IL MANIFESTO DEL PARTITO DEI GIOVANI

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È il momento di una rivoluzione. Nulla di meno occorre di fronte al crollo di questo paese. La casa, i precari, la scuola e la ricerca, il fisco, l’informazione. L’Italia senza diritti per chi è “diverso”, magari perché omosessuale, donna o troppo giovane. L’innovazione tecnologica e l’ambiente ridotti a tema da convegno o poco più. La banda larga che rimane maledettamente stretta. L’Italia della rete libera, vissuta con sospetto dal circuito politico-mediatico. E l’abisso scavato tra le generazioni, nella patria dell’erede (per chi ha una eredità di cui godere) e del figliol precario (che non ha futuro e ancora non si è ribellato)

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Uno spettro (non) si aggira per l’Italia

Care ragazze, cari ragazzi, occupatevi del paese, perché il paese non si occuperà di voi. Lo ha già dimostrato. Ampiamen-te. Per tanti anni. Senza alcuna crisi di coscienza, senza alcuna assunzione di responsabilità. Senza alcuna autocritica. Ecco il senso di questo piccolo manifesto, take away, da portare con sé, con un’analisi e una serie di proposte da cui partire per tornare a frequentare il futuro. Da parte della politica, si tratta soprattutto di una scelta che non può ulteriormente rinviare. Verso chi è più giovane e si trova svantaggiato solo perché quelli che c’erano prima non sono stati corretti verso i propri fi gli come avrebbero dovuto.

Un messaggio rivolto a tutti, e in particolare ai 10 milioni di giovani italiani:

La politica e la società hanno bisogno del nostro protagonismo per essere svecchiate e rinnovate. Possiamo riportare noi soli al centro del paese un vero dibattito sul futuro, su come imma-giniamo gli anni a venire, sugli strumenti coi quali intendiamo affrontare nuove sfi de, sulla strada che riteniamo lungimiran-te intraprendere. Questo dobbiamo fare. Perché il futuro delle

La questione generazionale

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nuove generazioni non è interesse solo di un segmento specifi -co, particolare. È interesse di tutti. Indipendentemente dall’età.1

Ripartiamo dai giovani, come ha voluto fare Carlo Azeglio Ciampi, che ha scelto un celebre passo di Nietzsche sul ne-cessario ringiovanimento di un paese, per salutare i 150 anni dell’Unità d’Italia.2 In generale, si celebra questo appuntamen-to trascurando un piccolo particolare: nel Risorgimento i tren-tenni erano le avanguardie. Erano maturi e azzardati, insieme.

Ippolito Nievo alternava la penna all’ardimento e alla bat-taglia, mentre oggi la penna serve solo per scrivere il curricu-lum, nella speranza di avere un amico “introdotto” a cui poterlo spedire, e il confl itto è negato, nella società del conformismo e della famiglia “allargata” a cui siamo stati abituati.

A Teano, un garibaldino di oggi, non incontrerebbe nessuno, tali sono il senso dello Stato e la presenza delle istituzioni.

Se un giovane volesse allestire uno sbarco a Sapri, non trove-rebbe nessuno che gli fi nanzi la start up.

A Caprera (una zona un po’ mal frequentata, di questi tempi), in pensione, non ci andrà mai e nessuno ha idea di quale soluzio-ne trovare, in proposito.

Se il giovane garibaldino sente dire: «o si cambia l’Italia, o si muore», fa gli scongiuri perché è più probabile la seconda even-tualità. Se legge su un muro la scritta «viva Verdi», gli viene in mente la Padania.

Mentre allo sbarco dei Mille, oggi, si risponde con i respin-gimenti.

1. Federico Mello, L’Italia spiegata a mio nonno. Lavoro, pensioni e fa-miglia: un paese che ha rinunciato al futuro, Mondadori, Milano 2007, p. 120.2. Carlo Azeglio Ciampi, Non è il paese che sognavo. Taccuino laico per i 150 anni dell’Unità d’Italia, con Alberto Orioli, il Saggiatore, Milano 2010. La citazione di Nietzsche in apertura del testo è tratta da Umano, troppo uma-no: «Quando un popolo è politicamente malato, di solito ringiovanisce se stesso e ritrova, alla fi ne, lo spirito che aveva lentamente perduto per riscopri-re e conservare la sua potenza. La civiltà deve le sue più alte conquiste proprio alle epoche di debolezza politica».

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Mazzini e i giovani di allora pensavano alla patria in un qua-dro universale, e noi ci ritroviamo con l’Italietta autarchica e provinciale di un ghe pensi mi collettivo, ancora più ridicolo (e pericoloso) nel mondo della globalizzazione.

A 150 anni di distanza le cose sono cambiate. Il messaggio, però, ora deve essere altrettanto forte e chiaro. Per una volta dobbiamo giocare d’anticipo, per dimostrare che anche in Italia qualcosa si può prevedere non solo commentare sommessamen-te, qualche tempo dopo, come succede da anni, tra rimorsi per gli errori commessi e rimpianti per le occasioni perdute.

«Una riscossa dei giovani», è stato scritto, «è urgente e ne-cessaria per riavviare i meccanismi di sviluppo. I giovani stanno diventando una risorsa scarsa ma dovranno fronteggiare molti im-pegni. Si trovano, anzitutto, gravati da un debito pubblico assai maggiore rispetto alle generazioni passate e si confrontano con un mercato del lavoro assai più concorrenziale e instabile. Saranno costretti a lavorare fi no a età più tarda di quanto abbiano fatto i loro genitori o i loro nonni se vorranno godere di una dignitosa copertura pensionistica. Inoltre, dovranno invertire la parsimonia riproduttiva dei loro genitori se la società vorrà riequilibrare la declinante demografi a».3 La loro riscossa va «intesa come una ri-conquista delle prerogative perdute», ovvero «di quello spazio di azione politico, sociale ed economico dal quale sono stati esclusi, o che hanno abbandonato, con danno per sé e per lo sviluppo del paese. È uno spazio che i giovani devono riconquistare».4

Quello che stiamo lasciando ai nostri ragazzi, lo ha raccontato recentemente Renato Soru:

Se guardo le cose dal loro punto di vista, vedo l’Italia che la-scerà loro un debito pubblico enorme, il 120 per cento del Pil, 1800 miliardi di euro, e lo dovranno pagare loro, non noi. Stia-mo lasciando loro le istituzioni sbriciolate, dopo che i nostri genitori le hanno prese e raccolte nel dopoguerra, hanno com-

3. Massimo Livi Bacci, Avanti giovani, alla riscossa. Come uscire dalla crisi giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna 2008, p. 79.4. Ibidem, pp. 80-81.

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battuto e hanno scritto una Costituzione che ancora ci emozio-na. Stiamo restituendo loro un ambiente diverso, in peggio, rispetto a quello che abbiamo conosciuto da giovani. Dove questo senso della bellezza, a cui ci richiamava anche Peppi-no Impastato, in Cento passi, che guardava Palermo dall’alto, è venuto a mancare. […] Stiamo consegnando loro un paese senza modelli di riferimento, almeno per loro. […] Parliamo di giovani solo perché frequentano nottetempo le case private di un signore di 75 anni a cui non dovrebbero accedere. Mi chiedo: ma com’è che da genitori e da padri di famiglia, siamo capaci a un certo punto di mettere i fi gli al primo posto, la loro educazione, la loro istruzione. Mettiamo al primo posto di non lasciare loro debiti ma un minimo di opportunità, una casa in ordine invece di una casa distrutta, al primo posto la possibilità di farli vivere in sicurezza, invece che nell’incertezza e nelle diffi coltà, persino nel pericolo. Proviamo ad articolare tutto questo mettendo i giovani al primo posto, le loro necessità al primo posto, i loro diritti al primo posto. Dando un modello a cui credere. […] Se mettiamo i loro diritti al primo posto, non c’è scampo: dobbiamo pagare i debiti, dobbiamo dare loro istituzioni democratiche e civili. Non c’è scampo, dobbiamo smetterla di consumare il territorio, dobbiamo investire per la scuola, per mandarli all’università. […] Ci sta tutto dentro “mettere i giovani al primo posto”.5

Non c’è scampo, dice Soru. Procediamo, dunque, perché non abbiamo più tempo da perdere. E dobbiamo riportare avanti le lancette dell’orologio di molti anni, quasi di un secolo.

La felicità è reale solo se è condivisa

Questo manifesto non nasce da un’iniziativa personale, ma da un progetto comune, lanciato fi n dalla primavera del 2010,

5. Renato Soru, intervento al Lingotto, Fuori dal 900, promosso da Movi-mento Democratico, 22 gennaio 2011.