Il Mestiere Dell'Improvvisazione
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7/25/2019 Il Mestiere Dell'Improvvisazione
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UNIVERSIT DEGLI STUDI DEL SALENTO
Facolt di Scienze Sociali, Politiche e del Territorio
Corso di Laurea Specialistica in
Sociologia e Ricerca Sociale
IL MESTIERE DELL'IMPROVVISAZIONEEtnografia della Jam Session
Relatore:
Chiar.mo Prof. Mariano Longo
Tesi di Laurea di
Igor LEGARI
Matricola n.10030274
ANNO ACCADEMICO 2007/ 2008
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INDICE
Introduzione : Un mondo a parte 4
Cap. 1 Jazz e Scienze Sociali 111.1 La densit del jazz 111.2 L'analisi musicologica e i suoi limiti 131.3 Tra etnomusicologia ed antropologia 151.4 African American Studies: una prospettiva etnica? 171.5 La prospettiva sociologica 20
1.5.1 L'equivoco di Adorno 211.5.2 Schutz: "Making music together" 221.5.3 H.S. Becker: il mestiere dell'improvvisatore 24
1.6 Paul Berliner: l'improvvisazione come competenza 251.7 Ingrid Monson: i riflettori sulla sezione ritmica 25
Cap.2 Il mestiere dell'improvvisazione 272.1 La magia dell'improvvisazione 272.2 Improvvisazione come competenza 332.3 Improvvisazione e linguaggio 422.4 Improvvisazione e conversazione 45
Cap. 3 Etnografia della jam session 503.1 Nota metodologica 50
3.2 La comunit dei jazzisti 543.2.1 Gli outsiders della musica 543.2.2 Categorie di musicisti 61
3.3 Cos una jam session? 683.3.1 Definizione e cenni storici 683.3.2 Aspetti organizzativi 73
3.4 Come funziona una jam? 78
3.4.1 Cosa suoniamo? Il repertorio degli standard 793.4.2 Come lo suoniamo? Head arrangements e trattamenti
convenzionali
87
3.5. La jam session come modello di azione collettiva 973.5. La sezione ritmica 99
3.6.1 Sezione Ritmica e Front Line 993.6.2 Ruoli e convenzioni 1053.6.3 Il bassista 1083.6.4 Il batterista 1173.6.5 Il pianista 124
3.7 I solisti 128 3.8 Relazioni di potere, valori musicali e risoluzione dei conflitti 133
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Conclusione 138
Bibliografia 147
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Un mondo a parte
Man, if you have to ask what (jazz) is, you'll never know.
Louis Armstrong
Quando ho cominciato ad appassionarmi seriamente al jazz, intorno ai
quindici anni, ho dovuto affrontare l'imbarazzo di ritrovarmi fuori dalle
mode correnti dei miei coetanei.
Sentirsi incluso in un gruppo ed essere accettato come "normale"
una delle principali preoccupazioni per un adolescente e la condivisione
di interessi comuni gioca un ruolo importante in questa fase delicata
della vita. Avere gusti musicali cos diversi da quelli dei propri compagni
di scuola o amici pu creare a volte un senso di isolamento. Ma le
passioni pi forti possono aiutare a superare quella paura di apparire in
qualche modo diverso dagli altri che spesso spinge verso un pi comodo
conformismo.
Il passaggio dall'ascolto alla scelta di uno strumento e allo studio della
musica mi sembrato quasi obbligato. Non posso fornire dati statistici al
riguardo, ma credo di poter affermare con una certa sicurezza che buona
parte degli amanti del jazz hanno una qualche familiarit con la pratica
musicale e suonano uno strumento, anche solo a livello amatoriale.
Sembra piuttosto confermata la tesi che vuole il jazz una musica per
musicisti, nella duplice accezione di un genere che richiede competenze
musicali medio-alte per essere apprezzato appieno e i cui appassionati
sono spesso presi dal desiderio di passare dal ruolo passivo di ascoltatore
a quello attivo di musicista.
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In seguito mi sono trasferito a Roma per intraprendere gli studi
universitari e al contempo per iscrivermi alla Scuola Popolare di Musica
del Testaccio, un'istituzione storica per il jazz nella capitale. stato a
quel punto, quando mi sono ritrovato immerso in un ambiente i cui tutticondividevano la stessa passione e parlavano la stessa "lingua", che ho
avuto la netta sensazione di accedere ad un mondo a parte.
Gli studi sullesubculturehanno ampiamente indagato le modalit con
cui gruppi pi o meno ampi di individui tendono a "modellarsi" intorno
ad un elemento aggregante, dando vita a una "cultura nella cultura"
dotata di una propria autonomia.Nella mia situazione di studente di antropologia che frequentava una
scuola di musica jazz, era naturale che la mia attenzione fosse attratta da
quegli aspetti dell'ambiente musicale che pi da vicino mi ricordavano le
nozioni apprese nelle aule della facolt. Riconoscevo negli atteggiamenti
e nel linguaggio dei jazzisti gli elementi tipici di una comunit in
qualche modo "esclusiva". Ovviamente ne ero affascinato e cercavo diapprendere quanto pi possibile non solo in termini di nozioni musicali e
tecniche, ma anche in termini di comportamento, di uso appropriato del
linguaggio tecnico, di "stile". Sebbene ora la cosa mi appaia piuttosto
ridicola, all'epoca in cui mi avvicinavo timidamente al mondo del jazz,
consideravo ci come un fatto di estrema importanza, al pari delle
capacit musicali e del talento. La mia preoccupazione era quella di non
apparire troppo sprovveduto o ingenuo, fuori dalle regole del gruppo,
cos come da ragazzino mi sentivo un po' a disagio perch ascoltavo una
musica decisamente fuori moda tra i miei coetanei. Ora invece mi
ritrovavo finalmente tra persone di ogni et che condividevano la mia
stessa passione e volevo a tutti costi dimostrare di essere "uno di loro".
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Ero a tutti gli effetti un newcomerche si sforzava per non essere pi
riconosciuto come tale.
Dopo circa due anni sono ritornato a Lecce, dove ho proseguito gli
studi universitari in Sociologia. Parallelamente ho continuato lo studiodel jazz e del contrabbasso in modo autonomo. Mi ritengo pertanto
fondamentalmente autodidatta nel campo della musica. A partire dal
2000 ho intrapreso una discreta attivit concertistica nel territorio
pugliese, accumulando una mole di esperienze in particolare nel contesto
dellejamsession
Nell'ottobre del 2008 sono stato ammesso a frequentare il primoInternational Jazz Master Program (In.Ja.M.) organizzato dalla
Fondazione Siena Jazz. Si tratta di un corso di alta specializzazione in
tecniche dell'improvvisazione, al quale partecipano in qualit di docenti
alcuni dei pi importanti artisti internazionali. Parte integrante di questo
Master sono lejam sessionorganizzate in un club della citt nelle quali
capita spesso che gli studenti condividano lo stesso palco con alcunimostri sacri della storia del jazz.
Ho deciso di inserire questa breve nota biografica per ricostruire il
percorso individuale e di studio che mi ha portato a maturare l'idea per
questa tesi.
In effetti, quando arrivato il momento di scrivere la mia tesi di
specializzazione in sociologia, ho pensato che fosse una buona idea far
convergere la mia passione per il jazz e gli studi di scienze sociali.
Il primo problema, se cos si pu dire, era quello di individuare un
punto di vista, una prospettiva che mi permettesse di presentare il jazz
con lo sguardo di un sociologo. Su quella che viene considerata la
"musica del XX secolo" per eccellenza sono state prodotte letteralmente
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migliaia di pubblicazioni. Ma dovendo necessariamente escludere la
prospettiva musicologica e quella storica, il campo per le mie ricerche
bibliografiche si restringeva molto.
Uno dei primi autori in cui mi sono imbattuto in questa prima fase stato il sociologo americano Howard Saul Becker, considerato come
l'esponente pi celebre della cosiddetta "seconda generazione" della
Scuola di Chicago. Il nome di Becker viene spesso associato al settore
disciplinare della sociologia della devianza.
Il testo di riferimento al riguardo il celebre Outsiders, una raccolta di
saggi composta nel 1963 che include alcuni capitoli divenuti un"classico" degli studi sulla devianza, come quello sui consumatori di
marijuana.
Sebbene tale lavoro sia stato troppo spesso ridotto alla formulazione
della cosiddetta labelling theory, in realt il contributo principale di
Becker stato quello di "allargare l'area presa in considerazione dallo
studio dei fenomeni devianti, includendo, oltre a chi viene definitodeviante, le attivit di altre persone" (Becker: 1991, p. 136), ovvero i
membri del gruppo a cui il cosiddetto agente deviante appartiene.
Emerge una nuova ottica che indaga i comportamenti devianti e i gruppi
che li mettono in atto come un'esperienza sociale collettiva, frutto
dell'interazione tra pi persone che "fanno ci che fanno con un occhio a
ci che gli altri hanno fatto" (ivi, p. 138)
In realt, pi che per l'innovativo approccio al tema della devianza, il
lavoro di Becker ha attirato la mia attenzione per motivi pi strettamente
legati al jazz.
In Outsiders, il sociologo di Chicago include infatti un capitolo che
un estratto del lavoro di ricerca svolto per la propria tesi di Master,
condotta sotto la guida di Everett Hughes. Il saggio (The Professional
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Dance Musician and His Audience) raccoglie le esperienze fatte da
Becker in qualit di pianista professionista nei club di Chicago durante
gli anni '40, un periodo particolarmente fiorente per il jazz nella Windy
City.Durante gli anni dell'universit, Becker svolse l'attivit di pianista
presso i numerosi locali notturni della citt e al momento di scrivere la
sua tesi era ancora convinto che quella sarebbe stata la sua professione
per il resto della vita. Avendo deciso di produrre una tesi sui gruppi
professionali, il giovane Becker pens di utilizzare le esperienze
accumulate nel suo lavoro di jazzista. Il risultato fu un brillanteresoconto della vita quotidiana e professionale dei musicisti, con
numerosi accenni allasubcultura in cui essi (compreso l'autore) erano
immersi e sulla modalit in base alle quali i musicisti etichettavano un
individuo e il suo comportamento come insider o outsider rispetto alla
loro comunit. L'approccio scelto da Becker fu quello dell'osservazione
partecipante e in questo fu favorito dal fatto di essere perfettamenteintegrato nel gruppo che stava studiando, al punto che le sue curiosit o
le sue domande apparivano del tutto naturali. Nessuno dei musicisti di
cui l'autore raccolse le testimonianze si resero conto che egli si
presentava nella duplice veste di pianista e di ricercatore sociale.
Fatte le dovute proporzioni, l'esperienza di Becker mi parsa subito
affine alla mia. Anch'io avevo a disposizione una buona quantit di
esperienze dirette sull'ambiente del jazz e forse avrei potuto produrre un
lavoro dello stesso genere.
In seguito per ho pensato che potevo proporre un punto di vista
differente rispetto a quello adottato da Becker. Come ho gi detto, The
Professional Dance Musician and His Audience, essenzialmente una
ricerca su un gruppo professionale, quello dei musicisti da night club.
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Poco o nulla viene detto riguardo l'atto musicale in s. Una delle cose
che mi affascinano di pi del mondo del jazz il tipo di conoscenza
necessario a creare una musica che si fonda sull'improvvisazione e
sull'interazione tra un gruppo di individui. In questo il jazz diverso datutti gli altri generi della musica contemporanea. vero che
l'improvvisazione non sempre sinonimo di jazz e che una certa forma
di interazione sempre necessaria se si vuole fare musica insieme ad
altre persone. Ma in nessun'altra cultura musicale la fusione di questi due
elementi ha assunto una rilevanza paragonabile a quella del jazz.
Esiste un'istituzione nel mondo del jazz in cui quest'azione combinatadi improvvisazione individuale, conoscenze condivise e interazione
collettiva diventa particolarmente evidente: lajam session. Ragionando
sulle caratteristiche di questo tipo particolare di performance, nella quale
un gruppo di musicisti si riunisce in modo estemporaneo e crea musica
insieme, mi sembrato di poter individuare numerosi elementi che
potevano rientrare in uno studio di tipo sociologico. In particolare hopensato che mi sarebbe piaciuto rendere conto di quel senso di
appartenenza a una comunit, delle dinamiche interpersonali tra
musicisti e non musicisti e del particolare utilizzo di un repertorio
condiviso di brani standard con i quali mettere alla prova la propria
competenza nel mestiere dell'improvvisazione.
Le impressioni che avevo ricevuto nelle numerose jam alle quali
avevo partecipato nel corso degli anni in qualit di spettatore o musicista
mi apparivano ora sotto una luce diversa. Stavo maturando l'idea di poter
presentare questo tipo di fenomeno a chi non ne conoscesse il
"funzionamento", cercando di rivelare i meccanismi nascosti che
agiscono dietro l'apparenza di un gruppo di persone che semplicemente
si riunisce per suonare insieme.
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Di conseguenza, la mia indagine bibliografica andava ora affinandosi.
In questo modo mi sono imbattuto nei lavori fondamentali di due
ricercatori americani, Ingrid Monson e Paul Berliner, che hanno
ampiamente affrontato il tema in questione.Parallelamente allo studio della letteratura sul caso, ho poi iniziato ad
abbozzare una struttura generale al mio lavoro. Quali elementi dovevo
includere? Con quale strumento metodologico avrei dovuto affrontare
l'oggetto in questione?
Se vero che le informazioni necessarie per la ricerca le avevo
raccolte (potremmo dire inconsciamente) nel corso di dieci anni diesperienze come contrabbassista semi-professionista di jazz, ho ritenuto
opportuno presentarle sotto forma di un'etnografia della jam session,
come risultato di un lungo lavoro di osservazione-partecipante.
Questa tesi in conclusione il risultato della fusione di due passioni,
quella per le scienze sociali e quella per il jazz, alla quale ho tentato di
dare una forma unitaria e coerente. Come spesso accade, quando sigiunge alla conclusione di un lavoro di ricerca come questo ci si rende
conto di tutto quello che rimasto fuori, di tutti quegli aspetti che
varrebbe la pena approfondire.
Ad ogni modo, scartando a priori la pretesa della completezza, spero
quanto meno di essere riuscito a trasmettere lo stupore che il pensiero
jazz messo in atto durante una performance collettiva ha sempre
suscitato in me.
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1. Jazz e Scienze Sociali
Talking about music is like dancing about architecture.
Thelonious Monk (pianista e compositore)
1.1 La densit del jazz
In questo capitolo vorrei offrire una breve rassegna dei moltepliciapprocci al cui interno le scienze sociali si sono interessate al jazz come
fenomeno sociale e culturale. Mi focalizzer sul contributo di discipline
quali l'etnomusicologia e l'antropologia culturale, il filone degliAfrican
American Studiese la sociologia della musica.
Le origini nella cosiddetta Diaspora Africana1(oBlack Diaspora) e il
meticciato culturale afroamericano, i mutamenti nella consapevolezza
degli artisti e dei fruitori di tale forma d'arte, le istanze di auto
affermazione e di liberazione, le influenze con le altre forme d'arte e con
gli atteggiamenti e i comportamenti di intere generazioni, hanno fatto del
jazz una fonte densa di significati sociali, tanto da aver spinto alcuni
autori a identificarlo come fenomeno artistico simbolo della modernit e
del XX secolo.
1 Con il termine Diaspora Africana si intende la dislocazione, forzata o volontaria, degliabitanti dell'Africa Sub-Sahariana in altri continenti. In questo contesto ci riferiamoessenzialmente alle massicce migrazioni causate dal commercio coloniale degli schiavi diorigine africana operato dalle principali potenze europee attraverso l'Atlantico lungo ladirettiva Est-Ovest. A partire dal XV sec. e fino al XIX, tali migrazioni hanno sradicato unenorme numero di individui dalle loro collocazioni originarie alle colonie del Nuovo Mondo,dove hanno costituito la principale forza lavoro coatta nelle piantagioni del Nord America edel Sud America (in particolare del Brasile), gettando le basi per la creazione della civilt
afroamericana.
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Per rendere conto della complessit del fenomeno jazz, intendo
utilizzare una particolare accezione del concetto di densit. Non mi
riferisco in questo ambito all'uso che ne ha fatto Durkheim per
rappresentare la crescente differenziazione del lavoro sociale, mapiuttosto ad una densit dei significati e delle connessioni con ambiti
diversi del reale. Come molti altri fenomeni artistici rilevanti, il jazz si
presta ad una lettura a pi livelli e da diversi punti d'osservazione che ne
sottolineano un solo aspetto, spesso a scapito di altri: genere o cultura
musicale, fenomeno artistico globale, fenomeno sociale e antropologico,
processo di produzione artistica caratterizzato da un modello interattivodi performance. Risulta evidente come non si possa rendere conto di tale
densit partendo da un unico approccio. Per fenomeni di tale
complessit, necessario affidarsi al contributo di molteplici studi,
integrandone gli sforzi in una prospettiva interdisciplinare. Laddove le
scienze sociali devono cedere il passo a discipline pi consone all'analisi
del fenomeno musicale in s, il contributo della sociologia edell'antropologia si rivelano tuttavia indispensabili se si intende indagare
sui fenomeni di ordine relazionale legati al jazz, i quali rappresentano
l'oggetto d'indagine di questa ricerca. Resta ancora da chiarire se sia
realmente possibile pervenire ad un approccio globale, che renda conto
della complessit del fenomeno senza trascurarne alcun aspetto.
L'ostacolo principale in genere quello di conciliare gli approcci di tipo
tecnico-musicologico con quelli pi vicini alle metodologie della ricerca
sociale. Ripercorrendo la storia della ricerca, dobbiamo ammettere che
tale tentativo di avvicinamento rimasto molto spesso frustrato. Il jazz
da sempre materia sfuggente e multiforme, caratterizzata da una certa
insofferenza nei confronti delle categorie rigide e dei sistemi teorici.
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Nonostante la sua storia ormai secolare, il jazz rimane l'arte del
contingente, dell'istante, dell'ineffabile.
1.2 L'analisi musicologica e i suoi limiti
Sebbene ci esuli dall'ambito proprio delle scienze sociali, ho ritenuto
interessante trattare brevemente il rapporto tra la musicologia classica
occidentale e il jazz, convinto che i limiti di tale filone di studi siano
rappresentativi della peculiarit del fenomeno jazz.
Il jazz stato e continua ad essere largamente e profondamente
analizzato dalla musicologia classica. Un approccio di questo tipo non
pu che privilegiare il prodotto finale della pratica musicale, l'evento
sonoro in s.
Gi a questo livello, il jazz non ha mancato di manifestare la propria
complessit, ricchezza e profondit. Una teoria piuttosto abusata nellaletteratura vuole descrivere questa musica come risultato diretto della
fusione di due tradizioni: quella biancadi matrice europea e quella nera
di derivazione africana. In quest'ottica, risultano facilmente identificabili
gli elementi che il jazz avrebbe ereditato da questo "matrimonio misto".
Semplificando, si suole dire che dal genitore bianco deriverebbe
l'impianto armonico mentre da quello nero discenderebbe l'impulsoritmico. Sebbene sia piuttosto evidente che le strutture armoniche su cui
si fonda il jazz siano debitrici della teoria tonale europea, mentre il ritmo
esuli da quella tradizione per rimandare ad una matrice africana, i
ricercatori pi attenti si sono ben guardati da ridurre il jazz a questa
semplice sommatoria di elementi. Il rischio di cadere in degli stereotipi
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ben evidenziato dal musicologo Stefano Zenni: l'attribuzione del
dominio ritmico all'Africa e di quello armonico all'Europa [...] implica
una visione sottilmente razzista della musica. Agli africani, corporei e
"istintivi" riconosciuta l'abilit nell'espressione pi fisica e immediata,originaria e liberatoria: il ritmo. L'armonia invece un prodotto di quelle
capacit teoriche, riflessive, gerarchiche e sintattiche tipicamente
europee. (Zenni: 2008, p. 70)
Al di l dei giudizi di merito, la ricerca musicologica ha dovuto inoltre
affrontare numerosi problemi di tipo metodologico nell'approccio al jazz.Se la musicologia classica europea si formata sull'analisi della
composizione, il primo ostacolo da superare stato quello di rendere
conto della complessit che sottende l'improvvisazione musicale nel
jazz. Sebbene la trascrizione musicale possa essere utile per analizzare
da un punto di vista tecnico le capacit dell'esecutore o le strutture
formali della composizione, la gran parte del processo di interazione cherende possibile l'improvvisazione nel jazz rimane comunque fuori da tale
tipo di analisi.
Il jazz sfuggente, non si conforma alle regole della musica colta
europea, poich fondato su un'inedita fusione tra la figura dell'esecutore
e quella del compositore nell'immediatezza dell'atto musicale,
dell'esecuzione, della performance. Non un caso che si parli spesso
dell'improvvisazione in termini di composizione istantanea.
Le tecniche della trascrizione musicale che sono alla base della ricerca
musicologica, si sono poi rivelate del tutto impotenti anche nel rendere
conto della grande ricchezza timbrica del jazz. Laddove infatti
l'esecutore classico viene addestrato ad ottenere un suono puro e
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"conforme" dal proprio strumento, nel jazz e nelle musiche
afroamericane in generale la ricerca continua di una "voce" individuale
rappresenta lo sforzo primario nello sviluppo artistico di ogni musicista.
La tecnologia di registrazione acustica e poi elettrica, che hanno avuto leproprie pionieristiche applicazioni proprio nel jazz, hanno reso solo in
parte giustizia di questa complessit e ricchezza.
1.3 Tra etnomusicologia ed antropologia
Una prospettiva pi consona all'analisi della forma jazz senz'altro
quella proposta dall'etnomusicologia. Sorta nel tardo '800 (in Germania
viene indicata come vergleichende Musikwissenschaft, musicologia
comparata) ad opera di alcuni pionieristici cultori come Bla Bartk e
Constantin Brailoiu, la nuova disciplina caratterizzata dall'impiegodelle tecnologie di registrazione sonora, di tecniche di trascrizione che
riflettono lo sforzo di offrire un'analisi fedele dell'atto musicale e
soprattutto da una grande attenzione al contesto sociale e culturale in cui
si inseriscono le culture musicali di tradizione orale. Proprio negli Stati
Uniti, dove molti musicologi tedeschi troveranno rifugio durante il
Nazismo, l'etnomusicologia trover uno dei suoi terreni ideali di
applicazione e il jazz nelle sue forme pi primitive e originarie
rappresenter un campo di studi indagato a fondo dagli etnomusicologi.
Per citare solo uno dei numerosi casi di incontro tra etnomusicologia e
jazz possiamo ricordare le celebri interviste al pianista e compositore
Jelly Roll Morton, massimo esponente dello stile ragtime, condotte da
Alan Lomax intorno al 1938.
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Il jazz rimane essenzialmente una musica di tradizione orale, fondata
cio sulla trasmissione di pratiche sedimentate nel corso dei decenni da
generazioni di artisti e su una particolare attenzione alla materia sonora
in s, piuttosto che sulla scrittura e sulla composizione. Per dirla con leparole dell'etnomusicologo Gianfranco Salvatore, l'elemento chiave nel
jazz propriamente l'atto musicale inteso come un insieme correlato di
gesti e saperi in azione, espressivit e sensorialit, partecipazione
psichica, emotiva e fisica, codici cerimoniali e rituali, livelli complessi e
interrelati di significazione. Nella musica afroamericana, dove non vige
una netta differenza tra testo ed esecuzione, n una netta separazione tramusicista e pubblico, dove la dimensione strettamente musicale e quella
contestuale-ambientale tendono ad interagire, il concetto di atto musicale
aiuta a restituire il linguaggio ai suoi referenti culturali e antropologici,
enfatizzando la dimensione umana integrale dell'agire e del fare.
(Salvatore: 2005, p.22)
Gi da questa breve citazione possibile individuare il netto
slittamento di prospettiva operato dall'etnomusicologia nei confronti del
jazz cos come di altre musiche di tradizione orale. Dispiegando i propri
strumenti analitici in un territorio di confine rimasto inesplorato, a
cavallo tra discipline socio-antropologiche e ricerca musicologica,
l'etnomusicologia ha cos potuto offrire un contributo fondamentale e
sostanzialmente inedito all'analisi del fenomeno jazz.
Le metodologie della ricerca antropologiche sono corse in aiuto
dell'analisi musicale per cercare di approfondire l'analisi del fenomeno.
Ma anche in questo modo, qualcosa di molto importante resta fuori
dall'inquadratura. Come rendere conto di tutto ci che si situa "prima"
della performance musicale, come rendere conto dello straordinario
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lavoro di interazione che sottende all'improvvisazione? Stiamo parlando
in questo caso di una forma ben precisa di improvvisazione, quella in cui
uno o pi solisti intraprendono un proprio discorso musicale
improvvisato sostenuti da altri musicisti che fungono da accompagnatori.Vedremo in seguito come tale modello non sia l'unico in questa musica,
sebbene venga spesso identificato con il jazz tout court. Il jazz una
musica che si fonda sull'oralit, sulla performancec contingente e
irripetibile, sull'interazione e sul dialogo.
Il lento e doloroso affrancamento degli afroamericani dai pregiudizi edalle discriminazioni razziali e il loro ingresso nella cultura accademica
americana porteranno in seguito alla nascita di un nuovo filone di studi
nelle scienze sociali che cercher di offrire una nuova prospettiva anche
nello studio della grande cultura musicale dei neri d'America.
1.4 African American Studies: una prospettiva etnica?
Con la dicituraAfrican-American Studies si indica un ambito di studi
sorto negli Stati Uniti a ridosso delle proteste per i diritti civili intorno al
1968. Proprio in quell'anno viene creato il primo "Department of Black
Studies" dall'universit statale di San Francisco che ne affida la direzione
al sociologo Nathan Hare. Quando parliamo diAfrican American Studies
non intendiamo in realt una disciplina a se stante, quanto piuttosto un
corpus interdisciplinare che comprende tra le altre la sociologia,
l'antropologia culturale, la storia, gli studi religiosi e la critica letteraria.
Questa fusione di approcci poi giunta ad una formalizzazione nei
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dipartimenti universitari, fino alla creazione di percorsi di studi dedicati.
La prospettiva comune caratterizzata da un netto afrocentrismoin cui
molti autori hanno facilmente individuato una forma di reazione e di
resistenza all'eurocentrismo accademico americano che tendeva a nonriconoscere o ignorare del tutto il contributo della cultura afroamericana
alla formazione della societ americana in generale. D'altra parte, la
prospettiva esclusivista di questo genere di approcci ne ha costituito, a
detta di molti, il limite principale. Negli African American Studies, il
jazz stato rappresentato come forma d'arte "regina" della cultura
afroamericana e l'analisi delle sue componenti sociali e culturali statainserita nel pi ampio discorso sulla Black Diaspora e sul contributo
delle culture afroamericane alla societ del XX secolo. In questo caso
interessante notare come il jazz, da arte etnicamente connotata, si sia
svincolata dalle sue origini per divenire un linguaggio globale che ha
investito anche altri contesti della produzione artistica, dalla pittura al
cinema alla letteratura.Il sociologo britannico Paul Gilroy, uno dei principali esponenti
contemporanei di questo approccio, ci offre un inquadramento della
musica come elemento centrale e addirittura fondante della cultura
afroamericana:
La forza e il rilievo della musica all'interno dell'Atlantico Nero sono
cresciute in proporzione inversa rispetto al limitato potere espressivo del
linguaggio. importante ricordare che l'accesso degli schiavi alla cultura
scritta veniva spesso negato, pena la morte, e che solo poche opportunit
di riscatto culturale venivano offerte quali surrogato delle altre forme di
autonomia individuale negate dalla vita nelle piantagioni e nelle
baracche. La musica diventa vitale nel momento in cui
l'indeterminatezza (la polifonia) linguistica e semantica emerge dalle
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continue battaglie tra i padroni, le padrone e gli schiavi. Tale conflitto,
decisamente moderno, fu il prodotto di circostanze nelle quali il
linguaggio perse una parte della propria referenzialit e del suo rapporto
privilegiato con i concetti. (Gilroy: 2003, p. 154)
E pi avanti, sugli interrogativi sorti a seguito di quel processo di
diffusione che ha portato i generi della musica afroamericana fuori dai
confini etnici delle proprie origini, fino a diventare linguaggio musicale
globale e condiviso:
Quali particolari problemi analitici si presentano se uno stile, ungenere o una performance specifica di musica vengono identificati come
espressione della pura essenza del gruppo che li ha prodotti? Quali
contraddizioni emergono nella trasmissione e nell'adattamento di questa
espressione culturale a opera di altre popolazioni della diaspora, e come
potranno essere risolte? [...] Una volta che la musica venga percepita
come fenomeno mondiale, quale valore viene assegnato alle sue origini,specie se vanno a contrapporsi a successive mutazioni prodotte durante
le sue contingenti deviazioni e le sue traiettorie frammentate? (Gilroy:
2003, p. 156)
Gli esponenti della corrente degliAfrican American Studiesnon sono
certo i primi ad occuparsi della materia jazz. La sociologia della musica
si era gi prodotta in alcune analisi del jazz le quali, va detto
preliminarmente, hanno spesso peccato di superficialit e incompiutezza,
come nel caso di Thomas W. Adorno. Approcci pi compiuti ed
equilibrati saranno invece quelli di sociologi che pi direttamente hanno
avuto modo di venire a contatto con il contesto sociale del jazz come nel
caso di Alfred Schutz, fino ad arrivare alle illuminanti indagini di
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Howard S. Becker, nel cui caso assistiamo ad un fortunato incontro tra
analisi sociale e biografia dell'autore.
1.5 La prospettiva sociologica
Gli approcci pi prettamente sociologici hanno, per forza di cose,
escluso la componente musicologica. In questo caso, l'oggetto della
ricerca si spostato piuttosto sull'analisi del jazz come fenomeno socialee culturale.
Possiamo individuare due direttive negli studi: il contributo del jazz
come forma d'arte nel XX secolo e il jazz come fenomeno sociale.
Nel primo caso, siamo nel campo della sociologia della musica,
disciplina inaugurata da Weber in Economia e Societ. Diversi i temi
sottoposti ad analisi in questo contesto: la funzione dell'elemento"musica" nella societ, l'impatto della riproducibilit meccanica sulla
fruizione della musica, la classificazione dei generi musicali e le
differenze nei "comportamenti musicali" ad essi connessi, la ricezione
della musica presso l'opinione pubblica e i diversi ruoli giocati dagli
attori (compositori, esecutori, pubblico, critica, industria discografica).
Nel caso specifico del jazz, il limite principale di questo genere di analisi
(e in particolare di quella di Adorno) stata la decisione di abbandonarsi
a giudizi di merito sul valore musicale di questo genere.
Nel secondo caso, il focus del ricercatore si indirizzato verso la
comunit dei musicisti di jazz (spesso con un accento rilevante sul tema
della devianza, con una particolare predilezione per le analisi sul
consumo di droghe); oppure, pi raramente, sul pubblico del jazz e
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sull'impatto sulla cultura popolare e sull'immaginario del XX secolo. Il
jazz dunque come arte americana per eccellenza, espressione della
modernit e del cambiamento.
1.5.1 L'equivoco di Adorno
Il maggiore esponente della Teoria Critica si occupa di jazz gi a
partire dal 1933 con il suo Abschied vom Jazz e ritorna pi volte
sull'argomento fino agli anni '60 del secolo scorso. Appare fin da subitouna sorta di militante ostilit del pensatore tedesco nei confronti di
questa musica e del contesto sociale in cui essa si inscrive. Le ragioni di
questo attacco frontale sono state pi volte indagate dai ricercatori nel
corso degli anni, oscillando tra l'imbarazzo dovuto al rispetto per una
figura cos importante per la storia della sociologia e la strenua difesa di
una cultura musicale la cui ricchezza e profondit Adorno sembra avercompletamente misconosciuto. Del resto le posizioni del pensatore si
inscrivono pienamente nel suo programma di critica della societ dei
consumi. Quello fra Adorno e il jazz a mio avviso un incontro
mancato. L'autore decide di soffermarsi esclusivamente sulle varianti pi
commerciali estandardizzatedi tale forma di espressione, ignorando del
tutto la carica di ribellione alla mercificazione e di radicale contestazione
della societ americana di cui il jazz si far portavoce gi a partire dalla
met degli anni '40 con la "rivoluzione" del be bop2; fino alla diretta
saldatura tra movimenti per i diritti civili e musica afroamericana che si
2Stile fondamentale del jazz moderno, il be bop nasce nei primi anni !40 ad opera di alcunigiovani musicisti per lo pi afroamericani e soprattutto fuori dal contesto stabile delle bigband. I nuovi musicisti della scena newyorkese (Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Art Tatum,
Charlie Christian, Thelonious Monk ed altri), si riuniscono do
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celebrer negli anni '60, con le nuove tendenze culturali della new thing
e delfree jazz.
1.5.2 Schutz: "Making music together"
Una prospettiva particolarmente interessante ai fini della mia ricerca
quella offerta da Alfred Schutz nel saggio "Making Music Together"
(1964).
In una breve ma brillante trattazione, il sociologo austriaco indaga iltipo di relazioni sociali che sottostanno al processo di creazione
musicale.
Nelle parole dell'autore, lo studio della particolare situazione
comunicativa implicata nel processo musicale, potrebbe gettare una
nuova luce sugli aspetti non concettuali coinvolti in ogni modello di
comunicazione (Schutz: 1964, p.162)La notazione musicale, evidenza Schutz, rappresenta un sistema solo
approssimativo di comunicazione delle idee musicali tra il compositore e
gli esecutori della sua opera. Esiste una lunga storia di esegesi delle
partiture che permette di rappresentare opere musicali composte anche
secoli addietro. Ciononostante, la corretta interpretazione dell'idea
originaria del compositore non mai garantita.
Successivamente, ovvero nell'atto pratico dell'esecuzione musicale,
interviene un complesso vocabolario e una conseguente sintassi di
espressioni gestuali, non linguistiche, attraverso le quali i musicisti
comunicano e si relazionano. Si potrebbe parlare di "regole del gioco"
condivise da musicisti e pubblico che assiste all'esecuzione.
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Nel contesto di una performance musicale, si instaura tra i partecipanti
una relazione di "mutuo accordo" (mutual tuning-in relationship) in cui
l'esperienza dell'Io e dell'Altro diventano consapevolezza del "Noi".
Quello che unisce compositore, esecutore e ascoltatore la condivisionedi una medesima frazione del tempo che coincide con la durata della
perfomance. Dal momento che ogni performanceintesa come un atto di
comunicazione basata su una serie di eventi [...], nel nostro caso un
flusso di suoni udibili, possiamo affermare che la relazione sociale tra
esecutore ed ascoltatore fondata sull'esperienza condivisa di vivere
simultaneamente in diverse dimensioni temporali (Schutz: 1964, p. 175;trad. mia). Nell'atto dell'esecuzione, contemporanea e immanente, si
dissolverebbe dunque la distanza (temporale, geografica, culturale) tra
l'idea del compositore tradotta in notazione e gli esecutori di quella idea,
ma anche la distanza di ruolo tra musicisti e ascoltatori.
"Fare musica insieme" diviene quindi una reciproca condivisione del
flusso di esperienze tra individui che "abitano" un medesimo segmentodi tempo e partecipano ad un evento collettivo che li coinvolge su pi
livelli e con diversi ruoli.
In un passaggio, Schutz sostiene che dal suo punto di vista non esiste
una reale differenza tra un quartetto d'archi e un quartetto jazz impegnato
in una jam session, poich in entrambe le situazioni abbiamo una
prevalenza dell'aspetto relazionale su quello prescrittivo dell'esecuzione
di una partitura. Dobbiamo per notare che l'elemento
dell'improvvisazione presuppone un livello di interazione ancora pi
profondo e radicale rispetto a quello di un contesto "classico", come
vedremo nel corso della ricerca. Al di l di questa necessaria
precisazione, l'impianto generale della tesi sostenuta da Schutz
estremamente calzante all'approccio che ho scelto e rappresenta un
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contributo essenziale all'identificazione delle "regole del gioco" sottese
alla pratica dell'improvvisazione.
1.5.3 H.S. Becker: il mestiere dell'improvvisatore
Mentre terminava i suoi studi presso l'Universit di Chicago sotto la
guida del suo mentore Everett C. Hughes, Howard Becker lavor come
pianista jazz professionista nei locali della citt. Fu proprio questo
contatto diretto con la cultura dei jazzisti e con questo peculiare ambitoprofessionale a spingere Becker ad intraprendere un pluridecennale ed
estensivo studio su questo oggetto che sfoci, tra l'altro, nella
pubblicazione del celebre volume Outsiders, nel quale l'autore giunge
anche ad una riconsiderazione teorica di alcuni concetti chiave della
sociologia della devianza.
L'appassionata dimostrazione della densit di significati rilevabilinell'analisi del mestiere dell'improvvisatore hanno rappresentato uno dei
principali stimoli alla scelta dell'oggetto della mia ricerca. Nel corso
della trattazione avr occasione di rendere conto del contributo di Becker
ad una nuova prospettiva nell'indagine sociologica sulla cultura jazz.
In anni pi recenti abbiamo assistito al fiorire di una nuova corrente di
studi nel campo del jazz che ha il merito di unire la precisione analitica
dell'etnomusicologia con l'attenzione al contesto mutuata
dall'antropologia culturale e dalla sociologia della cultura. I due autori
che maggiormente hanno influenzato la mia ricerca sono entrambi
americani: si tratta degli etnomusicologi ed antropologi Paul Berliner ed
Ingrid Monson.
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1.6 Paul Berliner: l'improvvisazione come competenza
Pubblicato nel 1994, Thinking in Jazz. The Infinite Art of
Improvisation dell'etnomusicologo Paul Berliner senza dubbio uno deipi completi studi sulle pratiche dell'improvvisazione. Al di l della
irrinunciabile analisi musicologica e tecnica, emerge qui l'immagine
dell'improvvisazione come competenza, come lingua corrente che
necessita quindi di un vero e proprio percorso di apprendistato e di una
pratica continua per arrivare a quella spontaneit e a quella fluencyche
rappresentano i criteri per valutare un buon jazzista. Attraverso l'usodelle tecniche dell'osservazione partecipante e con il sostegno di
numerose interviste agli "attori", Berliner ci descrive il percorso di
iniziazione all'improvvisazione, dimostrando che improvvisare non
significa banalmente rifiutare le regole ma semmai esplicitarle ancora di
pi attraverso un processo continuo di negazione e negoziazione delle
stesse. L'analisi dei clich, delloslange della terminologia tecnica, delleconvenzioni, delle prassi consolidate e dei taciti accordi necessari a
produrre improvvisazione risultano fondamentali ai fini di una ricerca
che intende presentare l'improvvisazione musicale come modello di
interazione e di trasmissione culturale.
1.7 Ingrid Monson: i riflettori sulla sezione ritmica.
Ingrid Monson, nel suo Saying Something. Jazz Improvisation and
Interaction (1996), focalizza lanalisi sulla componente meno in vista e
pi trascurata di una formazione jazz: la rhythm section (o sezione
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ritmica, tradizionalmente costituita da batteria, contrabbasso, pianoforte
e/o chitarra). Avvalendosi di un gran numero di interviste ad alcuni dei
pi rappresentativi musicisti americani degli ultimi anni, Monson
sviluppa soprattutto il concetto di "interattivit" come strumento diinterpretazione dei processi improvvisativi. Nella mia ricerca, prender
sovente inspirazione dal lavoro di Monson per rendere conto innanzitutto
del "mestiere" di musicista jazz professionista, le cui caratteristiche
appaiono amplificate nei ruoli secondari della performance: quelli
appunto della rhythm section.
In questo capitolo ho cercato di offrire una panoramica di alcuni dei
principali approcci alla materia del jazz. Si trattato di una rassegna
piuttosto sommaria che ha privilegiato gli studi che maggiormente hanno
influenzato la costruzione di questo lavoro.
Nel capitolo successivo tenter invece di entrare direttamente nel vivo
del discorso, affrontando la complessa e sfuggente materiadell'improvvisazione.
Trattandosi di un argomento piuttosto complesso, ho scelto di seguire
un approccio pi pratico, evitando di addentrarmi troppo in profondit
nelle varie interpretazioni filosofiche connesse al concetto di
improvvisazione e privilegiando invece quelle prospettive analitiche che
io stesso ho poi utilizzato come strumenti di sistematizzazione del
materiale empirico e del corpus di esperienze accumulate nel corso della
ricerca.
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2. Il mestiere dell'improvvisazone
I used to think, how could jazz musicians pick notes out of thin air? I had no idea
of the knowledge it took. It was like magic to me at the time.
Calvin Hill (contrabbassista) (da Berliner: 1994, p. 1)
2.1 La magia dell'improvvisazione
Proviamo ad immaginare un ascoltatore comune, non ancora "iniziato"
al mondo del jazz, che si trova ad assistere per la prima volta ad una jam
session. Per questo ipotetico ascoltatore potrebbe risultare molto difficile
accettare che la performance musicale a cui sta assistendo basata
sostanzialmente sull'improvvisazione estemporanea. Soprattutto nel caso
in cui questo ascoltatore abbia la fortuna di ascoltare unsetcon musicisti
navigati e abili, sarebbe portato a credere che quella coesione, queltrasporto, quell'energico e istintivo sincronismo tra i musicisti che sta
osservando/ascoltando siano piuttosto il frutto di una meticolosa
composizione delle singole parti e di lunghe ed estenuanti sessioni di
prove. Molti ascoltatori stentano a credere che l'unico riferimento
comune di cui dispongono i musicisti si riduca spesso ad una semplice
successione di accordi, ad un breve motivo melodico e a poche altreindicazioni. Che nulla di quello che sta accadendo sia stato preventivato
e che i "fatti musicali" stiano avvenendo in tempo reale. Questo neofita
potrebbe rimanere ancora pi sbalordito nell'apprendere che i musicisti
sul palco si incontrano in quel momento per la prima volta e che magari
si presenteranno solo al termine dell'esecuzione, scambiandosi
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complimenti e segni di apprezzamento reciproco. Eppure proprio
quello che spesso accade in una situazione come quella della jam
session, nella quale un collettivo di musicisti si riunisce in modo del
tutto casuale sul palco per creare insieme una performance improvvisata.Come vedremo in seguito, la jam non l'unica modalit di
organizzazione dell'evento sonoro. Nel jazz contemporaneo spesso il
concerto proprio il risultato di una meticolosa preparazione collettiva.
Se il nostro ascoltatore andr ad assistere ad un festival o ad un
concerto in teatro, probabilmente trover sul palco una formazione ben
collaudata, i cui membri stanno portando avanti un progetto discograficodi cui il concerto rappresenta solo la presentazione live. Ci sar forse un
leader che ha firmato le composizioni originali e addirittura potrebbe
succedere che alcuni dei musicisti suonino con uno spartito davanti,
segno inequivocabile che quella musica stata prima di quel momento
pensata e messa sul pentagramma da un compositore. Ma anche in
questo caso, l'ascoltatore deve sapere che non tutto gi stato previsto eche la presenza di un materiale composto pi organico e strutturato non
garantisce che il risultato finale sia identico a quello del disco. Perch
anche in quel caso ci sar l'intervento dell'improvvisazione a scombinare
almeno un po' le carte in tavola, e allora qualunque cosa potrebbe
succedere. Altrimenti non sarebbe jazz.
Appunto, non jazz se non c' improvvisazione. Ma poi davvero
cos? Possiamo davvero affermare che tutto il jazz improvvisazione e
che tutte le improvvisazioni musicali sono jazz?
A questo proposito credo sia necessario tentare di definire meglio il
concetto di improvvisazione. Questo significa entrare in un campo
minato, dal quale difficilmente si pu uscire affidandosi soltanto all'aiuto
di un dizionario. Se provassimo a combinare diverse definizioni, ne
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ricaveremmo che l'improvvisazione, in termini generali, la capacit di
agire di fronte ad una situazione inattesa o imprevista, senza cio che sia
possibile in alcun modo prepararsi in anticipo. Entrando nello specifico
del contesto musicale, improvvisare significherebbe dunque crearemusica dal nulla, senza ricorrere a partiture, appunti o materiale
memorizzato. Creare qualcosa partendo da niente, in definitiva. Anche il
nostro ascoltatore inesperto rimarr insoddisfatto da questa definizione.
Innanzitutto potrebbe notare che durante quella prima jam sessiona cui
ha assistito, qualcuno leggeva sugli spartiti e che nel magma
dell'improvvisazione gli parso di riconoscere una melodia comune, untema ricorrente che tutti i musicisti sul palco sembravano conoscere alla
perfezione. A questo ascoltatore verr da pensare che forse qualcuno dei
musicisti stesse "barando" e che non tutto fosse creato dal nulla. Se poi,
incuriosito dallo spettacolo a cui ha assistito, l'ascoltatore volesse crearsi
una sua discografia essenziale per introdursi al mondo del jazz, si
accorgerebbe ben presto che i grandi improvvisatori hanno sempre unqualcosa che li distingue da tutti gli altri. Un modo di fraseggiare, un
approccio particolare al ritmo e alla melodia ma soprattutto un timbro
unico, inconfondibile. In effetti, proprio questa ricerca dell'unicit, del
suono individuale, uno degli elementi chiave del jazz. Se ad esempio
questo ascoltatore si procurasse uno qualsiasi degli album registrati dal
Miles Davis Quintet nella seconda met degli anni '50, scoprirebbe che
quel particolare suono della tromba di Miles, con la leggendaria sordina
Harmoninnestata, una specie di Stele di Rosetta per decifrare il jazz
contemporaneo. Un monumento eterno all'unicit del suono come mezzo
di affermazione dell'individualit del musicista. Con quel particolare
timbro, Miles Davis ha voluto porre la sua firma inconfondibile e il
nostro ascoltatore alle prime armi da quel momento in poi sar in grado
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di distinguerla senza alcuna fatica tra centinaia di altri suoni. Cosa
c'entra dunque tutto ci con l'improvvisazione? Com' possibile
affermare, alla luce di questi elementi, che l'improvvisazione sia una
creazione dal nulla, che non ci sia qualcosa dietro? Si tratta forse diquella misteriosa conoscenza "segreta", quel sapere iniziatico di cui parla
il bassista Calvin Hill nella citazione che ho riportato all'inizio di questo
capitolo?
Volendo dare una risposta al primo quesito che ci siamo posti, vale a
dire se il jazz sempre improvvisato, dovremmo propendere nettamente
per il no. Anche da un punto di vista storico, bisogna notare chel'improvvisazione non ha sempre avuto quel ruolo centrale che occupa
nel jazz contemporaneo. Nelle formazioni dei primi anni '20 capeggiate
da King Oliver a St. Louis, ad esempio, lo spazio lasciato
all'improvvisazione ben poco. (Carles, Clergeat, Comolli: 2008, voce
"Improvvisazione", p. 613). Possiamo poi ricordare che il ragtime, lo
stile pianistico che spesso viene indicato come capostipite del jazz inrealt interamente composto, sebbene possano emergere alcuni elementi
di variazione estemporanea. Nello stile di New Orleans cominciano ad
apparire alcune forme di variazione della melodia, spesso fraintese per
vere e proprie improvvisazioni collettive. soltanto con Louis
Armstrong e le sue formazioni della seconda met degli anni '20, gli Hot
Five e gli Hot Seven, che l'improvvisazione individuale emerge come
tratto distintivo del jazz. Mentre il jazz compie la sua migrazione da
New Orleans e dal Sud verso le grandi citt, soprattutto Kansas City,
Chicago e successivamente New York City, il ruolo dell'improvvisazione
cresce progressivamente. A cavallo degli anni '30 il "solo" diventa il
momento culminante in cui l'individualit del musicista emerge dal
collettivo e le capacit di ogni singolo improvvisatore diventano materia
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di confronto, di studio, addirittura di venerazione nel caso dei grandi
personaggi della storia del jazz. Ma l'equazione tra jazz e
improvvisazione non sar mai risolta in maniera univoca e per tutta la
storia di questa musica si osciller tra episodi di totale assenza diimprovvisazione ad altri di improvvisazione totale. Ponendosi ad uno dei
due poli opposti di questa relazione, possiamo citare da un lato alcuni
capolavori composti da Duke Ellington per la sua orchestra come
Reminiscing in Tempo e On a Turquoise Cloud, privi di interventi
improvvisati. All'estremo opposto, potremmo citare il celebre discoFree
Jazz (1960), in cui un rivoluzionario Ornette Coleman mette insieme undoppio quartetto per registrare 36 minuti e 23 secondi di
improvvisazione totale e collettiva. In mezzo a questi due estremi si
collocano tutte le infinite miscele tra composizione ed improvvisazione
che rappresentano il grande contributo del jazz alla musica del XX
secolo.
La seconda domanda che ci siamo posti se dobbiamo considerarejazz tutte le forme di improvvisazione musicale. A questa domanda
ancora pi semplice dare una risposta negativa se si conosce anche solo
superficialmente la storia della musica occidentale. Si pu affermare che
possibile adoperare il concetto di improvvisazione solo in opposizione
a quello di composizione. Non avrebbe senso cio parlare di
improvvisazione nelle culture musicali di tradizione orale, laddove non
esiste un sistema organico di notazione o di organizzazione degli eventi
sonori come invece avviene nella nostra cultura occidentale o in altre
ricche tradizioni musicali come quella indiana, fortemente formalizzate.
Con l'emergere di una formalizzazione della musica nella cultura
occidentale, si viene a creare un territorio di confine in cui persistono
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delle tecniche di improvvisazione (o piuttosto di variazione
estemporanea) che si affiancano al materiale composto e preordinato.
Nella musica liturgica a cavallo tra Medioevo e Rinascimento prassi
comune quella di improvvisare un contrappunto sopra un cantus firmus,vale a dire una linea melodica posta alla base di una condotta polifonica.
Successivamente, con la pratica del basso continuo, si sviluppa una
raffinata tecnica di accompagnamento della melodia basato su una linea
di basso sulla quale una strumento armonico (ad es. il clavicembalo)
suona degli accordi basandosi esclusivamente su alcune indicazioni
convenzionali fornite dal compositore (la cosiddetta tecnica del bassonumerato). sorprendente notare come tale tecnica abbia molte
similitudini con quella che solitamente adoperano un bassista ed un
pianista jazz contemporanei, come cercheremo di spiegare nel capitolo
dedicato al "funzionamento" del jazz. L'improvvisazione continua ad
essere presente in tutta la storia della musica colta occidentale, sebbene a
volte non rappresenti una precisa scelta artistica, quanto piuttosto unadimostrazione di capacit armoniche e strumentali. Si narra che sia
Mozart che Beethoven (e successivamente anche Liszt) fossero degli
eccellenti improvvisatori, capaci di creare all'impronta delle complesse
cadenze per pianoforte, con le quali mandavano in visibilio i fortunati
ascoltatori di quelle creazioni estemporanee.
Poich questa ricerca non si occupa del concetto di improvvisazione in
termini strettamente musicologici, ma piuttosto di una sua
interpretazione come modello di interazione, ritengo necessario
presentare in questo capitolo dei tentativi di sistemazione teorica cos
come sono stati elaborati in alcuni importanti lavori specialistici
sull'argomento.
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2.2 Improvvisazione come competenza
Confutare il grossolano equivoco che vuole l'improvvisazione come
una creazione spontanea partendo "dal nulla", significa rendere conto delgenere di competenza che questa pratica musicale presuppone.
"L'improvvisazione determinata, in effetti, da pensatori che hanno
assorbito una vasta conoscenza musicale che include una miriade di
convenzioni che contribuiscono a formulare delle idee in modo logico,
cogente ed espressivo. (Berliner: 1994, p 492, trad. mia)"
Il mestiere dell'improvvisazione richiede dunque un lungo
apprendistato attraverso il quale il musicista viene a contatto con una
tradizione quasi centenaria a cui attinger per affinare il proprio
vocabolario individuale. Si tratta di un lungo viaggio iniziatico del quale
non facile intravedere la fine e che molti musicisti identificano con la
durata stessa della propria carriera. Un percorso spesso difficile, in cui cisi confronta con le proprie capacit di apprendimento, col proprio
talento, soffrendo spesso le frustrazioni che derivano dallo sforzo di
superare i propri limiti tecnici ed espressivi o dal confronto spietato con
gli altri musicisti, in un contesto fortemente competitivo com' quello del
jazz. Un percorso che coincide dunque con la continua ricerca di una
propria voce individuale e di una distinta personalit artistica, massime
aspirazioni per qualunque musicista che non voglia fermarsi alla pura
riproposta manieristica di uno stile.
"Ci si avvale di anni di preparazione e di tutta la propria sensibilit
proprio per spingersi al di l di quello che si rivelato efficace nel corso
delle performance precedenti, per spingersi ai confini del non-gi-noto
[...] se i musicisti sono capaci di improvvisare, lo fanno perch
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conoscono le regole e i materiali della loro disciplina, li conoscono al
punto da permettersi di variarli e trasgredirli in modo creativo." (Sparti:
2005, p. 123).
"Il jazz si apprende per prova ed errore, assimilando sul campo regole,pratiche, tradizioni, capacit di interazione. In questo non diverso da
altre musiche di tradizione orale: l'individuo acquisisce competenza
osservando, imitando, rielaborando, ma con una maggior opportunit per
l'invenzione originale e dunque per l'innovazione, che richiede capacit
superiori di manipolazione del discorso musicale" (Zenni: 2008, p. 23)
Questo percorso di addestramento non pu essere assimilato a quellodi un musicista di formazione classica. Per uno strumentista classico che
intende intraprendere la carriera del concertista esiste in buona sostanza
un percorso predefinito che poggia sullo studio sistematico dello
strumento nel contesto del conservatorio. Una volta acquisita la
padronanza dello strumento, il musicista affiner la sua conoscenza
specializzandosi spesso in una particolare prassi esecutiva funzionalealla resa di una porzione pi o meno definita dell'immenso repertorio
della musica occidentale colta. Magari quel musicista si specializzer in
musica barocca o affronter lo studio della musica del novecento o del
repertorio romantico. In ogni caso, la sua professionalit si andr
formando attraverso un percorso pi o meno standard, affrontando
lunghe sessioni di prove con l'orchestra, mandando a memoria o
studiando a fondo lunghe e complesse partiture, cercando di interpretare
le indicazioni del direttore d'orchestra. Anche da un punto di vista
timbrico, i suoi sforzi saranno diretti all'ottenimento di un suono "puro",
cristallino, conforme alle indicazioni del compositore. A questo punto
potremmo abbandonarci ad una discussione sul complesso rapporto che
si instaura nel contesto della musica colta tra partitura, interpretazione,
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esecuzione. Un'analisi che richiederebbe delle competenze di tipo
musicologico e che esula dagli obiettivi di questa ricerca.
Anche nel campo del jazz si assistito negli ultimi decenni ad una
progressiva formalizzazione dei percorsi di studio. I musicisti che oggiintraprendono una carriera professionistica provengono spesso da studi
di conservatorio ed hanno abbondantemente frequentato le tecniche e la
teoria della musica classica. Anche nel campo specifico della formazione
jazz, ormai da tempo possibile seguire un percorso di studi ben
definito, in istituzioni di notevole prestigio internazionale (pensiamo al
Berklee College of Music di Boston o alla New School di New York soloper citarne alcune, ma l'elenco dovrebbe includere i sempre pi
prestigiosi corsi europei, spesso inseriti nei programmi dei conservatori).
Coloro che accedono a questi corsi si trovano a contatto con altri
colleghi che seguono il loro stesso percorso, con la possibilit di studiare
e suonare con grandi maestri del jazz contemporaneo. Al termine di
questo percorso formale, il musicista potr fregiarsi di titoli accademici eaffermare di essere "diplomato" o addirittura "laureato" in jazz, titoli che
a loro volta potrebbero aprirgli la carriera della docenza. Una
definizione, quella del "laureato in jazz" che avrebbe suscitato forse delle
reazioni sarcastiche da parte di quegli artisti che hanno messo a punto la
forma moderna di questa musica nei locali di New York intorno agli anni
'40 del secolo scorso. Il percorso che quei "giganti" hanno attraversato
per affermare la propria arte stato infatti radicalmente diverso.
Alcuni musicisti della "vecchia guardia" intravedono in questo genere
di istituzioni il rischio di una crescente standardizzazione e omogeneit
nello stile e nelle prassi esecutive. Nelle parole di Eddie Henderson,
trombettista americano che ha avuto l'onore di ricevere le prime lezioni
niente meno che da Louis Armstrong, i musicisti che hanno seguito
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questo genere di corsi sono riconoscibili per una impressionante maestria
tecnica, ma non certo per l'originalit e la personalit del loro sound:
"One time somebody gave me a cassette of a very good saxophone
player. They said: who is this? (a questo punto Mr. Henderson riproducecon suoni onomatopeici un torrenziale assolo pieno di note). I said: I
don't know [...] the sound...it's an altoist...but I know he went to Berklee
School of Music!" (registrazione privata)
Nonostante la disponibilit di questi corsi di formazione avanzata,
ancora oggi molti tra coloro che intraprendono lo studio del jazz, inmodo pi o meno professionale, coltivano un percorso individuale.
Anche in questo caso per, la situazione molto cambiata dai tempi di
Charlie Parker. L'evoluzione e la diffusione della cultura jazz hanno
portato alla creazione di tutta una serie di supporti allo studio individuale
che fino a pochi decenni fa erano del tutto assenti. Lo studente
autodidatta ha oggi a disposizione un numero enorme di manuali emetodi che affrontano ogni ambito della pratica jazzistica, dall'approccio
allo strumento allo studio sistematico delle tecniche di improvvisazione.
Questo studente potr praticare direttamente a casa sua utilizzando delle
basi musicali preconfezionate prive della parte solistica. Si pensi ai
famosi dischi della serieAebersold, nei quali una sezione ritmica, spesso
formata da celebri musicisti, viene registrata mentre accompagna un
solista "fantasma". Lo studente non dovr fare altro che mettere il disco
nel proprio stereo ed esercitarsi per ore come se avesse un
contrabbassista, un batterista ed un pianista sempre a disposizione nella
sua camera. Il limite principale di questo tipo di supporti dovuto al
fatto che l'accompagnamento fornito da quei musicisti, per quanto
pregevole da un punto di vista tecnico, sempre immancabilmente
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uguale a se stesso, cos com' stato registrato quella prima volta. Viene a
mancare, cio, uno degli elementi essenziali della performance jazz, vale
a dire la costante e continua interazione tra solista e sezione ritmica.
Proviamo ad immaginare un diligente autodidatta che ha acquistato tuttala serie di queste basi musicali e che dopo lunghe ore passate nel suo
studio a provare e a riprovare i propri assolo decide di provare a suonare
in unajam session con una "vera" rhythm section. Si ritrover a suonare
con dei musicisti che non eseguono una parte in maniera statica, ma che
rispondono colpo su colpo, in modo interattivo, alle sue improvvisazioni.
Da una parte la situazione potrebbe entusiasmarlo, poich si troverebbefinalmente catapultato nella materia viva e pulsante del "vero" jazz. Ma
d'altra parte, ci potrebbe condurre a dei risultati disastrosi,
sottoponendo il poveretto allo scherno degli altri musicisti pi esperti,
che individuerebbero in lui il tipico solista "da aebersold", incapace di
fare interplay3.
Nella tradizione jazzistica, lo studio individuale ha comunquerappresentato la principale forma di addestramento all'improvvisazione
creativa. Intere generazioni di musicisti hanno seguito un percorso di
formazione che comprende alcune tappe fondamentali. Paul Berliner
(1994) ha delineato questo percorso, ricorrendo allo strumento
dell'intervista. Proviamo ora a sintetizzare i risultati di tale ricerca.
Bisogna anzitutto chiarire una preliminare distinzione tra le esperienze
dei musicisti nord americani e quelle dei loro colleghi europei. Essendo
nati nel Paese che ha dato i suoi natali al jazz, molti dei musicisti
americani, in particolare coloro che provengono dalla comunit
afroamericana, hanno avuto l'esperienza di trovarsi immersi direttamente
nella tradizione viva del jazz e della Black Music in generale. I primi3 Interplay appunto il termine utilizzato dai jazzisti per indicare la coesione e
l'intermusicalit tra i membri di un gruppo.
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approcci alla musica, per questi artisti, avvenivano direttamente nel
contesto familiare, ascoltando i dischi dei propri genitori, o nell'ambito
della comunit religiosa locale nella quale, come spesso accade nelle
tradizioni battiste, le funzioni includono come elemento centralel'intervento della musica suonata dal vivo. Questo genere di esposizioni
in vivo fin dalla pi tenera et un toposricorrente nelle biografie dei
musicisti afroamericani, al punto che alcuni di loro hanno reso omaggio
a quel tipo di contesto anche nella loro produzione artistica in et
matura. Per citarne un esempio, si pensi al celebre lavoro del
contrabbassista e compositore americano Charles Mingus, il qualeinclude nell'album Blues & Roots (1960) un brano come Wednesday
Night Prayer Meeting nel quale egli richiama il clima di intensa
compartecipazione sperimentato durante le celebrazioni liturgiche che
frequentava da bambino. In questo genere di funzioni, che la letteratura
ci descrive spesso come veri e propri riti di purificazione collettiva, il
messaggio divino veniva veicolato dall'intervento della musica. In taleistituto molti ricercatori hanno facilmente individuato un retaggio
culturale di chiara matrice africana, in cui la musica diventa lo strumento
essenziale per una transizione verso un livello alterato della coscienza,
nel quale l'individualit sfuma i suoi contorni nella collettivit e si cerca
di instaurare una comunicazione diretta con la sfera del divino, dando
vita spesso ad episodi di trancecollettiva.
Oltre a questa precoce immersione nella tradizione, i musicisti
potevano inoltre contare sulla presenza costante della musica in ogni
contesto, daijukeboxai negozi di dischi del quartiere, e soprattutto su
una grande proliferazione di locali che offrivano spettacoli di musica dal
viva. Stiamo parlando ovviamente di un contesto e di un periodo, gli
Stati Uniti degli anni '20, '30 e '40, che non a caso hanno prodotto quella
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generazione di artisti che ha forgiato la forma del jazz moderno cos
come la conosciamo oggi. In Europa, ma anche nell'America dei nostri
giorni, la situazione radicalmente diversa. Ciononostante, alcune tappe
obbligate continuano ad essere presenti nella carriera dei jazzisti di ogniepoca e provenienza, al punto che possibile delineare un percorso di
iniziazione e addestramento comune a tutti coloro che entrano nel mondo
del jazz da musicisti.
Lo strumento centrale il disco, il supporto sonoro su cui i musicisti
delle generazioni precedenti hanno lasciato una testimonianza della
propria arte. Lo studio sistematico delle registrazioni la prima fonte diconoscenza a disposizione dello studente. Si tratta di un elemento
comune ad epoche e luoghi diversi. Chi scrive ha avuto modo di
raccogliere al riguardo la testimonianza di Bruno Tommaso,
contrabbassista e compositore romano appartenente a quella generazione
di musicisti che hanno introdotto il jazz moderno nel nostro paese.
Tommaso, proveniente da solidi studi classici, ha incontrato come moltialtri il jazz nei dischi americani che riusciva faticosamente a procurarsi
negli anni '50 e '60. Ascoltando e riascoltando quelle registrazioni,
consumando in maniera irreversibile il vinile nel tentativo di trascrivere i
passi pi interessanti, Tommaso ha iniziato a costruire il suo vocabolario
musicale e la sua personalit timbrica sul modello dei musicisti
americani degli anni '40 e '50.
A differenza dei colleghi europei, i musicisti americani hanno la
possibilit di accedere alla comunit dei musicisti di jazz pi anziani.
Nelle jam session organizzate dai locali, attraverso conversazioni
informali o tramite lezioni private, il jazzista alle prime armi apprende i
rudimenti del mestiere. La comunit dei musicisti si configura dunque,
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nelle parole di Berliner, come un vero e proprio sistema educativo, per
quanto informale (Berliner: 1994).
Attraverso questa continua esposizione al jazz e alla comunit degli
artisti, il giovane apprendista inizia a coltivare le proprie tecnichestrumentali e ad affinare il proprio linguaggio. Un passaggio essenziale
quello della memorizzazione dei patterns, ossia delle cellule musicali
che i solisti inseriscono nelle proprie improvvisazioni e che spesso
costituiscono i mattoni del discorso musicale. Gli studenti sono soliti
mandare a memoria centinaia dipatterns, esercitandosi a suonarli in tutte
le tonalit. Alcune di queste frasi sono divenute talmente celebri nellacultura jazz da divenire dei motivi tradizionali, spesso indicati col
termine licks. Alcuni di questi licks sono direttamente collegabili alla
figura di un particolare musicista, tanto da rappresentarne, al pari
dell'aspetto timbrico, una sorta di firma di autenticit. Queste frasi si
sono cristallizate nel linguaggio jazzistico e sono sopravvissute al
trascorrere delle generazioni. Conoscere un gran numero di licks e dipatterns non certo condizione sufficiente per definire un buon
improvvisatore, ma la capacit di citare qua e l nel proprio discorso
musicale le frasi storiche di grandi musicisti del passato una sorta di
dimostrazione di competenza e di abilit. La citazione uno degli
elementi chiave dell'improvvisazione e l'uso dei licksrientra in una sorta
di gioco tra improvvisatori nel quale, mentre si dimostrano i propri skills
e le proprie capacit tecniche e mnemoniche, si rende omaggio alla
grande tradizione del jazz.
La citazione di un licknon assume una valenza artistica autonoma. Al
di l della forma "devozionale" della citazione, quasi una dichiarazione
di appartenenza alla comunit storica dei jazzisti, si pu intravederne
anche un aspetto ludico. Un improvvisatore espone un tema X,
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dopodich improvvisa su quella particolare griglia armonica e all'interno
del suo solo inserisce una frase celebre o un licktipico di un particolare
autore. Oppure, espone il tema X e durante l'improvvisazione cita un
tema Y differente. La componente ludica consiste nel richiamarel'attenzione degli altri musicisti o di quei membri del pubblico
abbastanza "dentro" alla cultura jazz da riconoscere la citazione. Una
prassi che richiama alla mente le teorie sull'esclusivismo di questa
musica, spesso accusata di chiusura autoreferenziale come vedremo nel
capitolo dedicato alla comunit jazz. Soltanto certe persone possono
cogliere appieno determinati "trucchi" (come appunto le citazioni),probabilmente solo gli altri musicisti jazz. Ragion per cui il jazz sarebbe
una "musica per musicisti".
In altri casi, licks e patternscostituiscono delle ancore mnemoniche
alle quali l'improvvisatore pu sempre ricorrere nei momenti di "vuoto di
idee". Qualcosa di simile all'uso che si fa delle cosiddette "frasi fatte" o
espressioni convenzionali all'interno di una conversazione.Uno dei compiti pi importanti per un musicista jazz consiste poi nel
memorizzare il maggior numero di brani e accrescere cos il proprio
repertorio. Come vedremo in seguito, buona parte del repertorio
tradizionale su cui i jazzisti basano le loro improvvisazioni costituito
dai cosiddettistandards, brani provenienti dai musical o canzoni celebri
negli anni '40 e '50 di cui vengono memorizzate melodia e progressione
armonica. Conoscere un elevato numero di standardsed essere in grado
di saperli suonare ad ogni velocit e in ogni tonalit il prerequisito
fondamentale per accedere allejam sessions.
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2.3 Improvvisazione e linguaggio
La metafora pi utilizzata, sia dai musicisti che dagli studiosi, per
descrivere le modalit con cui si apprende e si sviluppa la competenzadell'improvvisazione quella del linguaggio.
Il parallellismo tra linguaggio ed improvvisazione pu essere
instaurato su pi livelli: apprendimento delle tecniche di
improvvisazione, costruzione dell'evento sonoro, interazione tra
musicisti nella performance.
Come abbiamo gi visto, l'improvvisazione condivide con illinguaggio parlato gli elementi della sintassi (armonia, uso delle scale),
della fraseologia e delle forme colloquiali (l'uso dei lickse deipatterns)
e soprattutto della pronuncia, ovvero del timbro.
Cos come per apprendere una lingua straniera necessario
immergersi completamente nel contesto in cui essa viene utilizzata, ad
esempio trascorrendo un periodo nel Paese in cui si parla quella lingua ofrequentando dei madrelingua, allo stesso modo lo studente cercher
ogni occasione per venire a contatto con la lingua del jazz. Ascoltando
ed analizzando i dischi e sfruttando ogni occasione per suonare con
musicisti pi esperti, lo studente di jazz cerca di arricchire il proprio
vocabolario e la propria pronuncia.
Le conoscenze di tipo teorico che vengono richieste per diventare dei
buoni improvvisatori sono tutto sommato limitate. Ne prova il fatto che
alcuni grandi jazzisti anche del passato recente non vantassero una
conoscenza approfondita della teoria musicale o dell'armonia.
La trasmissione delle conoscenze avviene sostanzialmente per
trasmissione orale, diretta o mediata che sia. Come abbiamo gi detto,
una delle pratiche pi frequenti tra gli studenti di jazz consiste nella
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trascrizione degli assolo registrati sui dischi pi importanti. Alcuni
musicisti possono vantare collezioni impressionanti di trascrizioni e
hanno acquisito una tale dimestichezza con questa tecnica da riuscire a
trascrivere intere frasi in tempo reale, senza aver bisogno di fermare ildisco o di risuonarlo a velocit ridotta.
Molti docenti tuttavia, suggeriscono ai propri allievi di memorizzare
gli assolo dei loro musicisti preferiti e imparare a riprodurli sul proprio
strumento. Non a caso, gli studenti di jazz hanno l'abitudine di sfidarsi
cantando o fischiettando interi assolo di grandi musicisti del passato. In
questo modo si ritiene che l'allievo impari a controllare gli elementiessenziali dell'evento sonoro improvvisato: la pronuncia, il timbro, il
senso della proporzione tra vuoto e pieno, tra suono e silenzio. Ma non
sufficiente aver letto Flaubert o Balzac e saperne citare interi passi per
poter dire di conoscere il francese. Il passaggio successivo consiste
necessariamente nel mettere alla prova la conoscenza acquisita, e nel
nostro caso ci consiste nell'esibirsi suonando dal vivo con altrimusicisti.
Secondo Berliner, i momenti in cui il musicista si ritrova ad
improvvisare in maniera "naturale" e fluente, segnano il passaggio ad
una maggior padronanza del nuovo linguaggio. Allo stesso modo, lo
studente di una lingua straniera si rende conto di averne interiorizzato la
sintassi e la grammatica quando si ritrova ad usare la nuova lingua in
maniera "naturale", ad esempio nell'immaginazione, nel sogno o anche
nel contesto di una conversazione informale e rilassata.
Parlando dell'improvvisazione, i jazzisti amano fare riferimento alla
capacit di "raccontare una storia". Secondo questa definizione, il solista
cercher di costruire il proprio intervento improvvisato in base ad una
struttura di tipo narrativo. Nelle culture di tradizione orale sono presenti
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delle tecniche distorytellingimprovvisato, basate su dei canovacci che
ruotano intorno a temi ricorrenti o archetipici. Questo genere di
narrazioni vengono costruite utilizzando formule pi o meno standard
che si ricompongono in base alle esigenze del racconto e che hanno laduplice funzione di attirare l'attenzione dell'ascoltatore e di fornire un
sostegno mnemonico al narratore. Anche nell'improvvisazione jazz, il
solista esperto far attenzione a dare un senso di coerenza al proprio
intervento. Una delle qualit pi apprezzate tra i musicisti esperti e
maturi proprio quella di essere degli ottimi storytellers. Un ruolo
fondamentale lo gioca l'incipit, l'inizio dell'assolo. Molti jazzisticonsigliano ai loro allievi di non iniziare il proprio intervento in modo
irruente, scaricando sul pubblico una raffica di note. fondamentale,
viene detto, impostare l'atmosfera generale su cui si costruir
l'improvvisazione. Le prime note di un assolo diventano cos la formula
d'ingresso nella narrazione e al contempo una sorta di presentazione del
solista, che richiama l'attenzione degli ascoltatori sulla sua persona esulla "storia" musicale che si sta accingendo a narrare. Tutto ci rientra
nell'aspetto rituale della pratica improvvisativa. consuetudine, ad
esempio, che un solista inizi il suo assolo citando l'ultima frase suonata
dal musicista che ha improvvisato prima di lui. In questo modo, oltre a
rendere omaggio al collega che lo ha preceduto, il musicista cerca in
qualche modo di non interrompere il flusso narrativo creato dal solista
precedente. come se si volesse mantenere una ideale continuit tra un
solo e l'altro, come se i solisti non fossero altro che dei narratori che si
alternano nel racconto di una lunga storia. Anche nel corso
dell'improvvisazione, il solista cercher spesso di introdurre elementi
stereotipati e altre formule convenzionali. "Come un poeta orale o un
cantore gregoriano, il jazzista basa la sua invenzione su un bagaglio di
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formule" (Zenni: 2008, p. 56). L'abilit consiste nell'inserire questi
elementi formulari con maestria e coerenza, di modo che non appaiano
"incollati" in modo posticcio, ma che contribuiscano piuttosto alla
fluidit del discorso. Una tecnica frequente consiste nell'utilizzare unasemplice frase ripetendola in diversi registri dello strumento e con
diversi tipi di pronuncia. Tutti questi espedienti fanno parte del bagaglio
di esperienze che un musicista accumula nel corso della sua carriera.
2.4 Improvvisazione e conversazione
La definizione dell'improvvisazione come competenza linguistica ci
porta direttamente all'utilizzo di tale capacit all'interno di un contesto
interattivo com' quello della performance e al paragone tra
improvvisazione e conversazione.La trattazione pi approfondita del tema senz'altro quella offerta da
Ingrid Monson nel suo Saying Something. Jazz Improvisation and
Interaction.
Come nel caso delle capacit di storytelling, anche il riferimento
all'ambito della conversazione ricavato direttamente dalle categorie di
interpretazione utilizzate dagli stessi jazzisti. Sia Berliner che Monson
hanno rilevato, nelle loro interviste ai musicisti, un ricorso frequente a
questo tipo di metafore. Si tratta quindi di una prospettiva di tipo
"emico", termine ricavato dalla fonetica che l'antropologia ha preso in
prestito per indicare quell'approccio in cui si fa riferimento alle categorie
di interpretazione interne alla cultura di riferimento, in contrapposizione
all'approccio di tipo "etico" che si basa invece sulle categorie del
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ricercatore occidentale. Questo tipo di approccio diventato centrale
nella disciplina dell'antropologia della musica (Giannattasio: 1998) e in
generale in quei lavori che hanno affrontato le tematiche di tipo musicale
da un punto di vista interdisciplinare.Nel caso del jazz, l'utilizzo di categorie ricavate direttamente dagli
"informatori" (in questo caso i musicisti) da parte di autori come
Monson, non presuppone un rifiuto degli strumenti analitici della ricerca
musicologica "classica". La presenza nella prassi culturale del jazz
dell'elemento interattivo e collaborativo che rende possibile
l'improvvisazione e che esula dall'elemento prettamente musicologico,ha reso necessario l'utilizzo delle interpretazioni "alternative" usate dagli
stessi jazzisti.
La sociolinguistica ci descrive la conversazione come unsetin cui due
o pi partecipanti costruiscono un discorso alternandosi liberamente.
Quando arriva il suo turno, il partecipante alla conversazione
contribuisce al discorso generale, esponendo il proprio punto di vista oaggiungendo nuovi elementi e dettagli alla narrazione. All'inizio di una
conversazione, nessuno dei partecipanti sa esattamente dove si andr a
parare, come si evolver il discorso. Si pu partire da un argomento e
arrivare ad un altro anche molto distante, muovendosi attraverso
numerosi salti logici creati dall'interazione tra i partecipanti. Questo
genere di organizzazione del discorso collettivo oggetto della
cosiddetta analisi conversazionale (Sparti: 2005). Autori come Harvey
Sacks ed Emanuel Schegloff hanno analizzato le procedure di
organizzazione sequenziale della conversazione, ovvero le regole che
disciplinano la presa dei turni.
Monson rileva come questo tipo di situazione venga spesso
paragonata al set di una performance jazz. In generale, il contesto
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prevede un elemento pi o meno statico, rappresentato dalla sezione
ritmica che fornisce il sostegno, e un elemento dinamico, cio
l'improvvisatore che si cimenta nel solo. In realt, sebbene il ruolo della
ritmica sia essenzialmente quello di portare il tempo, il "gioco"dell'improvvisazione consiste in buona parte nel continuo dialogo tra il
solista e i musicisti che lo accompagnano. Ognuno dei componenti della
sezione ritmica deve essere in grado di cogliere i cambiamenti che
avvengono nel corso dell'assolo ed essere pronto ad adeguare il suo
modo di suonare alla nuova situazione. Cos come in una conversazione
se uno dei partecipanti si distrae e perde il "filo del discorso" non pi ingrado di intervenire, allo stesso modo durante la performance un
musicista deve essere in grado di rispondere in modo immediato alle
sollecitazioni o ai cambi di direzione suggeriti dagli altri colleghi.
L'accusa pi grave che si possa rivolgere ad un musicista che lavora in
una sezione ritmica, ad esempio un batterista o un bassista, di "non
ascoltare abbastanza", cio di non essere capace di seguire il flusso deglieventi musicali. Poich tali eventi sono per lo pi imprevedibili, risulta
chiaro che la logica interattiva e l'attenzione continua di ognuno dei
partecipanti sono imprescindibili per la riuscita dell'esecuzione.
Ponendosi in un'ottica di tipo post-strutturalista, Monson ricorre alla
classica distinzione saussuriana tra langue e parole. Il linguaggio del
jazz, inteso come quel sistema estetico di cui abbiamo parlato in
precedenza, distinto da quello di qualunque altro genere, rappresenta
dunque la langue. Mentre il suo aspetto prettamente performativo,
interattivo e collettivo, rientrerebbe nel campo dellaparole.
A differenza della conversazione, il processo dell'improvvisazione non
si fonda esclusivamente sull'alternarsi di turni di intervento. Se vero
che i singoli solisti si avvicendano nell'esposizione di uno o pi chorus
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di assolo
(vedi par. 3.4)
il lavoro principale di interazione e
collaborazione avviene in modo simultaneo e non mediato. I musicisti
suonano contemporaneamente e la situazione si modifica e si evolve
sulla base degli stimoli che possono arrivare, in teoria, da ognuno deimembri. In realt, pi spesso il solista a prendere le redini delle
performance e a dare l'impulso per le eventuali variazioni.
Rendere conto di questo tipo di interattivit senza ricorrere a degli
esempi sonori pressoch impossibile. Possiamo comunque provare a
descrivere una situazione "tipo", immaginando un tipico set da jam
session.Il gruppo decide di eseguire un tema, una melodia che ha una
connotazione malinconica, ad esempio un blues. Conoscendo in