#2 MEDITERRANEO

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MEDITERRANEO HÉRÉTIQUE DESIGN FIRENZE / MADRID APPUNTI E RIFLESSIONI / NOTAS Y REFLEXIONES

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Il mediterraneo è il mare dove si sono diffusi, a volte sono affondati e in qualche occasione si sono recuperati e conservati i più rilevanti prodotti dei traffici economici e culturali che hanno segnato la percezione e l’autopercezione dei popoli europei. www.notasyreflexiones.com

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mediterraneo

Hérétique design firenze / madridaPPunti e rifLessioni / notas Y refLeXiones

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Hérétique design firenze / madrid CommuniCation and design for ContemPorarY art

Hérétique Design propone un diverso punto di vista nei confronti delle avversità, considerandole non solo ostacoli da supe-rare ma anche come diverse possibilità per percorrere la vita in maniera inaspettata:si può scegliere d’imbattersi in avversità per maturare un diverso punto di vista, gustando il piacere della sfida, indipenden-temente dal trovarsi, in seguito, dalla parte dei vincitori o dei vinti. Lo stesso nome Hérétique cita, rievocandone l’immagine, il gommone a vela di Alain Bombard, il “naufrago volontario” che ‘si lasciò let-teralmente andare’ contro le avversità di sessantacinque giorni per mare, teorizzan-

do, infine, che nella maggior parte dei casi a spingere i naufraghi verso la morte siano cause psicologiche come la disperazione e la paura e che, al contrario, affrontare volontariamente tale esperienza può con-durre, come nel suo caso, a inaspettate rivelazioni.

Hérétique Design propone un punto de vista distinto frente a la adversidad, consi-derándola no solamente como un obstáculo que hay que superar, sino también como la posibilidad de vivir la vida de modo ines-perado: se puede decidir lanzarse hacia un destino adverso para madurar un punto de

vista distinto, disfrutando del placer del desafío, independientemente de encontrar-se, al final, en la parte de los vencedores o vencidos. El propio nombre Hérétique cita, invocando su imagen, la lancha a vela de Alain Bombard, el náufrago que literal-mente se dejo andar contra la adversidad durante sesenta y cinco días en el mar, teorizando al final, que en la mayor parte de casos lo que empuja a los náufragos hacia la muerte, sean las causas psicoló-gicas como la desesperación y el miedo y que al contrario, afrontar voluntariamente la experiencia, puede conducir, como en su caso, a revelaciones inesperadas.

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in questo numero /en este nÚmero

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in CoPertina / en Portada

“Porto di Pantelleria”Controcarrettadellasperanza

magazine staffFrancesco Ozzola / Gabriele Tosi

Grafica e impaginazione / Diseño y maquetaciónCorrezione testi / Corrección de textosPubblicato da / Publicado porCreative commonsby Hérétique Design Firenze / Madrid

[email protected]

ringraziamenti / agradeCimientos

Hérétique Design Firenze / Madrid desidera ringraziare tutti coloro che in va-rio modo hanno contribuito al suo sviluppoHérétique Design Firenze / Madrid agra-dece a todas las personas que de diversas maneras han contribuido a su desarrollo

Virginia garCia boniLLa | emanueLa baLdi | aLba braza boiLs | Lee Jaffe | sandra moros sides | Vaia baLekis | aLessandra benaCCHio | iLaria PiCCioni

aPPunti e rifLessioni / notas Y refLeXionesn°2 / mediterraneo

aPPunti e rifLessioni / notas Y refLeXionesn°2 / mediterraneo

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aPPunti e rifLessioni / notas Y refLeXiones mediterraneo

Il mediterraneo è il mare dove si sono dif-fusi, a volte sono affondati e in qualche occasione si sono recuperati e conservati i più rilevanti prodotti dei traffici economici e culturali che hanno segnato la percezione e l’autopercezione dei popoli europei. Gran parte di ciò che ha segnato il nostro modo di pensare alle immagini prima dell’av-vento della rete, dal sistema prospettico in avanti, è transitato da questo mare. Le varie confutazioni alla nota tesi di Pirenne1 non mancano di confermare che lo storico belga ebbe in parte ragione a sostenere che senza Maometto non ci sarebbe stato Carlo Magno, ripensando a una cultura europea più debitrice verso i traffici marittimi che nei riguardi del mondo classico. In un do-cumento recentemente caricato su YouTu-be2, Furio Jesi racconta il mito di Europa, una fanciulla che traghettata dalla Fenicia fino a Creta sposerà Zeus in forma di toro e sarà madre del legislatore Minosse; una giovane che pur nata sotto la luce dura e rivelatrice del sole è portatrice di un ca-rattere lunare facilmente corruttibile dalle nebbie nordiche in cui sovente si trova im-mersa. La cultura europea quindi, sempre meno solare e sempre più insonne, avrebbe idealizzato la propria infanzia mitologica, generando stereotipi che sono ancora rico-noscibili nei quotidiani territori della nu-trizione, del turismo e del viver bene. Ma una volta sostituite le tante realtà del me-diterraneo con una loro astrazione univoca e omogenea, ha preso il via una particolare

strumentalizzazione dell’immaginario tesa a impalcare, in parallelo o in contraddi-zione, in pace e in guerra, un’autorappre-sentazione dell’Europa meno lugubre. Le politiche continentali guardano oggi al mediterraneo con superiorità e tentano in esso l’applicazione di un sistema eterono-mo; è l’innesco di un processo che accre-sce lo scontro con le varie realtà, tessuti di nodi culturali ormai non più concretamente catalogabili e comprensibili dal pensiero occidentale. Perfino il concetto di crisi, un loop di luoghi comuni con cui questa rivista vuole giocare al fine di rintracciare modi felici per vivere in un corpo sociale che si sente ammalato, è ormai indiscrimi-natamente esteso a tutta l’area del mediter-raneo; solo i più razionali riescono ancora a usare la parola “crisi” al plurale parlando quindi di “crisi mediterranee” e non della “crisi del mediterraneo”. Anche perché, di là dalle parole che le litanie mediatiche ci propongono, una profonda radice positivi-sta continua ad ammantare quest’occiden-te, un atteggiamento che si traduce nella convinzione di poter trovare una cosa cer-candone un’altra, di poter raggiungere un obiettivo già discusso dichiarandone alla società uno diverso, ininfluente e discuti-bile. Ecco che il mediterraneo dell’ultimo ventennio, che per un vizio estetico si sta stratificando nella cultura di massa come uno stereotipo vintage, è stato involuto da campo reale d’azione a palcoscenico per gli spettatori del mondo. Dalla guerra in

Bosnia ed Erzegovina fino alle più recenti dinamiche che lo attraversano, l’opinione pubblica continentale guarda al mediterra-neo come al teatro delle storie tese, facen-dosi spettatrice di un evento che va in re-plica dai primi anni ‘90. Internet e le nuove forme di comunicazione potrebbero aver in parte contribuito a una riproposizione di temi reali, ma certamente e purtroppo han-no reso lo spettacolo ancor più accessibile e appetibile. L’accessibilità a informazioni reali è ancora troppo aggirabile o corrutti-bile, ma è in fondo questa la partita ancora in corso che potrebbe cambiare le cose. Questo numero di Notas y Reflexiones non vuole esaurire le possibili declinazioni di questo tema e tanto meno vuole proporre una visione artistica delle situazioni che arrogantemente si dichiari reale; vuole piuttosto restituire, attraverso una moltepli-cità di fonti e contenuti, una visione più di-somogenea e discontinua di un territorio a se stesso troppo vicino e troppo pensato, al fine di contribuire alla giusta realizzazione di visioni più concrete.

Text by Gabriele Tosi

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El mediterráneo es el mar donde se han difundido, a veces se han hundido y en algunas ocasiones se han recuperado y conservado, los productos más importantes de las operaciones económicas y culturales que han marcado la percepción y auto-per-cepción de los pueblos europeos. Gran parte de lo que ha marcado la manera en que pensamos acerca de las imágenes antes de la llegada de la red, del sistema en perspectiva de futuro, ha pasado por este mar. Las diversas refutaciones a la tesis de Pirenne1 no dejan de confirmar que el his-toriador belga tenía parte de razón al decir que sin Mahoma no habría existido Carlo-magno, pensando en una cultura europea que debe más al comercio marítimo que al mundo clásico. En un artículo recientemen-te subido a YouTube2, Furio Jesi cuenta el mito de Europa, una joven transportada de Fenicia a Creta que se casará con Zeus, con forma de toro, y será la madre del legisla-dor Minos; una joven que aunque nació bajo la luz cruda y reveladora del sol, porta un carácter lunar fácilmente corruptible por las nieblas nórdicas en las que a menudo se encuentra sumergida. La cultura europea, por tanto, cada vez menos solar y más in-somne, habría idealizado la propia infancia mitológica, generando estereotipos que si-guen siendo reconocibles en los periódicos en las secciones de nutrición, turismo, y buen vivir. Pero una vez reemplazadas las muchas realidades del Mediterráneo con su propia abstracción única y uniforme, se ha dado inicio a una a una instrumentalización del imaginario que tiende a ensalzarlas, en paralelo o en contradicción, en la paz y en la guerra, una auto-representación de la Europa menos lúgubre. Las políticas con-

tinentales hoy miran hacia el Mediterráneo con superioridad y prueban a aplicar un sistema heterónomo; es el detonante de un proceso que aumenta el enfrentamien-to con las diversas realidades, tejidos de nodos culturales no realmente catalogables y comprensibles por el pensamiento oc-cidental. Incluso el concepto de crisis, un bucle de clichés con los que esta revista quiere jugar a fin de rastrear las maneras felices de vivir en un cuerpo social que se siente enfermo, se extiende ahora de manera indiscriminada a toda la zona del Mediterráneo; solo los más racionales pue-den utilizar la palabra “crisis” en plural, hablando de “crisis mediterráneas” y no de la “crisis del Mediterráneo”. Aun así, más allá de las palabras que los medios de la letanía nos ofrecen, una profunda raíz posi-tivista continúa a abrigar a este occidente, una actitud que se traduce en la creencia de poder encontrar una cosa buscando otra, de poder lograr un objetivo ya discutido declarando a la sociedad uno distinto, irre-levante y cuestionable. Así el Mediterráneo de los últimos veinte años, que por un vicio estético se está estratificando en la cultu-ra de masas como un estereotipo vintage, ha evolucionado del verdadero campo de acción a palco-escénico para los especta-dores de todo el mundo. Desde la guerra in Bosnia ed Erzegovina a las tendencias más recientes que lo atraviesan, la opinión pública continental mira el Mediterráneo como el teatro de las historias lineales, haciéndose espectadora de un evento que reproduce los años 90. Internet y las nue-vas formas de comunicación pueden haber contribuido en parte a un resurgimiento de los temas reales, pero sin duda y por

desgracia han hecho que el espectáculo sea aún más accesible y apetecible. La accesi-bilidad, la esporadicidad y la corruptibili-dad de las informaciones reales son todavía demasiado eludibles o corruptibles, pero básicamente éste es el juego en curso que podría cambiar las cosas. Este número de Notas y Reflexiones no quiere agotar las posibles variaciones de este tema y mucho menos quiere proponer una visión artística de las situaciones que arrogantemente se declaran reales; quiere sobre todo restituir, a través de una multiplicidad de fuentes y contenidos, una visión más heterogénea y discontinua de un territorio a sí mismo de-masiado cercano y demasiado pensado, con el fin de contribuir a la correcta aplicación de visiones más concretas.

1 Secondo Pirenne il vero punto di svolta dell’occidente non è da riferire alla caduta dell’Impero Romano ma all’espansione araba avvenuta intorno al VII° secolo. Per approfondire: Henri Pirenne, Maometto e Carlomagno, Grandi Tascabili Economici Newton, 19932 http://www.youtube.com/watch?v=a0nGnVQ4gmQ

1 Según Pirenne, el verdadero punto de inflexión en Occidente no debe ser referido a la caída del Imperio Romano, pero la expansión árabe ocurrido alrededor del siglo VII. Para más información: Henri Pirenne, Maometto e Carlomagno, Grandi Tascabili Economici Newton, 19932 http://www.youtube.com/watch?v=a0nGnVQ4gmQ

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Gabriele Abbruzzese / “LowAfrica” / Still video

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CCDS è un’azione collettiva voluta dall’artista Simone Ialongo; è la pianifica-zione di un viaggio che porterà un gruppo di persone legate al mondo dell’arte da Pantelleria fino alle coste tunisine, in un paradossale percorso al contrario sulle rot-te dell’immigrazione nel mediterraneo.Per l’attraversata i partecipanti restaurano una barca, sequestrata in pessimo stato dalle autorità pantesche; curano e anticipa-no l’evento con dibattiti, mostre e residen-ze - dieci artisti hanno soggiornato a Pan-telleria da marzo fino a oggi - ponendo domande e focalizzando l’attenzione sulle tematiche che lo hanno generato. Quel che dal viaggio scaturirà sarà presen-tato in mostre collettive e conferenze che si svolgeranno nel 2014. L’andare verso la Tunisia, una meta che il modello commer-ciale occidentale considera non attraente per sviluppo economico e benessere, vuole essere una riflessione sulle pratiche di re-azione collettiva al tempo della crisi dei sistemi economici. Al di là della teoria, il viaggio è una realtà concreta che porta a domandarsi cosa dovrebbe essere un’o-pera d’arte e quale sia la sua utilità rispetto alla società in cui si inserisce. Dall’8 agosto al 13 settembre il curatore Lorenzo Bruni apre un confronto col pro-getto e organizza una mostra al Castello di Pantelleria con l’intento di concretizzare il dibattito svolto e dichiararne quindi i nuovi obbiettivi. Emerge la natura di lavo-ro collettivo, la voglia di trovare un signi-ficato concreto al concetto di condivisione basandosi su una continua ridiscussione

del rapporto fra esigenze sociali e indivi-duali. La mostra si suddivide in sezioni. I primi lavori nascono dagli artisti che si sono avvicendati sull’isola di Pantel-leria nel corso delle residenze passate. Sono opere che incontrano la condizione dell’isola: una scultura di Tony Fiorentino evoca il mare usando frammenti di scafi blu ritrovati sulla spiaggia, Giuseppe Lana propone la riconversione di imbarcazioni sequestrate in orti e giardini pubblici. Per mezzo di un lavoro lungo e meticolo-so invece, Pasquale Gadaleta coinvolge i panteschi nella raccolta di pane vecchio per costruire un gigante che è poi stato varato in una festa collettiva ed è stato lasciato partire per un viaggio solitario verso l’ignoto. Simone Ialongo costruisce un totem di oggetti recuperati sull’isola proponendolo come punto di informazioni su CCDS nonché come luogo in cui gli ar-tisti si dichiarano formalmente parte attiva. Tutte le opere si confrontano con l’idea di viaggio come forma di conoscenza; in questa sezione sono inoltre presenti Ga-briele Abruzzese, Ciampa, Rosa Catalano, Fabrizio Cosenza, Andrea D’amore, Aryan Ozmaei e Adreas Schwarzkopf. La seconda sezione esibisce le opere degli artisti e creativi che abitano sull’isola e ri-spondono quindi in maniera differente alle sollecitazioni del progetto e all’immagina-rio isolano. Sono in mostra Sebastiamo Fi-scher, Costabile Piccirillo, Beatrice Cucci, Domenico Busetta e Margherita Borin.La terza sezione è infine costituita dal nuovo gruppo di artisti partecipanti. Sono

riflessioni sul progetto, tese a chiarire, di-battere o aumentare la chiarezza dei suoi intenti. Le foto del diario personale “hu-mans” di Stefania Galegati presentano il viaggio come attiva e prolifica scoperta del mondo in risposta alla perdita di stabi-lità dovuta alla crisi economica, mentre l’ironico disegno di Marco Raparelli riflet-te sulla differenza razziale e sullo stereo-tipo della diffidenza; foto di barchette in carta con scritto “un bastimento di fame”, opera di Fabrizio Basso, ricordano la drammaticità del viaggio della speranza. Altri interventi sono legati a una dimensio-ne progettuale immediata. Stefano Boccalini consegna le istruzioni per una scritta “Italia” da far realizzare, in pane, da un pantesco e da consumare poi con le persone incontrate all’arrivo in Tu-nisia. Ettore Favini propone una frase in italiano sul muro del porto di Pantelleria e una scritta in arabo sul muro del porto dove la nave attraccherà, vuole poi pro-nunciare la frase, per mezzo di un mega-fono, nei mercati locali dei due luoghi col-legati da CCSD. La frase recita: “L’italia era una repubblica fondata sul lavoro” .In questa sezione sono presenti anche con-tenuti di Silvia Cini, Roberto Ago, Paolo Parisi, Massimo Nannucci, Yuki Ichihashi e Stefania Zocco.

ControCarrettadeLLasPeranza / ControPateradeLaesPeranza

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CCDS es una acción colectiva deseada por el artista Simone Ialongo. Es el plan de un viaje que llevará a un grupo de personas relacionadas con el mundo del arte desde Pantelleria a la costa de Túnez, en un ca-mino paradójico de lo contrario en las rutas de la inmigración en el Mediterráneo. Para la travesía los participantes restaura-ron de un barco incautado en mal estado por las autoridades de Pantelleria, cuidando y anticipando el evento con debates, expo-siciones y residencias - diez artistas que se quedaron en Pantelleria desde marzo hasta hoy - haciendo preguntas y centrándose sobre las cuestiones que han generado. Aquello que surja del viaje se presentará en exposiciones colectivas y conferencias que tendrán lugar en 2014. El ir hacia Tú-nez, un objetivo que el modelo de negocio occidental no considera atractivo para el desarrollo económico y el bienestar, es una reflexión sobre las prácticas de la reacción colectiva en el momento de la crisis de los sistemas económicos. Más allá de la teoría, el viaje es una realidad que nos lleva a pre-guntarnos lo que debería ser una obra de arte y lo que es su valor para la sociedad en que se inserta. Del 8 agosto al 13 sep-tiembre el comisario Lorenzo Bruni abre una confrontación con el proyecto y or-ganiza una exposición en el Castello di Pantelleria con la intención de concretizar el debate que se llevaba a cabo, y declarar las nuevas metas. Lo que surge es la natu-raleza del trabajo colectivo, el deseo de en-contrar un significado concreto al concepto de compartir sobre la base de una nueva discusión continua de la relación entre las necesidades sociales e individuales. La exposición se divide en secciones.

Las primeras obras provienen de artistas que han gobernado la isla durante las úl-timos residencias. Se trata de obras que cumplen la condición de la isla: una escul-tura de Tony Fiorentino evoca el mar utili-zando fragmentos de cascos azules que se encuentran en la playa, Giuseppe Lana propone la reconversión de los bu-ques incautados en los jardines públicos para los residentes de la isla. Por medio de una mano larga y meticulosa, Pasqua-le Gadaleta implica a los panteses en la colección de pan viejo para construir un gigante que luego se lanzó en una celebra-ción colectiva y se abandinó en un solitario viaje hacia lo desconocido. Simone Ialongo construye un tótem de elementos recupe-rados en la isla que ofrece como punto de información sobre CCDS , así como un lugar donde los artistas dicen que son parte activa formalmente. Todas las obras se en-frentan a la idea del viaje como una forma de conocimiento; en esta sección también están presentes Gabriele Abruzzese, Ciam-pa, Rosa Catalano, Fabrizio Cosenza, Andrea Love, Aryan Ozmaei, el Dr. An-dreas Schwarzkopf. La segunda sección presenta las obras de artistas y personas creativas que viven en la isla y por lo tanto responden de manera diferente a las ten-siones del proyecto y de la isla imaginaria. Exhiben Sebastiamo Fischer, Costabile Piccirillo, Beatrice Cucci, Domenico y Margherita Busetta Borin. En la tercera sección se estableció por un nuevo grupo de artistas participantes. Son reflexiones sobre el proyecto, con el objetivo de es-clarecer, discutir o aumentar la claridad de su intención. Las fotos del diario personal “humans “ por Stefania Galegati tienen el

viaje como descubrimiento activo y prolífi-co del mundo en respuesta a la pérdida de estabilidad debido a la crisis económica, mientras que el diseño irónico de Marco Raparelli refleja en la diferencia racial y el estereotipo de la desconfianza; foto de barcos en papel que dice “una nave de hambre”, la obra de Fabrizio Basso, recuer-da el drama del viaje de la esperanza. Otras intervenciones están relacionadas con una dimensión proyectal inmediata. Stefano Boccalini entrega instrucciones en un escrito “Italia”, a realizarse, en el pan, y por un Pantes y consumir con la gente que encontró a su llegada a Túnez. Ettore Favi-ni propone una frase en italiano en la pared del puerto de Pantelleria y una inscripción en árabe en la pared del puerto donde el barco atracará, quiere pronunciar la frase a través de un megáfono, en los mercados locales de los dos lugares conectados por CCSD. La frase dice: “Italia es una repú-blica fundada en el trabajo” En esta sección también hay contenido de Silvia Cini, Ro-berto Ago, Paul Parisi, Massimo Nannucci, Yuki Ichihashi y Stefania Zocco.

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simone iaLongo / Lorenzo bruni

Come un progetto o un’idea di dialogo col-lettivo prende forma e si evolve?

Le risposte nella conversazione tra Loren-zo Bruni e Simone Ialongo, avvenuta nel momento in cui l’artista ha deciso di presen-tare CCDS nella mostra collettiva “Incontri” all’Accademia dello scompiglio di Lucca nel febbraio 2013. LB: I tuoi lavori cercano di narrare, conden-sandolo in una sola immagine, il conflitto di un “controsenso”. Ad esempio, una tua scultura è composta da una sfera d’oro avvolta in una pellicola protettiva che la ri-copre lasciandola visibile solo per effetto di immaginazione empatica. Il progetto recente

CCDS attiva un paradosso che travalica lo scherzo e l’edonismo: non è solo una pro-vocazione ma coinvolge altre persone nella preparazione e nella discussione sul perché e sul come realizzarlo. Apri immediatamente la problematica di cosa sia un’opera d’arte e quale sia la sua utilità. Da una riflessione sociale arrivi a una sul linguaggio artistico fino a gettare le basi per una possibile analisi collettiva sul ruolo del museo, della critica d’arte o del giornalismo come mediatori di problematiche sociali. Vorrei chiederti se questa attitudine è in contraddizione con le tue opere precedenti, penso a quelle che hai realizzato per la tua personale del 2011 “Le forme del tempo” al museo di preistoria di Firenze. La domanda che aleggiava in tutto

il percorso era: come possiamo oggi inter-pretare i segni che ci circondano dandogli la giusta contestualizzazione, ma soprattutto considerandoli presenti nel nostro tempo e quindi vivi? Gli oggetti realizzati seguivano tecniche preistoriche ma il contenuto sim-bolico era evidentemente differente. Questa evidenziazione di processualità permette-va di togliere l’opera dalla dimensione di feticcio. Puoi spiegarmi come si sviluppa questa apparente contraddizione tra tecnica e contenuto?

SI: Non è una contraddizione. È un semplice illuminare parti offuscate che sono presenti nell’inconscio di tutti. Credo che conservia-mo dentro tutta la memoria del passato, dalle

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Pasquale Gadaleta / “Il gigante di pane”

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origini della nostra specie. Questa memoria è latente, ma può essere riattivata attraver-so semplici suggestioni visive o pratiche manuali. Questo è quello che tento di fare con alcuni dei miei lavori, come nel ciclo dell’indagine all’origine della spiritualità dell’uomo. Al museo di preistoria ho cercato di installare i lavori quasi nascondendoli fra gli altri oggetti per creare un cortocircuito tra l’antico ed il contemporaneo. La stessa attitudine, anche se può non sembrare, mi ha portato a pensare per la mostra “Incontri” a un pannello con gli appunti su un progetto di viaggio, per discutere sul tema e sul concet-to di ciò che va realizzato in collettività da Pantelleria verso la Tunisia: CCDS.

LB: Perché la Tunisia? L’occidente è ancora una meta auspicabile? Perché fare l’azione? Qual è il suo portato? E’ un’opera d’arte? A cosa serve l’opera d’arte?

SI: Queste domande possono essere discusse solo a livello collettivo, ma rappresentano il motore silenzioso di tutte le opere che gli artisti non possono e non devono pronunciar a voce alta, pena la smaterializzazione del momento magico...

LB: Pensando a questo vorrei chiederti qual è per te il ruolo, rispetto alla società e al pubblico, dell’opera d’arte? E quale quello dell’artista?

SI: Un’opera d’arte dovrebbe offrire una chiave di lettura inedita per una compren-sione migliore del mondo. L’artista è sem-plicemente uno strumento. In CCDS l’opera palesa l’impegno tra me e le altre persone che decidono di partecipare al viaggio.

E’ una riflessione radicale sul concetto di gruppo e di appartenenza, un concetto che nel novecento si è troppo spesso trincerato dietro l’idea di bandiera nazionale ma che adesso non regge più. Dobbiamo trovare ragioni più solide.

LB: Il concetto di rito è molto interessante anche in relazione al tuo sforzo di renderlo un piano di condivisione. In questo momen-to del tuo percorso, “CCDS” è il punto in cui porti alle estreme conseguenze la dimen-sione evolutiva tra personale e universale che vuoi compiere con l’opera d’arte. Vorrei sapere di più sull’inizio del progetto e della sua parte più personale, più tua...

SI: Nasce da un’esperienza personale: anni fa, una mattina, pescavo occhiate dagli scogli di Pantelleria e notai due motovedette della guardia costiera che facevano avanti e indietro nel tratto di mare che avevo di fronte. Dopo un po’ gettarono l’ancora in un punto preciso, s’immersero alcuni sub e co-minciarono a recuperare dei corpi. La notte prima c’era stato il naufragio di una carretta della speranza. Erano corpi di migranti. Pensai così a un viaggio al contrario. CCDS è un modo per portare l’attenzione su una vicenda sociale drammatica, su un problema sempre esistente che va al di là degli sbarchi e dei naufragi. Vuole essere una riflessione sull’attuale situazione socioeconomica occi-dentale, che potrebbe portare noi un giorno, a migrare verso sud cercando condizioni migliori. Credo che oggi la nostra società stia attraversando un momento cruciale. Gli assetti economici cambiano velocemente, e di conseguenza anche quelli sociali e cul-turali. E’ necessario un riassetto. Considero

questo un tempo d’emergenza. Reputo che l’arte abbia il dovere di prendere parte attiva a questa riorganizzazione del reale. CCDS è un tentativo in questo senso.

LB: Come si è svolta la collaborazione con gli altri artisti? Quale è stata la prima azione collettiva che ne è scaturita?

SI: Alcuni degli artisti sono stati in residenza a Pantelleria. Così è iniziato il vero processo “collettivo“. Era necessario prendere contat-to con le tracce di queste migrazioni presenti sull’isola. Tracce disperse lungo le coste e nei depositi giudiziari, ma anche dentro le persone, testimoni diretti ed indiretti. A febbraio dopo la presentazione del progetto allo Scompiglio sono tornato a Pantelleria con l’artista Tony Fiorentino. Era la prima residenza della CCDS. Tirava vento e faceva freddo. La prima cosa che abbiamo fatto è stato cercare le carrette della speranza che fino a quel momento avevamo visto solo come immagini di fronte a un computer. E’ stato facile: ammucchiate su un molo del porto nuovo alcune barche sono lasciate a marcire esposte alla “pub-blica fede”. Le scritte in arabo sulle prue ne denunciano l’origine. Fu una visione tra-gica. Siamo rimasti in silenzio per diverso tempo. Quella sera stessa pensammo a una bandiera da issare su quelle barche. Una bandiera che rappresentasse la nostra azio-ne collettiva, che rappresentasse il nostro gruppo. Scegliemmo un fondo azzurro-mare con il simbolo della CCDS rosa fluo. Colori leggeri per togliere il peso di quella visione. Affrontare questioni serie sdrammatizzando, ci ripetevamo.

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LB: Come hanno reagito gli abitanti di Pantelleria?

SI: Ad aprile siamo tornati sull’isola con gli artisti Tony Fiorentino, Gabriele Abbruz-zese, e Pasqule Gadaleta per presentare la CCDS agli abitanti in maniera ufficiale. Già a febbraio avevamo contattato alcune asso-ciazioni culturali di Pantelleria vicine alle tematiche dell’immigrazione clandestina. Con la loro collaborazione abbiamo orga-nizzato una giornata per ricordare un grave naufragio avvenuto due anni prima, il quale colpì particolarmente la popolazione dell’i-sola. Fu il primo contatto con le persone che avevano vissuto direttamente quella trage-dia: dai volontari della Misericordia e della Protezione Civile che soccorsero i migranti, alla famiglia di Camille, che nel naufragio perse la madre dei suoi cinque figli, e che fu “adottato” con i suoi ragazzi dalla popola-zione di Pantelleria. Quel giorno, dopo aver portato fiori selvatici sul relitto di quella bar-ca e al cimitero, abbiamo presentato CCDS nel cinema di San Gaetano nella contrada di Scauri, intrecciando il nostro progetto ai racconti dei panteschi. Dopo quella sera-ta siamo ripartiti tutti tranne Pasquale che rimase in residenza per portare a termine il suo progetto. Si trattava di un gigante costru-ito col pane raffermo e seduto su una piccola barca. Così Pasquale appese in giro per l’isola delle locandine nelle quali spiegava il progetto e chiedeva del pane vecchio. In qualche giorno tutta Pantelleria sapeva del gigante e lo prese a cuore. Pasquale trovò tutto quello di cui aveva bisogno: il pane, la barca e uno studio dove lavorare. Il primo di giugno abbiamo presentato il gigante all’iso-la ed è stato forse quello il momento in cui,

non formalmente ma “de core”, gli abitanti di Pantelleria hanno accolto la CCDS ed i suoi artisti.

LB: Quali sono le aspettative del viaggio?

SI: Onestamente, Lorè, non ho aspettative precise. Proprio in questi giorni ci riflettevo. Non vorrei arrivare lì e come CCDS fare un gesto ufficiale. Preferirei agire su più livelli, guidati dalle ricerche e dalle necessità dei singoli artisti. Non mi va di andare in Tunisia solo per raccontare il nostro punto di vista. Sono più interessato al loro. Mi piacerebbe fare una mostra, ma solo dopo aver avviato un dialogo con le realtà e gli artisti del luogo. Diciamo che per quest’an-no sarà un giro d’esplorazione e comunque lasceremo dei piccoli segni: l’opera di Ettore Favini e il pane consumato al nostro arrivo dell’opera di Stefano Boccalini.

LB: Pensi che questo progetto estremo ti porterà a sparire come artista singolo che realizza singolarmente delle opere? Oppure stai facendo altri progetti?

SI: Sono stato sempre attratto dall’agire collettivo. I miei primi lavori erano firmati MIG419, una fantomatica entità collettiva di cui ero l’unico rappresentante. Ero e sono contro l’autoaffermazione. Questa esperien-za non sarà l’unica. In questi mesi trascorsi a Pantelleria ho sentito la necessità di iniziare un nuovo progetto collettivo: il Consorzio Piccoli Produttori Panteschi. Si tratta del mio gruppo di amici storici panteschi, tutti agricoltori o cuochi e dell’agricoltura locale con le sue produzioni tipiche (capperi e zibibbo). Un atto politico in realtà, ma le

questioni agricole pantesche sono troppo complesse per essere qui descritte. Non credo che scomparirò come artista singolo ma anzi, l’agire collettivo cura una parte dell’anima. Un’altra parte dell’anima la curo con il silenzio, fatto di gesti minimi e ripetitivi, come l’osservazione della natura e di me stesso. Quest’altra parte è profonda-mente intima e genera solo personali punti di vista, e non credo che riuscirò a smettere. Poi, chissà...

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¿Cómo un proyecto, o una idea de diálogocolectivo, toma forma y evoluciona?

La conversación entre Lorenzo Bruni y Si-mone Ialongo se produjo en un momento en que el artista había decidido presentar CCDS en la exposición colectiva “Encuentros” en la Accademia de la agitación de Lucca, en febrero de 2013.

LB: Tu obra son narraciones condensadas en una sola imagen, son el conflicto deuna “contradicción”. Por ejemplo, una detus esculturas se compone de una esferade oro envuelta en una película protectora, dejándola visible solo por el efecto de una imaginación empática.El proyecto reciente CCDS activa unaparadoja que va más allá de la broma y delhedonismo: no es sólo un reto, sino que in-volucra a otras personas en la preparación y discusión de por qué y cómo lograrlo. Abre inmediatamente la cuestión de lo que consti-tuye una obra de arte y cuál es su utilidad. A partir de una reflexión social se llega al len-guaje artístico hasta sentar las bases para un

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posible análisis colectivo sobre el papel de los museos, de la crítica de arte o del perio-dismo como mediadores de la problemática social. Quiero preguntarte si esta actitud está en contradicción con tus anteriores traba-jos, pienso en los que has realizado para tu exposición individual de 2011 “Formas del Tiempo” en el Museo de la Prehistoria de Florencia. La pregunta que rondaba durante todo el itinerario era: ¿Cómo podemos hoy interpretar los signos que nos rodean dán-doles la justa contextualización, pero sobre todo considerandolos presentes en nuestro tiempo y por lo tanto vivos? Los objetos creados seguían técnicas prehistóricas pero el contenido simbólico era obviamente dife-rente. Esta evidenciaciación del proceso per-mitía retirar la obra de la dimensión fetiche. ¿Puedes explicarme cómo se desarrolla esta aparente contradicción entre la tecnología y el contenido?

SI: No es una contradicción. Es algo sim-ple, iluminar las partes borrosas que están presentes en el inconsciente de todos. Creo que conservamos dentro toda la memoria del pasado, desde los orígenes de nuestra espe-cie. Esta memoria está latente, pero puede reactivarse através de sugerencias visuales simples o prácticas manuales. Esto es lo que trato de hacer con algunos de mis trabajos, como en el ciclo de la búsqueda del origen de la espiritualidad del hombre. En el Museo de la Prehistoria he intentado instalar la obra casi ocultándola entre otros objetos para crear un cortocircuito entre lo antiguo y lo contemporáneo. La misma actitud, aunque no lo parezca, me ha llevado a pensar en la exposición “Encuentros” a un panel con no-tas sobre un proyecto de viaje, para discutir

el tema y el concepto de lo que debe hacerse en la comunidad de Pantelleria en Túnez: CCDS .

LB : ¿Por qué Túnez? ¿Occidente sigue siendo aún un objetivo deseable? ¿Por qué esta acción? ¿Cuál es su aportación? ¿Es una obra de arte? ¿Para que sirve la obra de arte ?

SI: Estas preguntas sólo pueden ser anali-zadas a nivel colectivo, pero representan el motor silencioso de todas las obras que los artistas no pueden y no deben pronunciar en voz alta, amenazados por la desmaterializa-ción del momento mágico...

LB : Pensando en esto quiero preguntarte ¿Cuál es para ti el papel, respecto a la socie-dad y al público, de la obra de arte? ¿Y cual el del artista?

SI: Una obra de arte debe ofrecer una clave de lectura inédita para una mejor compren-sión del mundo. El artista no es más que una herramienta. En CCDS la obra pone de manifiesto mi compromiso y el de las otras personas que decidan participar en el viaje. Es una reflexión radical sobre el concepto de grupo y de pertenencia, un concepto que en el siglo XX estuvo a menudo demasiado atrincherado trás de la idea de la bandera nacional, pero ahora ya no se sostiene. Tene-mos que encontrar una serie de razones más sólidas.

LB: El concepto de ritual es muy interesante en relación con tu esfuerzo de hacerlo un plan de compartimento. En este momento de tu recorrido, “CCDS” es el punto en el

que portas a extremas consecuencias la dimensión evolutiva entre lo personal y lo universal que quieres lograr con la obra de arte. Me gustaría saber más sobre el inicio del proyecto y de su parte más personal, más tuya...

SI : Se trata de una experiencia personal: hace años, una mañana, pescaba doradas de las rocas de Pantelleria y noté dos patrulleras de la Guardia Costera que iban para atrás y para adelante en el mar frente a mí . Después de un tiempo echaron el ancla en un punto preciso, algunos buzos cayeron y empezaron a recuperar cuerpos. La noche anterior había naufragado una barca de la esperanza. Eran cuerpos de inmigrantes. Pensé así a un viaje en sentido contrario. CCDS es una manera de llamar la atención sobre esta dramática historia social, sobre un problema que va más allá de desembarcos y naufragios exis-tentes. Es una reflexión sobre la actual situa-ción socio-económica occidental, que podría llevarnos a emigrar hacia el sur en busca mejores condiciones. Creo que hoy en día nuestra sociedad está pasando por un mo-mento crucial. Las previsiones económicas cambian rápidamente, y por lo tanto también las sociales y culturales. Es necesaria una reorganización. Considero que este es un momento de emergencia. Creo que el arte tiene el deber de tomar parte activa en esta reorganización de la realidad. CCDS es un intento en esta dirección.

LB: ¿Cómo fue la colaboración con otros artistas? ¿Cuál fue la primera acción colec-tiva?

SI: Algunos de los artistas estuvieron en la

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residencia en Pantelleria. Así comenzó el proceso real “colectivo”. Había que ponerse en contacto con los trazas de esta migración presentes en la isla. Trazas dispersas a lo largo de la costa y en los depósitos judicia-les, pero también en las personas, testigos directos e indirectos. En febrero, tras la pre-sentación del proyecto en Scompiglio volví a Pantelleria con el artista Tony Fiorentino. Era la primera residencia de los CCDS. El viento soplaba y hacía frío. Lo primero que hicimos fue buscar las barcazas de la esperanza que hasta entonces sólo habíamos visto como imágenes en el ordenador. Fue fácil: apila-dos en un muelle del puerto nuevo algunos barcos se pudren expuestos a la “confianza pública”. La escritura árabe en los arcos de-nunció el origen. Era una visión trágica. Nos quedamos en silencio durante algún tiempo. Esa misma noche pensamos en izar una ban-dera en aquellos barcos. Una bandera que representara nuestra acción colectiva, que re-presentara a nuestro grupo. Elegimos un fon-do de mar azul con el símbolo de la rosa fluo-rescente CCDS. Colores claros para quitarle peso a aquella visión. Abordar los problemas graves desdramatizando, nos repetíamos.

LB: ¿Cómo han reaccionado los habitantes de Pantelleria?

SI: En abril volvimos a la isla con los artistas: Tony Fiorentino, Gabriele Abbruzzese y Pas-qule Gadaleta para presentar la CCDS a los habitantes de una manera oficial. En febrero nos pusimos en contacto con algunas aso-ciaciones culturales de Pantelleria cercanas a la temática de la inmigración clandestina. Con su colaboración hemos organizado un día para recordar un accidente grave ocurrido

hace dos años, el cual impresionó particular-mente la población de la isla. Fue el primer contacto con la gente que habían vivido directamente aquella tragedia: desde volun-tarios de la Misericordia y de la Protección Civil que rescataron los migrantes, a la fami-lia de Camille , quien perdió en el naufragio a la madre de sus cinco hijos, y fue “adoptado” con sus chicos por la localidad de Pantelle-ria. Ese día, después de traer flores silvestres al naufragio y al cementerio, presentamos CCDS en el cine de San Gaetano en el dis-trito de Scauri, entretejiendo las historias de nuestro proyecto de Pantelleria. Después de esa noche nos fuimos todos menos Pasquale que se quedó en casa para completar su pro-yecto. Se trataba de un gigante construido a partir de pan duro y sentado en una pequeña barca. Pasquale colgaba alrededor de la isla carteles en los que explicaba el proyecto y pedía pan viejo. En pocos días toda Pantelle-ria sabía del gigante y le tomó cariño. Pas-quale encontró todo lo que necesitaba: el pan, el barco y un estudio en el que trabajar. El 1 junio presentamos el gigante a la isla y fue tal vez el momento en el que, no formalmente pero “de corazón”, los habitantes de Pantelle-ria aceptaron la CCDS y a sus artistas.

LB: ¿Cuáles son sus expectativas para el via-je?

SI: Honestamente, Lorenzo, no tengo expec-tativas precisas. De hecho lo pensaba estos días. No quisiera llegar allí y como CCDS hacr un gesto oficial. Prefiero actuar a varios niveles, guiado por las investigaciones y las necesidades de los artistas individuales. Yo no quiero ir a Túnez sólo para contrar nuestro punto de vista. Estoy más interesado en ellos.

Me encantaría hacer una exposición, pero sólo después de iniciar un diálogo con las realidades y los artistas del lugar. Digamos que este año va a ser un viaje de exploración y de todos modos dejaremos pequeñas seña-les: la obra de Ettore Favini y el pan consu-mido a nuestra llegada de la obra de Stephen Boccalini.

LB: ¿Crees que este proyecto extremo te lle-vará a desaparecer como artista en solitario que crea obras de forma individual? ¿O estás haciendo otros proyectos?

SI: Siempre me atrajo actuar colectivamen-te. Mis primeros trabajos fueron firmados MIG419, una entidad colectiva misteriosa de la que yo era el único representante. Yo estaba y estoy en contra de la autoafirmación. Esta experiencia no será la única. En estos meses en Pantelleria sentí la necesidad de iniciar un nuevo proyecto conjunto: el Con-sorcio de Pequeños Productores Panteses. Se trata de mi grupo de amigos Panteses, todos agricultores o cocineros y de la agricultura local, con sus producciones típicas (alcapa-rras y vino zibibbo). Un acto político en rea-lidad, pero las cuestiones agrícolas Panteses son demasiado complejas para describirlas ahora. No creo que vaya a dejar de hacer proyectos individuales sino que además la acción colectiva cuida de una parte del alma. Otra parte del alma la cuido en silencio, compuesta por gestos mínimos y repetitivos, tales como la observación de la naturaleza y de mí mismo. Este lado es profundamen-te íntimo y genera sólo los puntos de vista personales, y creo que no voy a ser capaz de detenerme. Después, ¿Quién sabe...?

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mimmo CuLÙ CuLÙinterView

Mimmo Culù Culù, pantesco di nascita, è il capitano dell’imbarcazione che condurrà la controcarretta fino alle coste tunisine. Suo padre era un marinaio e lui vive in mare da sempre. Per lavoro trasporta merci dalla Tunisia fino in Pantelleria affrontando così le rotte dell’immigrazione. Il suo ci sembra un punto di vista privilegiato sul tema di CCDS.

AeR/NyR: La nostra edizione prende il nome dal gommone con cui nel 1952 Alain Bombard si lasciò naufragare per dimostra-re che una volta superata la paura si può sopravvivere con quello che offre il mare aperto. Lei pensa che sia possibile resistere in una condizione di naufragio?

M: Certo che in mare chi la cerca la trova (se fischi chiami tempesta) ma pensando al 1952 credo di comprendere l’incoscienza, ma soprattutto l’utilità del grosso rischio corso da Alain. Riguardo alla resistenza è data tutta dal rispetto e l’umiltà nei con-fronti del mare e soprattutto da una buona conoscenza. Anche il più grande montanaro riesce a resistere solo se ha paura: paura sempre, panico mai.

AeR/NyR: Quanto tempo passa in mare? Che cos’è per lei la terra ferma?

M: In mare sono nato e ci vivo. Il tempo trascorso est (è) relativo, in quanto a de-ciderlo è il tempo meteorologico. Quando

sono a terra dopo ventiquattro ore mi sento mancare. Per rientrare in mare, se è bonac-cia e ho un’avaria a bordo, giro la faccia mostrando le spalle all’azzurro mare, come se fosse un tradimento e mi vergogno a guardarlo perché fa male.

AeR/NyR: Quale evento successo in mare aperto non riuscirà mai a dimenticare?

M: Ero di guardia in una giornata di pesca al pesce spada, bonaccia piatta, qua si dice “Fitusa” e vedevo saltare una tartaruga, cre-devo fosse un’allucinazione. Chiamai su-bito mio padre che senza alzarsi dalla cuc-cetta mi disse: “saranno pesci che giocano”. Tornai a poppa e li vidi: delfini in cerchio

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che a turno spingevano la tartaruga in aria facendogli fare voli di venti metri.

AeR/NyR: Il mare ha generato miriadi di racconti, molti dei quali di fantascienza o di orrore. Noi crediamo che questo sia legato alla difficoltà di dare un punto di riferimen-to spaziale ai luoghi del mare. Lei ha mai raccontato una brutta storia legata al mare? Quali storie o aneddoti le raccontavano da piccolo?

M. L’aneddoto più importante è stato la favola del Gronco ipnotizzatore. Si diceva che quando lo guardavi dritto negli occhi lui compiva un salto e ti mangiava. Ancora oggi i pescatori parlano di scomparse in mare causate dal Gronco gigante.

AeR/NyR: Quando ha comandato per la prima volta una barca? E’ cambiato qual-cosa e se sì cosa, da allora ad oggi, nella navigazione?

M. La miglior navigazione è a vista, ma in mare aperto uso il GPS anche se non gli do affidabilità. Quando navigo in situazioni difficili; alle volte bisogna orientarsi con i rimedi più veri, visibili, cioè astri, cam-panili e fondali; perché anche se il GPS è preciso si può sempre avere un’avaria e lì ti salva Eolo o Poseidone.

AeR/NyR: I ragazzi di CCDS ci hanno informato che lei è anche artista. Come ha iniziato a fare arte? Perché lo fa e cosa vuo-le esprimere con le sue opere?

M. L’arte in me credo sia una cosa geneti-ca. Mi ha sempre affascinato da bambino

costruire zattere e da ragazzo barche da ristrutturare, sempre usando metodi antichi (senza elettricità). Poi scolpisco pietre che per molti è arte, ma per me resta solo un possibile mezzo di utilizzo.

AeR/NyR: Per il suo lavoro di speziale, lei compie regolarmente la tratta che gli immi-grati affrontano dalla Tunisia a Pantelleria. Quali sono per lei le differenze fra il suo viaggio di commercio e il loro viaggio della speranza?

M. Credo che lo scambio sia la cosa più an-tica del mondo ed in mare è normale, vige un rispetto che in terra non esiste. Il rispetto per tutti in mare è una regola fondamentale. Loro cercano qualcosa che non so, mentre io so quello che cerco: farina, olio, legno...

AeR/NyR: Immaginiamo abbia dei rapporti con le carrette che incrocia sulla sua rotta. Si costruiscono delle relazioni? Di che tipo?

M: I rapporti tra le barche sono uguali per tutti, chi ha bisogno viene aiutato; solo in caso di incomunicabilità si cercano altre barche vicine in aiuto, ma il mare stesso mette tutti allo stesso livello, senza dubbi ci si capisce meglio in quanto la fame aguzza l’ingegno.

AeR/NyR: Secondo lei perché degli artisti hanno deciso di operarsi in un progetto come CCDS? Ritiene che sia importante? In che modo?

M. E’ molto importante la certezza che ar-tisti si adoperano in questa dimostrazione portando qualcosa di creativo nella terra tu-

nisina, anche perché l’arte non ha ostacoli, est come il mare, orizzonte infinito.

AeR/NyR: Ha mai pensato di cambiare la sua vita? In che modo?

M: Non cambio.

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Mimmo Culù Culù, pantesco de nacimien-to, es el capitán de la embarcación que lle-vará al controcarretta a la costa de Túnez. Su padre era un marinero y él vive en el mar desde siempre. Por negocios transpor-ta mercancías desde Túnez a Pantelleria afrontando así las rutas migratorias. El suyo parece un punto de vista privilegiado sobre el tema de CCDS.

AeR/NyR: Nuestra edición lleva el nombre del barco que se dió a la deriva en 1952, Alain Bombard naufragó aproposito para mostrar que una vez superado el miedo se puede sobrevivir con lo que ofrece el mar abierto. ¿Usted piensa que se pueda resistir en una situación de naufragio?

M: Por supuesto que en el mar quien la busca la halla (si silbas llamas a la tormen-ta) pero pensando en 1952 creo entender la inconsciencia, pero sobre todo la utilidad del gran riesgo corrido por Alain. En cuan-to a la resistencia se basa en el respeto y humildad hacia el mar y sobre todo en su buen conocimiento. Incluso el más grande alpinista puede resistir solo si tiene miedo: miedo siempre, pánico nunca.

AeR/NyR: ¿Cuánto tiempo pasa en el mar?

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¿Qué significa para usted la tierra firme?

M: En el mar he nacido y vivido. El tiempo transcurrido es relativo, ya que lo decide el clima. Cuando estoy en tierra después de veinticuatro horas me siento desfallecer. Para reentrar en el mar, si está tranquilo y tengo una avería a bordo, me giro mostran-do la espalda al mar azul, como si fuera una traición me averguenza mirarlo porque me duele .

AeR/NyR : ¿Qué evento ocurrió en mar abierto que nunca olvidará?

M: Yo estaba de guardia en un día de pesca del pez espada, calma total, aquí se dice ‘Fitusa’ y ví saltar una tortuga, pensé que era una alucinación. Rápidamente llamé a mi padre que sin tener que levantarse del camastro me dijo, “serán los peces que jue-gan”. Volví a popa y los vi: delfines en un círculo, que a turnos empuban a la tortuga en el aire haciéndola volar veinte metros.

AeR/NyR: El mar ha generado una gran cantidad de cuentos, muchos de los cuales son de fantasía o terror. Nosotros creemos que esto está relacionado con la dificultad de dar un punto de referencia espacial de los lugares del mar. ¿Alguna vez ha con-tado una historia legada a la mar? ¿Qué historias o anécdotas le contaban cuando era niño?

M. La historia más importante fue la fábu-la del Congrio hipnotizador. Se decía que cuando lo mirabas a los ojos él realizaba un salto y te comía. Incluso hoy en día los pescadores hablan de desapariciones en el

mar causadas por el Congrio gigante.

AeR/NyR: ¿Cuándo ha comandado por pri-mera vez un barco? ¿Ha cambiado mucho desde entonces la navegación?

M. La mejor navegación es a vista, pero en alta mar uso el GPS, aunque no le doy fiabilidad. Cuando navego en situaciones difíciles, a veces hay que orientarse con remedios más reales, visibles, es decir, los astros, campanas y fondo marino, ya que aunque el GPS es preciso siempre se puede tener una falla y ahí te salvan Eolo y Posei-dón.

AeR/NyR: Los chicos de CCDS nos han informado de que también es un artista. ¿Cómo empezó a hacer arte? ¿Por qué lo hace y qué quiere expresar en sus obras ?

M. El arte en mí creo que es algo genético. Siempre me ha fascinado desde niño cons-truir balsas y en la juventud barcas para restaurar, siempre utilizando métodos anti-guos ( sin electricidad). Aparte esculpo pie-dras que para muchos son arte, pero para mí queda sólo un posible medio de uso.

AeR/NyR: Por su trabajo especial, afronta regularmente la situación que los inmigran-tes enfrentan desde Túnez a Pantelleria . ¿Cuales son para usted las diferencias entre su viaje de trabajo y el de ellos a la espe-ranza?

M. Yo creo que el intercambio es la cosa más antigua del mundo y en el mar es nor-mal, hay un respeto que en tierra no existe. El respeto para todos es una regla funda-

mental en el mar. Ellos buscan algo que no sé, pero yo sé lo que estoy buscando: hari-na, aceite , madera ...

AeR/NyR: Imaginemos que tenga relacio-nes con los barcos que cruzan su ruta. ¿Se construyen relaciones? ¿De qué tipo?

M: Las relaciones entre los barcos son las mismas para todos, quien lo necesita es ayudado, sólo en el caso de la falta de co-municación se busca ayuda de embarcacio-nes cercanas por ayuda, pero el mismo mar pone a todos al mismo nivel, y sin duda se comprende mejor en cuanto el hambre agu-diza el ingenio.

AeR/NyR: ¿Por qué cree que los artistas han decidido meterse en un proyecto como “ CCDS”? ¿Considera que es importante? ¿En qué modo?

M. Es muy importante la certeza que los artistas trabajen en esta demostración tra-yendo algo creativo a la tierra de Túnez, también porque el arte no tiene obstáculos, es como el mar, el horizonte es infinito.

AeR/NyR: ¿Alguna vez ha pensado en cambiar su vida? ¿En que modo?

M: Yo no cambio.

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taksim oLaYLari

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PoLis

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bireYseLLik Ve demokrasi / it’s not resistanCe, it’s a resurreCtionnurten ozkoraY

90 kuşağı Gezi Parkı’nda başlayan ve tüm ülkeye yayılan protesto eylemlerinde hepi-mizi şaşırttı. Yıllarca bu halkın haksızlıkla-ra karşı başkaldırmamasına akıl erdireme-yen ve bunu yapabilen halkları gıptayla izleyen ben, önyargıyla apolitik ve tüketim meraklısı olarak gördüğümüz bu gençlerin yaptıkları öncülüğü hayranlık ve mutluluk-la izliyorum. Herkes bu muhteşem fenomeni açıklamaya çalışıyor ama bence yapmamız gereken bu gençleri dinlemek, izlemek ve tabii ki desteklemek. Bu hareketin siyasi bir kanala akması ise biraz zaman alacak. Çünkü ken-di yaşam tarzını, çevreci ilkelerini, birey-selliğini ve kamusal alanını savunmak için günlerdir direnen ve savaşan bu gençlerin güvenini kazanmak kolay değil. Yaşamına, davranışına, giyimine, içkisine, sanatına, cinselliğine, yazdığına, okuduğuna, sine-masına, tiyatrosuna, müziğine, inancına, eğitimine, sosyal medyasına, okuluna, yani hayatlarının her alanına getirilmeye çalı-şılan ayarlara karşı rest çeken bu gençler korku duvarını da aşarak yenilmez hale geldiler. Eski model paradigmalar da artık geçerliliklerini yitirdiler. Ama yeni ku-ramsal çerçevelerin oluşması yumuşak bir geçişle gerçekleşmeyecek. Bu geçiş biraz sancılı olacak. Fakat kendimizi rüyadaymı-şız gibi hissettiren bu ilk gerçek halk isya-nının yarattığı mutluluğun ve geleceğe dair ümidin tadını da çıkarmak gerekiyor. Dün-yada hiçbir ülke demokrasi ve özgürlükleri bedelsiz elde etmedi. Jakoben biçimde

önümüze konulan bu rejim, devleti gözeten tek taraflı bir kontratı bize dayattı. Şimdi konuşma sırası halklarda. Diğer taraftan ülkeyi yönetenlerin ve bu şahane gençleri hizaya sokmak çabasıyla kullandıkları polis gücünün yaklaşımına bir karşılaştırma olarak Fransa’dan, hem de sağcı bir liderden örnek vereceğim: Ceza-yir’in bağımsızlık için ayaklandığı 1954-1962 yılları arasında Jean-Paul Sartre bunu yüksek sesle savunarak “bölücülük” yapı-yordu. Paris sokaklarında gazete satarak “halkı isyana teşvik eden” filozof ve yazarı tutuklamak isteyen polis şefi, karşısında generallikten gelen Devlet Başkanı Charles de Gaulle’ü buldu. Polis şefi itiraz edip: “Ama efendim sizin karşı çıktığınız şeyleri savunuyor, oysa siz Fransa’sınız” dediğin-de, devlet başkanı ona şu cevabı vermişti: “Ben değil asıl Sartre Fransa’dır”.2010 yılında Boğaziçi Üniversitesi’nde yaptığım akademik çalışmada, Türkiye çapında 1000 kişiyle yaptığımız araştır-mada kentli nüfusun % 47’sinin kimliğini milliyet ve din üzerinden tanımladığını, kimlik unsurlarında bireyselliği vurgulayan çeşitlenmenin hayata geçemediğini göz-lemlemiştim. Aslında bu oranın AKP’yi destekleyenlerin oranına yakın olması tesa-düf değil. Bireyselleşmenin ileri olduğu toplumlarda insanlar kimliklerini meslekleriyle, yap-tıkları spor veya sahibi oldukları hobiyle veya kendi kişisel özellikleri ile tanımlar-lar. Milliyet, din ya da bir şehirden olmak

daha sonra gelir. Bu şu açıdan önemlidir: insanlar kendi kararlarını bağımsız olarak alabilir, bir topluluğa ait olmadan kendi-lerini güven içinde hissedebilirler. Bunun uzantısı olarak da başkalarının ne diyece-ğine aldırmadan kendi hayallerinin peşinde koşabilirler. Çizgi dışı olmaktan kork-mazlar. Başkaları deli dese bile o bireyler çılgın bir sanatçı ya da hayal peşinde bilim adamı olabilir, kendi istedikleri seçimleri yaparak kendi hayatlarını yaşayabilirler. Bireyselleşmenin güçlü olduğu toplum-larda demokrasi dışı rejimler gelişemez. Burada bireyselleşmeden egoizm ve başka-larına duyarsızlık anlaşılmamalı. Bireysel-leşmiş toplumlarda dayanışma ve yardım örgütlenmelerinin de daha güçlü olduğu biliniyor. İşte Gezi Parkı’nda toplananlar tüm bunları en güzel biçimde bizlere gös-terdiler. Orada örnek bir komün yaşamını organize ettiler. Hem sonuna kadar bireyselliklerini koru-yor hem de dayanışmayı en zarif biçimde uyguluyorlar. Onlar bizim ilerlemek için ihtiyacımız olan “uyumsuzlar” yani batılı bir deyişle “non-konformistler”.İngiliz düşünür ve yazar Bertrand Russell, 1948’de BBC radyosunda verdiği “Otorite ve Birey” *konulu konferanslarından bi-rinde şöyle diyordu: “Bir toplum eğer ge-lişmek istiyorsa konformist olmayan belirli sayıda bireye ihtiyaç duyar. Sanatsal, ma-nevi ve entelektüel her türlü ilerleme, bar-barlıktan medeniyete geçilmesinde belirle-yici olan bu uyum dışı bireyler sayesinde

Photography by Imre Ozkoray

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HeLP PoLiCe

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olmuştur… Biz insanları ehli ve çekingen hale getirerek iyi bir dünya yaratamayız. Onları cesur, maceracı ve korkusuz olma-ya teşvik etmeliyiz”. Kendisi de yüz yıla yakın hayatında muhalif ve çizgi dışı bir düşünür ve yazar olan Bertrand Russel’ın sözlerini; kışladan çıkmasına rağmen top-lumunun entelektüelini kendi politikasına ne denli karşı olursa olsun koruyan Charles de Gaulle’ü ve tek tip olmaya doğru koşul-landırılan Türk toplumunu bir arada düşün-düğümüzde yaratıcılığın hangi topraklarda yeşerebileceğine dair bir tartışma alanı elde edebiliriz. % 47’ si dinsel ve milli referans-larla özdeşleşen, hizaya getirilmiş insanlar-dan oluşan bu toplumda uyum dışı olmak, farklı düşünmek ve bunu ifade etmek bu kadar zorlaştırılıyor ve hatta cezalandırılı-yorsa, “sürüden ayrılan” dışlanıyor ve hatta hapsediliyorsa, bir toplumun üyeleri birey olamadan yaşayıp gidiyorsa, bu toplumun demokrasiye ulaşması imkânsız hale gelir. Toplumdan değil insan kitlelerinden bahse-debiliriz ve bu insan kitleleri Hannah Aren-dt’in “Totalitarizmin Kaynakları” kitabında bahsettiği gibi otoriter rejimlerin yıkıcı gücü haline gelir. En küçük kıvılcımda şiddete başvurur, akla hayale gelmeyecek şiddette linç yapar, düşünmeden manipü-lasyona açık olur ve milliyetçi sloganlarla bir silah gibi kullanıma açık hale gelir. Ko-layca patolojik noktalara gelebilen böyle bir toplumda insanlar birbirlerine karşı uz-laşma, hoşgörü ve anlayış sahibi olamazlar, her sorunda şiddete başvururlar.Böyle bir toplumda yaratıcılık yok edilir, vasatlık hakim olur ve sosyal mobilitede pozitif değil de negatif seleksiyon işlerlik kazanır, güç ve ün sahibi olmak ile nitelikli olmak arasında uçurum oluşur. Üzerimi-

ze çökmüş olan yılların sindirilmişliğini, egemen ve baskıcı havayı kıran Gezi Parkı protestocuları Türkiye’ye demokrasinin gelebilmesi, insan haklarının, ifade hür-riyetinin, çoğulculuğun ve adaletin tam anlamıyla yerleşebilmesi için önümüzde bir yol açtılar. Gideceğimiz yol uzun ama bu hedeflere ulaşmak artık eskisinden çok daha mümkün. Teşekkürler 90’ların kuşa-ğı. Bizim çok bilmiş kuşağa ilham ve en önemlisi ümit verdiniz.

None of us could see this coming. It was something like the arrival of Godot. In 90 years since its foundation, the citizens of Turkish Republic never had such a wide-spread uprising before. Millions of people took to the streets since Police violently at-tacked the peaceful protesters at Gezi Park on May 30, at the very center of Istanbul, an unfortunate and unjust act that triggered an unprecedented anger in people who were already annoyed by the statements of the Prime Minister Erdoğan covering all aspects of life, lecturing a conservative is-lamic life style.There had been big rallies before. But none could compare this new phenomenon. Previous rallies were organized by trade unions, students, political parties with the participation of its members as people in the streets looked on rather indifferently. This time, parents joined the movement with their kids. What was the reason that mobilized these mostly middle class, apo-litical people in such large numbers? What was the unifiying force that brought all factions of society that were opposed to government policies? I could summarize the underlying cause as the attempt of the

public realm to occupy the private realm. The nature of a political regime can be determined on the relationship between public and private realms. In democracies private realm has the priority. The pro-islamic government in Turkey, especially its prime minister, Tayyip Erdoğan, started to attack the private area as he unleahed his wishes for a conservative islamic mode of living for the people of Turkey. However, he forgot that more than 60% of the people voted against him during the last election. What started as a protest of a small scale against a government project to destroy the last patch of green at the center of the town became the first widespread protest of the government policies, especially the dis-course of the Prime Minister Recep Tayyip Erdogan. It was also the first movement of the peoples of Turkey covering all social classes. The movement is not organized by any political party. It caught fire spontane-ously because people were fed up by the speeches of the Prime Minister preaching a conservative life style, which was viewed as the violation of the private realm. This reminded me of the research and soci-ology thesis I did for Bosphorus University back in 2010 titled :”Individualism and De-mocracy in Turkey” which tries to measure the level of individualism and its direct connection with the culture of democracy. The definition of individualism in modern democracy embodies pluralism, a precious element of contemporary democracy that ensures the protection of individual differ-ences in ethnic, racial, sexual, political and religious sense. The political, cultural and economic factors present in the country only partially define the way an individual

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did u run out of PePPer

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interacts with the superstructure in a quest to pursue his/her own vision of life. It is mainly the way state organizes its ideology that makes the main impact. An imposing emphasis on nationalism, supremacy of the nation over individual, limitations on diversity of identities, monotype citizen model resulted in infertile environment for the development of the individual.British writer and thinker Bertrand Russell stressed the importance of having “non-conformist individuals” as avant-gardes and pioneers of societies. In his BBC lectures titled “Authority and Individual” (1949), he teaches political leaders an im-portant lesson*:A Community needs if it is to prosper, a certain number of individuals who do not conform to the general type. Practically all progress, artistic, moral and intellectual has depended upon such individuals who have been a decisive factor in the transition from barbarism to civilization…We shall not create a good world by trying to make men tame and timid, but by encouraging them to be bold, adventurous and fearless except in inflicting injuries upon other fel-low-men. In these words, Bertrand Russell summarizes the essence of how individual-ism leads the progress in societies and why it is important in the épanouissement (blos-soming) of man.In the study conducted in 2010 with a sam-ple group of 1000 people in urban areas of 11 cities around Turkey representing the whole population, the research showed 47,7% of the people interviewed displayed collectivist values as opposed to 53,3% of the people who showed individualistic values. This corresponds with the votes the

pro-islamic governing party gained at the elections (49,8 % ) with 51,2 % on the op-position. It is strongly probable that it was these half of the population that reacted against the policies of the autocratic prime minister who also wanted to crackdown a peaceful environmental protest which was an expression of a will to participate in the decisions of how the public areas should be utilized. The anger has been brewing for some time because of limitations on alcohol use, banning of restaurant tables on the sidewalks, discourse against abortion, repeated advise for women to have at least 3 kids, demolition of a precious old cinema in Taksim area while spraying teargas on the protesters and many more interfering comments by the PM and other govern-ment members. The Gezi spirit is alive and the genie is out of the bottle. Things will never be the same in Turkey after bru-tal police intervention cost the lives of 6 people, namely Abdullah Cömert, Ethem Sarısülük, Mehmet Ayvalıtaş, Mustafa Sarı, İrfan Tuna and Ali İsmail Korkmaz. The spirit is reflected in the slogans on the cith walls with a determination as well as humour. Here are some of the slogans and grafitti literature: “It is the drunkards who saves the country” (Alluding to Atatürk who is not beloved by the İslamists) ● Do you have a strawberry flavoured one? (About the pepper gas) ● I’ve been an atheist for 40 years, never seen a Godless like this one” ● “Don’t be an ass listen to the people!” ● “Love means getting organized” ● “We own this city” ● “Capital get out, streets belong to us” ● “If you don’t play, you can’t win!” ● “A tree went down, a people awakened” ● “It rains

gas this summer!” ● “Coward media!“ ● “Media for sale” (on an occupied and burnt TV transmitter vehicle) ● “Too many po-lice, too little justice” Nitimur in vetitum - Nietzsche ● “We resisted and aborted the dead citizen inside us“ ● Direndik. İçimizdeki ölü ● “Neither fascism nor communism, long live erotism” ● “Capital-ism sells the trees when they can not sell their shadows” (Karl Marx) ● “Revolution Party! Everyone is invited” (with pilaf) ● “Land if you can!” (near an H mark for police helicopters) ● “Pepper spray makes your skin prettier” (near a cosmetic store) ● “Where are you Saprtacus?” ● “Buffer zone to make love” ● “Tayyip winter is coming” ● “Welcome to Fight Club Tayy-ip” ● Tayyip Bieber (Biber means pepper in Turkish) ● “Tayyip is my girl” ● “Resia-tance girls are all pretty” ● “1984 is now” ● “Let‘s get chemical!” ● “Why always me?” ● “If you do not risk your life you can‘t create a future” ● George Orwell. Big Brother! ● “Gas me baby one more time”.We proved ourselves we too like people of other countries could protest without state intimidation in an atmosphere of solidarity. The walls of fear came down and we are ever more hopeful for a true democracy for our people, for the next generation at least after spending our lives in a country with pseudo democracy. Let’s finish with anoth-er Gezi slogan: “I resist, therefore I am!”

*Russell, Bertrand, Authority and the Individual, New York: Simon and Schuster, c1949.

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streets are ours

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goVt. resign

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finisH Him

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antonia aLamPiinterView

AeR/NyR: Sei curatrice di “Beirut” al Cairo da circa un anno. In che modo il contesto egiziano ha influenzato la tua atti-vità curatoriale e la tua programmazione a “Beirut”?

AA: Riflettere sempre sul significato po-litico, la valenza ideologica, la necessità e rilevanza di ciò che propongo e penso.

AeR/NyR: Che tipo di istituzione è “Bei-rut”? Che situazione hai trovato al tuo arrivo e cosa vorresti lasciare?

AA: Beirut è tante cose, un’istituzione in fieri, un collettivo, un ufficio curatoriale, è una villetta di tre piani degli anni quaranta

ad Agouza, uno spazio espositivo e una comunità un po’ anni ‘70. Sono arrivata trovando una “Beirut” che ora è molto diversa, “Beirut” siamo noi, un’istituzione è costituita dalle persone che la animano e dalla loro interazione.

AeR/NyR: Sul www.beirutbeirut.org si legge che “Beirut” è un’istituzione che considera il suo spazio come un atto cura-toriale. Cosa significa per te questa dichia-razione? Quali sono le possibili conse-guenze di un atto curatoriale in un contesto come quello de Il Cairo?

AA: Curare un’istituzione per noi vuol dire evocare sistematicamente lo spazio che

indugia tra le persone, così come l’arte, la vita quotidiana e i luoghi che la circonda-no. L’idea è quella di pensare al di là dei protocolli o dei sistemi già in uso, altale-nando tra il dimenticare e il ricordare ciò che ci ha preceduto. Dobbiamo pensare creativamente, immaginare! E naturalmen-te imparare a portare avanti un’istituzione in un contesto instabile, dove la fluidità prevale come elemento condizionante della situazione politica e del suo futuro.Crediamo che il costruire un’istituzione artistica come atto curatoriale in sé permet-ta di sviluppare lateralmente gli strumenti per restaurare la centralità dell’arte. È per questo che abbiamo immaginato la possibi-lità di un ruolo degli artisti all’interno del

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processo in cui un’istituzione prende for-ma, legalmente, finanziariamente, nel suo design amministrativo, nella sua immagine pubblica, nel suo linguaggio. Su questa linea un esempio chiaro è l’aver commis-sionato la nostra registrazione legale al duo Goldin+Senneby. Legalmente parlando, “Beirut” si firma Goldin+Senneby LLC. In questo senso, anche portare avanti la nostra programmazione in “stagioni” articolate at-traverso una serie di attività e domande in-terconnesse contribuisce allo sviluppo delle nostre metodologie curatoriali, e ci aiuta a rimanere flessibili e sensibili ai sentimenti che ci circondano.

AeR/NyR: Il tuo approccio curatoriale al “Beirut” ha aperto molte questioni connesse tra loro. Le hai svolte e declinate attraverso differenti modalità di lavoro ed esposizione. A quale punto senti di essere arrivata? Ci sono domande a cui senti di aver dato una risposta o temi che adesso percepisci come risolti? Le stagioni future ripartiranno dal lavoro svolto nel primo anno o toccheranno altre tematiche?

AA: Non credo ci siano mai risposte certe e date una volta per tutte, ma sicuramente ho, ed abbiamo, imparato molto proprio “fa-cendo”, per quanto banale possa sembrare. Ogni stagione in un certo senso confluisce nella successiva, anche perché non ci atte-niamo rigidamente a criteri “tematici”. La nostra nuova stagione per esempio riflette sull’educazione, sull’imparare, sul costru-ire invece di istruire, sul ruolo dell’arte e della creatività come fondamentali stimoli al pensiero, alla ricerca di alternative, allo sperare e attivamente contribuire ad un

risultato che sia “diverso” rispetto a quello cui condurrebbero le condizioni date. Chis-sà, pensandoci in prospettiva ciò magari è anche dovuto al fatto che marca decisamen-te il nostro primo anno di attività. Al Cairo il 19 Settembre inauguriamo una mostra collettiva dal titolo “Writing with the other hand is imagining”, apertamente ispirata a Scrivere con la mano sinistra è disegnare di Alighiero Boetti, con lavori di Luis Cam-nitzer, Dina Danish, Redmond Entwistle, Malak Helmy, Adelita Husni-Bey, Parallel Lines, Mladen Stilinović e Katarina Zdjelar.Avremo poi un ricco programma di labora-tori e workshops, parte del nostro Imagina-ry School Program, con contributi, tra gli altri, di artisti come CAMP, Adelita Husni-Bey e Snejanka Mihaylova.In Novembre inaugureremo una mostra personale di Lawrence Abu-Hamdan, già con noi in ricerca la stagione scorsa, cui abbiamo commissionato un nuovo lavoro nato proprio dal suo periodo al Cairo. Ciò segna l’inizio del nostro nuovo program-ma “Beirut Collaborative Commission”, il cui scopo è commissionare lavori in part-nership con altre istituzioni, il che è anche dovuto al fatto che spesso è molto difficile che lavori nati e cresciuti qui siano poi anche distribuiti a livello locale. Infatti la mancanza di infrastruttura fa si che spesso i lavori vengano visti globalmente ma sen-za alcun tipo di visibilità in Egitto, luogo in cui, teoricamente, dovrebbero forse avere anche più rilevanza.

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AeR/NyR: ¿Eres comisario en el “Beirut” de El Cairo desde hace aproximadamente

un año. ¿De qué manera el contexto egip-cio ha influído en tu actividad conservado-ra y tu programación?

AA: Pensar siempre en el significado polí-tico, el valor ideológico, la necesidad y la importancia de lo que propongo y de lo que pienso.

AeR/NyR: ¿Qué tipo de institución es “Beirut”?¿Qué situación encontraste al llegar, y qué querrías dejar?

AA: Beirut es muchas cosas, una institu-ción que está haciéndose, un colectivo, una oficina de la conservación, una casa de tres pisos de los años cuarenta en Agouza, un espacio de exposición y una comunidad un poco “años 70”. Encontré al llegar una “Beirut” que ahora es muy diferente, “Beirut” somos nosotros, una institución se constituye de la gente que le da vida y de su interacción.

AeR/NyR: En www.beirutbeirut.org se lee que “Beirut” es una institución que considera su espacio como un acto conservador. ¿Qué significa para ti esta declaración?¿Cuáles son las posibles consecuencias de acto conservador en un contexto como el de El Cairo ?

AA: Conservar una institución para no-sotros significa evocar sistemáticamente el espacio que persiste entre la gente, así como el arte , la vida cotidiana y los lugares que la rodean. La idea es pensar más allá de los protocolos o sistemas que ya están en uso, alternando entre olvidar y recordar lo que nos ha precedido. Debemos

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pensar creativamente, ¡imaginar! Y por supuesto aprender a llevar adelante una institución en un contexto inestable, donde la fluidez prevalece como un elemento con-dicionante de la situación política y de su futuro. Creemos que construir una institu-ción artística como un acto conservador en sí mismo permite desarrollar lateralmente las herramientas para restaurar la centrali-dad del arte. Es por ello que hemos imagi-nado la posibilidad de un rol de los artistas en el proceso en el cual una entidad ad-quiere forma, legalmente, financieramente, en su diseño administrativo, en su imagen pública, en su idioma. Un claro ejemplo en esta línea es el habernos encargado del registro legal de la pareja Goldin+Senneby. En términos legales , “Beirut” se firma Goldin+Senneby LLC. En este sentido, además de continuar nuestra programación en “estaciones” articuladas a través de una serie de actividades y cuestiones interco-nectadas, contribuye al desarrollo de nues-tras metodologías conservadoras, y nos ayuda a seguir siendo flexibles y sensibles a los sentimientos que nos rodean.

AeR/NyR: Tu enfoque curatorial en “Bei-rut” ha abierto muchas preguntas interrela-cionadas. Las has expuesto y desarrollado a través de distintas formas de trabajo y exposición. ¿A qué punto sientes que has llegado?¿Hay preguntas a las que sientes haber dado una respuesta o temas que aho-ra percibes como resueltos?¿Las tempora-das futuras continuarán el trabajo realizado en el primer año o afectarán a otros temas?

AA: No creo que haya respuestas definiti-vas y universales, pero seguramente haya,

y hayamos, aprendido mucho tan solo “haciendo”, por trivial que pueda parecer. Cada temporada en cierto sentido desem-boca en la siguiente, en parte porque no nos aferramos estrictamente a criterios “temáticos”. Nuestra nueva temporada, por ejemplo, reflexiona sobre la educación, el aprendizaje, sobre construir en lugar de instruir, el papel del arte y la creatividad como un estímulo fundamental para el pensamiento, para la búsqueda de alterna-tivas, para la esperanza y para contribuir activamente a un resultado que sea “di-ferente” respecto al que conducirían a las condiciones dadas. Quién sabe, pensando en perspectiva tal vez también se deba al hecho que marca sin duda nuestro primer año de funcionamiento. En El Cairo, el 19 de septiembre inauguramos una exposi-ción colectiva titulada “Escribir con la otra mano es imaginar”, abiertamente inspira-da en “Escribir con la mano izquierda es dibujar” de Alighiero Boetti, con obras de Luis Camnitzer, Dina Danish, Redmond Entwistle, Malak Helmy, Adelita Husni-Bey, Parallel Lines, Mladen Stilinovic y Katarina Zdjelar. Entonces tendremos un completo programa de talleres y semina-rios, parte de nuestro “Imaginary School Program” con la colaboración, entre otros, de artistas como CAMP, Adelita Husni-Bey y Snejanka Mihaylova. En noviembre se inaugurará una exposición de Lawrence Abu- Hamdan, ya con nosotros en busca de la última temporada, en la que encargamos un nuevo trabajo que nace de su estancia en El Cairo. Esto marca el inicio de nuestro nuevo programa “Beirut Comisión Co-laborativa”, cuyo objetivo es trabajar en colaboración con otras instituciones, lo que

también es debido al hecho de que a menu-do es muy difícil que trabajos gestados y desarrollados aquí sean luego distribuidos también a nivel local. De hecho, la falta de infraestructura hace que a menudo los trabajos se vean a nivel mundial pero no tengan ningún tipo de visibilidad en Egip-to, donde, en teoría, deberían tener aún más relevancia.

Ryan Gander / I had a Message from the Curator / Performance

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iL LooP deLLe naVi / eL buCLe de Los barCos giuLia gonfiantinii

Sole e silenzio sono i cerimoniali che ac-colgono le petroliere immortalate nel 1966 da Bernardo Bertolucci ne “Il canale”. Una popolazione reagisce silenziosa e composta al transito delle grandi imbarcazioni che, a distanza di pochi minuti l’una dall’altra, oltrepassano il centro abitato. Queste fanno capolino in fondo ai vicoli e in mezzo alle case, mutando così in modo irreversibile lo scenario locale. Alla sobrietà del posto, re-taggio del “sogno coloniale”, sembra som-marsi la paura per qualcosa che ha cambia-to per sempre la capacità di una città di immaginare il proprio rapporto con l’acqua. Ma la rappresentazione di Berto-lucci del canale, accompagnata da versi di Rimbaud rievocati fuori campo, è ben lon-

tana dalla documentaristica tradizionale. Il loop della petroliera in lontananza si-gnifica, per l’ignaro osservatore sulla riva, una sospensione del tempo normale1. Ciò accade nel bel mezzo di una calma apparen-te: nessuno, da terra, si ferma a guardare o indicare la nave. Ugualmente sul ponte di questa nessuno è visibile, e l’imbarcazione scivola silenziosamente sull’acqua come un enorme vascello fantasma. Suez e il ca-nale che ne trae il nome assurgono a luoghi comuni, in cui si sta svolgendo una rivolta muta e senza rivoltosi di piazza. Oggi noi la ricondurremmo all’ambiguità del pro-gresso, mentre in quel momento dev’essere apparsa a qualcuno come un sovvertimento totale delle coordinate spazio-temporali. Di

questo scontro senza armi o dichiarazioni di guerra sono emblema i figli dei pescatori, la cui “suprema maturità” li rende ricetta-colo di visioni e venti di cambiamento che astraggono, dissolvono e infine riportano indietro, verso gli antichi parapetti d’Euro-pa. Ma “Il profeta annuncia la sospensione del tempo, ed anche la ripetibilità delle so-spensioni del tempo”2. Ed ecco che il loop bertolucciano delle supernavi intente a sol-care un paesaggio secolare ricompare a Ve-nezia, dove il passaggio delle imbarcazioni da crociera non dà origine a luoghi comuni di sorta. Tale avvicinamento, infatti, avvie-ne nel segno della confusione: quella a ter-ra, dei veneziani e dei turisti, critici i primi3 e per lo più indifferenti i secondi. E quella

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1 «Vi sono opere d’arte che hanno il privilegio d’essere materiate di luoghi co-muni e di divenire esse stesse un luogo comune alla superficie della creazione dell’artista. […] Non è vero che l’artista si sia impadronito dei luoghi comuni e li abbia adoperati. Egli si è aperto ad essi, si è posto a loro disposizione: essi sono giunti, si sono impadroniti dell’esperienza creativa, l’hanno adoperata, così che nell’istante in cui si attuava divenisse una di loro nella sua totalità». Con queste parole Furio Jesi iniziava la propria “Lettura del Bateau ivre” di Rimbaud (Quodlibet, Macerata 1996), poesia da cui Bertolucci trae spunto per ritrarre il canale nel corto.2 Jesi, Op. Cit., p.30.3 Quella delle crociere è una risorsa economica indubbia per Venezia e cer-tamente, come le petroliere di passaggio a Suez, la costringe quantomeno a un parziale ripensamento della sua dimensione portuale. Nel canale egiziano, invece, l’opzione turistica è ancora lontana, anche a causa delle severe misure ivi sicurezza adottate. Ad ogni modo gli effetti di quel mercato del turismo che porta le navi da crociera nel bacino di San Marco, danneggiando fondali e com-promettendo la stabilità degli edifici veneziani, sono controversi.

1 «Existen obras de arte que tienen el privilegio de ser matrializados por luga-res comunes y de volverse ellas mismas en lugar común a la superficie de la creación del artista. […] No es verdad que eñ artista se haya apoderado de los lugares comunes y los haya utilizado. Él se ha abierto a allos, se ha puesto a su disposición: ellos se han unido, se han apoderado de la experiencia creativa, la han utilizado, de modo que en el instante en el que se actuaba se convirtiera una de ellas en su totalidad”. Con estas palabras Furio Jesi iniciaba la “Lectura del Bateau ivre” de Rimbaud (Quodlibet, Macerata 1996), poesia de la que Berto-lucci se inpira para relatar el canal en el corto.2 Jesi, Op. Cit., p.30.3 El tema de los cruceros es un recurso económico evidente para Venecia y ciertamente, como los petroleros del canal de Suez, la obliga, cuanto menos a una parcial reconsideración de su dimensión portuaria. En el canal egipcio, sin embargo, la opción turística es aún lejana, incluso a causa de las severas medi-das de seguridad adoptadas. En cualquier modo los efectos de aquel mercado del turismo que lleva los barcos a la cuenca de San Marco, dañando los fondos marinos y poniendo en peligro la estabilidad de los edificios venecianos, son controvertidos.

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sulle imbarcazioni dai ponti pieni di occhi, mani che salutano e flash fotografici. Non vi è silenzio né astrazione, bensì un’atmo-sfera chiassosa, dove l’indifferenza non è ostentata, ma presumibilmente reale. Eppure i fotogrammi di alcuni video ama-toriali reperiti su YouTube sono impressio-nanti per la somigliante, e spesso identica, prospettiva che accomuna il passaggio della nave attraverso il bacino di San Marco a quelle riprese da Bertolucci a Suez. Il loro profilo mentre solcano l’orizzonte tra le case, trascinate dalla corrente delle tante ragioni economiche legate al mare, appare invariato. Ma stavolta nessun paesaggio mentale verrà trasformato o creato, perché Venezia è di per sé evento fin troppo conno-tato: qui le navi non disegnano nuovi oriz-zonti, semmai sono intrusi guardoni e pale-semente estranei. Le immagini rumorose di Venezia sono mute, mentre quelle silenzio-se di Bertolucci promettono altri mondi. Di-verso il linguaggio, identica l’inquadratura. Del resto anche gli odori, i colori e i rumori di Port Said «sono gli stessi di Creta, Atene, Marsiglia, Barcellona. Sono gli odori, i co-lori, i rumori della nostra civiltà».

Solitarias y silenciosas son los ceremo-niales que acogen los petroleros inmorta-lizados en 1966 por Bernardo Bertolucci en “ El Canal”. Una población reacciona silenciosa y serena ante el tránsito de los grandes buques que, a pocos minutos los unos de los otros, sobrepasan el centro de la ciudad. Éstos se asoman al final de calles estrechas y entre las casas, cambiando así de manera irreversible la escena local. La sobriedad del lugar, el legado del “Sueño colonial” parece añadirse al miedo por algo

que ha cambiado para siempre la capacidad de una ciudad para imaginar su relación con el agua.Pero la representación de Bertolucci del canal, acompañado por versos de Rimbaud en voz en off, está lejos del documental tradicional. El bucle del petrolero en la distancia significa, para el observador des-prevenido en la orilla, una suspensión de tiempo normal1. Esto ocurre en medio de una calma aparente: ninguno, desde tierra, se detiene a mirar o señalar la nave. Igual-mente sobre el puente de este nadie es vi-sible, y el barco se desliza silenciosamente sobre el agua como un enorme barco fan-tasma. Suez y el canal que lleva su nombre se alzan en los lugares comunes, en los que está fraguándose un levantamiento mudo y sin manifestantes en la calle.Hoy nosotros la reconducimos a la ambi-güedad del progreso, mientras que en ese momento debe haberle parecido a alguien como una subversión total de las coordena-das espacio-tiempo. De esta batalla sin ar-mas o declaraciones de guerra son emble-ma los hijos de los pescadores, cuya “ma-durez suprema” convierte en receptáculo de visiones y vientos de cambio que se abstraen, se disuelven y finalmente traen de vuelta, ha-cia los antiguos parapetos de Europa. Sin embargo, “El profeta anuncia la sus-pensión del tiempo, y también la repetibi-lidad de las suspensiones de tiempo”2. Y así es como el bucle bertolucciano de las supernaves intenta surcar un paisaje secular reapareciendo en Venecia, donde el paso de barcos de crucero no dan lugar a ningún tipo de clichés. Este enfoque, de hecho, está en el signo de la confusión: aquella tierra, de los venecianos y de los turistas,

los primeros críticos3 y los segundos indi-ferentes. Y aquella de las embarcaciones de los puentes llenos de ojos, manos que saludan y flashes fotográficos. No hay si-lencio ni abstracción, pero sí un ambiente bastante bullicioso, donde la indiferencia no es ostentosa, pero presuiblemente real. Sin embargo, los fotográmas de algunos vídeos de aficionados que se encuentran en YouTube son impresionantes por la semejanza y con frecuencia idénticos, pers-pectiva que comparte el paso de la nave a través de la cuenca de San Marco a aque-llas tomadas por Bertolucci en Suez. Su perfil mientras atraviesan el horizonte entre las casas, atraídos por la corriente de las muchas razones económicas relaciona-das con el mar, aparece sin cambios. Pero esta vez, ningún paisaje mental se transfor-ma o crea, porque Venecia es por sí misma muy conocida: aquí las naves no atraen nuevos horizontes, al máximo son intrusos mirones y extraños. Las imágenes ruidosas de Venecia están mudas, mientras aque-llas silenciosas de Bertolucci prometen otros mundos. Lenguaje diferente, identica encuadratura. Por lo demás, incluso los olores, colores y sonidos de Port Said “son los mismos que en Creta, Atenas, Marsella, Barcelona. Son los olores, los colores, los sonidos de nuestra civilización”.

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miCHeLangeLo Consani

Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggiae ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in esta-te, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito. José Saramago

El viaje no acaba nunca. Solo los viajeros acaban. E incluso éstos pueden prolongarse en memoria, en recuerdo, en relatos. Cuando el viajero se sentó en la arena de la playa y dijo: “no hay nada más que ver”, sabía que no era así. El fin de un viaje es sólo el inicio de otro. Hay que ver lo que no se ha visto, ver otra vez lo que ya se vio, ver en primavera lo que se había visto en verano, ver de día lo que se vio de noche, con el sol lo que antes se vio bajo la lluvia, ver la siembra verdeante, el fruto maduro, la piedra que ha cambiado de lugar, la sombra que aquí no estaba. Hay que volver a los pasos ya dados, para repetirlos y para trazar caminos nuevos a su lado. Hay que comenzar de nuevo el viaje. Siempre. El viajero vuelve al camino.

José Saramago

Photographs by Michelangelo Consani

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In un tempo in cui molti turisti amano calarsi nella parte del “giovane esplorato-re”, crediamo saggio richiamare alla me-moria la lunga vicenda di Odisseo, sicu-ramente il più grande navigatore – spesso non per sua volontà – che la letteratura ci ha offerto fino ai nostri giorni. Una sorta di connubio di forze opposte lo accompagnò nel viaggio: da una parte il bisogno di avventura, dall’altro la nostal-gia di patria.Come per tutti i conflitti che percuotono l’animo umano, anche in questo caso le arti –letterarie, visive e teatrali – hanno cercato di indagare questo personaggio, superando gli ingranaggi della sua mente sempre in movimento, stacanovista, con-

tinuamente creatrice e complessa.Due artisti vissuti a cavallo tra il XIX e il XX secolo, in compagini sociali estrema-mente diverse, delineano i vettori ossimo-rici di Odisseo. Che Odisseo più o meno consciamente abbia cercato sempre di superare i suoi limiti mortali è un dato di fatto. Non solo per la sua evidente ὕβὕις, ma anche per un suo innato desiderio di conoscere, e di cogliere quei saperi che all’umanità sa-rebbero altrimenti negati. Di episodi che dimostrino questo ce ne sono molti e si ripetono più volte all’interno del poema omerico. Primo fra tutti il desiderio di Odisseo di ascoltare il sensuale e amma-liante canto delle sirene.

Questo episodio, che da sempre ha affa-scinato gli intellettuali, in quanto palese sfida titanica dell’uomo ai suoi limiti in favore della conoscenza, è ben delineato da John William Waterhouse, uno degli ultimi rappresentanti dello stile preraffa-ellita.Lo stile risente evidentemente delle sug-gestioni prerafaellite e del gusto vittoria-no. Il naturalismo e la dolcezza con cui sono accarezzati i volumi dei personag-gi, la ricercata e raffinatissima materia pittorica che ingentilisce quasi con troppa misericordia i volti delle “mostruose” sirene, sono accompagnate – nell’opera di Waterhouse – da un gusto “archeologico” dei temi mitologici greci, per i quali il

iL mare: tra aVVentura e nostaLgia / eL mar: entre La aVentura Y La nostaLgiadanieLe ognibene

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pittore britannico prova sempre una forte attrazione. Si vedano ad esempio le pitture policro-me dal gusto arcaicizzante della nave, op-pure le figure delle sirene, alle quali viene ridonato l’aspetto originario più antico, cioè di uccelli dal volto di donna. Il gioco di sguardi che nasce fra queste ultime e i poveri compagni di Odisseo, sordi grazie alla cera che l’itacese ha inserito nei loro orecchi, genera curiosi episodi all’interno dell’evento principale, dal gusto narrati-vo e aneddotico. Odisseo, nel cui volto è espressa la tentazione che quella visione, visiva e uditiva, gli sta procurando, ci spiega con molta eloquenza quanto sia di-sposto a sacrificare per vedere l’invisibi-le, per saggiare il proibito, per conoscere l’intellegibile. Odisseo è un avventuriero, ama l’avventura nel senso più filologico: advenire. Adevnire racchiude in sé l’infi-nito, l’infinità di cose che sono destinate a venirci incontro e con le quali dovremo scontrarci. Tuttavia è proprio in questi casi che Odisseo si tradisce. Più si avvi-cina all’avventura, cioè all’infinito, più desidera il finito, cioè il ritorno a casa. A ogni passo che compie verso il baratro che lo separa dalla onniscienza, la nostal-gia si fa più forte, come se sentisse che la conoscenza preveda necessariamente l’abbandono dei suoi affetti, la perdita di sé stesso, di ciò che era e che è.Questo aut aut è stato descritto nel 2001 dallo scrittore Milan Kundera, ne “L’i-gnoranza”. Qui l’autore mette in scena un uomo e una donna che si incontrano per caso nel proprio paese natale dopo vent’anni di lontananza. Le analogie evi-denti con l’antico poema omerico hanno

obbligato lo scrittore a scavare all’interno di questo apparente parallelismo narra-tivo. Nasce così un’intrigante analisi del sentimento che tormenta di più Odisseo: la nostalgia. Nostalgia è un composto di due parole greche: Nόστος (ritorno) e Άλγος (dolore/sofferenza), in poche paro-le: dolore per il ritorno. Nel V canto dell’Odissea, il protagonista si rivolge alla bella Calipso con queste parole: “Dea possente, non ti adirare per questo con me: lo so bene anche io, che la saggia Penelope a vederla è inferiore a te”. Tuttavia, nonostante la superiorità della Ninfa sulla regina di Itaca – dovuta anche alla mortalità dell’ultima, necessa-riamente destinata a sfiorire in bellezza – l’eroe greco ci illumina con una confes-sione struggente, che fa trasparire un’u-manità quasi inaspettata: “Ma anche così desidero e voglio ogni giorno giungere a casa e vedere il dì del ritorno”Citando Kundera, Odisseo vuole “vedere il ritorno[...] fra la dolce vita in terra stra-niera e il ritorno periglioso a casa, scelse il ritorno. All’esplorazione appassionata dell’ignoto (l’avventura), preferì l’apo-teosi del noto (il ritorno). All’infinito (giacché l’avventura ha la pretesa di non avere mai fine), preferì la fine (giacché il ritorno è la riconciliazione con la finitez-za della vita)”.Arnold Böcklin, più vecchio di ventidue anni rispetto a Waterhouse e svizzero di nascita, ci ha lasciato un’opera che riflette in maniera perfetta lo stato d’animo dell’eroe. Rispetto a molti artisti a lui contempo-ranei non si lasciò coinvolgere dal pessi-mismo decadente che travolse la Francia

– come per l’affascinante poetica oscura e perturbante di Moreau – ma rimase fedele a un realismo di base che sempre caratterizzerà la sua opera. Come ha fatto notare il Briganti, il mito, per Böcklin, non è lontano e ancestrale come in More-au, ma vicinissimo, quasi “storicizzabi-le”. La realtà stessa s’intride di mito. Le paure, le angosce, i drammi inconsci che i miti servono a esorcizzare, sbarcano con Böcklin sulla terra ferma di una realtà malandata e terrifica.Calipso non è una ninfa, non è lontana dalla quotidianità, potrebbe essere “una ballerina dell’Opera di Stato, nemmeno tanto bella né tanto giovane, tutt’altro che misteriosa”. A fianco di lei, su roc-ce e scogli altrettanto veri, cala però la perturbante figura di Odisseo, simile a una mummia, plastico e solido come un blocco di granito, il cui volto ci è celato, le cui emozioni antitetiche – restare o non restare? Infinito o non finito? – lo stan-no pietrificando, come se fosse sotto lo sguardo di una Gorgone. E’ passato più di un secolo dalla realizza-zione di queste opere. Eppure, continuano a stupirci. Non riusciamo a “digerire” Odisseo, non ci è possibile dare per asso-data la sua storia. Forse non assimiliamo completamente la storia dell’eroe greco perché noi siamo Odisseo. Se questo po-teva sembrare ovvio anche nelle epoche più antiche – e infondo, quale storia non potrebbe essere tradotta in metafora per l’umanità? – oggi lo è ancora di più, per-ché, rispetto ai rapsodi greci che cantava-no questo poema, rispetto agli intellettua-li che lo hanno preservato e portato fino a noi, rispetto al marasma di artisti prima e

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dopo Waterhouse e Bocklin che lo hanno scelto come soggetto delle loro opere, noi abbiamo una concezione spazio-tempo-rale estremamente diversa. Per Dante, il “folle volo” di Odisseo, si esauriva alle colonne d’Ercole, lo stretto di Gibilterra, confine dell’ordinato e musicale1 universo medievale. Neanche due secoli dopo Colombo poserà i piedi sulla sabbia di un altro continente. Da quel giorno il limen che separava il noto dall’ignoto si è sempre più espanso: da Amerigo Vespucci, ai viaggi del capi-tano Cook, alle spedizioni in Antartide, fino alla scoperta dello spazio siderale e del satellite terrestre, l’uomo ha sempre osato superarsi, rinnovare quel patto con Odisseo. Allo stesso tempo però, i mass media e l’avvento di tecnologici sistemi di comunicazione, hanno rimpicciolito enormemente la nostra realtà: ciò che un tempo era lontano, oggi è vicino; infor-mazioni che fino a neanche un secolo fa impiegavano giorni ad arrivare a destina-zione, oggi sono reperibili quasi istanta-neamente. E’ ovvio che in un mondo dove la forza di espansione dei confini è diret-tamente proporzionale a quella di restrin-gimento delle distanze, anche il significa-to che l’uomo dà al viaggio, all’avventura e alla nostalgia, muta considerevolmente. La principale differenza tra il concetto di avventura nel poema omerico e nella società odierna, è lo stesso concetto di limen. Per Odisseo, esisteva realmente un confine che racchiudeva tutta la re-altà accessibile all’uomo. All’infuori di quello, si nascondevano tutti i misteri e i pericoli che cela dietro di sé l’ignoto. Anche il non conosciuto però, secondo le

descrizioni che ci fornisce l’Odissea, ha dei limiti ben precisi: l’isola di Polifemo, quella di Circe e Calipso, sono circoscrit-te, hanno cioè sempre un riferimento con il reale, con il “già conosciuto” di Odis-seo. Anche l’Ade, che dovrebbe essere il luogo più ultraterreno, ci è presentato come un ambiente materiale abitato da immateriali, una sintesi di palpabile e impalpabile. L’ignoto, l’advenire di Odisseo, se da una parte è teso all’infini-to, dall’altra ha necessariamente bisogno che questo sia in qualche modo determi-nato, cioè intellegibile e non totalmen-te astratto. Questo compromesso pare fondamentale per tutta la peregrinazione dell’Itacese, il quale sbarca sempre in un luogo preciso, confinato in una realtà mai nebbiosa, mai sfumata e facilmente individuabile. Oggi questo è impossibile: il limen nei secoli si è ampliato esponen-zialmente, fino a ricoprire tutta la circon-ferenza terrestre. L’uomo ha scoperto i suoi ultimi confini. Terminati questi, spin-to da quello stesso desiderio di ricerca – o ϋβϱις – che torturava Odisseo, ha dovuto volgere lo sguardo fuori dal contesto che, si badi bene, non abbraccia più solo una semplice isola – per esempio Itaca – ma tutto il geoide sul quale viviamo. Nell’advenire che si nasconde dietro a questi confini, non si nasconde un qualcosa di altrettanto finito: l’uomo ha incontrato veramente l’infinito, ha concretamente reso omaggio alla radice dell’avventura. L’universo è infinito per definizione, dunque impossibile da concepire in tutta la sua essenza. Mentre Odisseo, per quanto “dal multiforme ingegno”, neces-

sitava di avere un riferimento con la sua esperienza sensibile, oggi l’uomo è teso realmente a ciò che non conosce, che può immaginare, ma mai realmente percepire coi sensi. A questa necessità di sensibi-lizzare il conoscibile, si allaccia l’altro sentimento che caratterizza Odisseo: la nostalgia. Il dolore dell’eroe era causato principalmente dal non sapere cosa stesse accadendo nella sua terra, quali fossero le condizioni di salute dei suoi cari, di sua moglie, di suo figlio. La sua, potrem-mo dire, è una sofferenza generata dalla “ignoranza sensibile” cui è condannato. Non può toccare i suoi parenti, non può vederli, sentirli: dunque li ignora. L’ignoranza sensibile di Odisseo è com-provata inoltre nel XI libro, quando incontra la madre. La sofferenza sboccia irrefrenabile non quando la vede, ma quando non la può abbracciare, non la può percepire sensibilmente. Potremmo dire che la sua sia una sincera sofferenza estetica, da cui deriva la nostalgia. Oggi non è così: la distanza non è più matrice assoluta di nostalgia. Questa viene atte-nuata grazie al progresso dei sistemi di comunicazione – la telefonia, le vide-ochiamate, la messaggistica istantanea – tutte atte a diminuire il senso di lonta-nanza. In un certo senso, questi svolgono su di noi una funzione anestetica, poiché servono come palliativi per non percepire la mancanza sensibile o, per l’appunto: estetica. Paradossalmente non ci siamo discostati molto dalla figura di Odisseo. Da un lato abbiamo il desiderio di supe-rare quei limiti, di avventurarci n altre realtà, in altre dimensioni, giocando con esse e manipolandole a nostro piacere.

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Dall’altro però, abbiamo la continua, in-conscia, non sacrificabile necessità che ci spinge a voler portare con noi quella fetta di mondo che dobbiamo lasciare per viag-giare. Non basta una foto: serve una voce e, perché no, l’immagine di quella perso-na mentre parla. Magari tridimensionale, magari palpabile, possibilmente reale. Infondo, letto in quest’ottica, il progre-dire della scienza non ha fatto altro che allargare gli orizzonti, col compromesso di garantirci un bagaglio privo di rinunce: raggiungere i limiti dello spazio e poter pubblicare la foto su facebook. Tutto sempre finalizzato a risolvere, sempre che si possa, quella duplice forza che ci vuole titani solitari alla scoperta del proibito, ma, allo stesso tempo, regnanti di una realtà nella quale siamo al sicuro.

En un momento en que muchos turistas adoran convertirse en “jóvenes explorado-res” creemos conveniente recordar la larga historia de Ulises, sin duda el navegante más grande - a menudo no por su propia voluntad - que la literatura nos ha dado hasta el día de hoy.Una especie de combinación de fuerzas que se oponen lo acompañan en el viaje: por un lado, la necesidad de aventura, y por otro la nostalgia de casa.Al igual que con todos los conflictos que golpean el espíritu humano, incluso en este caso, las artes, literarias, visuales y escéni-cas - trataron de investigar este personaje, superando los engranajes de su mente, siempre en movimiento, adicto al trabajo, siempre creativo y complejo.Dos artistas que vivieron a finales del siglo XIX y XX, de muy diversas estructuras

sociales, delinearon los esquemas oximoró-nicos de Ulises.Que Ulises más o menos conscientemente siempre ha tratado de superar sus limita-ciones mortales es un hecho. No sólo por su obvio ὕβρις, sino también por su deseo innato de saber y de comprender los co-nocimientos que debían ser negados a la humanidad. Hay muchos episodios que de-muestran ésto y se repiten varias veces en el poema homérico. El primero de todos, el deseo de Ulises de escuchar el sensual y cautivador canto de sirena.Este episodio, que siempre ha fascinado a los intelectuales, en cuanto evidencia un desafío titánico del hombre a sus límites en favor del conocimiento, está bien descrito por John William Waterhouse, uno de los últimos representantes del estilo prerrafae-litas.El estilo está influenciado por sugerencias prerafaellitas y gusto victoriano. El natura-lismo y la dulzura con la que se acarician los volúmenes de los personajes, material gráfico sofisticado y refinado que suaviza con casi demasiada piedad los rostros de las “monstruosas” sirenas, son acompaña-dos - en las obras de Waterhouse – por un sabor de “ arqueológica “ de temas de la mitología griega, por los que el pintor bri-tánico siempre siente una fuerte atracción.Véanse, por ejemplo, las pinturas polícro-mas de estilo arcaico de la nave, o las figu-ras de las sirenas, a las que se da de nuevo su aspecto originario más antiguo, el de los pájaros con rostro de mujer. El juego de miradas que se nace entre éstas últimas y los pobres compañeros de Ulises, sordos gracias a la cera que el itacense ha metido en sus oídos, genera episodios cu-

riosos dentro del evento principal, de gusto narrativo y anecdótico.Ulises, en cuya cara se expresa la tentación que esa visión, visual y auditiva, le está procurando, nos explica elocuentemente cuán dispuesto está a sacrificar para ver lo invisible, para probar lo prohibido, conocer lo inteligible. Ulises es un aventurero, ama la aventura en el sentido más filológico: advenire. Adevnire encarna el infinito, el infinito de cosas que están destinadas a venirnos en contra y a las que deberemos enfrentarnos. Sin embargo, es precisamente en estos casos en los que Ulises se traicio-na. A cada paso que acorta el abismo que lo separa de la omnisciencia, la nostalgia se hace más fuerte, como si sintiera que el conocimiento proporciona necesariamente el abandono de sus efectos, como si sin-tiera que el conocimiento acompaña nece-sariamente el abandono de sus afectos, la pérdida de sí mismo, de lo que fue y es .Este aut aut fue descrito en 2001 por el es-critor Milan Kundera, en “La ignorancia”. Aquí el autor representa a un hombre y una mujer que se encuentran por casualidad en su país de origen después de veinte años de ausencia. Las similitudes obvias con el antiguo poema homérico han obligado al escritor a escarbar dentro de este aparente paralelismo narrativo. El resultado es un análisis fascinante del sentimiento que atormenta a Ulises: la nostalgia. La nostalgia se compone de dos palabras griegas: Nόστος (regreso) y Ἄλγος (dolor/sufrimiento), es decir: el dolor del retorno. En el quinto canto de la Odisea, el protago-nista se refiere en la hermosa Calipso con estas palabras:“Diosa Poderosa, no te enojes conmigo

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por esto, sé bien yo también, que la sabia Penélope es inferior a ti”.Sin embargo, a pesar de la superioridad de la Ninfa frente a la reina de Ítaca - tam-bién debida a la mortalidad de esta última, necesariamente destinada a marchitar su belleza - el héroe griego nos ilumina con una confesión conmovedora, lo que revela una humanidad casi inesperada: “Pero aún así deseo y quiero cada día volver a casa y ver el día del regreso “Citando a Kundera, Ulises quiere” ver el regreso [ ... ] entre la dulce vida en un país extranjero y la peli-grosa vuelta a casa, opta por regresar. A la exploración apasionada de lo desconocido (la aventura), prefirió la apoteosis de lo conocido (el regreso). El infinito (ya que la tiene la facultad de no tener fin), prefirió el fin (ya que el regreso es la reconciliación con la finitud de la vida)”. Arnold Böcklin, veintidós años mayor que Waterhouse y suizo de nacimiento, nos ha dejado una obra que refleja a la perfección el estado de ánimo del protagonista.En comparación con muchos artistas contemporáneos a el, se dejó arrastrar por el pesimismo decadente que se extendía por Francia - como la fascinante poética oscura e inquietante de Moreau - mante-niendose fiel al realismo básico que siem-pre caracterizará su obra. Como señala el Briganti, el mito, para Böcklin, no es lejano y ancestral en Moreau, sino muy cercano, casi “historizable”. La realidad misma incide en el mito. Los miedos, las ansiedades, los dramas inconscientes que los mitos sirven para exorcizar, desembar-ca con Böcklin sobre la tierra firme de una realidad lamentable y terrible. Calipso no es una ninfa, no está muy lejos de la vida

cotidiana, podría ser “una bailarina de la Ópera del Estado, ni tan bella ni tan joven, mucho menos misteriosa. “ A su lado, en las rocas y arrecifes tan reales, cala sin embargo la inquietante figura de Ulises, como una momia, inmutable y sólido como un bloque de granito, en cuyo rostro se leen emociones antitéticas - ¿quedarse o no quedarse? ¿Infinito o finito? - lo está petrificado, como si estuvieran bajo la mirada de una Gorgona.Ha pasado más de un siglo desde de la creación de estas obras. Sin embargo, siguen sorprendiéndonos. No conseguimos “digerir” a Ulises, no podemos dar por sentada su historia. Tal vez no asimilamos por completo la historia del héroe griego, porque nosotros somos Ulises. Si bien esto podia parecer obvio incluso en la antigüedad - y al final, ¿qué historia no se podría traducir en una me-táfora para la humanidad? - hoy en día lo es aún más, ya que, respecto a los griegos rapsodi que cantaban este poema, respecto a los intelectuales que lo han preservado y traído hasta nosotros, respecto a la con-fusión de los artistas que antes y después de Waterhouse y Bocklin lo han elegido como tema de sus obras, nosotros tenemos una concepción muy diferente del espacio-tiempo. Para Dante, la “loca huida” de Uli-ses, se agotó en las Columnas de Hércules, el Estrecho de Gibraltar, la frontera con el ordenado y musical1 universo medieval. Apenas dos siglos después Colón pisará la arena de otro continente. A partir de aquel día el limen que separaba lo conocido de lo desconocido se ha ido ampliando: desde Américo Vespucci, los viajes del capitán Cook, y las expediciones antárticas, hasta

el descubrimiento del espacio exterior y del satélite terrestre, el hombre siempre ha osado superarse, renovando ese pacto con Ulises. Al mismo tiempo, sin embargo, los mass media y el advenimiento de los sistemas tecnológicos de comunicación, han reducido en gran medida nuestra rea-lidad: lo que antes estaba lejos, ahora está cerca, información que hasta hace un siglo tardaba días en llegar a su destino, está disponible casi instantáneamente. Es obvio que en un mundo donde la fuerza de la expansión de las fronteras es direc-tamente proporcional a la disminución de las distancias, también el sentido que el hombre da al viaje, a la aventura y a la nostalgia, muta considerablemente.La principal diferencia entre el concepto de aventura en el poema homérico y en la sociedad actual, es el mismo concepto del limen. Para Ulises, existía en realidad un límite que encerraba toda la realidad accesible al hombre. Fuera de éste, se escondían todos los misterios y peligros que yacen detrás de lo desconocido. Incluso lo desconocido, de acuerdo con las descripciones que nos proporciona la Odisea, tiene bien definidos los límites: la isla de Polifemo, aquella de Circe y Ca-lipso, están delimitadas, es decir, siempre tienen una referencia a lo real, con el “ya conocido” de Ulises. Incluso el infierno, que debería ser el lugar más ultraterreno, se nos presenta como un entorno material habitado por inmateriales, un resumen de lo palpable y lo impalpable. Lo descono-cido, el advenire de Ulises, por un lado se extiende hasta el infinito, y por el otro necesita que éste se determine de alguna manera, que sea comprensible y no total-

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mente abstracto. Este compromiso parece fundamental para toda la peregrinación del itacense, quien desembarca siempre en un lugar preciso, confinado en una realidad nunca brumosa, nunca borrosa ni fácil-mente soluble. Hoy en día esto es imposi-ble: el limen se ha expandido de manera exponencial durante los siglos, hasta que ha cubierto toda la circunferencia de la tierra. El hombre ha encontrado sus fronteras definitivas. Terminados éstos, impulsado por el mismo deseo de búsqueda - o ὕβρις - que torturó a Ulises, el hombre tuvo que dirigir la mirada hacia fuera del contexto en el que, claro está, ya no abarcaba solo más que una simple isla - por ejemplo, Ithaca - sino todo el geoide en el que vivimos. En el advenir que se esconde tras estos límites, no se esconde algo de tipo finito: el hombre realmente ha encontrado el infinito, ha encontrado realmente la raíz de la aventura. El universo es infinito, por definición, por lo tanto, imposible de con-cebir en toda su esencia. Mientras Ulises “del multiforme ingenio”, necesitaba tener una referencia con su experiencia senso-rial, hoy el hombre está realmente dirigido a lo que él no conoce, lo que se puede ima-ginar, pero en realidad nunca percibe con los sentidos. A esta necesidad de aumentar la conciencia de lo conocible, se apoya el otro sentimiento que caracteriza a Ulises: La nostalgia. El dolor del héroe es cau-sado principalmente por no saber lo que estaba pasando en su tierra natal, no saber cuáles eran las condiciones de salud de su familia, su esposa, su hijo. Por decirlo así, es un sufrimiento generado por la “ ignorancia sensible”, a la que está conde-

nado. No puede tocar a sus familiares, no puede verlos, ni oírlos: por lo tanto, los ignora. La sensible ignorancia de Ulises se demuestra también en el XI libro, cuando se encuentra con su madre. El sufrimiento incontenible no sucede cuando la ve, sino cuando no la puede abrazar, cuando no la puede percibir de manera significativa. Po-dríamos decir que el suyo es un verdadero sufrimiento estético, de ahí la nostalgia. Hoy en día no es así: la distancia ya no es la matriz absoluta de la nostalgia. Esta es atenuada debido al avance de los sistemas de comunicación - telefonía, videollama-das, mensajería instantánea - todos diseña-dos para disminuir la sensación de lejanía. En cierto sentido, éstos juegan en nosotros una función anestésica, ya no solo porque sirven como paliativos para no percibir la nostalgia, o para ser más precisos: la estética. Paradójicamente no nos hemos desviado mucho de la figura de Ulises. Por un lado tenemos el deseo de superar esas limitaciones, aventurarnos en otras realidades, en otras dimensiones, jugan-do con ellos y manipulándolos a nuestro antojo. Por otro lado sin embargo, tenemos la inconsciente necesidad continua, que nos impulsa a querer llevar con nosotros esa rebanada de “mundo “ que debemos abandonar para viajar. No basta una foto: es la necesidad de una voz, y por qué no, la imagen de esa persona mientras habla. Tal vez en tres dimensiones, tal vez palpable, posiblemente real. En el fondo, leído desde esta perspectiva, el progreso de la ciencia no ha hecho más que ampliar los horizon-tes, con el compromiso de proporcionarnos un equipaje sin renuncias: llegar a los lími-tes del espacio y ser capaz de publicar las

fotos en Facebook. Todo siempre dirigido a resolver, si podemos, esa doble fuerza que necesita de titanes solitarios al descubri-miento de lo prohibido, y al mismo tiem-po, gobernados por una realidad en la que estamos a salvo.

1 Per l’aggettivo “musicale” si pensi al “De Mu-sica” di Boezio.

1 Por adjetivo “musical” pensad al “De Musica” de Boezio.

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giaComo Costa

Northern Tyrrhenian Sea_Italy [42° 47’ 9.17” N - 10° 40’ 16.22” E] 2nd December 2012 2.09 pm.

~“landscape 1_5_5”, 2012

~“landscape 1_6_6”, 2013

~Northern Tyrrhenian Sea_Italy

[42° 27’ 30” N - 11° 05” 07’ E] 23th January 2013 4.44 pm.~

“landscape 1_7_6”, 2013

Images courtesy Giacomo Costa

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È un miraCoLo / es un miLagromarCo mazzoni / teXt bY LuCia giardino

Ripercorrere l’agiografia e l’iconografia di San Nicola da Myra, nell’attuale Turchia, è analizzare gli accomodamenti e gli aggiu-stamenti del codice, quando incontra usi e abitudini di popoli diversi oppure si riferi-sce alle necessità di tribù stanziali o noma-di dalle coordinate geografiche lontane. Il criterio stabilisce la norma astratta, il punto d’arrivo; ma la flessibilità guida le tappe, adattandosi come al profilo delle scogliere e offuscandosi nei fondali sabbiosi, come l’acqua del Mediterraneo, che torna limpi-da a fine tempesta.Nicola è il santo che più d’ogni altro si pre-sta alla pratica delle reinvenzione, propen-so alla fluidità contemporanea, che è risorsa e tratto distintivo dei nativi dei luoghi dove

Europa, Asia e Africa si guardano. Dal IV secolo ad oggi San Nicola ha cambiato e fuso origini, personaggi, storie e ruoli, rendendosi trasformista, camaleonticamen-te pronto a compiacere chi lo adotta e ne alimenta il culto. “È un miracolo!” Marco Mazzoni lo spoglia delle sovrastrutture, anche visive, con cui la storia lo ha appe-santito e lo ritrae secondo un immaginario ab origine, ipoteticamente mutuabile e ap-plicabile a qualsiasi santo.“È un miracolo!” è stato concepito a par-tire dalla primavera del 2009 per Gulimi (Ch) come progetto “a due sponde”: Marco Mazzoni fa ricamare da alcune donne del paese abruzzese, otto suoi disegni a puro contorno. Questi, esplicitati in otto teli di

lino, di forma quadrata, illustrano iconica-mente ed in chiave totalmente spuria, più momenti della vita di San Nicola. Il progetto si è manifestato in più tappe che iniziate in Abruzzo hanno coinvolto Matera e si sono concluse a Firenze, dove nel maggio 2010 viene presentato al cen-tro d’arte contemporanea Ex3. Qui, perso l’aspetto partecipativo, “E’ un miracolo!” è stato goduto come un’istallazione dal se-gno minimo, che a ben guardare, tradiva un espressionismo di fondo, dato dalla perso-nale interpretazione del ricamo delle donne guilmesi. Marco Mazzoni, partendo dalla redazione della vita del santo, scritta da Iacopo da Varazze nella seconda metà del XIII secolo, produce disegni ieratici.

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La fonte letteraria, pur rimanendo sullo sfondo, è resa spuria da infiltrazioni prove-nienti da fonti disparate, funzionali all’in-terpretazione dell’artista che finisce per in-nescare una riflessione sul sacro con mezzi minimi, mettendo a frutto l’esperienza del lavoro a più mani, maturata all’interno del-le sue pratiche performative.

Recorrer la hagiografía y la iconografía de San Nicolás de Myra, en la actual Turquía, es analizar los asentamientos y los ajustes del código, cuando se encuentran los usos y costumbres de los diferentes pueblos, o se refiere a las necesidades de las tribus nómadas o sedentarias en coordenadas geográficas distantes. El criterio establece la norma abstracta, el punto de llegada; pero la flexibilidad guia las etapas, adap-tándose como al perfil de los acantilados y ofuscandose en los fondos de arena, como el agua del Mediterráneo, que vuel-ve limpia de la tempestad. Nicolás es el santo que más que cualquier otro se presta a la práctica de reinvencion, propenso a la

fluidez contemporánea, que es recurso y caracteristica de distintiva de los nativos de los lugares donde Europa, Asia y África se miran. Desde el siglo IV hasta hoy San Nicolás ha cambiado y fusionado orígenes, personajes, historias y roles, volviendose transformista, camaleonicamente listo para complacer a quien lo adopta y alimentan el culto. “¡Es un milagro!” Marco Mazzoni lo despoja de las superestructuras, incluso visivas, con las quales la historia lo ha car-gado y lo retrata segun un imaginario ab origine, hipotéticamente mutable y aplica-ble a cualquier santo. “¡Es s un milagro!” fue concebido a partir de la primavera del 2009 para Guilimi (Chieti) como proyecto “bilateral”: Marco Mazzoni hace que algu-nas mujeres del pueblo del Abruzzo borden ocho de sus dibujos. Estos, desarollados en ocho panuelos de lino cuadrados, ilustran iconicamente y en clave totalmente falsa, momentos de la vida de San Nicolás. El proyecto se exhibió en varias etapas que comenzando en Abruzzo, pasado por Ma-tera, terminaron en Florencia, donde en

mayo de 2010 se prentó en el centro de arte contemporáneo Ex3. Aquí, perdido el as-pecto participativo, “¡Es s un milagro!” se apreció como una instalación mínima, que bien mirado traicionaba un expresionismo de fondo, dado por la interpretación perso-nal del bordado de las mujeres de Gulimi. Marco Mazzoni, a partir de la preparación de la vida del santo, escrita por Jacopo da Varazze en la segunda mitad del siglo XIII, produce dibujos hieráticos. La fuente literaria, aún manteniéndose de fondo, se ha falseado por las infiltraciones prove-nientes de fuentes dispares, funcionales a la interpretación del artista que termina provocando una reflexión sobre la santidad con mínimos medios, dando el fruto de la experiencia del trabajo de muchas manos, madurado al interno de sus prácticas per-formativas.

Photography by Serge Domingie

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in riVa di un mare sonoro / en La oriLLa de un mar sonoroeLena eL asmar / teXt bY Pietro gagLianò

I - Il paesaggio litoraneo in Calabria è in larga parte una scoscesa sequenza di cubi di cemento, ferri uncinati e altre devastazioni, come se un comune e taciuto obiettivo fos-se quello di ricoprire tutto, a perdita d’oc-chio, con la peggiore edilizia immaginabile - per quanto ne so potrebbe somigliare al Libano, così aggrappato alla terra per non scivolare in mare, e l’idea che il sole ci sia sempre, solo che in Calabria nonostante le apparenze la guerra non c’è stata. Si rac-conta invece che Giuseppe Berto, quando arrivò a Capo Vaticano alla fine degli anni Cinquanta, dovette più volte aprirsi la stra-da nel fitto di una vegetazione rigogliosa, là dove oggi è difficile pensarsi se non fra au-tomobili in sosta e fabbricati inguardabili.

La visione che ho elaborato del luogo in cui sono nato si nutre con innumerevoli varia-zioni di entrambe le immagini: quella, mai vista, che ebbe Berto e quella più familiare, l’una e l’altra ugualmente autentiche per la mente anche se fondate da processi cogniti-vi diversi. Così la costa calabrese nella mia memoria assume una forma dettata da un arbitrio mitopoietico, che addensa fra loro elementi incongrui. La distanza e il tempo impongono a questa produzione di immaginario una specie di metodo e una ripetizione involontaria che si protraggono fino a diventare lavoro, ma senza obbligo, un impegno creativo, un compito che per fortuna non prevede una misura per la sua verifica e non richiede il

peso dell’esattezza. Dall’una e dall’altra riserva di figure discende una combinazione che non serve al passato, eppure ha il senso del ripiego involontario, e riguarda solo me, essendo dominata dalla nostalgia: quel dolore, algos, per il ritorno, ‘nostos’, che si riferisca a un punto originario dei miei anni o dei miei luoghi. Forse questo dipende dal fatto che non sono un artista, e non posso contare su una capacità di traduzione in termini formali, con un valore simbolico aperto, ma sono portato a generare solo, e a volte, pensieri complessi. Questa è una delle differenze tra la mia fabbrica di memorie e quella di Elena El Asmar. Oltre alla circostanza geografica che unisce e separa il Libano dalla Calabria.

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II - L’esercizio del lontano è una rappre-sentazione impossibile. È quello che resta della fatica di coniugare il ricordo e la memoria, e di scomporli, per ricavare dalla fissità eidetica del primo la natura porosa e vitale della seconda: come se il ricordo fosse l’inerte definizione dell’assenza e la memoria invece costituisse un’officina necessaria. Tra ricordo e memoria c’è un pendolo in perpetua oscillazione, senza ordine, lungo immagini che appartengono al passato - ma principalmente per una questione fisica, di spazio, solo perché nel momento presente ci troviamo in un luogo che non le contiene. Il ricordo è però anche l’unica condizione in cui tali figurazioni continuano a esistere in quella forma pre-cisa, mentre nel loro luogo reale e nel loro presente sono già altro. Il ricordo trattiene queste immagini, la memoria invece le trasforma in una vita nuova, con la materia prima (anche quella dall’aspetto più ordi-nario) che trova a disposizione, e le rende a se contemporanee.L’esercizio del lontano quindi si compie nel presente e, anche se non ha una de-stinazione definita, è al presente che si rivolge, e serve al futuro. Proprio per que-sta ragione riesce a prendere consistenza attraverso oggetti, e anche con forme, che niente hanno a che fare con l’aspetto origi-nario del ricordo. In tal senso le immagini create dall’artista sono modelli inediti per la realtà, e l’analisi della loro natura chia-risce il mutamento di prospettiva tra la no-stalgia (comune ai più) e il valore di questo esercizio. L’artista agisce necessariamente nel suo tempo, e con i condizionamenti della sua vita emotiva e intellettuale, con le pressioni della storia cui appartiene; ma

l’esito della sua azione si riverbera in un’a-rea molto più ampia, su cui l’autore non ha modo e interesse a mantenere il controllo. L’opera (qualunque sia il suo modo di ma-nifestarsi) transita così dalla qualità di mo-dello unico, e fino a quel momento ignoto, verso uno stato di condivisione con tutti gli altri attori del presente, per prendere la stessa sostanza della realtà e diventare im-mediatamente disponibile per il futuro.Torniamo infine alla corsa del pendolo, alla sua sospensione: nel punto più alto della sua curva, quando si può immaginarlo fermo per un tempo infinitesimo, in quel punto e in quel momento, l’esercizio del lontano diventa plausibile. E si costruisce, fatica dopo fatica, “il sogno fenicio” di Elena, come una città sfavillante vista sullo sfondo di un paesaggio costiero.III - Bisogna ribadire che l’artista non si cura di cosa accadrà oltre l’orizzonte in cui il suo sguardo colloca l’opera, impegnato com’è a cercare la forma possibile, chino sul fallimento continuo della sua prova con il mondo. Solo a lui, all’artista, appare indispensabile l’intervento su una porzione microscopica di materia, che deve essere scurita, cancellata, sfilacciata, o rabber-ciata. Dopo, ma solo dopo, la differenza è visibile a tutti e per tutti è necessaria. La forma delle idee è un enigma senza solu-zione, e i tentativi sono virtualmente infi-niti. Sarebbe sufficiente anche solo questa di fatica, ma l’artista non può comunque rivendicare autonomia né disimpegno. Il suo modo di stare al mondo come artista è già misura della sua forza civile.IV - Un’altra distanza tra il “mio Libano” e quello di Elena sta nel fatto che per poter oggettivare il mio Esercizio del lontano

io ho bisogno di lei e della sua visione, lei non ha bisogno di me.

Oppure posso fidarmi delle parole di un altro artista, un poeta, Sandro Penna:

Il mio Amore era nudoin riva di un mare sonoro.

Gli stavamo daccanto- favorevoli e calmi -

io e il tempo.

Poi lo rubò una casa.Me lo macchiò un inchiostro. Io resto

in riva di un mare sonoro.”

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I - El paisaje litoral en Calabria es en gran parte una secuencia de bloques de cemento, hierros puntiagudos y otras devastaciones, como si un común y tácito objetivo fuera aquel de recubrir todo, hasta donde alcance la vista con las peores construcciones ima-ginable - por lo que sé podría parecerse al Líbano, agarrado de este modo a la tierra para no caer al mar, y la idea de que el sol esté siempre ahí, solo que en Calabria a pesar de las apariencias no ha habido guera. Se cuenta sinembargo que Giuseppe Berto, cuando llegó al Cabo Vaticano al final de los años cincuenta, tuvo que abrirse paso en repetidas ocasiones en el fragor de una exuberante vegetación, donde hoy es dificil imaginarselo si no entre coches y edificios prefabricados. La visión que he elaborado del lugar en el cual nací se nutre de innu-merables variaciones de ambas imágenes: aquella nunca vista, que tuvo Berto y aquella más familiar, una y otra igualmente válidas para la mente aunque fundadas por

diferentes procesos cognitivos. Así que la costa de Calabria en mi memoria tiene una forma dictada por un arbitrario mitopoieti-co, que unifica esos elementos incongruen-tes. La distancia y el tiempo imponen a esta producción de imaginario una especie de método y una repetición involuntaria que se prolonga hasta convertirse en trabajo, pero sin compromiso, un esfuerzo creativo, una tarea que afortunadamente no prevé una medida para su verificación y no requiere el peso de la precisión. En ambas reservas de figuras desciende una combinación que no sirve en el pasado,y sin embargo tiene el sentido de retroceso involuntario, y tiene que ver solo conmigo, siendo dominada por la nostalgia: aquel dolor, algos, por el retorno, nostos, que hacen referencia a un punto de origen de mis años o de mis luga-res. Tal vez esto depende del hecho que no soy un artista, y no puedo valerme de una capacidad de traducción en términos for-males, con un valor simbólico abierto, sino

que genero solo, y a veces, pensamientos complejos. Esta es una de las diferencias entre mi fábrica de recuerdos y aquella de Elena El Asmar. Además de la circunstan-cia geográfica que une y separa el Líbano de Calabria.II - El ejercicio de lo distante es una repre-sentación de lo imposible. Es lo que queda del esfuerzo de combinar la memoria y el recuerdo, y descomponerlos, para derivar de la fijeza eidética del primero la naturale-za porosa y vital de la segunda: como si el recuerdo fuese de la definición inerte de la ausencia y la memoria en cambio constitu-yera una oficina necesaria. Entre recuerdo y memoria hay un péndulo en oscilación perpetua, sin orden, a lo largo de las imáge-nes que pertenecen al pasado - pero sobre todo por una cuestión física, de espacio, solo porque en el momento presente se en-cuentran en un lugar que no los contiene. El recuerdo, sin embargo, es también la única condición en la que estas figuracio-

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nes siguen existiendo en esa forma exacta, mientras que en su lugar real en su presente ya son otra cosa. El recuerdo retiene estas imágenes, la memoria por el contrario las transforma en una nueva vida, con la ma-teria prima (incluso aquella de aspecto más ordinario) que enquentra a su disposición, y las vuelve contemporáneas.El ejercicio de lo distante se cumple por lo tanto en el presente y, a pesar de no tener un destino definido, es al presente al que se dirige, y sirve el futuro. Precisamente por esta razón logra tomar consistencia a tra-vés de objetos, y también con formas, que nada tienen que ver con el aspecto original del recuerdo. En este sentido, las imágenes creadas por el artista son modelos ineditos para la realidad, y el análisis de su naturale-za aclara el cambio de perspectiva entre la nostalgia (el más común) y el valor de este ejercicio. El artista actúa necesariamente en su tiempo, y con las limitaciones de su vida emocional e intelectual, con las presiones de la historia que le corresponden, pero el éxito de su acción se refleja en un área mu-cho más amplia, en la que el autor no tiene modo ni interés de mantener el control. El trabajo (sea cual sea su modo de ma-nifestarse) pasa así por la calidad de un modelo único, y hasta ese instante desco-nocido, hasta un estado de condivisión con todos los demás actores del presente, para tener la misma sustancia de la realidad y volverse inmediatamente disponible para el futuro.Regresamos por fin a la carrera del péndu-lo, a su suspensión: el punto más alto de su curva, cuando se puede imaginarlo quieto por un tiempo infinitesimal, en ese punto y en ese momento, el ejercicio de lo distante

se vuelve plausible. Y se construye, esfuer-zo tras esfuerzo, «el sueño fenicio» de Ele-na, como una ciudad brillante vista desde el fondo de un paisaje costero.III – Es necesario reiterar que el artista no le importa lo que sucederá más allá del horizonte de la obra en la que se coloca su mirada, ocupado como está tratando de buscar la forma posible, inclinado al fra-caso continuo de su prueba con el mundo. Sólo a él, al artista, le parece indispensable la intervención de una parte microscópica de materia, que ha de ser oscurecida, elimi-nada, cancelada, deshilachada o parcheada. Después, pero sólo después, la diferencia es visible para todos y para todos es nece-saria. La forma de las ideas es un enigma sin solución, y los intentos son virtualmente infinitos. Sería suficiente con este esfuerzo, pero el artista no puede sin embargo revin-dicar la autonomía ni la retirada. Su forma de ser en el mundo como un artista es ya medida de su fuerza civil .IV - Otra distancia entre “mi Líbano” y aquel de Elena se encuentra en el hecho de que con el fin de objetivar mi Ejercicio de lo distante yo necesito de ella y de su vi-sión, ella no me necesita.

O puedo confiar en las palabras de otro ar-tista, un poeta, Sandro Penna :

“Mi amor estaba desnudoen la orilla de un mar sonoro.

Estábamos a su lado- Favorables y tranquilos -

Yo y el tiempo .

Luego le robó una casa.Me lo manchó de tinta, yo me quedo

en la orilla de un mar sonoro “Srisa GalleryPhotography by Pierpaolo Pagano

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“È un mondo in cui al contratto, agli accordi scritti e ai pagamenti tracciabili si preferisce la parola tra gentiluomini, all’an-tica. Questo garantisce elasticità, improv-visazione, tanta creatività nelle relazioni e la giusta nebbia per ogni circostanza. Le opere d’arte possiamo chiamarle “cose”, dato che vengono vendute e comprate in clandestinità e a prezzi convenienti. Tutto va sempre bene, ma ogni tanto qualcosa affiora nella nebbia. Ci sono tante cose che possono succedere. L’artista, specie se gio-vane, è invitato ad adattarsi a tutto questo; l’alternativa è andarsi a cercare un lavoro vero.” (Galleria Occupata, Cose che pos-sono succedere_Intro, 2013; audio; 1’02”) http://vimeo.com/73377081

> Galleria Occupata nasce ufficialmente nel maggio 2013, sotto forma di associa-zione culturale, dopo un lungo periodo di gestazione durante il quale un gruppo ristretto di persone e figure attive sulla scena dell’arte contemporanea siciliana ha maturato la volontà e l’intenzione di reagire ai consueti meccanismi del mercato dell’arte. Il gruppo di lavoro è costituito da artisti, ricercatori e professionisti indipen-denti; sperimenta, studia e mette in pratica metodi concreti affinché la relazione tra artista - gallerista - collezionista - curatore, solitamente basata su logiche dettate dal pro-fitto economico, possa instaurarsi a partire da presupposti differenti, che individuino nella ricerca l’unica opera possibile, nell’opera un

momento di formalizzazione, nella pratica artistica un bene culturale, nell’artista - o nel ricercatore - un lavoratore.

> Art. 4 (dello scopo o manifesto d’intenti) L’associazione si propone di operare nel set-tore dell’arte e della cultura contemporanea promuovendo la pratica artistica come valore culturale collettivo.L’associazione riconosce che le attività, i beni e i servizi culturali hanno una doppia natura, economica e culturale, poiché porta-tori d’identità, di valori e di significato non devono essere trattati come aventi esclusiva-mente un valore commerciale. L’associazione si propone di contribuire al dibattito sulla rivendicazione dei diritti del

01_gaLLeria oCCuPata Pagine oCCuPate / Páginas oCuPadas

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lavoro intellettuale, riconosce l’importanza della tutela della proprietà intellettuale e sostiene tutti i soggetti che partecipano alla creatività culturale.L’associazione, nel promuovere e diffondere in ogni sua forma la conoscenza dell’arte e della cultura contemporanea, intende favo-rire l’elaborazione e la diffusione di tutti gli strumenti atti a garantire e regolare i diritti dei soggetti operanti nel settore, proponen-dosi di dare un contributo all’elaborazione di leggi, regolamenti, atti di indirizzo e quanto altro necessario, con l’obiettivo di creare le condizioni perché la creatività venga pro-mossa e incoraggiata in un contesto norma-tivo chiaro, trasparente e universale, (dallo Statuto sociale di Galleria Occupata).

> Galleria Occupata, Cose che possono suc-cedere. Storia esemplare n. 2, 2013; audio; 1’02”. http://vimeo.com/73377086“Sua moglie gioca a golf, e allora il collezio-nista sceglie un quadro dove c’è proprio un uomo che gioca a golf. “Intanto lo prendo, poi ne parliamo”, dice al gallerista.Dopo due anni il quadro è ancora nel salo-ne della casa del collezionista e lui non lo ha ancora pagato. Sono cose che possono succedere, del resto il gallerista non gli ha mai ricordato di saldare. Adesso bisogna recuperare il quadro, ma il gallerista non può aiutare l’artista a farlo. Sono cose che posso-no succedere. La cosa veramente importante è che non devono esserci mai regole scritte, contratti e transazioni di denaro tracciabili; soltanto accordi tra gentiluomini, così come si è sempre fatto.”

> I fondatori credono che la costituzione di Galleria Occupata sia un atto necessario,

rivolto a un contesto in cui (purtroppo!) ha ancora senso alimentare il dibattito attorno alle tematiche del riconoscimento dei diritti del lavoro intellettuale. In seguito alle espe-rienze che ciascun fondatore ha registrato in prima persona, e sulla base delle riflessioni e iniziative avviate dal gruppo Vladivostok (attivo in Italia dal 2010), l’associazione ha deciso di dedicare una parte della pro-pria attività alla elaborazione e diffusione di modelli contrattuali utili a regolare in maniera chiara e trasparente i rapporti tra i citati attori del sistema dell’arte. Allo sta-to attuale, l’associazione fa riferimento ai modelli attualmente disponibili, elaborati da Alessandra Donati per Vladivostok www.avladivostok.org/. Proporre l’uso di questi modelli ci pare un contributo indispensabile affinché si possa compiere un primo passo necessario e urgente nell’affermazione della dignità professionale di tutti gli artisti.I modelli di contratto, che coprono molte delle situazioni professionali che un artista si trova ad affrontare (contratto di vendita, contratto di mostra, contratto con galleria, contratto di esclusiva, contratto di commis-sione etc…) verranno inviati gratuitamente agli artisti che ne faranno richiesta.

> Attualmente Galleria Occupata opera quasi esclusivamente attraverso il web, utilizzando il sito www.galleriaoccupata.it e la pagina www.facebook.com/galleriaoccupata per promuovere una nuova modalità di approc-cio alla ricerca, produzione, diffusione e fruizione di contenuti artistici e culturali.Tra le aspirazioni dei membri, inoltre, quella di attivare un circuito di residenze che of-frano ad artisti, pensatori e operatori della cultura una tipologia di servizi e opportunità

non esattamente consueti. L’idea è di offrire la possibilità di soggiornare, lavorare e pro-durre (opere come pensiero) in una condi-zione di scambio continuo di idee e proget-tualità, all’interno di ambienti meno bianchi e freddi del solito: più casa e meno spazi. Le due “case/studio” ad oggi disponibili sono quelle di proprietà degli stessi soci di galleria occupata, si trovano a Paternò (CT) (residen-za Bertino_Gagliardo) e Napoli (residenza Cianelli) e sono in attesa dei primi ospiti.

> “Es un mundo en el cual al contrato, a los acuerdos escritos y a los pagos trazables se prefiere la palabra de caballeros, a la antigua. Esto asegura flexibilidad, improvisación, tanta creatividad en las relaciones y la justa niebla para cada circunstancia .A las obras de arte podemos llamarlas “cosas”, ya que se compran y venden en la clandestinidad y a precios convenientes.Todo es siempre bueno, pero a veces sur-ge algo en la niebla. Hay tantas cosas que pueden suceder . El artista, especialmente si es jóven, es invitado a adaptarse a todo esto, la alternativa es ir a buscar un trabajo de verdad”. (Galleria Occupata, Cosas que pueden pasar_Intro, 2013; sonido, 1’02 “) http://vimeo.com/73377081Galleria Occupata fue inaugurada oficial-mente en mayo de 2013, en forma de asocia-ción cultural, después de un largo período de gestación durante el cual un pequeño grupo de personas y personalidades activas en el arte contemporáneo escena siciliana hubo madurado la voluntad y la intención de responder a los habituales mecanismos del mercado del arte. El grupo de trabajo está formado por artistas, investigadores y profesionales independientes, experi-

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menta, estudia y pone en práctica métodos concretos para que la relación entre el artista - galerista - coleccionista - comi-sario, generalmente basado en la lógica dictada por el beneficio económico, pueda establecer a partir de supuestos diferentes, que identifican en la investigación el único trabajo posible, en la obra un momento de formalización, en la práctica artística un bien cultural, en el artista - o en el investi-gador - un trabajador.

> Artículo 4 (del propósito o manifiesto de intenciones) La asociación tiene como objetivo trabajar en el campo del arte y la cultura contemporánea, promoviendo la práctica artística como valor cultural colectivo. La asociación reconoce que las actividades, bienes y servicios culturales tienen una doble naturaleza, económica y cultural, porque portadores de identidades, de valores y significado, no deben tratarse como si sólo tuviesen un valor comercial. La asociación tiene como objetivo contri-buir al debate sobre la reivindicación de los derechos del trabajo intelectual, reconoce la importancia de la protección de la pro-piedad intelectual, y apoya a todos los que participan en la creatividad cultural.La asociación, para promover y difundir el conocimiento en todas las formas del arte y la cultura contemporánea, busca promover el desarrollo y la difusión de todos los me-dios disponibles para garantizar y regular los derechos de las partes interesadas en el sector, buscando dar una contribución a la elaboración de leyes, reglamentos, docu-mentos de orientación, y todo lo necesario, con el objetivo de crear las condiciones para que la creatividad sea promovida y

alentado en un contexto regulatorio claro , transparente y universal. (Estatutos socia-les de Galleria Occupata) .

> Galleria Occupata, las cosas que pueden pasar. Historia ejemplar no.2, 2013; audio;, 1’02 “ http://vimeo.com/73377086“Su esposa juega al golf , y el coleccionista elige un cuadro en el que hay un hombre que juega golf. “Por el momento me lo llevo, despues hablaremos”, dice al galerista.Después de dos años, el cuadro está aún en el salón de la casa del coleccionista y él aún no ha pagado. Son cosas que pueden pasar, el galerista nunca le ha recordado que tenia que pagar. Ahora tenemos que recuperar el cuadro, pero el galerista no puede ayudar al artista a hacerlo. Estas son cosas que pueden pasar. Lo realmente importante es que nunca debe haber normas escritas, contratos y tran-sacciones de dinero trazable, sólo acuerdos entre caballeros, como siempre se ha hecho.

> Los fundadores creen que la constitución de Galleria Occupata es un acto necesario, dirigido a un contexto en el que (¡desafortu-nadamente!) todavía tiene sentido alimen-tar el debate en torno a las cuestiones del reconocimiento de los derechos del trabajo intelectual. Tras las experiencias que cada fundador ha registrado en primera persona, y sobre la base de las reflexiones y las inicia-tivas tomadas por el grupo de Vladivostok (activo en Italia desde 2010), la asociación ha decidido dedicar una parte de sus activi-dades al desarrollo y la difusión de modelos contractuales útiles para regular relaciones claras y transparentes entre los actores men-cionados en el sistema del arte. En la actua-lidad, la asociación se refiere a los modelos

actualmente disponibles, procesados por Alessandra Donati para Vladivostok (www.avladivostok.org/). Proponer el uso de estos modelos nos parece una contribución indis-pensable para que podamos dar un primer paso necesario y urgente en la afirmación de la dignidad profesional de todos los artistas.Modelos de contratos, que cubren muchas de las situaciones que un artista profesio-nal afronta (contrato de venta, contrato de muestra, contrato con galería, contrato de exclusividad, acuerdo de comisión, etc...) se enviarán gratuitamente a los artistas que lo soliciten.

> Actualmente Galleria Occupata opera casi exclusivamente a través de la web, www.galleriaoccupata.it y la página www.facebook.com/galleriaoccupata para promover una nueva forma de abordar la investigación, producción, difusión y uso de los contenidos artísticos y culturales.Entre las aspiraciones de los miembros, además de la de activar un circuito que ofrece residencias para artistas, pensadores y profesionales de la cultura una tipología de servicios y oportunidades no exactamente habituales. La idea es ofrecer la oportunidad de permanecer, trabajar y producir (funciona como el pensamiento) en unas condiciones de continuo intercambio de ideas y proyec-tos, en ambientes menos blancos y fríos de lo habitual: más casa y menos espacios. Las dos “casa/estudio” que están disponibles en la actualidad son aquellos de propiedad de los mismos socios de Galleria occupata ocupada, se encuentran en Paternò (CT) (residencia Bertino_Gagliardo) y Nápoles (residencia Cianelli) y están a la espera de los primeros invitados .

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/ Zoltan Fazekas, galleria occupata_(fotografo non identificato), 2013; collage digitale; courtesy Galleria Occupata./ Galleria Occupata, Cose che possono succedere_Intro, 2013; still video/ Canecapovolto, CCV B44_UNN, 2008; collage su carta; cm 29,7x21; courtesy Galleria Occupata./ Maria Hélène Bertino e Alessandro Gagliardo, Sciopero Generale, 2013; stampa su PVC; cm.200x600. Produzione Fondazione Brodbeck; courtesy Galleria Occupata.

/ Zoltan Fazekas, galleria occupata_ (fotógrafo desconocido), 2013; collage digital, courtesy Galleria Occupata./ Galleria Occupata, Cosas que pueden succeder_Intro, 2013; still video/ Canecapovolto, CCV B44_UNN, 2008, collage papel; cm 29,7x21, courtesy Galleria Occupata./ Maria Hélène Bertino y Alessandro Gagliardo, Huelga general, 2013; impre-sión en PVC, cm.200x600. Producción Fondazione Brodbeck, courtesy Galleria Occupata.

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Invitati ad ideare un grande intervento urbano per l'edizione 2005 - 2006 di Luci d'Artista a Torino, Michelangelo Pistoletto e Love Difference hanno dedicato al messaggio “amare le differen-ze” l'installazione di luci al neon sulla facciata del mercato coper-to di Porta Palazzo, l'Antica Tettoia dell'Orologio. Porta Palazzo, contesto urbano in cui maggiormente si concentra-no e si incontrano le diverse etnie, religioni e culture, rappresenta il luogo più idoneo per rendere efficace il messaggio dell'opera. Lo slogan è ripetuto nelle diverse lingue parlate nel Mediterraneo e dalla principali comunità che vivono a Torino, a rispecchiare la pluralità delle componenti sociali presenti in una città.L'opera è stata negli anni successivi esposta in diverse città: Napoli, Parigi, Graz fino ad essere esposta al Louvre nell'ambito della mostra di Michelangelo Pistoletto “Année 1 - Le Paradis sur Terre”.

Invitados a proyectar una gran intervención urbano para la edición 2005 - 2006 de Luci d’Artista en Turín, Michelangelo Pistoletto y Love Difference dedicarón al mensaje “amar las diferencias” la instalación de luces de neón el la fechada del mercado cubierto de Porta Palazzo, el Antiguo Tejado del Reloj.Porta Palazzo, contexto urbano donde se concentran y se encuen-tran diversos grupos étnicos, religiones y culturas, representa el lugar más adecuado para hacer efectivo el mensaje de la obra.El esolgan se repite en los diferentes idiomas que se hablan en el Mediterráneo y en las principales comunidades que viven en Tu-rín, para reflejar la variedad de componentes sociales presentes en la ciudad. La obra fue expuesta en los próximos años en diferentes ciudades de Nápoles, París, Graz para ser expuesto en el Louvre en el marco de la exposición de Michelangelo Pistoletto “Année 1 - Le Paradis sur Terre”.

miCHeLangeLo PistoLetto / LoVe differenCeamare Le differenze

www.lovedifference.org Images courtesy: Love Difference

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Hérétique design firenze / madridCommuniCation and design for ContemPorarY art

aPPunti e rifLessioni / notas Y refLeXionesn°2 mediterraneo

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