Il Mestiere Dell'Improvvisazione

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  • 7/25/2019 Il Mestiere Dell'Improvvisazione

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    UNIVERSIT DEGLI STUDI DEL SALENTO

    Facolt di Scienze Sociali, Politiche e del Territorio

    Corso di Laurea Specialistica in

    Sociologia e Ricerca Sociale

    IL MESTIERE DELL'IMPROVVISAZIONEEtnografia della Jam Session

    Relatore:

    Chiar.mo Prof. Mariano Longo

    Tesi di Laurea di

    Igor LEGARI

    Matricola n.10030274

    ANNO ACCADEMICO 2007/ 2008

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    INDICE

    Introduzione : Un mondo a parte 4

    Cap. 1 Jazz e Scienze Sociali 111.1 La densit del jazz 111.2 L'analisi musicologica e i suoi limiti 131.3 Tra etnomusicologia ed antropologia 151.4 African American Studies: una prospettiva etnica? 171.5 La prospettiva sociologica 20

    1.5.1 L'equivoco di Adorno 211.5.2 Schutz: "Making music together" 221.5.3 H.S. Becker: il mestiere dell'improvvisatore 24

    1.6 Paul Berliner: l'improvvisazione come competenza 251.7 Ingrid Monson: i riflettori sulla sezione ritmica 25

    Cap.2 Il mestiere dell'improvvisazione 272.1 La magia dell'improvvisazione 272.2 Improvvisazione come competenza 332.3 Improvvisazione e linguaggio 422.4 Improvvisazione e conversazione 45

    Cap. 3 Etnografia della jam session 503.1 Nota metodologica 50

    3.2 La comunit dei jazzisti 543.2.1 Gli outsiders della musica 543.2.2 Categorie di musicisti 61

    3.3 Cos una jam session? 683.3.1 Definizione e cenni storici 683.3.2 Aspetti organizzativi 73

    3.4 Come funziona una jam? 78

    3.4.1 Cosa suoniamo? Il repertorio degli standard 793.4.2 Come lo suoniamo? Head arrangements e trattamenti

    convenzionali

    87

    3.5. La jam session come modello di azione collettiva 973.5. La sezione ritmica 99

    3.6.1 Sezione Ritmica e Front Line 993.6.2 Ruoli e convenzioni 1053.6.3 Il bassista 1083.6.4 Il batterista 1173.6.5 Il pianista 124

    3.7 I solisti 128 3.8 Relazioni di potere, valori musicali e risoluzione dei conflitti 133

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    Conclusione 138

    Bibliografia 147

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    Un mondo a parte

    Man, if you have to ask what (jazz) is, you'll never know.

    Louis Armstrong

    Quando ho cominciato ad appassionarmi seriamente al jazz, intorno ai

    quindici anni, ho dovuto affrontare l'imbarazzo di ritrovarmi fuori dalle

    mode correnti dei miei coetanei.

    Sentirsi incluso in un gruppo ed essere accettato come "normale"

    una delle principali preoccupazioni per un adolescente e la condivisione

    di interessi comuni gioca un ruolo importante in questa fase delicata

    della vita. Avere gusti musicali cos diversi da quelli dei propri compagni

    di scuola o amici pu creare a volte un senso di isolamento. Ma le

    passioni pi forti possono aiutare a superare quella paura di apparire in

    qualche modo diverso dagli altri che spesso spinge verso un pi comodo

    conformismo.

    Il passaggio dall'ascolto alla scelta di uno strumento e allo studio della

    musica mi sembrato quasi obbligato. Non posso fornire dati statistici al

    riguardo, ma credo di poter affermare con una certa sicurezza che buona

    parte degli amanti del jazz hanno una qualche familiarit con la pratica

    musicale e suonano uno strumento, anche solo a livello amatoriale.

    Sembra piuttosto confermata la tesi che vuole il jazz una musica per

    musicisti, nella duplice accezione di un genere che richiede competenze

    musicali medio-alte per essere apprezzato appieno e i cui appassionati

    sono spesso presi dal desiderio di passare dal ruolo passivo di ascoltatore

    a quello attivo di musicista.

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    In seguito mi sono trasferito a Roma per intraprendere gli studi

    universitari e al contempo per iscrivermi alla Scuola Popolare di Musica

    del Testaccio, un'istituzione storica per il jazz nella capitale. stato a

    quel punto, quando mi sono ritrovato immerso in un ambiente i cui tutticondividevano la stessa passione e parlavano la stessa "lingua", che ho

    avuto la netta sensazione di accedere ad un mondo a parte.

    Gli studi sullesubculturehanno ampiamente indagato le modalit con

    cui gruppi pi o meno ampi di individui tendono a "modellarsi" intorno

    ad un elemento aggregante, dando vita a una "cultura nella cultura"

    dotata di una propria autonomia.Nella mia situazione di studente di antropologia che frequentava una

    scuola di musica jazz, era naturale che la mia attenzione fosse attratta da

    quegli aspetti dell'ambiente musicale che pi da vicino mi ricordavano le

    nozioni apprese nelle aule della facolt. Riconoscevo negli atteggiamenti

    e nel linguaggio dei jazzisti gli elementi tipici di una comunit in

    qualche modo "esclusiva". Ovviamente ne ero affascinato e cercavo diapprendere quanto pi possibile non solo in termini di nozioni musicali e

    tecniche, ma anche in termini di comportamento, di uso appropriato del

    linguaggio tecnico, di "stile". Sebbene ora la cosa mi appaia piuttosto

    ridicola, all'epoca in cui mi avvicinavo timidamente al mondo del jazz,

    consideravo ci come un fatto di estrema importanza, al pari delle

    capacit musicali e del talento. La mia preoccupazione era quella di non

    apparire troppo sprovveduto o ingenuo, fuori dalle regole del gruppo,

    cos come da ragazzino mi sentivo un po' a disagio perch ascoltavo una

    musica decisamente fuori moda tra i miei coetanei. Ora invece mi

    ritrovavo finalmente tra persone di ogni et che condividevano la mia

    stessa passione e volevo a tutti costi dimostrare di essere "uno di loro".

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    Ero a tutti gli effetti un newcomerche si sforzava per non essere pi

    riconosciuto come tale.

    Dopo circa due anni sono ritornato a Lecce, dove ho proseguito gli

    studi universitari in Sociologia. Parallelamente ho continuato lo studiodel jazz e del contrabbasso in modo autonomo. Mi ritengo pertanto

    fondamentalmente autodidatta nel campo della musica. A partire dal

    2000 ho intrapreso una discreta attivit concertistica nel territorio

    pugliese, accumulando una mole di esperienze in particolare nel contesto

    dellejamsession

    Nell'ottobre del 2008 sono stato ammesso a frequentare il primoInternational Jazz Master Program (In.Ja.M.) organizzato dalla

    Fondazione Siena Jazz. Si tratta di un corso di alta specializzazione in

    tecniche dell'improvvisazione, al quale partecipano in qualit di docenti

    alcuni dei pi importanti artisti internazionali. Parte integrante di questo

    Master sono lejam sessionorganizzate in un club della citt nelle quali

    capita spesso che gli studenti condividano lo stesso palco con alcunimostri sacri della storia del jazz.

    Ho deciso di inserire questa breve nota biografica per ricostruire il

    percorso individuale e di studio che mi ha portato a maturare l'idea per

    questa tesi.

    In effetti, quando arrivato il momento di scrivere la mia tesi di

    specializzazione in sociologia, ho pensato che fosse una buona idea far

    convergere la mia passione per il jazz e gli studi di scienze sociali.

    Il primo problema, se cos si pu dire, era quello di individuare un

    punto di vista, una prospettiva che mi permettesse di presentare il jazz

    con lo sguardo di un sociologo. Su quella che viene considerata la

    "musica del XX secolo" per eccellenza sono state prodotte letteralmente

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    migliaia di pubblicazioni. Ma dovendo necessariamente escludere la

    prospettiva musicologica e quella storica, il campo per le mie ricerche

    bibliografiche si restringeva molto.

    Uno dei primi autori in cui mi sono imbattuto in questa prima fase stato il sociologo americano Howard Saul Becker, considerato come

    l'esponente pi celebre della cosiddetta "seconda generazione" della

    Scuola di Chicago. Il nome di Becker viene spesso associato al settore

    disciplinare della sociologia della devianza.

    Il testo di riferimento al riguardo il celebre Outsiders, una raccolta di

    saggi composta nel 1963 che include alcuni capitoli divenuti un"classico" degli studi sulla devianza, come quello sui consumatori di

    marijuana.

    Sebbene tale lavoro sia stato troppo spesso ridotto alla formulazione

    della cosiddetta labelling theory, in realt il contributo principale di

    Becker stato quello di "allargare l'area presa in considerazione dallo

    studio dei fenomeni devianti, includendo, oltre a chi viene definitodeviante, le attivit di altre persone" (Becker: 1991, p. 136), ovvero i

    membri del gruppo a cui il cosiddetto agente deviante appartiene.

    Emerge una nuova ottica che indaga i comportamenti devianti e i gruppi

    che li mettono in atto come un'esperienza sociale collettiva, frutto

    dell'interazione tra pi persone che "fanno ci che fanno con un occhio a

    ci che gli altri hanno fatto" (ivi, p. 138)

    In realt, pi che per l'innovativo approccio al tema della devianza, il

    lavoro di Becker ha attirato la mia attenzione per motivi pi strettamente

    legati al jazz.

    In Outsiders, il sociologo di Chicago include infatti un capitolo che

    un estratto del lavoro di ricerca svolto per la propria tesi di Master,

    condotta sotto la guida di Everett Hughes. Il saggio (The Professional

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    Dance Musician and His Audience) raccoglie le esperienze fatte da

    Becker in qualit di pianista professionista nei club di Chicago durante

    gli anni '40, un periodo particolarmente fiorente per il jazz nella Windy

    City.Durante gli anni dell'universit, Becker svolse l'attivit di pianista

    presso i numerosi locali notturni della citt e al momento di scrivere la

    sua tesi era ancora convinto che quella sarebbe stata la sua professione

    per il resto della vita. Avendo deciso di produrre una tesi sui gruppi

    professionali, il giovane Becker pens di utilizzare le esperienze

    accumulate nel suo lavoro di jazzista. Il risultato fu un brillanteresoconto della vita quotidiana e professionale dei musicisti, con

    numerosi accenni allasubcultura in cui essi (compreso l'autore) erano

    immersi e sulla modalit in base alle quali i musicisti etichettavano un

    individuo e il suo comportamento come insider o outsider rispetto alla

    loro comunit. L'approccio scelto da Becker fu quello dell'osservazione

    partecipante e in questo fu favorito dal fatto di essere perfettamenteintegrato nel gruppo che stava studiando, al punto che le sue curiosit o

    le sue domande apparivano del tutto naturali. Nessuno dei musicisti di

    cui l'autore raccolse le testimonianze si resero conto che egli si

    presentava nella duplice veste di pianista e di ricercatore sociale.

    Fatte le dovute proporzioni, l'esperienza di Becker mi parsa subito

    affine alla mia. Anch'io avevo a disposizione una buona quantit di

    esperienze dirette sull'ambiente del jazz e forse avrei potuto produrre un

    lavoro dello stesso genere.

    In seguito per ho pensato che potevo proporre un punto di vista

    differente rispetto a quello adottato da Becker. Come ho gi detto, The

    Professional Dance Musician and His Audience, essenzialmente una

    ricerca su un gruppo professionale, quello dei musicisti da night club.

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    Poco o nulla viene detto riguardo l'atto musicale in s. Una delle cose

    che mi affascinano di pi del mondo del jazz il tipo di conoscenza

    necessario a creare una musica che si fonda sull'improvvisazione e

    sull'interazione tra un gruppo di individui. In questo il jazz diverso datutti gli altri generi della musica contemporanea. vero che

    l'improvvisazione non sempre sinonimo di jazz e che una certa forma

    di interazione sempre necessaria se si vuole fare musica insieme ad

    altre persone. Ma in nessun'altra cultura musicale la fusione di questi due

    elementi ha assunto una rilevanza paragonabile a quella del jazz.

    Esiste un'istituzione nel mondo del jazz in cui quest'azione combinatadi improvvisazione individuale, conoscenze condivise e interazione

    collettiva diventa particolarmente evidente: lajam session. Ragionando

    sulle caratteristiche di questo tipo particolare di performance, nella quale

    un gruppo di musicisti si riunisce in modo estemporaneo e crea musica

    insieme, mi sembrato di poter individuare numerosi elementi che

    potevano rientrare in uno studio di tipo sociologico. In particolare hopensato che mi sarebbe piaciuto rendere conto di quel senso di

    appartenenza a una comunit, delle dinamiche interpersonali tra

    musicisti e non musicisti e del particolare utilizzo di un repertorio

    condiviso di brani standard con i quali mettere alla prova la propria

    competenza nel mestiere dell'improvvisazione.

    Le impressioni che avevo ricevuto nelle numerose jam alle quali

    avevo partecipato nel corso degli anni in qualit di spettatore o musicista

    mi apparivano ora sotto una luce diversa. Stavo maturando l'idea di poter

    presentare questo tipo di fenomeno a chi non ne conoscesse il

    "funzionamento", cercando di rivelare i meccanismi nascosti che

    agiscono dietro l'apparenza di un gruppo di persone che semplicemente

    si riunisce per suonare insieme.

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    Di conseguenza, la mia indagine bibliografica andava ora affinandosi.

    In questo modo mi sono imbattuto nei lavori fondamentali di due

    ricercatori americani, Ingrid Monson e Paul Berliner, che hanno

    ampiamente affrontato il tema in questione.Parallelamente allo studio della letteratura sul caso, ho poi iniziato ad

    abbozzare una struttura generale al mio lavoro. Quali elementi dovevo

    includere? Con quale strumento metodologico avrei dovuto affrontare

    l'oggetto in questione?

    Se vero che le informazioni necessarie per la ricerca le avevo

    raccolte (potremmo dire inconsciamente) nel corso di dieci anni diesperienze come contrabbassista semi-professionista di jazz, ho ritenuto

    opportuno presentarle sotto forma di un'etnografia della jam session,

    come risultato di un lungo lavoro di osservazione-partecipante.

    Questa tesi in conclusione il risultato della fusione di due passioni,

    quella per le scienze sociali e quella per il jazz, alla quale ho tentato di

    dare una forma unitaria e coerente. Come spesso accade, quando sigiunge alla conclusione di un lavoro di ricerca come questo ci si rende

    conto di tutto quello che rimasto fuori, di tutti quegli aspetti che

    varrebbe la pena approfondire.

    Ad ogni modo, scartando a priori la pretesa della completezza, spero

    quanto meno di essere riuscito a trasmettere lo stupore che il pensiero

    jazz messo in atto durante una performance collettiva ha sempre

    suscitato in me.

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    1. Jazz e Scienze Sociali

    Talking about music is like dancing about architecture.

    Thelonious Monk (pianista e compositore)

    1.1 La densit del jazz

    In questo capitolo vorrei offrire una breve rassegna dei moltepliciapprocci al cui interno le scienze sociali si sono interessate al jazz come

    fenomeno sociale e culturale. Mi focalizzer sul contributo di discipline

    quali l'etnomusicologia e l'antropologia culturale, il filone degliAfrican

    American Studiese la sociologia della musica.

    Le origini nella cosiddetta Diaspora Africana1(oBlack Diaspora) e il

    meticciato culturale afroamericano, i mutamenti nella consapevolezza

    degli artisti e dei fruitori di tale forma d'arte, le istanze di auto

    affermazione e di liberazione, le influenze con le altre forme d'arte e con

    gli atteggiamenti e i comportamenti di intere generazioni, hanno fatto del

    jazz una fonte densa di significati sociali, tanto da aver spinto alcuni

    autori a identificarlo come fenomeno artistico simbolo della modernit e

    del XX secolo.

    1 Con il termine Diaspora Africana si intende la dislocazione, forzata o volontaria, degliabitanti dell'Africa Sub-Sahariana in altri continenti. In questo contesto ci riferiamoessenzialmente alle massicce migrazioni causate dal commercio coloniale degli schiavi diorigine africana operato dalle principali potenze europee attraverso l'Atlantico lungo ladirettiva Est-Ovest. A partire dal XV sec. e fino al XIX, tali migrazioni hanno sradicato unenorme numero di individui dalle loro collocazioni originarie alle colonie del Nuovo Mondo,dove hanno costituito la principale forza lavoro coatta nelle piantagioni del Nord America edel Sud America (in particolare del Brasile), gettando le basi per la creazione della civilt

    afroamericana.

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    Per rendere conto della complessit del fenomeno jazz, intendo

    utilizzare una particolare accezione del concetto di densit. Non mi

    riferisco in questo ambito all'uso che ne ha fatto Durkheim per

    rappresentare la crescente differenziazione del lavoro sociale, mapiuttosto ad una densit dei significati e delle connessioni con ambiti

    diversi del reale. Come molti altri fenomeni artistici rilevanti, il jazz si

    presta ad una lettura a pi livelli e da diversi punti d'osservazione che ne

    sottolineano un solo aspetto, spesso a scapito di altri: genere o cultura

    musicale, fenomeno artistico globale, fenomeno sociale e antropologico,

    processo di produzione artistica caratterizzato da un modello interattivodi performance. Risulta evidente come non si possa rendere conto di tale

    densit partendo da un unico approccio. Per fenomeni di tale

    complessit, necessario affidarsi al contributo di molteplici studi,

    integrandone gli sforzi in una prospettiva interdisciplinare. Laddove le

    scienze sociali devono cedere il passo a discipline pi consone all'analisi

    del fenomeno musicale in s, il contributo della sociologia edell'antropologia si rivelano tuttavia indispensabili se si intende indagare

    sui fenomeni di ordine relazionale legati al jazz, i quali rappresentano

    l'oggetto d'indagine di questa ricerca. Resta ancora da chiarire se sia

    realmente possibile pervenire ad un approccio globale, che renda conto

    della complessit del fenomeno senza trascurarne alcun aspetto.

    L'ostacolo principale in genere quello di conciliare gli approcci di tipo

    tecnico-musicologico con quelli pi vicini alle metodologie della ricerca

    sociale. Ripercorrendo la storia della ricerca, dobbiamo ammettere che

    tale tentativo di avvicinamento rimasto molto spesso frustrato. Il jazz

    da sempre materia sfuggente e multiforme, caratterizzata da una certa

    insofferenza nei confronti delle categorie rigide e dei sistemi teorici.

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    Nonostante la sua storia ormai secolare, il jazz rimane l'arte del

    contingente, dell'istante, dell'ineffabile.

    1.2 L'analisi musicologica e i suoi limiti

    Sebbene ci esuli dall'ambito proprio delle scienze sociali, ho ritenuto

    interessante trattare brevemente il rapporto tra la musicologia classica

    occidentale e il jazz, convinto che i limiti di tale filone di studi siano

    rappresentativi della peculiarit del fenomeno jazz.

    Il jazz stato e continua ad essere largamente e profondamente

    analizzato dalla musicologia classica. Un approccio di questo tipo non

    pu che privilegiare il prodotto finale della pratica musicale, l'evento

    sonoro in s.

    Gi a questo livello, il jazz non ha mancato di manifestare la propria

    complessit, ricchezza e profondit. Una teoria piuttosto abusata nellaletteratura vuole descrivere questa musica come risultato diretto della

    fusione di due tradizioni: quella biancadi matrice europea e quella nera

    di derivazione africana. In quest'ottica, risultano facilmente identificabili

    gli elementi che il jazz avrebbe ereditato da questo "matrimonio misto".

    Semplificando, si suole dire che dal genitore bianco deriverebbe

    l'impianto armonico mentre da quello nero discenderebbe l'impulsoritmico. Sebbene sia piuttosto evidente che le strutture armoniche su cui

    si fonda il jazz siano debitrici della teoria tonale europea, mentre il ritmo

    esuli da quella tradizione per rimandare ad una matrice africana, i

    ricercatori pi attenti si sono ben guardati da ridurre il jazz a questa

    semplice sommatoria di elementi. Il rischio di cadere in degli stereotipi

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    ben evidenziato dal musicologo Stefano Zenni: l'attribuzione del

    dominio ritmico all'Africa e di quello armonico all'Europa [...] implica

    una visione sottilmente razzista della musica. Agli africani, corporei e

    "istintivi" riconosciuta l'abilit nell'espressione pi fisica e immediata,originaria e liberatoria: il ritmo. L'armonia invece un prodotto di quelle

    capacit teoriche, riflessive, gerarchiche e sintattiche tipicamente

    europee. (Zenni: 2008, p. 70)

    Al di l dei giudizi di merito, la ricerca musicologica ha dovuto inoltre

    affrontare numerosi problemi di tipo metodologico nell'approccio al jazz.Se la musicologia classica europea si formata sull'analisi della

    composizione, il primo ostacolo da superare stato quello di rendere

    conto della complessit che sottende l'improvvisazione musicale nel

    jazz. Sebbene la trascrizione musicale possa essere utile per analizzare

    da un punto di vista tecnico le capacit dell'esecutore o le strutture

    formali della composizione, la gran parte del processo di interazione cherende possibile l'improvvisazione nel jazz rimane comunque fuori da tale

    tipo di analisi.

    Il jazz sfuggente, non si conforma alle regole della musica colta

    europea, poich fondato su un'inedita fusione tra la figura dell'esecutore

    e quella del compositore nell'immediatezza dell'atto musicale,

    dell'esecuzione, della performance. Non un caso che si parli spesso

    dell'improvvisazione in termini di composizione istantanea.

    Le tecniche della trascrizione musicale che sono alla base della ricerca

    musicologica, si sono poi rivelate del tutto impotenti anche nel rendere

    conto della grande ricchezza timbrica del jazz. Laddove infatti

    l'esecutore classico viene addestrato ad ottenere un suono puro e

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    "conforme" dal proprio strumento, nel jazz e nelle musiche

    afroamericane in generale la ricerca continua di una "voce" individuale

    rappresenta lo sforzo primario nello sviluppo artistico di ogni musicista.

    La tecnologia di registrazione acustica e poi elettrica, che hanno avuto leproprie pionieristiche applicazioni proprio nel jazz, hanno reso solo in

    parte giustizia di questa complessit e ricchezza.

    1.3 Tra etnomusicologia ed antropologia

    Una prospettiva pi consona all'analisi della forma jazz senz'altro

    quella proposta dall'etnomusicologia. Sorta nel tardo '800 (in Germania

    viene indicata come vergleichende Musikwissenschaft, musicologia

    comparata) ad opera di alcuni pionieristici cultori come Bla Bartk e

    Constantin Brailoiu, la nuova disciplina caratterizzata dall'impiegodelle tecnologie di registrazione sonora, di tecniche di trascrizione che

    riflettono lo sforzo di offrire un'analisi fedele dell'atto musicale e

    soprattutto da una grande attenzione al contesto sociale e culturale in cui

    si inseriscono le culture musicali di tradizione orale. Proprio negli Stati

    Uniti, dove molti musicologi tedeschi troveranno rifugio durante il

    Nazismo, l'etnomusicologia trover uno dei suoi terreni ideali di

    applicazione e il jazz nelle sue forme pi primitive e originarie

    rappresenter un campo di studi indagato a fondo dagli etnomusicologi.

    Per citare solo uno dei numerosi casi di incontro tra etnomusicologia e

    jazz possiamo ricordare le celebri interviste al pianista e compositore

    Jelly Roll Morton, massimo esponente dello stile ragtime, condotte da

    Alan Lomax intorno al 1938.

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    Il jazz rimane essenzialmente una musica di tradizione orale, fondata

    cio sulla trasmissione di pratiche sedimentate nel corso dei decenni da

    generazioni di artisti e su una particolare attenzione alla materia sonora

    in s, piuttosto che sulla scrittura e sulla composizione. Per dirla con leparole dell'etnomusicologo Gianfranco Salvatore, l'elemento chiave nel

    jazz propriamente l'atto musicale inteso come un insieme correlato di

    gesti e saperi in azione, espressivit e sensorialit, partecipazione

    psichica, emotiva e fisica, codici cerimoniali e rituali, livelli complessi e

    interrelati di significazione. Nella musica afroamericana, dove non vige

    una netta differenza tra testo ed esecuzione, n una netta separazione tramusicista e pubblico, dove la dimensione strettamente musicale e quella

    contestuale-ambientale tendono ad interagire, il concetto di atto musicale

    aiuta a restituire il linguaggio ai suoi referenti culturali e antropologici,

    enfatizzando la dimensione umana integrale dell'agire e del fare.

    (Salvatore: 2005, p.22)

    Gi da questa breve citazione possibile individuare il netto

    slittamento di prospettiva operato dall'etnomusicologia nei confronti del

    jazz cos come di altre musiche di tradizione orale. Dispiegando i propri

    strumenti analitici in un territorio di confine rimasto inesplorato, a

    cavallo tra discipline socio-antropologiche e ricerca musicologica,

    l'etnomusicologia ha cos potuto offrire un contributo fondamentale e

    sostanzialmente inedito all'analisi del fenomeno jazz.

    Le metodologie della ricerca antropologiche sono corse in aiuto

    dell'analisi musicale per cercare di approfondire l'analisi del fenomeno.

    Ma anche in questo modo, qualcosa di molto importante resta fuori

    dall'inquadratura. Come rendere conto di tutto ci che si situa "prima"

    della performance musicale, come rendere conto dello straordinario

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    lavoro di interazione che sottende all'improvvisazione? Stiamo parlando

    in questo caso di una forma ben precisa di improvvisazione, quella in cui

    uno o pi solisti intraprendono un proprio discorso musicale

    improvvisato sostenuti da altri musicisti che fungono da accompagnatori.Vedremo in seguito come tale modello non sia l'unico in questa musica,

    sebbene venga spesso identificato con il jazz tout court. Il jazz una

    musica che si fonda sull'oralit, sulla performancec contingente e

    irripetibile, sull'interazione e sul dialogo.

    Il lento e doloroso affrancamento degli afroamericani dai pregiudizi edalle discriminazioni razziali e il loro ingresso nella cultura accademica

    americana porteranno in seguito alla nascita di un nuovo filone di studi

    nelle scienze sociali che cercher di offrire una nuova prospettiva anche

    nello studio della grande cultura musicale dei neri d'America.

    1.4 African American Studies: una prospettiva etnica?

    Con la dicituraAfrican-American Studies si indica un ambito di studi

    sorto negli Stati Uniti a ridosso delle proteste per i diritti civili intorno al

    1968. Proprio in quell'anno viene creato il primo "Department of Black

    Studies" dall'universit statale di San Francisco che ne affida la direzione

    al sociologo Nathan Hare. Quando parliamo diAfrican American Studies

    non intendiamo in realt una disciplina a se stante, quanto piuttosto un

    corpus interdisciplinare che comprende tra le altre la sociologia,

    l'antropologia culturale, la storia, gli studi religiosi e la critica letteraria.

    Questa fusione di approcci poi giunta ad una formalizzazione nei

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    dipartimenti universitari, fino alla creazione di percorsi di studi dedicati.

    La prospettiva comune caratterizzata da un netto afrocentrismoin cui

    molti autori hanno facilmente individuato una forma di reazione e di

    resistenza all'eurocentrismo accademico americano che tendeva a nonriconoscere o ignorare del tutto il contributo della cultura afroamericana

    alla formazione della societ americana in generale. D'altra parte, la

    prospettiva esclusivista di questo genere di approcci ne ha costituito, a

    detta di molti, il limite principale. Negli African American Studies, il

    jazz stato rappresentato come forma d'arte "regina" della cultura

    afroamericana e l'analisi delle sue componenti sociali e culturali statainserita nel pi ampio discorso sulla Black Diaspora e sul contributo

    delle culture afroamericane alla societ del XX secolo. In questo caso

    interessante notare come il jazz, da arte etnicamente connotata, si sia

    svincolata dalle sue origini per divenire un linguaggio globale che ha

    investito anche altri contesti della produzione artistica, dalla pittura al

    cinema alla letteratura.Il sociologo britannico Paul Gilroy, uno dei principali esponenti

    contemporanei di questo approccio, ci offre un inquadramento della

    musica come elemento centrale e addirittura fondante della cultura

    afroamericana:

    La forza e il rilievo della musica all'interno dell'Atlantico Nero sono

    cresciute in proporzione inversa rispetto al limitato potere espressivo del

    linguaggio. importante ricordare che l'accesso degli schiavi alla cultura

    scritta veniva spesso negato, pena la morte, e che solo poche opportunit

    di riscatto culturale venivano offerte quali surrogato delle altre forme di

    autonomia individuale negate dalla vita nelle piantagioni e nelle

    baracche. La musica diventa vitale nel momento in cui

    l'indeterminatezza (la polifonia) linguistica e semantica emerge dalle

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    continue battaglie tra i padroni, le padrone e gli schiavi. Tale conflitto,

    decisamente moderno, fu il prodotto di circostanze nelle quali il

    linguaggio perse una parte della propria referenzialit e del suo rapporto

    privilegiato con i concetti. (Gilroy: 2003, p. 154)

    E pi avanti, sugli interrogativi sorti a seguito di quel processo di

    diffusione che ha portato i generi della musica afroamericana fuori dai

    confini etnici delle proprie origini, fino a diventare linguaggio musicale

    globale e condiviso:

    Quali particolari problemi analitici si presentano se uno stile, ungenere o una performance specifica di musica vengono identificati come

    espressione della pura essenza del gruppo che li ha prodotti? Quali

    contraddizioni emergono nella trasmissione e nell'adattamento di questa

    espressione culturale a opera di altre popolazioni della diaspora, e come

    potranno essere risolte? [...] Una volta che la musica venga percepita

    come fenomeno mondiale, quale valore viene assegnato alle sue origini,specie se vanno a contrapporsi a successive mutazioni prodotte durante

    le sue contingenti deviazioni e le sue traiettorie frammentate? (Gilroy:

    2003, p. 156)

    Gli esponenti della corrente degliAfrican American Studiesnon sono

    certo i primi ad occuparsi della materia jazz. La sociologia della musica

    si era gi prodotta in alcune analisi del jazz le quali, va detto

    preliminarmente, hanno spesso peccato di superficialit e incompiutezza,

    come nel caso di Thomas W. Adorno. Approcci pi compiuti ed

    equilibrati saranno invece quelli di sociologi che pi direttamente hanno

    avuto modo di venire a contatto con il contesto sociale del jazz come nel

    caso di Alfred Schutz, fino ad arrivare alle illuminanti indagini di

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    Howard S. Becker, nel cui caso assistiamo ad un fortunato incontro tra

    analisi sociale e biografia dell'autore.

    1.5 La prospettiva sociologica

    Gli approcci pi prettamente sociologici hanno, per forza di cose,

    escluso la componente musicologica. In questo caso, l'oggetto della

    ricerca si spostato piuttosto sull'analisi del jazz come fenomeno socialee culturale.

    Possiamo individuare due direttive negli studi: il contributo del jazz

    come forma d'arte nel XX secolo e il jazz come fenomeno sociale.

    Nel primo caso, siamo nel campo della sociologia della musica,

    disciplina inaugurata da Weber in Economia e Societ. Diversi i temi

    sottoposti ad analisi in questo contesto: la funzione dell'elemento"musica" nella societ, l'impatto della riproducibilit meccanica sulla

    fruizione della musica, la classificazione dei generi musicali e le

    differenze nei "comportamenti musicali" ad essi connessi, la ricezione

    della musica presso l'opinione pubblica e i diversi ruoli giocati dagli

    attori (compositori, esecutori, pubblico, critica, industria discografica).

    Nel caso specifico del jazz, il limite principale di questo genere di analisi

    (e in particolare di quella di Adorno) stata la decisione di abbandonarsi

    a giudizi di merito sul valore musicale di questo genere.

    Nel secondo caso, il focus del ricercatore si indirizzato verso la

    comunit dei musicisti di jazz (spesso con un accento rilevante sul tema

    della devianza, con una particolare predilezione per le analisi sul

    consumo di droghe); oppure, pi raramente, sul pubblico del jazz e

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    sull'impatto sulla cultura popolare e sull'immaginario del XX secolo. Il

    jazz dunque come arte americana per eccellenza, espressione della

    modernit e del cambiamento.

    1.5.1 L'equivoco di Adorno

    Il maggiore esponente della Teoria Critica si occupa di jazz gi a

    partire dal 1933 con il suo Abschied vom Jazz e ritorna pi volte

    sull'argomento fino agli anni '60 del secolo scorso. Appare fin da subitouna sorta di militante ostilit del pensatore tedesco nei confronti di

    questa musica e del contesto sociale in cui essa si inscrive. Le ragioni di

    questo attacco frontale sono state pi volte indagate dai ricercatori nel

    corso degli anni, oscillando tra l'imbarazzo dovuto al rispetto per una

    figura cos importante per la storia della sociologia e la strenua difesa di

    una cultura musicale la cui ricchezza e profondit Adorno sembra avercompletamente misconosciuto. Del resto le posizioni del pensatore si

    inscrivono pienamente nel suo programma di critica della societ dei

    consumi. Quello fra Adorno e il jazz a mio avviso un incontro

    mancato. L'autore decide di soffermarsi esclusivamente sulle varianti pi

    commerciali estandardizzatedi tale forma di espressione, ignorando del

    tutto la carica di ribellione alla mercificazione e di radicale contestazione

    della societ americana di cui il jazz si far portavoce gi a partire dalla

    met degli anni '40 con la "rivoluzione" del be bop2; fino alla diretta

    saldatura tra movimenti per i diritti civili e musica afroamericana che si

    2Stile fondamentale del jazz moderno, il be bop nasce nei primi anni !40 ad opera di alcunigiovani musicisti per lo pi afroamericani e soprattutto fuori dal contesto stabile delle bigband. I nuovi musicisti della scena newyorkese (Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Art Tatum,

    Charlie Christian, Thelonious Monk ed altri), si riuniscono do

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    celebrer negli anni '60, con le nuove tendenze culturali della new thing

    e delfree jazz.

    1.5.2 Schutz: "Making music together"

    Una prospettiva particolarmente interessante ai fini della mia ricerca

    quella offerta da Alfred Schutz nel saggio "Making Music Together"

    (1964).

    In una breve ma brillante trattazione, il sociologo austriaco indaga iltipo di relazioni sociali che sottostanno al processo di creazione

    musicale.

    Nelle parole dell'autore, lo studio della particolare situazione

    comunicativa implicata nel processo musicale, potrebbe gettare una

    nuova luce sugli aspetti non concettuali coinvolti in ogni modello di

    comunicazione (Schutz: 1964, p.162)La notazione musicale, evidenza Schutz, rappresenta un sistema solo

    approssimativo di comunicazione delle idee musicali tra il compositore e

    gli esecutori della sua opera. Esiste una lunga storia di esegesi delle

    partiture che permette di rappresentare opere musicali composte anche

    secoli addietro. Ciononostante, la corretta interpretazione dell'idea

    originaria del compositore non mai garantita.

    Successivamente, ovvero nell'atto pratico dell'esecuzione musicale,

    interviene un complesso vocabolario e una conseguente sintassi di

    espressioni gestuali, non linguistiche, attraverso le quali i musicisti

    comunicano e si relazionano. Si potrebbe parlare di "regole del gioco"

    condivise da musicisti e pubblico che assiste all'esecuzione.

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    Nel contesto di una performance musicale, si instaura tra i partecipanti

    una relazione di "mutuo accordo" (mutual tuning-in relationship) in cui

    l'esperienza dell'Io e dell'Altro diventano consapevolezza del "Noi".

    Quello che unisce compositore, esecutore e ascoltatore la condivisionedi una medesima frazione del tempo che coincide con la durata della

    perfomance. Dal momento che ogni performanceintesa come un atto di

    comunicazione basata su una serie di eventi [...], nel nostro caso un

    flusso di suoni udibili, possiamo affermare che la relazione sociale tra

    esecutore ed ascoltatore fondata sull'esperienza condivisa di vivere

    simultaneamente in diverse dimensioni temporali (Schutz: 1964, p. 175;trad. mia). Nell'atto dell'esecuzione, contemporanea e immanente, si

    dissolverebbe dunque la distanza (temporale, geografica, culturale) tra

    l'idea del compositore tradotta in notazione e gli esecutori di quella idea,

    ma anche la distanza di ruolo tra musicisti e ascoltatori.

    "Fare musica insieme" diviene quindi una reciproca condivisione del

    flusso di esperienze tra individui che "abitano" un medesimo segmentodi tempo e partecipano ad un evento collettivo che li coinvolge su pi

    livelli e con diversi ruoli.

    In un passaggio, Schutz sostiene che dal suo punto di vista non esiste

    una reale differenza tra un quartetto d'archi e un quartetto jazz impegnato

    in una jam session, poich in entrambe le situazioni abbiamo una

    prevalenza dell'aspetto relazionale su quello prescrittivo dell'esecuzione

    di una partitura. Dobbiamo per notare che l'elemento

    dell'improvvisazione presuppone un livello di interazione ancora pi

    profondo e radicale rispetto a quello di un contesto "classico", come

    vedremo nel corso della ricerca. Al di l di questa necessaria

    precisazione, l'impianto generale della tesi sostenuta da Schutz

    estremamente calzante all'approccio che ho scelto e rappresenta un

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    contributo essenziale all'identificazione delle "regole del gioco" sottese

    alla pratica dell'improvvisazione.

    1.5.3 H.S. Becker: il mestiere dell'improvvisatore

    Mentre terminava i suoi studi presso l'Universit di Chicago sotto la

    guida del suo mentore Everett C. Hughes, Howard Becker lavor come

    pianista jazz professionista nei locali della citt. Fu proprio questo

    contatto diretto con la cultura dei jazzisti e con questo peculiare ambitoprofessionale a spingere Becker ad intraprendere un pluridecennale ed

    estensivo studio su questo oggetto che sfoci, tra l'altro, nella

    pubblicazione del celebre volume Outsiders, nel quale l'autore giunge

    anche ad una riconsiderazione teorica di alcuni concetti chiave della

    sociologia della devianza.

    L'appassionata dimostrazione della densit di significati rilevabilinell'analisi del mestiere dell'improvvisatore hanno rappresentato uno dei

    principali stimoli alla scelta dell'oggetto della mia ricerca. Nel corso

    della trattazione avr occasione di rendere conto del contributo di Becker

    ad una nuova prospettiva nell'indagine sociologica sulla cultura jazz.

    In anni pi recenti abbiamo assistito al fiorire di una nuova corrente di

    studi nel campo del jazz che ha il merito di unire la precisione analitica

    dell'etnomusicologia con l'attenzione al contesto mutuata

    dall'antropologia culturale e dalla sociologia della cultura. I due autori

    che maggiormente hanno influenzato la mia ricerca sono entrambi

    americani: si tratta degli etnomusicologi ed antropologi Paul Berliner ed

    Ingrid Monson.

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    1.6 Paul Berliner: l'improvvisazione come competenza

    Pubblicato nel 1994, Thinking in Jazz. The Infinite Art of

    Improvisation dell'etnomusicologo Paul Berliner senza dubbio uno deipi completi studi sulle pratiche dell'improvvisazione. Al di l della

    irrinunciabile analisi musicologica e tecnica, emerge qui l'immagine

    dell'improvvisazione come competenza, come lingua corrente che

    necessita quindi di un vero e proprio percorso di apprendistato e di una

    pratica continua per arrivare a quella spontaneit e a quella fluencyche

    rappresentano i criteri per valutare un buon jazzista. Attraverso l'usodelle tecniche dell'osservazione partecipante e con il sostegno di

    numerose interviste agli "attori", Berliner ci descrive il percorso di

    iniziazione all'improvvisazione, dimostrando che improvvisare non

    significa banalmente rifiutare le regole ma semmai esplicitarle ancora di

    pi attraverso un processo continuo di negazione e negoziazione delle

    stesse. L'analisi dei clich, delloslange della terminologia tecnica, delleconvenzioni, delle prassi consolidate e dei taciti accordi necessari a

    produrre improvvisazione risultano fondamentali ai fini di una ricerca

    che intende presentare l'improvvisazione musicale come modello di

    interazione e di trasmissione culturale.

    1.7 Ingrid Monson: i riflettori sulla sezione ritmica.

    Ingrid Monson, nel suo Saying Something. Jazz Improvisation and

    Interaction (1996), focalizza lanalisi sulla componente meno in vista e

    pi trascurata di una formazione jazz: la rhythm section (o sezione

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    ritmica, tradizionalmente costituita da batteria, contrabbasso, pianoforte

    e/o chitarra). Avvalendosi di un gran numero di interviste ad alcuni dei

    pi rappresentativi musicisti americani degli ultimi anni, Monson

    sviluppa soprattutto il concetto di "interattivit" come strumento diinterpretazione dei processi improvvisativi. Nella mia ricerca, prender

    sovente inspirazione dal lavoro di Monson per rendere conto innanzitutto

    del "mestiere" di musicista jazz professionista, le cui caratteristiche

    appaiono amplificate nei ruoli secondari della performance: quelli

    appunto della rhythm section.

    In questo capitolo ho cercato di offrire una panoramica di alcuni dei

    principali approcci alla materia del jazz. Si trattato di una rassegna

    piuttosto sommaria che ha privilegiato gli studi che maggiormente hanno

    influenzato la costruzione di questo lavoro.

    Nel capitolo successivo tenter invece di entrare direttamente nel vivo

    del discorso, affrontando la complessa e sfuggente materiadell'improvvisazione.

    Trattandosi di un argomento piuttosto complesso, ho scelto di seguire

    un approccio pi pratico, evitando di addentrarmi troppo in profondit

    nelle varie interpretazioni filosofiche connesse al concetto di

    improvvisazione e privilegiando invece quelle prospettive analitiche che

    io stesso ho poi utilizzato come strumenti di sistematizzazione del

    materiale empirico e del corpus di esperienze accumulate nel corso della

    ricerca.

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    2. Il mestiere dell'improvvisazone

    I used to think, how could jazz musicians pick notes out of thin air? I had no idea

    of the knowledge it took. It was like magic to me at the time.

    Calvin Hill (contrabbassista) (da Berliner: 1994, p. 1)

    2.1 La magia dell'improvvisazione

    Proviamo ad immaginare un ascoltatore comune, non ancora "iniziato"

    al mondo del jazz, che si trova ad assistere per la prima volta ad una jam

    session. Per questo ipotetico ascoltatore potrebbe risultare molto difficile

    accettare che la performance musicale a cui sta assistendo basata

    sostanzialmente sull'improvvisazione estemporanea. Soprattutto nel caso

    in cui questo ascoltatore abbia la fortuna di ascoltare unsetcon musicisti

    navigati e abili, sarebbe portato a credere che quella coesione, queltrasporto, quell'energico e istintivo sincronismo tra i musicisti che sta

    osservando/ascoltando siano piuttosto il frutto di una meticolosa

    composizione delle singole parti e di lunghe ed estenuanti sessioni di

    prove. Molti ascoltatori stentano a credere che l'unico riferimento

    comune di cui dispongono i musicisti si riduca spesso ad una semplice

    successione di accordi, ad un breve motivo melodico e a poche altreindicazioni. Che nulla di quello che sta accadendo sia stato preventivato

    e che i "fatti musicali" stiano avvenendo in tempo reale. Questo neofita

    potrebbe rimanere ancora pi sbalordito nell'apprendere che i musicisti

    sul palco si incontrano in quel momento per la prima volta e che magari

    si presenteranno solo al termine dell'esecuzione, scambiandosi

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    complimenti e segni di apprezzamento reciproco. Eppure proprio

    quello che spesso accade in una situazione come quella della jam

    session, nella quale un collettivo di musicisti si riunisce in modo del

    tutto casuale sul palco per creare insieme una performance improvvisata.Come vedremo in seguito, la jam non l'unica modalit di

    organizzazione dell'evento sonoro. Nel jazz contemporaneo spesso il

    concerto proprio il risultato di una meticolosa preparazione collettiva.

    Se il nostro ascoltatore andr ad assistere ad un festival o ad un

    concerto in teatro, probabilmente trover sul palco una formazione ben

    collaudata, i cui membri stanno portando avanti un progetto discograficodi cui il concerto rappresenta solo la presentazione live. Ci sar forse un

    leader che ha firmato le composizioni originali e addirittura potrebbe

    succedere che alcuni dei musicisti suonino con uno spartito davanti,

    segno inequivocabile che quella musica stata prima di quel momento

    pensata e messa sul pentagramma da un compositore. Ma anche in

    questo caso, l'ascoltatore deve sapere che non tutto gi stato previsto eche la presenza di un materiale composto pi organico e strutturato non

    garantisce che il risultato finale sia identico a quello del disco. Perch

    anche in quel caso ci sar l'intervento dell'improvvisazione a scombinare

    almeno un po' le carte in tavola, e allora qualunque cosa potrebbe

    succedere. Altrimenti non sarebbe jazz.

    Appunto, non jazz se non c' improvvisazione. Ma poi davvero

    cos? Possiamo davvero affermare che tutto il jazz improvvisazione e

    che tutte le improvvisazioni musicali sono jazz?

    A questo proposito credo sia necessario tentare di definire meglio il

    concetto di improvvisazione. Questo significa entrare in un campo

    minato, dal quale difficilmente si pu uscire affidandosi soltanto all'aiuto

    di un dizionario. Se provassimo a combinare diverse definizioni, ne

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    ricaveremmo che l'improvvisazione, in termini generali, la capacit di

    agire di fronte ad una situazione inattesa o imprevista, senza cio che sia

    possibile in alcun modo prepararsi in anticipo. Entrando nello specifico

    del contesto musicale, improvvisare significherebbe dunque crearemusica dal nulla, senza ricorrere a partiture, appunti o materiale

    memorizzato. Creare qualcosa partendo da niente, in definitiva. Anche il

    nostro ascoltatore inesperto rimarr insoddisfatto da questa definizione.

    Innanzitutto potrebbe notare che durante quella prima jam sessiona cui

    ha assistito, qualcuno leggeva sugli spartiti e che nel magma

    dell'improvvisazione gli parso di riconoscere una melodia comune, untema ricorrente che tutti i musicisti sul palco sembravano conoscere alla

    perfezione. A questo ascoltatore verr da pensare che forse qualcuno dei

    musicisti stesse "barando" e che non tutto fosse creato dal nulla. Se poi,

    incuriosito dallo spettacolo a cui ha assistito, l'ascoltatore volesse crearsi

    una sua discografia essenziale per introdursi al mondo del jazz, si

    accorgerebbe ben presto che i grandi improvvisatori hanno sempre unqualcosa che li distingue da tutti gli altri. Un modo di fraseggiare, un

    approccio particolare al ritmo e alla melodia ma soprattutto un timbro

    unico, inconfondibile. In effetti, proprio questa ricerca dell'unicit, del

    suono individuale, uno degli elementi chiave del jazz. Se ad esempio

    questo ascoltatore si procurasse uno qualsiasi degli album registrati dal

    Miles Davis Quintet nella seconda met degli anni '50, scoprirebbe che

    quel particolare suono della tromba di Miles, con la leggendaria sordina

    Harmoninnestata, una specie di Stele di Rosetta per decifrare il jazz

    contemporaneo. Un monumento eterno all'unicit del suono come mezzo

    di affermazione dell'individualit del musicista. Con quel particolare

    timbro, Miles Davis ha voluto porre la sua firma inconfondibile e il

    nostro ascoltatore alle prime armi da quel momento in poi sar in grado

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    di distinguerla senza alcuna fatica tra centinaia di altri suoni. Cosa

    c'entra dunque tutto ci con l'improvvisazione? Com' possibile

    affermare, alla luce di questi elementi, che l'improvvisazione sia una

    creazione dal nulla, che non ci sia qualcosa dietro? Si tratta forse diquella misteriosa conoscenza "segreta", quel sapere iniziatico di cui parla

    il bassista Calvin Hill nella citazione che ho riportato all'inizio di questo

    capitolo?

    Volendo dare una risposta al primo quesito che ci siamo posti, vale a

    dire se il jazz sempre improvvisato, dovremmo propendere nettamente

    per il no. Anche da un punto di vista storico, bisogna notare chel'improvvisazione non ha sempre avuto quel ruolo centrale che occupa

    nel jazz contemporaneo. Nelle formazioni dei primi anni '20 capeggiate

    da King Oliver a St. Louis, ad esempio, lo spazio lasciato

    all'improvvisazione ben poco. (Carles, Clergeat, Comolli: 2008, voce

    "Improvvisazione", p. 613). Possiamo poi ricordare che il ragtime, lo

    stile pianistico che spesso viene indicato come capostipite del jazz inrealt interamente composto, sebbene possano emergere alcuni elementi

    di variazione estemporanea. Nello stile di New Orleans cominciano ad

    apparire alcune forme di variazione della melodia, spesso fraintese per

    vere e proprie improvvisazioni collettive. soltanto con Louis

    Armstrong e le sue formazioni della seconda met degli anni '20, gli Hot

    Five e gli Hot Seven, che l'improvvisazione individuale emerge come

    tratto distintivo del jazz. Mentre il jazz compie la sua migrazione da

    New Orleans e dal Sud verso le grandi citt, soprattutto Kansas City,

    Chicago e successivamente New York City, il ruolo dell'improvvisazione

    cresce progressivamente. A cavallo degli anni '30 il "solo" diventa il

    momento culminante in cui l'individualit del musicista emerge dal

    collettivo e le capacit di ogni singolo improvvisatore diventano materia

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    di confronto, di studio, addirittura di venerazione nel caso dei grandi

    personaggi della storia del jazz. Ma l'equazione tra jazz e

    improvvisazione non sar mai risolta in maniera univoca e per tutta la

    storia di questa musica si osciller tra episodi di totale assenza diimprovvisazione ad altri di improvvisazione totale. Ponendosi ad uno dei

    due poli opposti di questa relazione, possiamo citare da un lato alcuni

    capolavori composti da Duke Ellington per la sua orchestra come

    Reminiscing in Tempo e On a Turquoise Cloud, privi di interventi

    improvvisati. All'estremo opposto, potremmo citare il celebre discoFree

    Jazz (1960), in cui un rivoluzionario Ornette Coleman mette insieme undoppio quartetto per registrare 36 minuti e 23 secondi di

    improvvisazione totale e collettiva. In mezzo a questi due estremi si

    collocano tutte le infinite miscele tra composizione ed improvvisazione

    che rappresentano il grande contributo del jazz alla musica del XX

    secolo.

    La seconda domanda che ci siamo posti se dobbiamo considerarejazz tutte le forme di improvvisazione musicale. A questa domanda

    ancora pi semplice dare una risposta negativa se si conosce anche solo

    superficialmente la storia della musica occidentale. Si pu affermare che

    possibile adoperare il concetto di improvvisazione solo in opposizione

    a quello di composizione. Non avrebbe senso cio parlare di

    improvvisazione nelle culture musicali di tradizione orale, laddove non

    esiste un sistema organico di notazione o di organizzazione degli eventi

    sonori come invece avviene nella nostra cultura occidentale o in altre

    ricche tradizioni musicali come quella indiana, fortemente formalizzate.

    Con l'emergere di una formalizzazione della musica nella cultura

    occidentale, si viene a creare un territorio di confine in cui persistono

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    delle tecniche di improvvisazione (o piuttosto di variazione

    estemporanea) che si affiancano al materiale composto e preordinato.

    Nella musica liturgica a cavallo tra Medioevo e Rinascimento prassi

    comune quella di improvvisare un contrappunto sopra un cantus firmus,vale a dire una linea melodica posta alla base di una condotta polifonica.

    Successivamente, con la pratica del basso continuo, si sviluppa una

    raffinata tecnica di accompagnamento della melodia basato su una linea

    di basso sulla quale una strumento armonico (ad es. il clavicembalo)

    suona degli accordi basandosi esclusivamente su alcune indicazioni

    convenzionali fornite dal compositore (la cosiddetta tecnica del bassonumerato). sorprendente notare come tale tecnica abbia molte

    similitudini con quella che solitamente adoperano un bassista ed un

    pianista jazz contemporanei, come cercheremo di spiegare nel capitolo

    dedicato al "funzionamento" del jazz. L'improvvisazione continua ad

    essere presente in tutta la storia della musica colta occidentale, sebbene a

    volte non rappresenti una precisa scelta artistica, quanto piuttosto unadimostrazione di capacit armoniche e strumentali. Si narra che sia

    Mozart che Beethoven (e successivamente anche Liszt) fossero degli

    eccellenti improvvisatori, capaci di creare all'impronta delle complesse

    cadenze per pianoforte, con le quali mandavano in visibilio i fortunati

    ascoltatori di quelle creazioni estemporanee.

    Poich questa ricerca non si occupa del concetto di improvvisazione in

    termini strettamente musicologici, ma piuttosto di una sua

    interpretazione come modello di interazione, ritengo necessario

    presentare in questo capitolo dei tentativi di sistemazione teorica cos

    come sono stati elaborati in alcuni importanti lavori specialistici

    sull'argomento.

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    2.2 Improvvisazione come competenza

    Confutare il grossolano equivoco che vuole l'improvvisazione come

    una creazione spontanea partendo "dal nulla", significa rendere conto delgenere di competenza che questa pratica musicale presuppone.

    "L'improvvisazione determinata, in effetti, da pensatori che hanno

    assorbito una vasta conoscenza musicale che include una miriade di

    convenzioni che contribuiscono a formulare delle idee in modo logico,

    cogente ed espressivo. (Berliner: 1994, p 492, trad. mia)"

    Il mestiere dell'improvvisazione richiede dunque un lungo

    apprendistato attraverso il quale il musicista viene a contatto con una

    tradizione quasi centenaria a cui attinger per affinare il proprio

    vocabolario individuale. Si tratta di un lungo viaggio iniziatico del quale

    non facile intravedere la fine e che molti musicisti identificano con la

    durata stessa della propria carriera. Un percorso spesso difficile, in cui cisi confronta con le proprie capacit di apprendimento, col proprio

    talento, soffrendo spesso le frustrazioni che derivano dallo sforzo di

    superare i propri limiti tecnici ed espressivi o dal confronto spietato con

    gli altri musicisti, in un contesto fortemente competitivo com' quello del

    jazz. Un percorso che coincide dunque con la continua ricerca di una

    propria voce individuale e di una distinta personalit artistica, massime

    aspirazioni per qualunque musicista che non voglia fermarsi alla pura

    riproposta manieristica di uno stile.

    "Ci si avvale di anni di preparazione e di tutta la propria sensibilit

    proprio per spingersi al di l di quello che si rivelato efficace nel corso

    delle performance precedenti, per spingersi ai confini del non-gi-noto

    [...] se i musicisti sono capaci di improvvisare, lo fanno perch

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    conoscono le regole e i materiali della loro disciplina, li conoscono al

    punto da permettersi di variarli e trasgredirli in modo creativo." (Sparti:

    2005, p. 123).

    "Il jazz si apprende per prova ed errore, assimilando sul campo regole,pratiche, tradizioni, capacit di interazione. In questo non diverso da

    altre musiche di tradizione orale: l'individuo acquisisce competenza

    osservando, imitando, rielaborando, ma con una maggior opportunit per

    l'invenzione originale e dunque per l'innovazione, che richiede capacit

    superiori di manipolazione del discorso musicale" (Zenni: 2008, p. 23)

    Questo percorso di addestramento non pu essere assimilato a quellodi un musicista di formazione classica. Per uno strumentista classico che

    intende intraprendere la carriera del concertista esiste in buona sostanza

    un percorso predefinito che poggia sullo studio sistematico dello

    strumento nel contesto del conservatorio. Una volta acquisita la

    padronanza dello strumento, il musicista affiner la sua conoscenza

    specializzandosi spesso in una particolare prassi esecutiva funzionalealla resa di una porzione pi o meno definita dell'immenso repertorio

    della musica occidentale colta. Magari quel musicista si specializzer in

    musica barocca o affronter lo studio della musica del novecento o del

    repertorio romantico. In ogni caso, la sua professionalit si andr

    formando attraverso un percorso pi o meno standard, affrontando

    lunghe sessioni di prove con l'orchestra, mandando a memoria o

    studiando a fondo lunghe e complesse partiture, cercando di interpretare

    le indicazioni del direttore d'orchestra. Anche da un punto di vista

    timbrico, i suoi sforzi saranno diretti all'ottenimento di un suono "puro",

    cristallino, conforme alle indicazioni del compositore. A questo punto

    potremmo abbandonarci ad una discussione sul complesso rapporto che

    si instaura nel contesto della musica colta tra partitura, interpretazione,

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    esecuzione. Un'analisi che richiederebbe delle competenze di tipo

    musicologico e che esula dagli obiettivi di questa ricerca.

    Anche nel campo del jazz si assistito negli ultimi decenni ad una

    progressiva formalizzazione dei percorsi di studio. I musicisti che oggiintraprendono una carriera professionistica provengono spesso da studi

    di conservatorio ed hanno abbondantemente frequentato le tecniche e la

    teoria della musica classica. Anche nel campo specifico della formazione

    jazz, ormai da tempo possibile seguire un percorso di studi ben

    definito, in istituzioni di notevole prestigio internazionale (pensiamo al

    Berklee College of Music di Boston o alla New School di New York soloper citarne alcune, ma l'elenco dovrebbe includere i sempre pi

    prestigiosi corsi europei, spesso inseriti nei programmi dei conservatori).

    Coloro che accedono a questi corsi si trovano a contatto con altri

    colleghi che seguono il loro stesso percorso, con la possibilit di studiare

    e suonare con grandi maestri del jazz contemporaneo. Al termine di

    questo percorso formale, il musicista potr fregiarsi di titoli accademici eaffermare di essere "diplomato" o addirittura "laureato" in jazz, titoli che

    a loro volta potrebbero aprirgli la carriera della docenza. Una

    definizione, quella del "laureato in jazz" che avrebbe suscitato forse delle

    reazioni sarcastiche da parte di quegli artisti che hanno messo a punto la

    forma moderna di questa musica nei locali di New York intorno agli anni

    '40 del secolo scorso. Il percorso che quei "giganti" hanno attraversato

    per affermare la propria arte stato infatti radicalmente diverso.

    Alcuni musicisti della "vecchia guardia" intravedono in questo genere

    di istituzioni il rischio di una crescente standardizzazione e omogeneit

    nello stile e nelle prassi esecutive. Nelle parole di Eddie Henderson,

    trombettista americano che ha avuto l'onore di ricevere le prime lezioni

    niente meno che da Louis Armstrong, i musicisti che hanno seguito

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    questo genere di corsi sono riconoscibili per una impressionante maestria

    tecnica, ma non certo per l'originalit e la personalit del loro sound:

    "One time somebody gave me a cassette of a very good saxophone

    player. They said: who is this? (a questo punto Mr. Henderson riproducecon suoni onomatopeici un torrenziale assolo pieno di note). I said: I

    don't know [...] the sound...it's an altoist...but I know he went to Berklee

    School of Music!" (registrazione privata)

    Nonostante la disponibilit di questi corsi di formazione avanzata,

    ancora oggi molti tra coloro che intraprendono lo studio del jazz, inmodo pi o meno professionale, coltivano un percorso individuale.

    Anche in questo caso per, la situazione molto cambiata dai tempi di

    Charlie Parker. L'evoluzione e la diffusione della cultura jazz hanno

    portato alla creazione di tutta una serie di supporti allo studio individuale

    che fino a pochi decenni fa erano del tutto assenti. Lo studente

    autodidatta ha oggi a disposizione un numero enorme di manuali emetodi che affrontano ogni ambito della pratica jazzistica, dall'approccio

    allo strumento allo studio sistematico delle tecniche di improvvisazione.

    Questo studente potr praticare direttamente a casa sua utilizzando delle

    basi musicali preconfezionate prive della parte solistica. Si pensi ai

    famosi dischi della serieAebersold, nei quali una sezione ritmica, spesso

    formata da celebri musicisti, viene registrata mentre accompagna un

    solista "fantasma". Lo studente non dovr fare altro che mettere il disco

    nel proprio stereo ed esercitarsi per ore come se avesse un

    contrabbassista, un batterista ed un pianista sempre a disposizione nella

    sua camera. Il limite principale di questo tipo di supporti dovuto al

    fatto che l'accompagnamento fornito da quei musicisti, per quanto

    pregevole da un punto di vista tecnico, sempre immancabilmente

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    uguale a se stesso, cos com' stato registrato quella prima volta. Viene a

    mancare, cio, uno degli elementi essenziali della performance jazz, vale

    a dire la costante e continua interazione tra solista e sezione ritmica.

    Proviamo ad immaginare un diligente autodidatta che ha acquistato tuttala serie di queste basi musicali e che dopo lunghe ore passate nel suo

    studio a provare e a riprovare i propri assolo decide di provare a suonare

    in unajam session con una "vera" rhythm section. Si ritrover a suonare

    con dei musicisti che non eseguono una parte in maniera statica, ma che

    rispondono colpo su colpo, in modo interattivo, alle sue improvvisazioni.

    Da una parte la situazione potrebbe entusiasmarlo, poich si troverebbefinalmente catapultato nella materia viva e pulsante del "vero" jazz. Ma

    d'altra parte, ci potrebbe condurre a dei risultati disastrosi,

    sottoponendo il poveretto allo scherno degli altri musicisti pi esperti,

    che individuerebbero in lui il tipico solista "da aebersold", incapace di

    fare interplay3.

    Nella tradizione jazzistica, lo studio individuale ha comunquerappresentato la principale forma di addestramento all'improvvisazione

    creativa. Intere generazioni di musicisti hanno seguito un percorso di

    formazione che comprende alcune tappe fondamentali. Paul Berliner

    (1994) ha delineato questo percorso, ricorrendo allo strumento

    dell'intervista. Proviamo ora a sintetizzare i risultati di tale ricerca.

    Bisogna anzitutto chiarire una preliminare distinzione tra le esperienze

    dei musicisti nord americani e quelle dei loro colleghi europei. Essendo

    nati nel Paese che ha dato i suoi natali al jazz, molti dei musicisti

    americani, in particolare coloro che provengono dalla comunit

    afroamericana, hanno avuto l'esperienza di trovarsi immersi direttamente

    nella tradizione viva del jazz e della Black Music in generale. I primi3 Interplay appunto il termine utilizzato dai jazzisti per indicare la coesione e

    l'intermusicalit tra i membri di un gruppo.

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    approcci alla musica, per questi artisti, avvenivano direttamente nel

    contesto familiare, ascoltando i dischi dei propri genitori, o nell'ambito

    della comunit religiosa locale nella quale, come spesso accade nelle

    tradizioni battiste, le funzioni includono come elemento centralel'intervento della musica suonata dal vivo. Questo genere di esposizioni

    in vivo fin dalla pi tenera et un toposricorrente nelle biografie dei

    musicisti afroamericani, al punto che alcuni di loro hanno reso omaggio

    a quel tipo di contesto anche nella loro produzione artistica in et

    matura. Per citarne un esempio, si pensi al celebre lavoro del

    contrabbassista e compositore americano Charles Mingus, il qualeinclude nell'album Blues & Roots (1960) un brano come Wednesday

    Night Prayer Meeting nel quale egli richiama il clima di intensa

    compartecipazione sperimentato durante le celebrazioni liturgiche che

    frequentava da bambino. In questo genere di funzioni, che la letteratura

    ci descrive spesso come veri e propri riti di purificazione collettiva, il

    messaggio divino veniva veicolato dall'intervento della musica. In taleistituto molti ricercatori hanno facilmente individuato un retaggio

    culturale di chiara matrice africana, in cui la musica diventa lo strumento

    essenziale per una transizione verso un livello alterato della coscienza,

    nel quale l'individualit sfuma i suoi contorni nella collettivit e si cerca

    di instaurare una comunicazione diretta con la sfera del divino, dando

    vita spesso ad episodi di trancecollettiva.

    Oltre a questa precoce immersione nella tradizione, i musicisti

    potevano inoltre contare sulla presenza costante della musica in ogni

    contesto, daijukeboxai negozi di dischi del quartiere, e soprattutto su

    una grande proliferazione di locali che offrivano spettacoli di musica dal

    viva. Stiamo parlando ovviamente di un contesto e di un periodo, gli

    Stati Uniti degli anni '20, '30 e '40, che non a caso hanno prodotto quella

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    generazione di artisti che ha forgiato la forma del jazz moderno cos

    come la conosciamo oggi. In Europa, ma anche nell'America dei nostri

    giorni, la situazione radicalmente diversa. Ciononostante, alcune tappe

    obbligate continuano ad essere presenti nella carriera dei jazzisti di ogniepoca e provenienza, al punto che possibile delineare un percorso di

    iniziazione e addestramento comune a tutti coloro che entrano nel mondo

    del jazz da musicisti.

    Lo strumento centrale il disco, il supporto sonoro su cui i musicisti

    delle generazioni precedenti hanno lasciato una testimonianza della

    propria arte. Lo studio sistematico delle registrazioni la prima fonte diconoscenza a disposizione dello studente. Si tratta di un elemento

    comune ad epoche e luoghi diversi. Chi scrive ha avuto modo di

    raccogliere al riguardo la testimonianza di Bruno Tommaso,

    contrabbassista e compositore romano appartenente a quella generazione

    di musicisti che hanno introdotto il jazz moderno nel nostro paese.

    Tommaso, proveniente da solidi studi classici, ha incontrato come moltialtri il jazz nei dischi americani che riusciva faticosamente a procurarsi

    negli anni '50 e '60. Ascoltando e riascoltando quelle registrazioni,

    consumando in maniera irreversibile il vinile nel tentativo di trascrivere i

    passi pi interessanti, Tommaso ha iniziato a costruire il suo vocabolario

    musicale e la sua personalit timbrica sul modello dei musicisti

    americani degli anni '40 e '50.

    A differenza dei colleghi europei, i musicisti americani hanno la

    possibilit di accedere alla comunit dei musicisti di jazz pi anziani.

    Nelle jam session organizzate dai locali, attraverso conversazioni

    informali o tramite lezioni private, il jazzista alle prime armi apprende i

    rudimenti del mestiere. La comunit dei musicisti si configura dunque,

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    nelle parole di Berliner, come un vero e proprio sistema educativo, per

    quanto informale (Berliner: 1994).

    Attraverso questa continua esposizione al jazz e alla comunit degli

    artisti, il giovane apprendista inizia a coltivare le proprie tecnichestrumentali e ad affinare il proprio linguaggio. Un passaggio essenziale

    quello della memorizzazione dei patterns, ossia delle cellule musicali

    che i solisti inseriscono nelle proprie improvvisazioni e che spesso

    costituiscono i mattoni del discorso musicale. Gli studenti sono soliti

    mandare a memoria centinaia dipatterns, esercitandosi a suonarli in tutte

    le tonalit. Alcune di queste frasi sono divenute talmente celebri nellacultura jazz da divenire dei motivi tradizionali, spesso indicati col

    termine licks. Alcuni di questi licks sono direttamente collegabili alla

    figura di un particolare musicista, tanto da rappresentarne, al pari

    dell'aspetto timbrico, una sorta di firma di autenticit. Queste frasi si

    sono cristallizate nel linguaggio jazzistico e sono sopravvissute al

    trascorrere delle generazioni. Conoscere un gran numero di licks e dipatterns non certo condizione sufficiente per definire un buon

    improvvisatore, ma la capacit di citare qua e l nel proprio discorso

    musicale le frasi storiche di grandi musicisti del passato una sorta di

    dimostrazione di competenza e di abilit. La citazione uno degli

    elementi chiave dell'improvvisazione e l'uso dei licksrientra in una sorta

    di gioco tra improvvisatori nel quale, mentre si dimostrano i propri skills

    e le proprie capacit tecniche e mnemoniche, si rende omaggio alla

    grande tradizione del jazz.

    La citazione di un licknon assume una valenza artistica autonoma. Al

    di l della forma "devozionale" della citazione, quasi una dichiarazione

    di appartenenza alla comunit storica dei jazzisti, si pu intravederne

    anche un aspetto ludico. Un improvvisatore espone un tema X,

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    dopodich improvvisa su quella particolare griglia armonica e all'interno

    del suo solo inserisce una frase celebre o un licktipico di un particolare

    autore. Oppure, espone il tema X e durante l'improvvisazione cita un

    tema Y differente. La componente ludica consiste nel richiamarel'attenzione degli altri musicisti o di quei membri del pubblico

    abbastanza "dentro" alla cultura jazz da riconoscere la citazione. Una

    prassi che richiama alla mente le teorie sull'esclusivismo di questa

    musica, spesso accusata di chiusura autoreferenziale come vedremo nel

    capitolo dedicato alla comunit jazz. Soltanto certe persone possono

    cogliere appieno determinati "trucchi" (come appunto le citazioni),probabilmente solo gli altri musicisti jazz. Ragion per cui il jazz sarebbe

    una "musica per musicisti".

    In altri casi, licks e patternscostituiscono delle ancore mnemoniche

    alle quali l'improvvisatore pu sempre ricorrere nei momenti di "vuoto di

    idee". Qualcosa di simile all'uso che si fa delle cosiddette "frasi fatte" o

    espressioni convenzionali all'interno di una conversazione.Uno dei compiti pi importanti per un musicista jazz consiste poi nel

    memorizzare il maggior numero di brani e accrescere cos il proprio

    repertorio. Come vedremo in seguito, buona parte del repertorio

    tradizionale su cui i jazzisti basano le loro improvvisazioni costituito

    dai cosiddettistandards, brani provenienti dai musical o canzoni celebri

    negli anni '40 e '50 di cui vengono memorizzate melodia e progressione

    armonica. Conoscere un elevato numero di standardsed essere in grado

    di saperli suonare ad ogni velocit e in ogni tonalit il prerequisito

    fondamentale per accedere allejam sessions.

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    2.3 Improvvisazione e linguaggio

    La metafora pi utilizzata, sia dai musicisti che dagli studiosi, per

    descrivere le modalit con cui si apprende e si sviluppa la competenzadell'improvvisazione quella del linguaggio.

    Il parallellismo tra linguaggio ed improvvisazione pu essere

    instaurato su pi livelli: apprendimento delle tecniche di

    improvvisazione, costruzione dell'evento sonoro, interazione tra

    musicisti nella performance.

    Come abbiamo gi visto, l'improvvisazione condivide con illinguaggio parlato gli elementi della sintassi (armonia, uso delle scale),

    della fraseologia e delle forme colloquiali (l'uso dei lickse deipatterns)

    e soprattutto della pronuncia, ovvero del timbro.

    Cos come per apprendere una lingua straniera necessario

    immergersi completamente nel contesto in cui essa viene utilizzata, ad

    esempio trascorrendo un periodo nel Paese in cui si parla quella lingua ofrequentando dei madrelingua, allo stesso modo lo studente cercher

    ogni occasione per venire a contatto con la lingua del jazz. Ascoltando

    ed analizzando i dischi e sfruttando ogni occasione per suonare con

    musicisti pi esperti, lo studente di jazz cerca di arricchire il proprio

    vocabolario e la propria pronuncia.

    Le conoscenze di tipo teorico che vengono richieste per diventare dei

    buoni improvvisatori sono tutto sommato limitate. Ne prova il fatto che

    alcuni grandi jazzisti anche del passato recente non vantassero una

    conoscenza approfondita della teoria musicale o dell'armonia.

    La trasmissione delle conoscenze avviene sostanzialmente per

    trasmissione orale, diretta o mediata che sia. Come abbiamo gi detto,

    una delle pratiche pi frequenti tra gli studenti di jazz consiste nella

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    trascrizione degli assolo registrati sui dischi pi importanti. Alcuni

    musicisti possono vantare collezioni impressionanti di trascrizioni e

    hanno acquisito una tale dimestichezza con questa tecnica da riuscire a

    trascrivere intere frasi in tempo reale, senza aver bisogno di fermare ildisco o di risuonarlo a velocit ridotta.

    Molti docenti tuttavia, suggeriscono ai propri allievi di memorizzare

    gli assolo dei loro musicisti preferiti e imparare a riprodurli sul proprio

    strumento. Non a caso, gli studenti di jazz hanno l'abitudine di sfidarsi

    cantando o fischiettando interi assolo di grandi musicisti del passato. In

    questo modo si ritiene che l'allievo impari a controllare gli elementiessenziali dell'evento sonoro improvvisato: la pronuncia, il timbro, il

    senso della proporzione tra vuoto e pieno, tra suono e silenzio. Ma non

    sufficiente aver letto Flaubert o Balzac e saperne citare interi passi per

    poter dire di conoscere il francese. Il passaggio successivo consiste

    necessariamente nel mettere alla prova la conoscenza acquisita, e nel

    nostro caso ci consiste nell'esibirsi suonando dal vivo con altrimusicisti.

    Secondo Berliner, i momenti in cui il musicista si ritrova ad

    improvvisare in maniera "naturale" e fluente, segnano il passaggio ad

    una maggior padronanza del nuovo linguaggio. Allo stesso modo, lo

    studente di una lingua straniera si rende conto di averne interiorizzato la

    sintassi e la grammatica quando si ritrova ad usare la nuova lingua in

    maniera "naturale", ad esempio nell'immaginazione, nel sogno o anche

    nel contesto di una conversazione informale e rilassata.

    Parlando dell'improvvisazione, i jazzisti amano fare riferimento alla

    capacit di "raccontare una storia". Secondo questa definizione, il solista

    cercher di costruire il proprio intervento improvvisato in base ad una

    struttura di tipo narrativo. Nelle culture di tradizione orale sono presenti

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    delle tecniche distorytellingimprovvisato, basate su dei canovacci che

    ruotano intorno a temi ricorrenti o archetipici. Questo genere di

    narrazioni vengono costruite utilizzando formule pi o meno standard

    che si ricompongono in base alle esigenze del racconto e che hanno laduplice funzione di attirare l'attenzione dell'ascoltatore e di fornire un

    sostegno mnemonico al narratore. Anche nell'improvvisazione jazz, il

    solista esperto far attenzione a dare un senso di coerenza al proprio

    intervento. Una delle qualit pi apprezzate tra i musicisti esperti e

    maturi proprio quella di essere degli ottimi storytellers. Un ruolo

    fondamentale lo gioca l'incipit, l'inizio dell'assolo. Molti jazzisticonsigliano ai loro allievi di non iniziare il proprio intervento in modo

    irruente, scaricando sul pubblico una raffica di note. fondamentale,

    viene detto, impostare l'atmosfera generale su cui si costruir

    l'improvvisazione. Le prime note di un assolo diventano cos la formula

    d'ingresso nella narrazione e al contempo una sorta di presentazione del

    solista, che richiama l'attenzione degli ascoltatori sulla sua persona esulla "storia" musicale che si sta accingendo a narrare. Tutto ci rientra

    nell'aspetto rituale della pratica improvvisativa. consuetudine, ad

    esempio, che un solista inizi il suo assolo citando l'ultima frase suonata

    dal musicista che ha improvvisato prima di lui. In questo modo, oltre a

    rendere omaggio al collega che lo ha preceduto, il musicista cerca in

    qualche modo di non interrompere il flusso narrativo creato dal solista

    precedente. come se si volesse mantenere una ideale continuit tra un

    solo e l'altro, come se i solisti non fossero altro che dei narratori che si

    alternano nel racconto di una lunga storia. Anche nel corso

    dell'improvvisazione, il solista cercher spesso di introdurre elementi

    stereotipati e altre formule convenzionali. "Come un poeta orale o un

    cantore gregoriano, il jazzista basa la sua invenzione su un bagaglio di

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    formule" (Zenni: 2008, p. 56). L'abilit consiste nell'inserire questi

    elementi formulari con maestria e coerenza, di modo che non appaiano

    "incollati" in modo posticcio, ma che contribuiscano piuttosto alla

    fluidit del discorso. Una tecnica frequente consiste nell'utilizzare unasemplice frase ripetendola in diversi registri dello strumento e con

    diversi tipi di pronuncia. Tutti questi espedienti fanno parte del bagaglio

    di esperienze che un musicista accumula nel corso della sua carriera.

    2.4 Improvvisazione e conversazione

    La definizione dell'improvvisazione come competenza linguistica ci

    porta direttamente all'utilizzo di tale capacit all'interno di un contesto

    interattivo com' quello della performance e al paragone tra

    improvvisazione e conversazione.La trattazione pi approfondita del tema senz'altro quella offerta da

    Ingrid Monson nel suo Saying Something. Jazz Improvisation and

    Interaction.

    Come nel caso delle capacit di storytelling, anche il riferimento

    all'ambito della conversazione ricavato direttamente dalle categorie di

    interpretazione utilizzate dagli stessi jazzisti. Sia Berliner che Monson

    hanno rilevato, nelle loro interviste ai musicisti, un ricorso frequente a

    questo tipo di metafore. Si tratta quindi di una prospettiva di tipo

    "emico", termine ricavato dalla fonetica che l'antropologia ha preso in

    prestito per indicare quell'approccio in cui si fa riferimento alle categorie

    di interpretazione interne alla cultura di riferimento, in contrapposizione

    all'approccio di tipo "etico" che si basa invece sulle categorie del

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    ricercatore occidentale. Questo tipo di approccio diventato centrale

    nella disciplina dell'antropologia della musica (Giannattasio: 1998) e in

    generale in quei lavori che hanno affrontato le tematiche di tipo musicale

    da un punto di vista interdisciplinare.Nel caso del jazz, l'utilizzo di categorie ricavate direttamente dagli

    "informatori" (in questo caso i musicisti) da parte di autori come

    Monson, non presuppone un rifiuto degli strumenti analitici della ricerca

    musicologica "classica". La presenza nella prassi culturale del jazz

    dell'elemento interattivo e collaborativo che rende possibile

    l'improvvisazione e che esula dall'elemento prettamente musicologico,ha reso necessario l'utilizzo delle interpretazioni "alternative" usate dagli

    stessi jazzisti.

    La sociolinguistica ci descrive la conversazione come unsetin cui due

    o pi partecipanti costruiscono un discorso alternandosi liberamente.

    Quando arriva il suo turno, il partecipante alla conversazione

    contribuisce al discorso generale, esponendo il proprio punto di vista oaggiungendo nuovi elementi e dettagli alla narrazione. All'inizio di una

    conversazione, nessuno dei partecipanti sa esattamente dove si andr a

    parare, come si evolver il discorso. Si pu partire da un argomento e

    arrivare ad un altro anche molto distante, muovendosi attraverso

    numerosi salti logici creati dall'interazione tra i partecipanti. Questo

    genere di organizzazione del discorso collettivo oggetto della

    cosiddetta analisi conversazionale (Sparti: 2005). Autori come Harvey

    Sacks ed Emanuel Schegloff hanno analizzato le procedure di

    organizzazione sequenziale della conversazione, ovvero le regole che

    disciplinano la presa dei turni.

    Monson rileva come questo tipo di situazione venga spesso

    paragonata al set di una performance jazz. In generale, il contesto

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    prevede un elemento pi o meno statico, rappresentato dalla sezione

    ritmica che fornisce il sostegno, e un elemento dinamico, cio

    l'improvvisatore che si cimenta nel solo. In realt, sebbene il ruolo della

    ritmica sia essenzialmente quello di portare il tempo, il "gioco"dell'improvvisazione consiste in buona parte nel continuo dialogo tra il

    solista e i musicisti che lo accompagnano. Ognuno dei componenti della

    sezione ritmica deve essere in grado di cogliere i cambiamenti che

    avvengono nel corso dell'assolo ed essere pronto ad adeguare il suo

    modo di suonare alla nuova situazione. Cos come in una conversazione

    se uno dei partecipanti si distrae e perde il "filo del discorso" non pi ingrado di intervenire, allo stesso modo durante la performance un

    musicista deve essere in grado di rispondere in modo immediato alle

    sollecitazioni o ai cambi di direzione suggeriti dagli altri colleghi.

    L'accusa pi grave che si possa rivolgere ad un musicista che lavora in

    una sezione ritmica, ad esempio un batterista o un bassista, di "non

    ascoltare abbastanza", cio di non essere capace di seguire il flusso deglieventi musicali. Poich tali eventi sono per lo pi imprevedibili, risulta

    chiaro che la logica interattiva e l'attenzione continua di ognuno dei

    partecipanti sono imprescindibili per la riuscita dell'esecuzione.

    Ponendosi in un'ottica di tipo post-strutturalista, Monson ricorre alla

    classica distinzione saussuriana tra langue e parole. Il linguaggio del

    jazz, inteso come quel sistema estetico di cui abbiamo parlato in

    precedenza, distinto da quello di qualunque altro genere, rappresenta

    dunque la langue. Mentre il suo aspetto prettamente performativo,

    interattivo e collettivo, rientrerebbe nel campo dellaparole.

    A differenza della conversazione, il processo dell'improvvisazione non

    si fonda esclusivamente sull'alternarsi di turni di intervento. Se vero

    che i singoli solisti si avvicendano nell'esposizione di uno o pi chorus

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  • 7/25/2019 Il Mestiere Dell'Improvvisazione

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    di assolo

    (vedi par. 3.4)

    il lavoro principale di interazione e

    collaborazione avviene in modo simultaneo e non mediato. I musicisti

    suonano contemporaneamente e la situazione si modifica e si evolve

    sulla base degli stimoli che possono arrivare, in teoria, da ognuno deimembri. In realt, pi spesso il solista a prendere le redini delle

    performance e a dare l'impulso per le eventuali variazioni.

    Rendere conto di questo tipo di interattivit senza ricorrere a degli

    esempi sonori pressoch impossibile. Possiamo comunque provare a

    descrivere una situazione "tipo", immaginando un tipico set da jam

    session.Il gruppo decide di eseguire un tema, una melodia che ha una

    connotazione malinconica, ad esempio un blues. Conoscendo in