Il Mediterraneo Dei Corsari (Prima Parte)

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IL MEDITERRANEO DEI CORSARI – POMPEO DE ANGELIS 1 IL MEDITERRANEO DEI CORSARI Nel Mediterraneo, avanti il tempo riferito da Omero, si sono svolte continuamente quattro attività: la pesca, la guerra fra i potentati costieri, il trasporto delle merci e delle persone e la pirateria che assale i legni commerciali e depreda le comunità più floride raggiungibili dal mare. Maggiore fu il traffico marittimo, più prospere furono le coste, più crebbe la pirateria. Poi la pirateria fu soppiantata, in modo sistematico, dalla guerra corsara. Spiega Braudel: “Si parla di corsa e di pirati e la distinzione, chiara sul piano giuridico, senza cambiare i problemi da cima a fondo, ha tuttavia la sua grande importanza. La corsa è la guerra lecita, resa tale da una dichiarazione formale di guerra, o da lettere patenti, da passaporti, commissioni, istruzioni.” 1 L’imperialismo di Maometto II Il sultano o imperatore Maometto II, chiamato dai cristiani il Gran Turco, o il Gran Signore, dopo che conquistò Costantinopoli nel 1453, ribattezzò con il nome di Istanbul la capitale dell’Impero Cristiano d’Oriente. 2 Il suo popolo proveniva dai monti caucasici, invocato in aiuto dai Persiani verso l’anno 870, dopodiché aveva invaso le provincie dell’Asia Minore. Quando salì sul trono dei bizantini, il Gran Turco si sentì anche il legittimo successore di Costantino il Grande. Aveva l’ambizione del demiurgo d’imperi e sognò di conquistare, oltre il Medio Oriente e il Nord Africa, anche l’Europa. Contro i “cani nazzareni” europei, la guerra si svolse nelle pianure ungheresi e tra le giogaie balcaniche e sui flutti dell’Adriatico (detto Mare Bianco) dello Ionio e dell’Egeo. Anche l’Italia ex bizantina – pensava l’ottomano - doveva appartenergli, fino a Ravenna. La tribù islamico – ottomana, guidata da Maometto II, intendeva, nella sua concezione geografica, possedere il mondo descritto da una mappa di Tolomeo, che un greco aveva tradotta in arabo nell’inverosimile disegno su pergamene di capriolo. La mappa evocava il mare, con il frastagliato disegno di profili costieri, di litorali, di penisole, di isole con porti e centri commerciali del Mar Nero e del Mar Bianco, in cui si annidavano mercanti, soldati veneziani e genovesi ed altri avventurieri italiani e catalani. Il desiderio di far suo un mondo che lo affascinava magicamente, rendeva ebbro Maometto. Doveva navigare, non solo penetrare nel continente, risalendo il Danubio, com’era nella storia dei suoi avi: violare il mare. 1 Fernand Braudel: “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” , Torino 1953 2 Gran parte degli storici turchi datano il cambio di nome nel 1453. La elezione di Istanbul a capitale avviene realmente nel 1458. Gli occidentali accetteranno il cambio del nome nel 1923.

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IL MEDITERRANEO DEI CORSARI Nel Mediterraneo, avanti il tempo riferito da Omero, si sono svolte continuamente quattro attività: la pesca, la guerra fra i potentati costieri, il trasporto delle merci e delle persone e la pirateria che assale i legni commerciali e depreda le comunità più floride raggiungibili dal mare. Maggiore fu il traffico marittimo, più prospere furono le coste, più crebbe la pirateria. Poi la pirateria fu soppiantata, in modo sistematico, dalla guerra corsara. Spiega Braudel: “Si parla di corsa e di pirati e la distinzione, chiara sul piano giuridico, senza cambiare i problemi da cima a fondo, ha tuttavia la sua grande importanza. La corsa è la guerra lecita, resa tale da una dichiarazione formale di guerra, o da lettere patenti, da passaporti, commissioni, istruzioni.”1 L’imperialismo di Maometto II Il sultano o imperatore Maometto II, chiamato dai cristiani il Gran Turco, o il Gran Signore, dopo che conquistò Costantinopoli nel 1453, ribattezzò con il nome di Istanbul la capitale dell’Impero Cristiano d’Oriente.2 Il suo popolo proveniva dai monti caucasici, invocato in aiuto dai Persiani verso l’anno 870, dopodiché aveva invaso le provincie dell’Asia Minore. Quando salì sul trono dei bizantini, il Gran Turco si sentì anche il legittimo successore di Costantino il Grande. Aveva l’ambizione del demiurgo d’imperi e sognò di conquistare, oltre il Medio Oriente e il Nord Africa, anche l’Europa. Contro i “cani nazzareni” europei, la guerra si svolse nelle pianure ungheresi e tra le giogaie balcaniche e sui flutti dell’Adriatico (detto Mare Bianco) dello Ionio e dell’Egeo. Anche l’Italia ex bizantina – pensava l’ottomano - doveva appartenergli, fino a Ravenna. La tribù islamico – ottomana, guidata da Maometto II, intendeva, nella sua concezione geografica, possedere il mondo descritto da una mappa di Tolomeo, che un greco aveva tradotta in arabo nell’inverosimile disegno su pergamene di capriolo. La mappa evocava il mare, con il frastagliato disegno di profili costieri, di litorali, di penisole, di isole con porti e centri commerciali del Mar Nero e del Mar Bianco, in cui si annidavano mercanti, soldati veneziani e genovesi ed altri avventurieri italiani e catalani. Il desiderio di far suo un mondo che lo affascinava magicamente, rendeva ebbro Maometto. Doveva navigare, non solo penetrare nel continente, risalendo il Danubio, com’era nella storia dei suoi avi: violare il mare. 1 Fernand Braudel: “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” , Torino 1953 2 Gran parte degli storici turchi datano il cambio di nome nel 1453. La elezione di Istanbul a capitale avviene realmente nel 1458. Gli occidentali accetteranno il cambio del nome nel 1923.

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Le navi, che gli occorrevano, richiedevano poco legno, erano facili da costruire: uno scafo, un albero con la vela triangolare, due file di remi. Non serviva neppure la bussola per orientarsi, perché i marinai potevano seguire a vista la costa evitando di spingersi al largo. I cani nazzareni avevano grandi navi, chiamate galee, ma lui si contentava di barche piccole e sottili, per disturbare gli approdi dei cristiani sparsi ovunque. Quando avesse avuto una flotta, magari comprando i progetti e il legname da Venezia, il Sultano sarebbe avanzato, combattendo in mare e in terra, per innalzare una moschea a Roma, come stava facendo a Bisanzio, dove trasformava in tempio islamico la chiesa di Santa Sofia. Era solito dire che, come si era impossessato della figlia, cioè di Bisanzio, così avrebbe potuto conquistare anche la madre, cioè Roma. Voleva le due terre e specificava: voglio la Rumelia e l’Anatolia. La crociata di papa Callisto III Il capo della cristianità, Callisto III, il papa antirinascimentale del Rinascimento, ebbe anche lui l’idea di un assalto dal mare per redimere Costantinopoli. Di antica schiatta catalana, quella dei Borja (Borgia in italiano), la sua elezione offese gli italiani perché la dignità pontificia era assegnata ad uno straniero di una nazione insignificante; ma la scelta fu conseguenza della lotta senza quartiere fra i Colonna e gli Orsini e, con un papa venuto da lontano, venne superato il rischio di un altro antipapa. Come vescovo di Valencia (poi cardinale), Alonzo Borja aveva vissuto senza peccati, era diventato un ottimo canonista, ma rimase indifferente nei confronti del movimento della rinascenza e odiò il fasto e lo splendore. Con queste virtù e difetti arrivò a settantasette anni, età in cui fu eletto al soglio, nel sinodo del 1455. I principi della Chiesa lo scelsero considerandolo pio e quieto, data la vecchiaia. Invece, il primo atto del suo pontificato fu bruciante e ardito; fece il voto di fare guerra all’Islam. Di fronte alle nazioni cristiane, dominate da una miriade di interessi particolari, il vecchio papa dichiarò che l’interesse generale dell’Europa era affrontare il Gran Turco. Questo fu il giuramento, che pronunciò appena eletto e che inviò alle cancellerie: “Io, papa Callisto III, prometto e fo voto alla Santa Trinità, Padre, Figliolo e Spirito Santo, ai Santi Apostoli Pietro e Paolo e a tutti gli Eserciti Celesti che persino col sacrificio del mio sangue, se dovesse essere necessario, farò, secondo le forze, tutto il possibile per riconquistare, aiutato dal consiglio dei miei venerabili fratelli, Costantinopoli, che, a punizione del peccatore genere umano, fu conquistata e distrutta dal nemico del Crocifisso Salvatore, dal figlio del diavolo, Mohammed, per liberare inoltre i cristiani languenti in schiavitù, per rialzare la vera fede ed estirpare in Oriente, la diabolica setta del reprobo e infedele Mohammed. Che io avessi a dimenticarmi di te Gerusalemme, cada nell’oblio la mia destra, si paralizzi la mia lingua nella mia bocca, qualora non mi rammenti di te, o Gerusalemme, e non ti abbia siccome il principio della mia gioia, così mi aiuti Iddio e il suo Santo Vangelo. Amen.”

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Callisto III sperò di togliere Costantinopoli a Maometto II, attaccandolo dal mare e inviò i più autorevoli cardinali e nunzi in tutte le corti d’Europa, per indire la crociata mediterranea. Al tempo stesso, arruolò soldati, marinai e capitani per il suo stato, vendendo l’oro e l’argento della Santa Sede e obbligando le città pontificie a pagare le decime per le spese di una poderosa armata. I principi cristiani non ascoltarono l’esortazione del papa aragonese. In Italia, peggio che altrove. I veneziani avevano stipulato accordi di neutralità con Maometto, Alfonso, re di Napoli e d’Aragona, impegnava le sue forze contro Genova e ambedue queste potenze erano proterve nel loro braccio di ferro e sorde all’invocazione di Roma. Anzi, Alfonso, disturbato dall’invito insistente del papa a prendere la croce, mandò dei venturieri a incendiare i boschi vicino Roma, per fargli capire che non voleva essere intralciato da qualcuno che era nato suo suddito. Le adozioni napoletane Gli aragonesi, nella persona di Alfonso Trastamara si erano insediati a Napoli nel 1421. Alfonso era un Trastamara, discendente illegittimo dei reali di Castiglia, mentre sua madre proveniva dal ramo dei conti di Barcellona. I suoi titoli si distinguevano con i numeri romani: Alfonso V d’Aragona, Alfonso IV di Barcellona e delle contee catalane, Alfonso III di Valencia, Alfonso II di Sardegna, Alfonso I di Sicilia e di Mallorca, re titolare di Corsica, di Gerusalemme e d’Ungheria, duca titolare di Atene e di Neopatria. Il titolo di Alfonso I di Napoli non gli provenne dai congiunti di sangue e dall’incrocio dei matrimoni, ma da un’adozione. Giovanna II, regina di Napoli, della stirpe dei Durazzo Angiò lo prese come figlio ed erede, con un atto di devoluzione del suo regno. La matrigna era considerata dai contemporanei una sorta di Cleopatra (monstrum aegytiacum) e un partigiano di re Alfonso la descrisse con queste parole: “fu bona donna accostevole et lassavase vencere secretamente alla tentacione della carne…”3 Aveva superato la quarantina, era vedova del duca Guglielmo d’Austria e separata da secondo marito, Giacomo II di Borbone, scappato lontano da lei per rinchiudersi in convento. Non avendo prole, il suo reame sarebbe andato a suo cugino Luigi III degli Angiò, figlio di Luigi II e nipote di Luigi III, duchi di Provenza. Luigi III d’Angiò aspettava l’eredità nei suoi castelli del Mezzogiorno di Francia, sicché il papa Martino V lo chiamò a scendere nel in Italia e a soddisfare la brama transalpina di avere Napoli. La discordia fra Alfonso e la matrigna indusse lei a revocare l’adozione appena fatta e a chiamare, per sostituirlo, re Luigi III dalla Provenza, il pretendente da cui poco tempo prima voleva difendersi. Ne conseguì una guerra ostinata tra una lega composta dagli angioini, dal papa e dal duca di Milano, Filippo Visconti, contro il ripudiato aragonese. Costui devastò i paesi e i campi della Campania per togliere

3 Così scrive Lupo de Spaccio, in “Summa dei re di Napoli e di Sicilia e dei re dì Aragona” a cura di A,M.Comapagna, Napoli 1990.

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respiro alla regina, la quale, adottò Luigi III d’Angiò, a dicembre del 1432, ma a novembre del 1434 Luigi morì, a ventuno anni dì età. Giovanna fece testamento nominando erede del regno il fratello del marito, Roberto d’Angiò, il quale si insediò, appena la regina spirò, nel febbraio del 1435. Alfonso d’Aragona non rinunciò a Napoli e partì con una armata navale dalla Sicilia per assediare l’angioino nella fortezza di Gaeta, la migliore roccaforte del regno napoletano. La presidiava Francesco Spinola d’illustre famiglia genovese. Genova offriva il suo aiuto a Roberto d’Angiò per ostacolare la pretesa di Alfonso d’Aragona, di prendersi la Corsica. La battaglia di Gaeta e di Ponza Tra mare e terra, Alfonso disponeva di 6.000 uomini. Le sue milizie sbarcarono sul lido di Gaeta le loro bombarde e cominciarono a percuotere le mura della fortezza. Il nobile Spinola non cedette alle cannonate per tanto lungo tempo, tanto che gli finirono i viveri. Il re aragonese affermò che gli assediati erano suoi sudditi e che pertanto non dovessero soffrire la fame. Con atto di cavalleria, si accordò con il genovese e fece uscire dal castello la popolazione, circa quattromila persone, e la rifocillò nel proprio campo. Sotto il suo padiglione non c’era mai posto per tutta la corte, composta di suo fratello Giovanni il re di Navarra e dell’altro fratello Enrico con il titolo di Infante e da 300 gentiluomini del seguito. Nella penisola gaetana, era allestita più che una battaglia, uno scenario eroico per celebrare, meglio che in torneo, il re vincitore. Sul fronte avverso, Genova incaricò un notaio, Biagio Assereto, di portare soccorso a Spinola. Con i proventi dello studio notarile, Assereto aveva comprato al cune navi con le quali si era dedicato con successo alla guerra pirata contro legni veneziani o fiorentini che incrociava nel Tirreno. Trasformatosi in corsaro, armò dodici galee grosse, le caricò di rifornimenti e di fanteria (circa 2.400 uomini) e rafforzò la flotta con tre navi sottili. A largo di Gaeta, comparvero le vele con le croci rosse in campo bianco di San Giorgio, che risultarono di poco numero rispetto a quelle della flotta di Alfonso, tre volte superiori. Cominciò il cerimoniale della guerra navale. Alfonso inviò a bordo dell’ammiraglia un parlamentare, Francesco Pandone, per chiedere la resa a discrezione. Assereto rispose che non aveva intenzione di combattere, ma che voleva solo sbarcare gli aiuti e andarsene. I tre re aragonesi la considerarono una risposta inopportuna, perché era doveroso sfidarsi. La battaglia avvenne il 5 agosto del 1435, e l’ammiraglio genovese usò i suoi trucchi da pirata aggiornato: lanciò palle di fuoco e nugoli di calce viva, le sue navi sottili si muovevano rapidissime e spezzavano i remi delle pesanti galee avversarie e le incendiavano. Bernat de Vilamarì, ammiraglio di Alfonso, pur corsaro di professione, apprese mosse nuove. Nell’arco della giornata, delle trentuno galee aragonesi se ne salvò solo una e Genova celebrò la vittoria, scrivendo: “Biagio Assereto, generale delle galee della Serenissima Repubblica di Genova, fece prigionieri due re, un infante, trecento cavalieri”. La cerimonia della resa di Alfonso, a bordo della galea

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di Assereto, merita un ricordo: quando il re dovette consegnare la spada al vincitore, la corte aragonese obiettò che non poteva essere ceduta a un borghese e Alfonso non volle consegnare l’arma nelle mani di un notaio. Biagio Assereto invece la reclamava, con assurda ostinazione, ma non la spuntò. Fu rintracciato, fra i genovesi, Gianni Giustiniani, dei Giustiniani di Scio di recente nobiltà e a lui i principi aragonesi consegnarono le lame di Toledo. Re Alfonso di Aragona, i suoi due fratelli e i molti conti furono imprigionati a Milano, ma liberati senza riscatto dal duca Filippo Maria Visconti, che si sciolse dalla lega e valutò di non avere alcun interesse a impedire la conquista aragonese del regno di Napoli, a dispetto del papa. Dal 1436 al 1442, Alfonso combatté contro gli angioni e il papato finché conquistò l’Italia del Sud. Roberto d’Angiò fuggì in Francia. Il Trastamara decise di vivere a Napoli e affidò l’Aragona alla reggenza di sua moglie Maria di Castiglia. Napoli divenne la capitale di una confederazione formata dall’Italia Meridionale, dalla Sicilia, dall’ Aragona, dalla Catalogna, da Valencia, dalle Baleari, dalla Corsica, dalla Sardegna. Dal parlamento napoletano Alfonso I fece legittimare la successione nel reame a favore di suo figlio naturale Ferdinando, nel 1443, ma non ottenne il placet della Santa Sede, retta da Eugenio IV, che però venne deposto da Felice V a cui subentrò Niccolò V, che infine ammise la legittimazione dei Trastamara, compresi i bastardi. A Felice succedette finalmente quel Callisto III di cui abbiamo scritto. Alfonso ritenne di fargli da padrone , essendo il Borgia nato suo suddito, mentr’invece il vecchio vescovo di Valencia voleva essere signoreggiato solo da Dio e non sopportò che l’aragonese tradisse la crociata antiturca e si rubasse addirittura le decime raccolte per formare la squadra navale, anzi che approfittasse delle galee costruite per la guerra santa mandandole contro Genova. Con il racconto del caso napoletano abbiamo esemplificato lo spirito militare della metà del Quattrocento. L’ordine della coda di cavallo In quel tempo, Maometto II inventava sul Bosforo la sua metropoli, in cui insediò una comunità plurietnica. Per ripopolare la distrutta capitale bizantina, proclamò che tutti gli abitanti, fuggiti o nascosti, avessero il rientro libero nelle loro case, dove vivere secondo i loro costumi. Per dare fiducia, liberò tutti gli schiavi della sua quota nelle spartizioni dei bottini di guerra, che divennero liberi cittadini. Aggiunse ai giannizzeri circa settemila falconieri e guardiani di cani trasformandoli in guerrieri di primo rango. Deportò migliaia di famiglie dall’Anatolia, dall’Armenia, dai territori greci, dalle isole. Quando prese Caffa ai genovesi, gran parte di quella comunità mercantile venne traslocata nella capitale. Il 1 giugno del 1453, con una sfarzosa cerimonia, ripristinò la religione greco- ortodossa in Costantinopoli. Fece eleggere, dal piccolo gruppo di arcipreti rimasti in vita, il loro nuovo gerarca nella persona di Georges Scholarios, chiamato Gennadios. Maometto, levando alto il suo scettro, pronunciò: “La Santa Trinità, che mi ha dato

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l’impero, ti conferisce, o Gennadios, il patriarcato della nuova Roma.”4 La comunità religiosa greca poté istallarsi nella chiesa dei Santi Apostoli, dichiarata “metropolitana”, in luogo di Santa Sofia, che era trasformata in moschea. Un editto imperiale stabilì: “Che nessuno possa disturbare o offendere il patriarca, che il patriarca sia protetto da qualsiasi avversario, che rimanga libero da qualsiasi tributo e imposta insieme ai suoi arcipreti.”5 Per gli ebrei, il sultano fece venire alcuni rabbini da Gerusalemme e da Bursa; insediò il patriarca armeno, attribuì a ciascun capo religioso il governo della propria nazione. Per i turchi ci fu un “cadì”. Gli europei, chiamati Franchi, rimanevano sudditi dei propri sovrani naturali i quali esercitavano una giurisdizione extraterritoriale mediante i consoli. Ogni campagna militare procurava coloni forzati che si insediavano per etnia in aree concesse in proprietà dallo stato. Si costituirono quattordici quartieri nazionali che conservarono la lingua, gli usi tradizionali e praticavano la religione dei padri. A partire da Osman (1299 – 1326), il fondatore della dinastia, era stato distinto il principato dal sacerdozio. Orkan (1326 – 1359) ,suo figlio e successore, redasse una carta costituzionale nel “Libro delle Regole”, in cui la prima categoria di norme era imposta dalla parola di Dio, cioè dal Corano; la seconda categoria dalla parola del Profeta, cioè dai Sunna, la terza stabiliva la gerarchia religiosa con in cima i quattro iman della chiesa ottomana. La legislazione arbitraria, cioè laica, quella che contava politicamente e socialmente, variava a seconda dei diversi bisogni del governo centrale e si sviluppava in tre ambiti principali: la moneta e il fisco, la milizia, il vestiario. Le leggi suntuarie avevano una loro praticità: diversi abiti, o copricapo, o scarpe servivano infatti a distinguere le cariche, le nazionalità e i mestieri, nella confusione della Istanbul in crescita. Il governo nasceva dalle nomine fatte dal “bey”, cioè dal re, che sotto Bajezid I (1389 – 1403) divenne un “sultano”, cioè “imperatore”. Il sultano Maometto II ebbe un consigliere istituzionale in un veneziano, Timoteo Colosso, che strutturò definitivamente il collegio del potere politico nel “divano”, nome derivante da una sala nel palazzo a cui si accedeva dalla Porta del cannone (Topkapi) in cui si riunivano i ministri, detti “visir”. Un gran vizir, quello “favorito” del sultano, aveva la supremazia su altri due o tre visir. Verso la fine del regno di Maometto II, esistette anche un “capudan pascià”, grande ammiraglio dell’impero. Simbolo dei maomettani fu la bandiera rossa con la mezza luna, adottata ai tempi di Murad I (1359 – 1389): il Profeta aveva usato la bandiera gialla, gli abbassidi la bandiera nera, gli omniadi la bandiera bianca e i fatimidi la bandiera verde. Ma il simbolo più importante per gli ottomani provenne dal ricordo della steppa: il cavallo. A cavallo, i discendenti di Otman avevano conquistato le praterie del loro mondo. Le riunioni cruciali del divano avvenivano, non nel palazzo, ma in sella alle 4 Histoire de l’empire ottoman depuis son origine jusqu’a nos jours, par M.de Hammer, traduit de l’allemand sur la deuxieme edition”, Paris 1840. 5 M. de Hammer: “Histoire de l’empire ottoman…”

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cavalcature, con i giannizzeri schierati tutt’intorno. Quando l’armata scendeva in campo, davanti alla tenda del sultano venivano piantati sette pali con una coda di cavallo ciascuno. Davanti alla tenda del gran visir venivano collocati quattro pali con le code, i visir avevano diritto a tre pali. La gerarchia ottomana era così chiaramente segnata con l’ordine delle origini. Mentre Maometto II, il Conquistatore, allargava l’impero (Crimea trasformata in principato dipendente, conquista e gestione diretta delle colonie genovesi sulla costa del mar Nero, del principato di Trebisonda, dell’Anatolia centrale fino al confine con i mamelucchi, la Morea ridotta a provincia ottomana, l’Albania islamizzata e gli albanesi cristiani emigrati in Italia meridionale, l’Italia attaccata nel Salento), le opere pubbliche del Gran Divano resuscitavano Costantinopoli. Vennero ristrutturate le mura antiche dirute, fu rinnovato il porto giuliano, si innalzarono i due forti alla foce dei Dardanelli, furono poste le fondamenta della moschea di Ejub in fondo al Corno d’Oro per conservare le reliquie del Profeta e costruita la moschea del Fatih, cioè del Conquistatore, dal sultano a se stesso dedicata, circondata da otto scuole coraniche e dalle abitazioni degli studenti. Vennero costruite le mura del Serraglio, ovvero dell’area del palazzo imperiale, poi gli alberghi, ossia il caravanserraglio, per i mercanti in transito nel crocevia del Bosforo e il Gran Bazar, mercato permanente: si aggiunsero due ospedali, (una casa di guarigione e una casa dei pazzi). Non mancarono le scuole, la biblioteca e gli stabilimenti delle acque (fontane e bagni) e neppure sette torri carcerarie. I cimiteri si stendevano nei prati con sepolture individuali. Il resto erano caserme dei militari, fonderie e officine per la fabbricazione delle armi.6 Il popolo viveva in case di legno, che spesso erano distrutte dagli incendi e si ricostruivano con altro legname, considerato prezioso in una zona scarsa di boschi. Istanbul vista da lontano era magnifica, in una straordinaria cornice naturale, ma dentro le sue mura era anonima, triste e ordinaria, con strade di collina dissestate, sudice e scoscese: un agglomerato di persone, che prestò superò le cinquantamila anime. Istanbul, per volere di Maometto II, ebbe l’identità confusa di una città che voleva essere, mettendocela tutta, l’erede di Roma imperiale, nell’arco di pochi decenni. E non ce la fece. La battaglia di Belgrado L’angoscia di Callisto III cresceva. Dopo la presa di Costantinopoli, Maometto II si accingeva a invadere l’Ungheria facendo saltare il baluardo rappresentato dalla fortezza di Belgrado sulle rive del Danubio, messa sotto assedio il 14 luglio del 1456 e difesa da una guarnigione di 7.000 effettivi ungheresi e da Giovanni da Capestrano dei minori francescani. Costui, con la sua predicazione, radunò quarantamila contadini combattenti. Sotto le mura della fortezza, era schierato l’esercito ottomano composto di almeno centomila soldati. Dall’altra parte, sopraggiunsero 25.000 militi

6 Antonio Baratta: “Costantinopoli effigiata e descritta”, Torino

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di Giovanni Unniade (detto il Corvino dal suo castello in Valacchia), che forzò il blocco sul Danubio con duecento brigantini. A Roma, Callisto III faceva suonare la campana a mezzogiorno per sostenere con la preghiera l’eroismo degli assediati. Solo un miracolo poteva salvare i difensori di Belgrado. Come ispirati, gli assediati uscirono in campo aperto, il 22 luglio 1457 e misero in fuga l’enorme esercito che li accerchiava, o che la vittoria dipendesse dal valore di Corvino o dalle preghiere del missionario, l’avanzata dei turchi fu fermata. Maometto rimase ferito a una gamba e i nazzareni razziarono le sue salmerie, più 180 pezzi d’artiglieria grossa. Il Conquistatore era stato fermato. Tre settimane dopo la vittoria morì di peste Giovanni Unniade e in ottobre lo seguì Giovanni da Capestrano per lo stesso morbo. I cantieri navali di Trastevere. Callisto III non faceva solo suonare le campane. Chi a Roma, nel 1456, si fosse posto sul colle dell’Aventino lo avrebbe visto, vecchio e gottoso, fra fabbri, legnaioli, carpentieri, tornitori, carradori, pegolieri, bottai, funari, ingegneri e squadre di manovali, che costruivano navi, tessevano vele e tende di cotone, fondevano il bronzo di bocche da fuoco, nell’area di Trastevere, guidati da mastro Pietro Torres da Barcellona. Non ci voleva molto allora per approntare un vascello d’alto mare per vararlo nel Tevere: bastavano un trave di duecento piedi per la carena, una ruota a poppa e una a prua, venticinque madieri (le costole più robuste dello scafo attaccate alla chiglia) per parte, a cui si attaccavano le costole piccole rivestite di tavole rese impermeabile dai pegolieri, che tappavano con la stoppa e vi spalmavano la pece. L’impalcatura sorreggeva il ponte e allo scafo si incastravano due tronchi di pino per l’alberatura, da cui pendevano quattro fusti di abete per le antenne, a sostenere tre vele latine con poco sartiame. Il vascello veniva spinto non solo dalle vele, ma dai rematori (ordinariamente duecento remi); quelli da guerra venivano dotati di sperone a prua. Trasportava (ordinariamente ) cinquanta marinai, un battaglione di trecento soldati, le provvigioni per alcuni mesi, le armi e le munizioni. Questo tipo d’imbarcazione, fin dal XII secolo, si chiamava galea o galera, nome che derivava dal greco “galeos” che significa “squalo”, in quanto la forma era lunga e stretta e ricordava, con il suo rostro a prua, il pesce predatore. Nella forma e nell’uso che abbiamo descritto la galea era stata inventata dalle repubbliche marinare italiane, in particolare dai mastri dell’Arsenale di Venezia. Le imbarcazioni da mare aperto erano di due tipi: la galea e la cocca. La galea era normalmente una triremi, lunga di scafo e affusolata, con tre vele latine che le consentivano di andare con il vento, mentre i remi servivano alle manovre, specialmente quelle belliche. La cocca aveva le fiancate più alte e la vela quadra e un timone di poppa per virare di rotta, era di forma rotondeggiante e serviva per i carichi commerciali. I brigantini, che abbiamo ricordato nella guerra di Belgrado, erano delle barche più sottili e veloci, molto basse sull’acqua, con 12 o 14 banchi di remi e un rematore per banco. Disponeva anche di vele latine.

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Il legname necessario all’arsenale di Trastevere arrivava dai boschi della Sabina per la via del fiume, la manodopera specializzata dall’Umbria e dalle Marche. A titolo indicativo riportiamo la lettera di Callisto III al governatore di Spoleto: “Al governatore ed ai priori della città di Spoleto, Callisto papa terzo. Venerabile fratello, o figlioli diletti… per essere di urgente bisogno lo spedire prestamente in soccorso della cristianità contro il turco malvagio la nostra armata navale abbiamo inviato a voi, Giovanni Pozzi nostro familiare, per cui mezzo vi facemmo precetto di spedire a Roma in tutta diligenza quel maggior numero di carpentieri che voi potete ritrovare. Quindi ci meravigliamo assai assai, che nessuno da codesta città sinora sia venuto, mentre l’intenzione nostra è che vengano immediatamente …. Laonde, un’altra volta, per tenore delle presenti, precisamente vi comandiamo che, deposto qualunque indugio e qualunque eccezione, a vista delle presenti, facciate venire in Roma i predetti carpentieri e legnaioli con i loro strumenti e ferri, perché si uniscano con gli altri maestri che lavorano nella costruzione delle nostre galere, e li costringiate ad ubbidire sotto le pene da infliggersi ad arbitrio nostro. La loro mercede sarà debitamente pagata come arrivino….Dato a Roma presso San Pietro sotto l’anello piscatorio il giorno diciannove maggio 1445. Dal nostro pontefice anno primo.”7 La spedizione navale di Callisto III Mentre Maometto e i suoi guerrieri cercavano di abbattere il reame d’Ungheria, Callisto III decise di radunare la flotta antiturca, composta dai legni romani e da quelli del feudo papale di Avignone (comandati da Pedro Urrea vescovo di Tarragona) , per attaccare Costantinopoli, come da giuramento. Alle sue galere si sarebbero dovute aggiungere le navi di Alfonso, re di Napoli, come da promessa. Sarebbe stata una forte squadra, ma la flotta avignonese e quella napoletana si mossero contro Genova, per assediarla dal mare. Callisto III si afflisse del tradimento del monarca, ma non gli rimase che maledire il vescovo provenzale, suo dipendente: “Oh, traditori! Vescovo di Tarragona e tu commendatore di Montalbano, che avete voi fatto di quelle tante galere armate alle spese dei cristiani e della sede apostolica? Voi avreste potuto, a quest’ora, essere in oriente, turbare il turco, sovvenire ai cristiani, liberare l’Ungheria; e invece vi siete macchiati d’iniquità perseguitando gli inermi e gli innocenti. Oh, traditori di nuovo io vi chiamo traditori di Dio, dell’apostolica sede, e del cristianesimo.” 8 Callisto III era perseguitato, come abbiamo già detto, da Alfonso d’Aragona. Eccitato da Alfonso il capitano di ventura perugino Iacopo Cavalli, detto anch’egli Piccinino, in quanto figlio adottivo del più celebre Niccolò Piccinino, andava a procurarsi saccheggi in terra maremmana. Il vecchissimo papa fece marciare contro il predone prezzolato un esercito radunato in pochi giorni a cui partecipavano il conte Giovanni di Ventimiglia, Napoleone Orsini, Stefano Colonna, Deifobo e Ascanio dell’Anguillara, che affrontarono il capitano di ventura in quel di Bolsena,

7 Lettera integralmente riportata da Alberto Guglielmotti in “Storia della marina pontificia”, Roma 1856 8 Lettera riportata da Alberto Guglielmotti in “Storia della marina pontificia”, Roma 1856.

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costringendolo a ritirarsi nel suo presidio di Castiglion della Pescaia, da dove il ribaldo inviò alcuni suoi sgherri a bruciare la flotta papale all’ancora nel porto di Civitavecchia, ma per fortuna i furfanti furono scoperti e non fecero grossi danni. Nonostante i frangenti, la marina pontificia era pronta per la sua missione e fu comandata dal padovano cardinale Lodovico Scarampo, patriarca di Aquileia e camerlengo della Chiesa, con potestà estesa alla Sicilia, alla Dalmazia, alla Macedonia, alla Grecia, alle isole dell’Egeo, a Creta, a Rodi, a Cipro e alle provincie dell’Asia. L’obiettivo di Callisto III, con la flotta ridotta, non fu più Costantinopoli, ma una azione di contrasto nel Mediterraneo di Levante, per obbligare il sultano a distornare le forze dalla campagna d’Ungheria. Il cardinale Scarampo Scarampo era un personaggio contraddittorio: aveva scelto di fare il seguace di Esculapio, ma cambiò ben presto arte e scelse Marte, divenendo capitano generale dell’esercito pontificio. Con i suoi successi militari, politici e i suoi affari era divenuto l’uomo più ricco d’Italia. Quando, nel 1455, ricevette l’ammiragliato aveva 54 anni . La flotta di Scarampo consisteva in 16 galere, mille marinai, cinquemila soldati e trecento cannoni. Lo stendardo di San Pietro comparve nelle acque del Dodecaneso. Alla testa del convoglio la capitana quadriremi del patriarca sembrava un enorme insetto millepiedi con le vele. L’armata gettò l’ancora nel porto fortificato di Rodi a metà giugno del 1456. Attendevano un aiuto cristiano quelli dell’isola dei Cavalieri ospitalieri di San Giovanni, detti gerosolimitani, con a capo il Gran Maestro fra’ Giacomo di Milly. Maometto II, dopo la presa di Costantinopoli, aveva chiesto ai Cavalieri, che abitavano Rodi, isola a pochi miglia dalla costa turca, un tributo di 2.000 ducati l’anno. Il Gran Maestro dei gerosolimitani, fra’ Giovanni di Lastic, rifiutò la tassa, rafforzò le difese del porto con torri e catene di sbarramento e invitò i contadini a rifugiarsi nella parte castellana della città, almeno durante la notte. Nella primavera del 1456, i turchi assediavano l’isola con la flotta e predavano al tramonto del sole le campagne. I contadini entravano nel fortilizio e ne uscivano all’alba per vedere i campi devastati. Rodi fu colpita anche dalla peste, che, oltre alla perdita di vite umane, accrebbe la carestia. Ma arrivò Scarampo. Alla vista della flotta cristiana, le navi maomettane si eclissarono. Scarampo sbarcò nell’isola il grano e le armi, che necessitavano. La ciurma scese a terra in libera uscita e si diresse nel quartiere delle prostitute. Migliaia di marinai e soldati furono soddisfatti in pochi giorni. L’ammiraglio pontificio decise di collocare a Rodi il suo quartiere d’inverno, poi proseguì per Chios e per Lesbo da dove cacciò i presidi turchi lasciandovi piccole sue guarnigioni. La flotta del papa andava da un’isola all’altra dell’arcipelago, stanando i nemici e impadronendosi delle loro imbarcazioni o bruciandole. Con la cattiva stagione la flotta svernò a Rodi, assicurando però le comunicazioni con le isole occupate. Papa Callisto non minacciò la capitale dei turchi, ma dimostrò, al sultano, una notevole forza di resistenza: Giovanni da Capestrano e Giovanni Unniade a Belgrado,

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Lodovico Scarampo sul mare Egeo, Giorgio Castriota Scanderbeg in Albania, furono i suoi campioni, purtroppo i suoi soli campioni. In quel 1456, Scanderbeg scese dalle montagne dell’Epiro e riconquistò Croja la capitale del paese, cacciando Mosè Golem Commenos, che l’occupava con la bandiera rossa della mezzaluna. Giovanni Castriota, padre di Giorgio, aveva dovuto dare il suo giovane figlio in ostaggio ai turchi e il ragazzo fu educato all’Islam, ma alla morte del padre, da giannizzero si trasformò in una sorta di San Giorgio, riconquistò il principato, nel 1444, e lo tenne per un anno, sconfitto poi nella battaglia di Berat da Mosè Commenos, fortemente sostenuto da Isabeg, uno dei più importanti capitani della Sublime Porta. La rivincita di Scanderbeg avvenne nel campo della Drina Inferiore e la cristianità esultò per la vittoria.9 La reazione di Maometto II Nel 1457, Maometto II reagì all’azione cristiana nel mare levantino e riuscì, con uno sforzo eccezionale ad armare una flotta di sessanta vele capitanate da Ismail Pascià. L’ammiraglio turco, attaccò Metellino, nell’isola di Lesbo e mise sotto assedio il castello di Molicho, difeso dai greco – latini. Scarampo sopraggiunse alle spalle degli attaccanti il 9 agosto e disperse i legni avversari. Fu inviata la notizia di questa impresa a Callisto III con il seguente messaggio: “Il nostro legato naviga con l’armata pontificia nelle marine d’oriente a guisa di trionfatore; non solo le terre e le isole ha sottomesso, ma anche il naviglio infedele. In questi giorni, combattendo, ha ridotto in suo ,potere venticinque navi turchesche e da ogni parte continuamente ascoltiamo vittorie,”10 Il papa ordinò i conio di una medaglia sul cui dritto è inciso il suo ritratto con la scritta “Questo votai a Dio” e sul rovescio è rappresentata la battaglia di Metellino in cui le navi della mezzaluna fuggono o affondano sotto i colpi delle navi di San Pietro. La scritta del rovescio dice: “Egli mi elesse per sconfiggere i nemici della fede”. Per il terzo anno consecutivo proseguì la costruzione delle navi pontificie con l’incarico di “provveditore della fabbrica” assegnato a Sancio Segura. Ma il 1458 fu disastroso. Incrudelì la guerra contro Scanderbeg, con la forza delle armi e con il concorso dei tradimenti. Il cardinal Scarampo chiedeva il permesso di rientrare a Roma per curare i suoi affari. Sulle terre ungheresi e boeme, essendo morto il loro re Ladislao, si combattevano fra loro Federico d’Asburgo e altri due pretendenti al trono. Il doge di Venezia mandava i suoi rappresentanti a Costantinopoli in occasione del matrimonio di un figlio di Maometto, in segno di buon vicinato. Alfonso d’Aragona seguitava a combattere contro Pietro di Campofregoso, il doge di Genova. Il clero di Francia, di Spagna, di Germania, d’Italia rifiutava di mandare a Roma le decime raccolte. Callisto III si rese conto che erano impossibili la riscossa e la crociata delle potenze europee.

9 La vita e le imprese di Giorgio Castriota furono raccontate per la prima volta dall’albanese Marinus Barletius in “Historia de vita et gestis Scanderbegi epirotarum principis”, Roma 1508 – 1510. 10 Raynaldus Odoricus: “Callisti Papae III. Epistolae,” Roma 1457.

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Il 6 agosto del 1458 mollò il timone all’età di ottanta anni. Sarebbe morto in santità, se non avesse peccato di eccessivo amore per la sua parentela e di nepotismo nella nomina dei cardinali. Alla notizia della fine di Callisto III, l’ammiraglio Scarampo ritornò a Roma, per partecipare al conclave, lasciando una parte della flotta in Oriente. Nello stesso1458, diciannove giorni dopo, morì Alfonso I di Napoli e gli succedette il figlio Ferdinando. La crociata di Pio II Raynald11, raccontando il sinodo che elesse il successore del papa Callisto, fa notare che l’eredità crociata non andò dispersa. I cardinali prima di passare al voto, ribadirono il giuramento antiturco: “Primamente ciascun cardinale giurerà e prometterà di continuare, a tutto suo potere, l’armamento già cominciato contro gli infedeli nemici della croce di Cristo, per la dilatazione ed esaltamento della fede; sino al termine felice, secondo la facoltà della romana Chiesa e consiglio dei suoi fratelli cardinali della stessa santa romana Chiesa, o della maggior parte di loro.” Fu eletto coerentemente, il 19 agosto del 1458, Enea Silvio Piccolomini, con il nome di Pio II, prestigioso predicatore contro i turchi. Il papa convocò subito una dieta della res publica cristiana per combattere il Sultano, convocandola a Mantova. Per ottenere il consenso di Ferdinando re di Napoli, Pio II annullò, nel mese d’ottobre, gli atti ostili emanati dal suo predecessore contro costui. In pieno inverno, il 22 gennaio del 1459, Pio II mosse alla volta di Mantova: un lento viaggio di un principe rinascimentale fra città nemiche l’una dell’altra. Lo seguiva una corte di sei o dieci cardinali, la sua cancelleria al completo e tantissimi cortigiani. La prima tappa fu a Campagnano, al castello degli Orsini, poi il corteo proseguì per Civita Castellana e traversò il Tevere su un ponte di barche sotto Magliano Sabina. Le strade per cui passava la straordinaria processione erano ricoperte di rami verdi ed una folla di gente cercava di toccare il lembo della veste del papa Lui era ispirato e felice di essere il sommo pontefice. A Terni, fu ospitato dal vescovo Francesco Coppini. Quella ternana era una minuscola diocesi, composta da appena una decina di parrocchie urbane, stretta fino al soffocamento dalle più grosse diocesi limitrofe di Narni, di Rieti, di Spoleto, di Todi e di Amelia. Non era sede per eccellenti personalità episcopali. Ma il Santo Padre giudicò di gran valore il vescovo di quel posto e gli affidò la più grande missione diplomatica del momento. Lo inviò, seduta stante, alle corti di Francia, Inghilterra e Fiandra affinché questi regni cessassero di combattersi e impiegassero le loro energie contro il nemico della religione cristiana. Doveva essere molto ingenuo Enea Silvio Piccolomini, oratore latinista, letterato umanista, per affidare un incarico di tal fatta a un vescovuccio incontrato per caso nell’Umbria meridionale. Ecco cosa ne seguì: “Francesco Coppini interpreta alla grande il suo ruolo. Si atteggia a principe di rango e accetta regali in ogni corte. In Fiandra ottiene in dono il trittico“La resurrezione di Lazzaro” di Nicola Froment e la invia, come omaggio, a Cosimo de’ Medici. In Gran Bretagna parteggia, nella guerra delle Due

11 Raynald Odorico: “Annales ecclesiastici ab anno MCXCVIII desuit Cardinalis Baronius” , Roma 1646 – 1677.

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Rose, per Edoardo di York e scomunica Enrico VI di Lancaster. In Francia, re Luigi XI protesta con Pio II per l’intraprendenza del suo legato che interferisce nei postumi della Guerra dei Cent’anni. Il papa risponderà di non essere stato informato e richiamerà in Italia l’intraprendente personaggio, il quale si presenterà a Roma portando con sé vari titoli: una procura del nuovo re d‘Inghilterra, lettere commendatizie di altri principi. Lo seguivano dei carri pieni di ricchi oggetti da regalare per acquistare amici con la sua munificenza. Il papa per condannarlo, dovrà agire di sotterfugio, tanti erano numerosi i sostenitori di Coppini, che comunque verrà rinchiuso infine nelle segrete di Castel Sant’Angelo.”12 Il viaggio di Pio II proseguì per Spoleto, Foligno, Assisi e Perugia. A Perugia giunse il 1° febbraio e lì si trattenne fino al 19. Prese per Chiusi e per Sarteano e giunse il 22 a Corsignano nella maremma senese, un groviglio di poche case, tra le quali era mescolata l’abitazione avita della famiglia Piccolomini, da cui lui ragazzo era partito. Silvio Enea Piccolomini cantò la messa solenne nella chiesetta parrocchiale, prese i provvedimenti per la costruzione di una cattedrale e di un palazzo episcopale, trasformando Corsignano in Pienza, elevandola a città vescovile: la città di Pio. Il 24 febbraio entrò a Siena dove l’avvolse il fumo dell’incendio di violenza che bruciava l’Italia. Il popolo senese lo accolse con proteste invece che con acclamazioni e non volle reintegrare le famiglie nobili, come il papa richiedeva, ma accettò infine un modesto compromesso di clemenza che Pio II pagò concedendo in feudo perpetuo alla repubblica di Siena il castello di Radicofani. La malvagia estate di Mantova Dopo Firenze varcò l’Appennino e si trovò nelle terre contese fra Venezia e Milano. Bologna si assoggettò a malincuore al giuramento di fedeltà. Il 16 maggio partì per Ferrara dove fu obbligato a discutere le richieste pretenziose del duca Borso d’Este. Concluse il viaggio a Mantova, il 27 maggio. Il 1° giugno inaugurò la dieta con un pontificale, ma non erano presenti le delegazioni straniere ed italiane ad ascoltarlo. L’Inghilterra si dilaniava nella guerra fra gli York e i Lancaster, la Francia sosteneva il figlio del re, cioè Giovanni d’Angiò, che da Genova, sotto il dominio francese, calava su Napoli per togliere la corona a Fernando d’Aragona. Nel mondo germanico, Federico III lottava con i suoi fratelli per l’eredità del regno. La Spagna cercava invano l’unità nazionale e cacciava i mori dalla parte meridionale della penisola. Sigismondo Malatesta muoveva guerra al duca di Urbino, ai confini dello Stato pontificio. Tutto ciò spiegava le assenze alla dieta. I cardinali stessi criticavano la riunione. Il cardinal Scarampo, già ammiraglio di Callisto III, definiva “bambinesco” il vagabondaggio di Pio II, che aveva traversato mezza Italia come festeggiato ospite, convinto di persuadere il mondo intero con la sua straordinaria eloquenza. Scarampo consigliò i veneziani a non mandare la loro delegazione, tanto la convocazione di Mantova era solo una riunione retorica.

12 Pompeo De Angelis. “Storia di Terni. Dal Rinascimento all’Illuminismo”, Terni 2007.

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I cardinali francesi boicottarono il congresso per ordine del re di Francia, i cardinali della curia, temendo la morte nell’aria pestilenziale dell’acquitrino mantovano, implorarono i loro santi di farli tornare a casa. E dicevano in faccia al papa: “Credi di poter vincere il turco da solo?” 13 Il Piccolomini rimase sconfortato, fino al 27 settembre, in una città in cui volavano più di diecimila zanzare per abitante. Quel giorno, dopo il placarsi delle battaglie estive e quando l’aria rinfrescò, si radunarono intorno a lui il duca di Milano, i marchesi di Mantova e di Monferrato, il signore di Rimini, gli inviati del re di Napoli, quelli di Aragona per la Sicilia, per la Corsica e per la Sardegna, i rappresentanti di Venezia, di Firenze, di Siena, di Ferrara, di Lucca e di Bologna, i quali dichiararono, quasi tutti, che per formare l’armata avrebbero creato un fondo per l’arruolamento di soldati presi dalle nazioni più vicine ai turchi, che meglio conoscevano il nemico. Sigismondo Malatesta, signore di Rimini. si pronunciò invece per reclute italiane, che erano più abili nel combattere. Fu proposto anche che per tre anni gli ecclesiastici avrebbero contribuito alle spese di guerra per la decima parte, i principi per la trentesima parte e i giudei per una ventesima. Il 30 settembre, i principi sottoscrissero il decreto sui tributi per la crociata. Non firmarono i veneziani, che posero altre condizioni: alla repubblica di Venezia il comando supremo delle forze di mare, con l’ingaggio di 8.000 marinai, la padronanza esclusiva sul bottino di guerra, il risarcimento delle loro spese, un esercito di 50.000 tra uomini a cavallo e fanti sul lato dell’Ungheria. E loro si sarebbero presi la responsabilità dell’impresa. Era persino un piano realistico per stringere Maometto da mare e da terra, ma non poteva essere condiviso dagli altri, per ragioni di prestigio e soprattutto perché ancora nessuno capiva, salvo i veneziani, quanto poteva essere sconvolgente per l’Europa l’espansione turca. Pio II, nel suo Commentario dice di avere replicato in questo modo: “Voi veneziani domandate l’impossibile. Invece è da lamentare la degenerazione della vostra repubblica, che mentre una volta forniva le più poderose flotte in difesa della fede, oggi non è più in grado di armare una sola nave da guerra. Si, voi avete scatenato guerre contro i pisani, contro i genovesi, contro re e imperatori in difesa dei vostri alleati e dei vostri sudditi,ora che dovete combattere contro gli infedeli per l’onore di Cristo, volete essere pagati. Se vi si dessero le armi, voi non le prendereste. Voi fate soltanto delle difficoltà, affinché la guerra non avvenga.”14 Durante la malvagia estate mantovana l’elegante papa si rese conto, come Callisto III, dell’impossibilità della crociata. Si presentarono infine i francesi per discutere la causa napoletana, i tedeschi per chiedere una mediazione ai loro problemi interni. Il papa dovette soggiornare a Mantova fino al 19 gennaio 1960, per poi andare a Siena dove si trattenne fino al 10 settembre. Sentiva il bisogno di stare fra i suoi per quanto non fossero persone tranquille.

13 Pastor Ludovico: “Storia dei papi. Pio II”, Roma1921 14 Pii Secundi pontificis max. “Commentari rerum memorabilium quae temporibus suis contingerunt”, Roma 1584.

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La guerra in Italia Fin dal 1458, il figlio di Roberto d’Angiò, Giovanni, dopo che si era istallato a Genova, cercò di riprendere il regno napoletano. Infatti, la capitale ligure si era consegnata ai francesi e Giovanni d’Angiò ne era il governatore. Disponendo della marina di quella repubblica, il provenzale salpò per Napoli con ventidue galee e quattro navi grosse o cocche e vi giunse nell’autunno del 1459, dove fu contrastato dalla marina di Ferdinando d’Aragona. Una guarnigione angioina riuscì a conquistare il Castello dell’Uovo, mentre il grosso della truppa si accampò tra la foce del Volturno e del Garigliano, Li si riunirono i baroni del Mezzogiorno d’Italia ribelli all’aragonese e guidati da Gian Antonio Orsini duca di Taranto e dal principe di Rossano. I due feudatari avevano scatenato una rivolta, che passa sotto il nome di “grande congiura baronale” ed avevano invitato Giovanni d’Angiò a ripercorrere le orme dei suoi avi. Il motivo che mosse il principe di Rossano alla congiura merita una menzione: odiava Ferdinando perché scoprì che il re aveva commesso incesto con la propria sorella, che lui poi aveva sposato. La Puglia, la Basilicata, la Calabria alzarono le insegne angioine. Nello stato pontificio, Sigismondo Malatesta di Rimini si immischiò per allargare il suo feudo a spese dello stato pontificio. Ma resse una alleanza fra Ferdinando, Ludovico il Moro duca di Milano e Pio II. Pio II dovette rientrare in sede perché Sigismondo Malatesta ruppe la guerra nelle terre della Chiesa e pose l’assedio al castello di Morro, nelle Marche. Il papa prese al suo soldo il capitano di ventura Lodovico Malvezzo. Non per combattere i turchi, ma per far recedere il Malatesta. Pio II cominciò ad adoperare i soldi, incassati per la crociata, nello scacchiere italiano e a usare l’arma della scomunica contro i suoi nemici cristiani. Durante l’estate del 1462, gli angioini si trovarono in cattive acque e a settembre subirono il voltafaccia di Gian Antonio Orsini duca di Taranto, che passò al re contro cui aveva preso le armi. Il Malatesta fu battuto dalle truppe papaline e infine del suo ducato non gli rimase che il feudo di Rimini e la rocca di Fano. Cedeva intanto la guarnigione francese di Castel dell’Ovo. Il caos ungherese L’unico principe europeo che accolse il grido mantovano alla crociata di Pio II fu Vlad III Dracul, re di Valacchia. Il sommo pontefice non si era rivolto a lui, ritenendolo mezzo musulmano, ma a Mattia Unniade Corvino, secondo figlio di Giovanni Corvino, eroe della leggendaria difesa di Belgrado. Ancora una volta, come nel caso del vescovo di Terni, il papa umanista cadeva nella trappola di persone inaffidabili. Nella situazione ungherese si fidò di Mattia Corvino. Il Corvino padre aveva nominato conte di Baszterce il suo secondogenito Mattia quando raggiunse i dieci anni, lo sposò a Elisabetta di Celije quando ne aveva dodici ( ma il ragazzo rimase vedovo prima di consumare il matrimonio), lo elesse gran cavaliere durante la battaglia di Belgrado, quando aveva tredici anni. Alla morte del padre, in quanto erede della corona, Mattia dovette affrontare il cupo e vorticoso mondo dei magiari e, nella confusione di quei baronati, il ragazzo fu accusato di

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cospirazione contro il re d’Ungheria, Ladislao V il Postumo, quindi venne condannato a morte, pena commutata in prigionia nel castello di Praga, in Polonia. Nel 1458, quando Ladislao V morì, la dieta ungherese offrì il regno a Mattia, ancora prigioniero, sperando che da lui sarebbero state elargite le enormi ricchezze della famiglia Unniade, con cui rinsanguare lo stato e le guerre. Giorgio di Podebrady, il suo carceriere polacco, lo liberò al patto che sposasse sua figlia Caterina. Il matrimonio venne concordato e Mattia Corvino, il 24 gennaio 1458, salì sul trono, quando ebbe quindici anni, sotto la tutela di suo zio paterno Michele Szilagyi. La elezione sconvolgeva il corso delle successioni dinastiche e rendeva ancor più instabile quel regno, ritenuto strategico della cristianità a contrasto dei turchi nella zona del Danubio. Lo zio Michele complicò ancor più la situazione. Era un crociato che non vedeva l’ora di menare qualche colpo ai maomettani e infatti intervenne contro il pascià Mahmoud insediato in alcune fortezze in prossimità di Belgrado. Ma il giovanissimo Mattia aveva un’altra prospettiva: fece imprigionare suo zio (15 ottobre 1458) e ordinò all’armata ungherese di rientrare, perché il suo unico scopo era essere riconosciuto dall’imperatore Federico III d’Asburgo e non certo avventurarsi contro l’impero ottomano. Federico III, invece, il 17 febbraio del 1459, avocò a sé e per i suoi discendenti la corona magiara. In risposta, Mattia Corvino sposò Caterina,come da promessa, il 1° maggio del 1461 e ottenne le armi boeme del suocero con le quali affrontò in piccoli scontri l’esercito asburgico, finché Federico III gli concesse lo scettro su alcune contee ungheresi, in cambio di un risarcimento in denaro. La dieta dei duchi ungheresi del 10 maggio 1462 accettò il contratto, quindi avvenne l’incoronazione di Mattia Corvino, che pensò di pagare gli 80.000 ducati pretesi dall’imperatore con il capitale messo insieme per la crociata da Pio II. L’intrigo divenne ancor più ingarbugliato nelle mani dello sconcertante neo sovrano d’Ungheria, il quale si mise d’accordo con Vlad III di Valacchia affidando a costui l’onere della guerra contro gli ottomani garantendogli le spese dell’armata . Pio II mandò altri soldi. La crisi della regione danubiana, dove un piccolo re accecato dall’ambizione e un papa incapace a giudicare gli uomini suscitarono una pseudo crociata, contribuì al disordine europeo, più delle guerre in Italia. La crociata dei pali Chi era Vlad III Dracul a cui Mattia Corvino aveva affidato il sogno di Pio II? Vlad e il suo fratellastro Radu, della dinastia reale dei Basarab regnante sulla Valacchia, erano stati dati da loro padre, Vlad II Dracula, in ostaggio ai turchi, nel 1447, come pegno di pace verso il bey di Egrigoz, Murad II. Mentre era a Egrigoz, Vlad Dracula apprese che suo padre era stato ucciso da Giovanni Corvino perché colpevole di aver ceduto nella trattativa con il bey del sultano di Costantinopoli. Il Corvino aveva poi messo sul trono della Valacchia un suo vassallo, Vladislao II. Sollecitato dai turchi, l’orfano Vlad Dracula rivendicò i suoi diritti di discendenza, nel 1448, e con l’appoggio dell’armata ottomana riconquistò il trono del padre, dove durò due mesi, perché fu rovesciato da Vladislao II, sostenuto dagli ungheresi di Corvino.

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Il principe ereditario cercò allora un accordo con l’uccisore di suo padre, il quale gli concesse il ritiro delle sue truppe. Dopo anni di guerriglia, contro Vladislao, riconquistò la corona, nel 1456. Ristabilì la disciplina sui ribelli boiardi e sassoni della Valacchia e della Transilvania con straordinaria ferocia, si dice, facendoli impalare a centinaia, Vlad Dracul si trovò infine saldo sul trono avito. Nel 1459, arrivarono gli ambasciatori turchi a Targoviste, capitale della Valacchia, per sistemare i rapporti di vassallaggio e il pagamento di tributi con quel regno, in base agli accordi del 1447. Quando furono davanti al re non vollero togliersi il turbante e Dracul, per rendere i copricapo fermi sulla loro fronte, ce li fece inchiodare. O almeno così si dice. Si diffondeva la fama della crudeltà di Dracul e del suo coraggio. Il suo nome fu latinizzato in Dracula. In pieno inverno, nel 1461, profittando del Danubio ghiacciato, l’esercito valacco lo traversò, devastò i villaggi e trucidò gli abitanti sottoposti alla protezione turca. Dracula scrisse al Corvino di aver collezionato 23.883 morti, “senza contare quelli che sono stati bruciati vivi nelle loro case o quelli le cui teste non sono state censite nel nostro schedario”. Maometto II non poteva trascurare una provocazione cristiana di tale violenza e riunì la flotta, fra marzo e aprile del 1462, con cui trasportò 60.000 uomini attraverso il Mar Nero, per distruggere il re sanguinario, che proprio da loro era stato educato. Dracula disponeva di poche milizie, con le quali però fece terra bruciata davanti all’armata di Maometto, mentre la mordeva sui fianchi con la tattica della guerriglia. Non ebbe alcun aiuto da Mattia Corvino, che incassava i soldi della crociata, mandati da Pio II e e li accumulava per pagare Federico III. Maometto II avanzò e giunse a Targoviste. Trovò la città deserta, ma davanti alla porta di ogni casa c’era un palo con una testa di turco infilzata. Si dice che contò ventimila pali. Il sultano ordinò la ritirata inseguito dalla paura superstiziosa e dalla peste. Non era questa la crociata che il papa e Venezia avevano finanziato con le decime, ma i turchi erano scappati. Corvino aveva accumulato 80.000 ducati dai contribuenti cristiani ed era pronto a riscattare la corona dì Ungheria da Federico III. Ma Dracula reclamava il rimborso delle spese. Mattia escogitò un processo contro di lui. Lo incarcerò, lo accusò di atti inumani e di intelligenza con il turco ai danni dell’Ungheria. Le cancellerie europee non si bevvero la storia di Corvino , ma finsero di accettarla, mentre l’astuto figlio dell’eroe di Belgrado faceva circolare, tra i principi cristiani, un libello con il racconto delle sevizie di Dracula. Da dietro le sbarre, il re di Valacchia e di Trasilvania non era in grado di difendersi. Mattia pagò finalmente i ducati dovuti all’imperatore e divenne formalmente Re, il 29 marzo del 1464. Seguitò a ricevere altri soldi da Pio II, finché il papa non morì, perché era il baluardo contro Maometto II. Non poteva essere redarguito, perché gli ungheresi venivano celebrati come paladini della cristianità mai visti prima. La Valacchia verrà ripresa dai turchi, comandati da Radu, il fratellastro di Vlad, nel 1467 e rimarrà provincia ottomana. Vlad Dracula rimase internato nella fortezza di Visegrad presso Buda per dodici anni, fino al 1474. Durante la prigionia , rinunciò alla fede ortodossa di suo padre e si convertì alla Chiesa cattolica.

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Senza la propaganda di Corvino, Vlad Dracula sarebbe risultato un crociato e quindi sarebbe stato impossibile accettare, per l’opinione pubblica europea, la sua carcerazione. Ma Giovanni Csezmicei, cancelliere di Buda mise insieme le fonti più diverse per stabilire una versione denigratoria: lettere di Dan, rivale di Vlad, in cui sono descritte ai borghesi di Brasov le sevizie inflitte ai sassoni in Valacchia e in Transilvania, la lettera stessa di Vlad sui 23.883 decapitati dei villaggi turchi : fatti in gran parte veri. Il cancelliere ci aggiunse le testimonianze dei viaggiatori e dei mercanti in Transilvania. Furono notizie che , nella cultura di quegli anni, non fecero un grande effetto. Prese allora la penna Ulrich di Zredna e scrisse in tedesco “La storia del principe Dracula”; la fece stampare Han Jean Vitez vescovo di Oradea e maestro di umanesimo di Mattia Corvino. Questa storia, più fantasiosa di quella di Csezmicei, uscì a Vienna nel 1463. Fu un avvenimento straordinario: forse per la prima volta venne impiegata la stampa per diffondere, in Europa, la propaganda di un regime. L’opera era divisa in trentasei capitoletti dedicati ciascuno a un episodio orripilante della vita di Dracula, considerato un musulmano persecutore dei cristiani, che godeva del soprannome di Tepes, ossia di Impalatore. Il frontespizio ornato di una incisione su legno in cui si vede Dracula, assiso al tavolo da pranzo, che dirige lieto lo sguardo su una foresta di cristiani impalati, fu di grande efficacia. Il successo arrise a questa propaganda e i fogli con le vignette dilagarono in varie edizioni, in varie lingue, con l’aggiunta di altre crudeltà aggiunte mano a mano. Ne derivò persino un poema di Michel Beheim. Lo stesso Pio II ne trascrisse dei brani nei suoi: “Commentarii rerum memorabilium que temporibus suis contingerunt”, a testimonianza della sua dabbenaggine. Così Mattia Corvino regnò sulle province ungheresi settentrionali. Il dono dell’allume La fortuna sembrò assistere Pio II, quando, proprio nel 1462, fu scoperta tra Corneto (Tarquinia) e Centocelle (Civitavecchia), sui monti della Tolfa, un giacimento di allume di rocca. Una gran copia di agrifoglio copriva quell’altura. Un certo Giovanni, uomo del posto, sapeva che quell’arboscello, in Asia, allignava dove c’è l’allume di rocca. Risultò vero e Giovanni scrisse al papa: “Oggi, beatissimo padre, io vi do la vittoria sui turchi, oggi per opera mia voi spogliate i nemici e arricchite il vostro tesoro. I turchi sino ad ora hanno cavato annualmente dalla cristianità sopra trecento fiorini d’oro per darle in cambio l’allume che è necessario alla tintura delle lane, e che tra noi se ne trova se non poco nell’isola d’Ischia e nell’antro di Vulcano fra le Eolie, miniere ambedue già sfruttate dai Romani. Ora io ho scoperto sullo stato vostro sette montagne tanto ripiene di questa preziosa sostanza che possono bastare a tingere sette mondi. Se voi volete chiamare gli artefici e aprire la miniera venderete l’allume a tutta l’Europa, e toglierete ai nemici l’ingordo guadagno, che per voi sarà più che doppio beneficio. Voi avete da presso tutto quel che occorre, le legna per la fornace, l’acqua per la macerazione ed il porto di Civitavecchia per spedire i prodotti.

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La pecunia, nervo della guerra, sgorgherà dalle vostre miniere e farà rigurgitare altrettanto l’erario vostro, quanto più quello del nemico dovrà restare smunto.”15 La Santa Sede chiamò da Genova alcuni che avevano lavorato l’allume in Asia, i quali confermarono la scoperta della Tolfa. I cardinali in conclave decretarono che la rendita della miniera andava dedicata, per i successivi quindici anni, alla continuazione della crociata. Intanto, Pio II era impegnato nella guerra navale davanti a Fano, nella cui fortezza si erano riparati gli avanzi dell’esercito di Sigismondo Malatesta. I papalini con cinquemila fanti e settecento cavalli e con uno schieramento di piccole navi, sostenute da una cocca e da una galea, circondarono la città. I malatestiani invocarono l’aiuto di Venezia, che acconsentì e mandò una discreta sua flotta per portare provvigioni e milizie. Le navi veneziane, con il vento a favore, attaccando di notte, ruppero il blocco papalino, ma passate oltre furono colpite da retro con saette incendiarie, che bruciarono le velature. La modesta marina papalina sconfisse la famosa marina veneziana e Fano cedette il 25 settembre del 1562. Nello stato napoletano, Giovanni d’Angiò, che aveva fomentato tante rivolte, era rifugiato nell’isola d’Ischia, protetto da otto galee, ma Ferdinando gli scagliò addosso la flotta catalana di suo zio duca di Barcellona. Il francese fuggì e ritornò in Provenza in povero condizioni. Re Ferdinando constatò che i suoi nemici si erano dissipati e governò con polso fermo. Pio II, superate le ribellioni interne e le lotte fra aragonesi e angioini, rimise in vigore il decreto di Mantova e tornò a dettare la guerra al turco. Si alleò con la repubblica veneta, che subiva l’attacco maomettano alle postazioni adriatiche. Il papa fece sapere che avrebbe lui stesso vestito l’abito del crociato e che si sarebbe imbarcato sulla galea del Gran Capitano. La cristianità ebbe un fremito. Il Padre di tutti affrontava i pericoli del mare e delle armi per portare la vera religione nelle contrade occupate dai seguaci di un altro Dio e per vendicare i cristiani oltraggiati. L’appuntamento fu fissato nel porto di Ancona, che avrebbe accolto ogni naviglio, marinaio, capitano e soldato che volesse partecipare, purché ognuno provvedesse da solo ai viveri per diciotto mesi. La pausa di Bolsena Il papa doveva però lasciare il tempo ai crociati di radunare le loro formazioni, ma non aspettò a Roma, città insalubre. Voleva godere un attimo di quiete prima della tempesta. Salì su una barca a Ponte Milvio e risalì il Tevere; la barca avanzava per quel che poteva a remi, ma procedeva soprattutto tirata con le corde da buoi, dalle sponde. Così non poté andare oltre Otricoli, dove cessava la navigabilità del fiume. In carrozza da Otricoli a Narni e a Terni e infine a Viterbo, dove si trattenne un mese mezzo. Per evitare la peste, che colpì la città, si dislocò nel castello Farnese di Capodimonte sul lago di Bolsena. Il tempo era ormai estivo e papa Piccolomini si faceva portare in barca sul lago, girando intorno alle isole Martana e Bisentina, due

15 Riferito da Alberto Guglielmotti in “Storia della marina pontificia”, Roma 1856.

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promontori boscosi che sorgono dalle acque lacustri. Per fargli piacere, il barone del lago, Gabriele Farnese, organizzò una tradizionale corsa di pescherecci. Di buon mattino, il Pontefice con tre cardinali, molti prelati e i vescovi di Montefiascone e di Foligno scesero all’isola Bisentina e il Santo Padre celebrò la messa, poi “la carità dei frati minori, sostenuta da larghissime limosine, alimentò le turbe a frugal pasto sull’erbetta, reso più dolce dall’amenità del lago, e dai giuochi innocenti de’ forosetti”16 L’emozionante gara di remi, a cui parteciparono le cinque più importanti città della zona (Bolsena, Valentano, Corneto, Marta e Grotte) fu vinta dall’equipaggio di Marta. “Da questa generazione d’uomini aveva tratto i marinari dell’armata sua papa Callisto, e da queste ed altre assai intendeva a reclutarne il successore.”17 fu la valutazione della corte. Ormai era giunto il tempo per la grande missione. Verso Ancona Pio II giunse nella città adriatica il 19 luglio 1464. Prese stanza nel palazzo vescovile accanto alla cattedrale di San Ciriaco, che è in altura, dove l’afa è un poco più sopportabile. Nella città bassa brulicava una folla di miserabili, arrivati per partecipare al miracolo della crociata senza viveri e senza armi. In questa accozzaglia di persone, tra i francesi e gli spagnoli si accendevano risse. Bisognava rimandare indietro questa gente, che non serviva a niente. I cardinali ricevettero la piena facoltà di accordare loro, per misericordia, l’indulgenza della crociata purché tornassero a casa. Nell’abitato di Ancona dominava il disordine, mancavano alloggi ed acqua e, nell’eccessivo calore, si diffuse la peste, che entrò persino nelle dimore dei cardinali. Giunse improvvisa la notizia che i turchi avanzavano verso Ragusa. Il papa ebbe un soprassalto e decise di partire per la città dalmata con i 400 arcieri della sua guarda del corpo per salvarla. Fortunatamente il Sultano, arrivato a Sutjeska, preferì tornare indietro. Venezia era ormai pronta, interessata prendersi la Morea, nome con cui i veneziani chiamavano la penisola greca del Peloponneso, assoggetta da Istanbul. Ma seppure spinto da interessi di stato il doge di Venezia, Cristoforo Moro, non salpava con le sue navi. Erano già tre settimane che il papa scrutava l’orizzonte dalla finestrella della sua camera esposta al mare e rimaneva deluso e febbricitante, perché non si profilavano tra acqua e cielo le centinaia di vele, che gli erano state promesse dal Senato della Serenissima. Vedeva dondolare in porto le cinque galee anconetane, le cinque pontificie, le due ferraresi, le due bolognesi, altre pisane, ma non le quaranta venete. Finalmente il 12 agosto giunsero alla vista dodici galee di Cristoforo Moro. Il grosso del naviglio veneziano era andato in guerra contro i triestini per distruggere le saline di Zante. La cerimonia di benvenuto ai pochi venuti fu grandiosa. L’armata pontificia uscì per tre miglia dal porto, i veneziani calarono le vele e si accostarono a remi. Gli equipaggi si disposero in posizione di battaglia, a poppa, a prua, alle scale e ai

16 Alberto Gugliemotti: “Storia della marina pontificia” , Roma 1856. 17 Alberto Guglielmotti: “Storia dalla marina pontificia”. Roma 1856.

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portelli, urlando, i guerrieri percuotevano in modo assordante gli scudi con le spade mentre tuonavano le bombarde. Il papa, a letto ammalato, sentì il lieto strepito e affacciato alla finestrella della sua camera disse: “Pocanzi l’occasione di navigare a Ragusa mi è mancata, ora mancherò l’occasione di navigare a levante”. Aveva cinquantanove anni e la morte lo aspettava nella stanza alle sue spalle. Alle tre di notte del 16 del 1464 spirò. Il suo cuore venne inumato in Ancona e il suo corpo fu trasportato a Roma. Dopo il fallimento di Ancona. Venezia, nel primo Quattrocento, guardò ad Occidente e alla terraferma, più che all’Oriente e all’Adriatico. La spinsero a ciò forti motivi politici e culturali: la voglia della nobiltà di nuove tenute agricole, la necessità della marina di possedere boschi nelle Dolomiti per il legname delle navi e il poter estrarre ferro e rame dai colli prealpini. Sentì la necessità di mantenere aperte le strade per la diffusione delle sue merci importate e delle sue manifatture, intervenendo in Lombardia, soprattutto ostacolando l’espansione del ducato visconteo verso la Romagna. Le guerre lombarde furono anche scontri navali per il controllo del Po e dell’Adige. L’Arsenale costruì un tipo di vascello adatto alla guerra fluviale: navi a remi munite d’artiglierie, che si chiamarono galeoni. Per soccorrere Brescia, attaccata dai milanesi, i veneziani trasportarono i galeoni attraverso le montagne e le vararono nel lago di Garda agli ordini del condottiero Erasmo Gattamelata da Narni. Altri condottieri della Serenissima e altri combattimenti li tralasciamo, finché Venezia e Milano, esauste, deposero le armi e stabilirono il loro confine sull’Adda, con la pace di Lodi del 9 aprile 1453. Con l’accordo di Lodi i cinque potentati maggiori, Napoli, Stato Pontificio, Firenze, Milano e Venezia, limitarono le loro ambizioni particolari, accettarono gli assetti territoriali al presente e determinarono il fenomeno del cosiddetto equilibrio italiano, che resse per qualche decennio. A questo punto, Venezia riversò l’attenzione ai Balcani e all’Egeo, su cui gli ottomani sradicavano le sue colonie e perciò aderì alla crociata di Pio II. Dopo il il fallimento di Ancona, i veneziani mossero la loro flotta per riprendere la Morea, caduta nel 1460 in mano a Maometto II, eccezion fatta di alcune comunità della Serenissima: Argo, Nauplia, Corone, Modone. Una flotta di 32 galee fu affidata a Orsatto Giustiniani. Nel 1463, l’ammiraglio cercò di impadronirsi di Lesbo, ma venne cacciato con gravissime perdite. Nella terra di Lesbo, l’armata di Cecco Brandolin e Giovanni della Tela, cadde in un imboscata e fu massacrata. A Giustiniani successe Vittore Capello, che saccheggiò il Pireo e Atene, ma venne sgominato a Patrasso (1464). Venezia cambiò i suoi ammiragli ogni anno e subì scacco matto, uno dietro l’altro. Nel 1470, la flotta della Serenissima fuggì di fronte a trecento vele turche comandate dallo stesso sultano e cedette Negroponte (isola Eubea) ultimo baluardo della Repubblica di San Marco nell’Egeo. Contro i turchi erano scomparse le galee pontificie. Paolo II (1464 – 1471), il successore di Pio II, non dedicò alcuna attenzione alla marina e dimenticò la crociata.

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Non erano buoni i rapporti tra il papa veneziano e la sua patria per via dell’assolutismo del senato lagunare, che soggiogava la chiesa locale e per il rancore di certi gruppi della società lagunare, convinti che, a castigo dei preti, sarebbe stato meglio firmare la pace coi maomettani e aprire agli infedeli la strada per Roma. Alle pompe funebri di Paolo II non fu presente alcuna delegazione della Serenissima. Nel1471, salì il soglio pontificio il ligure Francesco della Rovere con il nome di Sisto IV. Il senato veneto riallacciò i rapporti con la Santa Sede e lo fece proponendo una campagna navale antiturca. Stimolò Sisto IV alla crociata, inducendolo a riaprire un cantiere navale. Il papa pagò la quota dovuta per la guerra santa. Secondo i libri contabili pontifici, tra il 1471 e il 1473, spese 144.000 ducati d’oro per la marina pontificia. L’interferenza di Sisto IV Il papato di Sisto IV (1471 – 1484) costituisce una parentesi in cui la religione cattolica, per tredici anni, fu senza anima. A Sisto IV non interessò altro che la sua famiglia e non dedicò alcuna attenzione all’ecumene e alla teologia. Diventa utile tratteggiare il carattere di questa papa savonese con il blasone della quercia a contraddistinguere la sua famiglia gentile, ma in miseria. Era un uomo cresciuto nel chiostro, un francescano autore di banalissimi libri sulla Madonna e sul Sangue di Cristo, aveva un gregge di parenti da pascolare: i figli del fratello Raffaello, cioè Giuliano, Bartolomeo e Giovanni; tre sorelle del papa, che si maritarono con i Riario, i Basso, i Giuppo e gli procrearono una nutrita schiera di nipotini. Quando lui divenne papa, la parentela prese dimora a Roma e cominciò a ricevere i benefici, come dovuto, anzi di più, secondo la regola ormai affermata della Chiesa nepotista. Giuliano e Bartolomeo abbracciarono la carriera ecclesiastica e al primo concistoro dello zio furono insigniti della porpora; Giovanni scelse la vita militare. Le figlie delle sorelle andarono in matrimonio con buone casate italiane, il tutto tra feste sontuose e peccati carnali a profusione. Il più tristo della numerosa famiglia fu Girolamo Riario, sposato con Caterina Sforza, figlia naturale del duca Galeazzo di Milano. Per lui, lo zio papa comprò il feudo di Imola, facendosi prestare i soldi dai banchieri fiorentini Strozzi, rivali della casa Medici. Il braccio armato dei della Rovere, cioè quello di Giovanni, attaccò Spoleto, Todi, Città di Castello con lo scopo di ampliare i ducati di famiglia nelle Marche e nell’Umbria, allargandosi fino a Borgo San Sepolcro, al confine con la repubblica fiorentina, il che creò inimicizia con Lorenzo de’ Medici, che era al governo di quella repubblica. Il papa decise di eliminare l’oppositore mediceo con qualsiasi mezzo e organizzò una alleanza che mise insieme i seguaci della famiglia de’ Pazzi, Girolamo Riario e il vescovo di Firenze Francesco Salviati. Il mezzo scelto fu l’assassinio dei due fratelli Medici. Il 26 aprile del 1478, i Pazzi colpirono con i pugnali, in chiesa, Lorenzo e Giuliano, ma Lorenzo sopravvisse e mantenne il potere con il sostegno del popolo. Sisto IV prima reagì all’insuccesso con la scomunica e l’interdetto alla città, a cui il clero locale rispose con il “Sinodus fiorentino”, nel più feroce stile d’invettiva dei toscani contro il capo della Chiesa scandalosa.

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Poi, trascinandosi dietro Ferdinando II d’Aragona re di Napoli, Sisto IV dichiarò una guerra, apparentemente religiosa, contro la repubblica di Firenze e la Toscana. Le operazioni militari ebbero inizio nel luglio del 1478. I due eserciti assalitori penetrarono fino a Monte San Savino, che presero l’8 novembre 1478. Seguirono i quartieri d’inverno e, alla primavera seguente, la guerra proseguì a svantaggio di Firenze. Durante l’inverno successivo, quando il maltempo quietava le armate, Lorenzo de’ Medici, per allentare la stretta, si recò a Napoli, salpando da Livorno e riuscì a portare Ferdinando II alla ragione, invocando il principio dell’equilibrio italiano sancito dalla pace di Lodi. A marzo del 1480, i due governi assicurarono l’integrità vicendevole dei loro stati e il re di Napoli ritirò la sua armata dalla Toscana. Lo scorno di Sisto IV fu enorme e non poté proseguire da solo perché doveva mandare i suoi mercenari in aiuto di Girolamo Riario in guerra nella Romagna, per prendersi Forlì. Almeno, Forlì cadde e lo zio immediatamente legittimò di quella signoria il parente. Sisto IV aveva tralasciato la crociata, finché venne convinto da Venezia a entrare in una lega antiturca. La guerra nel mare turco Fu decisa una lega fra Venezia, Roma e Napoli per un attacco alle coste turche. La flotta pontificia, composta di ventiquattro galee, era comandata dal cardinale Oliviero Caraffa: a maggio del 1472, le sue galee si congiunsero alle quarantasei di Venezia capitanate da Pietro Mocenigo, alle diciassette di Alfonso re di Napoli, affidate al conte di Requesens e alle due dei cavalieri di Rodi. Sembrò rivivere l’ambizione di Callisto III e di Pio II,” dopo nove anni di ozio passati a riguardare”18, come ebbe a dire Pietro Mocenigo al cardinal Caraffa quando i due si scambiarono i convenevoli nel porto di Modone, presidio veneziano sulla costa ionica della Morea, all’imbocco dell’Adriatico. A Modone, ottantasette navi mollarono gli ormeggi e spiegarono le vele al vento, portandosi a Samo, dove fecero una tappa di ristoro. Giunsero di notte di fronte al porto-fortezza di Antalaya, nella Turchia meridionale. Caraffa, Mocenigo e Requesens ordinarono che dieci galee di ciascuna nazione, al primo raggio di sole, si scagliassero sulla catena che chiudeva il porto e la spezzassero. L’impeto dell’assalto e un gran fuoco d’artiglieria permise la riuscita di questa parte del piano e le bandiere di Roma, di Venezia, di Napoli e dei cavalieri gerosolimitani sventolarono dalle torri del porto. Intanto le altre imbarcazioni sbarcavano la cavalleria e cinquanta compagnie di fanti. Le truppe di terra entrarono facilmente dentro il primo recinto castello, ma si arrestarono al secondo perimetro, dove la muraglia era più alta delle scale e troppo solida per romperla con il piccone e le mine. Cercarono inutilmente di farcela per l’intero giorno. Durante la notte, i tre capitani valutarono che per spaccare le mura avrebbero dovuto sbarcare l’artiglieria pesante, il che richiedeva troppo tempo. Ciò avrebbe permesso ai nemici dell’interno di arrivare a dar man forte agli assediati.

18 Discorso di Mocenigo, riportato da Alberto Guglielmotti in “Storia della marina pontificia”, Roma 1856.

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Per cui si limitarono a un proficuo saccheggio della zona. Raccolte le prede, tra cui un simbolico tratto della catena spezzata del porto, l’armata crociata riprese il largo e andò ad ancorarsi a Rodi. Ancora reggeva la buona stagione, le galee ebbero tempo per scorrazzare lungo la costa orientale dell’Anatolia per fare bottino e per oltraggiare i turchi. All’isola di Nasso, il comandante napoletano Requesens prese licenza e tornò a Napoli. Invece Mocenigo e Caraffa decisero di tentare l’ultimo colpo a Smirne, il più importante scalo commerciale turco, sbocco al Mediterraneo delle piste carovaniere asiatiche. Smirne era una città ricca e plurietnica, con popolazione levantina, greca, armena e ebraica. A causa del suo multiconfessionalismo, gli ottomani la definivano “gàvar Izmir”, l’infedele Smirne. Le navi veneziane e pontificie penetrarono nell’angusto golfo e le truppe sbarcate sconfissero il pascià della città in campo aperto. Smirne fu spogliata di ogni sostanza, soprattutto di tanto oro e argento da ripagare non solo ogni costo dei veneziani e dei papalini, ma anche da costituire un cospicuo guadagno, anche per i mercenari. Quindi la cosiddetta patria di Omero fu incendiata e ridotta in cenere. Dal punto di vista corsaro l’impresa navale del 1472 fu un successo. Dal punto di vista militare, dimostrò che la flotta turca, di fronte ad un avversario ben armato, non osava mettere il capo fuori dai Dardanelli e dal punto di vista dimostrativo avvenne che la catena di Antalaya fu appesa in San Pietro. La marina veneziana e napoletana Maometto II si era dotato di una forza composta da centocinquanta fra galee leggere e fuste. Insieme partirono dal Bosforo e riconquistarono Lesbo e le isole liberate. Il Turco assediava Scutari in Albania e Venezia abbandonò a se stessa la città, che strenuamente e inutilmente si difese. Gli ottomani avanzarono verso nord e irruppero nel Friuli; attraverso il ponte di Gorizia superarono l’Isonzo raggiunsero il Tagliamento, dove l’esercito di San Marco fu sconfitto, nel 1477, per cui il doge desistette dal rintuzzare il turco e concordò una tregua: Venezia rinunciò, con il trattato del 25 gennaio 1479, a Negroponte e a molte isole dell’Egeo e si impegnò a pagare diecimila ducati annui al Sultano per mantenere le altre postazioni commerciali. Si dedicò, in alternativa, a impiantare una colonia a Cipro sostenendo la veneziana Caterina Corner a prendere il trono dell’isola. L’insuccesso stimolò il senato della laguna a decretare il raddoppio della flotta. Venne perciò ampliato l’Arsenale, coprendo con i “tesoni” l’Arsenale Vecchio, in modo da poter lavorare anche con il cattivo tempo. All’Arsenale Vecchio, fu aggiunto l’Arsenale Nuovo e l’Arsenale Novissimo. I cantieri dovevano permettere la costruzione di cento galee, in parte armate da tenere nei bacini interni, in parte in secco negli spiazzi dell’Arsenale Novissimo, in zone coperte. Sarebbe stata la flotta di riserva in caso di guerra. Maometto II comprese di essere rimasto indietro e rimise in funzione l’arsenale turco, situato a Gallipoli. Nell’ambiguità di rapporti stabiliti nella tregua del 1479, il sultano chiese alla Serenissima assistenza tecnologica militare, in un quadro di collaborazione che comprendeva l’invio “di scultori, ingegneri e uno architetto delli

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più periti de Italia perché voleva uno palatio inaudito et che similiter li mandi uno pictore.”19 Garantito dalla non belligeranza di Venezia nel Mar Bianco, Maometto attaccò, nel Mar Nero, la colonia di Caffa in Crimea, ultimo avamposto di Genova sulla via della seta, cosa che non dispiacque ai veneziani. Nel 1480, il Gran Sultano assediò da mare e da terra la fortezza di Rodi. La battaglia durò dal 22 maggio al 18 agosto e i cavalieri gerosolimitani risultarono invincibili, nonostante le loro forze fossero esigue. Due navi napoletane con rifornimenti e soldatesche riuscirono a varcare il blocco turco e a portare aiuto. Infine si decise anche Sisto IV a mandare due grandi vascelli, ma arrivarono sul posto, che già la flotta della mezzaluna si era ritirata. L’obiettivo di Rodi, per Maometto, forse era un diversivo, perché intanto lui radunava un’altra enorme armata a Valona d’Albania, agli ordini di Acmet pascià, detto Giacometto. Questi navigli varcarono le cinquanta miglia di mare che separavano Valona dal Salento e, il 28 luglio del 1480, comparvero davanti a Brindisi. Il sincronismo delle due operazioni navali turche è indicativo: a fine luglio cominciava l’aggressione in Italia e il 18 agosto si vanificava quella contro i gerosolimitani. Venezia non fu estranea all’attacco maomettano nella penisola italica, anzi fu fautrice di una guerra turco- aragonese nelle terre del regno di Napoli, che allentava la tensione nell’Adriatico settentrionale. Ma la marina napoletana si era costituita come forza dominatrice dei mari, sotto gli aragonesi. Ferdinando era informato dalle sue spie di quanto si stava tramando e sapeva di poter respingere l’invasione degli infedeli. La strage di Otranto Le galee di Acmet pascia detto Giacometto stazionavano in faccia alla costa salentina: Acmet era un rinnegato greco fattosi islamita. La sua flotta si componeva di 150 navi, che portavano più di quindicimila fanti e la cavalleria. Quando scoprì che Brindisi era ben fortificata, scelse di attaccare, più a Sud, la città di Otranto, con le mura in rovina, senza guarnigione e senza artiglieria. C’erano solo mille uomini adatti a combattere, nella cittadella, che furono raggiunti tempestivamente da quattrocento fanti inviati da Ferdinando di Napoli, comandati da Francesco Zurlo. L’assedio a Otranto cominciò venerdì 28 luglio del 1480. Gli assediati si aspettavano l’aiuto di don Alfonso duca di Calabria (da cui dipendeva la terra di Otranto), ma il figlio di Ferdinando II era occupato a farsi proclamare signore di Pisa. Il padre inviò legati in Italia e in Europa, a chiedere soccorso, con ambascerie che durarono mesi. Per il re napoletano, Otranto non era una fortezza strategica, quindi non aveva fretta d’intervenire. Gli assediati otrantini subirono quindici giorni di bombardamenti che li costrinsero a cedere l’11 agosto e il 12

19 Lettera dell’ambasciatore milanese a Venezia a Gian Galeazzo Forza in data 3novembre 1479 (ASMi, Carteggio, cart. 368).

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cominciò il massacro: i maschi sopra i quindici anni vennero trucidati e i bambini e le donne caricati sulle galee e portati ai mercati degli schiavi. L’intento del Sultano Maometto II divenne quello di costituire ad Otranto una testa di ponte per espandersi nel regno di Napoli, sapendo del plauso che riceveva da Venezia. Da Firenze. Lorenzo il Magnifico coniò una medaglia per celebrare la disgrazia napoletana, perché Napoli si ritirava da Pisa e dal centro Italia e perché il pericolo turco distoglieva Sisto IV dal sostenere le imprese di suo nipote in Romagna. Intanto, gli islamici fortificavano la città salentina con muraglie, fossi, ripari e con consistenti batterie di cannoni. Si avvicinava la cattiva stagione e gli invasori si preparavano a svernare, ma nel tacco d’Italia non si trovavano viveri da predare sufficienti per oltre quindicimila uomini. Il pascià fu improvvisamente costretto a intervenire a Cefalonia dove era scoppiata una rivolta e lasciò a Otranto dodici galee, settemila soldati e 500 cavalli agli ordini di Arideno baglivo di Negroponte per tenere la postazione fino alla primavera successiva, stagione da dedicare alla conquista di Brindisi. Il papa si agitò pensando che la tappa seguente del turco poteva essere Roma e con la leggerezza della codardia ideò di trasferire la Santa Sede in Avignone. Durante l’inverno, Ferdinando raccolse una flotta di 80 galee, affidandola a Galeazzo Caracciolo e Genova aggiunse 22 galee. A gennaio del 1481, Acmet pascia tornò ad Otranto con i rinforzi per affrontare, a primavera, l’esercito del duca Alfonso, accresciuto dalle forze dei baroni. I nemici duellarono per poche giornate: infine i turchi si rinchiusero nella fortificazione di Otranto e resistettero all’assedio per quattro mesi, impossibilitati alla fuga da una flotta gigantesca, che chiudeva il mare. Il 2 maggio del 1481, morì Maometto II e la notizia giunse nel campo del pascià Giacometto, L’effetto fu immediato: il 10 agosto,il greco si arrese in cambio della libertà sua e dei suoi uomini. Il duca Alfonso celebrò il suo trionfo a Napoli e proprio durante i festeggiamenti arrivarono nel porto di Napoli 19 caravelle e una galea del Portogallo e 22 navi spagnole mandate tardivamente in soccorso. La morte di Maometto II sollevò Sisto IV dalla preoccupazione di dover emigrare in Provenza con la sua numerosa famiglia, ma nel 1484 giunse anche per lui il giorno finale. La cattedra di Pietro passò a Innocenzo VIII, già vescovo di Savona. Nel 1492, il papa Innocenzo ebbe il tempo di compiacersi con i reali di Spagna, che conquistando Granada avevano ricacciato i mussulmani al di la del mare e finì il suo pontificato. Requiem per Maometto II Maometto II era morto in maniera misteriosa il 3 maggio del 1481. Gli ambasciatori e le spie occidentali avevano riferito che il sultano non aveva capitanato la spedizione italiana perché malato. Era afflitto dalla gotta e dall’idropisia e regolava la sua vita in modo da mantenere solido il suo fisico di quarantasettenne, spendendo 80 mila ducati l’anno in cure mediche, bevendo raramente il vino e facendo venire acqua purissima, per bevanda, dalle montagne di Bursa sempre coperte di neve. Aveva la settimana organizzata in quattro giorni dedicati ai compiti di governo, due esclusivi per i piaceri

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carnali e uno di riposo da trascorre nei suoi giardini. Nel 1481, soffrì di più per gli insuccessi politici che per la sanità del corpo. Rodi doveva cadere in un baleno e invece le sue navi erano rientrate in porto per le riparazioni. Anche la presa di Otranto gli sembrò insignificante, perché era una posizione di scarsa importanza, tutt’altro che Brindisi, o Ancona. Soprattutto provava una gran pena in famiglia, a causa del suo figlio maggiore, Bajezid, che gli disobbediva. L’aveva mandato nella regione Nord- Est dell’Anatolia per combattere contro Usan Casan e in segno del suo affetto e della sua stima gli aveva regalato una veste di broccato, ma Bajezid non la indossò, avvertito, da sua madre, che quella bellissima tunica era avvelenata e che il padre voleva ucciderlo, perché lo considerava un ribelle e preferiva il secondogenito Gem come erede. Bajezid reagì alleandosi con Usan Casan. Il padre marciò con il suo esercito per distruggerlo in battaglia. Ma al quinto giorno (era il 1° maggio), giunto alla Prateria del Monarca, il Sultano avvertì forti dolori al ventre. Accusarono il medico persiano al – Lari di avergli somministrato un farmaco sbagliato. L’intervento di un altro medico, Jacopo da Gaeta, risultò inutile. Il 3 maggio 1481, Maometto il Conquistatore morì. I contemporanei furono certi che Bajezid gli aveva reso la pariglia e che lo aveva ucciso con il veleno. Il 20 maggio, Bajezid, sostenuto dai giannizzeri, entrò a Istanbul da trionfatore e da sultano. Gem fu esiliato e andò a rintanarsi nelle montagne dell’Anatolia, proclamandosi sultano di Bursa, la prima capitale dell’impero ottomano, da dove cominciò una guerra di rivalsa contro Bajezid. Propose una spartizione dell’impero che avrebbe consentito a lui di avere la parte asiatica e al fratello Istanbul e la parte europea. La proposta fu rifiutata, fu sconfitto nella battaglia di Yenishehir e scappò in Siria, sotto la protezione dei mamelucchi. Nel 1482, tornò in Anatolia e fu nuovamente battuto, insieme ai suoi alleati. Chiese asilo ai cavalieri gerosolimitani, che mandarono una galea a prenderlo sulla costa turca e lo portarono a Rodi. Pierre d’Aubisson, il gran maestro dell’ordine, sfruttò il suo ospite come antagonista del sultano e, per tenerlo lontano dai sicari di famiglia, lo trasferì in Alvernia. Lo richiese Innocenzo VIII per usarlo nella crociata contro Bajezit e lo ebbe, nel 1489, in cambio del cappello cardinalizio a Pierre d’Aubisson. Il papa lo voleva mettere a capo di una crociata catto – maomettana per detronizzare Bajezit. Il sultano seguitava a ripetersi la fiaba, che gli era stata raccontata nell’infanzia: la leggenda turco mongola, che affascinava suo padre, quella della città di “Kizil elma”, cioè del Rosso Pomo o della Mela d’Oro. Una profezia diceva che i discendenti di Othman avrebbero conquistato una immensa cupola d’oro, oltre Costantinopoli, oltre Gerusalemme, oltre Vienna, cioè la cupola d’oro della Roma cesarea e cristiana. L’ambiguità dell’Italia La repubblica di San Marco, alla fine del XV secolo, era armata, ma adoperava la diplomazia e anteponeva il commercio alla guerra: era uno stato che venerava Mercurio. Preferiva pagare un tributo all’avversario, come se pagasse un riscatto per i suoi cittadini presi in ostaggio, piuttosto che sostenere le spese di grandi battaglie.

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La sua principale forza era nell’amministrazione del denaro e nella soddisfazione della cultura: il bilancio di stato lo teneva in pareggio (1.500.000 di entrate e 1.500.000 di uscite nel 1500), otteneva prestiti per spese straordinarie dai suoi mercanti che ricompensava puntualmente al 5%; circoli letterari e filosofici, stampa, arte (tra cui quella della politica), artigianato, moda erano il suo decoro. Venezia mirabile costituiva un agglomerato urbano di oltre centodiecimila abitanti, comprendente grandi comunità albanesi e greche. Un ambasciatore francese la descrive così: “E’ la città più splendida che io abbia mai visto, e quella che fa più onore agli ambasciatori e a gli stranieri e che si governa più saviamente”.20 L’Italia era fatta di cento città belle e ricche in gara con Venezia per il decoro e in competizione per il primato nella regione che due o tre di esse avevano in comune. Alcune città emergevano quando costituivano signorie famose per lo splendore delle proprie corti e l’ampiezza dei propri palazzi. Passavano per il territorio d’Italia le bande nere o gialle dei capitani di ventura, che depredavano le campagne nelle contese locali, ma non portavano alla rovina né le popolazioni borghesi né quelle contadine. Le città prosperavano e le terre davano il frutto, su cui poteva passare una tempesta a cui seguiva un prolungato tempo buono. Questa era l’Italia: “ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno nei luoghi più montuosi e più sterili, che nelle pianure e regioni sue più fertili, né sottoposta ad altro imperio che de’ suoi medesimi, non solo era abbondantissima d’abitatori, di mercatanzie e di ricchezze, ma illustrata sommamente dalla magnificenza di molti principi, dallo splendore molte nobilissime città e bellissime città, dalla sedia e maestà della religione”, come la descrive Francesco Guicciardini21. Questa era l’Italia di Pio II, di Sisto IV, di Innocenzo VIII che dedicava alle umane lettere e ai capolavori artistici una parte delle proprie risorse e glorificava i geni creativi della bellezza, sapendo che questi geni avevano natali esclusivamente italiani. Ma non disdegnava la viltà e la prepotenza. La massima ambiguità fu rappresentata dai tre papi citati: avevano la possibilità di forgiare una fede, contro la mondanità dell’epoca, bandendo la crociata antiturca e invece non seppero convincere. Così com’era, l’Italia era doppia: troppo bella e troppo corrotta. Per questo era concupita, in modo quasi carnale, dai francesi. Gem il turco diseredato Innocenzo VIII, divenuto papa nel 1484, emise la prima allocuzione il 21 novembre con cui si appellò a tutti i principi d’Europa per la crociata contro Bajezid. Ma il pericolo più vicino, specialmente per l’Italia proveniva dai pirati barbereschi che minacciavano, con sempre maggiore insistenza, le popolazioni costiere. La curia romana si rivolse ai cantieri di Napoli, proponendo a re Ferdinando la costruzione di 60 triremi e di 20 galee grosse in difesa delle coste, distribuendo la spesa della flotta fra la Santa Sede, Napoli, Milano, Firenze, Ferrara, Siena, Mantova, Monferrato, Lucca e Piombino, le città più ricche. Proporre la costruzione delle triremi significò la

20 Philippe de Commines: “ Memoires”, 1493. 21 Francesco Guicciardini: “Storia d’Italia” Libro I.

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consapevolezza di dover avere legni forti per distruggere le navi piratesche in male arnese, da braccare nel Mar Ionio e lungo le coste del Maghreb. La colletta invocata dal papa non fu accolta, ma la flotta delle città italiane e aragonesi si irrobustì in quel tempo. Nel 1489, imbarcato a Marsiglia, arrivò a Civitavecchia Gem, il fratello di Bajezid, che entrò, da Porta Portese, in Roma, il 13 marzo 1489, in un tripudio di folla. La profezia della Mela d’Oro si verificava in senso opposto. Il discendente di Othman veniva a farsi battezzare per realizzare, nel segno di Cristo, l’impero catto-turco. Il papa prese in custodia Gem per la crociata, ma lo vendette a Bajezid, non appena il Gran Turco gli pagò un canone annuo di 45.000 ducati per tenere lontano dall’impero d’Istanbul il fratello rivale. Finché fosse durata la prigionia romana, il sultano si impegnava a non attaccare i regni cristiani, con l’eccezione dell’Ungheria. Il papa stette al patto e concesse a Gem un’ala del suo palazzo in Vaticano. Andrea Mantegna ci ha lasciato una descrizione del personaggio in questione, in una lettera a Francesco Gonzaga marchese di Mantova, dicendo che il turco era sotto buona custodia, che gli venivano permessi svaghi di ogni tipo, cacce, musica, conviti e somiglianti. Scrisse che il musulmano si faceva vivo nel nuovo palazzo in cui lui dipingeva e notò che per essere un barbaro si comportava molto bene. “Il suo portamento è superbamente maestoso; persino in presenza del papa non si scopre il capo. Mangia cinque volte il dì e dorme altrettanto spesso; prima di prendere il cibo beve acqua zuccherata. Il suo passo è quello di un elefante, il suo movimento grazioso pari a un barile veneziano. I suoi lo lodano assai e decantano la sua maestria nel cavalcare, del che però fin qui lui non ha visto nulla. Tiene spesso semichiusi gli occhi. E’ d’indole crudele; quattro uomini, dicono, furono da lui ammazzati: di questi dì ha maltrattato un interprete. Si vuole che Bacco gli faccia visite frequenti. In complesso la sua gente lo teme. Egli disprezza tutto, come uno che non se ne intende. Dorme vestito; da udienze sedendo, come i Parti, a gambe incrociate. Sul capo porta una tela di trentamila braccia; i suoi calzoni sono cosi ampi, che egli vi si potrebbe nascondere: Ha una faccia che mette paura, specialmente se gli fa visita Bacco”. Il personaggio era incredibile anche quando diceva che se, con l’aiuto del papa, avesse potuto conseguire il sultanato asiatico, avrebbe ritirato i turchi dall’Europa e avrebbe ceduto persino Costantinopoli. Lo credette Massimiliano imperatore, che propose un piano di guerra contro Bajezid: le milizie tedesche si sarebbero raccolte a Vienna per spingersi verso l’Ungheria e la Valacchia; una flotta navale si sarebbe composta nei porti di Ancona, di Brindisi o di Messina e avrebbe assaltato il Peloponneso e l’Eubea; i francesi, gli spagnoli e la cavalleria italiana sarebbero piombati in Albania per proseguire verso il Bosforo. Non si fece altro che discutere, mentre Venezia informava con missive cifrate Istanbul delle riunioni in corso per questo progetto. Il Gran Turco cercò di calmare l’animo del papa, inviandogli una preziosa reliquia, la Lancia di Longino, quella che aprì il costato del Salvatore. La sacra Lancia arrivò in Ancona , quindi fu portata a Narni e infine fu posta nelle mani del pontefice, che aspettava il corteo della reliquia a Porta del Popolo in Roma.

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Innocenzo conservò il sacro cimelio nei suoi appartamenti fino alla morte, che avvenne il 25 luglio del 1492. Nel suo monumento funebre, fuso in bronzo dal Pollaiolo, il papa è rappresentato con la Lancia nella mano sinistra, mentre benedice con la destra. Non ci rimane che raccontare la fine di Gem. Sempre più triste per il turbine di intrighi che lo circondava e per la prigione che lo immelanconiva, scriveva poesie sul destino, sul vino e sulla bellezza dei ragazzi e delle fanciulle. Chiese al papa di lasciarlo andare in Egitto, dove viveva sua madre e la sua famiglia e Innocenzo VIII stette per cedere alla pietà, ma il papa benigno morì e gli subentrò il papa con i peli sul cuore: Adriano VI, il papa più licenzioso e più venale di duemila anni di papato. Due anni dopo, Carlo VIII di Francia passerà per Roma, mentre invadeva l’Italia, e prenderà in consegna lo sventurato Gem portandolo con sé, come un simbolo, perché nel suo intento, dopo l’Italia, doveva conquistare Costantinopoli. Così finirà Gem: verrà raggiunto da sicari ignoti, che lo avvelenarono, nel 1495. Il turco sfortunato morirà a 35 anni. Il re di Francia lo farà imbalsamare e lo seppellirà a Capua. Per questa morte, Bajezid imporrà alla nazione mussulmana tre giorni di lutto e chiederà la restituzione del cadavere, ma il re di Napoli la trattenne a Capua, finché il sultano turco non pagò profumatamente la traslazione della salma. Gem riposò per quattro anni nel napoletano, poi una galea lo portò, nel 1499, dentro una cassa di piombo, in Turchia. Fu depositato infine nel mausoleo dei sultani ottomani a Bursa. La mela d’oro dei francesi. L’Italia era una mela d’oro anche per i francesi. Mentre gli italiani rimasero abbastanza tranquilli durante la tregua fra cristiani e mussulmani, la Francia preparava un altro disastro nella vita della vicina nazione, che ebbe come data d’inizio il 1494. Quell’anno, Carlo VIII di Valois, re di Francia invase l’Italia rivendicando il regno di Napoli, motivando la pretesa per una lontana parentela con gli Angiò, che avevano posseduto quel reame cinquantadue anni prima. Il sovrano, al ventunesimo anno d’età, affermò di aver titoli per pretendere Gerusalemme, Costantinopoli, il Regno delle Due Sicilie e la Provenza. Con gli stendardi dei tre gigli d’oro in campo azzurro, la truppa gallica entrò in Italia, e violò il paese sfamandosi, ubriacandosi e fornicando. Iniziò così quella successione di soprusi invasivi del nostro paese, che terminò con i Napoleoni del XIX secolo. Nonostante la vasta opposizione della nobiltà francese, il re accettò la suggestione di Lodovico il Moro, reggente del ducato di Milano, per conto del nipote Gian Galeazzo Visconti, di muoversi contro i disuniti stati italiani, assicurata la facilità della vittoria. Il quadro italiano di quel momento mostrava Firenze senza vigore sotto la guida di Piero de’ Medici, città spaventata dalla predicazione dell’apocalisse di Savonarola. Venezia era tesa a frenare i turchi nell’enorme golfo Adriatico, Genova era diventata un centro commerciale e bancario, senza forza militare, le minori signorie e repubbliche del centro Italia erano subordinate alla politica degli equilibri fra i maggiori principati della penisola. Era relativamente saldo lo stato pontificio, retto da Alessandro VI, governante capace, anche se indegno sul piano

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morale. Milano rompeva la stasi italiana invitando lo straniero. Fu il papa l’unico che si oppose alla Francia dichiarando legittima, con atto di sfida, l’eredità del trono di Napoli spettante ad Alfonso II Trastamara, figlio di Ferdinando I d’Aragona. Il 3 settembre del 1494,22 Carlo VIII varcava la frontiera della Savoia, incontrava Lodovico il Moro ad Asti ed esibiva la sua forza costituita da 40.000 fanti, in gran parte di mercenari, tra cui 5.000 svizzeri, da oltre 26.000 cavalli e da quaranta cannoni di bronzo montati su affusti a due ruote. Le fanterie elvetiche mostrarono in parata il “quadrato svizzero” : coprirono un ettaro di terreno con uno schieramento di uomini, armati di picche lunghe, in file parallele. La lunghezza delle lance di frassino, con la punta di metallo, arrivava a cinque metri. La fanteria svizzera somigliava a un istrice quadrangolare che si muoveva sincronicamente in qualsiasi direzione a passo di corsa. Ponendosi in mezzo a una battaglia, potevano frantumare una carica di cavalleria pesante e spaventare con il loro aspetto fantasmagorico ogni creatura vivente. Il duca di Milano rimase impressionato anche quando vide manovrare l’artiglieria. La novità delle bocche da fuoco francesi consisteva nella fusione della canna in un solo blocco di bronzo, rafforzato nella culatta, in modo che potesse reggere una maggiore quantità di polvere da sparo senza spaccarsi. Questo cannone aveva un cilindro di minor diametro, rispetto alle bombarde e poteva sparare palle di ferro che penetravano più a fondo delle palle di pietra. La nuova artiglieria risultava più leggera e sul fusto a due ruote si muoveva sulle colline astigiane alla velocità del quadrato svizzero. Ludovico il Moro intuì, in quel momento, di aver commesso un errore ad aprire le porte a un simile mostro distruttivo. L’Italia avrebbe dovuto ospitare e soddisfare la massa di mangiatori e di violenti che intendeva percorrere la penisola da Nord a Sud, da Asti a Napoli. Il papa, rifugiato nel castello di Vicovaro, nei pressi di Tivoli, cercò inutilmente di convincere Piero de’ Medici e Alfonso d’Aragona a sbarrare i passi appenninici della Romagna e della Toscana. Di fronte al diniego, Alessandro VI propose un’altra strategia: i sovrani di ogni stato avrebbero dovuto rafforzarsi nei castelli lasciando sciamare i francesi in mezzo ai contadini, che avrebbero subito il saccheggio e a cui sarebbe stato rubato il vitto, il vino e le donne. Quella di Carlo VIII sarebbe stata una distruzione limitata, se non si addiveniva a scontri con le armate. D’altronde la strategia francese era quella di una guerra corta e grossa, con stragi esemplari di piccole comunità civili, stragi che avrebbero spaventato con “la furia franzese” la popolazione aggredita. La discesa di Carlo VIII. La prima vittima della “furia” fu il paese di Mordano in Romagna in cui si era attestata una fragile linea di resistenza dei napoletani. Al comparire degli invasori, gli uomini di Alfonso II se la diedero a gambe. La popolazione di Mordano venne massacrata e furono uccisi anche i bambini e le donne. La prima lezione di terrore fu inferta, il 19 ottobre.

22 F. Braudel scrive: “ Nel 1494, non è più il regno di Francia a intervenire oltralpe, ma proprio un impero francese, se pure impero di fantasia.” (Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino 1966)

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Poi la fiumana francese girò per la Val Padana e imboccò la valle del Taro e giunse a Sarzana, dove si apre la strada per la Toscana litoranea. La repubblica di Firenze aveva fortificato Sarzana e Sarzanello con mura basse e terrapieni a prova del cannoneggiamento, ma gli assalitori non provarono a porre l’assedio alle fortezze, invece puntarono le bocche da fuoco sulla borgata di Fivizzano, la demolirono, sterminarono gli abitanti e dettarono la loro seconda lezione di crudeltà. Era il 26 ottobre. Il giovane Piero de’ Medici, senza consultazione del governo fiorentino, il 1° novembre raggiunse l’accampamento di Carlo VIII in Lunigiana, vide il quadrato svizzero, l’artiglieria moderna e firmò un atto di resa. Ordinò di aprire le porte delle piazzeforti di Sarzana, di Sarsanello, di Pietrasanta, di Pisa, di Ripafratta e di Livorno. Firenze (era il 9 novembre) reagì condannando all’esilio Piero de’ Medici e la sua famiglia, ma si mise nelle mani di Savonarola che esaltò il re di Francia come un novello Ciro, cioè come quel personaggio biblico mandato da Dio a soggiogare il popolo d’Israele in punizione dei suoi peccati. Il frate osannò Carlo VIII, alle porte di Firenze: “Vieni, vieni gioioso e trionfante perché colui che ti invia è quello stesso che per la nostra salute ha trionfato sul legno della croce”. Un gentiluomo francese, al seguito di Carlo V, Philippe de Commynes scrisse “Les memoires”23 dell’imprese del suo re di cui fu testimone oculare, ricordando il clima miracolistico della spedizione, protetta dalla Provvidenza divina. Come dio volle, il 17 novembre, Carlo V entrò in Firenze da Porta San Frediano imbandierata in suo onore, accolto da un’orazione di Marsilio Ficino che lo celebrò come il purificatore della Chiesa. Avvicinandosi a Roma, il suo esercito crebbe di mole per la partecipazione dei cavalieri della famiglia Colonna, in eterna lotta con gli Orsini, la cui banda avrebbe dovuto difendere il papa. Ma gli Orsini disertarono e Alfonso II re di Napoli mandò il suo figlio primogenito Ferrandino con l’armata napoletana a chiudere il passo a Roma. Prima di farlo partire, abdicò e gli cedette la corona. Il nuovo re prese il nome di Ferrante II e il padre si rifugiò in Sicilia. Ferrante II poteva schierare 6.000 cavalli e 12.000 fanti a difesa della città santa. Alessandro VI si chiuse in Castel Sant’Angelo, quando le truppe del nuovo re napoletano abbandonarono la città, cacciati dal tumulto del popolino, che non voleva la guerra intra moenia. Era il giorno di Natale. Il 31 dicembre entrarono i francesi, che puntarono sul fortilizio del papa i loro cannoni, ma non dovettero far esplodere le cariche, perché un uragano fece cadere un tratto delle muraglie dell’ex mausoleo. Anche questo sembrò un intervento divino e il papa si arrese di fronte al volere celeste. L’11 gennaio 1495 sottoscrisse un trattato con il re di Francia che permetteva alle sue truppe di transitare liberamente sul territorio pontificio, in marcia verso Napoli. Il Cielo assisteva l’invasore: tornava il sereno e iniziava un inverno mite senza il quale non avrebbe potuto muoversi la grossa macchina bellica dei gallici.

23 Le Memoires di Philippe de Commynes, scritte fra il 1489 e il 1498, costituiscono 8 libri, di cui sei con la cronaca dei tempi di Luigi XI e due con quella di Carlo V.

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Così raccontò questa avventura Ludovico Ariosto: “Vedete Carlo ottavo che discende/ dall’Alpe, e seco il fior di tutta Francia/ che passa Liri e tutto il regno prende/ senza mai stringer spada e abbassar lancia”.24 Prima di prendere Napoli, ci fu la terza lezione di furia francese, in Ciociaria, dove gli aragonesi avevano degli uomini fedeli. Una piccola truppa sbarrò la marcia di Carlo VIII all’altezza del castello di San Giovanni, feudo della famiglia d’Avalos. L’artiglieria di Carlo sparò palle di ferro contro le mura castellane per quattro ore e aprì le brecce da cui entrarono le soldataglie che uccisero tutti, circa 700 persone. I cittadini di Capua, appresero la lezione e assalirono loro stessi le milizie napoletane e le cacciarono per darsi festosamente agli invasori, il 18 febbraio. Il 22 febbraio, anche Napoli accolse, anema e core, il sedicente discendente dei d’Angiò, senza armatura, ma in veste da cerimonia e con un falcone sul braccio, dando a intendere che si era trattato, dalla Romagna alla Campania, di una partita di caccia. Scoppiò anche la peste nera mentre la gloriosa truppa del giovane Valois se la godeva in città. A Napoli, un altro morbo si affiancò alla peste, il cosiddetto morbo gallico, ovvero la sifilide. Ludovico il Moro si era agitato per niente: la corona ducale gli spettò con regolare investitura emanata dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo, alla morte di Gian Galeazzo Visconti e allora valutò sulla propria pelle, che Carlo VIII minacciava il suo stato, che il crollo aragonese era negativo per Milano e per la Lombardia, che la Francia minacciava Venezia e lo Stato della Chiesa, cioè lo status quo e che anche il regno di Spagna e l’imperatore Massimiliano d’Asburgo dovevano preoccuparsi. Si diede da fare e i potentati da lui stimolati firmarono una intesa il 31 marzo del 1495, detta Lega Santa. Subito la flotta veneziana comparve al largo della costa pugliese e sbarcarono in Calabria gli spagnoli. Carlo VIII lasciò Napoli di gran fretta. Ormai la sua partita di caccia era terminata. A Roma, seppe che il papa si era ritirato a Orvieto. Raggiunse l’Emilia dove, a Fornovo sul Taro, si trovò circondato da un esercito di forze veneziane e milanesi. Lo scontro avvenne il 6 luglio e durò circa un’ora e provocò 3.000 morti, 2000 dell’esercito italiano e 1000 di quello francese. La differenza tra le cifre dei morti dipese dall’usanza dei francesi che uccidevano i cavalieri disarcionati, mentre gli italiani li lasciavano vivi. L’esito della battaglia è considerato incerto dagli storici. Ma il sovrano francese scappò dal campo di battaglia durante la notte e si diresse ad Asti, il che, nella mentalità rinascimentale italiana, significava dichiarare la propria sconfitta. Nella valle del Taro, Carlo VIII perse il suo bottino, valutato in 300.000 ducati, più le salmerie, gran parte dei cannoni, il suo elmo e la raccolta personale di disegni erotici. Il re di Francia non corse in aiuto del duca di Orleans, che difendeva Novara, firmò una tregua con Ludovico il Moro, che gli consentì di rientrare sano e salvo a Grenoble. Novara fu ripresa dal duca di Milano, il regno di Napoli tornò agli aragonesi, che spazzarono via la guarnigione francese rimasta. Carlo visse meno di tre anni dopo la sua dannata spedizione in Italia e morì a ventisei anni, nel 1498, senza discendenza. Gli successe suo cugino con il nome di Luigi XII.

24 Ludovico Ariosto: “Orlando Furioso, canto XXXIII.

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Il corsaro di Gallipoli Nel 1499, il Sultano turco, avendo sistemato Gem in una tomba, non più costretto ad esser prudente con i cristiani, lanciò la sfida a Venezia. La Serenissima era subentrata a Caterina Cornaro nel governo di Cipro; dall’anno prima amministrava anche Nasso. I porti e i cantieri pugliesi di Brindisi e di Otranto armavano le galee con la bandiera di San Marco. Venezia aveva chiuso le porte dell’Adriatico. Bajezid II preparò la propria marina, mentre Venezia, era distratta dalla discesa di Carlo VIII in Italia. Il sultano ingaggiò un pirata di Gallipoli, Ahmed Kemaleddin, che agiva nel mare Egeo, gli affidò missioni politiche e militari degne di un ammiraglio e fu questa, per gli ottomani, una conveniente scelta. Kemaleddin era un razziatore di poca importanza, ma buon marinaio e fu incaricato di portare aiuto, nel 1487, allo sceicco di Granada Abou Abdallah, che i re cattolici, Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia, cacciavano dall’Andalusia. Ahmed Kemaleddin, il cui nome piratesco era abbreviato in Kemal, si avventurò nel Mediterraneo occidentale e trasportò un corpo di spedizione turco a Malaga, incendiò la città e devastò le campagne. Il pirata di Gallipoli sapeva navigare lontano dalle coste. Esaurito il compito ufficiale, saccheggiò le coste catalane, poi quelle delle Baleari, quindi quelle della Corsica, trovando rifugio, durante la cattiva stagione, nel porto di Pisa, pagando, per l’ospitalità, un cospicuo compenso in schiavi e merci. Dopo la conquista spagnola dell’Andalusia e la caduta di Granada, il suo commercio si accrebbe con l’evacuazione degli ebrei e dei mussulmani, cacciati dalla Spagna, che le sue navi sbarcavano sulla costa de Al Andalus (il Maghreb), o a Istanbul, in un continuo andirivieni. Riparava nei porti di Bona e di Tunisi dove vendeva gli schiavi e istaurava rapporti di collaborazione con i pirati del posto. Il suo giovane nipote Muhiddin Piri lo seguiva e osservava scrupolosamente i mari, i porti, le città che incontravano sulla rotta della guerra corsara e ne ricordava gli episodi in un diario e disegnava le coste su pelli di capriolo essiccate. Questo è un brano del diario di Piri: “ Ci sono dei punti d’acqua bassa, a largo della baia di Resereno; Terranova è una fortezza su una terra piatta: Terranova significa Città nuova in Sicilia. Adesso, la parte antistante la città è una spiaggia, un buon riparo in estate. Le navi sono ancorate a tre o quattro miglia distanti da terra attorno alla fortezza. Nel porto menzionato, questa volta, abbiamo sconfitto tre imbarcazioni.”25 Molti anni dopo Piri diverrà un vero ammiraglio della flotta ottomana. Kemal rafforzò la sua squadra mettendosi in società con Camensan, altro pirata di Gallipoli e provarono la loro forza facendo irruzione nel porto di Taranto, dove effettuarono il saccheggio. Attaccarono anche l’Egitto dei mamelucchi devastando il porto di Rosetta. Crebbe la fama del pirata, alla corte del sultano. Nel 1495, Kemal venne innalzato dalla Sublime Porta al grado di capitano (rais) della flotta ottomana. E divenne il primo corsaro dell’impero ottomano. Rappresentò una nuova istituzione del sultanato. Gli fu ordinato di eliminare gli scali veneziani di Zara, Lepanto, Corone e Modone (i luoghi detti “occhi della repubblica” veneta),

25 Piri Reis: “Bahriye”, pag. 493.

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Malvasia, Navarino, Nauplia (detta Napoli di Romania) e Santa Maura. Nel gennaio del 1497, i corsari e i turchi sbarcarono a Modone e bruciarono le imbarcazioni veneziane riparate in quel porto. Non si salvava più alcuna nave cristiana in transito nel Mar Ionio e nel basso Adriatico. Le carceri di Istanbul si riempivano di schiavi. Tutti i veneziani residenti a Costantinopoli furono incarcerati con l’eccezione del mercante Andrea Gritti, amico del Sultano ed utile per gli scambi di informazioni fra i due stati. Kemal proseguì gli arrembaggi affrontando, nel 1498, anche i cannoni delle navi portoghesi nel Mar Rosso.26 Le navi cannoniere erano una novità per i levantini e le loro bocche da fuoco colpivano non solo gli equipaggi, ma danneggiavano gli scafi e le attrezzature della nave assaltata. Ormai Kemal aveva diritto a un piccolo trono. Conquistata Santa Maura o Leucade, la elesse a sua sede. Fece costruire per sé una galea speciale, chiamata Goke, che poteva trasportare 700 soldati e aveva cannoni a bordo, a prua e a poppa e sulle fiancate del bastimento, come la nave portoghese conquistata l’anno prima. Una galea gemella fu armata per il suo secondo, Burak. La prima battaglia di Lepanto Bajezid decise l’attacco da terra alla colonia veneziana di Lepanto. Venezia difese la sua colonia greca inviando una flotta. Affidò il ruolo di Capetanio General da Mar a Antonio Grimani, un finanziere eccellente negli affari, pessimo stratega, ma pur sempre al comando di diciassette galee grosse, di quarantasei galee sottili e quindici navi tonde a cui si aggiunsero quattro galee e due brigantini dei cavalieri di Rodi comandati da Guy de Blachefort. Le navi sbarrarono il golfo di Lepanto. Immediatamente il sultano Bajezid rispose con sessantasette galee, venti galeotte e circa duecento imbarcazioni di piccole dimensioni, agli ordini di Daud Pascià, navi che salparono da Istanbul il 22 luglio 1499, Le raggiunse Kemal, pronto a sperimentare i cannoni della sua Goke. Il capitano generale Grimani sbarrò la navigazione avversaria all’altezza dell’isola di Zonchio (Navarino). Disponeva di una decina di caracche con cannoni. Proprio le galee cannoniere crearono una grande confusione. Erano difficilmente manovrabili perché avevano una sola fila di remi e non si coordinavano con le imbarcazioni più piccole e veloci. Quando le caracche delle due parti in lizza si scontrarono, saltarono le polveri della nave turca e finirono incendiate due galee veneziane e una di quelle di Kemal. Il Capetanio Grimani stava alla retroguardia del suo schieramento e così lontano da non poter dare ordini. La giornata del 12 agosto si svolse nel caos e si concluse con uno smacco veneziano. I maomettani sfondarono la linea veneziana, raggiunsero il porto di Lepanto e assediarono quella roccaforte anche dal mare. Le navi combatterono fra loro fino al 25 agosto, ma nel frattempo la guarnigione di Lepanto capitolò ai turchi. 26 I portoghesi avevano inventato la caravella, una imbarcazione a remi e a vela di medio tonnellaggio per la pesca e il cabotaggio. Nel 1415, avevano conquistato Centa, la città marocchina sullo stretto di Gibilterra e controllarono le coste atlantiche dell’Africa, insediandosi negli arcipelaghi disabitati di Madera e delle Azzorre, tra il 1419e il 1431. Nel 1445, giunsero all’arcipelago di Capo Verde e nel 1482 superarono la foce del fiume Congo. La flotta di Vasco de Gama, nel 1499, circumnavigò il continente nero e raggiunse l’India. Lo scopo di questa esplorazione su mari lontani era motivata dalla volontà di raggiungere le miniere aurifere del Sudan e dall’approvvigionamento delle spezie orientali.

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I cavalieri gerolomitani, sdegnati per il comportamento fellone dell’ammiraglio veneziano, tornarono a Rodi. Grimani fu richiamato in patria come capro espiatorio e sostituito da Melchiorre Trevisan, che ebbe breve vita. Mori di febbri malariche quell’anno stesso. Ecco come Grimani ricomparve a Venezia. Si avvicinò al molo della città su una barca, fra quattro dignitari, nottetempo, con le catene ai piedi, che lui stesso si era messe. L’attendeva una folla di duemila persone con le fiaccole, tra cui suo figlio, il cardinale Giovanni. L’ex capitano generale scese a terra: vestiva un mantello scarlatto sopra una veste paonazza, Le calze, su cui stringevano i ferri, erano rosse e il berretto in testa era nero. Non si tagliava la barba da quindici giorni. Fu chiuso in prigione e interrogato dall’avvocato Nicolò Michel. Risultò che le sue colpe non erano gravi per cui la condanna fu mite: confino nell’isola croata di Cherso, da cui si allontanò ben presto per recarsi a Roma ospite del cardinale suo figlio. Nell’anno 1500, Kemal Reis svernò a Lepanto, riparando le sue navi e le dieci galee veneziane prede di guerra. Intanto le truppe ottomane sulla terraferma completavano la campagna contro le roccaforti veneziane della costa greca e dalmata e la cavalleria di Scander, pascià della Bosnia, passò l’Isonzo bruciando e saccheggiando i villaggi del Friuli. Il nuovo ammiraglio veneziano, Benedetto Pesaro, coadiuvato da navi spagnole comandate da Consalvo di Cordova, ingaggiò di nuovo la lotta con le navi ottomane e fece scorrerie sulle terre dell’Egeo, riuscendo a riprendere alcune delle posizioni perdute e indusse la flotta nemica a rientrare a Costantinopoli. La discesa di Luigi XII in Italia Il re Luigi XII di Francia aveva le stesse ambizioni del suo predecessore e reclamava i suoi presunti diritti ereditari. Pretendeva il ducato di Milano, tenuto da Lodovico il Moro, rivendicando la parentela coi Visconti (sua nonna era Valentina Visconti) e il regno di Napoli, che, per lui, era usurpato da Federico II d’Aragona ed era invece stato ceduto dai suoi lontani parenti D’Angiò alla corona di Francia. Insomma voleva invadere l’Italia come suo cugino Carlo VIII. Prese una serie di misure prima di muovere l’esercito oltre le Alpi. Placò le sue divergenze con l’Austria, con l’Inghilterra e con la Spagna e cercò gli interessi convergenti delle potenze d’Italia. Acquistò i favori di Alessandro VI, facendo duca di Valentinois Cesare Borgia,il figlio prediletto di questo papa, vero affettuoso papà. Si collegò con Filiberto duca di Savoia per poter radunare le sue truppe, affidate al comando di Gian Giacomo Trivulzio (grande nemico del duca di Milano) in Asti. Ottenne il consenso di Venezia, che considerava Lodovico il Moro un uomo doppio e strinse un’alleanza militare con l’esercito veneziano concedendo alla repubblica di San Marco la conquista della città di Cremona, sita nel ducato milanese. Nell’agosto del 1499, i francesi iniziarono l’offensiva in Lombardia. Pochi giorni prima, era cominciatala guerra turco – veneziana intorno a Lepanto. Il 2 di settembre, in Italia, dopo modesti insuccessi militari, in cui si sparse pochissimo sangue, il duca di Milano scappò in Tirolo e tutte le città del ducato giurarono obbedienza alla

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Francia, salvo Cremona che spettò ai veneti. Luigi XII attendeva notizie a Lione e quando ne ricevette di favorevoli fece solenne ingresso a Milano, il 6 di ottobre. A novembre, il re di Francia concedeva alcune sue truppe a Cesare Borgia, che si aggiungevano a quelle di suo padre, il pontefice, per prendere la Romagna. L’anno seguente, anno del Giubileo cristiano, Milano tornò, per pochi giorni, a Lodovico il Moro, ma il duca, tradito dagli svizzeri nella battaglia di Novara, rimase prigioniero dei francesi e confinato nel castello di Loches nel Berri, dove passò gli ultimi otto anni della sua vita. L’Anno Santo 1500 L’Anno Santo registrò il trionfo di Adriano VI: le sue casse si riempirono di oro per la vendita delle indulgenze, che venivano concesse anche a coloro che non facevano il pellegrinaggio a Roma, purché pagassero un terzo di ciò che avrebbero speso nel viaggio; il papa ebbe salva la vita, nella festività di San Pietro, quando una tempesta di vento e fulmini rovesciò un camino del Vaticano, che ruppe il tetto e penetrò nella sua stanza uccidendo Lorenzo Chigi, gentiluomo senese e due altre persone, ma lasciò il Borgia vivo, sotto le pietre; fu soddisfatto oltre che del Giubileo dalla conquista della Romagna, salvo Faenza, da parte di suo figlio. Nel 1501, il re di Francia, ormai signore di Milano e di Genova, si accinse alla conquista del Meridione. Il re di Napoli, Federico III dovette chiedere aiuto a suo cugino Ferdinando I, re d’Aragona, padrone della Sicilia e re di Spagna, il quale promise l’appoggio del suo esercito comandato dal Gran Capitano Consalvo Fernandez di Cordova, ma tradì l’impegno e in maniera occulta tramò con la Francia (trattato di Granada dell’11 novembre 1500) per la spartizione a metà dell’Italia meridionale. Ferdinando III fu talmente deluso dal comportamento del suo parente che, una volta sconfitto e ramingo, si ritirò in Francia in disprezzo della Spagna. Ma affinché non si creda che il conflitto fosse solo uno scontro di eserciti e di menzogne, ricorderemo il sacrificio di Capua, assediata dai francesi, con le parole del Muratori: “Ma o sia che intanto si rallentasse la guardia della città; o che qualche traditore giudicando di farsi benevoli gli assedianti, gl’invitasse a salir per le mura. Certo è che ne dì 24 luglio entrarono i franzesi furibondi per un bastione nella misera città, e le diedero il sacco, colla strage, che dice fin di ottomila persone, e chi di sole tremila. Il Buonaccorsi, forse più veritiero degli altri, parla solo di duemila. Non si può leggere senza orrore la crudeltà usata da i vincitori, che non contenti, in tal congiuntura, dell’avere dei cittadini e de’sacri arredi delle chiese, sfogarono la loro libidine sopra le donne d’ogni condizione, senza neppur risparmiare le consacrate a Dio, con essersi trovate alcune che, per non soggiacere alla lor violenza, si precipitarono nel fiume e ne’ pozzi: Non poche d’esse furono condotte prigioni e vendute poscia in Roma. Il duca Valentino,che co’ i franzesi si trovava a quella impresa, fattane una scelta di quaranta delle più belle, le ritenne per sé, per non essere da meno dei turchi.”27 Gli harem cristiani di Roma, purificata dal Giubileo, sono rievocati in questa cronaca.

27 Lodovico Muratori:

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La sconfitta di Kemal Reis La battaglia nel mare Egeo tra veneziani e ottomani intanto proseguiva. La flotta veneziana di Benedetto Pesaro e quella spagnola di Consalvo di Cordova, che messi insieme superavano le cento galee, crebbe di numero, nella primavera del 1501, quando si affiancarono tredici galee con 2000 uomini dello stato pontificio agli ordini del vescovo Jacopo Pesaro, fratello di Benedetto. Nel 1502, si riunirono, nell’isola Cerigo, 50 galee veneziane, 13 galee pontificie più alcuni brigantini, 3 galee gerosolimitane comandate dal cavaliere di Scalenghe e 4 galee francesi comandate da Prégeant de Bidoux, per colpire da qualche parte le coste turche, ma, dopo che il capitano francese lasciò la squadra, per raggiungere il suo re Luigi XII a Napoli, i due fratelli Pesaro indicarono come loro meta l’isola di Santa Maura del pirata Camalicchio, (nome italiano di Kemal Reis) per stanarlo definitivamente e liberare le vie dell’Adriatico dalle sue scorrerie. L’isola di Santa Maura o di Leucade, posta fra Corfù e Cefalonia, è unita alla terraferma dell’Epiro da ponti di legno. Kemal Reis l’aveva eletta a suo regno trovandola adatta all’accoglienza di una accozzaglia di predatori, di mercanti e di artigiani. L’isola è montuosa, ma con vaste campagne, misura 30 miglia italiane di lunghezza e 16 di larghezza ed ricca di sorgenti d’acqua dolce. Nel 1204, stava nel possesso del veneziano Zaffa Orsino ed era poi confluita nei possedimenti della repubblica di San Marco, fino al 1497, anno in cui fu presa dal pirata di Gallipoli. L’isola era densamente abitata per l’immigrazione dei giudei, cacciati dalla Spagna e ospitati dal pirata loro traghettatore. Per Kemal Reis era un paradiso. Il 23 agosto del 1502, le navi pontificie si collocarono nell’istmo, sbaragliarono i legni dei pirati e abbatterono i ponti in modo da tagliare le comunicazioni; le navi veneziane puntarono sulla fortezza di Santa Maura difesa da una guarnigione di 2500 soldati turchi, oltre che dai pirati. Sotto la muraglia della città, munita di bastioni e protetta da una fortezza irta di cannoni, si ritrovarono i crociati e da ogni lato, chiusero le vie di fuga agli assediati condannandoli alla fame. Sopraggiunsero fanti e cavalieri islamici dell’Epiro, ma non poterono portare né rinforzi, né vettovaglie perché il ponte sull’istmo era stato tagliato. Rendendosi conto di essere isolati, i giannizzeri chiesero la resa, ma i pirati, sapendo che per loro non ci sarebbe stata grazia, li imprigionarono. La difesa si indebolì per la rissa tra i due gruppi, sicché fu possibile agli assedianti far cedere la fortezza, il 29 agosto. Ai giannizzeri venne concesso il trattamento di prigionieri di guerra, ma i pirati, o corsari che dir si voglia, vennero impiccati, mentre esultavano i pugliesi, i calabresi , i siciliani, che venivano liberati dalle catene della schiavitù. Benedetto Pesaro issò le bandiere di Venezia e della Chiesa romana sulle torri di Santa Maura. Kemal Reis non fu trovato. Infatti i rematori lo avevano portato lontano.

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Giulio II e il riscatto dell’Italia Francesi e spagnoli, appena si furono impadroniti del regno di Napoli, litigarono per il possesso di alcune contrade di confine e combatterono fra loro per due anni e mezzo. L’11 febbraio del 1504, firmarono una tregua a Lione, che sancì il pieno possesso della Spagna sul Meridione d’Italia e la Sicilia. I francesi rimasero a Milano e a Genova. Venezia prese Cremona. Un nuovo papa, Giulio II decise di non cedere il ducato di Romagna, assalito dai veneziani, dopo la caduta di Cesare Borgia. Il nuovo pontefice chiese alla Serenissima di restituire le città romagnole in cambio di una alleanza contro la Francia, che avrebbe permesso a Venezia di rifarsi sulle terre lombarde. Inoltre, insieme, avrebbero cacciato lo straniero da Milano e da Genova, avrebbero rafforzato uno stato pontificio per garantire sia la libertas Ecclesiae, sia le libertà d’Italia e avrebbero innalzato una barriera alle pretese universalistiche dell’Impero germanico, intrise di Medioevo, con cui gli Asburgo intendevano, in verità, espandersi nel Friuli. Quella di Giulio II era la visione ampia di un umanista bellicoso. Venezia non raccolse l’offerta e corse ad occupare Rimini e Faenza, mentre il papa riacchiappava Imola e Forlì. Contemporaneamente, Giulio II frenava le ingerenze della repubblica fiorentina sull’Umbria settentrionale e assoggettava Perugia. Poi proseguì su Bologna che anch’essa, nel 1506, cadde sotto l’autorità della Santa Sede. Luigi XII capì che erano in crisi i suoi possedimenti italiani, quando anche Genova, nel 1507, tumultuò contro la guarnigione francese. L’imperatore germanico Massimiliano effettuò una sortita, ma il suo esercito fu battuto nel Cadore dalle truppe veneziane comandate da Bartolomeo d’Alviano. Con questa vittoria, Venezia si aggiudicò l’area di confine orientale fra l’Italia e l’Austria. Venezia divenne l’ostacolo degli stranieri che volevano spartirsi il Veneto. La Francia cambiò strategia. Con il trattato di Cambrai, il 10 dicembre del 1508, firmò con l’Impero una alleanza, a cui aderirono alcuni cardinali, il regno di Spagna, il regno d’Ungheria – Boemia e gli stati di Firenze, Ferrara e Mantova, tutti insieme contro Venezia. I partecipanti alla Lega divisavano la seguente spartizione della Serenissima: alla Francia la Lombardia orientale, all’Impero il Veneto, il Trentino e il Friuli, alla Spagna le postazioni adriatiche della Puglia occupate ancora da Venezia, all’Ungheria la Dalmazia, allo stato pontificio i territori di Romagna, al ducato di Savoia l’isola di Cipro, al duca di Ferrara il Polesine, al marchese di Mantova le città Peschiera e Asola, a Firenze la città di Pisa. La primavera seguente avrebbe visto sciamare le milizie degli stati suddetti verso la città lagunare. I veneziani affrontarono i nemici nella battaglia di Agnadello (14 maggio 1509) e subirono una pesante sconfitta, che fece perdere alla Repubblica gran parte dello “Stato da terra”. Il patto di Cambrai non era stato firmato da Giulio II, ma dal legato pontificio in Francia, il cardinale George D’Amboise, quindi il papa si senti libero di riproporre a Venezia l’alleanza che gli era stata rifiutata nel 1504 allo scopo di espellere la Francia dalla Lombardia: i due più forti stati italiani firmarono un trattato

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il 24 febbraio 1910 e, nel 1511, mossero guerra a Luigi XII, sostenuti dalla Spagna, dall’Inghilterra, nazioni tradizionalmente ostili ai re francesi. Giulio II si alleò con il regno di Napoli e arruolò gli svizzeri del vescovo di Sion nel Vallese, Mattaus Schinner . La guerra contro la Francia Luigi XII si rese conto che doveva affrontare in una battaglia decisiva l’esercito pontificio – veneziano, prima che gli svizzeri irrompessero nel milanese, prima che Ferdinando di Spagna assalisse la Navarra e che Enrico VIII d’Inghilterra attaccasse in Normandia. Allestì una forza di circa 13.000 combattenti a cavallo, 18.000 fanti con un nerbo di lanzichenecchi e 18 pezzi d’artiglieria a cui si sarebbero aggiunte le truppe e i cannoni di Mantova, di Ferrara e di Urbino. La forza francese fu comandata dal nipote del re, il ventiquattrenne Gaston de Foix, duca di Nemours, un capitano audace e troppo irruento. L’esercito che gli si contrappose contava 20.000 uomini. Gaston de Foix attaccò subito Brescia e se ne impadronì, massacrando i soldati del presidio veneziano e, si dice, circa 6.000 civili. Sapeva di essere in superiorità numerica e si gettò contro le milizie pontificie e spagnole. Voleva spazzarle via per discendere come una folgore su Roma, dove avrebbe detronizzato Giulio II e predisposto la elezione di un papa francese. Dopo di che avrebbe conquistato il regno meridionale per consegnare a suo zio Luigi penisola intera. I due eserciti si scontrarono nei pressi di Ravenna, il 14 aprile 1512. La mischia durò dalle otto del mattino alle quattro del pomeriggio. L’artiglieria ferrarese di Alfonso d’Este fu decisiva per la vittoria di Gaston Foix, che però lasciò la sua vita in mezzo a un mucchio di cadaveri valutato in diecimila di ambo le parti. Giulio II era un papa risoluto, che gridò: “Fuori i barbari!”e scagliò gli svizzeri di Schinner su Milano rimasta indifesa. Il vescovo di Sion ne ebbe in cambio il cappello cardinalizio. Rimini, Cesena e Ravenna tornarono sotto la signoria papale, Bologna fu riconquista per la Santa Sede dal duca di Urbino, dopo un suo cambio di bandiera. Genova si era armata contro i francesi e aveva proclamata la propria indipendenza eleggendo doge Giovanni Fregoso. L’esercito di Oltralpe tornò indietro impotente, senza il suo giovane comandante. La notizia della cacciata dei francesi giunse il 22 di giugno al papa con una lettera di Schinner, che diceva: “i sacrileghi, scismatici e pazzi uomini di Luigi XII sono stati umiliati”. Tra il 1512 e il 1513 avvenne la restaurazione delle dinastie: gli Sforza tornarono a Milano, i Medici a Firenze, i Fregoso a Genova. Giulio II della Rovere, malato e vecchio, morì nella notte fra il 22 e il 23 febbraio 1513. Il 14 settembre 1513, Luigi XII, con il trattato di Lione, rinunciò definitivamente alla Lombardia. Si consolidò l’egemonia spagnola sull’Italia meridionale e Venezia impiegherà tre anni a riconquistare la sua terraferma, ma ci riuscì.

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Il pirata di Lesbo. Un giannizzero era uno schiavo che militava nella guardia speciale del Sultano. Era uno rapito nei paesi cristiani, quand’era giovinetto, allevato al culto dell’Islam fino al fanatismo e addestrato alla guerra. La caserma era la sua famiglia, non poteva sposarsi finché non arrivava alla pensione. Giacobbe (Ya qub) faceva parte di questa falange e, ormai pensionato, si era ritirato a Mitilene, nell’isola di Lesbo a fare il vasaio. L’isola era caduta in mano alla Turchia nel 1462. Giacobbe scelse per moglie una greca, vedova di un prete ortodosso di nome Catalina, da cui ebbe quattro figli maschi e due femmine. I maschi, in ordine di anzianità, si chiamavano Aruj, Elias, Isaac, Khizr. Il primogenito si occupò del commercio delle anfore e ceramiche prodotte da suo padre, il secondogenito studiò da iman, il terzogenito accompagnò il maggiore nei viaggi commerciali con i vasi a bordo di un piccolo vascello, il quart’ultimo rimase a bottega con il padre. La galeotta di Aruj navigava lungo la costa dell’isola di Candia, quando incrociò la “Nostra Signora della Concezione”, galeone dei cavalieri di Rodi, in caccia di navi da predare. La imbarcazione del mercante di Lesbo non poteva sfuggire alla biremi cristiana, in quella giornata senza vento. Quando fu raggiunta, le palle di cannone e le frecce degli arcieri, decimarono la ciurma. Isaac venne ucciso, Aruj fu catturato e il suo vascello affondò tra le fiamme. Il primogenito di Giacobbe servì al remo sui vascelli di Pierre d’Aubusson, ma riuscì a fuggire o fu riscattato, dopo due anni di schiavitù. Si arruolò nella flotta di Kemal e ben presto ottenne il comando di una sua galeotta di 18 banchi di remi con cui si diresse verso Rodi per vendicare la morte di Isaac e sulla costa dell’isola colpì crudelmente i contadini; poi scappò e riuscì ad allontanarsi, beffando gli inseguitori. Dopo la battaglia di Lepanto, seguì Kemal, che aveva ricostruito, nei cantieri di Istanbul, la flotta distrutta. Le navi dei pirati, quando arrivò la notizia che il Gran Maestro Pierre d’Aubusson era morto (nel 1505), si presentarono ancora una volta nel mare di Rodi e assaltarono la fortezza dei Cavalieri di San Giovanni, che non cedette. Poi , mentre Kemal navigava nel Mar Rosso, Aruj di Mitilene proseguì la sua avventura scorrendo sulle coste pugliesi e catturò un certo numero di navi commerciali, ma non poté tornare in patria, perché l’isola di Lesbo era stata riconquistata dai veneziani. Era ormai conosciuto dai cristiani con il nome di Oruccio Barbarossa: Oruccio è una italianizzazione di Aruj e Barbarossa indica che era di pelo rosso. Lo accompagnò, nelle sue spedizioni, quando fu l’ora, il fratello più piccolo, Khizr. I due cercarono un rifugio lontano dal mare Egeo, troppo controllato dai veneziani e feudo di Kemal Reis, da cui Aruj volle essere indipendente. Nel 1505, Aruj si rivolse a Musaly Mohamed, sultano di Tunisi e lo convinse ad adottare una flotta corsara e stipulò un accordo con lui. Aruj e Khirz avrebbero protetto la costa tunisina dagli spagnoli, in cambio del permesso a entrare nel porto di quella città, chiamato la Goletta, che presentava molti vantaggi: un bacino chiuso ma di pescaggio sufficiente per le sue imbarcazioni, acqua abbondante nelle vicinanze, un buon mercato per

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vendere gli schiavi e le merci rapinate, un luogo dove aspettare i riscatti dei prigionieri. Masaly Mohamed si riservò la decima parte di ogni incasso dei suoi corsari. Gli spagnoli possedevano ancora una torre di guardia con una piccola guarnigione sull’isola di Djerba nel golfo di Gabes; la abbandonarono, dopo un assalto piratesco in cui morì Garcia de Toledo, figlio del duca di Alma. Il re di Tunisi donò quell’isola al suo corsaro, attribuendogli il titolo di governatore di Djerba. Aruj si rintanò nel piccolo territorio sabbioso e piatto. Una laguna interna si apriva con un canale e, lì, le sue quattro galee rimanevano invisibili dal mare. Con Aruj Barbarossa, nel Mediterraneo, si insediò una forza corsara tunisina, che sostituì quella ottomana di Kemal Reis, il quale rimaneva al servizio del sultano d’Egitto per combattere i portoghesi che transitavano verso i lidi dell’India. Salvo brevi riposi invernali, fu sempre sul suo legno per cinque anni, finché una tempesta nel mare di Naxos distrusse la sua nave e lui annegò, nel dicembre del 1510. Aruj Barbarossa rimase il più forte pirata del Mediterraneo. Il cardinale de Cisneros e l’africanismo spagnolo Dopo la cacciata dei mori dalla Spagna, l’ambizione della Castiglia si rivolse alla sponda opposta del mare per garantire il traffico tra i porti del suo meridione e i mercati subsahariani. I pirati presenti negli anfratti portuali del Marocco e dell’Algeria andavano costituendo una potenza politico-militare, alleati con i Mori di Tlemcen e con i re della Cabilia. Francisco Ximenez de Cisneros, vescovo di Toledo, nel 1495, tutore di Giovanna d’Aragona e reggente di Castiglia, nel 1506, nominato cardinale da Giulio II, valutò necessaria una spedizione militare per creare immediatamente delle stazioni sulla costa berbera, che servissero poi ad una espansione della Castiglia nella direzione africana. Si era formata, in lui, una certa idea del Nord Africa attraverso i racconti di Jerome Vianel, un viaggiatore che sapeva descrivere e disegnare i luoghi dei suoi itinerari. Costui indicò un gran porto, chiamato Mazalquivir, cioè il Gran Porto, quale punto di avvio di una politica di penetrazione nella terraferma. I discorsi fra il cardinale e il viaggiatore originarono una ideologia, definibile come africanismo spagnolo. La Spagna del cardinale fu la prima nazione europea che tentò l’imperialismo in Africa. Mazalquivir era una tappa dei naviganti veneziani per commerciare con il regno di Tlemcen, che presentava il suo mercato di scambio a Orano, città un miglio a oriente del Gran Porto. L’umanista Alvar Gomez de Castro, nella sua opera “De las hazanas de Francisco Jimenes de Cisneros” ci tramanda le descrizioni di Vianel. Di Mazalquivir, de Castro ci lascia la seguente definizione: “In nessuna altra parte della costa africana le imbarcazioni potranno essere sistemate in modo più sicuro e conveniente”. All’occupazione di Mazalquivir, sarebbe seguita da quella di Orano. Di Orano, Castro dice che è “situata su una collina elevata e sicura, protetta da torri e muraglie e atta per la sua posizione, essendo bagnata dal mare da un lato,e circondata dall’altro da giardini e da fonti rinfrescanti, a suscitare la cupidigia di

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chiunque.”28 Il cardinale cedette alla tentazione di conquistare un impero a sud di Granada, piuttosto che a ovest dell’oceano. Inviò un messaggero a re Ferdinando per chiedergli i mezzi necessari all’impresa, ma il re rispose che la guerra di Sicilia aveva esaurito le sue finanze e che, pur apprezzando l’intenzione, non aveva il denaro per sostenerla. Jimenes de Cisneros anticipò con i suoi fondi l’allestimento dell’armata. Affidò il comando delle forze di terra a Fernando di Cordova, che ebbe come guida Jerome Vianel. Alla terza settimana di settembre del 1505, la flotta, agli ordini di Raymond de Cardonne, prese il largo da Malaga. La flotta di Cardonne non entrò subito nella baia di Mazalquivir, perché una moltitudine di mori difese le spiagge, ma , dopo alcuni giorni di scontri, le orde degli indigeni si eclissarono dietro i monti e gli spagnoli posero l’assedio alla fortezza della città. La guarnigione, temendo prossima la caduta, propose una tregua di tre giorni, al termine dei quali si sarebbe arresa, se il re di Tlemcen non fosse giunto in soccorso. L’aiuto richiesto non arrivò e la milizia moresca aprì le porte. Gran parte della popolazione abbandonò le case portando con sé quello che poteva caricarsi sulle spalle, senza subire violenze da parte degli spagnoli. L’armata di Fernando di Cordova rientrò in patria lasciando un migliaio di uomini come forza di occupazione e la conquista di Orano fu rinviata. La prima spedizione africana era costata al cardinal de Cisneros tremila scudi d’oro, che adesso la corona doveva restituirgli. Don Fernando de Cordova fu nominato governatore di Mazalquivir e si trovò in guerra con i mori, che attaccavano continuamente il suo presidio. Esasperato, con tremila fanti e duemila cavalieri, avanzò verso Orano per infliggere una lezione, ma fu circondato da una gran massa di nemici, che fece a pezzi i suoi uomini. Le guerre nel Nord Africa Il cardinale de Cisneros non sopportò l’affronto. Impiegò due anni ad ammassare il denaro, a radunare le truppe e a equipaggiare la flotta. Il 13 maggio del 1509, dieci galee, ottanta navi grosse e una gran quantità di barche e scialuppe con una truppa a bordo di dieci mila fanti, quattromila cavalieri e quattrocento volontari, presero il largo e il 17 maggio, giorno dell’Ascensione, giunsero nel gran porto algerino all’ora del tramonto. Il cardinale passò la notte senza dormire e decise di prendere lui il comando dell’armata, pur avendo settantadue anni. La mattina del 18 arringò l’esercito: “Voglio espormi per primo ai pericoli, per spartire con voi la vittoria. Ho ancora abbastanza forza e zelo per andare a piantare questa croce, stendardo reale dei cristiani, che voi vedete portato innanzi a me, in mezzo ai battaglioni nemici, felice di combattere e anche di morire con voi. Un vescovo non può impiegare meglio la sua vita che in difesa della religione. Molti miei predecessori hanno avuto questa gloria ed io avrò l’onore di imitarli.”29

28 Alvarez Gomez de Castro: “De las hazanas de Francisco Jimemes de Cisneros” (1569), Madrid 1894. 29 Alvarez Gomez de Castro: “De las hazanas de Francisco Jimenes de Cisneros (1569), Madrid 1894

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Orano era fortificata con diversi torri e tortuose muraglie, che impedivano l’accesso alla città posta in alto sulla collina. Ma l’attacco voluto da Jimenes de Cisneros fu fulmineo: Pedro de Navarro mosse la fanteria e l’artiglieria dalle cime intorno all’abitato; mentre le navi tuonavano con i cannoni dal basso e le ciurme sbarcarono con centinaia di scialuppe. Orano cadde. Quattromila difensori furono trucidati e ottomila vennero presi come schiavi; invece i cristiani perdettero solo trenta uomini. Il cardinale raggiunse la città dal mare il giorno dopo il massacro. Resisteva ancora l’alcazar, ma gli ultimi difensori si arresero a Jimenes, che concesse loro di scappare a Tlemcen. Il bottino fu notevole e il cardinale trattenne per sé soltanto alcuni libri arabi. Le moschee furono consacrate a Santa Maria della Vittoria, a San Giacomo e a San Bernardino. Iniziarono subito opere di fortificazione più moderne, l’apertura di un ospedale e di due conventi religiosi. Orano venne rifondata come una città spagnola, frontale a Cartagena: Spagna, sulla sponda opposta. Avanzando sulla costa verso levante, nel 1510, gli spagnoli stabilirono un protettorato sul sultanato di Algeri. In Algeri costruirono un forte, strapieno di cannoni, munizioni e viveri, sull’isolotto di Beni Mezegren, all’ingresso del porto, (el Penon de Argel), da cui puntavano le bocche da fuoco sul palazzo reale, sulle case e sulle imbarcazioni alla rada. Poi cacciarono il re da Bougie, capitale della Cabilia e si insediarono in una città rimasta famosa per la sua fabbrica di candele, tanto che i francesi chiamano ancor oggi “bougies” le candele. Più a levante,tentarono anche di riprendersi Djerba dei fratelli Barbarossa, ma tornarono indietro sconfitti e perdendoci gran parte degli uomini. I Barbarossa screditarono con la loro vittoria l’armata spagnola e assursero a notevole fama nel Maghreb. L’anno dopo, una flotta con le bandiere di San Giorgio, comandata da Andrea Doria, attaccò i predoni nel porto di Tunisi con dodici galee. Dopo una breve battaglia, i genovesi affondarono e bruciarono gran parte dei velieri di Barbarossa. Aruj rimase ferito e si rifugiò a Djerba insieme a Khirz. Gran numero degli altri furono presi e portati a Genova.30 Lo sceicco di Bougie, cacciato dagli spagnoli di Pedro Navarro, con una galea si recò a Djerba, nel 1512 e chiese aiuto pirati . Spiegò al Barbarossa che poteva disporre di tremila mori della montagna, gli zuavi, per cacciare gli occupanti, ma aveva bisogno di attaccare gli spagnoli anche dal mare. Il Barbarossa in quel tempo aveva con sé più di mille turchi, che si erano arruolati nella sua ciurma, attirati dai vantaggi della pirateria e disponeva di dodici galeotte, otto di sua proprietà e quattro dei capitani turchi. Accettò l’incarico dello sceicco di Bougie. Il giorno della partenza non si alzò un filo di vento. Le navi impiegarono quindici giorni, nella bonaccia, per andare, da Djerba a Bougie, percorrendo cinquecento miglia a forza di remi. Entrarono nella baia della capitale della Cabilia ad agosto del 1514. Aruj predispose l’artiglieria e per otto giorni bombardò la torre dove era chiusa la guarnigione spagnola. Al nono 30 Francisco Lopez de Gomara: “Cronica de los muy nombratos Omiche y Haradin Barbarroja” , pubblicata nel “Memorial historico espanol, vol.VI; tradotta in francese da Sander Rang e Ferdinand Denis con il titolo: “Foundation de la regence d’Alger. Histoire de Barberousse”, Paris 1837.

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giorno, una mina aprì una breccia nella mura. Il pirata comandò l’assalto finale, ma un colpo o di archibugio , o una palla di cannone, gli troncò il braccio sinistro all’altezza del gomito. In quel frangente, gli uomini del vicerè di Mallorca, Miguel de Guerrea, stavano arrivando di rinforzo agli assediati e Aruj si ritirò a Tunisi, dove sostituì l’arto tagliato con una protesi d’argento. Un brutto periodo di Aruj Barbarossa I due fratelli ricostruirono una flotta leggera. Aruj non intendeva rimanere chiuso nella laguna di Djerba. I pirati partirono da Tunisi nell’agosto del 1513 e, navigando, incrociarono una flottiglia di pescatori da cui appresero che, a Djidjelle in Cabilia, i genovesi avevano costruito un castello e la facevano da padroni sui berberi. Puntarono su quel luogo, lo presero e scoprirono intorno una zona costiera ricca di golfi e di anfratti marini. Le alture, alle spalle, erano coperte di boschi di querce da cui prendere il legname da costruzione delle navi. Ad Aruj Barbarossa apparve un nuovo regno. Il regno sarebbe stata la Cabilia intera, se il pirata fosse riuscito a sconfiggere gli spagnoli a Bougie e a detronizzare lo sceicco, che gli aveva chiesto aiuto. Il pirata, dopo aver trascorso l’autunno e l’inverno nella tana di Djidjelle, decise di tentare l’impresa. Parti con i suoi uomini, ma trovò il nemico in gran forze ad aspettarlo. Lo scontro avvenne con la flotta spagnola partita da Cartagena che strinse le navi dei pirati contro la spiaggia. Aruj diede ordine di abbandonarle e di bruciarle. Si salvarono solo tre navi piratesche, con i remi fracassati. I due fratelli si divisero, il più anziano tornò a Djidielle, dove voleva recuperare delle imbarcazioni di riserva e il minore a Tunisi. Il fratello minore Khirz, a Tunisi, radunò una nuova flotta: comprò quattro galee da combattimento e accettò la proposta dei corsari tunisini di unirsi alla sua squadra, con altre sette navi. Doveva provvedere a grandi spese e procurarsi ricche prede. Spiegò in mare tutte le sue vele. Incrociò ventotto navi cristiane che navigavano in convoglio. Questi mercanti (le fonti arabe non specificano di quale nazione) si arresero senza combattere e i mussulmani presero tutto: imbarcazioni, schiavi e tanto grano. Il pirata proseguì la caccia nel mare siciliano e si procurò altro bottino. Incaricò un suo capitano, Courd-Ogli Reis, di portare i carichi di merce e gli schiavi a Tunisi, mentre lui andò a congiungersi al fratello a Djidielle. Ai primi d’agosto dell’anno dopo, il 1516, Aruj e Khirz tentarono di far cadere la difesa spagnola di Bougie. Arrivarono di notte insieme a 3.000 turchi e bruciarono le imbarcazioni che stazionavano in quel porto. Abbattuto un piccolo forte all’ingresso dell’ansa, assediarono il secondo castello sulla costa, scaricandoci addosso le palle dei loro cannoni, che bombardarono fino alla fine del mese, quando cominciò a piovere sulle montagne e i montanari berberi, che avevano sostenuto da terra i pirati, ai primi di settembre, rientrarono per l’aratura dei campi. Intanto cinque galeoni, capitanati dallo spagnolo Martin de Rende, navigavano verso Bougie, per portare i soliti rifornimenti autunnali e per avvicendare la guarnigione. Gli assedianti lo vennero a sapere dalle loro scolte e fecero appena in tempo a riportare a bordo le

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preziose artiglierie e risalirono anche loro. Presero il largo e andarono a rinchiudersi a nella tana. Aruj si sentì beffato dal destino, per la seconda volta. Il cardinal Jimenes de Cisneros seguitava a difendere la sua Africa e fu tenace anche nella guerra contro Barbarossa, come si evince da una sua lettera a Lopez de Ayala, datata 12 agosto 1516: “ Il 26 luglio scorso, giorno di Sant’Anna, le nostre galee, seguite da alcune navi piccole, avvistarono vicino ad Alicante quattro grandi fuste moresche, che trasportavano molta gente, che vedendo le nostre galee si apparecchiarono al meglio e cominciarono una battaglia la più brava che mai si vide e fu alla pari da ambo le parti: finalmente i nostri si diedero un tal buono impeto, che sbaragliarono e distrussero i nemici e la loro armata e uccisero quattrocento di loro e ne catturarono, quantunque pochi, che erano determinati a difendersi, che preferivano morire piuttosto che essere presi. E deve sapere Sua Altezza che quella armata turca, che fu sbaragliata dai nostri, era quella che aveva schiavizzato molti cristiani in Calabria e li aveva venduti a Djerba, e aveva fatto molti danni in tutti i mari.”31 Le navi di Barbarossa venivano individuate come turche perché si profilava la contesa fra Madrid e Istanbul, luoghi così lontani l’uno dall’altro che rendevano confuso quello che c’era nel mezzo, vale a dire i pirati della costa berbera. Però le imprese dei Barbarossa avevano suscitato anche l’interresse Di Selim I, sultano turco, rimasto privo di un grande reis marinaro. Selim inviò un suo emissario a Tunisi per accaparrarsi Khair come capitano ottomano. Il figlio del giannizzero incontrò Muslik-ed-Din, ambasciatore di Selim, che gli offrì la protezione della Sublime Porta. La risposta di Khair rimase in sospeso. Il re di Algeri Nel 1516, il re beduino di Algeri Selim Eutemi rigettò la tutela spagnola e ingaggiò il pirata di Djidjelle perché abbattesse el Pinon, che lo dominava. Aruj Barbarossa, profittando dell’estate di San Martino, veleggiava nel mare di Sardegna e, tornando indietro, incrociò tre navi che trasportavano grano dalla Sicilia alla Spagna e le catturò. Con il grano pagò i berberi della montagna che si arruolavano nella sua armata e si mossero con lui verso Algeri, via terra. Khirz e un capitano turco, Car-Hassan, procedevano per mare. Le navi di Car-Hassan dovevano attaccare partendo da ovest, da Sargel, un porto a ventotto miglia da Algeri, senza difese murarie, Al capitano turco piacque tanto il posto che se ne impadronì proclamandosi sceicco di Sargel. A lui ci pensò Khirz, che tornò indietro e lo fece arrendere promettendogli il perdono, ma, quando costui fu in sua balìa, gli troncò la testa, che inviò a Djidjelle in monito ai trasgressori. Aruj intanto arrivava in Algeri, dalla montagna, con 8.00 turchi, 3.000 pirati e 2. 000 mori della Cabilia. Khizr sbarrò il porto il porto con la flotta.El Pinon rimase isolato. Aruj prese alloggio presso Selim Euterni, nel palazzo reale. I turchi scavavano trincee e piazzavano le batterie di fronte alla rocca spagnola, che era a trecento passi d’abitato. Troppo distante perché i cannoni di piccolo calibro dei Barbarossa

31 “Cartas del cardenal Cisneros” pubblicate da Pascual Gayangos e Vicente de l a Fuente, Madrid 1867, Carta LXXIII

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potessero fare gran danno: sembrò che i pirati volessero perdere tempo e ciò irritava lo sceicco, che aveva la città in rivolta perché la soldataglia pretendeva soldi e regali dagli abitanti e faceva violenza sulle donne e sui giovanetti. Selim Euterni stava facendo le abluzioni precedenti la preghiera di mezzogiorno, quando Aruj e un soldato entrarono nel locale. I due soffocarono lo sceicco e dichiararono alla popolazione che era morto per il calore del bagno. Per le strade presiedevano i turchi così che gli abitanti dovettero credere a quella menzogna. Era però riuscito a scappare il figlio giovanissimo dell’assassinato, che raggiunse Orano e si mise sotto la protezione di Comarès, capitano di quel forte. Il marchese Comares lo accolse con grazia e lo mandò al cardinal Cisneros in Spagna. Gli fu garantito che gli spagnoli lo avrebbe rimesso sul trono del padre. Algeri era stata sottomessa da un grassatore. Aruj si fece proclamare successore di Selim Euterni e salì finalmente su un trono e riscosse le tasse. Trattò i mori come schiavi e fece costruire da loro una fortezza nella Casba, come caserma dei turchi, che erano diventati suoi fanatici giannizzeri. Si permise il anche il lusso di battere moneta. 32 La sconfitta di Cisneros Il cardinale Francisco Jimenez de Cisneros, divenuto, per la seconda volta, capo del consiglio di reggenza spagnolo (in nome del giovane re Carlo d’Asburgo) decise di liberare i connazionali asserragliati nel Penon de Argel e incaricò, il 27 aprile 1516, Diego de Vera, Capitano generale, di radunare una armata a Cartagena per la conquista di Algeri e l’abbattimento dell’usurpatore. Il figlio di Selim Eutemi sarebbe stato rimesso sul trono. De Vera armò la flotta con uomini, armi e vettovaglie e uscì in mare con quaranta vele: quattro galee di Mosen Berenguer Doms il catalano, otto fuste di don Alonco Granada Venegas, generale della costa di Granada e ventiquattro brigantini di Almeria e Cartagena, più imbarcazioni piccole. La spedizione salpò con ottomila uomini a bordo, in gran parte contadini della Murcia. La flotta si presentò, il 30 settembre del 1517, davanti al porto di Algeri cannoneggiando e si congiunse con la guarnigione de el Penon. De Vera sbarcò la truppa e stimò di entrare con facilità dentro le mura, ma la cavalleria berbera caricò i fanti spagnoli, partendo dalla spiaggia di ovest, seminando il panico e uccidendo tremila uomini e facendone prigionieri quattrocento. Precipitosamente De Vera ordinò il reimbarco, mentre si scatenava una tempesta che fece cozzare le sue navi una contro l’altra. Gli aedi turchi cantarono: “Due mani non hanno saputo combattere con Barbarossa, che ne ha una sola.” L’isolotto di Beni Mezegren con il Pinon, che alzava lo stendardo di Spagna, resistette comunque alla furia moresca e rimase come un appello per un altro intervento. Aruj convocò in Algeri il fratello Ishaac, che era rimasto a Mitilene, mandandogli i soldi perché arruolasse una guardia del corpo turca. Pochi giorni dopo la vittoria sui cristiani, il nuovo re si mosse con una grande armata per occupare il 32 Diego de Haedo. “Topografia e historia general de Argel”, Valladolid 1612. Pierre Dan: “Histoire de Barberie et de ses corsaires en six livres”, Paris 1637.

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regno moresco di Tenes, a dodici leghe ad ovest di Algeri, governato dal sultano Amid-el- Abin, che fuggì riparando sulle montagne di Atlante e, non sentendosi neppure lì al sicuro, fece perdere le sue tracce nel deserto del Sahara. Intanto i cittadini di Tlemcen, a cinquanta leghe da Tenes, si ribellarono a Abuzeyyen, che aveva tolto il regno al nipote Abuchen-Men, e consegnarono anche quel principato al Barbarossa. Leone X e Francesco I in Occidente. In Occidente, il nuovo papa della casata Medici, Leone X (1513-1534) aumentò la vendita delle indulgenze per finanziare lo sfarzo della sua corte e per soddisfare le varie ambizioni dei suoi parenti. Proseguì l’indirizzo antifrancese della Chiesa Romana, ma solo nei primi tempi del suo pontificato. Poi prevalse l’istinto di consolidare il potere dei Medici su Firenze e su parte della Toscana e questo richiese un riavvicinamento con la Francia, attraverso un matrimonio fra un familiare del papa e una fanciulla della grande casata di quella nazione. Il 1° gennaio 1515, morì Luigi XII e gli successe, come previsto, il duca di Angouleme, con il titolo di Francesco I. Il 25 gennaio, avvenne l’intesa tra il papato e il nuovo sovrano: il fratello del papa, Giuliano de’ Medici sposò Filiberta di Savoia, zia di Francesco I. Il matrimonio consentiva al re di calcolare possibile la conquista della Lombardia, con l’appoggio della Santa Sede. Insomma il papa vendeva la libertas ecclesiae di Giulio II con il disegno recondito di favorire suo fratello, che aspirava, a conclusione della partita, al regno di Napoli. Inoltre voleva consolidare il nipote Lorenzo nel possesso della signoria di Firenze mentre era all’assalto dei ducati di Urbino e di Ferrara. Se il papa dovesse o no consentire la terza discesa dei francesi in Italia fu chiesto anche a Niccolò Machiavelli, il quale spiegò che il massimo errore per il principe della Chiesa sarebbe stato il rimanere neutrale, per cui Leone X poteva allearsi con la Francia, se questa nazione staccava il legame con Venezia, altrimenti era necessaria una politica contraria.33 Anche Machiavelli aveva le idee confuse. I fatti si svolsero rapidamente. Il 27 luglio 1515, Francesco I rinnovò l’alleanza con Venezia, mentre radunava, a Lione, una fanteria di diecimila guasconi e di ventitremila lanzichenecchi, una cavalleria di undicimila combattenti e una artiglieria di sessanta cannoni e di cento colubrine. Passate le Alpi, i francesi occuparono la parte occidentale del ducato di Milano, fermandosi, il 10 settembre, a Melegnano dove si congiunsero con le truppe venete di Bartolomeo d’Alviano. Furono fronteggiati dagli svizzeri del cardinale Schinner, alleati del duca Massimiliano Sforza, che dispose di ventiduemila fanti assistiti da appena duecento cavalieri e da otto pezzi d’artiglieria leggera. La battaglia fu ingaggiata il 13 settembre e durò due giorni terribili. Prevalse, infine, la superiorità numerica dei franco-veneziani. La vittoria permise a Francesco I di entrare indisturbato a Milano, dove resistette per poco il Castello, che capitolò il 4 ottobre. Lo Sforza rinunciò ai suoi diritti in cambio di un vitalizio e si trasferì a Parigi e lì morì nel 1530.

33 Niccolò Machiavelli: “Opera, Lettera n. 38”

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Leone X esclamò. “Ci butteremo nelle braccia del Re Cristianissimo e imploreremo misericordia.”34 Francesco I voleva concedere l’abbraccio al papa a Roma, ma Leone si oppose all’avanzare di un enorme corteo armato nella sua Toscana e nello Stato pontificio, per cui Francesco I, che non voleva tirare la corda, si accontentò di incontrarlo a Bologna. I due principi si trovarono di fronte l’11 dicembre 1515 e parlarono per quattro giorni di seguito. Cosa trattarono lo si seppe dai risultati, perché non lasciarono alcuna traccia scritta delle loro parole. Il papa ordinò agli svizzeri di Schinner di non assalire il territorio francese, ossia Milano; cedette Parma e Piacenza al ducato lombardo e, a titolo di risarcimento, il re di Francia abolì la “prammatica sanzione”, così vennero neutralizzate le intenzioni scissionistiche della Chiesa gallicana. Il re borgognone di Spagna Un mese e mezzo dopo, corse la notizia che era morto Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, il 23 gennaio 1516. Gli subentrò il nipote sedicenne Carlo di Gand (aveva sei anni meno di Francesco I), sotto la seconda reggenza temporanea del cardinale Cisneros, in Castiglia, e dell’arcivescovo di Saragozza, in Aragona.35. Con il nome di Carlo I, il rampollo di Massimiliano d’Asburgo ereditò l’Austria, parte della Germania, i Paesi Bassi, la Spagna e i possedimenti in Italia. Evitando un conflitto, il nuovo sovrano stipulò il trattato di Noyon, a Bruxelles, nell’agosto del 1516, con Francesco I, che fissò lo status quo in Italia, con la clausola segreta di permettere ai francesi l’occupazione della terraferma della loro alleata: Venezia. Il 7 settembre del 1517, Carlo I mosse per mare da Flessinga (Paesi Bassi) con quaranta vele alla volta della Spagna. Sbarcò sulla costa cantabrica, proseguì, alla testa di un pomposo corteo borgognone ed entrò a Valladolid, il 7 febbraio 1518, per ricevere la deferenza delle Cortes. Era un ragazzo, che non sapeva una sola parola di spagnolo; per i conti castigliani, la Borgogna era più lontana e più estranea delle Nuove Indie e del Nord Africa. I voleri testamentari dei loro re potevano anche imporre uno straniero in terra di Spagna, ma accettarlo richiese un atto di umiltà, quasi di umiliazione, da parte degli orgogliosi castigliani e aragonesi. Racconta il cronista che Carlo entrò a Valladolid insieme a trenta cavalieri vestiti come tanti San Giorgio contro il drago. Sulla coperta del suo cavallo, il re aveva posto una tabula d’oro su cui era incisa la parola “Nondum”, che significava che lui, essendo molto giovane, era come una tabula rasa sui cui era scritto “Niente”, non

34 Pastor : “Storia dei papi. Leone X.”, Roma 1921 (2° ed.) 35 Carlo V (Gand 1500 – Cuacos de Yuste 1558). Figlio di Filippo il Bello d’Asburgo e di Giovanna di Castiglia, nipote dell’imperatore Massimiliano I d’Austria e di Maria di Borgogna, da parte di padre, nipote dei Re Cattolici Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia da parte di madre, successe ai genitori e diventò Carlo I di Spagna, nel 1516. Nel 1519, divenne imperatore con il nome di Carlo V. Gli mancò il tempo di essere re di Spagna, perché fu preso dal ruolo imperiale. Il titolo di imperatore, sulla linea del nonno, gli provenne dal voto tedesco, che con questo voto crearono una alleanza con la Spagna a difesa dell’espansione nazionalistica della Francia verso la Borgogna, i Paesi Bassi e l’Italia.

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avendo ancora avuto l’occasione di compiere grandi imprese, ma che in compenso aveva una lunga vita davanti.36 Il sultano Selim I in Asia e Africa Sulle rive del Bosforo, ai tempi di Selim I (1512 – 1520), Istanbul superva i centomila abitanti. La metropoli sembrava, come testimonia un viaggiatore del 1520, “la convocazione del Giudizio Universale”,37 tumultuosa nel gran bazar, con una prostituzione mai vista altrove e con tanti drogati e tanti ubriachi di vino, incuranti del Corano, che riempivano le taverne e le strade. Le case, salvo il Topkapi, palazzo del Gran Signore, erano di legno e bruciavano frequentemente. Vigeva un clima accidioso e violento. Selim, il figlio di Bayezid, superò il padre in ferocia e venne denominato Selim I il Crudele. I figli di Bayezid non avevano aspettato la morte del genitore per scatenare la lotta di successione. L’erede designato era Achmed, ma il fratello minore Selim si armò contro il padre e con 25.000 uomini partì dalle guarnigioni di confine e prese Adrianopoli di Tracia (oggi Edine) per dotarsi di un punto di forza nella Turchia europea, ma Bayazid, con una zampata da vecchio leone, lo costrinse a fuggire in Crimea. I giannizzeri stavano dalla parte di Selim e risultarono decisivi nel riportare il loro duce a Istanbul, nell’aprile del 1512, e costrinsero Achmed a rifugiarsi a Bursa, l’antica capitale. Il padre abdicò a favore di Selim e si ritirò a Demotika, suo paese natale, dove fu avvelenato dal suo rampollo, che poi prese Bursa, nel 1513 e uccise Achmed. Aveva già fatto fuori l’altro fratello, Korkut. Riuscì a tenere con pugno di ferro l’impero e impiegò i primi due anni del suo regno nell’eliminazione di tutti i membri maschi della dinastia di Otman. Era un sunnita molto ortodosso e perseguitò anche gli sciti presenti nello stato. Lo Scià iraniano Ismail si armò a difesa della sua setta, ma Selim proclamò la guerra santa contro di lui, accusandolo di essere un falso discendente del Profeta e lo sconfisse nella battaglia di Caldiran il 23 agosto del 1514. Occupò Tabriz, la capitale dell’avversario, la porta dell’Iran, e controllò così l’Anatolia orientale. Lo scontro fra Occidente e Oriente avvampò anche nel Mar Rosso, nel Golfo Persico e nell’Oceano Indiano Le navi portoghesi, circumnavigando l’Africa, minacciavano Gedda, Medina e la Mecca. I mamelucchi egiziani, a presidio di quelle città, chiesero aiuto persino a Venezia affinché insegnasse loro a costruire una flotta per combattere le caravelle che arrivavano dall’infinito mare del Sud per accaparrare l’oro del Sudan, per rubare il commercio delle spezie e incamerare il caffè dello Yemen. Intervenne Selim, non richiesto, ancora una volta come difensore della fede e si liberò del debole principe mamelucco di Dulkadir, nella battaglia di Marj Daquib, nell’angolo sud-orientale dell’Anatolia. Accorse troppo tardi, in sostegno del suo vassallo, il re dell’Egitto 36 Marino Sanuto: “Diari” Tomo XXV. Valladolid 1518, I Diari furono composti fra il 1496 e il 1533, editi a Venezia tra il 1893 e il 1903, a cura di Rinaldo Fullin, Federico Stefani, Nicolò Barozzi, Guglielmo Berchet, Marco Allegri. 37 Latifi: “Eloge de Istanbul”, Anonimo:”Traité de l’invective” in un volumetto di Collection Bibliothque turrque, 2009. .

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Kansu el-Giuri, che si scontrò con l’oste nella piana di Marj Dabiq, vicino ad Aleppo, il 24 agosto 1516. Il re egiziano ci perse la vita e il sultano ottomano proseguì con la conquista della Palestina e dell’Arabia; svernò in Siria. Era diventato lui l’usbergo della città sante. Al Cairo, i mamelucchi avevano intanto eletto re Tuman-beg, figlio di Kansu. A primavera l’esercito di Selim mosse verso la capitale dell’Egitto, sconfisse i mamelucchi a Ridania e scatenò la sua ira. Si raccontano in questo modo le efferatezze del Gran Turco: “Cinquantamila cadaveri di Mamelucchi fecero di sé spaventoso spettacolo nelle sole vie del Cairo. Ottocento fra i più nobili e doviziosi, consegnatisi sotto fede di una solenne amnistia, furono dai carnefici immantinente scannati. Kurtbai, il più valoroso fra i beg, a cui Selim avea spedito il Corano come inviolabile pegno di vita, fu dato al boia, appena posto il piede nella sua tenda. Tuman-beg, nuovo e ultimissimo sultano d’Egitto, dopo aver vanamente tentato di sostenere in più scontri il cadente suo soglio, estratto per tradimento da una caverna in cui erasi cercato uno scampo, fu appeso, come vil malfattore, ad una porta del Cairo.”38 . Nel mese di agosto del 1517, Selim ricevette le chiavi della Kaaba e la bandiera del Profeta venne affidata alla sua cavalleria. Dopo tre anni di guerra, rientrò a Istanbul con il titolo di “califfo”, cioè di vicario del Profeta. Aveva allargato l’impero e lasciato in pace i cristiani combattendo solo contro i suoi correligionari. A lui fu affidato il dovere religioso di liberare il mare turco dai Cavalieri gerosolimitani di Cipro. Così era percepita la presenza dei nemici di Allah sull’isola: “La setta malefica dei cristiani, fatto di Rodi il proprio rifugio sicuro, percorreva sempre la distesa del mare con le navi volanti per infliggere danni e perdite ai mussulmani; essi non lasciavano passare sul mare le navi dei mercanti e dei pellegrini diretti in Egitto senza colpirle con cannonate e romperle e, fatti prigionieri i Mussulmani, avvilivano con ceppi e catene i liberi e gli innocenti.”39 Selim si preparò all’assalto per mare creando l’arsenale di Istanbul. Nello stesso tempo riprese l’espansione verso i Balcani. Nel luglio del 1520, meditando una impresa continentale, si diresse su Adrianopoli, ma durante il viaggio morì, il 21 settembre di quell’anno. Memoriale di Leone X sulla crociata La tregua derivata in Occidente dall’impegno di Selim I in Persia, in Siria e in Egitto, fece sorgere nella mente di Leone X l’idea di colpire l’impero ottomano, mentre il Gran Sultano era lontano da Costantinopoli. Perciò istituì una Congregazione composta dai cardinali Carvajal, Remolino, Fieschi, Granis, Pucci, Medici e da un cardinale per ciascun ordine monastico (domenicano, francescano, romitano) a cui potevano partecipare gli ambasciatori delle potenze europee. Tutti insieme dovevano elaborare una politica attiva nei confronti dei turchi. Il consesso si riunì il 6 novembre 1517, risultando assenti solo l’ambasciatore del Portogallo e quello di Venezia. La Serenissima ossequiava un patto di non belligeranza con Selim I. 38 Baratta A. “Costantinopoli effigiata e descritta…nella fede di nozioni personalmente attinte in Oriente e di esatti recentissimi ragguagli.” Torino 1840. 39 Rossi Ettore: “Assedio e conquista di Rodi nel 1522, secondo le relazioni inedite dei Turchi.” Roma 1927.

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Il gruppo promotore propose i seguenti interrogativi: Va intrapresa una guerra? Che tipo di guerra? Quali ostacoli si dovevano superare? La guerra doveva essere condotta da tutti i principi o soltanto da pochi e quali? Con quali mezzi andava finanziata la guerra? Quando metterla in atto? La risposta è contenuta in un documento denominato Memoriale del 12 novembre 1517. Alla prima domanda fu inevitabilmente risposto: si. La guerra doveva essere offensiva puntando sui lati deboli del nemico. Vi avrebbero partecipato tutti i principi, anche in contrasto fra loro, fissando una tregua che rimandava a dopo la vittoria la soluzione dei conflitti europei. Andava quindi accettata una “Fraternitas Sanctae Crociatae”. Il comando supremo andava affidato all’imperatore e al re di Francia “siccome i primi e più potenti principi d’Europa… ma eziandio tutti gli altri siano tenuti a dare il loro contributo ognuno secondo le sue forze.”40 Le spese della guerra vennero calcolate in 800.000 ducati, da accumulare attraverso la liberalità dei principi, la decima del clero, tre quarti delle entrate dei conventi, un decimo della nobiltà, un ventesimo della borghesia e una tassa minima degli artigiani e degli artisti. Il complesso delle truppe preventivate era di 60.000 pedoni, di 12.000 uomini di cavalleria leggera e di 4.000 di pesante. La artiglieria doveva essere conseguente al numero dell’esercito, la fornitura della flotta spettava a Venezia, a Genova, a Napoli, alla Provenza, alla Spagna, al Portogallo e all’Inghilterra per un totale di oltre trecento triremi. Anche il papa avrebbe dovuto armare almeno dieci navi. Le forze di terra e di mare non dovevano frazionarsi ma operare in massa su un punto solo: Costantinopoli. Venne proposto anche un patto con lo scià iraniano Ismail e si auspicò una pressione dei polacchi e degli ungheresi sulle provincie di confine. Il Memoriale conclude affermando “Sconverrebbe ad ogni modo procedere alla divisione (delle conquiste)prima che si sia in possesso dell’oggetto da dividersi. E’ meglio considerare la cosa conquistata in comune siccome bene comune indiviso e poi decidere dopo.” La proposta del Memoriale fu inviata, tramite i nunzi, all’imperatore, ai re di Francia, Spagna, Inghilterra e Portogallo ed anche alla repubblica di Venezia con la raccomandazione a quest’ultima del massimo segreto, essendo residente nella città lagunare un ambasciatore turco. Le risposte furono dilatatorie e persino bizzarre. Francesco I propose una diversa strategia: lui avrebbe armato un esercito, che si sarebbe mosso autonomamente con più di 60.000 uomini da sbarcare in territorio nemico con la flotta provenzale; l’imperatore invece sarebbe dovuto avanzare per terra con tedeschi, ungheresi e polacchi; i re di Spagna, Portogallo e Inghilterra avrebbero raggiunto Costantinopoli con l’armata navale. L’imperatore Massimiliano rispose fantasticando su una campagna divisa in tre anni: nel primo anno Francia e Inghilterra non si sarebbero mosse per assicurare la tranquillità in Europa e la riscossione delle imposte di guerra, mentre le truppe imperiali tedesche, spagnole e portoghesi avrebbero assalito l’Egitto; nel secondo 40 Sintesi di un documento di Ludovico Pastor (Storia del papi- Leone X) riportato da Johan Wilhelm Zinkeinen: “Geshichte des Osmanainchen Reiches in Europa” Amburgo e Gotha, 1840-1863.

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anno, essendo state occupate Alessandria e il Cairo, si sarebbe mosso il re di Francia, attraverso l’Italia, andando a conquistare la Macedonia; nel terzo anno si sarebbe stretto il cerchio su Costantinopoli e, con l’aiuto dello scià di Persia, a cui si concedevano l’Armenia e la Caramania. Il nuovo re di Spagna opinò che si sarebbero dovuti difendere i punti più minacciati d’Italia da sbarchi della flotta turca e piratesca, piuttosto che combattere una battaglia tra continenti. Il re d’Inghilterra differì la risposta e quando rispose sollevò una infinità di obiezioni fittizie. Venezia intanto riferiva a Istanbul i progetti del papa. Alla Santa Sede non rimase altro che indire una grande processione da Sant’Agostino a Santa Maria in Aracoeli, il 12 marzo 1518. Il giorno dopo, se ne organizzò un’altra da San Lorenzo a Santa Maria del Popolo, che espose il grande reliquiario di Roma: le teste dei santi Andrea e Mattia, la cattedra di San Pietro, la santa Lancia di Bayezid, il sudario della Veronica e la particola della Croce. Nella chiesa della Minerva, il Sadoleto predicò la guerra contro i turchi: “Oh ciechi, ciechi fummo fin qui: non abbiamo compreso abbastanza ciò che passava: ora la tenebra è dissipata, l’oscurità dileguassi; lo splendore del vero onore brilla davanti ai nostri occhi, la verità è aperta al nostro cospetto.”41 Quel giorno, Leone X indisse una crociata impossibile. Intanto, nel Sacro Romano Impero, si svolgeva la contesa medioevale fra Francesco I di Francia e Carlo d’Asburgo e Enrico d’Inghilterra per lo scettro vetusto di Carlo Magno, che fece scomparire qualsiasi zelo per la guerra contro gli ottomani. Fu celebrato come fausto il giorno del 21 settembre 1920, in cui morì prematuramente Selim I. Il papa, a quanto riferisce il cardinale Bembo, disse: “Si deve aver grazie di questa lieta notizia tanto più perché dai principi cristiani non c’è nulla da ottenere pel bene comune all’infuori di vane speranze e vuote promesse.”42 Inoltre tutte le buone anime cristiane bisbigliavano l’un l’altra che il successore del Gran Sultano, il figlio suo Solimano, sarebbe stato pacifico e cordiale, per cui sarebbe risultato un ottimo vicino. Il successore di Carlo Magno La morte di Massimiliano I d’Asburgo, imperatore del “Corpo cristiano”, altrimenti detto Sacro Romano Impero, avvenne il 12 gennaio del 1519, pochi mesi prima della scomparsa di Selim II. Ma cosa era l’Impero asburgico? Era una sovranità sulle terre austriache e su dei vassalli germanici, che si consideravano signori (duchi, conti, margravi) di Stati assoluti e indipendenti. Il sistema in corso durava da appena 81 anni, ma veniva considerato plurisecolare. Dal punto di vista della investitura imperiale, i vassalli erano “principi elettori”. Se ne contavano sette: quelli di Magonza, di Colonia, di Treviri, di Boemia, del Palatinato, di Brandeburgo e di Sassonia. Massimiliano aveva indicato per successore un nipote, Carlo di Gand appunto, che nel frattempo aveva ereditato l’ Austria, la Borgogna, il Brabante, il Lussemburgo. la Fiandra, il Tirolo, la Spagna, l’Italia meridionale e la Sicilia, le 41 Jacobi Sadoleti, Oratioin beate semper Virginis ad Minervas ecclesia habita decimonono kl, Aprilis MDXVIII. 42 Pietro Bembo, Epistola XVI, del 6 dicembre 1520, in “Lettere di Pietro Bembo cardinale… divise in dodici libri” Milano 1809.

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Baleari, le Canarie e il Nuovo Mondo indiano, isole e terraferma. La Francia non voleva finire fra le ganasce di una morsa nelle mani di qualcuno che era re di Spagna ad Ovest, re delle terre asburgiche ad Est, senza contare che anche a Sud, da Napoli a Palermo, c’era sempre lui. Francesco I, per non venire sopravanzato da un cesare, che avrebbe unificato sotto un unico scettro tutti gli stati che circondavano il suo reame, dichiarò che la germanicità e il diritto di discendenza valevano poco. Avanzò la propria candidatura, nel 1519, mettendo a disposizione degli elettori “molta moneta sonante”43 Ma l’intera famiglia d’Asburgo invitò il suo pupillo a non lesinare. Margherita d’Austria, in una lettera del 23 agosto 1518, sperava di ricevere la visita di Carlo sul cavallo imperiale e consigliava: “Il signor re, mio nipote, ci scrive essere troppo caro il cavallo su cui pur vorrebbe venire a visitarci. Caro è si, lo sapevamo; e nondimeno é tale che se egli non volesse averlo, vi ha mercante pronto ad acquistarlo, e poiché fu domato per Itit44sembra che non debba lasciarlo per quanto gli costi”45 Il nipote di Massimiliano e di Margherita ebbe dalla sua i banchieri fiduciari degli Asburgo, cioè i Fugger, che promisero ai principi elettori un congruo pagamento dei voti, se Carlo fosse riuscito a mettere sul suo capo la corona di ferro in palio. In questo giuoco, gli Elettori avrebbero aggiunto ai soldi già ricevuti dalla Francia quelli promessi dagli Asburgo, ed essendo possibile, con la elezione di Carlo, esser pagati due volte, predilessero decisamente il secondo pagatore. Il nuovo imperatore risultò eletto all’unanimità, a Francoforte, il 28 giugno 1519. Il 23ottobre, fece la “Joyeuse entrée” in Aquisgrana e fu intronizzato nella cattedrale di Carlo Magno. Tre giorni dopo, il papa concesse il suo assenso e permise che il borgognone assumesse il titolo di “Imperatore romano eletto”. L’imperatore si chiamò Carlo V. Il confronto fra i due giovani regnanti di Francia e di Spagna era solo all’inizio: “L’emulazione di questi due monarchi, che poi passò in odio, non produsse nell’anno presente alcun litigio fra loro, ma si andò disponendo per partorirne:”46 147.000 FINE PRIMA PARTE

43 Francois Auguste Mignet: “Premiere rivalité de Francois I et de Charles Quint” Revue des deux mondes” Paris 1854 44 Itit era il nome di Horus Djer, il faraone che leggendariamente riunì l’Alto e il Basso Egitto. Itit vale per Francesco I. 45 Giuseppe Leva: “Storia documentata di Carlo V in correlazione all’Italia”, Venezia 1863. Citazione della lettera in oggetto. 46 Lodovico Muratori : “Annali….”