Il mondo degli oggetti dimenticati
-
Upload
savina-gravante -
Category
Education
-
view
210 -
download
0
Transcript of Il mondo degli oggetti dimenticati
ISTITUTO COMPRENSIVO “MORO- PASCOLI”
CASAGIOVE (CE)
Il mondo degli oggetti
dimenticati Progetto “Lettura e scrittura creativa”
Prof.ssa Gravante Savina
Anno scolastico 2014-2015
Lettere...oggetti dimenticati, sottovalutati, spesso ritenuti
insignificanti... ma le parole incise su di esse lasciano il segno, hanno
un valore inestimabile, hanno la capacità di rimarginare ferite, di
suscitare profonde emozioni. A volte ci fanno riflettere, ma
soprattutto fanno rinascere in noi la speranza, le illusioni nella vita,
nell’amore...
(riflessione tratta da uno dei racconti degli alunni)
L’emozione di un ricordo
La vecchia soffitta era in uno stato
pietoso, quel giorno.
I mobili erano rovesciati a terra e
con essi anche i centrini di pizzo e le
tazze da tè. Il lampadario emanava
una luce fioca, quasi inutile per quella
soffitta così buia. Le sedie erano
rovesciate a terra, alcune di loro
completamente rotte. Tutta colpa
del terremoto della sera precedente.
Giulia entrò nella stanza e quasi le venne da piangere. Era la stanza a cui teneva
di più, anche se era la più vecchia. Anzi, forse era proprio questo il motivo.
Iniziò a raccogliere i cocci delle tazze e i vetri rotti delle bottiglie con le sue
mani bianche, ormai deboli per la vecchiaia. Cercò di alzare i mobili da terra e,
dietro al divano color mogano, trovò un grande baule di cui non ricordava
nemmeno l’esistenza. Si sedette sul divano e prima di aprirlo si fermò un attimo.
Provava una leggera emozione, le piacevano le sorprese e si era lasciata
travolgere dall’impulso irrefrenabile della curiosità.
L’aprì. Davanti ai suoi occhi apparve un vestito. Dapprima non lo riconobbe, anche
se il pizzo blu e la cintura di perle le dicevano qualcosa. Poi ricordò. Quello era il
vestito che aveva indossato la sera che conobbe Nicola, l’uomo che aveva sposato
e con il quale aveva condiviso la sua vita fino a pochi anni prima, quando era volato
via, lasciandola sola.
Gli occhioni neri le si inumidirono, guardando quel vestito un po’ consumato dal
tempo. Ricordava come se fosse stato quella sera. La sorella le aveva proposto di
andare con lei a quella festa. Giulia non aveva esitato neanche un minuto perché
amava le feste, i balli, la gente.
Ci mise tempo per prepararsi. Si strinse il vestito e la cintura intorno alla vita,
indossò i guanti immacolati e si bagnò il collo con una goccia di profumo rubato
alla madre.
Era una giovane diciottenne, a quei tempi.
Arrivarono nella grande sala dei signori Boot, i genitori della festeggiata, una
giovane amica della sorella, che Giulia a malapena conosceva. Ricordò l’emozione e
la grande contentezza che le riempivano il cuore in quel momento. Iniziarono a
danzare e i pretendenti di Giulia erano sempre di più, tutti affascinati dalla sua
grande bellezza ed eleganza.
La serata procedeva tranquillamente, quando Giulia incontrò gli occhi azzurri di
Nicola. Il ragazzo la guardava, seduto su un divanetto. L’aria assorta in chissà
quale pensiero, ma gli occhi fissi sulla ragazza.
Giulia rimase un attimo immobile, lusingata e affascinata dalle attenzioni del
giovane. Iniziò un lungo gioco di sguardi, che era l’unico modo per poter
comunicare, a quei tempi.
Si ricordò della musica di sottofondo e degli odori che riempivano la stanza. Ed
ora, se chiudeva gli occhi, riusciva ancora a sentirli. Ricordò che il gioco di
sguardi era continuato per parecchio, fino a quando Nicola si alzò. Il cuore fece
un balzo e le gambe iniziarono a tremare. Nella sua testa comparvero due opzioni:
scappare o restare immobile, come se non stesse accadendo nulla. La decisione
era da prendere molto velocemente, perché il ragazzo si stava avvicinando.
Spostò lo sguardo sulla sorella, che sedeva insieme ad alcune compagne e non
sembrava curarla più di tanto. Pensò di star perdendo solo tempo, perché Nicola
era quasi arrivato da lei. Voleva scappare. Alzarsi e correre via, l’emozione era
troppo forte. Le gambe, però, erano paralizzate e, prima che potesse fare uno
sforzo e cercare di alzarsi, il ragazzo era già da lei. Si ritrovarono faccia a
faccia e quando l’orchestra iniziò a suonare le prime note della canzone, Nicola
porse la sua mano a Giulia.
La sua bocca non emise alcun suono, sorrideva. Ma i suoi occhi parlavano. Giulia
rispose con un sorriso impacciato, imbarazzato, ma non volle rifiutare l’invito del
giovane. Era un’occasione così importante per lei, era la prima volta che si
innamorava. Beh, forse dire “innamorata” era una parola grossa, ma quel giovane
dall’aspetto così nobile la affascinava. E così posò la sua mano su quella di Nicola,
si alzò e insieme si tuffarono nelle danze. Benché fosse emozionatissima, Giulia
non risultò impacciata. I due giovano ballarono con disinvoltura sulle note di
quella canzone che a Giulia piaceva tanto: Montecarlo. Gli occhi di Giulia
luccicavano di gioia e i due ballavano così bene che guadagnarono il centro della
sala. Quando la musica finì Giulia fece un profondo inchino al suo cavaliere,
sorridendo spontaneamente.
Era felicissima.
Nicola la invitò ad un altro ballo e poi ad un altro ancora e ancora. la serata volò
via. Era l’inizio di un amore straordinario che sarebbe durato tanti anni.
Giulia sentì una lacrima scendere lungo la guancia. La mente era completamente
immersa nei ricordi. Ad un certo punto però il rumore di una porta che si
chiudeva la riscosse dai suoi pensieri.
Una voce urlò: ”Mamma! Sono tornata! La voce era accompagnata da gridolini di
bambini, tutte voci familiari per Giulia. Era sua figlia che, dovendo lavorare il
pomeriggio, era passata per lasciare Gabriele e Sara alla loro nonna.
“ Nonna! Nonna! Dove sei?” urlarono i bambini.
“Arrivo” disse Giulia , asciugandosi frettolosamente le lacrime e richiudendo il
vestito nel baule. Poi si avviò verso la porta e per un attimo si voltò indietro. Un
ultimo sguardo al vestito che le aveva fatto rivivere una grande emozione.
Un vestito dimenticato, ma che aveva significato tantissimo per lei.
Una lettera d’amore
Laura si commosse quando la lesse. Era una
lettera del fidanzato, inviata dalla
Germania. In quel periodo era da poco
scoppiata la seconda guerra mondiale e il
fidanzato di Laura, Robert, era una spia
inviata dagli americani. Lei era italiana, lui
americano, non potevano stare insiemi italiani e americani in quei tempi di
terrore, ma l’unica cosa che importava loro era l’amore, fino a quando lui per
lavoro non dovette trasferirsi in Germania. Era diventato una spia.
Lei fu distrutta dalla notizia ma continuò ad essere felice perché lui le inviava
delle lettere, delle lettere d’amore, per tenerla su di morale anche se lei
continuava a soffrire per la sua mancanza, soprattutto dopo aver scoperto che in
lei stava nascendo una nuova vita, il frutto del loro amore. La sua sofferenza
però aumento anche a causa di un’altra cosa che senza saperlo le avrebbe
rovinato la vita : il nazismo in Italia. Le leggi razziali stavano per abbattersi
anche sugli ebrei italiani, che avevano sempre vissuto in maniera serena e
pacificamente con tutti.
Anche Laura apparteneva ad una famiglia piuttosto agiata, ma ormai la ricchezza
non aveva più valore. Quando la situazione divenne pericolosa ella si nascose e
riuscì a sopravvivere fuggendo in Svizzera, dove visse fino alla fine delle guerra.
Quando tornò la sua casa era tutta a soqquadro. l’aveva fatta ristrutturare ma
c’era una stanza che era rimasta proprio come allora. Fino a quella sera si era
rifiutata di entrarvi ma ormai sentiva che era giunto il momento. Non aveva
saputo più niente di Robert, non sapeva se era morto, non sapeva se era vivo, non
sapeva se lui l’aveva dimenticata. Con coraggio entrò in quella stanza fantasma e
tra tanti vecchi bauli trovò una lettera che non aveva letto. Erano fuggiti così in
fretta che non le avevano dato neanche il tempo di prenderla. Era ancora
leggibile. C’era scritto:
Berlino, 16 Giugno 1946
Cara Laura,
mi manchi. Non riesco più a stare qui dentro, soffro troppo. È un inferno.
Tu come stai? Ti ricordi quando eravamo a Napoli e ti avevo giurato che sarei
stato sempre accanto a te? Purtroppo non posso tenere fede a quel giuramento....
almeno per ora. Forse la mia copertura è saltata, i tedeschi sono diffidenti e non
credo parlino ancora bene nei miei confronti; l’altro ieri siamo andati in missione:
abbiamo affrontato gli americani. Io ero incerto se sparare o no perché tra loro
c’era la persona che mi aveva mandato a Berlino. Per un attimo ho provato il
desiderio di ucciderlo per quello che mi aveva fatto, distruggendo tutti i miei
sogni nel giro di poco tempo, portandomi lontano da te e mettendo in pericolo il
nostro futuro. Poi, però, non ho sparato. Io non ho mai ucciso un uomo e mai lo
farò. I miei “ compagni”, i nazisti, hanno ucciso così tante persone che non puoi
neanche immaginare. Erano dei mostri. Spietati. Io non li sopporto. Fanno del
male anche ai bambini. Sono inclini alla violenza e all’odio. Spesso mi chiedo com’è
possibile che un uomo pensi di avere il diritto di togliere la vita ad un altro uomo?
Perché credono di essere superiori? La vita è un dono prezioso e noi dobbiamo
rispettarla sempre, prendercene cura...
Spero che non abbiano intercettato la mia lettera, anzi, le mie lettere, anche
perché io le mandavo ad una persona antinazista. Queste lettere sono il mio unico
conforto in questo mondo di caos e di disperazione.
Spero di poterti rivedere un giorno. Spero di poter ritornare ad essere felice
con te in un mondo di pace.
Robert.
Ormai lei era diventata anziana, era diventata nonna e viveva in casa con la figlia.
Questa lettera la sconvolse. Ripensò, quindi, a tutti i bei momenti passati con lui
e soprattutto pensava al fatto che nonostante tanta sofferenza lui aveva
combattuto per una cosa giusta, per quell’idea di libertà in cui aveva sempre
creduto ciecamente e in nome della quale aveva dato pure la vita. Un ideale che
pure gli era costato caro, impedendogli di stare vicino alle due persone a cui
teneva di più, la sua dolce Laura e la bambina che stava portando in grembo e che
avrebbe cresciuto da sola, nella più completa solitudine.
Da quel giorno anche la vita di Laura cambiò, iniziò ad impegnarsi per la libertà.
Fondò associazioni, partecipava a conferenze, ad incontri e dibattiti con le
scuole; voleva dare un messaggio a tutti, soprattutto ai ragazzi: spiegare cosa
significa “lottare per essere liberi”, proprio come aveva fatto il suo Robert.
Da una foto ad una storia surreale
Un giorno, tornando da scuola, decisi di
andare a trovare mia nonna. Stetti l’ intero
pomeriggio da lei: l’ aiutai a lavare i panni, a
cucinare e a pulire la casa. Io decisi di pulire
la camera da letto e mentre pulivo i cassetti
vidi un foglio giallastro e leggermente
rovinato. lo tirai e mi ritrovai con una
fotografia in bianco e nero, che
rappresentava una bambina con un vestito
molto vaporoso, con una collana piena di
brillanti e delle scarpette con un fiocchetto
molto semplice. Era appoggiata ad un enorme
specchio con una cornice in rilevo
raffigurante fasce di foglie e frutti di ogni
dimensione.
Non riuscivo a capire chi fosse quella bambina, ma soprattutto perché fosse vestita
così , sembrava una principessa.
Tutto questo mi incuriosì troppo e decisi di chiedere tutto a mia nonna. Quando le
mostrai la foto, mi sorrise e iniziò a raccontarmi tutta la storia della bambina: –
Questa era la tua zia , sai ?!?!-, mi disse e io mi stupii molto e le chiesi:-Sul serio?-. –
Te lo assicuro - ,mi rispose e così continuò a raccontare.
-Si chiamava Clara ed era russa- disse, - Era molto gentile con tutti sia da piccola, sia
da grande e tutto il popolo la amava-. Mi salì la curiosità e le chiesi: - Nonna perché
era vestita così? Sembrava una principessa-, - Forse perché lo era ?!?!-. Rimasi per 2
minuti senza dire niente e poi dissi:- Nonna, ma sei sicura di quello che dici?!?!
L’ impero che ricordo in Russia di quel periodo è l’ unico e grande Impero Russo-.
– Infatti suo padre fu quello che, purtroppo , dovette andarsene per via delle continue
rivolte che fecero i cittadini e i comunisti e la povera Clara dovette scappare insieme
a tutta la famiglia qui in Italia, ma il padre e la madre furono sparati da due cittadini
che li seguirono e li volevano vedere morti-, mi raccontò la nonna. Rimasi molto colpita
da tutto ciò, che mi stava dicendo mia nonna e non decisi di parlare , proprio per farle
finire il suo racconto e capire cosa c’ entrasse la principessa russa con la mia famiglia.
Continuò a raccontarmi e disse:- Clara non sapeva dove andare e soprattutto cosa fare
, perché era ancora molto piccola. Ormai con lei era rimasta solo la cameriera della
mamma che non poteva pensare anche a lei, perché aveva già 3 figli piccoli da
crescere, allora decise di portarla in un orfanotrofio e come potrai capire furono i
nostri familiari ad adottarla e così rimase con noi per tutto il tempo, ma…-. Ad un
tratto suonò il telefono ; era la mamma che mi avvisava che tra qualche minuto, mi
sarebbe venuta a prendere . dissi, allora, alla nonna:- Ti prego nonna, dillo tu a mamma
che mi deve venire a prendere più tardi. Non voglio andare a casa adesso! Voglio
sentire la fine della storia! -.
Riuscì a convincere mamma e quindi rimasi fino all’ ora di cena , però dovevo prima
finire i compiti e poi avrei saputo il continuo della magnifica storia di Clara.
Non ero abbastanza concentrata , perché non riuscivo a pensare ad altro e quindi li
feci tutti velocemente e penso di averli fatti male, ma non mi interessava; volevo
sapere la fine della storia. Andai di là e dissi alla nonna :- Nonna ho finito , ora finisci
di raccontare la storia-.- Va bene- mi rispose e ricominciò a raccontare. – Ti stavo
dicendo , ma quando compii 18 anni le dicemmo tutta la verità delle sue vere origini e lo
stesso giorno decise di prendere un aereo e di tornare in Russia. Purtroppo non tornò
più da quel viaggio e dopo 20 anni , scoprimmo che quando arrivò lì nessuno la ospitò ,
neanche il più misero degli alberghi e fu costretta a vivere in una piccola casetta,
isolata dal resto della città di Mosca. Un giorno, non ce la fece più e decise di tornare
in Italia, ma con l’ aereo non poteva , perché aveva perso tutti i soldi. Decise , allora ,
di tornare a piedi e ovviamente non ce la fece ad arrivare qui in Italia, anche se le
mancava davvero poco, perché si trovava in Austria quando morì-. – E avete scoperto
perché è morta?-, dissi e lei mi rispose:- Non ce lo hanno detto, ma noi pensiamo che
non abbia affrontato bene il freddo della Russia e quindi si ammalò e non riuscì a
guarire e non riuscì a superare il confine-.
Questa storia mi ha colpito così tanto che mi promisi che appena avrei avuto figli,
gliel’ avrei raccontata e loro ai loro figli , in modo che tutti la potessero conoscere ,
almeno in famiglia.
Sono diventata, però ,una giornalista e quindi decisi di scriverla e di pubblicarla: il
titolo.. Un destino incredibile!
Oggetti con una storia... ogni
momento è buono per ricordare...
Napoli, 01-04-2000
Salve, io sono Paola, sono divorziata da quattro
anni, ho tre figli e vivo a Napoli in un
condominio di dodici piani, con dei vicini
abbastanza detestabili.
Voglio raccontarvi l’episodio che ha cambiato
radicalmente il corso della mia vita.
Era lunedì mattina, i miei figli erano a scuola e i miei vicini puntualmente a
litigare. Nella casa accanto alla mia vivono due signori anziani, gli Smith. Il tempo
prometteva una giornata di sole, ma passeggiare a Napoli centro con tutto lo
smog possibile e immaginabile non è perfetto, se uno ha lo scopo di vivere almeno
cento anni. Tra schiamazzi e urla, decisi di andare nella soffitta all‘ ultimo piano;
aprii la porta e un grosso cumulo di polvere mi fece starnutire. Avevo voglia di
sistemare il vecchio baule regalatomi dai miei nonni.
Aprendo il baule scorsi con la coda dell’occhio un topo con una zampetta mozzata,
con la coda tutta storzellata. Mi ricordava tanto il mio piccolo e vecchio Occhio
Pocchio, un cagnolino con caratteristiche diverse dagli altri piccoli della
cucciolata di nonna Livia.
Occhio Pocchio era un piccolo pastore tedesco, mi piaceva tanto giocare con lui in
spiaggia nelle lunghe giornate d’estate. Mio nonno Ciro mi portò poi a casa sua ma
mentre scendevamo dalla macchina, il cagnolino iniziò ad inseguire un gatto e non
tornò più. Lo aspettai tutto il pomeriggio e, quando il sole stava per tramontare, il
nonno mi portò in casa con gli occhi gonfi di lacrime. Al solo pensiero di Occhio
Pocchio piango tuttora.
Le lacrime fanno posare il mio sguardo su un vecchio abito...
Mi ricordai all’istante di quel giorno. Era il 15-5 del 1971, mi svegliai alle sette
della giornata più importante della mia vita. I venti anni devono essere
indimenticabili.
Alle 9.00 ero già a passeggiare per Caserta, città piena di turisti negli anni ’70.
Mi trovavo in Via Mazzini quando fui attratta da un vestito rosso con alcune
striature nere sulla spalla destra. Sotto il manichino vidi delle stupende scarpe
nere con dei tacchi a spillo. Mi innamorai all’istante di quel vestito e lo comprai
subito con i miei risparmi. Corsi a casa con l’auto nuova regalatami dai miei
genitori e mostrai il vestito a mia madre che ne fu disgustata. Secondo lei i veri
vestiti erano i suoi: pantaloni a zampa d’elefante, magliette giallo fluo, parrucche
afro...
Insistette per farmi indossare i suoi vestiti ma non ci fu verso... indossai il mio
abito. Quella sera incontrai gli amici e conobbi Luca, Luca Visalbi. Mi colpirono i
suoi capelli biondi, gli occhi azzurri, le labbra carnose. Dopo qualche giorno io e
luca eravamo felici insieme....
Uscita dal passato, guardo in direzione di un telo bianco, con tantissimi ricami
rosa; prendo il telo e trovo la foto del mio matrimonio. Quanto tempo è passato,
me ne rendo conto solo ora, guardando il mio giovanissimo volto sorridente e il
mio corpo sottile nel semplicissimo vestito bianco a mezze maniche, con un lungo
velo trasparente e un lungo strascico, elegante e allo stesso tempo molto fresco,
visto che era Giugno, l’otto Giugno. Ricordo il posto bellissimo, immerso nella
natura e la torta bianca con i due sposini vestiti esattamente come noi, con
almeno cinque piani. Nella foto riconosco i miei genitori, i miei zii, i loro figli e
altri parenti di cui non ricordo il nome.
Dopo poco nacque la mia prima figlia, Amy e, quando Amy aveva otto anni,
nacquero due gemelli, Paul e Benny.
Purtroppo , il tempo cambia le cose e le persone e io e Luca divorziammo.
Di colpo mi giro e mi trovo dietro i miei tre figli che iniziano a girare e a frugare
ovunque. poi si avvicinano, mi abbracciano e mi chiedono di andare tutti e quattro
la domenica successiva nella casa al lago del mio ex marito. Non posso dire no,
hanno preso tutti e tre bei voti al primo quadrimestre. Torniamo a casa e chiamo
luca per dirgli che accettavo l’invito di domenica. Passano i giorni, dopo la messa
domenicale partiamo per il lago, ma prima prendo la foto del matrimonio. Appena
arrivati, i bambini corrono verso il padre, che mi guarda con degli occhi che mai
mi avevano guardato in quel modo. Lui mi si avvicina, come se volesse
abbracciarmi, intanto io premo la foto nella tasca, la stringo e poi gliela mostro.
Incrocio di nuovo i suoi occhi azzurri che sembrano dirmi dove sei stata tutto
questo tempo? La stessa frase che mi aveva detto il giorno in cui ci siamo
fidanzati. Capisco all’istante che i suoi sentimenti per me ci sono ancora.
Haway 25/06/ 2000
Come sottofondo musica nuziale, come abito costume da bagno, come cattedrale
il mare: matrimonio perfetto.
Una nuova foto viene scattata, messa sul comò del salone e forse un giorno
chissà, tornerà in soffitta, pronta a raccontare una nuova storia.
Una foto dimenticata
In una fredda domenica d’inverno io e mia sorella Leila ci svegliammo guardando i
fiocchi di neve che sfioravano la nostra finestra . Il cielo era grigio e la temperatura
era sotto lo zero , scendemmo dal letto ci infilammo le ciabatte e scendemmo al primo
piano, per bere una tazza di cioccolata calda davanti al camino . Dopo aver fatto
colazione salimmo in camera nostra per vestirci , io vidi un piccolo raggio di sole che
oltrepassava le nuvole e si rifletteva nella nostra stanza indicando la libreria piena di
libri d’ogni sorta che mio padre aveva sistemato momentaneamente nelle nostra
stanza. Mi avvicinai e fui attratta da un libro dalla copertina rosso bordeaux che
sembrava piuttosto antico. Lo presi e iniziai a sfogliarlo quando vidi una foto in bianco
e nero in cui c’erano due giovani fidanzati che si abbracciavano e dissi:-Guarda Leila !
Una foto di due innamorati !-.Leila molto stupita disse : -Oh che bella !Ma chi sono?-.
-Non ne ho idea , ora non abbiamo tempo , finiamo di vestirci e andiamo a casa dei
nonni a mangiare , sennò facciamo tardi-.
-Ok Sharon, sbrighiamoci!-.Quando finimmo di parlare ci affrettammo a vestirci ed
infilammo la foto nella borsa .Salimmo in macchina e facemmo vedere la foto ai nostri
genitori , loro però non riuscirono a dirci esattamente chi fossero i due giovani .
Durante il viaggio per arrivare a casa dei nostri nonni , io e Leila riflettemmo molto su
chi potessero essere , ma senza risultati . Poi girai la foto e c’era scritto:-Il nostro
amore non finirà mai!-.Alla fine della lettera c’era una firma molto familiare , con
l’aiuto di mia mamma riuscii a capire che i due ragazzi , indovinate un po’?Erano i miei
nonni!!! Non ci potevo credere , non vedevo l’ora di arrivare e l’ansia saliva , ero molto
curiosa, anche Leila lo era . Quando arrivammo Leila corse subito a citofonare , e
finalmente salimmo . Salutammo i nonni , mangiammo tutti insieme e dopo aver ingerito
l’ultimo boccone della buonissima pasta che nonna aveva fatto apposta per noi , sfilai
dalla borsa la foto e l’appoggiai sul tavolo . Nonno prese la foto , si mise gli occhiali e
disse:-Leila , Sharon di chi è questa foto?-La nonna intervenne dicendo:-Caro , questi
due giovani siamo noi!!-.La nonna e il nonno si guardarono con gli occhi “a cuoricino” .
Leila, molto curiosa, chiese ai nonni se ci potevano raccontare la storia di quella foto.
Il nonno tossì ed iniziò a raccontare: ”Allora, era una domenica come questa, faceva
freddo ed era arrivato il giorno che sarei dovuto partire per la Germania per lavorare
lì. Vostra nonna mi accompagnò alla stazione ed io non sapevo quando sarei tornato in
Italia. Ci salutammo velocemente perché il treno stava partendo. Durante tutti quei
mesi di lontananza, mesi che sembravano anni, ci scrivemmo tante lettere d’amore, una
al giorno o quasi. Dopo ben due anni, finalmente ritornai a casa e quando io e vostra
nonna ci incontrammo, decidemmo di farci fare una fotografia per ricordare quel
momento di grande felicità. Come vedete non ci siamo lasciati mai più. Anzi, siamo più
uniti che mai, abbiamo una bella famiglia con due figlie e due nipotine bellissime di cui
andiamo fieri,”
Corsi ad abbracciarlo, mi aveva regalato un’emozione infinita.
La via dell’amore
L’amore è nell’aria, spesso ci circonda, ma a
volte è racchiuso in dei pezzi di carta
insignificante, spesso conservati in posti
umidi, polverosi. Piccoli pezzi di carta, che
però racchiudono i ricordi principali del
nostro passato.
Era un uomo maturo, Francesco, sulla
cinquantina, gentile e ironico; appariva
esteriormente una persona serena, ma in un
angolo del suo cuore aveva una cicatrice
enorme, che nessuno mai sarebbe riuscito a
rimarginare.
Aveva alle sua spalle una storia che gli aveva fatto smettere di credere nella cosa più
bella della vita: l’amore.
Lui aveva visto nascere la donna che da quel momento gli avrebbe cambiato la vita nello
stesso momento in cui vide morire la donna che aveva già rivoluzionato la sua, di vita.
Gli dissero tutti che era stato un parto complicato ma lui nel suo profondo pensava
solo che lei ormai era morta. L’unica ragione che permetteva di dar scorrere il corso
della vita di Francesco era Clara, una bambina così ingenua, piccola, fragile...
Quando Francesco fece la scoperta che fu in grado di rimarginare le sue ferite Clara
era già una donna forte e in grado di saper badare a se stessa.
Il cielo era aperto con una luce immensa, gli alberi che circondavano la casa
risplendevano con il loro verde; Francesco era alla ricerca della sua vecchia canna da
pesca perché stava per trascorrere una vacanza al lago con la figlia. Cercò in tutta la
casa senza successo fino a che gli venne in mente di andare a rovistare in soffitta per
riuscire nel suo intento.
La soffitta di quella casa era particolare perché nascondeva vari segreti dei quali solo
alcuni furono svelati.
Francesco cercò la sua canna da pesca ovunque, nei bauli, negli armadi, finchè si girò e
al buio, con quel po’ di luce che penetrava dalla finestra vide una valigia.
Non era nascosta, era messa in un posto visibile, come se il proprietario avesse
dimenticato di rimetterla a posto.
Curioso, ma allo stesso tempo sospetto, Francesco decise di aprirla per vedere cosa
contenesse.
Trovò delle buste contenenti delle lettere di carta ingiallita, un po’ ammuffita, ma il
contenuto non era vecchio nemmeno di un anno. Racchiudevano al loro interno parole
che nemmeno a sentirle cento volte avrebbero annoiato.
Gli scrittori erano Alessandro e la sua amata Sofia , i genitori di Francesco.
Alessandro era un acceso interventista, aveva partecipato direttamente alla prima
guerra mondiale e durante le lunghe giornate in trincea scrivendo lunghe lettere alla
sua amata.
Lo stesso faceva Sofia con tutta la sua paura dato che poteva perdere l’amore della
sua vita. Desiderava solo avere sue notizie.
Ogni volta che riceveva lettere dal fronte il suo cuore batteva fortissimo, a volte
rischiava di strappare la carta per la fretta di aprire la busta. Annotava
minuziosamente i giorni in cui non riceveva notizie e quanto tempo era passato dalla
partenza.
Una lettera colpì profondamente Francesco; al suo interno il padre aveva espresso
tutto l’amore per Sofia, l’amore per la vita, l’unione spirituale tra i due, la nostalgia di
rivedersi e i giorni che sembravano eterni... questi sentimenti erano più forti della
voglia di combattere valorosamente.
Quando aveva saputo che la moglie era incinta le aveva subito scritto che non era
riuscito a trattenere le lacrime, aveva pianto di felicità, e che non vedeva l’ora che
finisse quella terribile guerra per vivere la sua vita assieme alla donna che amava.
Francesco aveva gli occhi che brillavano per la commozione; quelle lettere avevano
colpito profondamente il suo animo e iniziò ad immaginare il momento in cui suo padre
ritornò finalmente a casa, un momento intenso, colmo d’amore, con tanta voglia di
vedersi, di abbracciarsi...
All’interno delle lettere era descritta anche la dura vita che quel povero uomo doveva
trascorrere nelle trincee; con i suoi occhi aveva visto i suoi compagni morire ad uno ad
uno, la sua anima era come congelata perché temeva di soffrire se si fosse
affezionato troppo alle persone nel vedere il loro dolore. Preferiva pensare a
sopravvivere aspettando il giorno del ritorno. Le trincee erano delle cave, delle fosse
nella terra dove i soldati combattevano, dormivano, insomma trascorrevano la loro
vita. Era riuscito a sopravvivere, era riuscito ad evitare più volte il fuoco nemico, ma la
sua esistenza non era felice....
- La vita è difficile qui- scriveva alla sua Sofia- si ha sempre paura di morire, di
trovarsi faccia a faccia con nemico. Si vive col sangue raggelato, patendo la
fame; molti soldati cedono anche per le condizioni dure da sopportare.
In ogni lettera di Alessandro venivano descritte queste situazioni e questo suscitava
in Sofia emozioni contrastanti. Una felicità amara. Era felice perché con l’arrivare
delle lettere capiva che il suo amato era ancora vivo, ma poi subentrava la paura e la
sofferenza. Anche lei soffriva insieme a lui.
L’alba e il tramonto sembravano distanti anni, i giorni non passavano mai, per non
parlare dei mesi...
All’improvviso Francesco sente Clara che lo chiama:
“ Papà”- squillò la voce armoniosa della fanciulla.
“dimmi Clara”- riuscì a rispondere il padre ancora visibilmente commosso.
“Hai trovato la canna da pesca?”
“no, ma sta tranquilla, ora scendo”- la rassicurò lui.
“Va bene”.
Francesco prese le lettere, ne infilò un paio nella tasca della giacca, posò le altre
nell’armadio e scese.
Abbracciò la figlia e insieme si sedettero sul divano. Quel giorno non andarono più a
pesca. Francesco volle condividere con lei quel turbine di emozioni che aveva provato e
raccontarle la bellissima storia della sua famiglia.
Lettere...oggetti dimenticati, sottovalutati, spesso ritenuti insignificanti... ma le
parole incise su di esse lasciano il segno, hanno un valore inestimabile, hanno la
capacità di rimarginare ferite, di suscitare profonde emozioni. A volte ci fanno
riflettere, ma soprattutto fanno rinascere in noi la speranza, le illusioni nella vita,
nell’amore...
La via dell’amore è qualcosa di infinito, è l’unica strada da percorrere nel corso della
vita, altrimenti nulla ha senso. Spesso ci sono delle curve, che però si possono
superare, anche quando la vita ci allontana. Star lontani da una persona non vuol dire
che la si ami di meno. A volte questo te la fa amare ancora di più.
La penna stilografica
Oggi, venerdì 27 Maggio, pomeriggio di una
giornata bellissima, i raggi di sole penetrano
dalla finestra e illuminano il mio bellissimo
studio. Sto preparando il mio prossimo
racconto e fra un po’ dovranno arrivare i
miei colleghi per concludere un vecchio affare. All’improvviso ho sentito un rumore e
mi sono avvicinata alla finestra: era solo il rumore di un clackson. Mi allontano dalla
finestra e mi accorgo che il cassetto della scrivania che avevo appena preso dalla casa
di mio padre era aperto; mi sono avvicinata e ho rovistato tra tutte le mie cartacce e
ho trovato una bellissima penna stilografica. Rossa, molto sottile, ma non scriveva
molto bene.... forse stava lì dentro da troppo tempo. Ah, chi lo sa a chi è appartenuta
e quali storie ha scritto... Io sono sempre stata curiosa sin da quando ero bambina,
decido di scoprire di chi fosse quella penna e perché era lì. Sempre in quel cassetto ho
visto una pila di blocchi di carta che forse erano stati scritti proprio da quella penna,
così li prendo e li metto sul mio tavolo di vetro , pronta a leggerli tutti. erano proprio
dei bei racconti, scritti sotto forma di diario, o forse era un diario vero, quello di mio
padre. Non sapevo che mio padre vedeva così la vita , piena di sogni, speranze e idee
da condividere. Mio padre era un medico che adorava il suo lavoro. Una pagina in
particolare parlava della sua vita da medico . La pagina iniziava cosi “ superato ancora
una volta “. Questa frase mi ha colpito , è molto bella e mi fa molto riflettere sulla
sensibilità di mio padre . La pagina parlava del giorno 2 Ottobre , quando mio padre ha
assistito ad un intervento di chirurgia ad un signore malato di cuore. La pagina di
diario parlava delle sue sofferenze , e del fatto che non riuscì a salvarlo ; e si
chiedeva spesso quale fosse stato il suo sbaglio. La pagina di diario proseguiva con
delle specie di disegni professionali del corpo umano , cuori spezzati .... .La pagina era
molto significativa, quasi commovente e finiva anche con una bellissima frase: “La vita
è amore, coglila ; la vita è speranza, apprezzala; la vita è vita, amala”. Riguardando
altre pagine ho visto anche quello che pensava mio padre della nostra famiglia;
soprattutto scriveva molto di me: oltre al mio carattere insopportabile lui diceva che
sarei stata una persona importante dal punto di vista personale e lavorativo.
All’improvviso suonò il citofono; ”Oddio !” Erano i miei colleghi, allora posai il diario e
mi misi subito vicino alla mia scrivania polverosa facendo vedere che stavo lavorando
sull’ultima pratica. Saliti, io e i miei colleghi ci mettemmo a lavoro e inventammo un
nuovo racconto da leggere per tutti i bambini del mondo.
La forza dei ricordi
Mentre frugavo nei cassetti di mia nonna, vidi una scatola di colore rosa pallido e
aprendola trovai un album, che risaliva al 1949. Tra tutte quelle foto fui colpita da una
in particolare, in bianco e nero, con delle sfumature marroncine e molto rovinata. In
secondo piano, sullo sfondo, si intravede il golfo di Napoli, in primo piano mia nonna e
mio nonno che si baciano nel giorno del loro matrimonio. Mia nonna aveva vent’anni, mio
nonno ventiquattro, erano così giovani, eppure così innamorati. Mio nonno era un uomo
molto saggio, si chiamava Pasquale ed era innamoratissimo di mia nonna Maria, una
donna molto bella e intelligente. Si erano conosciuti durante la guerra, lui era un
partigiano, lei una maestra, e subito si erano piaciuti.
Hanno affrontato momenti difficili, come la fame e la miseria e hanno combattuto
insieme, per essere felici, fino al glorioso arrivo degli americani. Immersa in questi
pensieri continuavo a sistemare la biancheria intima nella mia nuova casa, una casa
antica e di famiglia, piena di ricordi e di affetti.
A quel punto entrò mio marito, prese la foto del nostro matrimonio e la mise a
confronto con quella trovata nel cassetto, la guardò per alcuni secondi, poi disse:
-tua nonna era davvero una bella donna, e tu le assomigli molto, non solo fisicamente,
ma anche caratterialmente.
Sono molto fiera di assomigliare a mia nonna, una grande donna di cultura.
Nonna mi ha raccontato tante volte la storia d’amore tra lei e il nonno, pur essendo
molto anziana e avendo l’ Alzheimer, non si è mai stancata di raccontare questa storia.
Mia nonna era nata in una famiglia contadina e raccontava, a me e a mio fratello che,
per andare a scuola doveva percorrere circa tre chilometri a piedi oppure rubava la
bicicletta di suo padre e quando tornava a casa, lui la scopriva e le faceva una
ramanzina, con tanto di schiaffi. Ma l’amore per la cultura era più forte, era disposta
a fare qualunque sacrificio.
Era un giorno come tanti, e lei era andata a comprare un tozzo di pane quando sentì il
suono dell’allarme che avvisava prima del bombardamento, la strada era piena di gente
che fuggiva, ma lei non sapeva che fare. Mio nonno la vide, sola e spaesata, e la salvò,
prendendola per mano e portandola in un nascondiglio sotterraneo di Napoli. Così si
conobbero. Il loro fu amore a prima vista. Il nonno le mandava molte lettere perché
non potevano vedersi tutti i giorni. Dal loro amore è nata mia madre. Sono molto fiera
di avere avuto accanto a me persone così forti; mi hanno insegnato molto. Se sono
diventata la persona che sono oggi devo anche dire grazie a loro per i valori che mi
hanno trasmesso.
Le perle dell’amore
Era una domenica del 1943, tutto era
buio ad Auschwitz.
Il cielo, come al solito, era scuro e
grosse nuvole grigie circondavano la
nostra vita.
Mi chiamo Emily, sono una ragazza di origine ebraica e per la società non conto nulla
per loro le persone come noi, le persone di questa razza, non devono vivere.
Sono stata strappata dai miei genitori, dalla mia casa, dalla mia camera, da tutto
quello che una ragazza di diciassette anni potesse desiderare e mi ritrovo qui, su un
treno, ignara del mio destino, di ciò che accadrà nella mia vita.
Con gli occhi pieni di lacrime guardo fuori dal finestrino, tutto scorre velocemente,
così la nostra vita.
Non sai se domani sopravviverai, non sai nulla, se costretta a vivere giorno per giorno,
con la speranza che un domani tutto questo possa finire, che ritorni la pace e che
questa guerra sia solo un brutto incubo, solo qualcosa da dimenticare e non rivivere
più.
Immersa nei miei pensieri, non mi accorsi che il treno si era fermato e la gente in fila
indiana e con la testa bassa scendeva accompagnata da un gruppo di soldati tedeschi.
Una volta scesa vidi una cosa bruttissima, una cosa che non avrei mai voluto vedere: su
quel treno si aprirono due porte, chi scendeva dalla parte sinistra era salvo, ma chi
scendeva da destra si ritrovava alla morte e non poteva più tornare indietro.
Non so chi fu a decidere il mio destino, ma per fortuna ero salva, e mi stavo dirigendo,
insieme a due uomini dall’aspetto indifferente a ciò che stava accadendo, in una
grande casa, nella casa in cui avrei vissuto almeno una parte della mia vita, in cui avrei
ricevuto tante botte, nel caso mi fossi comportata male.
Con grande coraggio entrai, avevo troppa paura, paura per la mia vita, per le persone
che avrei potuto trovare, per tutto.
Da una delle cameriere della casa venni portata in una stanzina piccola, contenente
solo un letto, una coperta e una finestra; quella sarebbe stata la mia stanza!
Mi tolsi il grosso pigiama a righe blu e bianco e indossai la divisa che mi era stata data,
una gonna ampia, di colore verde, che ricopriva tutte le mie gambe, e una camicia
vecchia, che probabilmente era stata usata anche dalle cameriere precedenti.
Indossai degli scarponi e legai da una parte i miei lunghi capelli castani con un
fermaglio ornato da fiorellini bianchi.; quello era il fermaglio di mia madre, me lo aveva
donato prima della mia partenza, affinché potessi ricordarla per sempre.
Era arrivato il momento, toccava fare la mia parte, con tutto il coraggio che avevo in
corpo scesi le scale di quell’enorme casa in cerca della cucina, ma rimasi immobile a
guardare le sue pareti, decorate da disegni, quadri, da colori antichi ma spettacolari,
assomigliava tanto alla mia vecchia casa, mi mancava così tanto.
Sbadata com’ero, andai a sbattere contro qualcosa, o meglio qualcuno, alzai la testa e
incontrai due occhi grandi, due occhi azzurri che mi guardavano con disprezzo.
Davanti a me c’era lui, David Ridolf, figlio del generale Robert Ridolf, e da quel
momento la persona che avrei dovuto servire per il resto dei miei giorni.
Il suo sguardo era freddo, agghiacciato, i suoi capelli erano biondi come i raggi del
sole che si intravedevano raramente nel cielo, la sua voce era indifferente a tutto, non
tradiva alcuna emozione, mi intimoriva, mi metteva paura.
Ma forse un po’ dovevo fargli pena, lo capii dal suo comportamento, da come mi ordinò
di andare via da quel luogo, che non potevo stare lì, che il mio unico posto era la cucina.
Da quel giorno per molto tempi non gli parlai più, lo vedevo di sfuggita, magari quando
servivo la cena o quando gli sistemavo dei vestiti.
Era strano il modo in cui mi trattava, anzi il modo in cui non mi trattava: picchiava
tutte, maltrattava tutte, tranne me. Anche se non avevo provato le sue botte, le sue
violenze, io lo sentivo, sentivo come soffrivano quelle donne, come piangevano, e non
capivo perché non lo facesse anche con me... io ero come loro: un puntino in mezzo
all’infinito.
Le mie domande trovarono risposta un mese dopo, quando dopo mille sguardi, mille
parole di troppo eravamo lì nell’immenso salone e non so come successe ma lui mi baciò
proprio mentre mi stava rimproverando per aver fatto cadere un secchio d’acqua. Non
so cosa scatenò quel bacio ma in quel momento tutto intorno a noi si annullò, non mi
interessava se era tedesco, se era mio nemico, quel bacio rimarrà sempre nel mio
cuore.
Da quel momento i nostri rapporti cambiarono, anche il suo atteggiamento iniziò a
migliorare, sembrava che quell’odiosa maschera che si portava dietro fosse sparita,
sembrava un’altra persona.
Cercava di convincere suo padre a smettere di fare del male, di dar vita ad un mondo
fatto di pace, ma suo padre non ne voleva sapere, continuava ad uccidere.
Una grigia mattina camminavo per le strade desolate di Auschwitsz e vidi una donna in
lacrime, seduta accanto ad un corpo esile, piccolo, sdraiato a terra sulle strade umide
e con un ginocchio ricoperto di sangue. Mi fermai accanto loro e rivolgendomi alla
donna le chiesi: “signora, cosa è successo?”.
Singhiozzando mi rispose: “ l’hanno picchiato, i tedeschi, sono stati i tedeschi, il figlio
del generale Ridolf!”
A quelle parole il mio cuore sembrò essersi spento, lui non era cambiato davvero, aveva
usato di nuovo la violenza contro di noi...
Come avevo potuto pensare che uno come lui potesse cambiare per una come me? Mi
ero solamente illusa.
Cercando di non pensarci aiutai quel bambino e la sua mamma, cercai di medicarlo, di
ricordare gli insegnamenti di mio padre, che era un buon medico.
Dopo quello che aveva fatto non volevo parlargli più, non volevo aver niente a che fare
con lui; infatti non gli parlai per tutta la giornata, mi vergognavo di me stessa per
essermi fatta convincere da uno come lui.
Passavano i giorni ed io non riuscivo ad abituarmi alla sua assenza, in poco tempo era
diventato davvero importante per me.
Non so cosa lo spinse a farlo, non so neanche perché lo fece ma un giorno, non ricordo
con precisione la data... lì il tempo sembra davvero non passare mai , mi si avvicinò e mi
disse: “ So che non vuoi ascoltarmi, so che adesso non valgo nulla per te, ma ti prego
lasciami spiegare, sei l’unica persona che è stata in grado di cambiarmi, lo so ho
sbagliato a fare del male a quel bambino ma ora ho capito il mio errore e non lo
commetterò un’altra volta. oggi voglio donarti una cosa, una cosa a me molto cara, la
collana di mia madre.”.
Non riuscivo a crederci, mi aveva donato una cosa molto importante per lui: era una
splendida collana sottile, con delle perle bianche ed al centro un grande ciondolo
argenteo a forma di cuore. Era bellissima e adesso brillava attorno al mio collo.
“Vorrei che tu mi raccontassi la storia di questa collana, ho tutto il tempo che vuoi”,
gli dissi.
Al sentir pronunciare queste parole i suoi occhi si illuminarono e iniziò a raccontarmi
la storia di quel piccolo ma prezioso gioiello.
“Questa collana è molto importante per me, e adesso voglio che lo diventi anche per
te. Mi è stata regalata da mia madre, voleva che la regalassi alla ragazza che mi
avrebbe fatto battere il cuore. Ecco perché oggi voglio darla a te perché mi hai fatto
capire cosa è importante e cosa no, perché mi hai fatto capire che il potere e i soldi
non valgono nulla se vengono usati per fare del male e non del bene, perché mi hai
fatto capire cos’è l’amore. Mia madre sarebbe stata molto contenta della mia scelta,
me l’ha consegnata prima di morire e per tanto tempo l’ha custodita in un cassetto
della mia camera, nessuno sapeva della sua esistenza. Le era stata regalata da suo
padre quando aveva appena quindici anni; suo padre era l’uomo più importante della sua
vita, con lui aveva un rapporto unico, speciale...vuoi che continui o forse non ti
interessa? Magari non vuoi saperne niente...”
“ No, no assolutamente! Raccontami tutto. Mi interessa tantissimo. Tutto di te mi
interessa” gli dissi tranquillamente. Sembrava diverso, così fragile, così dolce.
“ D’accordo, allora, mio nonno era l’unica persona in grado di capirla e la proteggeva da
tutto e tutti. Aveva acquistato la collana durante un suo soggiorno a Roma, prima della
guerra in un negozio antico in cui c’erano tantissime collane tutte diverse e
preziosissime. lui scelse la più bella , la più fine, per regalarla alla figlia, la persona più
importante della sua vita, l’unica cosa bella che le fosse rimasta dopo la morte
prematura della moglie, l’unica gioia in una vita piena di tristezza e sofferenza. Questa
è la motivazione per cui voglio darla a te, perché per me sei diventata speciale in così
poco tempo e in un momento così difficile. Questa guerra ci sta facendo diventare
tutti delle bestie dimenticando che invece siamo esseri umani.”
Mentre ascoltavo il suo discorso lo guardavo negli occhi e in quel preciso istante ho
capito che persona era, si era tolto finalmente la maschera mostrandomi la sua vera
umanità. E questo aspetto mi piaceva.
Conoscendolo, una cosa ho capito, che l’amore non guarda le diversità, il colore della
pelle, le diverse radici da cui proveniamo. L’amore agisce e basta. E non aspetta altro
che essere vissuto.
Un biglietto abbandonato
Oggi è una giornata veramente faticosa, perché la
prof di tedesco ha assegnato molti compiti e ci sono
tante parole che non conosco, ma mi ricordo che
mio nonno aveva un dizionario, allora decisi di
andare a chiedere a mia madre dove fosse.
“E’ sullo scaffale in alto a destra, nella libreria che si trova nello studio”
La stanza era piccola ma molto accogliente, c’erano libri ovunque!
C’era una piccola finestra che faceva entrare nella stanza un po’ di luce , le tende di un
bellissimo rosa antico, fatte in seta. Mamma prese uno sgabello e mentre stava
prendendo il dizionario, perse l’equilibrio.
Così il dizionario cadde ed insieme a lui anche un biglietto .
Il biglietto era ingiallito e un po’ consumato dal tempo, ero incuriosita, così decisi di
aprirlo.
Notai una calligrafia bellissima , mi sedetti sulla poltrona e accesi la lampada.
“14/02/1899 mio carissimo amore è da un bel po’ di tempo che non ci vediamo né
sentiamo. Comunque ti volevo dire che mi manchi da morire e non vedo l’ ora di
rivederti. Ho pensato tanto a noi due e mi mancavano i tuoi baci, le tue carezze, il tuo
sorriso, il tuo sguardo, le tue battute molto divertenti insomma mi manca un po’ tutto,
ti volevo dire anche che amo anche i tuoi difetti.
Senza di te mi sento come se la mia vita non avesse senso, mi ricordo anche quell’
episodio in cui ci siamo visti per la prima volta: stavamo al mare io mi allontanai dalla
spiaggia e andai sugli scogli, poi arrivasti tu e i nostri sguardi si incrociarono.
Era amore a prima vista e io feci di tutto per conoscerti, tesoro mio, e da quel
momento non ci separammo più.”
Uff! il foglio è sbiadito…era solo a metà. Ah dimenticavo che dovevo finire di fare i
compiti di Tedesco, ma è stato molto divertente leggerlo, e ho scoperto che era stata
mia nonna a scriverlo al nonno. E’ stata la giornata più bella che ci possa mai essere
però ora devo scendere prima che mia madre mi urli che non ho finito ancora i compiti
quindi ora mi conviene posare e tutto e studiare.
Sogni di sposa
Mi chiamo Ichigo Momomiya ed ho quasi sedici
anni. Non so molto di me, della mia storia né dei
miei genitori; si chiamavano Shintoro Momomiya e
Caterina, neanche il suo cognome ricordo.
Quello che so di me è che mi sono trovata l’estate
di dieci anni fa sdraiata su un pavimento duro e
freddo di un orfanotrofio.
La signora che lo dirigeva era sempre molto gentile
con me, bastava che il mio nome venisse pronunciato
e i suoi occhi si illuminavano di tenerezza; quando le
chiedevo il perché mi rispondeva che le ricordavo tantissimo una persona che le stava
molto a cuore, ma non ha mai voluto dirmi chi fosse.
Io ero per metà giapponese e per metà italiana.
Nell’orfanotrofio avevo conosciuto tantissimi ragazzi, con loro mi trovavo bene,
eravamo tutti accumunati dal desiderio di sapere qualcosa in più sui nostri genitori.
Alcune volte salivo su in camera e, osservandomi allo specchio, provavo a immaginare in
cosa assomigliassi ai miei genitori; ero abbastanza alta, circa 1,70m , avevo i capelli
lunghi, rossi e mossi, gli occhi colore cioccolata e le labbra rosse e carnose.
Di giapponese non avevo niente e questo mi spingeva a non ricordare nulla di mio padre.
Una settimana prima del mio sedicesimo compleanno, chiesi alla signora Elyson se
potevamo organizzare una festicciola. Lei mi sembrava quasi commossa, mi comprò un
bel vestito di seta, di color azzurro cielo, addobbò l’orfanotrofio per l’occasione, con
tanti striscioni e fiori colorati.
Avevo legato due ciocche di capelli dietro la testa con un fermaglio rosa antico. Mi ero
leggermente truccata, un leggero velo di fondotinta, un po’ di ombretto color cielo,
mascara, un tocco di fard ad illuminare le guance e rossetto rosso.
Uscii dalla stanza ed entrai nella sala, dove tutti i miei amici corsero ad abbracciarmi
e a farmi gli auguri. Vidi il mio miglior amico Leonardo, per tutto semplicemente Leo;
correre verso di me.
Mi prese in braccio e cominciò a farmi girare:
- “ Tani auguri, sedicenne!”-
- Grazie, Leo, davvero-
- Tieni, è una cosa per te, spero ti piaccia!-
- Dai, Leo, ma non dovevi...”
Mi porse un bellissimo pacchetto e quando lo aprii trovai una meravigliosa collana di
perle. Subito ringraziai e lo abbracciai.
All’improvviso sentii bussare alla porta, la signora Elyson entrò, seguita da un ragazzo
biondo con gli occhi azzurri, alto.
-Ragazzi, lui è un nuovo arrivato-
-molto piacere, mi chiamo Ryan Shorogane, vengo dall’America.
Il nuovo ragazzo strinse la mano a tutti poi, quando si accorse che era la mia festa di
compleanno, sorrise.
-E’ la tua festa?-
-Veramente sì, compio sedici anni, ma sono qui da quando ne avevo solo cinque.- e
abbasso la testa per evitare di piangere, perché si sa, ricordare il passato fa male....
-Mi dispiace, io ho perso i genitori a otto anni; sono nove anni che passo da un
orfanotrofio all’altro e adesso sono qua.
-Mi dispiace- risposi io confusamente, cercando di nascondere l’imbarazzo.
Scrollò le spalle. gli porsi la mano.
-Io mi chiamo Ichigo, tu Ryan, giusto?-
-Sì, è bello il tuo nome, significa fragola.-
-Anche il tuo è molto bello-
-Grazie, comunque, auguri.-
Sorrisi in risposta.
Alla fine della festa lo invitai a salire in camera per conoscerlo meglio, dopotutto
avevamo delle cose in comune. Salimmo e ci sedemmo accanto alla scrivania, così da
poter parlare tranquillamente.
-Allora, Ichigo, perché non mi racconti qualcosa di te?- mi chiese visibilmente curioso.
-Guarda che non c’è niente da dire su di me, la mia vita non è molto interessante, e poi
non mi piace molto parlarne.- risposi io leggermente seccata.
- E chi ti ha detto che devi parlare della tua vita? Raccontami cosa ti piace, ad
esempio- mi tranquillizzò lui dolcemente.
- Mi piacciono i fiori, la musica, le opere d’arte, mi piacciono le opere d’arte, mi
piacciono le culture diverse e spero un giorno di poter visitare il mondo. E poi mi piace
leggere, scrivere ed amo i vestiti da sposa.
- Tutti i vestiti da sposa?-
- Certo, credo che ogni uomo aspetti la sua sposa. E invece a te cosa piace?- provai a
chiedere.
- Mi piace conoscere, imparare. Mi piace fare sport. Spesso amo stare da solo perché
da soli si pensa meglio. Amo la vita più di ogni altra cosa-
Quella sera ci lasciammo così, come due ragazzi che avevano appena cominciato ad
abbattere i muri che si erano costruiti da una vita.
Col tempo avevo capito che avevo sempre aspettato una persona come Ryan. Lui mi
completava, era la metà perfetta di me.
Dopo quella chiacchierata avevamo cominciato a conoscerci, le prime uscite
dall’orfanotrofio, il primo bacio.
Era successo in un parco pieno di fiori, seduti sul bordo di una fontana. Lui mi aveva
dichiarato il suo amore, mi aveva detto che da quando mi aveva conosciuta aveva
ripreso a vivere. Ci siamo detti che ci amavamo e poi ci siamo baciati. Ho sentito mille
fuochi d’artificio esplodermi nella testa, ho sentito la vita vera scorrermi nelle vene.
Poi accadde una cosa che non mi sarei mai aspettata il giorno del mio diciottesimo
compleanno....
Avevamo appena fatto una passeggiata e, accanto ad un lago, mi aveva chiesto se
volevo diventare sua moglie, in modo da poter vivere liberamente il nostro grande
amore. Io, pur essendo molto giovane, avevo accettato felice. Dopotutto
nell’orfanotrofio non volevo più starci, quel posto sapeva troppo di tristezza.
Bussammo alla porta della signora Elyson e, mano nella mano, entrammo.
- Ditemi ragazzi- lei ci fece entrare sorridendo come al solito.
- - Ecco, io- iniziai- c’è una cosa molto importante di cui vogliamo parlare con te.
- Noi vorremo...-continuò Ryan-... vorremo sposarci.
La signora Elyson si alzò in piedi e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
- La mia bambina è diventata grande-sussurrò lei. La vidi frugare in un grande
armadio e prendere un baule. Si sedette di fronte a noi e aprì il baule: c’era una
foto, una lettera e un abito da sposa.
- I tuoi genitori mi hanno detto di darteli quando saresti stata abbastanza
grande- disse e sul suo volto si leggeva la profonda commozione.
Presi la foto e scoppiai a piangere.
- Tu li conoscevi?- le domandai, mentre lei mi accarezzava i capelli.
- Certo che li conoscevo, piccola mia, tua madre era mia sorella-
Sentii un groppo alla gola e le lacrime bagnarmi il viso.
- Perché non me lo hai mai detto?-la scansai, mentre sentivo Ryan stringermi.
- Perché tu eri troppo piccola e non ne avevo il coraggio. Puoi leggerla se vuoi.-
disse porgendomi la lettera.
La presi e cominciai a leggere.
“Grande amore di mamma e papà,
credo che adesso tu sia già grande, magari stai per sposarti.
Sappi che tu non sei una ragazza come tutte le altre. Tu sei Ichigo Momomiya,
principessa dell’Impero giapponese. Forse adesso odierai questo titolo, perché è stata
la ragione delle sofferenze mie e di tuo padre. Ma io sono sicura, piccola mia, che
saprai portarlo con onore.
Ti amo piccola mia.
Con amore, la tua mamma
Caterina Piemontesi”
Ora mi sto sposando con questo vestito ampio e bellissimo ritrovato nel baule, mi sto
avviando verso una vita felice, una vita che per me avrebbero voluto i miei genitori.
Il giorno delle nozze , indossando l’abito da sposa della mia mamma l’ho sentita vicina
come non mai e sono stata finalmente felice.
Le chiavi
Un giorno d’estate molto soleggiato io e Jack
andammo in campagna a casa del nonno.
Una volta arrivati ricevetti la splendida notizia: mi
aveva fatto un regalo: una collana con una chiave a
forma di cuore; invece a Jack un braccialetto con i
teschi come piace a lui.
Da quel giorno ne sono molto affezionata, non me la tolgo mai, neanche quando dormo.
Ritornai a casa del nonno in autunno con tutta la mia famiglia. Mi divertii un mondo
buttandomi nelle foglie o cercando posti misteriosi da scoprire; fu così che trovai in
un cassetto della scrivania dello studio del nonno una chiave che aveva la forma uguale
alla mia. Andai dal nonno e gliela feci vedere. Lui mi disse che la mia l ‘aveva comprata
dal signor Matteo, quello che aveva il negozio di collane. Quella chiave mi fece
mettere subito all’opera. Controllai in tutta la casa se ci fosse uno scaffale chiuso che
non si poteva aprire che corrispondesse a quella chiave. Ne trovai due ma non si
aprivano con la chiave in mio possesso. Ad un tratto sento la voce del nonno che mi
dice: “Noemy, vieni su, dai, sei stata tutto il giorno alle prese con quella chiave!”.
A dire la verità mi ero proprio dimenticata che dovevo andare al laghetto con Jack e il
nonno. Allora dissi: “ Nonno, arrivo.”.
Scesi velocemente le scale e su una porta del muro coperta a malapena da un quadro
trovai una fessura che mi incuriosì. Mi fermai un attimo a guardarla, mi ricordava
qualcosa… ma dovetti scendere.
Andammo al laghetto per tutto il pomeriggio; erano le sette e mezza quando io e il
nonno tornammo a casa. Di corsa vado a vedere il quadro, lo tolgo dalla parete e nella
fessura inserisco la chiave e… come per magia…si apre una porta e si intravede un
lungo corridoio.
Visto che era ormai ora di cena, tolsi la chiave, la porta si chiuse , rimisi il quadro a
posto e andai a mangiare. Il giorno dopo subito corsi ad aprire la porta ma ancor prima
di arrivare inciampai e rotolai fin giù lungo tutta la rampa di scale. I miei genitori e il
nonno accorsero ed io piangendo tenevo la mano sulla gamba, dovetti andare
all’ospedale dove mi fecero una radiografia. Avevo una distorsione alla caviglia che mi
costrinse a rimanere a riposo a letto per giorni. Intanto io pensavo al passaggio
segreto a dove mi avrebbe portato, a cosa avrei potuto trovare... aspettai con
pazienza di guarire e organizzavo quello che avrei dovuto fare. Quello era il mio
segreto più importante. Aspettare stava diventando sempre più noioso ma giunse il
giorno tanto desiderato, il 7 Agosto, quando finalmente potetti scendere dal letto . Il
mio primo pensiero fu di esplorare il mio angolo segreto. Ero organizzatissima, avevo
zaino con dentro panini, una bottiglia d’acqua, una torcia.
Dissi con una scusa che ero stata invitata a pranzo da Cristin, la nostra vicina, ed
intrapresi il mio cammino. Più mi addentravo nel passaggio segreto, più esso diventava
buio, allora presi la torcia per farmi luce e mi ritrovai nello scantinato; vidi davanti a
me un baule, grande , di legno pesante, che mi incuriosì moltissimo. Provai ad inserire
l’altra chiave e si aprì. Al suo interno c’era un peluche, una foto e un vestitino. Ma chi
sarà la persona della fotografia? E quel peluche era proprio di quella bambina
ritratta?
Presi tutte quelle cose e tornai indietro correndo dritta al nonno. Mi raccontò che
quella era mia zia , morta a due anni per un problema al cuore. Rimasi sconvolta da
questa notizia. Nessuno me ne aveva mai parlato. Nel baule avevo trovato anche una
scatola con dentro un anello molto bello. Era della nonna. Era accompagnato da un
biglietto ed era indirizzato a me. C’ era scritto: “Piccola Noemy, nonna ti vuole tanto
bene, ti lascio questo anello, simbolo della nostra famiglia. Me lo ha regalato la mia
nonnina quando ero poco più di una bambina e adesso io lo dono a te.
Conservalo gelosamente. Sei il mio angelo. Mi ricordi tantissimo la mia piccola Anna,
che è volata in cielo. Con affetto, la tua nonna.”
Mentre leggevo pensavo che sarebbe stato bello poter rivedere mia nonna una sola
volta ridere, il suo volto sorridente era molto bello. Il nonno mi raggiunse nello
scantinato e mi mostrò tutto. Lì c’era proprio il paradiso della nonna, tutti i suoi
vestiti di quando era giovane i ricordi di una vita. Lì c’era lo spirito della nonna.
Un legame speciale
Giovedì , 5 Febbraio
Caro diario,
sono passati già due giorni ma ora ho finalmente deciso di raccontarti una piccola
avventura che ho vissuto due giorni fa...
Sono felice per questa esperienza perché ho ritrovato degli oggetti appartenuti
ai miei genitori, che purtroppo ho perso quando avevo tre anni.
Martedì scorso ho deciso di andare a fare un giro nella mia vecchia casa, ormai
lasciata piena di ragnatele e polvere.
Con un po’ di esitazione entrai e mi diressi verso il salone. Era buoi lì dentro, con
le finestre chiuse e le pesanti tende tirate ed io decisi di farmi luce con il
cellulare. In un angolo della stanza vidi degli scatoloni, dei libri sugli scaffali e
una piccola scatola che attirò subito la mia attenzione. Ero molto curiosa e decisi
di aprirla, mi avvicinai e girai la chiave... era piena di lettere, libri e tante altre
cose e, in fondo a tutto, una foto bellissima dei miei genitori il giorno del loro
matrimonio.
La guardai attentamente non riuscendo a distogliere lo sguardo, poi la misi nella
mia borsa, felice della mia scoperta.
Dopo aver rivisto ogni angolo della mia casa ... della mia passata vita, nonostante
i ricordi siano fin troppo sbiaditi dal tempo o forse ero troppo piccola perché le
cose rimanessero impresse nella mia memoria, ritornai a casa di mia zia, la donna
che si era presa cura di me e con cui vivevo. Eravamo a tavola quando le feci
vedere la foto e tra le lacrime ci abbracciammo.
Penso che l’emozione che ho provato guardando quella foto sia unica; rivedere i
volti dei miei genitori dopo la loro morte mi ha reso felicissima.
Ora la foto è in camera mia, vicino al mio letto, così da poterla vedere quando
voglio e, se ne ho voglia, posso parlare con loro e confidare i miei pensieri e le
mie paure. So che mi ascolteranno e guideranno ogni mio passo.
A domani,
Hazel
P.S.
Anche adesso sto guardando quella foto e non riesco a trattenere le lacrime, ma
sarò forte, so che mi proteggeranno e, anche se mi mancano, li sento qui vicino a
me.
Un video pieno di ricordi
Era in 4 Marzo del 2007, una
giornata di pioggia. All’ uscita da
scuola la pioggia divenne sempre più
forte, si sentiva scrosciare sulla
strada e sulle automobili in transito.
Come al solito aveva dimenticato
l’ombrello, per cui decise di correre a casa con i libri in mano. Ma proprio dopo aver
girato l’angolo si scontra contro qualcuno e cado a terra facendo scivolare sull’asfalto
tutti i fogli e i suoi libri.
Era un ragazzo.
-scusa, non ti avevo visto...- disse lui imbarazzato.
-oh.... ehm, non fa nulla, scusami tu... stavo correndo e...
-ma no, io dovevo fermarmi; ora ti aiuto.- la aiutò a sollevarsi ed a raccogliere le sue
cose sparpagliate a terra.
- Grazie, comunque piacere, mi chiamo Alyson, e tu sei?- fece cenno di presentarsi.
- Piacere, Harry.... -non riuscì ad aggiungere altro, ma intanto dentro di sé pensava “ è’
stupenda, che bel sorriso che ha”- beh, adesso vado, spero di rincontrarti-
- mi farebbe piacere, se vuoi ti do il mio numero- disse sfrontatamente lei
-oh, sì, magari-
-Bene, ecco a te.... ci vediamo, ciao!
Tornata a casa si lavo e si sistemo per il pranzo ma la mente ritorna sempre al ragazzo
incontrato poco prima. Il desiderio di mandare un messaggio è fortissimo ma cerca non
fare il primo passo. In quel momento un trillo del telefonino. C’è posta per te... sta
dicendo. Sì, è arrivato un messaggio di Harry. “cosa fai?” “ mi preparo per il pranzo”
“se ti fa piacere ti contatto dopo i compiti” “ per me va più che bene”
“allora a dopo”
Posò il cellulare e dopo pranzo, verso le 15,30, Alyson iniziò a studiare letteratura
immergendosi negli studi fino alle 18:00, si buttò sul letto, stanchissima. Dopo una
bella doccia calda decise di contattare lei Harry
-Hey, Harry
-Ciao Alyson, che mi dici?
-Oh, niente di che, ho passato tutta la giornata a studiare e sono esausta!-
-Mi dispiace, Aly-
-Aly? Mi chiamo Alyson- disse un po’ irritata. Nessuno l’aveva mai chiamata così, in
modo confidenziale.
- Ti posso chiamare Aly? Ti prego. -chiese lui con un filo di voce.
-mhhhh... va bene, ci sentiamo più tardi.
È ora di cena e decise di preparare una fetta di carne con patatine fritte, e di
mangiarle davanti alla tv.
Ore 21,30. Infilò il pigiama prendendo anche un plaid morbido e caldo.
-Non so cosa fare, mi annoio- pensava Alyson, poi le venne un’idea: guardare un film
con una scodella di popcorn.
Passò alla scelta del film, prese in mano la pila di CD e notò subito un disco senza nome
e la curiosità la assalì-
Preparò i popcorn, inserendo il cd nel lettore dvd. Subito partì una canzone che lei
conosceva molto bene, l’aveva sentita canticchiare tante volte alla sua mamma. Subito
dopo apparve sullo schermo un’immagine dei suoi genitori: il video è pieno di foto e
ricordi. Una in particolare di loro due sotto l’ombrello. Il viso di Alyson si riempì di
lacrime ma erano lacrime di felicità.
Sono le otto ed Alyson non è ancora andata a scuola, la sera prima è andata a letto
tardissimo per vedere tutto il video. Si prepara e senza fare colazione e corre a
scuola.
Passa le sei ore scolastiche a pensare a quelle foto, quindi, finite le lezioni, all’uscita
da scuola si mette da parte seduta su una panchina, finché non vede un’ombra di
fronte a lei, alza la testa e vede Harry.
Le chiese come mai fosse lì da sola e si propose di accompagnarla a casa. Accettò
volentieri; iniziarono a parlare di tutto e lei gli confidò che aveva avuto una giornata
strana. Si sentiva a suo agio a parlare con lui, come se lo conoscesse da sempre. Poi lui
le chiese di uscire. Un appuntamento! Fantastico! Si misero d’accordo per andare a
mangiare una pizza verso le 19,15.
Arrivata a casa , preparò un panino e lo mangiò, mettendosi subito a studiare finché i
pensieri non la riportarono da lui. “sono stanca, ma ho voglia di uscire con Harry, mi
ricorda la storia di mamma e papà”. Scelgo con cura i vestiti, un abitino non troppo
lungo, diciamo moderno, un cardigan e delle ballerine. Decido di non legare i capelli e di
truccarmi in modo leggero.
Una volta pronta, aspetto Harry, sentì il suono del campanello e guardò l’ora. È in
perfetto orario..., penso felice. Aprì la porta e lo vide, con i suoi ricci e gli occhi verdi,
un pantalone nero con maglia bianca e giacca sopra. Sorridendo lo strinse in un
abbraccio.
- Aly, sei stupenda- le disse dolcemente.
A queste parole si fece tutta rossa e non riuscì a rispondere nulla. Dopo aver preso
giacca e borsa uscirono, mentre lui la prese per mano. Arrivarono in un ristorantino
semplice ed accogliente, si sedettero a tavola pensando a cosa ordinare.
Sorridevano entrambi. Ordinarono delle pizze e intanto iniziarono a parlare.
-Allora, io ti piaccio?- chiese lui prendendola alla sprovvista.
-Ehm- rispose lei arrossendo- ti trovo un ragazzo fantastico.
-Anche tu lo sei- rispose sorridendo ancora.
Alla fine della cena decisero di fare un giro al parco e prendere un gelato.
- Volevo chiederti una cosa...- sussurrò lui all’orecchio stringendo più forte la sua
mano.- tu mi piaci e...
Ma finì la frase baciandola con dolcezza. Lei si abbandonò a quel bacio inaspettato.
- Scusa non dovevo, sono stato troppo precipitoso.... i-io...- balbettò lui .
- No, tranquillo, mi è piaciuto- lo rassicurò
Ridendo ripresero a camminare. Ripensò alla foto dei suoi genitori, anche loro a
passeggio d’inverno proprio come stava succedendo a lei.
- Spero di poter uscire di nuovo con te, magari non come amici- disse lui
abbassando lo sguardo, imbarazzato.
Appoggiò la testa sulla sua spalla e le sembrò di essere su una nuvola. Lui la
riaccompagnò a casa e sulla soglia della porta si chinò a baciarla sfiorandole le
labbra. Si salutarono così, dandosi appuntamento all’indomani. Nella testa di Alyson
una tempesta di emozioni, un fluire di pensieri scorreva ininterrottamente e,
immersa in queste dolci sensazioni si addormentò felice.
Lettere dal fronte
Voglio raccontarvi di come ho trovato una
vecchia lettera di un mio antenato. Era un
giorno come tutti gli altri quando mi resi conto
che una trave di legno del mio pavimento era
più alzata delle altre, la staccai e trovai una
busta con dentro delle lettere. Presi una delle prime e la lessi:
ottobre 1915
“Cara Carla,
non vedo l’ora di tornare a casa ad abbracciarti fortissimo. Forse questa guerra
durerà ancora a lungo, spero di no, perché voglio tornare presto a casa da te. Antonio
si è fatto grande? Dovrebbe avere più o meno tre anni. Ho tante cose da dirti ma
forse non te le potrò dire. Vorrei raccontarti le mie giornate, la paura, la sofferenza
delle lunghe marce, gli spostamenti delle truppe, la fame. Ora sono in sul fronte del
Carso, la gente qui ci hanno accolto bene, ma la guerra sulle montagne è dura. Il
freddo, la neve sono insopportabili. A volte sento i piedi ghiacciati e cerco di
riscaldarli in ogni modo. anche il pane spesso diventa così duro che non riusciamo a
tagliarlo col coltello. Di notte, poi, gli assalti dei nemici e le bombe e il suono delle
mitragliatrici ci lascia tutti con il fiato sospeso fino alle prime luci del mattino. Non ho
mai sentito prima d’ora un bisogno così forte di scriverti e di raccontarti la mia vita. “
Antonio
Dopo quel ritrovamento decisi di cercare un po’ di informazioni su questo mio
antenato, uno zio di mia madre, che avevo sentito varie volte nominare come uomo di
grande coraggio e amore per la patria.
Andai dritto da mia madre, che mi parlò un po’ di lui: era un giovane ufficiale, un
ufficiale di complemento al tempo della guerra, ed era partito come volontario sul
fronte austriaco come tanti altri giovani della sua età. Aveva ventidue anni, era
sposato ed aveva un figliolo. All’inizio aveva creduto che la guerra fosse una cosa
buona, che fosse necessaria per completare l’unificazione dell’Italia. Credeva che
fosse dovere di ognuno combattere per il valore della Patria e l’indipendenza dallo
straniero. All’inizio le sue lettere erano piene di racconti di scene di vita quotidiana
nei campi militari, parlavano dei soldati che scherzavano e suonavano allegre canzoni,
ma poi tutto cambiò. La guerra lampo era diventata una logorante guerra di posizione.
I soldati dovevano scavare lunghe trincee e nascondersi dal fuoco nemico, ma la cosa
più terribile erano le nuove armi chimiche, che uccidevano tanti soldati asfissiandoli.
Ad una ad una le lettere mi mostravano la mostruosità di un conflitto senza fine,
fatto di attese e di giorni che durano un’eternità seguiti da istanti di puro terrore,
dove potevi trovarti accanto a cadaveri di compagni o feriti gravissimi da aiutare.
Quelle lettere erano piene di sofferenza e rimangono una chiara testimonianza del
fatto che la guerra sia sempre causa di dolore. Capii che alla fine non esistono
vincitori e vinti. La guerra miete vittime da entrambe le parti. Anche il mio antenato
non tornò più a casa, rimase lì tra quelle montagne, riconosciuto solo tramite la
targhetta che aveva al collo e la foto di famiglia che portava sempre con sé.
L’abito da sposa
Mi chiamo Ella Edwards, sono una ragazza
forte e testarda e quando voglio posso
cacciar fuori il lato più brutto della mia
personalità.
Oggi, 16 luglio, sto per sposarmi con la
persona che mi ama da anni; indosso un
abito bianco panna, stretto sui fianchi, che si allarga all’altezza del ginocchio. Ho
aspettato una vita per indossarlo, eppure mi sento triste e felice nello stesso tempo.
Questo vestito che mi riempie di gioia fa riaffiorare nella mia mente tanti ricordi.
Dentro me stessa sento che sto per commettere un enorme sbaglio.
Mentre mi preparo, mi guardo allo specchio e vedo una persona cresciuta e maturata,
forse so di chi è il merito, di una persona conosciuta anni e anni fa. Ero molto giovane
quando lo vidi per la prima volta; io e mia madre ci eravamo appena trasferite in
un’altra città per andare a vivere con il suo nuovo compagno e il mio nuovo fratellastro,
un tipo scorbutico, estremamene antipatico.
Si chiamava Leo, il suo aspetto era quello di un principe, con grandi occhi azzurri, di un
azzurro scuro, quasi blu. Quando sorrideva metteva in evidenza il suo piercing al
labbro inferiore. Peccato, però, che di principe avesse solo l’aspetto.
Era un ragazzo a cui importava poco di innamorarsi, l’amore per lui non contava.
Usava le ragazze solo per gioco, per divertimento.
Anche io, appena diciottenne, non avevo intenzione di innamorarmi, stavo bene da sola
anche quando ero con gli altri.
Trascorrevo intere giornate sul letto con un paio di cuffie nelle orecchie, sperando
che quel rompiscatole non venisse a disturbarmi, come era solito fare. lo faceva per
tormentarmi un po’, poi mi diceva che quando mi arrabbiavo per lui ero “
tremendamente bella”.
Era Agosto, un pomeriggio assolato e afoso, la vigilia del mio compleanno, ed io lo
trascorrevo nel solito modo, sdraiata accanto all’enorme piscina, mi sentivo quasi una
star di Hollywood, con un’unica eccezione: avevo i compiti da fare! Ma preferivo
rimanere lì un altro po’. Trascorse così buona parte del pomeriggio, quando vidi in
lontananza il mio fratellastro scendere dalla macchina con una ragazza, probabilmente
la sua fidanzata di turno. Li vidi venire verso di me:
- Ciao gnometta, come vedo hai una vita molto entusiasmante.
- Ti odio- furono le uniche parole che uscirono dalla mia bocca. Il fastidio che
provavo per lui era così grande che in certi momenti avrei voluto picchiarlo.
Sperai vivamente che mia madre non mi avrebbe costretto ad invitarlo alla mia
festa.
La sera stessa decisi di andare con lei in un atelier per comprare un vestito da
mettere per l’occasione la sera successiva.
Dopo varie prove decisi di indossare un abito rosso, corto fino al ginocchio, scollato
dietro la schiena; non aveva molti particolari, ma era stupendo così. Quando uscii dal
camerino con quel vestito addosso trovai Leo seduto sulle poltrone con gli occhi
incollati su di me. Non capivo cosa avesse tanto da guardare. Quella sua espressione
da bravo ragazzo mi dava fastidio in una maniera esagerata. Rientrai in camerino per
cambiarmi e in quello stesso momento entrò Leo. Il ragazzo mi baciò con prepotenza,
provai ad allontanarlo e quando finalmente ci riuscii gli schiaffi non mancarono.
Fino all’ora di cena non riuscii a non pensare a quel bacio...era stato così
tremendamente orrendo.
Odiavo ogni genere di bacio, non ero una ragazza a cui piacciono tutte queste
smancerie e non capivo perché un ragazzo e una ragazza dovessero per forza baciarsi
per essere una coppia vera e proprio. Spesso in quei baci dati tanto per sembrare più
grandi non c’è amore, quindi diventano solo una presa in giro, uno stupido gioco.
La mattina del mio compleanno non ebbi tempo né voglia di pensare alla mia festa, non
c’era molto da festeggiare.
Avrei preferito rimanere una nanetta di otto anni. A quell’età non hai problemi, non
devi soffrire per amore, non devo preoccuparti di come vestirti o truccarti, devi
essere semplicemente te stessa. Purtroppo, però, non si può tornare indietro, anzi il
tempo passa troppo velocemente.
Arrivata l’ora della festa, andai in camera, mi misi davanti allo specchio e indossai
l’abito rosso tanto desiderato, misi un paio di scarpe con tacchi alti con strass.
Diciamo che non ero un fenomeno a camminare con 12 cm in più di altezza, ma vista la
mia bassa statura poteva andare benissimo anche così.
La festa si sarebbe svolta a casa nostra, in giardino, con lo sfondo della piscina
illuminata.
Leo era tremendamente bello, così bello da essere anche inquietante. Arrivò il
momento di aprire qualche regalo; a parte gioielli e gingilli vari non ci fu nulla che mi
entusiasmò più di tanto. Passammo l’intera serata a ballare e divertirci.
Mancava ancora un regalo, quello di Leo. Mi portò in una stanzetta all’ultimo piano di
quella grande casa; c’erano vestiti e gioielli un po’ ovunque, tutte cose molto belle.
-beh, visto che non ho potuto farti un regalo, scegli tu, se non trovi nulla vuol dire che
sei un caso disperato-affermò il fratellino. Passai circa venti minuti lì dentro ad
osservare ogni singolo vestito. Vidi un abito in un angolo e mi avvicinai: era un abito da
sposa ed era bellissimo. Certo la cosa era ridicola, una diciottenne con un abito da
sposa in mano. Anche se non era né il momento né l’occasione giusta, decisi di prendere
quell’abito. Dopo quel momento mi ritrovai a confidarmi con quello che avrebbe dovuto
essere solo il mio fratellastro, ma che stava diventando una presenza davvero
importante nella mia vita. Raccontai a lui le mie paure, i miei problemi. A dire la verità
non so perché lo feci; quel Leo che stava lì ad ascoltarmi non era il ragazzo
superficiale che avevo conosciuto prima. Stava cambiando, ed io con lui. Finimmo con
l’innamorarci e niente fu più come prima. per me è stata una delle persone più
importanti della mia vita, la prima persona che ho amato sul serio. Purtroppo le cose
non sono andate secondo le aspettative e ci lasciammo dopo quattro anni.
Ho conosciuto un nuovo ragazzo, uno di quelli che potrebbero regalarti anche la luna ,
se tu la chiedessi, ora ho 27 anni e , nonostante stia per sposarmi, non ho mai
dimenticato il mio primo amore. Ho deciso di indossare il vestito che mi regalò il giorno
del mio diciottesimo compleanno per portare all’altare con me un pezzo di lui.
Un vecchio giocattolo
Era un giorno d’ estate , quando, Carol che era una
signora ricca e raffinata, salita in soffitta per
sistemare, trova un giocattolo, che ha tutta l’aria di
essere molto antico. Questo giocattolo racconta la
storia di Carol. Carol era una bambina molto povera
soprattutto nei suoi primi anni di vita. Purtroppo a
causa della povertà della sua famiglia Carol non si poteva permettere molti
giocattoli e lei di questo era dispiaciuta ma si doveva accontentare. Al suo sesto
compleanno Carol riceve una cosa che lei pur desiderando tanto non poteva avere ,
cioè una bambola con guance paffute e rosee, occhi azzurri e capelli biondi raccolti
in due adorabili trecce. Carol appena appena ricevuta diventa felicissima, i suoi
occhi sprizzano gioia, era talmente tanta la sua contentezza, che lasciò tutto quello
che stava facendo per precipitarsi a giocare con la sua amata bambola.
Carol si accorse che era tardi e così posò la bambola e si recò in camera sua e si
mette a dormire. La mattina del giorno seguente, Carol, salì di nuovo in soffitta
riprendendo la sua bambola e continuando a frugare nel suo passato. Da piccola,
Carol passava molto tempo con la sua bambola e la adorava talmente tanto, che non
solo le diede il suo stesso nome ma le scrisse anche un cartellino con scritto il suo
indirizzo e il suo nome. Carol immaginò che Baby Carol, diventata grande, avrebbe
intrapreso i suoi viaggi per il mondo, sarebbe andata a New York con un aereo di
lusso e si sarebbe fermata nel più grande negozio della città e lì avrebbe comprato
vestiti di marca, borse firmate… Poi con una fantastica limousine si sarebbe recata
a Hollywood, per tentare di inventare il Carolhollywood di cui sarebbe diventata la
star, successivamente avrebbe preso il treno e se ne sarebbe andata a Berlino a
visitare lo zoo dove sarebbe stata mangiata da una tigre che la avrebbe risputata
perché sapeva troppo di imbottitura. Ad un certo punto sarebbe andata a Bruxelles
con l’intenzione di inventare una ricetta speciale con oi famosi cavoletti. Il suo
ultimo viaggio fu a Madrid , prendendo un pullman come quelli di Londra, finì sul set
di una fiction famosa dove incontrò i protagonisti e si fece fare un autografo .Così
si conclusero le sue avventure da esploratrice. Pensate che tutti questi viaggi si
sono svolti nella camera di Carol e gli attori famose erano solo altri coetanei di
Baby Carol, ovvero altre bambole. Ad un certo punto Carol sente una voce, qualcuno
che le parla, si gira ma non vede nessuno, così riporta il suo sguardo verso la
bambola e vede che muove le labbra come se si volesse lamentare . Baby Carol inizia
a parlare e dice “-Ho fame, ho fame”. Carol per un momento rimane a bocca aperta,
non ci poteva credere che la sua amata bambola parlava. Baby Carol continuò a
parlare “- Tu, Carol, la mia padroncina, mi hai abbandonata, perché lo hai fatto? Non
ti piacevo più?” Carol dopo aver superato il momento si shock le rispose e disse
“ No, no io ti voglio bene e te ne ho sempre voluto, mai avrei sognato di lasciarti. Tu
sei stata molto importante per me. A questo punto erano entrambe con le lacrime
agli occhi e Carol portò la bambola al petto e le disse “-Non ti lascerò mai più,
staremo sempre insieme come ai vecchi tempi “. E così scesero dalla soffitta come
una mamma e una figlia che si vogliono un mondo di bene. E così non si separarono
mai più.
Parte II
“Cappuccetto Rosso corre ancora”
Cos’è il silenzio? Credo che la sua definizione sul dizionario sia “ assenza di rumore”.
E’ strano il silenzio. Perché a volte lo ricerchi, perché a volte ti rilassa.
Però a volte ti distrugge, a volte ti uccide, il silenzio.
Si accumula dentro di te, ti attraversa lo stomaco e si ferma al cuore.
E poi devi cacciarlo fuori, in qualche modo.
Prima lo fai con le lacrime, poi devi assolutamente farlo con le parole.
Una persona nuova
L’immagine riflessa nel grande specchio della mia
camera mostra una persona che non sono io. Le
occhiaie, il viso livido e un occhio gonfio. I capelli
arruffati, la bocca troppo rossa , le cicatrici. Mi
scende una lacrima. La sento che parte
dall’occhio, scende e mi riga la guancia, poi si
ferma all’angolo della bocca. Eccone un’ altra che
scende molto più velocemente e cade sul pavimento , scomparendo nel buio in cui la
camera è avvolta. Cos’è la solitudine?
È restare semplicemente soli, o anche essere circondati da decine e decine di persone,
ma sentirsi non capiti, soli ugualmente?
Devo confessare che ultimamente ci penso spesso.
Le lacrime continuano a cadere, i lividi e le ferite bruciano, fanno male. Ma più di
tutto, fanno male le parole.
“Stupida, grassa , incapace”
“Non sei buona a nulla, vergognati!”
“Non ti meriti nulla, sei solo un’ingrata!”
Le frasi, le parole, mi stordiscono. Mi compaiono davanti e mi sento colpevole di tutto.
Ad un certo punto la porta sbatte, distogliendomi dai miei pensieri e facendomi
ritornare alla realtà. Mi asciugo le lacrime più in fretta possibile, se mi vede piangere
mi ammazza. Gli da fastidio. A lui da fastidio tutto. Gli da fastidio persino la mia
presenza. Mi alzo dal letto e mi affaccio al corridoio. Lo vedo. È appoggiato al tavolino
dell’ingresso, con la testa china. Inizia a camminare a tentoni, barcolla rischiando di
inciampare. Ha bevuto. Mi viene incontro, mi butta le braccia al collo. Lo trascino con
fatica in camera da letto e lo faccio stendere. Inizia a mormorare frasi senza senso.
Se ne sta lì, mezzo ubriaco, con gli occhi pieni di sangue, sdraiato sul letto. Mi fa pena.
Preparo subito del caffè e , dopo averlo bevuto, si addormenta. Mi rifugio in cucina e
inizio a preparare la cena. Dopo circa un’ ora Salvatore arriva in cucina reclamando la
sua cena. Ci sediamo e iniziamo a mangiare. Durante la cena mi fa delle domande.
Rispondo a monosillabi, ormai ho paura di intrattenere qualsiasi tipo di conversazione
con lui.
“ Dove sei stata stamattina?” mi chiede all’improvviso.
“Sono uscita” rispondo, sempre con gli occhi bassi.
“Con chi ?” chiede con voce minacciosa.
“Con Luca, mio fratello. Mi ha accompagnato a fare la spesa…”
Smette di mangiare. Mi guarda con occhi lucidi, da pazzo. Posa con grande rumore le
posate sul tavolo e si alza in piedi. Sono terrorizzata. All’improvviso rovescia il piatto a
terra , facendolo rompere in mille pezzi. Inizia ad urlare. Mi dice che non è possibile,
non devo assolutamente permettermi di uscire senza il suo permesso. Le urla si fanno
sempre più forti, dalla sua bocca escono parole che feriscono. Non riesco a guardarlo
negli occhi, ho tanta paura. In un attimo di silenzio alzo lo sguardo, giusto in tempo per
vedere la sua mano partire dall’ alto e scendere verso di me. Lo schiaffo colpisce in
piena faccia, con una violenza impressionante, mi stordisce, mi fa cadere dalla sedia su
cui sono seduta.
Mi ritrovo a terra, l’orecchio mi sanguina, la vista inizia ad annebbiarsi. Lo sento che
esce dalla porta, chissà dove va. Rimango per qualche secondo immobile. Poi mi alzo
lentamente. Mi fa male tutto. Mi butto sul divano e piango. Piango come non ho mai
pianto in vita mia . Piango fino allo sfinimento. Poi alzo lo sguardo . Nello specchio c’è
di nuovo quella ragazza di ventisei anni, che convive da un anno con un uomo che
credeva diverso da quello che poi si è rivelato. Ragiono, penso… e mi chiedo come abbia
potuto permettere ad un uomo di ridurmi così. È stato un anno incredibilmente
difficile. Un anno di umiliazioni. Un anno di lividi, cicatrici. Un anno di ”prima o poi lo
denuncio”, un anno di “ questa volta non lo tiro fuori dai guai”.
E invece… puntualmente, lo tiro fuori dal suo labirinto di errori, cattiverie, di alcool.
Me la prendo con me stessa. Credevo davvero che sarei riuscita a cambiarlo? Mi
rendevo conto del tipo di persona con la quale avevo a che fare? Non ce la faccio più.
Basta. Basta insulti, minacce, basta vivere qui dentro.
Basta bugie.
“Cosa hai fatto sulla guancia?”
“Niente… sono inciampata”
“Cos’è quel livido sul braccio?”
“Ieri sono urtata”
“Cosa hai sul collo?”
“Niente, solo un graffio”
E invece no. Molto più di una caduta, molto più di un graffio. Mi alzo. Non so cosa mi
sia preso, dove abbia trovato tutto questo coraggio. Corro. Vado a casa di mia sorella
Maria. Mi apre subito, mi vede stravolta. Entro… e racconto tutto. Mi ascolta
spaventata. È la prima volta che mi apro con qualcuno. È furiosa, scandalizzata. Mi
consola, mi dice che da oggi in poi le cose cambieranno. Mi trascina dalla polizia, anche
se all’inizio oppongo resistenza. Avevo paura che, dopo averlo trattenuto per un po’,
sarebbe uscito e avrebbe fatto di peggio. Invece non è stato così. Ormai sono tre
anni che l’incubo è finito. Il processo è stato lungo, ma abbiamo vinto. I lividi sono
scomparsi, a eccezione di qualche cicatrice. Anche se… per le parole non c’è cura e,
nonostante sia tutto finito, non riuscirò mai a dimenticarle
Basta un secondo per dimenticare
uno schiaffo ma non basta una
vita per dimenticare una parola
13, questo è il numero degli anni che avevo
quando ho iniziato a vedere la vita in modo
diverso.
13, questo è il numero degli anni che avevo quando mi hanno derubato di tutti i miei
sogni
13, questo è il numero degli anni che avevo quando il mondo mi è crollato addosso.
Tredici è un numero molto lontano; adesso sono qui a scrivere dopo tanto tempo, con
tanto coraggio, su queste pagine bianche la mia storia.
Ero solo una bambina quando sentii che il mio cuore si stava macchiando di violenza e i
miei sogni si stavano allontanando pian piano da me, ma allo stesso tempo non volevo
ricordare. I ricordi acuivano le mie sofferenze perché mi fidavo troppo di quella
persona.
Frequentavo la terza media, la mia era una personalità timida ed un po’ introversa, non
avevo molte amiche; le uniche persone importanti della mia vita erano mia madre e mio
padre.
La sera del 17 Gennaio 1977 ero sola con mio padre a casa, mia madre era al lavoro;
quello fu uno dei giorni peggiori, perché mio padre era stato licenziato.
Ero in camera mia a leggere un libro, quando sentii la porta sbattere: era mio padre.
Quella fu la prima volta che lo vidi in quelle condizioni, era ubriaco e sembrava aver
perso la ragione.
Per la prima volta la sua mano su di me mi fece paura, il suo tocco mi terrorizzava e
ancor più quello che stava per fare.
Non mi sarei mai aspettata una reazione del genere da parte sua, le sue mani
stringevano violentemente i miei polsi, cercavo in tutti i modi di ribellarmi, ma appena
provai a difendermi mi colpì violentemente all’occhio. Questo fu l’inizio della fine ma
allo stesso modo la fine dell’inizio.
Quando tornò mia madre mi trovò seduta dietro al letto della mia camera, ero
sconvolta ma nei miei occhi non traspariva alcuna emozione mentre la mia mente non
faceva che ripensare a quella scena.
Mia madre non sapeva che fare; quella fu una settimana di silenzio. Nessuno di noi tre
osava nominare quello che era accaduto quel giorno.
Furono molte le persone che mi chiesero che cosa fosse successo, ma io rispondevo
sempre allo stesso modo :”sono andata a sbattere contro il mobile”; ovviamente era
una bugia per non mettere in cattiva luce mio padre, anche perché speravo che
quell’episodio non si sarebbe ripetuto.
Ero solo una bambina, ero stata ingenua a pensare che quella sarebbe stata la prima e
l’ultima volta.
Un sei. Bastò solo un sei per scatenare di nuovo tutto, questa volta non furono solo
pugni, calci, graffi...bastarono solo poche parole per distruggere la mia autostima,
delle parole forti come “ non vali niente “ , “crei solo problemi”, “sei solo una spesa in
più per la famiglia”...
Tutto questo solo per un semplice sei, un sei al compito di matematica.
Ci furono molte altre scuse per mettermi le mani addosso, per rovinare il mio essere,
già così tenero e fragile.
A volte preferivo la violenza fisica perché prima o poi i lividi alle braccia o le ferite
sul corpo vanno via, ma quelle maledette parole restavano scolpite nel mio cuore.
La mia unica consolazione era di passare molte ore nella mia camera a scrivere dato
che mio.... quell’uomo mi proibiva di uscire, di avere una vita sociale.
A sedici anni avevo il sogno di diventare una scrittrice; avevo capito Che la scrittura
era un modo per sfogarsi, per esprimere se stessi, la carta sapeva capirti meglio di
una persona, su quel foglio bianco potevi scrivere qualunque cosa, tanto non ti avrebbe
giudicato.
Di certo non mi aspettavo che dopo due anni la mia vita sarebbe cambiata
radicalmente; mi bastarono solo due secondi per capire chi era l’amore della mia vita.
Era un giorno insignificante come tanti, andai a scuola e venni a sapere dalla mia
professoressa di italiano, una donna in gamba, che credeva nei valori, l’unica persona
che mi appoggiava e credeva nel mio talento per la scrittura, che ci sarebbe stato un
convegno tenuto da una nota scrittrice italiana, che aveva pubblicato un libro sulla
violenza sulle donne.
Naturalmente mio padre non voleva che io partecipassi, e quella fu la prima volta che
scappai di casa, uscendo dalla finestra, visto che abitavamo al piano terra e mi diressi
a piedi nella biblioteca della città.
Mi immedesimai molto nelle parole della scrittrice, capii veramente quanto la mia
realtà fosse crudele, rimasi affascinata dalla tematica di quel libro e deciso di
comprarlo, mi diressi verso lo scaffale e, mentre stavo per prenderlo sfiorai una
mano: accanto a me c’era un ragazzo sulla ventina d’anni, attraverso i suoi occhi versi e
il suo sguardo profondo capii che non era una persona qualunque. quando mi sfiorò
sentii le farfalle nello stomaco.
“Oh, scusami, non ti avevo visto”, gli dissi imbarazzata.
“no, non preoccuparti”, rispose lui timidamente.
Dopo essere andati a pagare il libro uscimmo insieme dalla biblioteca e lui subito mi
invitò a prendere un gelato per conoscerci meglio, ma non accettai perché avevo paura
di tornare a casa e che mio padre mi scoprisse, quindi lo lasciai lì e tornai in fretta a
casa.
Quella notte la passai in bianco a pensare a lui e a se ci fosse rimasto male per il mio
rifiuto.
Dopo tre giorni lo vidi fuori scuola con uno sguardo molto attento, come se stesse
cercando qualcuno; feci finta di non vederlo perché non volevo affezionarmi a quel
ragazzo, dato che sapevo bene che mio padre non mi avrebbe mai permesso di avere
una relazione.
I miei tentativi di nascondermi fallirono perché mi venne incontro e mi chiese: “
perché cerchi di evitarmi?”
“non sai neanche il mio nome, non mi conosci nemmeno, perché mi stai cercando”
Lui rispose imbarazzato dicendomi :” perché non riesco a non pensarti e dal tuo
sguardo ho capito che c’è qualcosa in te. Mi interessi, mi interessa la tua vita, la tua
storia. Vorrei conoscerti davvero”
A quelle parole mi imbarazzai perché nessuno fino ad allora mi aveva detto che ero
importante, il mio stato emotivo era così forte che scappai via senza pensare alle
conseguenze.
Passarono tre settimane, il mio pensiero prima di andare a dormire ricadeva su di lui,
temevo che a quel punto mi avesse dimenticata, dato il mio atteggiamento.
Un giorno mio padre e mia madre uscirono per tutta la giornata perché dovevano
andare a visitare una zia che stava male.
Ci furono vari ripensamenti ma alla fine decisi di andarlo a cercare, nonostante non lo
conoscessi bene. Decisi di andare al parco, il luogo dove di solito mi schiarivo le idee,
dato che ne avevo tante che si intrecciavano nella mia testa e mi tormentavano
continuamente e proprio mentre il mio sguardo vagava lo vidi seduto da solo su una
panchina a leggere un libro.
“Hey, ciao! volevo chiederti scusa per l’altra volta, non sono abituata a questo tipo di
situazioni e non sapevo come reagire...”, dissi tutto d’un fiato.
“Che ne dici di ricominciare daccapo? Piacere, mi chiamo Federico, ma puoi chiamarmi
Fede.”.
“Piacere Chiara”.
Trascorsero due settimane da quel giorno, non potevamo né chiamarci né inviare
messaggi perché mio padre non mi permetteva di avere un telefono, ma lui veniva ogni
giorno fuori la mia scuola e, anche se per poco tempo, potevamo stare insieme.
Era il 10 Giugno, mio padre tornò da lavoro e siccome mia madre assisteva la zia
toccava a me cucinare. Ma la cena che avevo preparato non fu di suo gradimento e
come un fulmine si avventò su di me riempiendomi di botte, ma anche di insulti.
Per questo mi chiusi in camera e mentre stavo piangendo ripensando a quanto facesse
schifo la mia vita, sentii qualcosa colpire la finestra, mi affacciai e vidi Fede.
Lo feci entrare dalla finestra cercando invano di nascondere le lacrime, ma lui se ne
accorse.
Inizialmente tentai di nascondere il vero motivo per il quale stavo piangendo ma, dopo
vari tentativi da parte sua, gli raccontai tutto, decisi di fidarmi.
“ Adesso ti racconto la mia storia...”.
Come immaginavo, cercò subito di convincermi a denunciarlo, ma era pur sempre mio
padre, non potevo farlo, però alla fine compresi che quella era l’unica cosa sensata da
fare. Lo feci quella sera stessa. Mi aiutò a raccogliere le mie cose silenziosamente,
uscimmo dalla finestra e ci avviammo verso la caserma dei carabinieri.
Quella notte in caserma c’erano solo due carabinieri; dopo due ore interminabili in cui
dovetti raccontare ogni episodio doloroso della mia storia, finalmente libera di vivere
la mia vita salii sulla moto di Fede e ci dirigemmo verso la sua casa, dove mi avrebbe
ospitato. Eravamo entrambi maggiorenni avevamo tanti sogni e speranze nel domani.
quello fu uno dei momenti più significativi della mia vita, quando mi sentii
completamente libera da tutte le violenze che avevo dovuto subire per anni.
Uno dei miei primi pensieri, però, andò a mia madre, che contattai telefonicamente
raccontandole tutto. Non faceva che scusarsi per non essermi stata accanto quando
doveva. Non ritornò mai più in quella casa e andò a vivere da una sua amica.
Oggi sono una donna sposata, vivo con l’unico uomo che ho amato e ho due fantastiche
figlie.
Mi rivolgo ai miei lettori e a tutte quelle ragazze rinchiuse in se stesse. Se avete
qualcosa da dire: ditelo. Se avete qualcosa da raccontare: raccontatelo.
Vi invito a non aver paura, a confidarvi, a non tenere tutto dentro.
E ricordate: la donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere
calpestata, non dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere alla pari, da
sotto il braccio per essere protetta, dal lato del cuore per essere amata.
Dalla parte delle donne
“Mi chiamo Janet, ho ventiquattro anni. Qualche anno
fa ho subito delle violenze da parte del mio ex-
compagno. Ho subito delle violenze fisiche che hanno
lasciato un segno nella mia mente, ma la violenza più
dolorosa è stata quella psicologica, che non lascia
segni sul corpo, ma nell’ anima”
Disse la ragazza alla psicologa, che le chiese:
“Quando è cominciato tutto questo, e in che modo?”
La ragazza rispose:
“Ero appena maggiorenne, andammo ad una festa di diciott’ anni, quel giorno indossavo
un vestito a tubino rosso, scollato sulla schiena, il decolté era ben in vista. Era corto,
arrivava sopra il ginocchio”
Mentre la psicologa annotava, alla ragazza cadeva qualche lacrima.
“Pensavo che fosse un normale attacco di gelosia, invece fu proprio da quel momento
che le cose andarono peggiorando diventando insostenibili”
La psicologa disse:
“Dopo ciò, quali erano le tue preoccupazioni, le tue paure?”
Janet rispose:
“Ero stanca, sfinita, volevo ribellarmi, ma non ce la feci, a tal punto che pensai al
suicidio, ma ci ripensai perché capii che la vita è un dono di Dio, è una cosa bellissima e
anche se mi sembrava che tutto e tutti erano contro di me, c’era sempre qualcuno
disposto ad aiutarmi. Allora chiesi consigli a mia madre, una donna fantastica, che mi
sostiene ogni momento, e mi disse di denunciarlo, cosa che io non avrei mai fatto, a
causa delle mie paure e della mia insicurezza.”
La psicologa disse:
“Riesce a raccontarmi un altro episodio?”
E la ragazza:
“Sì, credo di sì. Un giorno il mio compagno tornato da lavoro non mi trovò a casa. Ero
uscita a fare una passeggiata con le mie amiche, e a furia di parlare non mi resi conto
che si era fatto tardi. Lui mi chiamò , ma non sentii lo squillo. Tornai a casa alle 13:30 ,
e lui mi aggredì. Mi sbatté contro il muro , poi mi diede dei pugni in faccia e dopo uscì
di casa. Non si ritirò quella sera, andò in qualche bar frequentato da delinquenti con i
suoi amici. Il mattino dopo, pur mettendo strati e strati di fondotinta e correttore, l’
ematoma si vedeva. Per giustificarmi mi inventai che ero caduta dalle scale con la
faccia a terra e che in questo modo mi ero procurata un ematoma.
La psicologa disse:
“Quando hai deciso di denunciarlo, e ora hai un fidanzato o hai paura di averlo??”
“Lo denunciai per violenza. Ora ho un nuovo ragazzo che mi rispetta e mi accetta per
quello che sono, da pochi giorni mi ha chiesto di sposarlo e sono felicissima, perché mi
sento come Cenerentola che prima viene maltrattata dalle sue sorellastre e dalla sua
matrigna, e poi trova il suo principe azzurro, e io l’ ho trovato “
“Si sente più sicura e soddisfatta di averne parlato con qualcuno??”
“Si, vi voglio ringraziare dottoressa Philips ma voglio ringraziare tutto il centro
”Nastro Rosa”….grazie mille…mi scusi io ora sono più sicura, dovrò fare altre sedute?”
“Se lei ha bisogno di aiuto venga se non vorrà venire sarà perché si sente più
sicura….io sono a vostra disposizione…e le consiglio di aiutare altre donne raccontando
la vostra storia, una storia finita bene e che può dare speranza a tutte le donne che
hanno subito una violenza.”
“D’ accordo penso che sia una bellissima idea” .
Il coraggio di cambiare
Sono in camera mia, seduta sul letto sfatto. La
libreria è rovesciata a terra e i libri sono sul
pavimento. I miei quaderni sono irrecuperabili,
macchiati dall’inchiostro di una vecchia penna nera.
La poltrona è a terra, i cuscini sono completamente
rotti e con essi anche dei miei vestiti. Sembra che
qui, poco tempo fa , sia successo qualcosa di
terribile. E infatti è così. Poco tempo fa, verso le
8:00, qualcuno ha bussato con violenza alla porta di
casa. Eravamo tutti seduti intorno al tavolo della
cucina. Il papà fumava e l’odore della sigaretta accesa aveva impregnato i nostri
vestiti. La mamma aveva delle occhiaie profonde, come succedeva spesso in quell’
ultimo periodo, lo sguardo fisso nel vuoto e un’espressione afflitta sul suo volto
scarno. All’udire quel suono, la mamma si riscosse. Guardò mio padre con gli occhi
spalancati, con un’espressione interrogativa.
-Aprite, polizia!- aveva urlato un vocione .Papà era scattato in piedi.
- Aprite, o butto giù la porta!- le voci diventavano sempre più forti.
La mamma era corsa a spostare la credenza e ad aprire una piccola porticina che si
trovava dietro di essa, della quale non conoscevo l’esistenza.
-Veloce, veloce- sussurrava, spingendo mio padre all’interno della piccola botola. I
colpi alla porta si facevano sempre più forti, i poliziotti stavano evidentemente
perdendo la pazienza. La mamma mi guardò spaventata, dopo aver spostato la
credenza, e mi fece segno di andare in camera mia. Ubbidii rapidamente, mentre i
poliziotti iniziavano a dare manganellate sulla porta. Mamma aprì. Non capii
immediatamente ciò che volevano. Sentivo pronunciare in continuazione il nome e il
cognome di mio padre, mentre mia madre continuava a insistere dicendo che no , non
era in casa, era uscito poco tempo prima. Poi i poliziotti avevano incominciato a
cercare in tutto l’appartamento, mettendo in subbuglio anche camera mia. Se ci
ripenso i brividi mi percorrono la schiena. Ho paura. Sento i singhiozzi nella camera
accanto. Da quando ci siamo trasferiti qui a Napoli, tutto è cambiato. Mio padre non
è mai stato un uomo calmo. Mi ricordo che era abbastanza irascibile anche quando
ero una bambina. Ma l’ho sempre amato e lui ha sempre amato me. Dopo pochi giorni
dal nostro trasferimento mio padre è stato coinvolto in diversi avvenimenti.
Mi ricordo un pomeriggio , era sabato. Eravamo a casa tutti, meno che mio padre.
Era sicuramente al bar del cento, dove passava la maggior parte del suo tempo.
Appena tornava la mamma gli chiedeva dove fosse stato e lui rispondeva con aria
evasiva :-Affari, Carmen. Affari-. Ci diceva solo che potevamo concederci qualche
lusso in più. Io avrei potuto avere il mio primo motorino e la mamma abiti e profumi
firmati. Papà diceva di aver trovato un lavoro e passava del tempo a parlare dei così
detti “affari” con un uomo che lui chiamava “Il mister”. Ben presto, però, la mamma
si accorse che i nostri nuovi ”lussi” comportavano dei cambiamenti sia nel carattere
di mio padre, che nella nostra quotidianità. Per esempio, quel sabato pomeriggio,
sotto casa mia iniziarono a sentirsi degli spari e delle urla. La mamma si affacciò
alla finestra e lanciò un urlo. Non so perché , non so cosa vide. So solo che da quel
giorno non fu più la stessa. A casa mia iniziò a calare il silenzio. Il momento più
brutto era la sera, quando cenavamo seduti intorno al tavolo della cucina. La mamma
non osava dire una parola. Io mi sentivo strana, a disagio, e ogni volta mi veniva da
piangere, ma sapevo che non potevo farlo. E così dovevo provare quell’orribile
sensazione di quando bisogna trattenere le lacrime e bisogna aspettare di essere
soli, di non essere visti. Mi gira la testa. Ecco. Mio padre ha iniziato ad urlare.
Perché? Non lo so. I singhiozzi della mamma si fanno più forti. Vorrei andare di là ,
abbracciarla, proteggerla dall’uomo violento che è diventato mio padre. Ma la paura
mi blocca. Dopo poco le urla finiscono e la porta d’ ingresso sbatte. Mi precipito in
camera di mia madre che è seduta ai piedi del letto. Mio padre è uscito, ora siamo
più al sicuro. La vedo sfinita, ha finito le forze. Non ce la fa più. Sono tre anni che
viviamo così. Da quando avevo quattordici anni. Devo ammetterlo, non ho mai avuto
grandi rapporti con mia madre. Durante la mia adolescenza con lei è stato un
litigare continuo, ma la sofferenza mi ha fatto maturare. Voglio esserle vicina. Mi
metto nei suoi panni: madre di una figlia insopportabile, moglie di un uomo cattivo.
Come fa a continuare, a reggere, a non crollare? Non ho mai conosciuto una donna
più forte di lei. Ha già avuto una grande sofferenza: quando io non ero ancora nata
mia sorella maggiore è morta. Si chiamava Maria, aveva cinque anni. L’hanno uccisa,
non si sa ancora chi. Ma lei è riuscita a superarlo; ha dato alla luce me, chiamandomi
Maria Vittoria, forse per ricordare lei. La guardo con compassione. La mamma si
butta tra le mie braccia, e piange, singhiozzando molto forte.
- Basta, basta- mi sussurra. Cerco di calmarla, ma inevitabilmente inizio a
piangere anch’io.
- Siamo in pericolo, Maria Vittoria. Potrebbe succederci qualcosa da un
momento all’altro. Io ho già perso una figlia, non perderò anche te per colpa
di tuo padre. Qui non siamo al sicuro- mi guarda con gli occhi neri e lucidi, mi
sento male. Non l’ho mai vista in questo stato.
- E allora, mamma? Cosa ci possiamo fare noi? Cosa dobbiamo fare?-
La mamma esita qualche minuto, guarda il pavimento, gira e rigira tra le mani un
elastico. Poi mi guarda.
- Scappare? E dove? Dove andiamo? Quando?
- Non lo so. Potremmo partire domani, al mattino presto. Andiamo a Milano. O a
Torino. Il più lontano possibile da qui.
Sembrava una pazzia, ma davvero non ce la facevamo più. Ora sto bene. Da due
anni vivo a Milano, una città bellissima. Appena arrivata è stata un po’ dura
ricominciare da zero. La scuola, gli amici. E poi mio padre. Non ne abbiamo più
avuto notizie. Ma dopo poco ci siamo inserite. Mia madre ora ha un lavoro
regolare e siamo riuscite a comprare una casa graziosa in pieno centro. Dico
“siamo” perché mi sto impegnando parecchio. Ho deciso di aiutare mia madre
lavorando come cameriera in un ristorante. È stata una mia idea. La mamma non
voleva ma sono riuscita a convincerla. Il lavoro mi tiene occupata solo qualche
sera, per il resto sono molto presa dagli studi. Ho tanti amici e anche la mamma
ora è felice. Ogni tanto la sera esce a mangiare la pizza con le amiche, con le sue
colleghe. È ritornata come era prima. Il nostro rapporto è migliorato tanto,
stiamo bene insieme. Finalmente ci siamo riuscite. Abbiamo avuto il coraggio di
essere felici.
Una pagina di diario
12/03/2015
Caro diario,
ieri è stata una giornata tremenda per tutti :
tornata da scuola ,mio padre stavo urlando
contro mia madre e questo è un fatto che avviene molto spesso negli ultimi giorni .
Inizio a preoccuparmi… ogni volta che chiedo a mia madre come sta, mi risponde che va
tutto bene e non devo preoccuparmi tra quello che succede fra lei e mio padre; ogni
volta annuisco ,ma so che sta succedendo qualcosa fra loro e che il loro rapporto non è
come prima.
Dalla cucina riesco a sentire le loro discussioni ,a volte le urla di mia mamma.
In preda al panico andai a vedere cosa stesse succedendo vidi mia madre con il viso
coperto dalla sue mani mentre piangeva ,subito corsi ad abbracciarla e capii cosa stava
accadendo : mio è diventato un mostro, quando lo guardai negli occhi, lui abbassò lo
sguardo e se ne andò in salotto senza fiatare.
In quel momento non seppi come agire… ero sconvolta ,ma non mi ci volle molto per
comprendere che non potevamo più stare in quella casa con lui e quindi prendemmo il
necessario e andammo a casa dei genitori di mia madre… Raccontai loro quello che era
accaduto e dissero che potevamo restare per tutto il tempo necessario.
Ora io e mia madre viviamo qui fino a quando le cose saranno chiarite, ma quando
questo accadrà di certo non cambierò la mia opinione su mio padre: per me ormai è uno
sconosciuto, una persona che si diverte a far soffrire le persone deboli , specialmente
le donne.
Quel muro di silenzio
Cos’è il silenzio? Credo che la sua definizione sul
dizionario sia “ assenza di rumore”.
E’ strano il silenzio. Perché a volte lo ricerchi,
perché a volte ti rilassa.
Però a volte ti distrugge, a volte ti uccide, il
silenzio.
Si accumula dentro di te, ti attraversa lo stomaco
e si ferma al cuore.
E poi devi cacciarlo fuori, in qualche modo.
Prima lo fai con le lacrime, poi devi assolutamente farlo con le parole.
E adesso vorrei fingere che non sia successo niente, perché a quindici anni non sai
niente dell’amore.
E mi piacerebbe dire che mi chiamo Cristina, per gli amici Cris, e che sono felicemente
fidanzata.
Ma la mia storia è molto più complicata.
È iniziata il giorno del mio quindicesimo compleanno; avevo invitato tanti compagni di
scuola e un ragazzo che conoscevo a malapena si era presentato e mi aveva fatto i
complimenti.
Ricordo ancora tutto, per filo e per segno:
- Ciao, Cristina, mi chiamo Lorenzo-
Lo guardai, alto, molto più di me, con i capelli biondo cenere e gli occhi azzurro cielo.
Evidentemente era una persona molto sicura di sé; per quello che ne sapevo io era un
ragazzo studioso, intelligente e giocava a basket.
Adesso vi chiederete come ho fatto in così poco tempo a pensare tutte quelle cose: in
realtà i pensieri sono strani perché ti passano per la testa in pochi secondi.
-scusami, ci conosciamo?- chiesi io cercando di nascondere il mio imbarazzo.
- no, però potremo anche farlo.- rispose lui spavaldo.
-e chi ti dice che io voglia?-le parole mi erano uscite istintivamente dalla bocca...
-nessuno, però meglio piangere per qualcosa che si è fatto che rimpiangere qualcosa
che non si è fatto-rispose lui.
E mi aveva sorriso, e qualcosa mi si era mosso nello stomaco.
Quindici anni, il primo amore.
-ti ho fatto un regalo, Cristina- aggiunse subito dopo.
- Cris, chiamami Cris. Odio il mio nome.- dissi sottovoce.
- tieni, Cris.-
Mi porse un pacco ed io lo aprii; conteneva una collana di perle con un piccolo cuore,
sopra il quale era incisa una C, l’iniziale del mio nome.
Quindici anni, il primo regalo che ti riempie di gioia.
- Grazie, è bellissimo- balbettai.
- Sono felice che ti piaccia. Balliamo?- mi tese la mano.
- Certo.-
Era il mio quindicesimo compleanno, un ragazzo mi aveva fatto un regalo splendido e
ora stavamo ballando.
Era perfetto. Che stupida ero; su quella perfezione momentanea avevo costruito
dei sogni, avevo immaginato amore, sorprese, felicità.
Ma avevo quindici anni e volevo qualcosa di unico ed ora, a distanza di soli tre anni
non mi fiderei come mi ero fidata quella notte.
- Scusami, mi serve un po’ d’aria-
- - posso accompagnarti?-
- Se vuoi sì-.
Uscimmo, mano nella mano, ed andammo in giardino. Ci sedemmo su una panchina e
cominciammo a parlare.
- Allora, Cris, perché non mi racconti di te?-
- Non saprei che dirti, io non ho niente di speciale.-
Lo vedevo avvicinarsi e sentivo solo il battito del mio cuore, mentre lui posò le
labbra sulle mie.
Quindici anni, il primo bacio.
Mi ero fidata troppo e troppo presto.
Come un fiore, un bellissimo fiore che viene spezzato dal vento.
Forse il fiore non si aspettava che una cosa fresca e pulita come il vento potesse
spezzarlo.
Ed io ero una ragazza nel fiore degli anni, che non pensava che una cosa pura come
il primo amore potesse ferirla.
Da quel momento avevamo cominciato ad uscire, a frequentarci. Lui mi
accompagnava tutte le mattine a scuola con la sua macchina perché frequentava
l’ultimo anno di liceo. Io andavo a vederlo giocare alle partite di basket, spesso
mangiavamo insieme da qualche parte.
Stavamo bene, ci divertivamo insieme, eravamo sereni.
Ma dopo qualche mese lui cominciò ad avere atteggiamenti strani nei miei confronti.
Stava diventando geloso, ossessivo, delle volte mi rispondeva male o mi spingeva
violentemente. Un giorno, all’uscita della scuola mi trovò a chiacchierare con un mio
compagno, scese dalla macchina, mi afferrò il polso con violenza, facendomi male e
mi trascinò fino alla macchina.
Quella volta litigammo come non avevamo mai fatto prima.
Quindici anni, i sogni che si spezzano.
Rientrai a casa piangendo e i miei genitori mi videro piangere, mi chiesero cosa
avessi e risposi che avevo avuto una brutta giornata.
Mi stesi sul letto e abbracciai il cuscino, singhiozzando, fino a quando sentii la voce
di mia madre :
- Cris, vieni, è pronta la cena!-
- No, mamma, non mi va-
- Dai, scendi!-
- Vabbè, ho capito....-
Mentre scendevo le scale mi squillò il cellulare:
- Pronto?
- Ciao, Cris, come stai?- disse una voce familiare al telefono.
- Ciao, Elisa, insomma. Tu?
- Bene, che è successo?
- Ho litigato con Lorenzo.
- Ti va di vederci e prendere una bibita fresca?
- Sì, ok, dammi il tempo di cenare.
Dopo cena andai a prepararmi. Indossai un vestito color pesca, con il pizzo sulla
schiena. Io ed Elisa arrivammo in un locale in riva al mare e sen immo dei ragazzi
che cantavano; entrando notammo che i ragazzi erano molto giovani; il più grande
era il cantante, che doveva avere circa 18 anni. Io ed Elisa ordinammo da bere due
frappè alla fragola e dopo circa mezz’ora il cantante venne a salutare Elisa con un
abbraccio. Ci presentammo, io gli porsi la mano e lui me la strinse. Aveva degli occhi
bellissimi, verdi, i capelli neri ed era circa dieci cm più alto di me.
-da quanto tempo canti?
-da quando ero piccolo, mi è sempre piaciuto.
-Anche a me piace la musica.
Ad un certo punto Elisa dovette andarsene, perché l’avevano chiamata da casa con
urgenza. Io rimasi sola con Leo, avevo vergogna e pensavo che se mi avesse vista
Lorenzo sarebbe finita male.
Il solo pensiero mi fece rabbrividire: si può a quindici anni aver paura di farsi
vedere in giro? Ma io ero troppo ingenua e non ci pensavo.
- Che dici, andiamo a fare due passi?
- Sì, d’accordo.
Aprì la porta e mi fece cenno di passare per prima, mettendomi una mano sulla
schiena, ma stranamente quel gesto non mi infastidì, non come con Lorenzo. Adesso
mi facevano paura le sue mani violente su di me.
Io e Leo stavamo passeggiando sulla spiaggia e cominciammo a chiacchierare:
- Cos’ è quello?
- Cosa?
Mi prese il polso.
- Questo, hai un livido.
Ritirai subito la mano.
- Niente, sono andata a sbattere contro il tavolo- ma io le bugie non ho mai
saputo dirle, e infatti abbassai lo sguardo.
- Sicura?
- Sì, sicura- risposi a mezza voce.
- Sei fidanzata?
- S’, e tu?
- Io no, come si chiama lui?
- Lorenzo. Non vorresti avere una ragazza?
- No, non sono il tipo da fidanzamenti
- Se lo dici tu...
- Perché, a te come sembro?
- A me sembri simpatico e gentile... affidabile.
- E tu ti fidi di uno che conosci da neanche un’ora?
In effetti aveva ragione, facevo male a fidarmi sempre così presto, come avevo
fatto con Lorenzo. Il discorso continuò per tutta la serata, parlammo dei nostri
sogni più grandi, delle nostre passioni e della nostra famiglia. Leo aveva solo una
sorella e suo padre; la madre era morta a causa di una malattia pochi anni prima.
Quando purtroppo arrivò l’ora di tornare a casa, mi salutò con un abbraccio e un
bacio sulla guancia. Proprio in quel momento vidi una macchina venirci contro, ma io
non ero riuscita a capire chi fosse la persona alla guida. Pochi secondi dopo notai
che l’auto era simile a quella di Lorenzo, e infatti avevo proprio ragione, era lui.
Conoscendolo, sapevo che ci stava spiando non da poco tempo; in quei pochi minuti
speravo soltanto fosse venuto a prendermi per riportarmi a casa. Ma ovviamente
non era così. Ma cosa stava succedendo? Dov’era finita la Cris innamorata del suo
bel ragazzo dagli occhi color cielo? Era davvero colpa mia?
Lo vidi scendere dalla macchina e, senza quasi rendermene conto, iniziai a tremare.
Ad ogni suo passo la mia paura cresceva; il Lorenzo di prima sarebbe corso verso di
me, mi avrebbe abbracciata forte e poi sorridendo si sarebbe presentato a Leo e
gli avrebbe stretto la mano. Ora invece non riuscivo ad immaginare come l’avrebbe
presa, forse mi avrebbe urlato in faccia chissà quali parole o peggio, mi avrebbe
fatto ancora del male. Me lo ritrovai davanti e, come avevo immaginato, iniziò ad
urlare:
-E tu che ci fai qua, stupida?!!-
Mi spinse con forza, barcollai, ma fortunatamente Leo mi resse e cercò di
difendermi:
- Chi sei tu per trattarla così? Renditi conto che la stavi facendo cadere!
- Sono il suo ragazzo!-
- Ah, bene, sei io suo ragazzo e la tratti così!
- La roba mia la tratto come voglio!
- Ma guarda che lei non è un oggetto.
La discussione stava degenerando e dovetti intromettermi.
- Lorenzo, basta, andiamocene, per favore...
- Tu te ne vorresti andare via con questo qua?- mi chiese Leo-
Lorenzo mi afferrò con prepotenza e mi trascinò verso la macchina; io cercavo di
ribellarmi, ma non ero abbastanza forte. Mi sbatté sul sedile, chiuse lo sportello e
mi lasciò in auto. Lo vidi avvicinarsi a Leo e iniziare a picchiarlo. Urlavano così forte
che riuscivo a sentirli. Cominciai a piangere. Dov’era finito il mio Lorenzo? Quel
ragazzo così dolce e disponibile con tutti? Cercai di aprire lo sportello ma ero
chiusa dentro. Li sentivo prendersi a parolacce, mentre si davano calci e pugni
-Cris è mia, non la devi toccare, hai capito?-
- lasciala in pace, sei tu che la tratti come un oggetto!-
Effettivamente mi trattava come fossi un oggetto, il suo giocattolino, e appena
provavo ad allontanarmi da lui per vivere la vita normale di ogni ragazza della mia
età mi faceva male, mi batteva, imponendomi di stare in silenzio.
Ad un certo punto vidi Leo andarsene e Lorenzo entrò in macchina con il labbro
sporco di sangue. Mi faceva paura.
-Portami a casa, Lorenzo.- dissi singhiozzando.
- Io e te dobbiamo parlare, quindi fai poche storie- rispose secco lui.
-Perché mi tratti così? Perché non sei più com’eri prima?-
-Cris, quello che faccio lo faccio perché ti amo-
Non riuscivo a capire, forse perché pensi che l’amore sia buono, buono e basta, ma
io non capivo che esisteva un altro tipo di amore, quello ossessivo, quello malato.
-Senti, Cris, io ti amo- mi disse infine con voce forte ,- Però tu devi stare attenta
a quello che fai, altrimenti finisce male. Non devi più vederti con gli altri né
tantomeno uscire con loro.
-Lorenzo, io non sono un giocattolo. Non posso chiudermi in casa a vita, fino a che
non mi dai il permesso di uscire. Cosa c’è di male a vedere gli amici? Se la pensi
così è meglio farla finita.
-Tu vorresti lasciarmi? Cristina forse non hai capito che comando io!
- Cercai di svincolarmi ma lui mi aveva bloccato con forza i polsi. Volevo lasciarmi
tutto alle spalle. Poi mi strattonò fino a farmi cadere...
Posai una mano a terra per cercare di rialzarmi, il polso mi pulsava, mi faceva
malissimo. Lorenzo mi fece rialzare, mi afferrò il mento e mi baciò con forza.
Piangevo a singhiozzi, mi sentivo schiacciare, mi sentivo risucchiare da tutto il peso
del mondo. Diceva che dovevo capire che mi amava, che mi voleva tutta per sé.
Voleva da me una promessa, che facessi sempre come voleva lui. Non ce la facevo
più, dovevo andarmene. In quel momento arrivò un gruppo di ragazzi e io ne
approfittai per divincolarmi dalla presa e fuggire via velocemente.
Da allora non l’ho più visto, non è venuto a cercarmi e spero davvero di essere
lasciata in pace. Ho capito che quello non era amore ma una visione distorta
dell’amore. L’amore è una libera scelta consapevole di condividere la vita con
un’altra persona, senza cercare di cambiarla e senza alcuna costrizione. La violenza
non può essere in nessun caso una conseguenza dell’amore. Ha un altro nome.
Omicidio a Vancouver
La mia non è una vita normale, mi capita
ogni giorno di avere a che fare con
omicidi, ma nel mondo i delitti più
numerosi sono i delitti contro le donne.
Non ho altri pensieri in mente, durante la
notte. Il ruolo della donna, invece di migliorare, degrada, dalle stelle alle stalle.
25/10/2012 ore 02: 33 a. m.
DIN DON...
“ La prego, mi dia una mano, è successo che.... devo denunciare... mia madre si chiama...
io mi chiamo....lei è Letizia Del Diavolo... io sono Sasha Adams....” disse una bambina di
circa dodici anni, con capelli corti come se le fossero stati strappati. Erano bruni, ma
la cosa che mi spaventò furono i suoi occhi chiari, grandi, pieni di dolore e paura.
Aveva una camicetta a quadretti rosa, sulla quale scorsi una grossa macchia rossa sul
fianco destro della bambina, una ferita che le provocava forti fitte , tanto che
all’improvviso lanciò un urlo e svenne.
Cercai di soccorrerla, la caricai in macchina e la portai all’ospedale. Lì la rianimarono e
la condussero in ambulatorio per ricucirle la ferita.
25/10/2012 ore 09:00 a.m.
mi avvio, quasi corro, verso il mio ufficio tra Madison Street e corso costa canadese.
Lavoro per un’associazione e insieme a me ci sono tante donne. E ci occupiamo di
donne... donne sottovalutate nel lavoro o in famiglia, donne abbandonate, maltrattate,
anche uccise.
Entro nel grande palazzo, vedo Claire lavorare al computer. Mi precipito da lei, le
sposto la sedia e le urlo l’avvenimento di cui ero stata testimone.
Non avevamo da tempo un caso di questo genere: solo un nome e un cognome..
Mai successo, eppure lavoro in questo campo da anni. Qui alla S.O.S. Donne ci
occupiamo di tanti casi, ma sempre con un minimo di informazione.
Ore 9:45 a.m.
Mi dirigo verso il mio ufficio, una piccola stanza piena di nastri gialli a strisce nere
della polizia, sacchetti sigillati con eventuali indizi dei casi trattati, un piccolo divano
invaso da scatole piene di filmati della sicurezza, foto delle scene del crimine, foto di
assalimenti; la mia scrivania è piena di buste gialle, carte con indirizzi, informazioni
sugli indagati.
Batto sul computer cognome e nome della vittima. Non so chi sia, dove viva, che lavoro
faccia. So solo che ha una figlia di nome Sasha Adams e che era in pericolo.
Ricerco su internet nome e cognome della donna. Letizia Del Diavolo e rimango
sbalordita!
“ Ultima notizia! Letizia del Diavolo agente FBI....” e poi.. “Delusione canadese: come si
dice... dalle stelle alle stalle! La brillante agente licenziata per aver parlato con i
familiari di ciò che avviene all’interno di una struttura supersegreta. Si ritrova a
lavorare per un piccolo giornale di provincia, a portare il caffè.
Esco dal sito e cerco la biografia della donna, ma niente. Penso che sia il caso di
andare a parlare con Sasha e, con penna e taccuino, vado in ospedale.
10.00 a.m.
Varco la soglia della stanza di Sasha e la vedo riposare. Anche io ho una figlia: Noemi.
Tutte le bimbe, almeno le compagne di classe di scuola di mia figlia, fanno questo
genere di domande alle loro mamme:” Come è andata oggi a lavoro? Cosa si mangia a
pranzo?”
La mia mi domanda: ”Chi hai aiutato oggi mamma?” Ogni giorno mi sorprende sempre di
più. Appena mi siedo vicino a Sasha, lei si volta verso di me e si sveglia.
La ragazza mi saluta, come se mi conoscesse da una vita. Una alla volta, le faccio delle
domande, dalle quali ricavo le risposte per l’indagine.
Nome: Letizia
Cognome: Del Diavolo
Nata nel :25/04/1971 Luogo: Napoli
Lavoro precedente: segretaria del Signor Bespa
Nuovo lavoro: impiegata in un’azienda investigativa col Signor Rotaro
Ex Coniuge: Gordon Adams
Compagno: Denis Macabro
Capo: Rodrigo Rotaro
Con le mie informazioni torno in ufficio.
10.40 a.m.
Batto sul computer i dati della vittima e torno a casa. È ora di cucinare per Noemi,
oggi esce da scuola alle 11.15. pasta e broccoli. Credo che Noemi vorrà uccidermi,
come lo chiama lei, il “pranzo vegetariano”, non le garba.
11.15 a.m.
Vado fuori scuola di Noemi. La vedo indaffarata tra scambi di numeri di cellulare e col
controllo dell’assegno all’ultimo momento.
La sua scuola è la St George’s School, che si trova alla 29th Avenue. Scelsi quella
scuola per i brillanti ragazzi usciti da lì, tra cui io.
Noemi mi pregò di non mandarla in quella scuola, non voleva diventare “secchiona” come
la mamma. Ma la mamma, uscita da quella scuola, trovò subito lavoro. 1 a 0 per la
mamma secchiona!
La St George’s School offre opportunità formative eccezionali ( da me richieste):
corso di matematica avanzata, ginnastica artistica, equitazione e polo, tennis da
tavolo, pallavolo, corso di scrittura creativa, corso di arte, di musica e di informatica
(secondo me i ragazzi devono essere pronti a qualunque evenienza).
Mi dirigo verso Noemi, lei si volta e mi abbraccia. Sento da non molto lontano la voce
di Sarah, una compagna di classe di mia figlia, che chiede alla mamma come fosse
andata a lavoro, quel genere di domanda che vorrei sentir dire da mia figlia quando mi
vede arrivare. “ Che è successo oggi mamy? “, ( mamy?! Già è un miglioramento). Ho
paura di dirle del pranzo vegetariano.
11.35 a.m.
Torniamo a casa, e le metto davanti il piatto di pasta e broccoli, e stranamente, non fa
storie.
“ Da quando ti piace la pasta e broccoli?” chiedo, sbalordita. “ L’ho mangiata a casa di
Caroline” risponde.
“Ti devo mandare più spesso da lei!” dico, guardandola con un grosso sorriso.
Finito il pranzo, Noemi va in salotto e comincia a studiare. Vado verso di lei, le
controllo il diario, e dico con fermezza:” Comincia dal greco, poi fai inglese, e dopo
storia dell’arte”. Dopo aver fatto pranzare mia figlia, relax totale. Per oggi ho finito.
26/10/2012 11.00 a.m.
Seduta alla mia scrivania, sfoglio e rileggo le notizie ricavate dalle domande fatte a
Sasha. Attirano la mia attenzione tre nomi: il Signor Rotaro, Gordon Adams, Denis
Macabro. I loro nomi mi danno da pensare, allora, decido di convocarli, per capire chi
sono, che facevano, che rapporti avevano con la donna.
14.30 p.m.
Dopo una mattinata di duro lavoro, tra investigazione e altro, non sono costretta a
tornare a casa per cucinare per Noemi, visto che l’ho mandata dalla nonna a pranzo.
Sono quasi le 14.30,quando sento la maniglia del mio ufficio aprirsi. Intravedo due volti
dal vetro chiaro della porta, ma non li riconosco.
La porta si apre ed entrano due uomini. Non li ho mai visti prima; solo un colpo di genio
mi riporta alla mente dell’incontro che avevo con gli uomini. Ma io avevo convocato tre
uomini, non due.
Uno è basso, leggermente in sovrappeso, con un paio di grandi baffi neri. Indossa una
camicia rossa, un pantaloni classici neri, sembra un commerciante spagnolo.
Il secondo è un uomo alto, indossa una polo verde, un paio di pantaloni neri, è un
bell’uomo, un tipo da palestra, veramente bello! Avevo visto sul computer il nome
dell’azienda in cui lavorava Letizia, tra le foto compare il Signor Rotaro. Copio la foto,
e la metto nella cartellina gialla che avevo sul desktop. Solo allora lo riconobbi.
Assomigliava al cattivo del film “Cattivissimo Me 2”, che ho visto da poco con mia
figlia.
Gli ho fatto qualche domanda. Diceva che Letizia lavorava nella sua azienda da qualche
anno, dopo i Servizi Segreti, la segretaria al giornale e ,infine , lavoratrice in
un’azienda investigativa, col Signor Rotaro.
Parlava in modo nervoso, come se volesse nascondere qualcosa. Pensava che io fossi
una di quelle investigatrici dei film, in una stanza buia con la lampada puntata in faccia
per gli interrogatori. Era un tipo ansioso e ma affabile, in fondo un buon uomo.
Passiamo avanti.
IL secondo era un bell’uomo. Mi raccontava che si era risposato dopo la separazione
con Letizia, aveva 2 figlie, si era trasferito negli Stati Uniti, ma era triste di non
essere potuto stare molto tempo con la figlia e con l’ex moglie, dopo la loro
separazione. Da allora non le aveva più riviste. Si vedeva dall’espressione, non c’entra
niente.
Aspetto invano per circa tre quarti d’ora, ma il terzo indagato non si presenta. Decido
di cercare su Internet il suo indirizzo, e mi reco a casa sua.
15.15 p.m.
Arrivo nella mia Captur arancione nella 24th Avenue, vedo una bella casa bianca, con
un bel giardino, molto curato. Busso ripetutamente al campanello, ma nessuno risponde.
Le luci sono accese, deve esserci qualcuno in casa. Faccio un giro nel retro e vedo la
porta del garage aperta. Entro e vedo un paio di scarpe marroni sotto un piccolo
furgone, mi viene un colpo. Smuovo leggermente quel paio di scarpe e un uomo appare
da sotto il camioncino. Lo vedo intento a sistemare la sua auto, come se dovesse fare
qualcosa, ma molto rapidamente. Mi presento e gli chiedo di parlarmi dei suoi rapporti
con la donna.
Mi dice che era il compagno di Letizia, ma non la vedeva circa da una settimana e più.
Mi sta per mandare via, in maniera brusca, con la scusa di dover intraprendere un
viaggio per lavoro. Intravedo un paio di scarpe da donna sul sedile posteriore e gli
chiedo gentilmente di aprire lo sportello. Quasi esitando, guardandomi con
un’espressione della serie “ impicciona!”. Apre lo sportello e, con mia grande sorpresa,
ma con orrore, vedo Letizia legata, imbavagliata, con un occhio nero, con un paio di
stracci addosso ma viva! L’uomo, scoperto, tenta di fuggire. Ma io, pronta per ogni
evenienza, avevo già chiamato una squadra speciale, pronta a servirmi. L’uomo esce dal
garage e si catapulta verso la macchina che aveva nascosto dietro delle siepi, tipo
agente 007. Gli agenti lo bloccano. Lui caccia una pistola, loro lo bloccano rendendolo
inoffensivo. L’uomo si rassegna, posa la pistola, alza le mani e uno dei militari, da
dietro gli da una botta in testa, e sviene.
Aiuto Letizia a liberarsi e lei mi spiega tutto.” Era un giorno come tanti, avevo lasciato
mia figlia a scuola, poi ero andata a lavoro. Stavo lavorando a un’investigazione col
Signor Rotaro. Era un’investigazione privata, su un caso di estorsioni a piccoli
imprenditori. Facemmo delle intercettazioni telefoniche e scoprimmo che tra le
persone indagate, e ormai colpevoli, c’era proprio lui, Denis. Io, impaurita ma
infuriata, uscii dal mio ufficio e andai a scuola per prendere mia figlia. Si fecero le
nove di sera, tra preparazioni di bagagli e altro, quando bussò la porta. Tanta era la
paura che non ce la feci a guardare chi fosse. Aprii la porta e Denis mi diede uno
schiaffo. Entrò e colpì Sasha. Mia figlia prese una pistola che aveva nascosto, visto
che mio marito era un militare e aveva lasciato quell’arma nel caso servisse. Sasha
sparò, ma lo mancò. Denis, intento a picchiarmi, mi fa cadere a terra e va verso mia
figlia. Lei cerca di proteggersi, quando quell’animale prese la pistola e il proiettile
sfiorò il fianco di mia figlia. Io, quasi incredula, frustrata di quello che stava
succedendo, saltai addosso a Denis. Lui riprese a picchiarmi, ma più forte. Sasha riuscì
a scappare, ma lui mi prese e mi portò via. Mi porta a casa sua. Non sapevo dove fosse
andata mia figlia, avevo paura”. Letizia mi guarda. Capisco che il suo era un piano ben
studiato, doveva lasciare il Paese, andare lontano, scappare, non lasciare più tracce.
Letizia è sul punto di piangere, per le violenze subite, la paura che aveva poteva aver
provato la figlia, la consapevolezza di non potercela fare, che non avrebbe più rivisto
la figlia, l’unica persona di cui poteva fidarsi. Ma ora, piange per la felicità di essere
viva, avere tanti anni davanti, di poterli vivere al meglio, vivendola con chi si ama
veramente. Ho deciso di non dirle della figlia, ma di portarla direttamente in ospedale.
17.30 p.m.
Entro nella stanza dove stava riposando Sasha. Non c’è bisogno nemmeno di chiamarla
per svegliarla, lei si alza e corre dalla mamma. Entrambe cadono in un pianto
incredibile, vengono avvolte da un velo di gioia.
18.00 p.m. Arrivata a casa, mi tolgo le scarpe, vado sul divano vicino a mia figlia a
guardare la tv. Un altro caso risolto, tutto sfuma nell’indistinto, devo solo aspettare
che un’altra bambina torni a casa mia, a notte fonda, a raccontarmi di un genitore o
parente scomparso…
Una famiglia “perbene”
Eccomi qua, sono una ragazza normale, ma non posso fare tutto ciò che fanno le altre.
A scuola comincia a girare la voce che mio padre fa parte della camorra, ed è vero.
Nella mia classe c’ è un ragazzo, Luca, è carino, devo dire che in fondo mi piace, ma
non ho neanche una speranza.
Mio padre mi ha detto di stargli lontano, perché è il nipote del prete che mio padre e i
suoi “amici” hanno ucciso.
Anche lui è innamorato di me, ieri mi ha scritto una lettera d’ amore.
Oggi gli ho risposto e gli ho confessato la storia di mio padre, ovvero che fa parte
della camorra. È un segreto che mi porto dentro da tanto, tanto tempo, che non ho mai
osato dire a nessuno. Ma lui mi ispira fiducia, mi ridà la speranza nella vita e nel
futuro.
Mi aspettavo una reazione negativa, che si allontanasse da me per paura o per
diffidenza... o perché questa cosa lo sconvolgesse.
Invece sentii rispondermi :”Non m’importa , io ti amo per quello che sei e se tuo padre
non mi vuole noi scapperemo”
Io e Luca ci abbracciammo e da quel momento ci fidanzammo di nascosto.
Dopo circa due mesi , mio padre lo scoprì.
Sudavo freddo, mio padre ci aveva visti insieme fuori scuola, eravamo su una panchina
abbracciati e lui mi teneva la testa su una spalla. Si avvicinò di corsa, mi afferrò per
un braccio e mi strappò da Luca. Tornammo subito a casa; lì prese la sua cintura mi
alzò la maglia e mi colpì sulla schiena, mi mandò in camera, avevo le lacrime agli occhi,
sentivo ancora il dolore dei colpi sul corpo e la vergogna dell’umiliazione subita.
Il giorno dopo fu mia madre ad aprire il discorso su quanto era accaduto il giorno
precedente, dicendo:” E’ per il vostro bene, dovete lasciarvi definitivamente, tuo
padre non vi permetterebbe mai di continuare a vedervi. È un rapporto impossibile.”
Quelle parole mi fecero riflettere, non potevo continuare a vivere nella menzogna e
nella paura. Ne parlai con Luca e decidemmo di vederci il giorno dopo al parco. Ma non
sapevo che mio padre controllava ogni mia mossa ed ogni mia telefonata; era già al
corrente di quello che avevo deciso di fare.
Il giorno dopo giunsi con un lieve ritardo al luogo dell’appuntamento, la solita panchina
del parco davanti scuola e lo trovai seduto lì, con un’aria molto ansiosa.
Mi avvicinai e vidi che sanguinava. Aveva il volto tumefatto e dal naso scorreva un
rivolo di sangue, ma più di tutto notai una strana ferita al braccio destro.
Proprio lì vicino c’era una clinica e subito trascinai luca con forza con l’aiuto di due
passanti. I medici dissero che non era in pericolo di vita , anche se un proiettile lo
aveva colpito; subito capii che era stato mio padre. Per fortuna era in un posto dove
poteva essere rimosso e i medici mi hanno anche ringraziato di averlo portato subito,
perché sarebbe potuto morire dissanguato.
Ero in sala di aspetto, avevo già avvisato i genitori.
La mamma mi venne incontro ringraziandomi di averlo portato all‘ ospedale ma non
riusciva a capacitarsi di quanto era accaduto. Io mi sentivo colpevole di quello che era
successo.
Eravamo tutti preoccupati; avevamo paura fino a quando non ci dissero che era salvo.
Quella sera non dormii. E neanche il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Ero distrutta.
In quella settimana mi sentivo sola, a causa del “lavoro” di mio padre persi tutti i miei
amici; ormai neanche Luca, una volta ripresosi non voleva vedermi più.
Ero in uno stato di profondo sconforto e fu così che presi la decisione più difficile
della mia vita: feci le valigie. Ero già pronta per uscire; uscire dalla porta era troppo
pericoloso. Decisi di uscire dalla finestra , ma scivolai e caddi giù. Per fortuna era a
piano terra , ma presi una bella botta alla testa. All’improvviso mi ritrovai in un
ospedale , ricordavo poco dell’accaduto , quasi nulla. Ma i miei occhi si illuminarono
quando vidi entrare nella mia camera mio padre, che mi abbracciò. Non lo aveva mai
fatto, mi sentivo una persona diversa, felice.
Quell’abbraccio fu interrotto quando mio padre mi disse : “ mi pento per quello che ho
fatto , scusa. D’ora in poi la nostra vita cambierà. Voglio che mia figlia sia fiera di me”
Sembrava una persona diversa, nuova.
Abbracciò anche mia madre , cosa che non faceva dal loro matrimonio.
Ero felice.
Ora sono passati 10 anni , sono sposata e mio padre è diventato nonno.
Una scoperta terribile
Come potrei dimenticare quei momenti in cui tutti eravamo felici, sereni e pieni di
gioia? Adesso tutto è cambiato. Quando vedevamo le valli verdi del Piemonte dove con
una piccola scintilla scoppiò l’amore tra mamma e papà? Mamma è originaria di Cuneo,
papà di Napoli.
Il 26 ottobre ci siamo trasferiti a Napoli, lasciando la nostra casa, la scuola, gli amici.
In poco tempo vidi mio padre del tutto cambiato... ma era sul serio mio padre? Non lo
riconoscevo quasi più. Prima non fumava, ora sì. Prima rideva sempre, ora porta il
broncio. Quando esce di casa, se gli chiedo dove va o che deve fare mi risponde “
niente che ti possa importare”. Un giorno l’ho visto parlare con un uomo vestito tutto
di nero e con un paio di grossi occhiali da sole, poi entrarono in un’auto nera con
finestrini neri. Che uomo strano!
Nella nostra famiglia mia madre, mia sorella ed io veniamo tenute in disparte dalle
conversazioni di famiglia tra papà e i suoi fratelli maggiori. Prima mi chiedevo perché,
ora l’ho capito, anche grazie all’aiuto di mia sorella. Lei deve averlo scoperto molto
prima di me e un giorno mi ha confidato un segreto: papà stava lavorando con gente
poco raccomandabile.
Solo per caso ebbi conferma di questo fatto, quando sentii per caso una conversazione
tra mio padre e mio zio che parlavano dello spaccio di droga come di un’attività molto
utile perché si guadagnava di più rispetto al pizzo e all’usura.
Cercai di fingere di aver sentito male. Desiderai tornare indietro nel tempo. Niente di
questo era possibile. Fu così che scoprii che papà era entrato nella mafia.
Parte III
Storie da altri mondi
Ho in mente un progetto per il futuro: risistemare il processore interno lasciando spazi vuoti
per la parte irrazionale del nostro essere. Lasciare posto alle emozioni non è facile, anzi a
volte provoca anche sofferenza, ma ne vale la pena.
Siamo organismi complessi, in cima alla scala evolutiva, eppure un essere umano meno
perfetto di noi ci ha fatto riflettere su questa cosa così importante.
TU, RAGAZZO DEL 3015.
“Mamma , mamma, è pronto il lasagelato?”
“ Aspetta , è ancora in forno. Ah, guarda ,
sta arrivando un drone , vedi cosa è
arrivato”
“ Sì mamma, vado.”
Il drone si posò sull’erba del giardino , e io presi delicatamente lo scatolo.
Mittente: ragazzo del 2015
Destinatario: ragazzo del 3015
“Credo che sia destinato a me !”
Mi chiusi nella mia camera e aprii lo scatolo.
Dentro c’erano tante lettere e un cofanetto color oro .
Lo aprii e trovai una collana , era di oro puro. Non lo avevo mai visto , visto che nel
2997 l ‘ uomo aveva finito tutte le risorse importanti , tra cui l’oro e l’argento.
Tra le tante lettere fui colpito da una in particolare. Era azzurra con degli adesivi.
La aprii , era scritto in gergo duemilesco , quello che circa un secolo fa si chiamava “
ITALIANO”. Era scritto con una penna , che oggi da noi non esistono; scriviamo con
dei laser. Andai allora da mia madre , da piccola la parlava, ma non si ricordava tanto.
Andai allora da nonno , ma era troppo vecchio per ricordarsi. Allora presi il mio GRG,
quello che chiamavano cellulare, andai su BOOBLE ovvero il vecchio Google scrissi
traduttore , e mi portò a Booble traduttore.
Che nomi strani che avevano gli oggetti a quel tempo!
Tradussi la lettera.
Essa diceva:
“Ciao ragazzo del futuro , forse non capirai quello che sto dicendo , perché magari la
lingua italiana sarà cambiata. Sono contento per te , perché sono sicuro che hai una
macchina volante, una spada laser vera , un computer volante , ma sono anche
scontento , perché dovrai studiare 1000 anni di storia in più…MI DISPIACE!
Spero che almeno la scuola tra 1000 sarà meglio. Noi scriviamo ancora con le penne sui
quaderni , e voi? Ma che te lo chiedo a fare? Tanto non ci incontreremo
mai ! Immagino che la vostra scuola sia sospesa in aria.
Io ti saluto, è stato bello “ parlare” con te!”
Come erano strani i ragazzi a quel tempo! Ma la scuola era ancora un edificio?
Oggi la “scuola” è un casco che ti dice tutte le informazioni e il cervello conserva
tutte le informazioni ( se è un cervello ben allenato).
Per fare le verifiche , scriviamo con le penne laser sul cielo , poi si scatta la foto alla
verifica e si manda tramite e-mail al casco che noi chiamiamo “sotuttoio”. Non
sappiamo cosa significhi , sappiamo solamente che lo dicevano i ragazzi del 2000.
“ Krapuntik! Il lasagelato è pronto! Vieni!”
“Mamma , mamma , posso darne un po’ anche a Kitnupar?”
Kitnupar è il nostro animale domestico , è un castoro adorabile! Mamma mi ha
raccontato che prima l’animale domestico per eccellenza era il cane , poi seguivano il
gatto e il coniglio. Adesso questi animali vengono considerati normali. Sono domestici i
castori , che hanno una camera tutta loro , dove possono costruire una diga e i pinguini
, che hanno una camera tutta loro , che assomiglia molto al polo sud, inoltre esistono
anche i pinguini robot , che hanno le loro stesse caratteristiche , ma hanno un habitat
diverso , infatti possono vivere normalmente in casa.
Adesso vado a mangiare, ah il lasagelato non esisteva nel cibo duemilesco ma era diviso
in due: la lasagna ,che per loro era un piatto tipico, E Il gelato che invece era uno
spuntino più che altro estivo perché freddo. Invece ora posso mangiarlo quando mi
pare e piace e tutto insieme.
Ora vado ho una fame tasmanica.
La mia nuova vita
Sono Amos, voglio raccontare come un mio
strano amico mi fece capire l’importanza di
provare emozioni.
Ero con i miei compagni per una spedizione
in un nuovo mondo lontano anni luce dal
mio, un mondo diverso da tutti gli altri che
avevo conosciuto finora: la terra. Volevamo
studiare altre forme di vita e provare a relazionarci con loro, capire se fossero
superiori o inferiori, se dovevamo aver paura di loro o imparare a fidarci.
Vagammo per la galassia per decenni finché non vedemmo il nuovo pianeta. Da lontano
era azzurro circondato da un’atmosfera di gas che lo rendevano misterioso e
interessante.
L’atterraggio non fu per niente facile; dopo aver attraversato gli strati dell’atmosfera
ci trovammo di fronte un paesaggio strano, dove si intrecciavano costruzioni dalle
forme più svariate e quasi non c’era spazio sufficiente per la nostra navicella. Alla fine
cercammo un posto dove non avremmo attirato l’attenzione, fermandoci in uno spazio
di colore acceso proprio dietro uno strano edificio.
Scendemmo dalla navicella e furtivamente entrammo in quell’edificio, che loro
chiamavano “scuola” e ci trovammo per la prima volta di fronte ad un “umano”.
Ci guardò con aria sconvolta, mentre noi non esitammo a rapirlo, lo portammo sulla
navicella e lo congelammo. Con la forza del pensiero ci trasferimmo in pochi istanti nel
nostro mondo e lo scongelammo: era pronto per essere analizzato. Dopo analisi
scientifiche sul suo organismo, la materia di cui era costituito e il funzionamento dei
suoi organi, iniziammo ad interrogarlo.
-Come ti senti umano?
-Cosa siete? degli alieni!?
-Rispondi alle nostre domande senza esitare! Non dobbiamo darti alcuna spiegazione
- Beh per voi come dovrei sentirmi? Sono a dir poco terrorizzata!
-Terrorizzata? Che vuol dire “terrorizzata”?
-Ecco è una delle tante emozioni che proviamo noi esseri umani: noi ci sentiamo così
quando abbiamo paura.
-Tante “emozioni”? spiegati meglio
-Beh si, emozioni come appunto la paura, oppure come la nostalgia che si prova quando
si è lontani da casa; la tristezza ,che proviamo quando ci sentiamo giù di morale per
qualche cosa che per noi è importante; la gioia che una sensazione bella quasi come
l’affetto che si prova per le persone a noi care...
-Quali sono le persone a te care?
-I miei genitori a cui tengo tanto anche se lavorano per tutto il giorno, il mio fratellino
Leo...anche se è molto fastidioso gli voglio bene e la mia migliore amica Anna che mi
aiuta sempre durante le difficoltà...
-Ti mancano questi umani?
-Si, moltissimo...vorrei tornare a casa da loro, vorrei abbracciarli, giocare con Leo,
raccontargli la sua favola preferita. Sono felice con loro.
Queste parole ci colpirono profondamente: non conosciamo affatto e non proviamo tali
sentimenti. Siamo fatti con un processore elettronico che ci rende perfetti; non
abbiamo mai sentito alcuna emozione, siamo semplicemente razionali. l’amore per noi è
semplicemente uno scambio di files per riprodurre una copia fedele dell’essere madre
al 50% e dell’essere padre per l’altro 50%.
Invece ora sentivamo parlare di occhi che si illuminano, di sguardi affascinanti, di un
cuore che batte forte... anche noi avevamo avuto un cuore tanto tempo fa... ma poi la
nostra specie si è evoluta, perfezionando il funzionamento dell’organismo che adesso
riesce a vivere più di 300 anni.
Certo, si vive più a lungo, ma forse abbiamo perso qualcosa di importante.
L’incontro con l’umano fa rinascere tanti ricordi; mi guardo intorno e mi accorgo che
H24 è nervosa, agitata, chiude le due fessure al posto degli occhi urlando
- Questa storia non ha senso! Bisogna guardare sempre avanti, non indietro!”
Secondo me ha paura di ricordare la vita precedente, prima che ci fosse il
cambiamento, la vita che vivevamo almeno 200 anni fa.
- È atroce ricordare- sussurra con voce affranta e tenendo la testa tra le mani-
a poco a poco riemergono tante memorie, un sorriso, una mano che sfiora il viso,
la gioia di vedersi, la tristezza e pure la rabbia.... tutto aveva più colore allora...
e più sapore...
Le lacrime iniziano a bagnare il volto di H24 e un velo di tristezza si stampa su quel
viso finora sempre inespressivo.
- Allora sono ancora in grado di provare emozioni? allora non è tutto perduto?-
continua lei in preda ad un fortissimo entusiasmo.
Quella scoperta la riempie di gioia e anche io non posso evitare di partecipare alla sua
emozione. Con un misto di gioia e stupore mi lancio verso di lei per abbracciarla.
Ho in mente un progetto per il futuro: risistemare il processore interno lasciando
spazi vuoti per la parte irrazionale del nostro essere. Lasciare posto alle emozioni non
è facile, anzi a volte provoca anche sofferenza, ma ne vale la pena.
Siamo organismi complessi, in cima alla scala evolutiva, eppure un essere umano meno
perfetto di noi ci ha fatto riflettere su questa cosa così importante. Nel giro di pochi
secondi con la forza del pensiero la riaccompagno sulla Terra, proprio un attimo prima
del suono della campanella. Neanche lei potrà mai dimenticare quest’avventura
interplanetaria.
Parte IV
Storie di classe
Compagni di scuola
ATTO I –SCENA I ( FUORI SCUOLA)
Sono le otto di mattina, abito vicino a scuola e sono già
in ritardo; ma sono appena in tempo ad assistere ad una
discussione. Arrivata fuori la scuola vado subito dal mio
migliore amico Marco.
Io= Hey, Marco come stai? Ti ho mandato un SMS ma non mi hai risposto.
Marco= Ciao, ah si; mi sono proprio dimenticato di rispondere.
Un gruppo di amici= Hey, ciao Cris, ciao Marco avete visto quanti compiti ci hanno
assegnato!
IO= Ma dai, che sarà mai; non erano mica così tanti.
Un gruppo di amici= Ah no no, ma dai.
Marco=Oh no , dai, sta venendo Jonathan.
Io= Oh oh, c’è un problema sta venendo anche Viola.
Jonathan= Ciao ragazzi, sta venendo la secchiona, ah ma avete visto come si è vestita
, sembra uno spaventapasseri, ma dove l’ha comprata quella maglia: su una bancarella.
Viola= No, mi dispiace per te Jonathan, li ha scelti mia madre in un negozietto per di
qua
Jonathan= Ahhahahhha! Addirittura. Ragazzi andiamocene da questa nullità.
Marco= Ma cosa dici; forse sarà un po’ squilibrata e imbranata, forse sta in un mondo
tutto suo, ma non penso che sia lei sempre quella strana, forse ci sei tu!
Jonathan= Vuoi metterti contro di me, sai che non ti conviene.
Marco= scusa, ma io ho detto solo la mia opinione non mi interessa la tua.
Campanella= Driiiiiiiiiiiiinnnnnnnnnnnnnnn!!!!!!
Gruppo di amici= Dai ragazzi andiamo in classe.
ATTO I– SCENA II ( IN CLASSE)
Gruppo di ragazzi= Buongiorno professoressa.
Professoressa= Buongiorno ragazzi, oggi dovrò spiegare il Teorema di Pitagora, “
siete sulla TERRA”, posso spiegare?
Gruppo di ragazzi= Certo professoressa.
Segretaria= Professoressa, scusatemi, ma dovete andare in presidenza, la preside vi
vuole parlare.
Professoressa= Ragazzi devo assentarmi un minuto, Viola mettiti alla lavagna e scrivi
chi parla e chi si alza.
Viola = Si, certo.
Jonathan= eccola la neonata, super secchiona.
Francesca = Viola, scrivilo!
Jonathan = Perché ti impicci tu, questa storia non ti riguarda.
Viola= ……..Beh………
Professoressa= Oh…. Nessuno scritto alla lavagna, è un MIRACOLO. Bravissimi! Ora
inizierò a spiegarvi il Teorema di Pitagora[il Teorema di Pitagora dice: la somma dei
quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa….]
Passa mezz’ora
Campanella ricreazione DRIIIIIIIIIIINNNNNNNN
La prof va fuori la porta per parlare con un’altra professoressa.
Jonathan: Viola, scusami, ma dove li compri i tuoi vestiti? Su una bancarella, forse
Viola: non lo so... penso di sì
Jonathan: Sei proprio il massimo
Viola: Oh, grazie!
Jonathan: ahahahahah
Marco: Basta! Ma perché la prendi sempre in giro? finiscila! le persone si feriscono al
sentire cose così
Jonathan: ah, sì, è arrivato l’eroe... allora, se la ,mettiamo così Bam! – lo spinse
violentemente contro l’armadietto facendogli male al torace.
Io: oddio, sei impazzito! Chiamate la professoressa
Prof: oh, no! Chi è stato passerà un mare di guai. Ditemi assolutamente chi è stato
Jonathan: prof, è stata Viola!
Jonathan, con uno sguardo minaccioso e fuori dal comune sembra impaurire tutta la
classe con la sua espressione. La classe rimase per almeno un minuto in silenzio
assoluto.
Gruppo di ragazzi: sì, è stata Viola
Jonathan: E’ vero, Viola?
Prof: Viola, sei stata tu?
Viola: sì, prof, sono stata io
Prof: ok, allora dovremmo prendere seri provvedimenti. Andiamo dalla preside.
Francesca , vai alla lavagna
Francesca: sì, certo
Passato un quarto d’ora
Prof: Viola, ci sarà una punizione esemplare per te. Ragazzi ora mettete a posto
Campanella DRIIIINNNNNN
ATTO I SCENA III ( tragitto casa- scuola)
Jonathan: ragazzi, avete visto Viola che ha fatto?
Gruppo ragazzi: sei stato un mostro con lei
Jonathan: sono stato anche troppo buono.
Gruppo ragazzi: ora noi andiamo, ciao a tutti
Jonathan: Viola, non si picchiano i compagni
Viola: lo sai che non sono stata io, basta, finiscila!
Jonathan: basta, sei solo una neonata
Un adulto: perché la stai aggredendo? Io sono Giorgio, un amico dei tuoi genitori,
parlerò con loro, così la finirai di dare fastidio ai compagni. Andiamo a casa tua.
Viola: grazie
Gruppo ragazzi: Viola, forse i nostri problemi sono finiti
E così la vita di Viola e degli altri compagni cambiò, si viveva in un’atmosfera di
serenità e pace e Jonathan finalmente divenne un ragazzo bravo, educato e corretto.
La mia classe
Nella mia classe succede di tutto. Ci sono tanti ragazzi nella mia classe, tutti diversi
tra loro. C’è Maria Rossi, ha dodici anni, in classe fa spesso scherzi e tutti ci cascano.
A volte esagera e prende in giro il poverino di turno. Poi c’è Serena Bianchi; lei crede
di essere la più bella di tutte e tratta con superiorità tutte noi creature normali. Lei
è la divina!
Poi c’è LUI. È alto 1,60 m, veste sempre in modo sportivo, quel look un po’ alternativo
che piace e spaventa ...purtroppo se la prende sempre con la stessa persona. Lei è
piccolina, un po’ fragile e vorrebbe tanto che lui diventasse suo amico. È buona, lei,
anche se a volte cerca di reagire, difendendosi a volte con le mani, ma il più delle volte
con le parole. Se qualcuno cerca di intervenire lui nega, come se non avesse fatto
niente di male, spesso spalleggiato da due o tre compagni, che hanno paura che lui
possa fare altrettanto con loro. M., questo è il nome della vittima, mi ha confidato che
non sa come reagire, per paura che lui possa farle qualche scherzetto pericoloso.
Spesso, infatti, sceglie di rimanere in silenzio, ma questa non è la soluzione giusta.
Bisognerebbe parlare per far uscire fuori la verità, questo è l’unico modo per risolvere
la questione. Purtroppo nella maggior parte dei casi queste cose accadono raramente
perché i nostri professori vigilano sempre e noi sappiamo che possiamo sempre
rivolgerci a loro qualunque cosa accada.
Se facessero qualcosa a me cercherei le parole adatte per fargli capire i suoi errori.
Le mani non le userei, perché non vorrei fargli male; aggressiva non lo sono e non
vorrei mai usare le stesse armi. Con la violenza non si risolve niente. Vorrei usare la
gentilezza per farlo diventare un amico amato da tutti. vorrei che cambiasse il suo
comportamento rispettando le regole, gli insegnanti e noi compagni. La cosa che più mi
infastidisce è il fatto che in un’occasione ha chiesto ad una compagna molto brava di
fargli copiare i compiti, minacciandola di prendersela con lei fuori scuola in caso
contrario. Lei , impaurita, scattò una foto di tutti i problemi svolti per bene e glieli
inviò su Whatsapp. Il giorno seguente la professoressa di matematica controllò i
compiti ed elogiò l’imbroglione per l’ottimo lavoro svolto. Quella volta non riuscii a
tacere e decisi di dire tutta la verità. Chiamai in disparte la prof. E raccontai per filo
e per segno come si erano svolte le cose. Lei capì la situazione e senza far capire che
ne avevo parlato io fece una lunga ramanzina a tutti spiegando l’importanza di essere
sinceri e di impegnarsi a fondo per raggiungere i nostri obiettivi. Da allora non è più
capitato e spero che lui abbia imparato la lezione. In fondo è un bravo ragazzo e mi
ispira una sincera simpatia.
Star bene a scuola
Si apre il sipario e lo spettacolo inizia
Scena 1: in classe- insegnante e alunni.
Narratore : è il primo giorno nella sua nuova
scuola “Leonardo Da Vinci” per Maria, una bella bambina con i capelli biondi, lunghi e
ricci, occhi verdi e guance paffute. Maria è anche un po’ grassottella, ma comunque
dolce e gentile, forse anche troppo; ma ora basta parlare, diamo inizio allo spettacolo.
Prof.: silenzio, bambini! Ho un annuncio da farvi: da oggi ci sarà una nuova compagna
nella vostra classe, il suo nome è Maria.
Narratore: Maria entra in classe dopo essere stata presentata, ma non ricevette
l’accoglienza si aspettava. Ricambia il saluto e va a sedere al suo posto. Durante la
ricreazione, Maria cerca di conoscere i suoi nuovi compagni, va vicino ad alcune
bambine che le sembrano socievoli, ma a quanto pare si sbagliava.
Maria: ciao, posso sedermi vicino a voi?
Compagne: scusa, ma stiamo parlando di cose private.
Maria: D’accordo, magari parleremo la prossima volta...
Compagna: ( sottovoce, quando Maria se ne va): Sapete, è un po’ noiosa ed anche
grassa; insomma, non mi piace.
Le altre: Hai ragione! ( ridendo tra di loro)
Narratore: Maria, così, passa l’intervallo da sola, triste, mentre gli altri compagni
parlano male di lei alle sue spalle.
Scena 2 (ora di ginnastica, in palestra)
Professoressa di ed. fisica: Allora, adesso giocheremo a pallavolo, dividetevi in due
squadre.
Narratore: nessuno voleva Maria in squadra, ma alla fine la prof. La inserì nel gruppo
delle ragazze che l’avevano rifiutata a merenda.
( commenti di disapprovazione da parte delle compagne)
Prof. :Maria , entra in campo.
Maria: sì, subito.
Compagne: così ci farà perdere!
Narratore: purtroppo Maria sbagliò la battuta e i compagni iniziarono a ridere, a
prenderla in giro, ma non più alle spalle, ma in modo diretto.
Maria iniziò a piangere e corse fuori dalla palestra.
Compagna: guardatela, subito si mette a piangere! Come se fosse lei la vittima e non
noi che per colpa sua abbiamo perso!
Scena 2 ( in corridoio, secondo giorno di scuola)
Narratore: ora vedremo che la vita di Maria nella nuova scuola diventa sempre più
brutta e pesante da sostenere. È ora della ricreazione.
Campanella: DRIINNNNN
Tutti gli alunni si alzano dai loro posti e si riuniscono in piccoli gruppi ma Maria passa
la ricreazione da sola.
Maria: Prof, posso andare in bagno?
Prof: certo, ma fai in fretta perché dopo abbiamo una lezione importante.
Maria: D’accordo.
Narratore: nel corridoio Maria viene raggiunta da un compagno.
Marco: Maria, fermati, ti devo parlare.
Narratore: Maria, convinta che il compagno volesse fare amicizia, si avvicina a lui, che
invece prima inizia a spingerla, poi la fa cadere a terra.
Maria: perché l’hai fatto?
Marco: mi dai fastidio. Prima ero io il primo della classe, ma da quando sei arrivata
non hai fatto altro che rubarmi il posto. Ti do un consiglio, mettiti
Maria ( con voce impaurita e tremolante): farò come vuoi tu...
Narratore: e così tornarono in classe, lui con lo sguardo trionfante, lei più triste che
mai.
Scena 3 ( a casa dopo scuola)
Genitori : ciao, tesoro, come è andata oggi a scuola?
Maria: bene, anzi, una meraviglia!
Genitori: siamo contenti che tu ti stia trovando bene nella nuova scuola.
Narratore: in realtà Maria aveva mentito ma aveva paura di raccontare ciò che era
successo quella mattina e delle minacce ricevute. Si reca in camera sua, chiudendo
bene la porta. Sicura che nessuno la potesse sentire , incominciò a piangere. I giorni,
ormai andavano avanti così, Maria era sempre più triste e sola, ma ora i genitori
avevano intuito che qualcosa non andava...
Scena 4 (Dialogo tra i genitori- Casa di Maria)
Mamma: Mario, secondo me sta succedendo qualcosa a nostra figlia, la vedo strana,
diversa, il suo bel sorriso, il suo viso sempre allegro sono ormai scomparsi da qualche
giorno.
Papà: l’ho notato anch’io, dobbiamo scoprire cosa succede. Se sta male lei sto male
anch’io
Narratore: Maria, purtroppo aveva sentito la discussione tra i genitori, voleva fingere
di stare bene, ma non ci riusciva.
Scena 5 (A scuola)
Narratore: ormai Maria non ce la faceva più. Il suo malessere era evidente. I suoi
genitori decisero di andare a scuola per capire cosa stesse succedendo.
Marco: Ehy, Maria, mica hai parlato? Se è così finirà molto male.
Maria: io non ho parlato. ( si girò e vide i genitori) che ci fate voi qui?
Mamma: eravamo preoccupati per te, così siamo venuti a chiedere alla professoressa
se è successo qualcosa.
Narratore: Maria si butta tra le sue braccia e le spiega tutto. La professoressa aveva
assistito alla scena e prese provvedimenti verso il responsabile, contattando subito i
suoi genitori.
Preside: cosa è accaduto?
Prof.: questo ragazzo ha picchiato e minacciato la compagna; credo debba essere
punito severamente.
Preside: quello che hai fatto è una cosa molto grave. spero che la lezione ti serva per
il futuro e che d’ora in poi tu abbia più rispetto per gli altri.
Narratore: così Maria poté trascorrere i restanti giorni di scuola in serenità, con
tanti amici.
Vi presento la mia classe.
Siamo amici, ma non mancano i problemi. Certo, non si può andare d’accordo con tutti,
ma questo non significa comportarsi in modo sgarbato o peggio prendersela con chi
non può difendersi. Invece, purtroppo, non tutti i miei compagni sanno gestire le
situazioni e sbagliano, comportandosi male gli uni con gli altri. Tra loro c’è Federico
che spesso di fronte ad un’offesa o ad una parola detta senza pensare reagisce con le
mani, poi c’è Antonio, che prende sempre in giro Luigi dicendogli “Come ti sei vestito!
Sembri un sacco d’immondizia!” . Io cerco di difenderlo, anche se mi prendono per la
sua fidanzatina. Il fatto è che lo conosco da quando era piccolo, è un ragazzo davvero
bravo, gentile e simpatico, anche se non ha un’aria tanto felice.
Poi c’è Catia, che crede di essere la più bella e per di più mi dice spesso che sono
brutta e mi fa i dispetti. Una volta mi ha chiesto in prestito la matita e poi l’ha
buttata nel cestino. Mi arrabbiai così tanto che al posto degli occhi avevo delle
fiamme. Federico è molto alto e robusto ed ha un atteggiamento piuttosto sgradevole.
Antonio, invece, è il più piccolo ed è molto magro, non ha amici perché tutti lo isolano e
gli dicono che è bassetto. Io cerco di parlare con lui ed ho scoperto che il suo
atteggiamento è dovuto alla timidezza ed all’insicurezza, in fondo è un ragazzo
simpatico.
Quasi tutte le ragazze stanno con Catia perché si credono COOL, cioè belle; io invece
non riesco a starle vicina perché sembra molto superficiale, ma purtroppo sto seduta
vicino a lei. Miriam, la mia migliore amica dice “ non farti contagiare da quella snob
antipatica” ed io rispondo “Non riuscirà mai a contagiarmi!” Miry, così la chiamo, mi
racconta che ha fatto le elementari con lei e che non era così, era una brava bambina
ed aveva tanti amici. Anche lei era sua amica. Al solo pensiero di loro due amiche mi
sembra tutto così strano: oggi non la degna neanche di uno sguardo. Non dico di certo
che Catia non debba avere amici, ma questa cosa mi sembra davvero strana.
Purtroppo devo confessare che sono stata spettatrice anche di un atto di bullismo:
Federico ha picchiato Antonio, io ho cercato di difenderlo, ma gli altri hanno fatto
finta che non fosse accaduto nulla. L’unica cosa che potevo fare era di confessare
tutto alla prof. che sgridò Federico mettendo una nota. Lui se la prese con me
chiamandomi “La difendi stupidi” questa cosa mi fece infuriare ancor di più, sembrava
quasi che prendessi fuoco. Però la lezione è servita perché lui si è accorto che non
esisteva più quel muro di silenzio che impediva a tutti di parlare delle sue bravate. Ora
sa che non resteremo più in silenzio ma sapremo difenderci nel modo giusto. Sono
orgogliosa di quello che ho fatto.
Io dico basta!
“Eccolo qui, il nuovo compagno di classe!”- e i miei compagni iniziarono subito a fare
dei dispetti al nuovo ragazzo, ma a me non interessava molto, ho già i miei problemi,
non voglio avere anche i suoi.
Certo che però oggi hanno fatto di tutto per metterlo in croce! Il nuovo arrivato si
chiama Sergio, è spagnolo non italiano e per questo è spesso vittima di prese in giro e
addirittura qualche volta è stato minacciato.
I maggiori pericoli per lui sono i più temuti della classe, ovvero Kyle e Josh; prima o
poi dovremo scrivere un cartello e appenderlo sulla porta della classe e scriverci:
“Attenzione , pericolo! Non entrare qui dentro... ci sono animali feroci!”.
So per certo che a loro il mio pensiero non piacerebbe, ma tanto non lo sapranno mai;
quello che penso di loro l’ho scritto sul mio diario ben nascosto a casa mia tra tanti
libri e quaderni e poi di sicuro non possono entrare nella mia testa...
Oggi è successo di nuovo. Hanno buttato il cassino sulla faccia di Sergio! È successo
tutto nell’ora di storia. Il poverino aveva iniziato a parlare con Ellen, credo la trovi
simpatica solo che non sapeva un particolare insignificante, sarà pure una cosa da nulla
: Ellen è la ragazza di Kyle. Quando lui li ha visti insieme è diventato rosso dalla rabbia
e ha iniziato ad urlare “ TU, TU!!! Come osi parlare con la mia ragazza DAVANTI AI
MIEI OCCHI!”. Ellen dispiaciuta cercava di intervenire per difendere la povera
vittima, in fondo stavano solo parlando come buoni amici e iniziò a dire “non fargli del
male, Kyle, io te lo impedirò!”
“ Vattene, Ellen!”- rispose lui, spingendo la ragazza giù dalla sedia. In quel momento
Sergio era spacciato, nessuno lo poteva aiutare , tranne, ovviamente, il prof di storia.
“Ma che stai facendo?”!
“Niente prof...” rispose Kyle alzando le mani e, tornando al proprio posto, disse Sergio
a bassa voce “ci vediamo fuori scuola.”
Tutto andò per il verso giusto fino a quando Josh non rubò il dizionario della scuola.
Nessuno se n’era accorto, tranne Kyle, ovviamente, lui sapeva tutto, lui aveva ideato il
piano.
Inoltre, aveva mantenuto la parola, aveva bloccato Sergio fuori scuola.
“Hey tappo”- disse, dandogli un pugno nella pancia...
Sergio lo supplicò fino allo svenimento “No, ti prego Kyle, non farlo...”
A quel punto cadde dallo zaino il dizionario che finì a terra. Sergio lo riconobbe e lo
mise nel suo zaino per poterlo riportare a scuola l’indomani.
Certo, non sono d’accordo neanche io con quello che succede nella mia classe, ma sono
fatti suoi.
Il giorno dopo Sergio teneva ancora il dizionario nello zaino, lo voleva riportare al suo
posto di nascosto. C’era quasi riuscito senonché la professoressa notò uno strano
movimento ed intervenne. Si arrabbiò molto con lui.
A dire la verità ero dispiaciuto per Sergio e avevo capito che era il momento di
svegliarci: dovevamo ribellarci a quei due. L’indomani organizzai un piano con Ellen:
Josh e Kyle erano soliti mettere della polvere di gesso sulla sedia e sulla giacca della
prof, mentre lei era impegnata alla lavagna. Il piano era tanto semplice quanto
diabolico: avrei fatto finta di cadere in modo da richiamare l’attenzione della prof che
li avrebbe scoperti, senza per questo correre io dei rischi inutili. Furono rimproverati
dalla preside a dovere. I mesi di terrore finirono per tutti, soprattutto per Sergio,
che era stato tormentato sin dal primo giorno.