dell’attenzione diBagnasco, Le Galès(1997a).

15 I due significati del riferi-mento al concetto di localityandrebbero però sviluppatie chiariti, ampliando i rife-rimenti all’insieme dei loca-lities studies anglosassoni eanche, ad esempio, alle ri-flessioni della geografiafrancofona sul concetto dilieu (ad esempio, Berdou-lay, Entrikin, 1998). La con-cezione del locale comeagente si avvicina comun-que alla concezione proatti-va del locale e del ruolo“costruttivo” che esso svol-ge riassunta nel concetto disistema locale territoriale.

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mento di convergenza a partire dalla ridefini-zione attuale della relazione fra territorio, sog-getti e azioni, fra cambiamento delle forme del-la territorialità e cambiamento delle forme edelle modalità dell’azione collettiva.

Cosa vuole dire porsi all’interno di questainterazione e, quindi, interrogarsi sulle moda-lità attraverso cui si struttura la territorialitànelle dinamiche territoriali contemporanee?Fondamentalmente, significa cercare di capi-re come i soggetti divengono attori, in gradoin altri termini di forgiare la loro identità at-traverso una intenzionalità, e una azione, di ti-po territoriale16; oppure, come un’azione ter-ritorializzata, in altri termini territorialmenteradicata o ancorata, sia in grado di costruireidentità territoriale e soggetti attivi; oppureancora come il territorio crei identità dei sog-getti non solo, o meglio non tanto, in quantoappartenenza, ma soprattutto attraverso l’a-zione comune dei soggetti in esso operanti.

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I SISTEMI LOCALI TERRITORIALI FRA CAMBIAMENTO DELLE FORME DI TERRITORIALITÀ E TERRITORIALIZZAZIONE DELL’AZIONE COLLETTIVA 149

16 La nozione di attore puòessere costruita in riferi-mento alla nozione di inten-zionalità: “les actions hu-maines préexistent dans lesreprésentations des agentssous formes de finalités dela volonté ou du désir et lestransforment ainsi en ac-teurs” (Lévy, 1994, p. 36).Gli attori si definisconoquindi in relazione alle azio-ni, cioè come portatori diuna intenzionalità.

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Dall’industria alla telematica:la rete interistituzionale del Vùlture-Melfese

Localismo e modernizzazione in Basilicata

Italo Iozzolino

Premessa

Il presente contributo intende analizzare l’evoluzione più recente dell’area di Melfi, un conte-sto che, dopo l’insediamento dello stabilimento Fiat, sta assumendo progressivamente un ruolodi guida e di stimolo per lo sviluppo dell’intera regione, in virtù delle ricadute economiche e so-ciali di notevole entità che è in grado di generare, specie in relazione all’espansione del settoredei servizi alla produzione e alla diffusione di una mentalità imprenditoriale finalmente svinco-lata dalla vecchia logica della dipendenza da provvidenze esterne.

Si è ritenuto opportuno inserire anche una breve disamina del percorso della Basilicata sullastrada dell’industrializzazione e dello sviluppo, al fine sia di collocare il discorso sul Melfese inun contesto il più completo possibile, sia di far emergere la portata strategica e innovativa dellascelta localizzativa del gruppo Fiat.

La regione, che ancora negli anni cinquanta appariva bloccata nella sua civiltà contadina, laregione delle cosiddette “tre piaghe” (malaria, frane, terremoto), per decenni considerata em-blematica e riassuntiva di tutta quella serie di problemi e di fallimenti che hanno caratterizzatolo sviluppo del Mezzogiorno, ha così l’occasione di porsi come punto di riferimento e come mo-dello per le altre regioni meridionali.

Certo, affinché questo processo sia completo è necessario da un lato che l’insediamento Fiat-SATA venga metabolizzato nel sistema economico locale e dall’altro che all’industrializzazionesegua una politica orientata allo sviluppo delle nuove tecnologie, segnatamente terziario avan-zato e telecomunicazioni. Di qui l’attenzione per la creazione delle Rete Interistituzionale delVùlture-Melfese che, promossa dal FORMEZ e dalla Regione Basilicata, mira a costituire un effi-ciente coordinamento tra i vari soggetti istituzionali ed economici dell’area per poter risponde-re con successo alle sfide dell’insediamento di Melfi.

Nell’attuale contesto economico e sociale, infatti, l’amministrazione pubblica è chiamata aoperare in un sistema in cui il vantaggio competitivo è sempre più definito dallo sviluppo dellaconoscenza e dalla circolazione delle informazioni. Tali mutate esigenze richiedono modelli or-ganizzativi di tipo reticolare basati sulla cooperazione, piuttosto che sull’autorità e sulla gerar-chia e facenti perno su quelle tecnologie informatiche e telematiche che facilitano l’acquisizionedella conoscenza, il lavoro cooperativo e l’accesso alle informazioni. È pertanto questo un con-testo territoriale “emblematico” per cogliere il rapporto tra mutamento e innovazione e identitàdei luoghi.

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Dalla Riforma Agraria ai primi tentatividi industrializzazione

Nel secondo dopoguerra la Basilicata si pre-senta come una regione profondamente emar-ginata e con ben poche possibilità di sviluppo.L’aspra morfologia del territorio, i diffusi fe-nomeni di erosione e di dissesto idrogeologi-co, le difficoltà di controllo delle acque, fannoda contorno ad una struttura produttiva quasiesclusivamente agricola1 caratterizzata dallaforte presenza del latifondo, dall’arretratezzadelle pratiche colturali, dal dilagare della ma-laria proprio sui suoli pianeggianti e perciò po-tenzialmente migliori (Biondi, Coppola,1974). A ciò si aggiunge la scarsa articolazionedelle reti stradali e ferroviarie, che determinanon solo l’isolamento delle altre regioni meri-dionali (Tocchetti, 1965) ma anche una pres-soché totale mancanza di relazioni all’internodella regione stessa. Né va taciuto il fatto chela trama urbana appare assai rada e disartico-lata, sia per la inconsistenza delle taglie demo-grafiche (ad esclusione dei due capoluoghiprovinciali che superano di poco i 30.000 abi-tanti e di appena 12 comuni con oltre 10.000abitanti, la gran parte dei comuni ha meno di3.000 residenti) sia per la debolezza delle fun-zioni (Viganoni, 1997). Non a caso per la Ba-silicata di questi anni si conia la definizione diregione “senza città”, di “una non regione o,meglio, una regione residuale, definita – oltreche da contingenze amministrative ossificate– più dal cadere delle forze di attrazione deigrandi centri posti fuori del suo territorio cheda fulcri di gravitazione attivi al proprio inter-no” (Coppola, 1982).

La necessità di modificare una realtà di sif-fatta arretratezza e vischiosità spinge il legisla-tore ad avviare politiche straordinarie di in-tervento prima nel settore agricolo e poi, nelcorso del decennio successivo, anche in quel-lo industriale. Decisivo è l’impatto della Rifor-ma Agraria che, oltre a scardinare definitiva-mente l’impianto latifondistico, consegna allosviluppo, dopo averle bonificate, ampie zonedi pianura, nonché, in virtù di consistenti in-terventi nel settore irriguo, le valli fluviali.

Meno incisivi, ma non per questo meno im-portanti, gli sforzi nel campo dell’industrializ-zazione che in Basilicata, così come nelle altre

regioni meridionali, assumono come referenteteorico il modello di sviluppo “per poli” delPerroux. Secondo questa linea di intervento,si deve investire su una iniziativa di grandi di-mensioni, la cosiddetta “industria motrice”,afferente ad un settore a intenso progresso tec-nologico, a domanda in espansione e a forteimpatto sugli altri settori industriali e sul pro-dotto globale dell’economia, da localizzareperò in punti del territorio che possiedono al-cune precondizioni “forti”, quali “una buonaaccessibilità, la presenza di una rete di capi-saldi urbani e un potenziale demografico ingrado di offrire risposte tempestive e qualifi-cate ad un mercato del lavoro in trasformazio-ne” (Biondi, 1997). Proprio la necessità di ri-spondere a questi prerequisiti, inesistenti oquasi in Basilicata, ha fatto sì che la regionevenisse interessata solo marginalmente daquesta politica di industrializzazione. Vengo-no infatti individuati due soli nuclei di svi-luppo industriale, entrambi collocati nellavalle del Basento e gravitanti l’uno sul capo-luogo regionale e l’altro sul polo metaniferodi Ferrandina. Un terzo nucleo, quello di Maratea, è di fatto inglobato dal nucleo delgolfo di Policastro rientrante nella sua massi-ma parte in territorio calabrese.

Non vi è dubbio che questa prima stagionedi interventi ha il merito di aver attivato mec-canismi di sviluppo difficilmente generabili inmaniera spontanea. Parimenti, non trascura-bile è la realizzazione di importanti infrastrut-ture (ad esempio, la superstrada del Basento)che iniziano a rompere l’atavico isolamentodella regione. Per il resto, però, vengono de-luse le aspettative che le popolazioni localiavevano riposto nella politica di industrializ-zazione sia in termini di creazione di posti dilavoro sia di generale ammodernamento dellestrutture economiche e sociali. Rispetto all’au-spicata creazione di circa 1.500 posti di lavoroall’anno, ne sono stati attivati infatti poco piùdi un terzo per un totale in un decennio di6.100 ripartiti in 45 unità locali. E così anchel’auspicata “fertilizzazione del tessuto econo-mico-produttivo non sarebbe mai andata al dilà di alcune piccole aziende meccaniche [...]create sull’abbrivio della messa in marcia delgrande stabilimento a partecipazione stataledell’ANIC2 in val Basento e per la sua manu-

APPENDICE A - LA SELEZIONE DEI LAVORI DEI GIOVANI RICERCATORI152

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tenzione, piuttosto che a valle del suo proces-so produttivo” (Biondi, 1997).

Il limite principale, però, sta nella mancan-za di una strategia d’azione capace di traghet-tare in maniera omogenea e razionale l’interaregione verso uno sviluppo diffuso e duratu-ro. La Riforma Agraria prima e l’industrializ-zazione per poli poi vengono, infatti, a com-porre un mosaico territoriale nel quale alle po-che aree “emergenti” – quelle interessate da-gli interventi straordinari – si contrappongo-no le mille e più zone della marginalità, oveproseguono ininterrotti i fenomeni di dissestoe di spopolamento.

Tra le aree dinamiche compare innanzituttoquella del capoluogo regionale e della cinturadi comuni che su di esso gravitano, favoritidalla presenza di attività industriali, ma so-prattutto dalla crescita dell’apparato burocra-tico-amministrativo e del terziario locale.

La zona per la quale sembra lecito parlaredi sviluppo è senza dubbio quella che si di-segna ormai con chiarezza tra Matera e l’a-rea metapontina, segnata da buoni livelli dicrescita dei comuni costieri e da una discre-ta tenuta di quelli dell’entroterra più imme-diato (Viganoni, 1997). Policoro, ScansanoRotondella e Nova Siri, interessati dall’azionedi bonifica prima e da consistenti interventi nelsettore irriguo poi, rientrano in quella che vie-ne definita “Basilicata felix” e sono tra i pochicomuni della regione a segnare saldi migratoripositivi (Amoruso, 1988). Analoghe dinami-che demografiche si registrano per i centri in-dustriali della Valbasento. In particolare, Pisticci diviene, con 17.000 abitanti sul finiredegli anni settanta, il terzo centro della regione.

Un certo dinamismo si rileva anche nel ter-ritorio che si estende dalla valle dell’Agri finoal versante tirrenico della regione. “L’evolu-zione complessivamente positiva di quest’a-rea si collega, da un lato, all’aumento del po-tenziale irriguo che interessa le vallate internedell’alto Agri e del medio Ofanto, e, dall’al-tro, allo sviluppo turistico del tratto tirrenicodel Marateese, cui si accompagna il recuperodel Lagonegrese sorretto in questi anni dallacostruzione delle grosse arterie stradali (la Salerno-Reggio Calabria e la Lagonegro-Praiaa Mare)” (Viganoni, 1997).

Comincia però a manifestare una qualche

vitalità anche il Melfese, che riesce a contene-re l’emigrazione grazie ai miglioramenti agri-coli apportati dalla Riforma Agraria e alla na-scita di alcuni piccoli stabilimenti industriali.

Questa fase può essere interpretata, e in unacerta misura definita, come un tentativo, inlarga parte non riuscito, di modifica struttura-le dell’identità connessa con la cosiddetta “ci-viltà contadina” e di modernizzazione dellarealtà locale.

La seconda stagionedell’industrializzazione

Il tragico terremoto del 23 novembre 1980irrompe in maniera devastante col suo caricodi vittime e di distruzione su questi territori,tutt’altro che attrezzati per far fronte alleemergenze. La catastrofe naturale, tuttavia, at-tira finalmente l’attenzione dell’opinione pub-blica e dei politici sulla marginalità e la preca-rietà di ampie aree interne del Mezzogiorno esi traduce per le stesse in un’occasione di ri-lancio e di sviluppo. L’idea di coniugare rico-struzione e sviluppo prende corpo dopo solisei mesi dal sisma con la legge 219/81, il cuiarticolo 32 detta le direttive di intervento perl’industrializzazione delle aree interne. Il so-stanziale fallimento della politica “per poli”induce il legislatore a non puntare sulle gran-di imprese e sulle zone suscettibili di sviluppoper la dotazione di quei fattori tradizionali dilocalizzazione a cui poi anzi si è fatto riferi-mento, bensì sulle aree marginali ed interne esu impianti di piccole e medie dimensioni, conl’obiettivo di diffondere cultura industriale estimolare modernizzazione, per dirla conSommella, “tra nidi d’aquila e pascoli, lungodirettrici interne ricche di storia, ma sino adallora completamente dimenticate dallo svi-luppo” (Sommella, 1997). Vengono così indi-viduati otto nuclei in Basilicata di cui ben duenell’area del Vùlture-Melfese – San Nicola diMelfi e l’insediamento della valle di Vitalba3 –ma i tempi di realizzazione si dilatano a dismi-sura: nel 1985-1986 vengono terminati i lavoridei primi impianti; nel 1987, a mezzo decretopoi convertito nella legge 120, sono riaperti itermini per l’assegnazione dei lotti; tra il 1992e il 1995 sono completati gli ultimi stabilimen-

DALL’INDUSTRIA ALLA TELEMATICA: LA RETE INTERISTITUZIONALE DEL VÙLTURE-MELFESE 153

1 Il peso degli occupati nelsettore primario raggiunge,infatti, nel 1951 il 73%della popolazione attiva,con punte del 90% in alcu-ni comuni interni.

2 Nota dell’autore. L’ANIC,impegnata nella trasforma-zioni di idrocarburi in fibresintetiche, da sola offriva la-voro a circa 2.000 addetti,ossia a quasi un terzo deinuovi occupati nell’indu-stria.

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ti oggi in produzione, mentre alcuni impiantisono tuttora considerati in avviamento.

Non è questa la sede opportuna per espri-mere giudizi di merito sul programma di inter-venti del dopo terremoto. Del resto un’ampiae articolata letteratura ne ha dettagliatamenteevidenziato nel corso degli anni i limiti, i vizi,gli sprechi, i fallimenti, certamente favoriti dauna serie di ragioni, quali l’allargamento a di-smisura dell’area beneficiaria degli interventi,l’eliminazione quasi totale dei controlli, lastraordinarietà delle procedure nel nome del-l’emergenza e l’impiego di meccanismi anoma-li come quello delle “concessioni” alle impre-se realizzatrici delle opere pubbliche.

Un dato purtroppo resta incontrovertibileed è quello relativo al numero delle iniziativeancora in attività: delle altre 100 inizialmentepreviste e finanziate ne restano in vita pocopiù di un quarto in taluni casi con organici ri-dimensionati o in parte a carico dei vari am-mortizzatori previsti dalla legge (Cassa Inte-grazione in primis).

Occorre però, d’altro canto, sottolineare co-me l’impatto del programma d’industrializza-zione sul clima socioculturale lucano sia statotutt’altro che insignificante. La creazione diposti di lavoro nell’industria, per quanto insuf-ficiente a colmare l’emorragia del settore pri-mario, ha generato un certo processo di mo-dernizzazione nei costumi, nelle abitudini, nel-la mentalità degli abitanti di talune aree inter-ne e ha in parte arrestato i fenomeni migratori

che stavano determinando un preoccupantedeclino demografico, specialmente nelle com-ponenti giovanili, di diverse comunità locali.

Non sembra, invece, che vi sia stato “svilup-po”, nel senso di mobilitazione complessivadelle risorse umane ed economiche locali e dimetabolizzazione dei processi di industrializ-zazione. Del resto, l’impianto generale dellalegge 219 è inidoneo a rispondere a tali esi-genze, configurandosi piuttosto come inter-vento di ricostruzione e, in subordine, di valo-rizzazione territoriale di aree in forte ritardo,ma secondo una logica che alcuni inglesi han-no efficacemente e pragmaticamente sintetiz-zato: “better a branch plant than no plant”(Castells, Hay, 1994).

Il terremoto e le sue conseguenze sul pianoeconomico e sociale sembrano, peraltro, dise-gnare un itinerario di recupero di quella iden-tità che negli anni sessanta e settanta era statacontrassegnata come un indicatore negativoai fini della modernizzazione. Nasce e si affer-ma l’ipotesi di uno sviluppo possibile basatosul “locale” e sulle sue risorse. Da questo pun-to di vista il recupero dell’identità assume uncarattere di positività.

Arriva la Fiat!

Le incertezze e le carenze della stagione diindustrializzazione del post-terremoto trova-no conferma nei dati del censimento del 1991.

APPENDICE A - LA SELEZIONE DEI LAVORI DEI GIOVANI RICERCATORI154

Tab.1 Situazione al 30 giugno 1999 delle aree industriali della Basilicata istituite con la legge 219/81

AREE LOTTI IMPRESE IN UNITÀ ADDETTI IMPRESE ADDETTI

INDUSTRIALI OCCUPATI PRODUZIONE ASSUNTE AL 30/6/1996 PREVISTE PREVISTI

Nerico 4 0 27 27 4 296S. Nicola di Melfi 14 6 862 331 15 966Valle di Vitalba 18 4 493 316 16 945Baragiano 21 5 455 207 22 1.495Balvano 4 2 522 350 5 445Tito 22 9 948 595 23 1.091Isca Pantanelle 6 2 152 152 7 287Viggiano 10 3 242 212 10 387

Totale 99 31 3.701 2.190 102 5.912

Fonte: elaborazione su dati Regione Basilicata - Assessorato alle Attività Produttive, 1996

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In particolare, il PIL risulta ancora inferiore al60% di quello medio nazionale e, al suo inter-no, cala di due punti percentuali il contributodel settore industriale (dal 30% dell’81 al 28%del ’91). Ciò è dovuto al ridimensionamentodell’apparato industriale – risultato opposto aquello atteso e auspicato – che, nel decenniotra il 1981 e il 1991, espelle ben 8.000 lavora-tori. Questo fenomeno, associato all’inarresta-bile “fuga” dal settore primario e all’impossi-bilità per il terziario di assorbire le quote di la-voratori espulse dagli altri comparti economi-ci, determina una crescita esponenziale del nu-mero di disoccupati, specialmente nelle classidi età giovanile.

In questo scenario, tutt’altro che favorevolee incoraggiante, irrompe all’inizio degli anninovanta il progetto Fiat di costruire un mo-derno stabilimento automobilistico nell’areadel Vùlture. Si tratta di un’iniziativa che la ca-sa torinese porta avanti come risposta all’evo-luzione del mercato internazionale del settoreautomobilistico e alla “rivoluzione” tecnolo-gica e gestionale del comparto. Dopo un de-cennio, infatti, in cui la Fiat aveva mirato so-

stanzialmente al consolidamento del mercatointerno, attraverso, ad esempio, l’acquisizionedell’Alfa Romeo (1986), ora c’è da fare i conticon la crescente “invadenza” delle case asiati-che, giapponesi in testa, e soprattutto con unadomanda sempre più esigente e che si affer-ma come fattore trainante delle dinamicheeconomiche. Occorre, dunque, operare un ri-pensamento delle strategie operative e orga-nizzative, basato sull’assioma del just-in-time,che prevede un processo produttivo flessibilein grado di garantire una tendenziale sintoniatra domanda e offerta del prodotto. Una vol-ta fatta propria questa filosofia, il cosiddetto“toyotismo”, la difficoltà e l’antieconomicitàdella riconversione degli stabilimenti esisten-ti, spinge la Fiat a progettarne uno ex novo.

Resta da chiedersi perché viene scelta Melfie non una delle tante aree a tradizione indu-striale pure presenti nel Mezzogiorno (pensoalla provincia di Napoli o all’area di Taranto oa quella di Brindisi, solo per fare alcuni esem-pi). L’opzione lucana risulta vincente su altrearee selezionate certamente grazie “alla posi-zione baricentrica della piana di S. Nicola nel-

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Tab. 2 Il gruppo Fiat nel Mezzogiorno (al 1997)

PROVINCE UNITÀ LOCALI ADDETTI

Rieti 1 282Roma 3 2.120Frosinone 5 8.646L’Aquila 1 1.133Chieti 3 5.310Campobasso 2 3.068Benevento 1 92Avellino 3 2.046Napoli 9 12.373Foggia 1 1.784Bari 2 1.659Brindisi 1 917Lecce 2 1.699Potenza 2 3.886Matera 2 344Palermo 1 3.071Cagliari 1 303

Totale 39 48.733

Fonte: Biondi (1997)

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la filiera Fiat già in attività nelle regioni meri-dionali, filiera che conta stabilimenti in Abruz-zo, nel Basso Lazio, nel Barese e in Irpinia, conun totale di addetti che sfiora le 50.000 unità eun potenziale pari a circa la metà dell’intera ca-pacità produttiva” (Biondi, 1997).

A ciò si aggiunga la presenza di una tramaurbana di centri medi e medio-piccoli, che, ol-tre a manifestare un certo dinamismo demo-grafico presentano una discreta dotazione diservizi.

I fattori, però, che risultano decisivi nellascelta localizzativa sono da un lato la possibi-lità di usufruire di sgravi fiscali e di agevola-zioni finanziarie e dall’altro la disponibilità diun ampio bacino di manodopera giovanile conben poche alternative occupazionali all’oriz-zonte. Sotto il primo aspetto, nell’aprile del1991 il CIPI dà il via libera ad un accordo diprogramma che prevede agevolazioni finan-ziarie statali alla Fiat per 3.100 miliardi di lire,di cui 1.300 per l’impianto di Melfi, a frontedi un programma di investimenti globali di6.672 miliardi, di cui 4.800 destinati allo sta-bilimento lucano (Biondi, 1997).

Per quanto concerne il secondo aspetto, oc-corre tener presente che l’organizzazionetoyotista prevede ritmi “giapponesi” di lavoro(nella fattispecie si tratta di tre turni di lavoroper sei giorni a ciclo continuo) e il ricorso aformule contrattuali “flessibili” come contrat-ti di formazione, part-time e così via4. Puntan-do così su quello che è stato definito il “ricat-to” occupazionale, ovvero sulla cronica man-canza di posti di lavoro dell’area, la Fiat è riu-scita a imporre, in un contesto sostanzialmen-te privo di memoria industriale e perciò anchedi conflittualità sociale e sindacale, condizionidi lavoro che difficilmente sarebbero state ac-cettate in regioni di tradizionale insediamentoindustriale.

Attenzione però a non confondere la scal-trezza e l’abilità strategica del gruppo torinesecon un’operazione volta a drenare denaro deicontribuenti! Quello di Melfi costituisce sen-za dubbio il più grande investimento indu-striale degli ultimi 20 anni in Europa: lo stabi-limento si trova su un’area di 2.700.000 metriquadrati, ha un consumo di oltre 5.000.000 dimetri cubi di acqua e un fabbisogno energeti-co pari a quello di una città media di 55-60.000

abitanti ed è in grado di occupare a regime cir-ca 7.000 unità, raggiungendo una produzionedi oltre 400.000 automobili all’anno (Biondi,1997). Tutto ciò testimonia di un mutatoorientamento della Fiat volto a “meridionaliz-zare” l’industria automobilistica italiana e chepone al centro del “sistema integrato” di piùunità produttive del Sud Italia proprio il nu-cleo di Melfi.

Resta da definire il rapporto dello stabili-mento con il territorio che lo ospita e la con-seguente possibilità di avviare varie forme didialogo e utili sinergie con il mondo impren-ditoriale locale. Per il momento, le uniche op-portunità generate sono quelle relative all’in-dotto “promosso” che riguarda le iniziativenate per la semplice presenza del polo auto-mobilistico e che vanno dal terziario commer-ciale a tutta una vasta gamma di servizi alla po-polazione e, in parte, alla produzione, espres-sioni di un nuovo stile di vita imposto dallacultura industriale alle comunità del Melfese(Biondi, 1997). La forte complementarietà cheesiste nella “fabbrica integrata” tra la casa ma-dre e le unità produttive che rientrano nell’in-dotto di primo e di secondo livello viene a de-finire invece un sistema chiuso, per quanto ditipo reticolare, di fatto incapace di generarevalore aggiunto in termini di sviluppo regio-nale e di “fertilizzare” il contesto locale. In talsenso il rischio è quello di un eccessivo raffor-zamento del dialogo dello stabilimento melfe-se con centri urbani extraregionali anch’essigravitanti nell’orbita della Fiat, che potrebbeindurre a considerare il contesto lucano sem-plicemente come luogo fisico della produzio-ne. D’altronde, il crescente interscambio cheva definendosi con i comuni dell’Irpina e delFoggiano è anche l’effetto di un sistema infra-strutturale e di comunicazioni che favorisco-no la gravitazione dei centri del Vùlture sui re-ticoli urbani di Puglia e Campania, piuttostoche in direzione sud, verso gli altri comuni delPotentino.

Il punto è di importanza cruciale per il futu-ro dell’area oggetto di studio e dell’intera re-gione. Riuscire, infatti, a generare rapporti in-tensi e frequenti tra l’impresa automobilisticae il territorio potrebbe aprire la strada a formedi sviluppo affatto nuove e alla diffusione del-l’industrializzazione e dell’innovazione. In

APPENDICE A - LA SELEZIONE DEI LAVORI DEI GIOVANI RICERCATORI

3 Nel sito di San Nicola diMelfi, che avrebbe poi ac-colto il grande insediamen-to Fiat, il peso delle iniziati-ve non riuscite è molto alto.Nel nucleo della valle di Vi-talba, sito tra Rionero eAtella, l’unica iniziativa diun certo rilievo è l’impiantodella Parmalat, per il quale,tra l’altro, si parla semprepiù insistentemente di ri-strutturazioni e di ridimen-sionamenti.

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questo ambito è decisivo il ruolo degli ammi-nistratori locali, ai quali è affidato il compitodi dotarsi di nuove strutture e di nuovi stru-menti di competizione capaci di tradurre intermini di sviluppo regionale la presenza dellaFiat e di innovare senza cancellare i valori del-la propria storia e della propria identità socio-culturale.

In questo senso e secondo questa possibilechiave di lettura il “localismo” assume, da unlato, un nuovo significato legato non solo enon tanto alla mitica “civiltà contadina”, e dal-l’altro può determinare le condizioni per ren-dere endogeno un intervento esogeno, o quan-to meno rendere compatibile la prima con laseconda esigenza.

La Rete interistituzionale del Vùlture-Melfese

Siffatte considerazioni sono alla base delprogetto di creare una rete telematica nell’a-rea del Vùlture. L’idea nasce nel 1994 da unariflessione comune tra Regione Basilicata,FORMEZ e Fondazione Rosselli, sulla scia dellesperimentazioni sempre più frequenti di solu-zioni e servizi innovativi condotte in Italia enel mondo dalle amministrazioni locali. In li-nea di massima è possibile definire una rete ci-vica come un servizio telematico locale, pro-mosso generalmente dalla pubblica ammini-strazione, che mette a disposizione di cittadinie soggetti economici informazioni fornite dal-le autorità locali, da imprese o da organismisociali e da associazioni di cittadini stessi, eche permette a tutti i membri della comunitàche siano in possesso di un computer e di unmodem di partecipare a discussioni pubblichesu temi locali o comunicare per posta elettro-nica con altri membri della comunità o con ipromotori della Rete (RUR-CENSIS, 1996).

Più precisamente, nel caso specifico, i prin-cipali utenti della rete sono in primo luogo leistituzioni dell’area aderenti al progetto: sitratta della Comunità Montana5, dei comuniche ne fanno parte, delle istituzioni che inten-dono partecipare al progetto. Esse, attraversoi servizi presenti in rete, cercano di coordina-re al meglio la propria azione e i propri inter-venti al fine di rispondere in modo adeguato

alle sfide poste all’area del Vùlture e di offrireservizi migliori ai cittadini e alle imprese. Visono poi i cittadini, che possono usufruire diuno strumento per accedere direttamente dacasa propria alle informazioni messe in rete eai servizi che le istituzioni saranno in grado dierogare. Oltre, ovviamente, alla possibilità, at-traverso linee dirette di comunicazioni con gliamministratori oppure forum e gruppi di di-scussione, di far sentire la propria “voce” conriguardo alle principali problematiche dell’a-rea. Infine le imprese, che, al pari dei cittadini,possono individuare nella rete un modo peraccedere in maniera più immediata a informa-zioni prodotte e ai servizi offerti dalle ammi-nistrazioni locali.

A tali categorie di utenti potranno essere of-ferte per mezzo della rete almeno quattro ti-pologie di servizi:1) Servizi di base: sono quei servizi diretta-

mente connessi all’uso della rete, quali po-sta elettronica, interscambio di dati e diinformazioni, e così via.

2) Informazioni, che riguardano le attività isti-tuzionali degli enti, le iniziative da essi pro-mosse, le potenzialità dell’area, ecc.

3) Comunicazioni: si tratta di quelle attivitàche ineriscono al rapporto tra cittadini eistituzioni (si pensi ai gruppi di discussio-ne) e che favoriscono da un lato la traspa-renza dell’azione pubblica e dall’altro unapartecipazione più larga e consapevole deicittadini.

4) Servizi veri e propri: si tratta di tutti queiservizi che riguardano il rapporto diretto eindividuale tra utenti e azione amministra-tiva e che necessitano dell’accesso indivi-duale e protetto.

Il progetto prevede la realizzazione di un si-to Internet dell’area del Vùlture-Melfese,ospitato nel sito della Regione Basilicata, conrinvii ai diversi soggetti pubblici e privati ade-renti all’iniziativa, e con spazi dedicati allo svi-luppo delle comunicazioni tra istituzioni e traqueste e i cittadini. Parallelamente verrà co-struita una rete Intranet per consentire l’inter-scambio tra gli enti e l’offerta di servizi eroga-bili con modalità telematiche. A differenza delsito Internet, che consentirà il libero accesso achiunque disponga di un personal computer e

DALL’INDUSTRIA ALLA TELEMATICA: LA RETE INTERISTITUZIONALE DEL VÙLTURE-MELFESE 157

4 Si tenga anche presenteche lo stabilimento di Melfirisulta formalmente di pro-prietà di una società nuova,la SATA (Società Automobi-listica Tecnologie Avanza-te), il che non consente l’ap-plicazione automatica degliaccordi contrattuali e sinda-cali in vigore negli altri im-pianti del gruppo Fiat.

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di un modem, la rete Intranet sarà aperta soloa coloro che sono espressamente autorizzati oche hanno diritto ad accedere ad uno specifi-co servizio.

Conclusioni

Non è possibile stabilire e misurare la porta-ta e le conseguenze del progetto, essendo que-sto ancora in fase di sperimentazione. È possi-bile però individuare le condizioni dalla cui rea-lizzazione dipende il successo dell’iniziativa.

Innanzitutto occorre che, accanto alla Re-gione, facciano proprio questo strumento tut-ti gli enti locali dell’area, aderendo concreta-mente al progetto e impegnandosi a imple-mentarlo con una gamma sempre più ampiadi servizi e con l’apertura ad un numero sem-pre più grande di soggetti.

In secondo luogo, è fondamentale che siaconsentito, almeno tendenzialmente, l’accessoe l’uso della rete a tutti i cittadini. Si tratta peròdi una condizione particolarmente ardua ecomplessa da attuare. Proprio perché la rete èun medium “interattivo” che richiede una cer-ta “attività” da parte del suo fruitore, sono po-che le persone che, in assenza di uno specificoaddestramento, sono in grado di usarla in ma-niera completa e appropriata. Di conseguen-za, il rischio è quello di disegnare nuove dise-guaglianze basate su “scarti di conoscenza” tracoloro che hanno assimilato la grammatica delfunzionamento delle nuove tecnologie, e cheperciò possono impiegarle e trarne tutti i van-taggi, e coloro che ne sono esclusi.

La rete, infine, non deve essere ridotta alladiffusione on-line di informazioni e avveni-menti cittadini, né a terminale domestico di si-stemi informativi delle varie municipalità, ov-vero a mero servizio privo di partecipazione edialogo, come possono essere l’erogazione diacqua o di gas. Essa deve divenire strumentodi comunicazione flessibile tra le istituzionidell’area e tra le istituzioni stesse e i cittadini,mezzo per la diffusione di una cultura e dicompetenze specifiche sulle nuove tecnologiedella comunicazione e dell’informazione, vei-colo per veicolare su Internet informazioni sulVùlture-Melfese e sulle sue potenzialità.

In altre parole, la rete può e deve essere uti-

lizzata come strumento di supporto all’azionedi governo e amministrativa, soprattutto in re-lazione alle politiche di sviluppo dell’area.L’attuale clima di competizione globale richie-de, infatti, che le amministrazioni locali inter-vengano con decisione nel creare quelle con-dizioni, quell’identità, quelle reti sociali edeconomiche capaci di rendere il proprio terri-torio protagonista sulla scena nazionale e in-ternazionale. La concorrenza ormai non si svi-luppa più tra singole città o tra singole azien-de quanto piuttosto “tra aree e regioni-siste-ma, ovvero tra territori caratterizzati da unaforte integrazione tra le diverse organizzazio-ni che concorrono a definire il nuovo sistemaeconomico-produttivo” (Biondi, 1997).

Si tratta perciò di definire un vero e propriomarketing territoriale che rafforzi la capacitàdi risposta delle amministrazioni pubbliche aicambiamenti del mercato, cogliendone le op-portunità, aumentandone la vitalità, promuo-vendo la propria immagine presso potenzialiinvestitori/utilizzatori (Talia, 1998). In questadirezione riveste un ruolo cruciale la rete che,se opportunamente alimentata e sviluppata,viene a costituire da un lato il tessuto connet-tivo per il coordinamento dell’azione sul terri-torio dei diversi enti coinvolti nelle politichedi sviluppo e dall’altro lo strumento per lacreazione di quell’ambiente innovativo capa-ce di promuovere la competitività del sistemaeconomico locale.

Si verrebbe così a recuperare quella capa-cità decisionale e organizzativa indispensabileper impedire l’omologazione e la sottomissio-ne dell’ambiente locale all’azienda automobi-listica, e per delineare viceversa un percorsodi sviluppo che, ottimizzando le enormi op-portunità offerte dallo stabilimento di Melfi,sappia puntare sulle peculiarità e sull’identitàdell’area.

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Mappe effimere

Effetti urbani di un’esposizione nazionale

Marco Picone

Processi cartografici

In occasione del recente convegno veneziano “Postmodern Geographical Praxis” (10-11 giu-gno 1999), Denis Cosgrove e Luciana de Lima Martins hanno presentato una relazione dal tito-lo “Millennial Geographics”, incentrata sul concetto di performative mapping. Per comprende-re il senso dell’espressione è necessario preliminarmente riflettere sui due termini in questione,talmente difficili da tradurre in italiano che è forse preferibile conservarli nella forma originaria.

Il termine performative, chiaramente derivato da performance, è utilizzato nella forma italiana(performativo) quasi esclusivamente in campo linguistico, e comunque come termine tecnico;non più semplice è la traduzione di mapping, connesso al verbo to map (cartografare). Certa-mente un’espressione italiana come atto cartografico performativo, o simile, non godrebbe dibuona fortuna. Tra l’altro, un ulteriore problema per la comprensione deriva dal fatto che ci siaspetterebbe che tali termini si riferissero a carte geografiche. Al contrario, gli esempi addottidai due studiosi sono di tutt’altra natura, in quanto tirano in ballo le celebrazioni di fine millen-nio in due tra le principali città europee, Londra e Roma.

Affrontiamo dunque con ordine i problemi. Ecco come gli autori spiegano l’uso del terminemapping a proposito di simili avvenimenti celebrativi (che non sembrano avere nulla a che farecon la cartografia):

these millennial activities […] may also be described as “mappings” in the sense that they are inten-ded to measure, trace and represent spatio-temporal concepts and connections (Cosgrove, de LimaMartins, 1999, p. 1).

Successivamente vengono fornite, come esempi di performative mapping, due indicazioni: laprima ci riporta al 1300, anno in cui papa Bonifacio VIII indisse a Roma il primo Giubileo. Perl’occasione, i pellegrini in cerca d’indulgenza percorrevano in processione un itinerario cru-ciforme, congiungente le quattro basiliche apostoliche della capitale della cristianità. In vistadel Giubileo del 2000, sette secoli dopo, si è ipotizzato un ulteriore ripensamento della tramaurbana, che comprende ad esempio un ponte atto a unire due assi viari che si estendano, rispet-tivamente, fino a S. Pietro e ad una nuova moschea.

Contemporaneamente, a Londra si è pensato di celebrare il millennio per mezzo della valoriz-zazione del Tamigi, lungo il corso del quale sorgeranno un nuovo ponte (collegante la cattedra-le di S. Paul e la City, da un lato, e la nuova Tate Gallery d’arte moderna, dall’altro) e il Millennium Dome, gigantesca cupola costruita presso l’Osservatorio Reale di Greenwich e

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dunque in prossimità del meridiano zero, colfine, neppure troppo implicito, di riaffermarela centralità geografica (nonché politica, eco-nomica e culturale) londinese.

Queste attività sono, secondo Denis Cosgrove e Luciana de Lima Martins, estre-mamente significative, poiché:

both the physical construction of celebratoryspaces in London and Rome to mark the mil-lennium and the various movements, encoun-ters and placements that will occur in these ci-ties in the course of the year 2000, make upcomplex mappings, translocations and in-scriptions of spatiality in different locationsand at different scales (Cosgrove, de LimaMartins, 1999, p. 12).

In ognuno di questi casi si determina il ri-pensamento dello spazio secondo un nuovoordine (per esempio la struttura cruciforme aRoma) e un nuovo orientamento (come lungoil corso del Tamigi a Londra) ovvero, con leparole dei due autori, secondo “concetti econnessioni spazio-temporali”. Nella catego-ria estesa di mapping possono rientrare, per-tanto, vari oggetti molto differenti tra loro,purché condividano le caratteristiche appenariferite. Anche la tradizionale carta geograficarientra a buon diritto nel gruppo: essa stabili-sce indubbiamente un ordine e un orienta-mento (Guarrasi, 1998). Infatti, i geografi con-cordano ormai da tempo sulla semioticità del-la carta, sul suo valore come costruttrice disenso1: un prodotto cartografico offre chiaviinterpretative del mondo. Disegnare una car-ta, si riconosce, non è un’operazione neutra,poiché implica il selezionare alcuni elementirispetto ad altri e ordinarli in una gerarchia(Harley, 1989); neanche leggere una carta è unatto banale, in quanto comporta la ricezionedel linguaggio cartografico e la sua accettazio-ne come metodo scientificamente valido di de-scrizione grafica della terra2.

Ogni carta, di qualsivoglia tipo essa sia3, con-tribuisce non solo all’interpretazione del mon-do, ma anche alla sua creazione, attraverso pro-cessi mentali non meno importanti di quellimateriali. Ed è proprio in questo senso che idue autori utilizzano il termine performative,poiché, dal loro punto di vista, gli studiosi di

scienze umane attualmente sono portati a ri-conoscere nelle carte un aspetto creativo, poe-tico (nel senso etimologico del termine):

while few in the human sciences remain con-vinced by the conventional mimetic claims ofcartography, they are more than ever fascina-ted by the power and poetic potentials of map-ping as a mode of representation and commu-nication of spatial relations (Cosgrove, de Li-ma Martins, 1999, p. 10).

Il verbo inglese to perform corrisponde al-l’italiano compiere, eseguire. I processi dimapping che si sviluppano in determinate oc-casioni sono, dunque, performativi nel sensoche hanno un effetto concreto sulla realtà. Illegame tra mente umana e realtà era già statopreso in considerazione, in campo geografico,dalla corrente cognitivista degli anni sessanta,con gli studi sulle mappe mentali; tuttavia, se-condo Cosgrove e la de Lima Martins, gli stu-diosi cognitivisti:

erred in adopting too positivist an understan-ding of the map and by focusing on the pro-duct rather than the processes of mapping as amode of being and performing in the world.Conceived in the latter way, all human spatialactivities, and not only cognitive ones, may beregarded as incorporating mapping acts andoutcomes. Yet the map has concreteness in itsconnection to material spaces. It is throughthis connection that the concept of performati-ve mapping can move us beyond the purelyconstructivist position in understanding spa-tialities, wherein human relations with the ma-terial world become entirely discursive (Co-sgrove, de Lima Martins, 1999, p. 12).

Concentrarsi sui processi di mapping piut-tosto che sui “prodotti” significa, occorre ri-badirlo, sovvertire le normali attese di chi af-fronta lo studio della cartografia: al centro deldiscorso non c’è più soltanto la carta con il suosupporto materiale, ma l’insieme dei procedi-menti che instaurano relazioni spaziali.

Un processo (o atto) di performative mappingconduce quindi alla creazione di spazi nuovi.Occorre però precisare che non ci si riferiscea spazi precedentemente inesistenti: nulla si

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1 Occorre citare almeno Farinelli (1992) e Casti(1998).

2 In questa descrizione gra-fica è infuso tutto il valoredella parola geografia, lette-ralmente scrittura dellaterra. Le attuali tendenzeantropologiche ed episte-mologiche ci invitano, pe-raltro, a diffidare della pre-sunta oggettività della carta,e a ritenerla come uno tra icodici comunicativi utilizza-bili dall’uomo.

3 Esistono vari tipi di carta:la più tradizionale è quellache si presenta come copiafedele della realtà, ma cisono anche carte sovversivenei confronti del mondo incui viviamo (disegnate o de-scritte dai vari utopisti, daPlatone a Thomas More eoltre); altre descrivono, inmodo verisimile, mondi im-maginari (basti pensare al-l’Isola del Tesoro di Steven-son, alla Terra di Mezzo diTolkien, al Paese di Oz diBaum o alla stessa Bibliote-ca di Babele di Borges). Sidistinguono, infine, le“carte-profezia”, quelle cheDematteis (1985, p. 102)definisce vere se (e perché)saranno realizzate; esse ven-gono riscoperte secoli dopola loro comparsa ed esaltatecome anticipatrici di veritàai loro tempi non verificabi-li: Anassimandro di Mileto,nel VI sec. a.C., disegnò laprima (o presunta tale)carta circolare della Terra,che ancor oggi viene cele-brata come prima cartascientifica e razionale delmondo, mentre ai suoitempi la circolarità terrestreera ancora in discussione(Picone, 1998).

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crea dal nulla. Piuttosto il ripensamento diuno spazio implica l’attribuzione di un nuovosenso, di un diverso ordine, a ciò che preesi-ste. Nessuno potrebbe dubitare che Romaavesse una sua trama urbana ordinata già pri-ma del Giubileo del 1300, ma è altrettanto ve-ro che, in seguito a quell’occasione, la città eil suo spazio furono ripensati secondo unachiave nuova. È dalla sovrapposizione di sen-si o significati, secondo il processo che gli stu-diosi di semiotica chiamano “significazione”,che nasce l’entità chiamata “luogo”: il luogo èuno spazio dotato di molteplici significati, adesso assegnati dagli attori umani che con quelluogo hanno avuto a che fare nell’arco tempo-rale4.

Un evento performativo: l’esposizionenazionale del 1891-1992 a Palermo

Il problema successivo consiste nell’esa-minare quali situazioni inneschino atti diperformative mapping. Su questo punto, Co-sgrove e la de Lima Martins non offrono ulte-riori indicazioni oltre agli esempi millenaristi-ci precedentemente discussi, i quali, tra l’al-tro, non si sono ancora realizzati interamente,dato che le celebrazioni di fine millennio sonotuttora in fieri.

Indubbiamente, però, nella storia passata sisono verificati diversi eventi paragonabili aquelli citati dai due studiosi, e non raramente.Le visite in città dei monarchi che si trovanoalla periferia dell’impero, le grandi processio-ni religiose, i summit politici internazionali, leolimpiadi e ogni attuale manifestazione spor-tiva di forte richiamo sono tutte situazioni chepossono causare un performative mapping.

Esiste però un’altra tipologia interessante,in quanto esprime compiutamente l’ideologiaborghese tra Ottocento e Novecento: si trattadelle esposizioni, nazionali o internazionaliche siano. In quelle occasioni una città si met-te in vetrina, cerca di proporre la parte miglio-re di sé. Un’esposizione attiva energie proget-tuali e creative che plasmano una particolareidea di città.

Progettare un’esposizione significa ripensa-re lo spazio urbano, e quindi, per quanto det-to, modificarlo: è per questo motivo che le

esposizioni possono essere considerate eventiche generano un performative mapping. In più,lo studio di un avvenimento passato può risul-tare, rispetto ad altri, più adatto per osservaregli effetti che il performative mapping ha avutosul territorio, giacché essi possono essere an-cora visibili all’interno del tessuto urbano.

Come si diceva, le manifestazioni espositivesono un’espressione tipica della borghesia im-prenditoriale e mercantile: in particolare, nel-la storia dell’Italia post-unitaria, le esposizioninazionali erano mirate a consolidare rapporti(economici in primis, ma anche sociali e cul-turali) tra città che rischiavano di rimaneretroppo legate alle traiettorie di sviluppo deglistati preunitari. Gli attori sociali che più sisforzarono per la realizzazione di questi even-ti furono proprio i ceti altoborghesi, i quali in-travedevano ottime possibilità di affermazio-ne nel nuovo paese unificato. Nelle loro inten-zioni, le città in cui erano organizzate le espo-sizioni nazionali dovevano divenire i nodiprincipali di una rete estesa a livello naziona-le, i centri trainanti per l’economia di uno sta-to nascente.

L’idea di presentare una città e di commer-cializzarne l’immagine – esempio ante litteramdi marketing urbano – nacque nel XIX seco-lo: la prima esposizione internazionale risaleal 1851 (Londra). Nell’elenco di città che ospi-tarono un’esposizione internazionale, la pri-ma italiana che figura è Milano (1906), piutto-sto in ritardo rispetto agli altri centri europeie nord-americani. Inoltre, sino ai nostri giornil’unica altra città italiana ad aver condiviso ilruolo del capoluogo lombardo è stata Geno-va, in occasione del quinto centenario dellatraversata di Colombo (1992).

Sul fronte delle esposizioni nazionali, inve-ce, le prime si svolsero a Milano, Torino, Fi-renze e Bologna, tutte città centrosettentriona-li, più o meno attive dal punto di vista econo-mico ma comunque già abituate a esercitare unruolo da protagonista rispetto ad altri poli se-condari. La quinta esposizione italiana si ten-ne, invece, a Palermo (1891-1992)5: la scelta diuna città del Sud, in un momento in cui la que-stione meridionale era di grande attualità, ri-sultava piena di valori anche simbolici.

La situazione economica siciliana, dopo ilcompimento del processo unitario, attraver-

MAPPE EFFIMERE 163

4 Questo concetto implicaalmeno un interessante co-rollario: se distinguiamo,secondo questo criterio, lospazio come entità fisicaomogenea dal luogo comespazio dotato di senso, ildiscorso si potrebbe esten-dere all’intero pianeta. Intal caso, da un lato siavrebbe la terra, il corpoceleste, l’entità preesistenteall’uomo, dall’altro il terri-torio, che altro non è senon la terra dotata di senso(Dematteis, 1985, p. 73sgg.). Gli esiti paradossali diquesto ragionamento sonoche sulla terra l’uomo nonpuò neppure abitare: nonappena egli si relaziona adessa, la trasforma in territo-rio.

5 Le mie prime riflessioni suquesto tema sono legate auna ricerca di gruppo con-dotta nell’ambito del semi-nario di Geografia Umanapresso la Facoltà di Letteree Filosofia dell’Universitàdegli Studi di Palermo, nel-l’anno accademico 1996-1997. Il gruppo era compo-sto da Dario Costantino,Mario D’Angelo, Elda LoCascio e Marco Picone, el’argomento era “L’Esposi-zione Nazionale del 1891-1992 a Palermo e le Rappre-sentazioni Cartografiche”.

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sava un momento delicato: se è vero che da unlato le difficoltà coinvolgevano tutta l’Italia,anche a causa di un prolungato periodo criti-co dovuto per lo più alla congiuntura interna-zionale, d’altro canto è comunque vero che lenascenti industrie sceglievano abitualmentecome loro sede le regioni centrosettentrionali,e questo perché

l’unificazione del mercato mondiale determi-nava inevitabilmente, già negli anni Ottanta, laconcentrazione di nuovi investimenti là dovele iniziative industriali erano più sviluppate,per la necessità di utilizzare infrastrutture piùprogredite, industrie collaterali, manodoperagià addestrata, un mercato più disponibile. Pa-lermo e il Meridione in genere non avevano ta-li requisiti, per ragioni che, se non si vuole faresterile meridionalismo, vanno individuate nel-la storia passata del paese (Cancila, 1999, p.303 sgg.).

Mentre dunque altre città italiane, compre-se alcune siciliane come Catania, in quegli an-ni bruciavano, seppur a velocità diverse, letappe del processo di sviluppo industriale, Pa-lermo teneva un passo molto più lento.

Tra l’altro, negli anni immediatamente pre-cedenti l’esposizione nazionale gli aristocrati-ci avevano rinsaldato la loro posizione di con-trollo dell’amministrazione locale. Furono an-ni di violentissimi scontri nelle sedute comu-nali, giacché agli antichi baroni si contrappo-nevano i ceti nuovi – borghesi – che però, aPalermo, non riuscirono mai completamentea prendere il posto della nobiltà. E ciò noncerto a causa del prestigio di cui godevano i“Gattopardi”6, come sarebbe facile credere; sitratta invece dell’incapacità dei ceti mercantilidi affermarsi in un contesto estremamente com-plesso, per motivi sia storici che contingenti.

All’interno di questo quadro emergevano al-cune famiglie molto attive in campo impren-ditoriale, primi fra tutti i Florio, la cui storiaperò seguì una vera e propria parabola, con-clusasi amaramente già negli anni venti del no-stro secolo (Cancila, 1999, p. 288 sgg.). Il pe-riodo dell’esposizione nazionale palermitana,comunque, coincise con il culmine dell’ascesadei Florio e di altre famiglie borghesi, negli an-ni pomposamente definiti “belle époque”. Ai

tempi, il capoluogo isolano ricevette, forse im-meritatamente, l’appellativo di “città felicissi-ma”, grazie alla vivacità della vita sociale e cul-turale (in quel periodo furono tra l’altro inau-gurati il Teatro Massimo e il Politeama). Pa-lermo era inserita nei circuiti turistici più invoga, e riceveva spesso la visita dei regnantidi tutta Europa, attratti dallo sfarzo dell’ari-stocrazia e dalla mitezza invernale del clima(Cancila, 1999, p. 282 sgg.). Tuttavia, la cittàsiciliana rimaneva piena di contrasti, data lapovertà e l’analfabetismo di larghissimi stratidella popolazione, la difficoltà di trovare unlavoro stabile al di fuori dell’amministrazionepubblica (problema curiosamente attuale), laconseguente tendenza all’emigrazione versoaltri paesi europei o extraeuropei, e inoltre losviluppo del banditismo, problema spesso po-co compreso dallo stesso governo italiano.

Nel contesto qui rapidamente delineatos’inserì l’evento dell’esposizione nazionale, si-curamente uno dei momenti più importantiper la vita di Palermo alla fine dell’Ottocento.Esso offrì alla città nuove opportunità di svi-luppo economico e culturale, e allo stesso tem-po comportò una serie di ripensamenti urba-nistici interessanti che è il caso di analizzarepiù in dettaglio.

Palermo e l’esposizione

Al momento di decidere l’ubicazione dellestrutture dell’esposizione, si pensò immedia-tamente ad una particolare zona della città,che potesse conferire ai visitatori l’immaginedi un centro dinamico, produttivo, moderno.I padiglioni sorsero in un’area che corrispon-de a buona parte dell’odierno quartiere Li-bertà, attualmente considerato da tutti gli abi-tanti come centro amministrativo e commer-ciale della città. Prima dell’esposizione, però,in quella zona sorgeva uno dei più grandi giar-dini coltivati palermitani, il cosiddetto “firria-to” (fig. 1 a p. 214). Lì gli agrumeti prosperava-no tranquilli; del resto l’area, ai tempi, era asso-lutamente al di fuori del centro storico, situatopiù a sud e incentrato sull’incrocio tra l’anticoCassaro (odierno corso Vittorio Emanuele), diorigini fenicie, e la seicentesca via Maqueda.

Il progetto che l’esposizione nazionale por-

APPENDICE A - LA SELEZIONE DEI LAVORI DEI GIOVANI RICERCATORI

6 Il soprannome del princi-pe Salina, la cui vicenda èdescritta da Tomasi di Lam-pedusa, è ormai divenutoper antonomasia un termineche indica tutti gli aristocra-tici palermitani di fronte aicambiamenti ottocenteschi.Di questo termine si riscon-tra ormai un vero abuso, inespressioni come “il ritornodei Gattopardi”, “l’epocadei Gattopardi”, ecc.

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tava avanti era molto ambizioso, in quantospostava letteralmente il baricentro della cittàin direzione nord-ovest. Questo processo èchiaramente visibile confrontando la carta diPalermo ad opera di Braun e Hogenberg, ri-salente al 1581 (fig. 2 a p. 214), con la piantaVallardi del 1885 (fig. 3 a p. 215). La città anti-ca, saldamente rinchiusa all’interno delle mu-ra perimetrali, ha “ceduto” e si è estesa lungol’asse di sviluppo principale, appunto in dire-zione nord-ovest. Se già nel XVIII secolo, inseguito all’“addizione” del Regalmici, Paler-mo aveva preso a espandersi verso la piana deiColli, coltivata ad agrumeti e ricca di isolateville nobiliari per lo più settecentesche, giac-ché questa sembrava un’area più adatta all’ur-banizzazione rispetto alle zone acquitrinosemeridionali, è proprio alla fine dell’Ottocentoche questo processo si intensifica tanto dacondurre al declassamento – se non dal puntodi vista amministrativo, almeno da quello resi-denziale – del centro storico (De Seta, DiMauro, 1980, p. 163 sgg.).

La città spostava il suo centro e nello stessotempo i ceti più abbienti trasferivano la lororesidenza seguendo la direzione indicata dalnuovo asse direzionale, il viale della Libertà,cioè il prolungamento della via Maqueda ver-so la piana dei Colli. Una cosa del tutto simileaccadeva anche agli alberghi: i più recenti sor-gevano tutti al di fuori della città fortificata.La nuova direttrice era destinata a sostituirsi,nel giro di pochi anni, al vecchio asse sul qua-le aveva a lungo gravitato l’intera città, cioè ilCassaro.

A conferma di questa situazione, si puòconsiderare come nella già citata piantaVallardi, per la prima volta (a parte un casosporadico del 1818), la città sia orientata noncon il sud-ovest ma con il nord-ovest versol’alto; da questo momento in poi il principaleasse viario di Palermo sarà, appunto, il vialedella Libertà. La pianta Vallardi fu pubblica-ta nello stesso arco di tempo in cui l’ingegne-re Giarrusso presentava la sua proposta, suc-cessivamente accolta, per regolare lo svilup-po urbano palermitano, proprio preveden-do, tra l’altro, l’edificazione della piana deiColli7. Per rafforzare a livello simbolico lascelta della nuova direttrice d’espansione,lungo quest’asse furono edificati in quello

stesso periodo i due teatri più prestigiosi del-la città, il Massimo e il Politeama.

Una volta terminata l’esposizione, il Comu-ne concesse ai proprietari degli orti su cui sa-rebbero sorti gli spazi espositivi di poter ap-paltare e lottizzare i loro terreni per costruirvinuovi edifici, il cui valore crebbe esponenzial-mente nel giro di pochi anni (fig. 4 a p. 215).Ben presto il quartiere Libertà divenne il nuo-vo centro palermitano, soppiantando comple-tamente il suo rivale storico. In conseguenzadi ciò la forma urbana mutò in modo radicale,mentre la città dentro le mura lasciava defini-tivamente posto alla nuova città, che peraltrocon l’esposizione nazionale infrangeva di nuo-vo i limiti perimetrali circondanti il centro abi-tato. Anche la linea ferroviaria che congiunge-va la stazione centrale con il porto e segnava ilconfine della zona urbanizzata, venne rapida-mente inglobata e successivamente scavalcatadal tessuto urbano.

I padiglioni dell’esposizione furono edifica-ti secondo l’impianto a scacchiera di originihaussmanniane estremamente diffuso nellecittà europee alla fine del secolo. E anche ilquartiere Libertà, sorto dopo la chiusura del-l’esposizione, rispettò questa sistemazione,anzi ne favorì l’esportazione ad altre zone cit-tadine. Tale impianto doveva contribuire, nel-le intenzioni degli urbanisti dell’epoca, pro-prio a rendere Palermo più simile alle moder-ne città europee. La pianta a scacchiera, purrisalendo per le sue origini ad un periodo mol-to precedente8, si attagliava perfettamente algusto del tempo, in quanto garantiva una mag-giore facilità nella progettazione, un incre-mento nella visibilità, e soprattutto più ordinealle città ottocentesche.

Alla fine del XIX secolo, infatti, la trama la-birintica del vecchio centro storico palermita-no era considerata quasi alla stregua di un’a-berrazione, una mostruosità insana e sgrade-vole alla vista, che occorreva sanare operan-do, ad esempio, dei tagli viari (spesso arbitraried irrispettosi del tessuto urbano preesisten-te), e quindi costruendo nuove strade larghe,“ariose e sane”.

Purtroppo, raramente gli ammirevoli sforzidelle amministrazioni comunali coincidevanocon un miglioramento delle condizioni di vitadella popolazione, che per la maggior parte vi-

MAPPE EFFIMERE 165

7 Sul Piano Giarrusso vediInzerillo (1981) e De Spu-ches (1998).

8 Anche non volendo risali-re ai Greci (la pianta a scac-chiera è considerata tradi-zionalmente un’invenzionedi Ippodamo da Mileto) e aiRomani (di questi ultimi ri-cordiamo la maglia ortogo-nale tipica dei castra, gli ac-campamenti, costituita dalcardo, dal decumanus e datutte le altre vie ad esse pa-rallele), nella stessa Palermoseicentesca occorre menzio-nare i cosiddetti “QuattroCanti”, incrocio di stradeperpendicolari che dividevala città in quattro manda-menti, ognuno “custodito”da una particolare santaprotettrice. Del resto quasitutte le città sorte dopo ilXVI secolo, in Sicilia comealtrove, sono costruite inpianura e secondo la magliaortogonale, rispetto ai cen-tri più antichi che spesso siappoggiavano a ripianipiuttosto elevati e presenta-vano un tessuto viario piùcontorto.

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veva in monolocali angusti e malsani, i cosid-detti “catoi”. Nell’ottica delle classi più agia-te, il nuovo quartiere in via di costruzioneavrebbe appunto dovuto offrire l’esempio perun futuro più igienico.

L’idea degli ingegneri dell’epoca era dotatadi una forza progettuale prorompente: si trat-tava di disegnare a tavolino non un singolo as-se viario o un miglioramento di poco conto, mauna grossa porzione di città futura, e di pro-gettarla secondo uno schema ritenuto ai tempi(e spesso ancor oggi) il più razionale possibile.Con la scelta di una forma geometrica fonda-mentale, il quadrato, la volontà ordinatrice deipianificatori toccò le vette più elevate.

L’esposizione nazionale contribuì inoltre, edè il terzo elemento che possiamo evidenziareoltre alla direttrice nord-ovest e all’impiantoortogonale, all’affermazione di un nuovo stilearchitettonico e artistico, il liberty, di cui an-cor oggi permangono a Palermo sparute trac-ce. Lo stile liberty si caratterizza per l’elegantericercatezza, per le sobrie ma vivaci circonvo-luzioni. Ancora una volta, il modello di riferi-mento è, chiaramente, Parigi. Come ai tempidi Napoleone i palermitani si erano innamo-rati di Londra, in coincidenza con l’arrivo nel-l’isola dell’esercito inglese, così alla fine del-l’Ottocento l’esempio era spesso di derivazio-ne francese: i padiglioni progettati dagli archi-tetti siciliani riprendevano le forme, le propor-zioni e la grandeur tipica dei contemporaneipalazzi parigini. Secondo Luigi Capuana, nel-la seconda metà del XIX secolo era pressochéimpossibile distinguere un aristocratico paler-mitano da un suo pari classe parigino (De Se-ta, Di Mauro, 1980, p. 155); è probabilmentevero che le maggiori città europee condivide-vano un’atmosfera culturale particolare, maciò non esclude l’esistenza di differenze note-voli tra esse.

Eventi effimeri, effetti durevoli

La storia dell’esposizione palermitana siconcluse in un modo apparentemente bizzar-ro: al termine della manifestazione, della cele-brata esposizione nazionale non rimase asso-lutamente nulla. La zona su cui sorgevano lestrutture fu infatti immediatamente lottizzata,

mentre i padiglioni, nella cui progettazione ilfior fiore degli architetti siciliani dell’epocaaveva impiegato le proprie energie, furono let-teralmente smontati pezzo per pezzo, essendostati costruiti con materiale ligneo per ammor-tizzare le spese di costruzione.

In realtà, è normale che una performance siacaratterizzata da una durata effimera: anche gliesempi addotti da Cosgrove confermano que-sta tendenza. Eppure, occorre soffermarsi sul-l’opposizione effimero/durevole in quanto ca-ratteristica degli atti di performative mapping.Questa dialettica temporale si esplicita nelletrasformazioni che il tessuto urbano ha subito.

L’aspetto effimero si riscontra, evidentemen-te, nell’insieme delle strutture fisiche dell’espo-sizione: di esse non è rimasto praticamente nul-la. Anzi, la maggior parte dei palermitani nonricorda neppure che, in quello che adesso è ilvero centro cittadino, un secolo fa si trovavauna zona quasi fieristica. A distanza di 100 annici sono state tutt’al più alcune rievocazioni delclima da belle époque che caratterizzò l’esposizione, mentre in concreto rimangonosoltanto alcune tracce poco visibili di quel pe-riodo, come un brevissimo tratto della linea fer-rata, nei pressi dell’odierna via Spaccaforno,l’unica a non rispettare l’impianto ortogonaletra le vie sorte in seguito alla lottizzazione.

Ma l’esposizione nazionale ha giocato unruolo troppo importante per non lasciare al-cun segno. Qualcosa è rimasto: è rimasta in-nanzitutto l’idea di città che i progettisti del-l’esposizione avevano in mente. È rimasto l’or-dine geometrico, che è divenuto il criterio or-ganizzatore principale per l’espansione dellacittà. È rimasta la direttrice di sviluppo nord-ovest, tanto che ormai Palermo ha quasi inglo-bato tutte le antiche borgate disseminate lungola piana dei Colli e oltre, fino a Mondello e Sfer-racavallo. Lo stile liberty non è sopravvissutoa lungo, ma ha lasciato un’impronta importan-te e il ricordo di un periodo di splendori. So-stanzialmente, dunque, l’esposizione naziona-le del 1891-1892 ha plasmato l’essenza di Pa-lermo, modellandola in base a criteri organiz-zativi nuovi che si sono mostrati, nel corso deltempo, durevoli. Per questo motivo l’esposi-zione può essere considerata un caso di perfor-mative mapping: non l’unico, sicuramente, maforse uno tra i più significativi.

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L’influenza del dialogo tra sapere tecnicoe sapere comune in un contesto reale di pianificazione*

Paola Pittaluga

Introduzione

Lo scarto tra le immagini spaziali, che gli individui si costruiscono in relazione al proprio am-bito territoriale, e quelle prodotte dal sapere tecnico sembra essere una delle principali causedell’inefficacia del piano1, nel senso che quando l’immagine con cui il piano si rappresenta noncontiene elementi discendenti dai mondi percettivi di una società, costituiti attraverso un pro-cesso di “isteresi territoriale” in cui emergono le dominanti ambientali (Maciocco, 1995), i luo-ghi significativi, i valori non negoziabili, gli elementi di lunga durata che da sempre hanno pre-sieduto all’organizzazione dello spazio, soprattutto le relazioni tra questi ultimi, può accadereche gli esiti di piano non siano efficaci e condivisi, proprio perché riferiti a elementi estranei al-le popolazioni locali e perché discendenti da modelli di sviluppo esogeni indifferenti alle realivocazioni del contesto. L’indagine del territorio come “condizione umana”, la costruzione diuna “geografia delle intenzioni” che tenga conto dei comportamenti, aspirazioni, desideri, pau-re degli abitanti diventa materiale significativo con il quale risolvere alcuni degli aspetti nuclea-ri del rapporto tra conoscenza e azione, tra il piano e la sua attuazione.

Su questo versante si affacciano tecniche di mobilitazione della conoscenza di matrice psico-logica, sociologica, geografica, i cui obiettivi si riferiscono da una parte alle modalità attraversocui gli individui acquisiscono, immagazzinano, richiamano e decodificano l’informazione am-bientale e spaziale; dall’altra all’individuazione dei luoghi dell’attenzione propri degli spazi vis-suti da una società – evidenziandone il valore e il significato, le relazioni che li connettono, leproiezioni simboliche di cui sono oggetto – e delle aspettative, aspirazioni, ansie degli abitantidi un territorio.

Lo sforzo conoscitivo e interpretativo non può essere, ovviamente, rivolto all’individuazionedi schemi concettuali, regole, codici generali e validi in assoluto, ma, piuttosto, definiti e legitti-mati nel contesto (Palermo, 1992). Ogni società costruisce la propria immagine del territorio at-traverso elementi legati alle dimensioni che caratterizzano il vivere dei suoi componenti nellostesso e alla funzione che essi esercitano all’interno della società: “risalire alle immagini spazialiper comprendere l’importanza dei processi cognitivi e dei valori sociali sul senso dei luoghi con-sente di oltrepassare le descrizioni fisionomiche e di porre ipotesi sui meccanismi che generanoregolarità nelle distribuzioni spaziali [...] considerare lo studio dell’unità vissuta come un mezzoper scoprire i processi sociali e le motivazioni che li generano, consente di far luce sulla geome-tria delle relazioni spaziali creando una vera geografia delle intenzioni” (Bailly, Béguin, 1982).

Alla luce di queste considerazioni, l’interesse per i materiali informativi desumibili dal saperecontestuale orienta la ricerca verso uno studio del contesto anche mediante il riconoscimento

* Il presente contributo co-stituisce una sintesi di alcu-ne parti della tesi di dotto-rato in Tecnica Urbanistica(X ciclo) dal titolo Immagi-ni spaziali delle società localie requisiti di innovazione delpiano (1999), cui si rimandaper gli argomenti non trat-tati esaurientemente in que-sta sede.

1 Facendo riferimento, adesempio, ad alcuni progettidi parco che interessanodue ambiti territoriali dellaSardegna – l’isola dell’Asi-nara e la giara di Gesturi –si può notare come l’imma-gine tradizionale associataal parco, discendente dal sa-pere tecnico, solo per l’Asi-nara coincide con quelladella società locale. Nel se-condo caso tale coincidenzaè inesistente. Ciò è imputa-bile alla diversa fruizionedello spazio insediativo edelle sue risorse. L’Asinara,sede di un carcere per circaun secolo (fino al febbraio1998), rappresenta uno spa-zio in cui ogni azione puòessere esercitata solo men-talmente; la sottrazione ditale spazio alle società localiper un progetto di parconon determina la privazionedi un luogo reale da vivere eda utilizzare può ancora in-fatti essere fatto proprio at-traverso una “dilatazionedel concetto di abitare”consistente in una proiezio-ne mentale. L’altopiano ba-saltico della giara, invece, èsempre stato sede di risorseper la sopravvivenza dellepopolazioni attestate intor-no ad essa, nonché “domi-nante ambientale” che hapresieduto all’organizzazio-ne dell’insediamento.Un’immagine di parcoviene perciò osteggiata sequesta si configura (tradi-zionalmente) come limiteinvalicabile che impediscela fruizione della risorsa.L’immagine del sapere tec-nico per produrre un pianoi cui esiti siano efficaci econdivisi non può, in que-sto caso, che conformarsi aduna in grado di raccoglieregli elementi di riconoscibi-lità ed eleggibilità presceltiattraverso il ricorso al sape-re comune e al dialogo con,e tra, gli uomini che abitanoil territorio.

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dei luoghi intorno ai quali si costruiscono leimmagini spaziali delle società locali e dei ri-flessi che queste hanno sul piano, attraversol’“immersione” in un contesto reale di pianifi-cazione locale come occasione per valutare ilmutamento del processo di pianificazionequando il sapere comune, associato al saperetecnico specifico dell’ambito disciplinare, siconfigura come materiale progettuale.

Orientandosi verso un approccio in cuil’ambiente assume una dimensione locale chesvela i luoghi e quindi il contesto, l’indaginedescritta in questo lavoro tenta di cogliere glispazi quotidiani, la “mente locale” (La Cecla,1996), i luoghi simbolici, poiché si ritiene chela dimensione locale e del vissuto non sia solouna chiave interpretativa degli spazi urbani eterritoriali, ma sia anche uno strumento percostruire città e territorio (De Maximy, 1993),per riconnettere le sfere fisica e immaginariadell’abitare umano, che realizza la spazialitàdi una comunità insediata in un territorio,composta da luoghi vissuti, da luoghi simboli-ci e della memoria.

D’altra parte, se il carattere di mutabilità deiluoghi è la concretizzazione della modernitàche si manifesta anche nella mutevolezza delsoggetto moderno e della sua identità, tale ca-rattere non è osservabile se non in rapportoalle rappresentazioni collettive dello spazio edei comportamenti che vi si riferiscono, chepossono essere colti solo, appunto, attraversoun’analisi dello spazio nella sua dimensioneesperenziale umana.

Ciò porta ad assumere l’inscindibilità delrapporto tra l’uomo e lo spazio in cui egli vi-ve, a porre l’accento sulla necessità di un ap-proccio complessivo allo studio di tale rappor-to, in cui nessuno dei due elementi riveste unruolo dominante, attraverso una prospettivatransazionale e comportamentale basata su al-cuni contenuti della psicologia ambientale (Ba-roni, 1998; Bonnes, Secchiaroli, 1992; Nenci,1997; Stokols, Altman, 1987; Stokols, 1977) edella geografia dello spazio vissuto (Bourdieu,1980; Buttimer, 1979; Buttimer, Racine, 1982;Fremont, 1974, 1976, 1982; Tuan, 1977).

Lo spazio è osservato nella sua dimensioneincarnata e disincarnata come insieme di ele-menti materiali e simbolici: uso, frequentazio-ne, appropriazione, denominazione, attribu-

zione di senso e valore (Claval, 1997). L’atten-zione si focalizza allora sugli spazi vissuti dellesocietà locali ed emerge conseguentementeuna geografia che abbandona le categorie spa-ziali tradizionali per individuare spazi percet-tivi vissuti, quelli della vita quotidiana, costi-tuiti da sistemi di luoghi il cui senso e signifi-cato discendono dall’essere componenti distrutture di rappresentazione di ambiti socio-spaziali ed elementi capaci di influenzare icomportamenti collettivi.

Il concetto di luogo consente di studiare ilrapporto tra uomo e ambiente per essere lospazio di mediazione tra soggettività e ogget-tività; in questa prospettiva le questioni di sca-la, di distanza, di estensione e di limite perdo-no la loro pertinenza di concetti preliminariall’analisi del territorio (Berdoulay, 1998).

Il luogo richiama l’idea di un soggetto atti-vo che deve senza tregua tessere i legami com-plessi che gli danno identità, stabilendo unrapporto con l’ambiente che Berque (1990)definisce di “medianza”, in una visione siste-mica tra luogo e contesto. Allora l’attenzioneal vissuto non si rivolge esclusivamente aglispazi materialmente esperiti ma anche a quellivirtuali, perché è anche attraverso questi chesi esplica quella dilatazione del concetto diabitare verso i luoghi simbolici, portatori del-l’identità collettiva e strutturanti le immaginispaziali delle società locali.

Il dialogo tra sapere tecnico e saperecomune come immersione totale in uncontesto reale di pianificazione

L’opportunità di collaborare alla redazionedel piano urbanistico comunale di Seulo2 harappresentato una preziosa occasione per ma-turare, in maniera diretta, un’esperienza dipianificazione in cui la popolazione localeavesse la possibilità di contribuire con il pro-prio sapere e le proprie idee all’esplicitazionedelle immagini spaziali. L’obiettivo non è sta-to tanto quello di verificare la validità di unatecnica di coinvolgimento o di mobilitazionedella conoscenza rispetto ad un’altra per rac-cogliere il sapere informale3, come potrebbesembrare, quanto, piuttosto, di comprenderequale ruolo, quale atteggiamento, quale etica

APPENDICE A - LA SELEZIONE DEI LAVORI DEI GIOVANI RICERCATORI

2 Amministrativamente di-pendente dalla Provincia diNuoro, Seulo si trova nell’a-rea sud del Gennargentu,all’interno della Barbagiama, in un territorio caratte-rizzato da un sistema di tac-chi calcarei su un basamen-to scistoso, delimitati daprofonde valli incassate ge-nerate dalla grande ansa delFlumendosa e dal Narbon-nionniga. L’isolamento fisi-co, ininterrotto fino ai primidel secolo, ne ha mantenutoquasi inalterato il paesaggioin cui la dimensione natura-le domina su tutte. Deditaall’attività agropastorale, lasocietà locale versa in unostato di crisi che interessapressoché tutte le aree in-terne dell’isola e che derivanon solo da fattori demo-grafici (continuo spopola-mento) ed economici, maanche, e soprattutto, da fat-tori sociali, imputabili alla“rivoluzione antropica” chein circa 50 anni ha stravoltostili di vita e modelli cultu-rali.

3 “Prima di tutto la parteci-pazione è un fenomeno nonprogrammabile, né schema-tizzabile in una serie di ca-noni, perché la diversità deipartecipanti e dei momentipartecipativi implica la pe-culiarità degli stessi” (DeCarlo, 1992).

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caratterizzano l’operato del pianificatore e co-me la dimensione cognitiva legata al “saperecomune” possa influenzare, modificare, stra-volgere la pratica pianificatoria.

Innanzitutto è importante sottolineare co-me la scelta delle modalità di acquisizione del“sapere comune” non sia stata casuale, ma di-scenda da alcuni criteri emersi da una cono-scenza diretta e “informale” dell’ambito di in-tervento sotto il profilo sociale e culturale edai risultati provenienti dall’indagine su filonidi ricerca che esplorano il rapporto uomo-am-biente e i mondi percettivi sottesi. In partico-lare l’analisi critica della letteratura sul tema,rapportata agli obiettivi della ricerca, e l’as-sunzione dell’inscindibilità del rapporto tral’uomo e lo spazio in cui vive inducono a pri-vilegiare le posizioni della prospettiva transa-zionale e comportamentale rispetto al più ge-nerale tema della psicologia ambientale, e delcognitive mapping in particolare (Duncan, Ley,1993; Gärling, Golledge, 1993; Kitchin, Bla-des, Golledge, 1997; Kitchin, 1997; Liben,Patterson, Newcombe, 1981), che, per il pre-sente lavoro, è stato (consapevolmente) utiliz-zato in maniera semplificata.

Ciò ha portato a privilegiare le tecniche disurvey come strumento per la costruzione deimondi percettivi della comunità d’ambito, perla definizione del simbolismo dello spazio siaalla scala territoriale che alla scala urbana e perla ricerca delle aspettative, dei desideri, dellepreoccupazioni degli abitanti. Infatti, la natu-rale diffidenza a esporsi in prima persona, dauna parte, la necessità di ottenere un tipo diinformazione “random”, priva il più possibiledi influenze esterne, che possono verificarsipiù facilmente in occasione di assemblee e di-battiti pubblici (Besio, 1995), dall’altra, sonostati motivi in base ai quali scartare, almenonella fase iniziale, tecniche partecipative diffe-renti, nella convinzione che la distribuzionerandom di questionari tra la popolazione con-sentisse di superare le difficoltà richiamate edi evitare che solo i portatori di interessi fortio i soggetti in possesso di elevate capacità dia-lettiche e culturali fossero gli effettivi attoricoinvolti nel processo di piano.

La procedura scelta (il questionario random)ha mostrato alcuni limiti strettamente connes-si al contesto sociale e culturale in cui si è ope-

rato; solo 12 questionari su 250 distribuiti so-no stati consegnati spontaneamente.

Si è allora reso necessario modificare il me-todo: i questionari sono stati sostituiti da in-terviste dirette e, contemporaneamente, si ècercato di capire quali fossero le ragioni di unacosì scarsa collaborazione.

I motivi emersi sono sostanzialmente:• Forma di contestazione: l’amministrazione

e, in particolare, il sindaco, spesso assente,vengono accusati di essere poco attenti alleesigenze della comunità, disattendendo cosìai doveri assunti con l’impegno politico.

• La mancanza di anonimato. Una domandadel questionario invitava a riportare, sche-maticamente, una mappa utile a spiegare co-me raggiungere, in mancanza di ulteriori in-dicazioni, la propria abitazione: il disegno,associato alla conoscenza dei dati generali,desumibili dalla prima parte del questiona-rio, sarebbe equivalso all’apposizione di no-me e cognome. È evidente l’errata convin-zione che i questionari dovessero essere ana-lizzati dai tecnici dell’amministrazione: inun centro di 1.000 abitanti è facile essere ri-conosciuti sulla base di pochi indizi.

• La difficoltà dei quesiti posti. Indubbiamen-te le risposte dovevano essere adeguatamen-te ponderate e un’attenta compilazioneavrebbe richiesto circa 50 minuti, ma la sen-sazione percepita è stata quella di una scar-sa disponibilità, di una facile arrendevolez-za di fronte ai primi ostacoli. In merito aquesto punto la soluzione adottata di tra-sformare i questionari in interviste ha con-sentito di ridurne, in parte, la complessitàassociata ad alcune domande, essendo pos-sibile spiegarne il significato e l’uso dei datiottenuti.

• La mancanza di tempo, che nasconde, inrealtà, diffidenza e passività. Si intravede,latente, l’atteggiamento apatico e passivo dichi è abituato ad aspettare, di chi è convintoche il destino non possa essere modificato,di chi ritiene che i cambiamenti siano esclu-sivamente l’esito di forze esterne, estraneealla propria realtà (Manichedda, 1998).

Se la tecnica di mobilitazione della cono-scenza informale attraverso i questionari è ri-sultata poco adatta al carattere della società

L’INFLUENZA DEL DIALOGO TRA SAPERE TECNICO E SAPERE COMUNE IN UN CONTESTO REALE DI PIANIFICAZIONE 171

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locale, anche lo strumento dell’intervista hamostrato, in questa esperienza, alcuni limiti,dovuti appunto al contesto nel quale si è ope-rato: alla luce dei risultati conseguiti, la fase diacquisizione dello sfondo culturale collettivoè stata modificata e contestualizzata. Laddo-ve, per ragioni storiche e sociali, sia difficilestabilire rapporti che in qualche modo richia-mano forme istituzionalizzate, il lavoro delpianificatore sembra configurarsi come unasorta di immersione totale nella realtà locale,che non implica però un atteggiamento passi-vo ma si esprime in una disponibilità che esu-la dalla pratica professionale e attiene sostan-zialmente alla sfera umana. L’attenzione alle“storie salienti”, al “racconto dei luoghi” (Maciocco, Tagliagambe, 1997), diventa lostrumento più idoneo per realizzare l’incon-tro informale tra “sapere tecnico” e “saperecomune”. La pratica dell’ascolto (Allen, Vanetti, 1988; Baroni, 1998; Mainardi Peron,1991) appare la più indicata, ma è necessarioche si instauri un rapporto più intimo e confi-denziale dove anche chi ascolta espone pro-blemi, esperienze e sensazioni.

Il questionario è stato suddiviso in tre partiprecedute da una serie di domande che rac-colgono alcuni dati anagrafici (età, sesso, tito-lo di studio, ecc.):1) La prima parte si riferisce alla percezione

dello spazio e all’individuazione del suosimbolismo ad una scala territoriale. Si par-te dall’idea di territorio per poi stabilire l’e-sistenza di un concetto di identità (se è ri-conoscibile e quali sono gli elementi che locaratterizzano) e di appartenenza ad uncontesto che deve essere delimitato ricor-rendo a elementi fisici di riferimento e aicentri urbani che vi sono compresi. Il siste-ma dei luoghi intorno ai quali si organizzala vita della società locale, delle dominantiambientali, delle centralità territoriali, è ri-costruito attraverso l’elicitazione dei luo-ghi più rappresentativi dello spazio insedia-tivo (positivi e negativi), dei luoghi simbo-lici, mitici, dei luoghi dell’orientamento,dei luoghi da valorizzare, delle risorse.

2) La seconda parte è impostata in manieraanaloga ma si riferisce alla scala urbana: inquesto senso l’attenzione è rivolta ai luoghisignificativi del centro abitato, all’indivi-

duazione degli spazi relazionali e vissuti: ivicinati, i luoghi di incontro, gli spazi ludicidei bambini.

3) L’ultima parte è dedicata all’esplicitazionedei desideri, delle aspettative e delle ansiedella comunità. Partendo da una valutazio-ne generale (in termini positivi e negativi)della situazione economica, sociale, dei ser-vizi e della sicurezza sociale e individuale,attuale rispetto agli anni settanta, si chiededi indicare le carenze, i problemi del terri-torio, le politiche e gli interventi prioritari.Una particolare attenzione è riservata al tu-rismo, al fine di stabilire l’atteggiamentodella popolazione e la presenza o assenzadi consapevolezza in merito alle risorse sul-le quali calibrare uno sviluppo turistico. Ladescrizione dello scenario futuro finalizza-ta all’individuazione delle ansie e delle aspi-razioni della società locale chiude il que-stionario.

L’analisi dei questionari e le immaginidel sapere comune

I questionari sono stati interpretati attraver-so un’analisi fattoriale delle corrispondenze eun’analisi delle frequenze.

Per poter individuare i comportamenti so-ciali più significativi sono state predispostedue analisi fattoriali, precedute da una tipolo-gica: una sul tema della percezione del territo-rio e del futuro del centro, l’altra sulle esigen-ze di trasformazione e sviluppo del territorio.

Percezione del territorio e del futuro del centroL’analisi dei tre piani fattoriali mette in evi-

denza tre differenti situazioni:• i giovani (18-30, eta1) diplomati (stu3) han-

no una visione negativa del territorio e delfuturo o non hanno alcuna idea in proposi-to (ter4, ter5, fut4, fut5), a prescindere dalfatto che siano occupati (prof2) o disoccu-pati (prof1), e non riconoscono alcuna iden-tità specifica sia alla Barbagia (barb2) che alcentro urbano (seu2);

• una percezione del territorio positiva, mache risente fortemente della condizione diisolamento (ter2) e una visione del futuropositiva (fut1) o incerta caratterizza invece

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gli emigrati nel continente, o vissuti a Cagliari (res4), disoccupati (prof1) di etàcompresa tra 31 e 45 anni (eta2), e tra i 46 e65 (eta3) emigrati all’estero (res5) e laureati(stu4);

• la popolazione anziana (eta4), senza titolodi studio (stu1), in pensione (prof3), ha, alcontrario, un’immagine positiva del territo-rio (in alcuni casi contemporaneamente po-sitiva e negativa, ter3) e ritiene che il futuronon sarà diverso (fut2).

Esigenze di trasformazione e sviluppo del terri-torio

In ogni quadrante dei tre piani fattoriali so-no evidenti quattro politiche di intervento perlo sviluppo e la trasformazione del territorio:• la tutela e valorizzazione del patrimonio sto-

rico-ambientale (a2) appare come priorita-ria per i residenti emigrati in continente(res4), di età compresa tra 31 e 45 anni(eta2), senza titolo di studio (stu1) e occu-pati (prof2);

• l’esigenza di un miglioramento dei servizi(f2) e, chiaramente, dell’incremento occu-

pazionale (b2) è avvertita dai disoccupati(prof1) che peraltro non assumono alcunaposizione in merito ad un possibile svilup-po turistico del contesto locale (tur3);

• le potenzialità turistiche sono invece rico-nosciute (off1) dai giovani (eta1) che sento-no anche la necessità di interventi volti allaformazione professionale (e2) e al soddisfa-cimento delle esigenze di mobilità (d2);

• al contrario il turismo è osteggiato (tur2) daipensionati (prof3), da individui in possessodi laurea (stu4), ma che non sono in gradodi proporre alcuna alternativa di sviluppo.

Pur con alcuni elementi di specificità, ca-ratterizzanti i singoli contributi, è stato possi-bile individuare concetti e categorie spazialiricorrenti che definiscono, nell’insieme, l’or-ganizzazione dello spazio esperenziale. È evi-dente, innanzitutto, come lo spazio entro cuisi inserisce l’attività quotidiana della popola-zione coincida con il territorio, che si confi-gura come il tutto che interessa rispetto alcentro urbano. Ciò emerge esplicitamente, adesempio, nel riconoscimento del territorio e

L’INFLUENZA DEL DIALOGO TRA SAPERE TECNICO E SAPERE COMUNE IN UN CONTESTO REALE DI PIANIFICAZIONE 173

Fig. 1 Analisi n. 1: primo piano fattoriale (assi 1, 2) con variabili supplementari

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Fig. 2 Analisi n. 2: primo piano fattoriale (assi 1, 2) con variabili supplementari

dell’ambiente complessivo come risorsa davalorizzare e tutelare, secondo un concetto didurabilità che non può essere disgiunto da unuso corretto legato alle tradizionali attivitàche lo coinvolgono; oppure emerge indiretta-mente quando i luoghi significativi, i luoghidell’attenzione, acquistano una dimensioneterritoriale.

Ancora, l’immanenza del territorio è rico-noscibile all’interno del tessuto urbano che nerappresenta una parte e non la sua antitesi:l’impianto dell’insediamento infatti enfatizzacostantemente il rapporto uomo-ambiente sianell’alternarsi degli spazi costruiti e degli spa-zi verdi privati, sia nella continuità percettivadegli elementi di “comunicazione ambienta-le” (strade, canali di scolo delle acque piova-ne, ecc.) che attraversano l’abitato e penetra-no nel territorio.

In quasi tutte le carte mentali riportate neiquestionari il monte Perdedu è il referente se-mantico dell’attenzione collettiva, l’elementodi cerniera con il Gennargentu del quale èconsiderato la porta, mentre il fiume Flumen-dosa assume all’interno dello spazio territo-

riale un ruolo strutturante: non solo è ricono-sciuto come dominante ambientale ma anchecome elemento di coesione tra le comunità checostituiscono la Barbagia, al quale tuttavia ètradizionalmente associata una percezione ne-gativa per il suo essere stata storicamente unabarriera insormontabile (per le particolari ca-ratteristiche geomorfologiche) che acuiscenell’immaginario collettivo (dato confermatoanche da altre risposte) la condizione di isola-mento che è culturale e sociale oltre che fisica.

Ciò non emerge direttamente – non è stataformulata una domanda specifica – ma scatu-risce indirettamente da alcune risposte, al-quanto polemiche e provocanti, che richiama-no aspetti più generali e profondi della societàbarbaricina; ci si riferisce in particolare alleforme di ostilità (passive e attive) nei confron-ti di tutto ciò che rappresenta lo stato o ne èsua diretta emanazione. In questo modo si as-siste ad un atteggiamento distaccato e fatalista(Bandinu, 1997) che contribuisce ad alimen-tare il senso di estraneamento verso un mon-do in continuo mutamento che solo inciden-talmente interessa le società locali (e non so-

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lo). Ciò è confermato dal persistere di un’i-dentità – facente capo alla regione storica del-la Barbagia di Seulo – che è ancora riconosciu-ta come tale – e che si esplica non solo, e ba-nalmente – nelle tradizioni e nella cultura, nel-la grande ospitalità che la contraddistingue,ma soprattutto nella dimensione ambientale.

L’immanenza del territorio viene significati-vamente sottolineata dalla profonda cono-scenza, indifferenziata sia per età che per ses-so, dimostrata dagli intervistati. I luoghi signi-ficativi del territorio non sono soltanto quelliche possono appartenere alla categoria (pura-mente estetica) delle “bellezze naturali”, masono anche quelli dell’orientamento, dellaproduzione, della caccia. Ed è significativo co-me anche i luoghi “densi” urbani siano poiquelli che comunque rimandano al territorio,sono gli spazi che potremmo definire di “co-municazione ambientale”, in cui la dimensio-ne percettiva e relazionale assume un signifi-cato fondamentale nello spazio vissuto dellasocietà locale, come evidenzia in alcuni casi illoro connotarsi anche come luoghi d’incontrodella vita quotidiana.

Soffermandosi sulla terza parte, la sezionededicata al turismo offre interessanti spuntiper l’attività di pianificazione non solo a livel-lo locale ma anche sovralocale. La regione sar-da si trova attualmente a formulare strategiedi sviluppo turistico basate su un concetto didurabilità delle risorse (se si vuole che il setto-re diventi effettivamente trainante e non siconfiguri unicamente come fenomeno estem-poraneo) che inneschino processi in cui si pas-sa da forme di esternalità a forme locali di svi-luppo turistico, risultato di una metabolizza-zione autopoietica, che interessino non soltan-to le aree costiere ma anche le aree interne, inun tentativo di riequilibrio territoriale. Sullascia del successo ricollegabile al fenomeno tu-ristico in alcune zone costiere della Sardegnasi assiste ad un tentativo di emulazione nellearee interne senza che però sia accompagnatoda un riconoscimento delle potenzialità dellerisorse, da una corretta mentalità imprendito-riale e capacità professionale. Si ritiene spessoche tutti possano improvvisarsi operatori turi-stici anche senza aver raggiunto la necessariaconsapevolezza delle esigenze di mercato e delrapporto domanda-offerta.

Questo si verifica anche nel caso di Seulo:quasi tutti gli intervistati sostengono che il lo-ro territorio possa avere una vocazione turisti-ca (in tal modo si potrebbe ridurre la disoccu-pazione e migliorare la qualità della vita sottoil profilo economico), ma non hanno cogni-zione di quale possa essere effettivamente lanicchia di mercato nel quale inserirsi compe-titivamente4.

L’immagine di fondo è quella di una societàdisperatamente alla ricerca di una possibilitàdi riscatto che non riesce però a trovare al suointerno le risorse per auto-organizzarsi. Si per-petua così l’atteggiamento di passività di chiaspetta che la realtà segua il suo corso regola-re, vivendo come oggetto piuttosto che comesoggetto che si costruisce il proprio spazio divita (Cacciari, 1987).

Come si evince da un’analisi delle informa-zioni acquisite, è possibile individuare alcunielementi che consentono di indirizzare le scel-te di piano per rispondere alle esigenze e alledomande espresse dalla comunità.

In ambito strettamente urbano emergeun’attenzione nei confronti della strada prin-cipale, luogo deputato all’incontro, in tutti iperiodi dell’anno, che induce a predisporneuna riqualificazione sia in termini infrastrut-turali (manutenzione, illuminazione, pavi-mentazione, ecc.) sia in termini di relaziona-lità urbana nel senso che la via si presenta co-me itinerario che unisce alcuni spazi, ricono-sciuti come significativi, all’interno dei qualisi svolge una parte della vita pubblica: i giar-dini di Genneserra, vicini alla caserma dei ca-rabinieri, la piazza a metà percorso, i giardinidi Sa Serra. La dimensione relazionale che ca-ratterizza questi spazi si presenta come requi-sito essenziale di qualunque intervento di tra-sformazione di cui possono essere oggetto.

Le chiese storiche interne al centro urbanoed esterne (S. Cosimo e S. Barbara) sono spes-so indicate come spazi da valorizzare; soprat-tutto S. Pietro, nell’omonimo vicinato, è per-cepito come luogo, per certi versi negativo perlo stato di abbandono in cui versa, sottrattoalla vita sociale, inaccessibile, nei confronti delquale la popolazione manifesta un desideriodi riappropriazione.

Un certo carattere di negatività è anche as-sociato alle aree di recente espansione urbana,

L’INFLUENZA DEL DIALOGO TRA SAPERE TECNICO E SAPERE COMUNE IN UN CONTESTO REALE DI PIANIFICAZIONE 175

4 “Anche lo sviluppo turisti-co è stato pieno di contrad-dizioni, spesso di svenditadei beni territoriali. La Sar-degna non è riuscita a tra-sformare il bene ambientalein bene economico secondouna via propria allo svilup-po. Non si tratta solo di unaperdita di profitti ma delladifficoltà di porsi come sog-getti capaci di comunicarecon il mercato mondiale at-traverso settori di produzio-ni locali [...]. Ma soprattut-to non c’è stata coscienza eazione politica, capacità in-tellettuali e imprenditorialiche pilotassero, anche par-zialmente, il passaggio versoun proprio modo di esseremoderni” (Bandinu, 1997).Sui risvolti sociali e antro-pologici del turismo in Sar-degna vedi anche Bandinu(1994).

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al patrimonio costruttivo “non finito” e allarete viaria: ne consegue una domanda di qua-lità urbana complessiva che può essere soddi-sfatta attraverso alcuni interventi semplici, masignificativi, apposite norme da inserire nel re-golamento edilizio, il cui rispetto può esserefavorito mediante opportuni dispositivi pro-cedurali (incentivi, contributi, ecc.).

Parallelamente si osserva una domanda diformazione, in generale, e di alcuni servizi:ospedale, guardia medica, distributore di ben-zina. Questa domanda di servizi, alla personain particolare, è associabile al senso di isola-mento che viene percepito anche in questa fa-scia di età. La crisi occupazionale accentua ilsenso di isolamento, ampiamente manifestatonel corso dell’indagine, discendente da una re-te viaria e da un’offerta di trasporto pubblicoinadeguata, da limitate opportunità di forma-zione culturale e professionale.

Il piano come processo comunicativodi rigenerazione di figure spaziali esocioterritoriali

Nell’esperienza reale di pianificazione, l’im-magine collettiva pone in primo piano la risor-sa “territorio” come significante e significatodell’identità locale; il territorio, infatti, è im-manente: il suo valore di risorsa attribuito e ri-conosciuto dalla comunità, accompagnatoperò dall’incapacità di attivare processi di svi-luppo durevoli e sostenibili associati alla risor-sa stessa, individua un campo problematico sucui calibrare le scelte di piano. Come già sot-tolineato, le difficoltà connesse all’auto-orga-nizzazione sono la passività degli abitanti e lagenerale crisi ambientale riconducibile, in talecontesto, soprattutto ai seguenti processi: • delocalizzazione, legato ad una perdita del

rapporto con il luogo, generata da alcunifattori che in termini ambientali ne deter-minano trasformazioni sia fisiche, sia legatealle dimensioni fruitive e percettive delle ri-sorse;

• desocializzazione del territorio, ossia crisidella socialità del territorio, che si ricollegaad una situazione di disagio dovuta ad unaperdita o ad un progressivo allontanamentodi figure istituzionali consolidate nel model-

lo dello stato sociale, cardini di fragili siste-mi territoriali subordinati all’esistenza di ta-li figure (scuole, uffici postali, presidi socia-li, ecc.);

• deflusso e spopolamento, processi attivatidalla capacità di attrazione esercitata daicentri ormai consolidati, storicamente edeconomicamente, legati anche alla loro im-magine di luoghi delle opportunità, delle oc-casioni, e quindi dotati di una dimensioneurbana, che si contrappongono, non sem-pre positivamente, ai contesti in cui si attua-no i processi sopra descritti.

Questi processi suggeriscono una concezio-ne del piano come processo di costruzione difigure socioterritoriali. Si avverte l’esigenza diindividuare opportuni dispositivi e proceduredi piano (accordi, assunzione di impegni reci-proci) che, stimolando processi di riconosci-mento delle potenzialità locali, favoriscano lacooperazione all’interno della comunità – e tracomunità – finalizzata alla gestione e valoriz-zazione del bene collettivo (in questo caso ilterritorio, ma non solo) e alla risoluzione di si-tuazioni problematiche condivise.

Si tratta di una pianificazione complessivache indubbiamente fa ricorso a diversi sogget-ti e forze che risultano normalmente esclusi al-l’interno di un processo di piano di livello co-munale. È evidente come la costruzione dinuove figure socioterritoriali non possa pre-scindere da un ampliamento dell’insieme tra-dizionale di attori coinvolti nella definizionedi un piano urbanistico, che nel caso specificonecessita invece di un coinvolgimento delle so-cietà locali e di istituzioni aggiuntive e com-plementari (Clemente et al., 1995; Besio,1995). Infatti, la rappresentazione sociale del-lo spazio e i campi problematici del territoriodefiniscono un ambito i cui confini non neces-sariamente coincidono con quelli dell’ambitodi competenza amministrativa locale e perciòrichiamano un insieme di soggetti che si assu-mono impegni reciproci per gestire processicomuni di sviluppo del territorio5.

L’esperienza maturata rivela un approccioal piano basato su una filosofia e un’etica pro-gettuale riassumibile in alcuni requisiti cheorientano, ma non formalizzano, la pratica di-sciplinare nel confrontarsi con le culture ma-

APPENDICE A - LA SELEZIONE DEI LAVORI DEI GIOVANI RICERCATORI

5 “La nuova convivenza chesi comincia a cercare, fuoridalle ipotesi delle ricche en-claves e del guerresco no-madismo, non è più l’im-possibile comunità di untempo, ma una sorta dinuovo patto minimo sullostare insieme sociale e civi-le, accompagnato da politicicapaci di interpretare e darobuste e non capriccioseforme di partecipazione,più consapevoli e meno bu-rocratiche del solito, e nondedite ad ambiguità antiur-bane” (Sernini, 1996).

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teriali, e rappresentano l’esito del dialogo trasapere tecnico e sapere comune.

L’esplicitazione delle immagini del territo-rio vissuto dalla comunità come sistema di luo-ghi significativi e relazioni, l’informazione rac-colta attraverso pratiche comunicative e tran-sazionali di social mobilization non solo in-fluenza significativamente e consapevolmentela dimensione interpretativa, retorica e prag-matica del metodo di pianificazione, ma indu-ce anche ad un ripensamento critico della pra-tica professionale e comporta una capacità dirimettere continuamente in discussione con-vincimenti teorici e atteggiamenti acquisiti.

Le immagini spaziali contribuiscono all’in-dividuazione delle strutture generative, varia-mente rappresentabili, costituite da quei “fuo-chi di urbanità” a partire dai quali il piano pro-muove azioni progettuali volte a favorire l’au-to-organizzazione e l’autopromozione dellecomunità attraverso stimoli alla costituzionecosciente di figure socioterritoriali, a riorga-nizzare i comportamenti collettivi in manierainedita senza precludere alcuna possibilità disviluppo.

Si può quindi pensare il piano non più co-me una prefigurazione dello spazio ma comeun’azione, un processo comunicativo, in cuiattraverso il progetto cooperativo dell’orga-nizzazione dello spazio si costituiscono nuovefigure collettive della società territoriale, chese ne prendono cura. Il piano è quindi intesocome progetto non risolutivo che supera unavisione orientata all’analisi di un mondo onto-logicamente dato, per indirizzarsi sull’esplo-razione delle possibilità evolutive della realtàa partire da campi problematici cui non ne-cessariamente corrisponde uno specifico enteterritoriale, ma un sistema relazionale in cuidifferenti soggetti si incontrano e si auto-or-ganizzano per gestire processi comuni di evo-luzione del territorio. In questo senso il pianosembra subire un mutamento non tanto a li-vello formale quanto ontologico: cambiano fi-losofie, contenuti e obiettivi; è un mutamentoontologico dell’attività professionale (Borri,2000). Il pianificatore stimola, intenzional-mente e senza eludere responsabilità, qualoranecessario, forme di pianificazione dal basso,orientando il sistema dei valori associati allerisorse ambientali che non sempre sono per-

cepite come tali, progetta processi e non for-me finite (Crosta, 1984).

Ciò porta a riflettere sulla posizione e sul-l’atteggiamento assunto dal pianificatore neiconfronti dell’ambiente-comunità: l’atteggia-mento passivo della società locale induce a ef-fettuare una sorta di “immersione totale” chefavorisca l’instaurarsi di rapporti fecondi perla costruzione di uno sfondo condiviso per ilpiano. Il conseguimento di tali obiettivi richie-de al pianificatore una deontologia che si con-testualizza di volta in volta, si acquista con l’e-sperienza, attraversando il vissuto professio-nale e umano, discende più da una sfera etica,morale, ed è quindi maggiormente legata allapratica e al comportamento6. Risulta uno stilepermeato dai propri ideali, dai propri convin-cimenti e forse in parte anche dai propri pre-giudizi da superare attraverso l’ascolto (Paler-mo, 1998), la partecipazione, il coinvolgimen-to, ed emerge un principio di responsabilitànon più eludibile.

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L’INFLUENZA DEL DIALOGO TRA SAPERE TECNICO E SAPERE COMUNE IN UN CONTESTO REALE DI PIANIFICAZIONE 177

6 “Posto che l’architettonon ha più come scopoquello di essere un modella-tore plastico di forme co-struite, e dato che si propo-ne di essere anche un rivela-tore dei desideri virtuali dispazio, luoghi, percorsi eterritori, egli dovrà condur-re l’analisi dei rapporti dicorporeità sia individualiche collettivi singolarizzan-do costantemente il proprioapproccio; dovrà diventare,inoltre, un intercessore traquesti desideri rivelati a sestessi e gli interessi che liostacolano, o, in altri termi-ni, un artista e un artigianodal vissuto sensibile e rela-zionale [...]. Considero, in-vece, che si trova egli stessonella posizione di doveranalizzare alcune specifichefunzioni di soggettivazione.In questo modo e in compa-gnia di molti altri operatorisociali e culturali, potrebbecostituire un detonatore es-senziale in seno alle conca-tenazioni d’enunciazione atestata multipla, capace diassumere analiticamente epragmaticamente le produ-zioni contemporanee disoggettività. Di conseguen-za, siamo ben lontani dalvolerlo vedere nella sempli-ce posizione di osservatorecritico!” (Guattari, 1996).

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Sistemi culturali locali

Territorialità e patrimonio culturalein un sistema storico di piccola impresa

Ignazio Vinci

Sistemi (culturali) locali

Il quadro culturale dei sistemi locali in ItaliaL’obiettivo principale di questo scritto è la formulazione del concetto di “sistema culturale lo-

cale” come strumento di interpretazione e di supporto nella produzione di scenari di sviluppoin contesti territoriali caratterizzati da particolari dotazioni culturali e ambientali. La tradizionedei sistemi locali – considerandone gli esiti nel suo complesso – costituisce, per gli obiettivi diquesta elaborazione, un riferimento culturale e scientifico di fondamentale importanza. Da unlato perché esso contiene un modello di rappresentazione estremamente attendibile dei mecca-nismi che hanno generato la produzione e la riproduzione di economie diffuse su ampie partidel territorio italiano. Dall’altro perché, attraverso l’importanza analitica attribuita alla combi-nazione di fattori non soltanto quantitativi, ma anche immateriali e riferibili alla qualità dei tes-suti culturali, sociali e ambientali dei contesti analizzati, ripone nell’elemento “cultura” signifi-cati perfettamente compatibili con quelli assegnati nell’elaborazione di un “sistema culturale lo-cale” e di cui si dirà più diffusamente in seguito.

All’interno di quella che abbiamo definito “tradizione” dei sistemi locali in Italia – tradizio-ne che solo strumentalmente può essere ricondotta ad un corpo unico – ci è parso utile indivi-duare tre “anime” che corrispondono ad altrettanti approcci originali alle questioni dello svi-luppo locale:a) Gli approcci con carattere di analisi economica e sociale sui sistemi di piccola e media impre-

sa (tra gli altri Bagnasco, 1977, 1988, 1994; Becattini, 1987, 1989, 1998; Fuà, Zacchia, 1983),a cui va attribuito un ruolo decisivo nell’identificazione e nella sistematizzazione di un mo-dello di sviluppo fondato sulla presenza nel territorio di distretti industriali e microsistemiproduttivi.

b) Gli approcci ricorrenti ad una interpretazione reticolare del fenomeno urbano (tra gli altriCamagni, 1990, 1993; Curti, Diappi, 1990; Dematteis, 1990, 1992, 1995; Dematteis, Guarra-si, 1995).

c) Gli approcci tendenti al riconoscimento e alla promozione delle potenzialità di sviluppo del-le comunità locali. Ai fini della presente tesi tale componente risulta essere certamente la piùeteregenea, comprendendo dagli approcci in cui si auspica un’interazione virtuosa tra attoripubblici e privati e un orientamento bottom-up delle politiche di sviluppo locale (De Rita Bo-nomi, 1998), a quelli rivolti ad una prospettiva ecologica e autosostenibile nelle relazioni tracomunità insediate e territorio (Magnaghi, 1992, 1998), a quelli infine ricorrenti al concettodi “milieu” come espediente interpretativo in grado di tradurre in strumenti di sviluppo e in-

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novazione determinate sedimentazioni difattori culturali e ambientali (Governa,1997).

La diversità di approccio di tali riferimentiscientifici come è noto non ci consente di for-mulare una definizione univoca di “sistema lo-cale”. Piuttosto, ciò che interessa è la possibi-lità, pressocché condivisa, di riferirsi al “siste-ma locale” come ad un particolare ambito ter-ritoriale in un cui sono presenti almeno i se-guenti presupposti:• la possibilità di riferirsi ad un contesto terri-

toriale caratterizzato da una precisa identitàterritoriale;

• la presenza di tessuti economici diffusi, fon-dati sulla presenza di piccole e medie impre-se, il regime di competizione/cooperazionetra le imprese e il suo ruolo nei processi diinnovazione;

• la presenza, nelle economie territoriali, diquelle culture economiche storicizzabili eradicate nel tessuto sociale, corrispondentia saperi professionali diffusi, a mercati dellavoro specializzato, a sistemi di economieesterne che garantiscano le imprese operan-ti all’interno del sistema locale o ne incenti-vino la comparsa;

• la presenza di soggetti politici rappresenta-tivi (non necessariamente di natura gover-nativa) che operino da mediatori/promoto-ri delle istanze di sviluppo del sistema loca-le, attraverso un’azione di sintesi che offraun’immagine del sistema locale sufficiente-mente coesa e riconoscibile.

I sistemi locali, nella formulazione che quici interessa, si pongono dunque come stru-menti di interpretazione della territorialità. Diquella territorialità, in particolare, che, in ri-ferimento a determinati e identificabili conte-sti locali, ci consente di tradurne dotazioni epotenzialità in un processo di continuo riman-do tra quelle componenti che discendono dal-le identità ambientali e quelle che trovano ra-dicamento nel tessuto culturale delle relativecomunità.

Sistemi locali d’EuropaSe assumiamo il concetto di “sistema loca-

le” in una accezione sufficientemente flessibi-

le e se siamo disposti a considerare sistemi lo-cali quei contesti di azione politica collettiva(microregioni economiche, sistemi urbani re-ticolari, grandi aree metropolitane di rango in-ternazionale) che operano nella costruzionedi un’immagine riconoscibile delle proprieidentità economiche e culturali, ci porremo inuna prospettiva destinata ad assumere un ri-lievo crescente nell’Europa contemporanea.Da almeno un decennio infatti il quadro re-gionale europeo registra l’emergere di un cli-ma competitivo tra numerosi sistemi di inte-resse a base territoriale. Tali sistemi di interes-se ripongono una fiducia crescente nella pos-sibilità di produrre immagini aggregate delleproprie potenzialità economiche, da utilizzarein una politica di cooperazione e di alleanzeche tende a scavalcare i tradizionali interlocu-tori (lo Stato in primo luogo) nella produzio-ne di sviluppo economico locale (Perulli,1995, 1996).

Gli elementi che concorrono a produrre que-sta tendenza sono molteplici, ma appare evi-dente che nel contesto europeo due fattori han-no assunto una dimensione ormai consolidata:a) L’emergere dell’Unione Europea come in-

terlocutore centrale nella costruzione deiprogrammi di sviluppo locale. La territoria-lizzazione della programmazione finanzia-ria della Comunità Europea prevista a par-tire dal “Quadro comunitario di sostegno1989-1993” ha incrementato in manierasensibile l’ascolto degli enti locali nell’im-plementazione dei sistemi di sostegno fi-nanziario allo sviluppo. La proliferazionedi programmi specifici a carattere tematicoe subordinati all’attivazione di reti di parte-nariato tra soggetti territoriali appartenentiai diversi paesi dell’Unione ha contribuitoinoltre a produrre una spinta poderosa al“fai da te” tra sistemi di interesse locale. Lapartecipazione a tali reti di partenariatopresuppone che i soggetti interessati pro-ducano rappresentazioni degli interessi suf-ficientemente coese e territorializzate. Èsempre più diffusa, quindi, la formazionedi comunità “artificiali” (Pichierri, 1998;De Rita, Bonomi, 1998) forti nel riferimen-to ad una comune strategia di sviluppo eco-nomico, ma in molti casi deboli nel radica-mento alle rispettive identità locali.

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b) Le ipotesi avanzate sul ruolo crescente del-l’Unione Europea possono essere lette co-me il risvolto di un ulteriore fenomeno chevede la tendenza all’autonomia come risul-tato del declino, economico ancor più chepolitico, degli stati nazionali. Se è del tuttoevidente che l’emergere di un soggetto co-me l’Unione Europea può avere contribui-to all’innescarsi di tale fenomeno, è altret-tanto vero che la mancanza di efficienzadello stato nell’organizzazione delle risorseè un fenomeno che ha radici ormai diffusenella storia europea degli ultimi decenni.Dal nostro punto di vista, tale processo nonè immune dalle trasformazioni in senso glo-bale e reticolare delle grandi imprese mul-tinazionali. Tali imprese tendono infattisempre più a contrattare programmi di svi-luppo e localizzazioni con i soggetti al piùbasso livello possibile e scavalcando le isti-tuzioni centrali, in un processo che tende aconferire rilevanza (e questa è la vera no-vità rispetto al passato) alle dotazioni am-bientali dei nodi del sistema. Uno degliaspetti più macroscopici al riguardo è la po-litica condotta da molte grandi aree metro-politane europee, impegnate in una corsaall’attrazione delle imprese più potenti estrategiche attraverso un ampio ricorso apolitiche di marketing urbano che affian-cano all’offerta riguardante le più tradizio-nali dotazioni quantitative e strutturali queivantaggi derivanti dal patrimonio storico,culturale e ambientale delle città.

In ultima analisi due elementi sembranoemergere prepotentemente in una via europeaai temi dello sviluppo locale: in primo luogoche le ragioni dello sviluppo dei sistemi localidovranno confrontarsi sempre più efficace-mente con quell’“arcipelago” di economie abase territoriale in cui lo spazio europeo sem-bra destinato a frammentarsi; in secondo luo-go che la sostenibilità ecologica e la produzio-ne di immagini territoriali costruite sulla rile-vanza delle dotazioni culturali e ambientalinon costituiscono più “esternalità” rispetto aimeccanismi di produzione delle economie, mapiuttosto ne diventano tra i principali elemen-ti generatori e tra i fattori che ne determinanola competitività.

Turismo culturale, archeologia industriale e svi-luppo integrato del territorio

La progressiva “complessificazione” dellanozione di patrimonio culturale è un fattoreche certamente incide sul ruolo che il turismoè destinato a rivestire nelle economie a baseterritoriale, in una situazione che vede giàl’Europa destinataria di circa i due terzi delflusso turistico complessivamente prodotto alivello mondiale (PCM, 1996). Una quota in ra-pida crescita è quella costituita dal “turismoculturale”, ossia da quella particolare formadi attività ricreativa caratterizzata dal confron-to non solo con i più tradizionali beni storico-artistici ma anche con quel patrimonio di se-gni e di reperti derivanti dalla storia sociale edeconomica delle comunità locali e caratteriz-zata dalla predilezione per un approccio te-matico alla fruizione, dalla ricerca di espe-dienti comunicativi quali musei storici e stru-menti multimediali e che in generale può esse-re ricondotta ad una crescente sofisticazionequalitativa della domanda culturale.

I fattori che contribuiscono ad alimentare lacrescita del turismo culturale sono molteplicie strettamente legati alla progressiva comples-sificazione in atto all’interno delle società oc-cidentali. Il turismo culturale risponde ad unbisogno di scoperta (o riscoperta) delle iden-tità, che costituisce un carattere dominantedella società contemporanea, fenomeno cer-tamente non estraneo ad alcune rilevanti evo-luzioni sociali ed economiche quali il miglio-ramento complessivo dei livelli di istruzione,l’aumento della disponibilità di tempo e risor-se finanziarie, il miglioramento delle condizio-ni di accessibilità di aree e territori tradizio-nalmente marginali. Da un punto di vista stret-tamente culturale tali aspetti inoltre si accom-pagnano ad una percezione della storia chetende sempre più a evitare selezioni e gerar-chie all’interno del patrimonio culturale e checonferisce valore e interesse critico ai repertipiù svariati (compresi, per esempio, quelli ne-gativi della guerra e delle deportazioni), costi-tuendo un campo di nuove potenziali oppor-tunità nella costruzione delle economie locali.

L’interesse culturale nei confronti della sto-ria industriale determina, per esempio, unaopzione di sviluppo che i governi locali impe-gnati nella ristrutturazione delle aree produt-

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tive affiancano sempre più di frequente allestrategie più specificamente economiche estrutturali. In generale, è possibile richiamaredue modalità di azione nei confronti del patri-monio culturale industriale: l’una riguardantei sistemi produttivi a economia diffusa o i di-stretti industriali, l’altra riguardante le aree diantica industrializzazione. Nel primo caso, laproliferazione di musei dell’industria e delleattività produttive corrisponde all’esigenza,più volte richiamata, di ancorare le proprieidentità economiche ad una dimensione stori-ca e culturale; il museo storico è prodotto del-le comunità locali prima ancora che strumen-to di strategia economica o urbanistica. Nellearee di antica industrializzazione, la dimensio-ne urbanistica delle aree dismesse e la stessaimmagine della fabbrica nell’immaginario col-lettivo rendono decisamente più marginale ilricorso ad un’approccio filologico. Le grandiaree dismesse in tal caso costituiscono piutto-sto occasione di una riqualificazione comples-siva della città, nella quale il richiamo alla sto-ria produttiva è generalmente rimandato alladimensione semiotica della fabbrica comegrande contenitore in cui ospitare le funzionipiù svariate.

La costruzione del sistema culturale localeL’enfasi posta nella parte introduttiva su al-

cuni dei caratteri identificativi di un sistemalocale deriva dall’esigenza di evidenziare sindall’inizio che un sistema culturale locale è ilprodotto di una forzatura operata sulle com-ponenti storiche, culturali e territoriali dei si-stemi di produzione. Esso può essere configu-rato quindi come uno stadio intermedio ri-spetto a un sistema locale completo, che uti-lizza la cultura e il patrimonio culturale comeelementi di polarizzazione rispetto a certe di-seconomie strutturali.

L’attivazione di politiche locali tendenti a“produrre” il sistema locale dovrà quindi per-seguire almeno i seguenti obiettivi:a) l’integrazione delle economie, derivanti dal

sistema produttivo, che possono presenta-re elementi di declino o di debolezza, conquelle attivabili attraverso il coinvolgimen-to del patrimonio culturale territoriale;

b) l’utilizzazione dell’armatura culturale delsistema locale – sia quella storico-sociale e

quindi legata alla cultura produttiva siaquella derivante dai beni territoriali e am-bientali – come strumento per il potenzia-mento (o la creazione) di un’identità rico-noscibile e utilizzabile;

c) la trasmissione di tale identità come valoreaggiunto nelle politiche territoriali e nellestrategie economiche condotte dalle impre-se operanti all’interno del sistema locale.

Appare chiaro come la produzione del siste-ma culturale locale sia prevalentemente un’o-perazione di “software”, che agisce su elemen-ti di identità già presenti nel territorio e nellacomunità ma non accompagnati da un lin-guaggio che ne traduca le potenzialità agli at-tori possibili. Essa è inoltre una operazione so-stanzialmente “maieutica”, cioè di complessi-ficazione culturale delle domande di territo-rio che i soggetti locali esprimono in forma ag-gregata attraverso il vantaggio economico o lafruizione inconsapevole. Il caso delle impreseoperanti nella produzione del vino Marsala èa questo riguardo abbastanza emblematico.La loro produzione è un’azione culturale com-plessa in quanto sintesi di due secoli di rela-zioni internazionali, di cultura imprenditoria-le e di saperi produttivi storici, di interazionicon il tessuto urbano e archeologico, di tra-sformazioni del paesaggio agrario. La “cultu-ralità” della produzione ha rappresentatoun’economia sempre presente ma tutta inter-na al processo produttivo, non rappresentan-do mai un vantaggio competitivo aggregato alsistema di impresa né, tantomeno, al sistemaeconomico latente legato alla fruizione del pa-trimonio territoriale e ambientale. Il nuovocorso globalizzato delle economie attraversola tendenza a dialogare con regioni e sistemiterritoriali organizzati sembra invece manife-stare un paradossale apprezzamento delle spe-cificità territoriali, riproponendo un’attenzio-ne per il locale di cui il patrimonio culturale ele imprese in grado di interagire in terminiecosostenibili con tale patrimonio costituisco-no penetranti strumenti di trasmissione delleidentità. Il sistema culturale locale agisce quin-di su una duplice dimensione: l’una rivolta aglioutsider (imprese, consumatori del prodottolocale, fruitori esterni fisici e virtuali), nei cuiconfronti appare decisiva la capacità del pro-

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dotto di traferire la complessità del messaggioculturale; l’altra rivolta alle comunità locali,chiamate a contribuire alla costruzione di que-sto nuovo welfare identitario, in cui lo spaziodella frequentazione consapevole delle pro-prie matrici culturali coincida con lo spaziodel progetto, in una prospettiva incrementaledi sviluppo locale.

Un elemento cruciale da affrontare rimane:quale degli attori locali può assumere il ruolodi mediatore/promotore nella formazione delsistema culturale locale? Riferirsi a quella cheun tempo si sarebbe chiamata “comunità” og-gi probabilmente significa riferirsi ad un con-cetto che lo scenario competitivo contempo-raneo ha svuotato di gran parte dei tradiziona-li significati. Comunità può essere ancoraun’organizzazione degli interessi costruita at-torno a fattori di identità condivisa ma può es-serlo sempre più frequentemente rispetto aobiettivi limitati e strategici. Rispetto a que-st’ultima opzione le imprese (o i sistemi orga-nizzati di imprese) mostrano un’attidutine piùconsolidata, oltre che una frequentazione del-le reti di cui il sistema culturale locale – alme-no nelle sue fasi costitutive – non potrà fare ameno. Alla domanda su quale ingegneria isti-tuzionale dovrà farsi carico della produzionedel sistema culturale locale è legittimo quindirispondere che un quadro di valori e proget-tualità che amplifichi economie e convenienzereciproche, in un regime di sostenibilità cultu-rale, potrebbe costituire uno scenario volonta-rista attorno al quale, presto o tardi, i soggettilocali non mancherebbero di riunirsi.

Cinque parole chiave per i sistemi culturali locali

Apertura. Significa appartenenza e parteci-pazione alle reti fisiche e virtuali dell’ambien-te culturale contemporaneo e quindi soprat-tutto opportunità di relazione. L’apertura at-traverso le reti fisiche del trasporto e della mo-bilità continuerà a rappresentare la più rile-vante delle economie esterne, dotazione di cuianche le imprese dei sistemi culturali localinon potranno privarsi per competere. Aper-tura attraverso le reti telematiche e virtuali nonsignifica soltanto l’immediatezza globale del-l’identità del sistema locale; essa significa an-che servirsi di un filtro che strutturi la doman-

da, che permetta al sistema culturale locale dioperare anche senza le compromissioni che siaccompagnano alla sua appropriazione fisica.

Coesione. È un elemento certamente rintrac-ciabile nella storia dei sistemi locali vincenti.Oggi piuttosto è sempre più un prodotto di in-gegneria sociale, un’alchimia di soggetti con-vergenti su un orizzonte di sviluppo che distri-buisca oneri e vantaggi attorno ad un progettolimitato e identificabile. Il sistema culturale lo-cale, attraverso la sintesi tra uno spazio dellageografia e uno spazio della cultura, ha tutta-via tra i suoi obiettivi quello di incrementare lacoesione, di ridurre la frammentazione nelleprogettualità degli attori locali, di costruire uncircolo in cui le utilità dei singoli contenganoquelle ragioni sociali che in grado di garantirela sopravvivenza del sistema.

Identità (ricerca/produzione/riproduzione/invenzione dell’). È il tessuto connettivo delsistema locale nella sua proiezione esterna, co-sì come lo è nei processi di autoconservazioneadottati dalle comunità locali. L’identità loca-le può anche essere strumento di competiti-vità quando è associata alle ragioni economi-che del sistema di imprese, quando concorrea produrre un valore aggiunto ancorato al pro-dotto nelle sue migrazioni nei mercati. L’iden-tità è anche la matrice che innerva i meccani-smi di partecipazione politica alle prospettivedi sviluppo locale, che ne indirizza gli esiti ver-so trasformazioni compatibili con la conser-vazione e lo sviluppo culturale del territorio.

Ricerca. La ricerca multidisciplinare opera-ta sui caratteri storici, economici, sociali e ter-ritoriali del sistema equivale a moltiplicarnedal suo interno i valori di identità, a comples-sificarne in maniera incrementale l’offerta aisuoi fruitori. La conoscenza e la sinergia conle reti di ricerca scientifica e tecnologica rap-presenta, inoltre uno dei principali fattori stra-tegici nella competitività dei sistemi territoria-li nel modello occidentale. È uno strumentodi sviluppo soprattutto quando interagiscecon i processi di innovazione territoriale, nel-la capacità di organizzare e rinnovare il com-plesso delle economie esterne immateriali chesostengono il sistema culturale locale.

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Salvaguardia (del territorio, del patrimonioculturale e ambientale). Significa garantire lacontinuità di quell’armatura di segni e perma-nenze che costituiscono l’apparato “signifi-cante” di tutte le opportunità di sviluppo delsistema culturale locale. È l’ambito in cui ledimensione istituzionale pubblica è destinataa rivestire ancora un ruolo di responsabilità edi protagonismo; non necessariamente attra-verso l’attivazione di nuove forme di control-lo paesistico ma anche orientando allo svilup-po locale l’armamentario di strumenti di con-trollo già operanti.

Il Sistema Culturale Locale del vinoMarsala

Alcune coordinate storicheLe vicende del sistema di produzione del vi-

no Marsala hanno inizio con la fine del XVIIIsecolo quando John Woodhouse, imprendito-re inglese in viaggio in Sicilia, intuisce la pos-sibilità di produrre un vino liquoroso con ca-ratteristiche tali da entrare in competizionenel mercato inglese con i vini, già famosi, pro-venienti dal Portogallo e dalla Spagna. Nel1794 acquisisce gli edifici di una tonnara inprossimità del porto di Marsala impiantando-vi il primo stabilimento in cui il mosto prove-niente dall’entroterra e preventivamente sele-zionato attraverso una fitta rete di rapporticommerciali e tecnici che Woodhouse curavapersonalmente veniva trasformato in Marsala.I primi successi commerciali (tra i quali certa-mente prestigioso quello relativo alla pretesadell’ammiraglio Nelson di una dotazione diMarsala per i suoi equipaggi) non mancaronodi attirare l’attenzione di ulteriori e intrapren-denti imprenditori anglosassoni.

Nel 1812, non distante dallo stabilimentoWoodhouse, entra in funzione lo stabilimentodi Benjamin Ingham, personaggio destinato aincidere in maniera rilevante sul consolida-mento delle radici culturali ed industriali del-la produzione. Ingham fu infatti il portatoredi una concezione tecnologica e razionalizza-trice della produzione, tendente al controllodi tutte le fasi del processo produttivo e deiparametri qualitativi richiesti dal mercato.

Fu il primo a territorializzare la lavorazione

industriale con la dislocazione periferica dialcune unità produttive destinate allo stoc-caggio e alla prima lavorazione dei mosti. Du-rante la sua politica industriale non va d’altrocanto sottovalutato il ruolo che i rapporti fi-duciari e il trasferimento tecnologico e cultu-rale che egli promuoveva presso la base pro-duttiva (per esempio attraverso la distribuzio-ne di un decalogo di regole industriali pressoi piccoli produttori) hanno avuto nella forma-zione e nel radicamento di una cultura indu-striale diffusa.

Il 1834 è l’anno in cui entra in funzione lostabilimento Florio, localizzato strategicamen-te tra i due stabilimenti inglesi e caratterizzatoda un alto livello tecnologico che gli consenti-va, attraverso l’uso di macchine a vapore, disostenere anche lavorazioni alternative comela molitura del grano. L’ingresso sulla scenaindustriale dei Florio costituirà un elementodi grande rilevanza economica almeno per duemotivi: il primo riguarda l’eccezionale dina-mismo (rivolto anche ad altre attività indu-striali) espresso dalla famiglia in quel partico-lare frangente dell’economia siciliana; il se-condo concerne gli effetti dell’ingresso di uncompetitore qualificato nell’ambiente indu-striale locale e di una politica commerciale chesi proponeva esplicitamente di ridurre la quo-ta di mercato delle imprese anglosassoni. Unquadro attendibile per misurare la consisten-za del sistema industriale ad uno stato di suffi-ciente consolidamento è dato dai resocontistatistici della metà dell’Ottocento, che indi-cano una produzione vinicola complessiva dicirca 115.000 ettolitri, assorbita per il 90% dalmercato inglese. Un dato significativo riguar-da la dimensione delle imprese in termini diaddetti, tra le quali Ingham spicca per le 200unità impiegate nello stabilimento di Marsalaa fronte delle 100 unità impiegate nello stabi-limento Florio. Da queste premesse, la secon-da metà dell’Ottocento rappresenterà un’epo-ca di esplosione dell’imprenditorialità indu-striale presso gli ambienti economici locali chesi concretizzerà nella fondazione di tre ulte-riori grandi stabilimenti a Marsala: Rallo nel1860, Martinez nel 1866 e Pellegrino nel 1880.

Con la fine dell’Ottocento si va inoltre con-solidando un sistema industriale che vede unrapporto con il territorio articolato su due di-

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mensioni: da un lato un sistema di stabilimen-ti urbani (a Marsala in particolare), spessocontenenti dotazioni tecnologiche moltoavanzate, localizzati ai margini dei centri an-tichi e agenti da potenti elementi di infra-strutturazione del territorio; dall’altro un si-stema di bagli costituenti l’armatura reticola-re della produzione, diffusi entro un vasto en-troterra e costituenti i poli della rete di rela-zioni produttive che regolavano l’uso del ter-ritorio rurale.

L’area di produzione e il quadro economicolocale

La possibilità di riferirsi ad un contesto ter-ritoriale chiaramente definibile costituisce unelemento di grande rilevanza nella politca diun sistema locale. Tale riferimento determinainfatti quella “razionalità istituzionale” checostituisce un elemento certamente vantaggio-so in tutte quelle pratiche di contrattazioneche si accompagnano alla costruzione di pro-grammi di sviluppo e di utilizzo delle risorse.Quel vantaggio è ancora più rilevante nel casodei sistemi territoriali legati alla produzionedi un vino con caratteri storici, dato che dalterritorio – e soprattutto dalle sue componen-ti ambientali – esso trae alcuni dei più consi-derevoli elementi di qualificazione. La politi-ca di attribuzione delle denominazioni a origi-ne controllata (DOC) nelle produzioni agroali-mentari, in tal senso, contiene alcune poten-zialità di rilevanza culturale. Se è vero infattiche la principale razionalità di un’area DOC

consiste nella possibilità di determinare unambito di controllo qualitativo delle produ-zioni, è altrettanto vero che essa può rappre-sentare uno stimolo alla presa di coscienza dialcuni elementi di identità presenti sul territo-rio. In molti contesti territoriali del meridioned’Italia, dotati di notevole qualità ambientalema afflitti dalla quasi assoluta mancanza di at-tività industriali, ciò potrebbe consentire l’av-vio di una politica competitiva perfettamentecompatibile con la salvaguardia del territorio.

L’area di produzione del vino Marsala è sta-ta fissata dalla legge 851/84 e comprende il ter-ritorio della provincia di Trapani, esclusi il co-mune di Alcamo e le isole Egadi e Pantelleria.Tale intervento legislativo è coinciso con undrastico processo di selezione delle imprese

produttrici, non tutte in grado di adattarsi airigidi standard qualitativi necessari per l’ado-zione del marchio Marsala. A fronte di un nu-mero di aziende che superava le 200 unità agliinizi del Novecento, il numero delle impreseproduttrici di Marsala si è ridotto a 23 nel 1998(tutte con un numero di addetti inferiore a 50tranne una), su di un totale di 87 imprese ope-ranti nel settore vinicolo nella stessa area. Leimprese di più antica fondazione tendono amantenere la localizzazione all’interno dellestrutture originarie, cercando di adattare lenuove funzioni di produzione e di marketingalle strutture originarie. Esse tendono inoltread acquisire il controllo diretto dei fondi diproduzione, perseguendo il chiaro obiettivodi controllare la qualità e l’origine della pro-duzione in tutte le sue fasi. La componente as-sociativa, che dovrebbe costituire un fattorecentrale nella promozione di un sistema localedi piccola e media impresa, presenta purtrop-po elementi di debolezza. Essa ha comunqueil suo organo più rappresentativo nel “Con-sorzio per la tutela del vino Marsala” (istituitonel 1962) che riunisce la maggior parte delleimprese produttrici e che ha tra i suoi compitiistituzionali quelli di controllare la qualità del-la produzione, di promuovere ricerche e studidi mercato e coordinare le attività di propa-ganda dei prodotti.

Il progetto di Sistema Culturale LocaleIl progetto di Sistema Culturale Locale del

vino Marsala è un quadro di misure e di ini-ziative integrate volte alla creazione di un si-stema territoriale attivo nella produzione discenari di sviluppo locale. Esso si propone diinteragire con il quadro istituzionale presentesul territorio (provincia, comuni) senza com-promettere il suo carattere di trasversalità con-sistente nel tentativo di attuare una “politicaper obiettivi” attorno alla quale formare quel-le “coalizioni” che dovranno determinarne lasopravvivenza nel futuro. La sua attivazioneprevede quindi una politica per fasi incremen-tali che offra agli attori coinvolti una possibi-lità di sperimentazione volontaria con un im-piego minimo di risorse. Tali fasi sono:a) la realizzazione e la messa in rete di un sito

ipertestuale;b) la redazione di linee guida per la pianifica-

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zione urbanistica e per l’intervento sul pa-trimonio culturale territoriale;

c) la progettazione e la realizzazione di un si-stema integrato di visitors centers territoria-li.

a) Il sito ipertestualeÈ lo strumento che funziona da “server” per inodi operativi del sistema locale e che mettein rete le componenti che lo strutturano dalpunto di vista culturale, economico e territo-riale. Il “server” permette l’accesso alle se-guenti aree tematiche:• Territorio, che consente l’accesso alle infor-

mazioni riguardanti l’area di produzione e icentri storici, i siti archeologici, le aree na-turalistiche, l’accessibilità e la ricettività.

• Cultura della produzione, che attraverso unatlante iconografico presenta la storia eco-nomica e antropologica della produzione, lecaratteristiche fisiche e organolettiche deiprodotti, i legami dell’industria con la ricer-ca scientifica, le forme di rappresentanzapolitica e istituzionale.

• Paesaggio rurale, che contiene una letturadel territorio di produzione attraverso l’a-nalisi delle sue componenti strutturali (geo-morfologiche, pedologiche, idrologiche),storiche e antropiche.

• Archeologia industriale, che contiene leschede dei siti di archeologia industriale ur-bana e rurale con le informazioni su storia,collocazione, stato di conservazione e acces-sibilità degli edifici.

• Imprese, che consente l’accesso alle impreseproduttrici, alla storia degli stabilimenti, al-le tipologie di prodotto e l’effettuazione diordinazioni dalla rete.

• Sistema Culturale Locale, che presenta ilquadro complessivo del programma e il suostato di attuazione.

b) Le linee guida di pianificazione urbanisticae per l’intervento sul patrimonio di archeo-logia industriale

È la componente più squisitamente politicadel progetto, quella volta a definire quel qua-dro di principi condivisi sulla cui convergenzapreventiva sarà possibile poi costruire i “gradidi libertà” dei soggetti che dovranno parteci-pare allo sviluppo del programma.

Le linee guida dovranno contenere le se-guenti indicazioni:• Il quadro di strumenti e modalità di azione

che i comuni il cui territorio ricade nell’areadi produzione dovranno rendere compati-bile con la propria strumentazione urbani-stica. L’obiettivo è quello di costruire unasensibilità condivisa nei confronti dei terre-ni rurali coinvolti nella produzione, per evi-tare compromissioni del tessuto storico eantropologico del paesaggio rurale e perpromuovere una pianificazione ecocompa-tibile del territorio rurale.

• Le indicazioni concernenti l’intervento su-gli edifici di archeologia industriale e rura-le, al fine di evitarne la compromissione deitratti originali e assicurarne la compatibilitàstorica e funzionale con la sua eventuale in-clusione nel sistema integrato di visitorscenters.

La redazione delle “linee guida” dovrà garan-tire la partecipazione attiva di tutti i soggettiresponsabili dell’uso, del controllo e della pia-nificazione del territorio rurale, dal consorziodelle imprese ai comuni, dalla Soprintenden-za per i beni culturali e ambientali alla Provin-cia. In questa fase è inoltre auspicabile il ruolodi consulenza da parte degli ambienti scienti-fici e della ricerca, sia nella fase di identifica-zione delle principali questioni ambientali, sianella fase di costruzione del processo di piani-ficazione.

c) Il sistema integrato di visitors centers urba-ni e territoriali

Rappresenta l’armatura comunicativa del si-stema culturale locale, lo strumento attraver-so il quale vengono coniugate le ragioni del-l’economia con quelle della cultura. È un si-stema di spazi contenenti funzioni integratetra le quali l’ordinamento tematico museale,gli spazi destinati all’attività delle imprese equelli predisposti per l’accoglienza dei visita-tori. I visitors centers possono essere ricondot-ti a due tipologie:• visitors centers ospitati all’interno di stabili-

menti urbani.• visitors centers ospitati all’interno di edifici

rurali nel territorio.Tali spazi dovranno configurarsi come i no-

di di un sistema integrato e quindi contenere

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sia funzioni generali (come l’accesso al “server” e alla struttura complessiva del siste-ma) che funzioni tematiche, derivanti dalle ca-ratteristiche storiche, produttive e posizionalidegli edifici.

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IMMAGINI

APPENDICE B

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Fig. 1 Schema del processo di territorializzazione (Magnaghi, 1995)

La rappresentazione identitaria del patrimonio territoriale (Alberto Magnaghi)

Fig. 2a1 La struttura paesistico-territoriale della piana fiorentina nel ciclo romano (Poli, 2000)

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Fig. 2a2 Particolare delle colline di Castello nel ciclo romano (Poli, 2000)

Fig. 2b1 La struttura paesistico-territoriale della piana fiorentina nel ciclo altomedievale (Poli, 2000)

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Fig. 2b2 Particolare delle colline di Castello nel ciclo altomedievale (Poli, 2000)

Fig. 3 La struttura paesistico-territoriale della piana fiorentina in epoca lorenese (Poli, 2000)

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Fig. 4 Carta identitaria di La Garrotxa, Catalogna (1979)

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Fig. 5 Sintesi interpretativa del sistema collinare fra la Pesa e il Virginio, Chianti fiorentino (“Laboratorio di Urbanistica”, Magnaghi, 1998)

Fig. 6 Carta interpretativo-progettuale della val di Cornia (Magnaghi, Fantini, 1996)

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Fig. 7 Modello di valutazione polivalente di politiche e progetti sul sistema fluviale del Lambro (IRER, Magnaghi, 1998)

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APPENDICE B - IMMAGINI196

Fig. 8 Gli elementi di lunga durata della regione milanese (Magnaghi, 1995)

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APPENDICE B - IMMAGINI 197

Fig. 9 Il degrado dell’area metropolitana milanese (Magnaghi, 1995)

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APPENDICE B - IMMAGINI198

Fig. 10 Lo scenario progettuale della regione milanese (Magnaghi, 1995)

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Vantaggi competitivi e sviluppo locale. Trasformazioni e identità torinesi (Sergio Conti)

Fig. 1 Il sistema manifatturiero torinese

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Fig. 1 Il mappamondo di fra’ Mauro conservato presso la Biblioteca Marciana di Venezia

Rappresentare e reggere: le regioni negate (Pasquale Coppola)

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Fig. 2 Una sezione del Mediterraneo occidentale nella cartografia di Piri Re’is

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Fig. 3 Un’interpretazione del territorio europeo proposta da Groupement Reclus

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APPENDICE B - IMMAGINI 203

Fig. 4 “Vecchio e nuovo cuore” dell’Europa secondo lo European Institute of Urban Affairs

Fig. 5 Il treillage della rete urbana europea nella lettura di Roger Brunet

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Fig. 6 Le otto macroregioni europee definite dal documento “Europa 2000”

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Fig. 7 La facciata atlantica dell’Europa secondo il disegno della DATAR

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Fig. 8 Uno stralcio della carta dell’uso agricolo dei suoli della Basilicata redatta dal CNR. L’area boschiva citata nel testo corrisponde alla vasta macchiapresso la foce del Sinni

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Fig. 9 Uno stralcio della carta delle suscettività agricole dei suoli lucani stesa per il programma di assetto territoriale del 1975. Il “bosco resuscitato”corrisponde alla macchia scura in prossimità del confine con la Calabria

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Fig. 10 La visione “strategica” del Mezzogiorno secondo gli esponenti delle classi dirigenti coinvolti nell’indagine della Fondazione Agnelli alla metàdegli anni novanta

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Fig. 11 Il Mezzogiorno e la Grecia nella prospettiva europea disegnata per il rapporto comunitario sul “Mediterraneo centrale”

The wider European context

Metropolitan centre

Developed integratedareas

Areas under integration process

Latin arc - The North of the South

Eastern South

Urban industrial concentrations formerUSSR

TraditionalMediterranean routes

Mediterranean linkages

Prospective extensionof a developing South

Major potential axes

Peripheral axes

Basic east-west Balkan axes

Axis in crisis

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Fig. 1 Collocazione delle quattro arteplages

II progetto e il suo pubblico (Ola Söderström)

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Fig. 2a Ritaglio da articolo di stampa

Fig. 2b Ritaglio da articolo di stampa

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Fig. 3 Illustrazione: modello in scala di studio

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Fig.

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Fig. 1 Planimetria del quartiere dell’Esposizione nel 1887. È ancora ben visibile l’antico “firriato”

Mappe effimere. Effetti urbani di un’esposizione nazionale (Marco Picone)

Fig. 2 Pianta di Palermo contenuta nel Civitates orbis terrarum di G. Braun e F. Hogenberg (1581). Fonte: De Seta, Di Mauro (1980, p. 69)

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Fig. 3 Pianta Vallardi (1885). Fonte: De Seta, Di Mauro (1980, p. 161)

Fig. 4 Planimetria del quartiere dell’Esposizione nel 1905. Si noti l’impianto a scacchiera dovuto alla lottizzazione

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IMMAGINI “NOVAE TERRAE”

APPENDICE C

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Grafica ESSE snc - Orbassano (To)