IL MANUALE DELL'ANTIDIRIGENTE · Anche per perdere bisogna studiare 23 Buoni consigli e cattivi...

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VITO PIAZZA TUTTO QUELLO CHE DEVI SAPERE PER DIRIGERE UNA SCUOLA NEL PEGGIOR MODO POSSIBILE IL MANUALE DELL’ ANTI DIRIGENTE

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€ 18,00

Diciamoci la verità: quello del dirigente scolastico è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. E se avete attraversato la giungla kafkiana del concorso, e infaustamente lo avete pure superato, ora avete bisogno di qualche dritta per sopravvivere. Perché la strada è tutta in salita e gli ostacoli sono dietro a ogni curva… Come si gestiscono le ansie di genitori iperprotettivi e invadenti? Come si scrive un POF e come ci si muove nel labirinto degli indicatori RAV?Come si governa l’arena del corpo docente senza che i colleghi si sbranino tra loro (o sbranino voi)?Come si evita di finire in galera per concussione, abuso d’ufficio e altri svariati crimini di rilevanza penale in cui un DS può incorrere?

SE CERCATE LE RISPOSTE A QUESTE DOMANDE, FORSE QUESTO LIBRO NON FA PER VOI.

Ma se volete sorridere, con intelligenza e ironia (cioè come si può fare solo delle cose molto serie) di un mestiere importante, difficile, complicato e affascinante… allora sì.

Vito Piazza è stato insegnante, dirigente, ispet-tore del MIUR. La sua è stata una vita dedicata alla scuola: ne ha conosciuto, dall’interno, limiti, risorse, glorie e sventure.Con lo sguardo affezionato ma impietoso di chi ha amato il suo mestiere, e per questo non gli fa sconti, restituisce un ritratto del dirigente dis-sacrante, (auto)ironico, sferzante, politicamente scorretto. Ma soprattutto vero.

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VITO PIAZZA

Ispettore del Ministero della Pubblica Istruzione, autore di fortunate opere narrative (Attè ti picchia Luigi?) e di numerosi e innovativi testi di pedagogia e metodologia didattica (L’in-segnante di sostegno, Maria

Montessori, Per chi suono la campanella? e il best seller di preparazione al concorso Magistrale Inse-gnare domani), da anni si occupa di formazione e aggiornamento degli insegnanti.

VITO PIAZZA

TUTTO QUELLO CHE DEVI SAPERE PER DIRIGERE UNA SCUOLA NEL PEGGIOR MODO POSSIBILE

IL MANUALE DELL’ANTIDIRIGENTE

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€ 18,00

Diciamoci la verità: quello del dirigente scolastico è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. E se avete attraversato la giungla kafkiana del concorso, e infaustamente lo avete pure superato, ora avete bisogno di qualche dritta per sopravvivere. Perché la strada è tutta in salita e gli ostacoli sono dietro a ogni curva… Come si gestiscono le ansie di genitori iperprotettivi e invadenti? Come si scrive un POF e come ci si muove nel labirinto degli indicatori RAV?Come si governa l’arena del corpo docente senza che i colleghi si sbranino tra loro (o sbranino voi)?Come si evita di finire in galera per concussione, abuso d’ufficio e altri svariati crimini di rilevanza penale in cui un DS può incorrere?

SE CERCATE LE RISPOSTE A QUESTE DOMANDE, FORSE QUESTO LIBRO NON FA PER VOI.

Ma se volete sorridere, con intelligenza e ironia (cioè come si può fare solo delle cose molto serie) di un mestiere importante, difficile, complicato e affascinante… allora sì.

Vito Piazza è stato insegnante, dirigente, ispet-tore del MIUR. La sua è stata una vita dedicata alla scuola: ne ha conosciuto, dall’interno, limiti, risorse, glorie e sventure.Con lo sguardo affezionato ma impietoso di chi ha amato il suo mestiere, e per questo non gli fa sconti, restituisce un ritratto del dirigente dis-sacrante, (auto)ironico, sferzante, politicamente scorretto. Ma soprattutto vero.

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VITO PIAZZA

Ispettore del Ministero della Pubblica Istruzione, autore di fortunate opere narrative (Attè ti picchia Luigi?) e di numerosi e innovativi testi di pedagogia e metodologia didattica (L’in-segnante di sostegno, Maria

Montessori, Per chi suono la campanella? e il best seller di preparazione al concorso Magistrale Inse-gnare domani), da anni si occupa di formazione e aggiornamento degli insegnanti.

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IL MANUALE DELL’ANTIDIRIGENTE

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Indice

Premessa 9

Aspiranti Dirigenti sull’orlo del baratro 13

Il giorno della prova 17

Anche per perdere bisogna studiare 23

Buoni consigli e cattivi esempi 29

Il principio di incompetenza 36

Una parola sul MIUR 39

Inizia la scuola 41

Prima di tutto, coltivate la diffidenza 44

Fare come il Gattopardo, sempre 48

L’ars oratoria del Dirigente 52

Recitate la vostra parte 59

Dirigenti peripatetici 62

Evitate di ascoltare 64

Questione di stili 66

Locus of control 71

Grandi scrivanie per grandi uomini 74

Voi, immigrati digitali 77

Dell’incapacità di delegare 84

Spoil system (ovvero siamo tutti uguali ma qualcuno è più uguale degli altri) 87

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Organizzazione del lavoro e gestione del personale 89

Della dissimulazione onesta (ovvero il Collegio docenti) 92

Il tempo pieno 95

Cascare nella rete 99

Mors tua, vita mea 101

Il patto di corresponsabilità 106

L’alternanza scuola-lavoro. Un’altra rogna 109

Cittadinanza attiva o passiva? 112

Guardate in alto, ma non troppo 117

Prove di evacuazione 120

Quis custodiet custodes? 123

Concussione, abuso d’ufficio e altre amenità 127

S-valutazioni 134

Quell’inutile dichiarazione di intenti che è il Piano triennale 145

Inclusione. Ancora? 147

Per concludere 149

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Premessa

Il Dirigente scolastico: scimmia o animale politico?

«L’uomo è per sua natura un animale politico». Dal celebre passo della Politica di Aristotele sono derivati tutti i mali di cui soffre oggi la nostra società. Ma la politica costituisce solo la punta dell’iceberg nel mostrare come l’uomo, quell’animale che un tempo si arrampicava sugli alberi, abbia ora come unico interesse quello di salire la scala sociale. Ovunque volgiamo lo sguardo troviamo arrampicatori sociali.

Desmond Morris aveva ragione quando sosteneva che a giudicare dai denti, dalle mani, dagli occhi e da svariati altri aspetti anatomici, l’uomo è chiaramente un primate di qualche genere, ma di tipo molto strano.1 È talmente strano — sostiene Morris — da essere ovunque fuori posto. Con l’arrivo della cultura — e di tutto il suo portato di arrivismo — le vette so-ciali hanno sostituito i rami e l’ambizione è diventata il motore dell’arrampicata sociale. L’ambizione rappresenta una forte tensione verso il potere e il successo personale, ma l’obiettivo è di voler diventare uomini di successo, non uomini di valore.

1 Morris D. (2017), La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo, Milano, Bompiani.

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Per realizzare le proprie ambizioni si dovrà passare per le forche caudine dell’adulazione — che consiste nell’ossequio umile di chi sta un gradino sopra il proprio — e, una volta giunti alla meta (ovvero una volta diventati Dirigenti scolastici), ci si comporterà come il protagonista del Barone rampante di Calvino, convinti che il ramo a cui ci si è attaccati sia il meglio per la scuola.

La promozione sociale impera: l’eternità non è più affidata alle proprie opere, ma all’ascensore sociale che porta sempre più in alto. In tutto il Paese, l’ansia di promozione sociale invade i settori della vita pubblica e privata e in tutte queste derivazio-ni si dimentica che, prima dell’uomo politico, c’è l’uomo in quanto animale, uno scimmione nudo che si è autoproclamato Homo sapiens. Qualche colpa potrebbe essere data a Darwin (o piuttosto al cugino, Francis Galton, che trasferì in ambito sociale una teoria che era solo antropologica). Forse oggi l’uomo sarebbe meno preoccupato se si ricordasse di essere pur sempre una scimmia. Nuda. Attenzione: se «ricordasse» di essere una scimmia, non se «si comportasse» come una scimmia. Nella società lavorativa e relazionale in genere non tutti sono Re e, soprattutto, sarebbero in pochi ad accettare che un Re se ne vada in giro nudo. Sostanzialmente il messaggio generale è questo: perché accontentarsi di ciò che si è se si può essere qualcosa di migliore? Perché andare in giro nudi se ci si può vestire? Si tratta di un processo di socializzazione che ha inizio fin dalla nascita, e la scuola ne è la principale artefice. Come? Fornendo dei modelli che non si possono rifiutare, visto che i nuovi arrivati vengono immersi nel rassicurante ambiente di sempre, dove la «vestizione» nelle abitudini comincia con il pannolino. In fondo, la socializzazione non è che il processo con cui apprendiamo le abitudini e gli atteggiamenti legati al nostro ruolo sociale. Senza la socializzazione non saremmo in grado di interagire con gli altri: in pratica non potremmo vivere.

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Naturalmente c’è chi nasce con la camicia e chi invece suda sette camicie per poterne indossare una. In una società legata alla permanenza (Clausse) il contadino riceveva un’educazione da contadino e il cavaliere da cavaliere.2 Prima della rivoluzione industriale, ognuno veniva educato secondo la categoria sociale di appartenenza e Suchodolski — a questo proposito — afferma che non era l’educazione ad attribuire una determinata posizione nella società, bensì la posizione sociale a determinarne l’edu-cazione. La rivoluzione industriale fece sorgere la necessità di un’istituzione che addestrasse, in modo continuativo e diretto, a fare ciò che il potere dominante voleva. E ci mise del suo per-fino Martin Lutero che, per diffondere la Bibbia, promosse in ogni dove scuole per apprendere a leggere e scrivere in tedesco. Nacque così la scuola, non per democrazia, ma per necessità. E nella scuola esistono dei ruoli. Esiste la gerarchia. Esistono i concorsi. Esiste l’emulazione, che è un termine che vuol dire che «l’erba del vicino è sempre più verde».

Nella scuola molti, troppi sono tentati di partecipare ai concorsi che portano sempre più in alto nella scala gerarchica. In realtà, è anche un fatto di logica: sembra naturale, infatti, che un docente che arrivi al più alto grado di competenza nell’in-segnare partecipi al concorso e diventi un Dirigente. In questo modo, però, si sottrae spesso alla scuola un ottimo insegnante per avere il più delle volte un pessimo Dirigente...

Malgrado si senta parlare di «strategia di scopo» — vale a dire che ogni figura della scuola ha il medesimo scopo, cioè la crescita della qualità dell’offerta formativa —, non è difficile accorgersi che l’insegnante ha un contatto diretto con bambini e adolescenti, mentre il Dirigente ha a che fare con adulti, che non sono altro che bambini cresciuti che hanno abbandonato candore e intelligenza e hanno acquisito quell’esperienza che

2 Clausse A. (1974), Teoria dello studio d'ambiente, Firenze, La Nuova Italia.

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Oscar Wilde definiva «il nome che ciascuno di noi dà ai propri errori».

Quando vengono pubblicati i bandi, non correte a inoltrare la domanda. Aspettate. Riflettete. Il vostro sarà comunque un campo di battaglia e non solo sarà vostro il campo, ma sarà vostra pure la battaglia. Aspettate. Come dice Sun Tzu in L’arte della guerra: «Chi si attesta per primo sul campo di battaglia e ivi attende l’avversario è più fresco; chi vi giunge per ultimo e si affretta all’attacco è invece affaticato. L’abile guerriero fa quindi in modo che gli altri vengano a lui ed evita il contrario».3 Lo stesso Tzu sosteneva che il miglior modo per vincere una guerra è quello di non farla.

Quindi indugiate, e pensateci mille volte prima di cadere nella trappola della dirigenza, che vi porterebbe a rinunciare all’uso quotidiano della vostra intelligenza e di quella bontà innata che un vero Dirigente non può permettersi. Del resto, il mondo della scuola, come quello della società, è pieno di Dirigenti. E malgrado i numerosi tentativi della scienza di trovare un rimedio per eliminarli, la ricerca è ancora in corso.

Lo scopo di questo testo è far sì che vi convinciate che la migliore scelta da prendere è quella di quieta non movere et mota quietare. Tuttavia, se proprio vi volete intestardire a diventare Dirigenti, allora questo libro vi farà sopravvivere e, nel caso siate particolarmente dotati, magari vi farà anche vivere bene, nonostante esercitiate uno sporco mestiere (che comunque qualcuno deve pur fare).

In ogni caso, sarà meglio che lavorare.

3 Tzu S. (2013), L’arte della guerra, Milano, Feltrinelli.

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Aspiranti Dirigenti sull’orlo del baratro

Cosa si ricava dal diventare Dirigente scolastico? Una sod-disfazione, ma poi? E se anche voi foste colti dalla sindrome di Ulisse che investigava ogni anfratto del Mediterraneo? Sappiate che — come sosteneva Kaspar Hauser — «per quanto sia audace esplorare l’ignoto, lo è ancor di più indagare il noto».

Non ci cascate anche voi. Comandare comporta respon-sabilità perché si sarà ritenuti responsabili non solo per quello che si fa, ma anche per quello che non si fa (ad esempio, nell’o-missione di atti d’ufficio...).

L’importante è essere guidati da sani principi, magari modificati un po’ alla Cicero pro domo sua. E se il Dalai Lama afferma che bisogna seguire le 3 R («Rispetto per te stesso», «Rispetto per gli altri», «Responsabilità per le tue azioni»), fate in modo che le seconde siano subordinate alla prima. E lasciate perdere la voglia di addomesticare quelle belve furiose che oggi sono i vostri colleghi e domani saranno i vostri subor-dinati. Diventerete per sempre responsabili di quello che avete addomesticato. «Io sono responsabile della mia rosa», ripete il Piccolo Principe. Ma i vostri colleghi? Più spine che rose. Per consolarvi, pensate alla filosofia della Legge di Murphy: «Sor-ridi. Colui che sorride quando le cose vanno male, ha pensato a qualcuno cui dare la colpa».

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I suggerimenti che troverete in manuali come Il Dirigente presto e bene, che sono tra l’altro molto noti e che potete tro-vare un po’ dappertutto, sono dei macro-consigli per tutte le leadership e vi saranno utili sia che voi facciate già il Dirigente scolastico sia che vi prepariate — s’intende contro il nostro parere — al concorso da Dirigente. Vi siete già iscritti a uno dei tanti improvvisati corsi on line? Bene, la strada per perdere l’avete già scelta. Ma siccome potreste incappare in qualche ente serio (ipotesi molto improbabile), noi siamo qui per darvi una mano.

Prima di buttarvi nell’avventura dei vari concorsi pubblici o per diventare dirigente nella Pubblica Amministrazione, co-minciate a conoscere la storia personale di chi era prima vostro collega e ora è Dirigente scolastico. Non ha più amici, può solo contare su una corte e la corte è sempre fatta di mercenari al soldo di chi comanda. Riflettete. Ne vale la pena? Finora siete rimasti fedeli non solo a voi stessi, ma anche al vostro gruppo di riferi-mento e cioè ai vostri parenti, ai vostri amici, ai vostri colleghi, ai vostri conoscenti. La vostra reputazione, conquistata a fatica, di sicuro subirà un duro colpo, perderete gli amici e — quel che più conta — perderete la fiducia in voi stessi. Rimanere nel vostro mondo vi darà il vantaggio di non mettervi in discussione e, soprattutto, vi permetterà di continuare a vedere le cose per come devono essere e non per come sono in realtà. Finora avete potuto rispondere a chi vi dava dei consigli: «Grazie, so sbagliare da me»; nel nuovo status non potrete più farlo. E, ancor di più, tentare il concorso per diventare Dirigente scolastico implica il mettervi, o rimettervi, in gioco. Se poi aveste una forte persona-lità che potrebbe indurvi a cercare il nuovo, sappiate che niente è così nuovo come l’ovvio. Chi siamo e chi saremo dipende da noi, dalle nostre scelte. Quale migliore scelta che stare seduti?

Salire la scala gerarchica può essere più pericoloso che discendere l'inferno dantesco.

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Il principio di incompetenza

Ora che avete vinto il concorso, e il Dirigente lo farete sul serio, cominciate a osservare i vostri futuri colleghi, quelli che avete conosciuto e quelli viventi (nel senso che «danno segni di vita»). Tutti (o quasi) vivono al loro livello di incompetenza e sono oggetto di studio di una nuova scienza che Laurence J. Peter e Raymond Hull, nel 1969, hanno definito gerarcologia.1 Gli studiosi partono da considerazioni note a tutti e che nel nostro Paese assumono proporzioni inquietanti. L’incompetenza primeggia nelle aule scolastiche. Un diplomato su tre legge come uno studente di quinta elementare ed è un fatto comune che nelle università si organizzino corsi di lettura per comprendere i libri di testo! L’indagine OCSE del 2016 ha collocato l’Italia al penultimo posto per capacità di lettura, prima della Turchia. Peter e Hull hanno osservato una progressione dell’incompe-tenza direttamente proporzionale all’ascesi gerarchica e hanno ipotizzato che la causa non fosse da ricercare all’esterno (diffi-coltà di accesso, problemi economici, dispersione, ecc.) bensì intrinseca. Hanno cominciato a studiare come si sale nella scala gerarchica e cosa accade dopo ogni promozione a un gradino superiore. Risultato evidente? Le persone vengono promosse da una condizione di competenza a una di incompetenza.

1 Peter L.J. e Hull R. (2008), Il principio di Peter, Milano, Calypso.

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Un professore, bravo nella sua materia, vince il concorso e diventa DS. Il suo lavoro viene «abbandonato» nelle mani di chi non ha ancora raggiunto il livello di competenza. E se il professore che diventa Dirigente scolastico fa bene anche questo lavoro, la sua carriera progredisce ulteriormente, fino a raggiungere il livello ineluttabile di incompetenza. Un po’ perché il sistema è sempre quello del promoveatur ut amoveatur, locuzione latina che viene spesso usata nel linguaggio burocrati-co per esprimere la necessità di liberare una posizione lavorativa dalla persona che la occupa, promuovendola a un qualunque altro ruolo di rango superiore, spesso solo onorifico e in realtà inutile, essendo questo l’unico mezzo per poterla «legalmente» allontanare dalla posizione occupata.

In altri casi, la rimozione serve a favorire qualcuno che aspira a occupare un posto superiore, in questo caso si parla di «distacco». Non pochi sono i DS che vengono distaccati presso gli ex Provveditorati, negli Uffici scolastici regionali, agli stessi vertici del MIUR. I criteri sono sempre quelli di una democra-zia matura e cioè la vecchia, sana, rassicurante cooptazione: si chiamano solo gli amici e gli amici degli amici.

Riassumendo, questo è il principio di Peter: «Ogni membro di un’organizzazione gerarchica sale nei livelli di gerarchia fino a raggiungere il proprio massimo livello di incompetenza». Il principio di Peter, tuttavia, si riferisce alle dinamiche organiz-zative determinate dall’attitudine a promozioni meritocratiche. La conseguenza di questo principio è che, «con il tempo, ogni ruolo dell’organigramma tende a essere occupato da un in-competente», il che esprimerebbe un limite e un difetto della meritocrazia.

Riportiamo, ancora da Il principio di Peter, anche «il caso del conformista». Si afferma che un insegnante incompetente non è passibile di promozione (ovviamente al di fuori dalle italiche mura!) e fa l’esempio di Dorotea, una studentessa molto

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conformista che faceva esattamente quello che le si chiedeva di fare, ricorrendo a «scopiazzature» di ogni genere. Aveva co-munque la reputazione di studentessa competente. Si laureò con 110 e lode. Divenuta professoressa, si mise a insegnare nel modo in cui aveva imparato. Seguiva pedissequamente il testo e il programma. Entrava in orario, usciva in orario. Un giorno si allagò la scuola e la professoressa continuò la sua lezione. Fu interrotta dal preside che, spalancando la porta, urlò: «Ma non vede l’acqua? Perché gli allievi sono ancora qui?». Lei, serafica, rispose: «Ma non è suonato l’allarme! Aspetto che suoni l’allarme!».

La professoressa non voleva infrangere regole e non aveva mai disubbidito. Studentessa competente, aveva raggiunto il suo livello di incompetenza come insegnante...

E voi? Avete voluto la bicicletta? Ora pedalate. E fate in modo che sia almeno una mountain bike.

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L’ars oratoria del Dirigente

Sarete spesso costretti a parlare in pubblico, e prima di iniziare un discorso vi consiglio di soffermarvi sui motivi per cui spesso la concisione (in questo caso la «condensazione verbale») si accompagna alla grandezza di certi uomini. Sarà che — sapendo di essere grandi — nutrono un sano disprezzo intellettuale verso le masse?

Il discorso breve non potrebbe farci ritornare a una civiltà basata sull’ascolto?

Se abbiamo due orecche e una sola bocca, una ragione ci sarà!

Sostenete che il silenzio è omertoso e che la parola è dei coraggiosi. Confutate l’aforisma di Wittgenstein, quando diceva «di ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere». Non sapeva il filosofo che proprio quando non si sa, è necessario sforzarsi di parlare.

Bernstein parlava di linguaggio pubblico e di linguaggio formale. Il linguaggio pubblico è una modalità di linguaggio che si distingue per la rigidità della sua sintassi e per l’uso ristretto di possibilità formali nell’organizzazione verbale. Sintassi e organizzazione formale sono prevedibili, come del resto il tipo di contenuto. Le caratteristiche di un linguaggio pubblico sono frasi brevi e grammaticalmente semplici, uso basico e ripetitivo delle congiunzioni («Il DS è un leader e allora deve porsi come leader così potrà fare il capo d’istituto, perché tale deve essere...»,

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oppure: «L’autonomia è entrata nella scuola e allora dobbiamo adeguarci perché questo vuole la legge, così si comincia l’edu-cazione alla legalità»), assenza di proposizioni subordinate. I talentuosi ricorreranno perfino al congiuntivo all’italiana: «Io lo facevo il DS se guadagnavo di più».

Il linguaggio formale è il contrario, e appartiene alla classe dei ricchi, di chi ha alle spalle un ethos culturale e familiare di tutto rispetto e i soldi li ha già.

Che significa? Valutate con attenzione questa due scenette che ci suggerisce Bernstein.1

Madre e figlio piccolo su un tram:

• Situazione A

Madre: Aggrappati forte!

Bambino: Perché?

Madre: Aggrappati forte!

Bambino: Perché?

Madre: Aggrappati!

Bambino: Perché?

Madre: Aggrappati. Non farmelo ripetere!

Alla frenata del tram, il bimbo cade e resta ammaccato e confuso.

• Situazione B

Madre: Tieniti stretto, caro!Bambino: Perché?

1 Bernstein B. (1978), Struttura sociale, linguaggio e apprendimento. In A.H. Pas-sow, M. Goldberg e A.J. Tannenbaum (a cura di), L’educazione degli svantaggiati, Milano, FrancoAngeli.

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Madre: Perché altrimenti potresti cadere.Bambino: Perché?Madre: Perché se l’autobus si arresta bruscamente, tu finiresti per terra. Su caro, non fare storie.

Nel primo esempio un’intera gamma di apprendimento e di connessioni potenziali è stata tagliata fuori dall’affer-mazione categorica. La curiosità naturale del bambino è stata messa a tacere. Non c’è alcuna concatenazione causale tra la richiesta della madre e la risposta attesa dal bambino. Il cambiamento di comportamento è stato causato da un processo affine al condizionamento verbale e non mediante l’apprendimento strumentale. Nel secondo esempio il bam-bino è stato esposto a un’area di connessioni e di sequenze, l’affermazione categorica viene alla fine, dopo un ragione-vole... ragionamento. In quale scenetta ritrovate la vostra infanzia? Se nella prima, non avrete problemi, se invece vi è più familiare la seconda, sarete in grado di usare un lin-guaggio appropriato poiché la scuola ama particolarmente questa caratteristica, ma non sempre funziona per «attaccarsi al tram». Frequentate quindi gli amici dei bassifondi e impa-rate a parlare come loro. Non sarà un lavoro faticoso poiché ci sono più silenzi che parole tra gli scaricatori di porto, tra i malviventi, tra i dropout.

Bene, basta con le chiacchiere, ricordatevi di seguire questi brevi consigli e al momento dei vostri discorsi abbondate pure nelle...

1. Autopresentazioni: «Credo che almeno un merito me lo possiate riconoscere: sono sempre stato pronto a risolvere i problemi della nostra comunità nella mia qualità di gui-da verso un’offerta formativa che da sempre ho cercato di migliorare». E ancora: «Io, che ho avuto diverse esperienze per quanto riguarda il sostegno in una scuola elementare

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[...]. La mia scuola mi ha insegnato che bisogna attivare il metodo cooperativo». I più bravi metteranno il nome e l’ubicazione della scuola in cui hanno avuto esperienze significative.

2. Osservazioni preliminari: «Sono così contento di contribuire a risolvere le questioni che riguardano la nostra scuola, al di là di ciò che mi dovrebbe spettare [...]». E quel «nostra» non è detto a caso. «Ciò che mi sto accingendo a svolgere rientra perfettamente nello spirito teso a rilevare la capacità di fare il DS». Tutte chiacchiere, ma servono a stemperare il clima, e voi lo sapete bene.

3. Domande retoriche: «Si può non concordare sul fatto che maggiore autonomia significa, per il Dirigente scolastico, maggiore responsabilità?», oppure: «L’educazione del cit-tadino è forse in contrasto con la formazione dell’uomo?».

4. Interiezioni e luoghi comuni: «Eureka!», «Sembra dire Rousse-au», «Questa volta ce l’abbiamo fatta!», «Ma come? Ancora razzismo nella scuola?» e «Dove andranno a finire le regole stabilite con il patto educativo se noi per primi non le met-tiamo in pratica?».

5. Elogi: «Il buon vecchio grande Dewey», «Finalmente arriva una scuola con un volto nuovo, più accattivante, sicuramente più democratico» e «Edgard Morin, uno dei massimi studiosi della complessità, se non il più grande», ecc.

Quando sarete insediati, per una volta non aspettate e fate voi la prima mossa (e potreste aggiungere una citazione ad effetto tratta da La profezia di Celestino, ma per non rischiare vi conviene andare sul sicuro e citare direttamente la Bibbia!), rivolgendovi a genitori e insegnanti più o meno così:

Cari genitori, cari collaboratori,non sono capitato qui per caso. Sono capitato qui

per scelta. Questa scuola ha sempre suscitato in me

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curiosità e fascino. Perché? Perché sono convinto che nasconda delle potenzialità che finora non sono state adeguatamente sviluppate [non è ancora il momento di parlare male del vostro predecessore, ci sarà sem-pre tempo] e che io, nella mia pur modesta persona, cercherò di sviluppare al massimo grado [in realtà non avete mai avuto un progetto di scuola, non ve n’è mai importato nulla della scuola in cui siete capitato]. Per far questo avrò bisogno di tutta la vostra collabora-zione. Sono convinto che ciascuno, nel proprio ruolo, potrà fare molto perché uniti, elaborando un progetto comune, si vince. Il Dirigente si assume [attenzione, è un vostro obbligo, ma voi portate pure gli altri a pensare che vi state caricando di un compito per generosità e amore della scuola] la responsabilità di redigere delle linee guida aperte da sottoporre a tutti voi affinché sia un progetto partecipato. Per far questo ho bisogno di un po’ di tempo. Perciò, nel ritirarmi a un lavoro che mi auguro produttivo, auspico che in ciascuno di noi possano maturare buone e fruttuose idee. Ricordiamoci che è importante che i genitori facciano i genitori, gli insegnanti gli insegnanti e i Dirigenti il loro lavoro [agli amici che si meravigliavano della vostra idea di fare il Dirigente di una scuola avete sempre risposto «sarà sempre meglio che lavorare!»].

Dopo il discorso seguono i soliti saluti, appuntamenti vaghi, frasi d’effetto. Intanto vi sarete procurati del tempo prezioso. Ah, e la Bibbia quindi? Decidete voi se citarla. In America sarebbe obbligatorio concludere con l’Ecclesiaste: «Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo».

E se questo non bastasse a sollevarvi il morale, prima di varcare la soglia della vostra scuola potreste preparare un cartello da incorniciare alle vostre spalle. I vostri collaboratori crederanno che abbiate la dote dell’autoironia:

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Si prega chiunque voglia interagire con la figura del DS di osservare queste dieci semplici regole (anche detti dieci co-mandamenti):

1. Appoggiate il ginocchio destro e quello sinistro sul pavi-mento a più di due metri da me (spazio significa potere, situarsi nella zona sociale).

2. Assumete un atteggiamento rispettoso (la dignità è un optional), tipo cariatide.

3. Le mani giunte sono facoltative ma, per favore, evitate di gesticolare.

4. Una volta ottenuta la concessione a parlare, esponete sinteticamente quanto avete da dire. Se siete affetti da logorrea, astenetevi.

5. Usate un tono di voce pacato e mai supplichevole, a meno che non si tratti di chiedere permessi poco giustificati.

6. Evitate le lacrime. Sono sempre di coccodrillo. Al DS fanno schifo i rettili.

7. Non baciatemi le mani. È un’usanza desueta e antigieni-ca. Potreste baciarmi l’anello, ma con moderazione, non sempre è oro ciò che luccica.

8. Attendete in silenzio la risposta. Non cercate di interpretare i silenzi del DS.

9. Rimettetevi in piedi e ringraziate.10. Prima di lasciare il luogo di preghiera, pulite bene dove

avete appoggiato le ginocchia, così la prossima volta troverete pulito.

Vi tocca comandare, ma l’idea del guidare non vi ha mai sfiorato. Se preferite, potreste usare il termine «governare». È meno impegnativo. E poi governare una scuola non è difficile, è inutile. Avete fatto l’insegnante, ma l’esperienza pregressa non vi servirà a niente. Anzi, sarà un ostacolo. Potreste correre il rischio di occuparvi davvero della qualità dell’offerta formativa. E, soprattutto, cedereste alla tentazione del «tuffo» nel didatti-co: ogni tanto e nei momenti di particolare sconforto vorrete

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ritornare in classe a insegnare in mezzo ai «vostri» ragazzi, una banda di piccoli criminali che il ricordo ora trasforma in tanti angioletti che amavano suonare l’arpa. Ma voi non siete più quelli di prima, siete diventati un ruolo, una funzione, un titolo e non godete neanche dei vantaggi dell’anonimato: siete un po’ un Grande Fratello della scuola. Ricordate che la legge (astratta) non vi vede come cittadini, ma come incaricati di pubblico servizio.

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Dirigenti peripatetici

Per non dare l’impressione che passeggiando vi state ricreando lo spirito, portate un taccuino sempre con voi: se-gnate quello spigolo sporgente, quella colonna da controllare, quell’estintore il cui contenuto risulterà irrimediabilmente scaduto. Ed entrate nei bagni dopo esservi assicurati che non ci siano degenti o fumatori incalliti. Troverete le immancabili scritte. Queste scritte sono sempre state sottovalutate. Eppure, un buon Dirigente dovrebbe andare spesso nei bagni per trovare la cosiddetta «subcultura», dimostrando coerenza con il vostro ruolo che vi impone un certo tipo di disprezzo intellettuale. Non vorrete dar mica ragione a don Milani?

Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta. Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccolo chiamava la radio «lalla». E il babbo serio: «non si dice lalla, si dice aradio». Ora, se è possibile è bene che Gianni impari a dire radio. Potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola. «Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua». L’ha detto la Costituzione pensando a lui.1

1 Milani L. (1996), Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, p. 19.

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Voi avete il dovere di essere coerenti, o con autorevolezza o con autorità, e, quando occorre, machiavellici. Avete in mente il capitolo XVII de Il Principe? Qui l’autore riflette sulle carat-teristiche e i comportamenti che il regnante deve adottare per riuscire a conservare il proprio potere e lo Stato stesso:

Quanto sia laudabile in un Principe mantenere la fede, e vivere con integrità, e non con astuzia, ciascuno lo intende. Nondimeno si vede per esperienzia, ne’ nostri tempi, quelli Principi aver fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con astuzia aggirare i cervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la lealtà.2

Machiavelli sostiene che l’ideale sarebbe essere governati da Principi che mantengono la propria parola e che vivono secondo i dettami dell’integrità morale. In realtà, però, i re-gnanti che hanno ottenuto «cose grandi» sono coloro che hanno agito secondo astuzia. E il fiorentino distingue tra il modo di combattere proprio degli uomini, fondato sull’utilizzo delle leggi, e quello degli animali, che si esprime nell’uso della forza. Dato che spesso la prima modalità, quella umana, non risulta sufficiente per regnare e conservare il potere, bisogna che il Principe sappia utilizzare anche la seconda via: «ad un Principe è necessario saper ben usare la bestia e l’uomo». Nell’attingere dal comportamento del regno animale, il Principe deve distin-guere tra l’atteggiamento della volpe e quello del leone, ovvero si può avvalere talvolta dell’astuzia e talvolta della forza. Ritorna qui l’idea secondo cui la condotta del Dirigente va valutata di volta in volta e in base alla situazione concreta che si trova ad affrontare. Per questo vi trovate a fare il leader situazionale. Dovete sempre tener conto del contesto.

2 Machiavelli N. (2013), Il Principe, Roma, Newton Compton, p. 92.

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Della dissimulazione onesta (ovvero il Collegio docenti)

È bastato che il solito sindacalista facesse una proposta che si sono messi in un numero spropositato a chiedervi di convo-care il Collegio docenti. Invano avete cercato una scappatoia. Possono farlo, lo dice la legge. E a cosa vi è servito allora studiare tutte le leggi del mondo se poi gli insegnanti ne sanno più di voi in ciò che riguarda i propri interessi? Quante 104 false, quanti malati immaginari, quanti ritardi! Malgrado il vostro ragionare, malgrado il rassicurare che avreste preso voi le decisioni, niente da fare, hanno convocato il Collegio. E dire che non avete mai mancato di fingere serenità, fiducia, competenza, sorrisi (a denti stretti), pacche sulle spalle, interesse per le loro storie.

Già. Fingere. Non abbiate sensi di colpa. Se foste stati davvero voi stessi vi avrebbero già cacciato. O sareste rimasti a fare l’insegnante. Ora, davvero, qui nescit fingere nescit vivere: in fondo si tratta di una dissimulazione onesta. Avete cominciato bene, ignorando ciò che sapete benissimo e facendo finta di ignorare ciò che dovreste, invece, conoscere bene. Continuate pure a fingere di capire ciò che nessuno capisce (gli sproloqui della «Buona scuola») e di non capire ciò che capite benissimo: la DSGA che non vi giudica all’altezza (e, soprattutto, il fatto che siete d’accordo con lei), il vostro vicario che sa fare solo

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gli orari perché conosce gli algoritmi e nient’altro, il fatto che avete voglia di tacere quando nei vostri occhi c’è un intero discorso di Bruner, una profondità di pensiero quando, nella vostra testa, c’è il vuoto. Il massimo è fingere di avere amicizie influenti nell’Ufficio scolastico regionale.

Fingere, del resto, è una dote naturale, anche se con l’allena-mento si può sempre migliorare. Così scriveva Luigi Pirandello: «Fingiamo tutti spontaneamente, non tanto innanzi agli altri, quanto innanzi a noi stessi; crediamo sempre di noi quello che ci piace credere, e ci vediamo non quali siamo in realtà, ma quali presumiamo d’essere secondo la costruzione ideale che abbiamo di noi stessi».1

Avete imparato che quando il Collegio applaude dovete chiedervi cosa avete fatto di male e quando qualcuno vi critica domandarvi quando è stata l’ultima volta che avete peccato di bontà. Non dimenticate il latino che riguarda il disprezzo per le folle: panem et circenses, tot capita tot sententiae, divide et impera.

Ah già, il latino. Ve lo ricordate ancora, ma la memoria sa essere selettiva. La legge dice che nel Collegio perdete le funzioni di Dirigente per diventare solo il presidente, vale a dire che siete semplicemente un primus inter pares. Avete solo compiti di polizia, cioè presiedete e basta, non siete più il capo. Sapete che i compiti di polizia consistono nel dare e togliere la parola, nello stabilire il tempo degli interventi, nell’allontana-re chi fa casino o si comporta male. Lasciate stare la seconda parte, inter pares, e concentratevi sul primus. Del resto, siete voi che stabilite l’ordine del giorno e le modalità. Sapete anche che è inutile scrivere alla fine «varie ed eventuali». Qualcuno all’ultimo momento potrebbe tirar fuori un argomento per voi scottante. Ma accettate i consigli: per quanto siate bravi si può

1 Pirandello L. (1990), Candelora. In Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, Milano, Mondadori.

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essere sempre più bravi nell’esercizio del comando. La guida è un’altra cosa, il comandare invece richiede abilità machiavelliche e un allenamento continuo.

Immaginate la scena. Dichiarate aperta la seduta. Invitate il Collegio a motivare la richiesta della riunione. Il solito inse-gnante sindacalista, antipatico, grasso, baffuto e presuntuoso inizia: «Caro Dirigente, cari colleghi, è arrivato il tempo di cambiare. La nostra scuola deve mettersi al passo con i tempi. Occorre cambiare organizzazione. Occorre il tempo pieno».