Il Mangianomi 1-496 - 10 righe dai libri · La bestia nitrì e fece uno scarto in avanti. ......

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Romanzo

Traduzione di Francesco Bruno

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Sono qui di seguito riprodotte alcune pagine dal romanzo di Giovanni De Feo, Il Mangianomi.

Riproduzione vietata se non per uso personale.

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LIBRO PRIMO

Il Mangianomi

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O sservate bene le ombre della mia lanterna. Potrete scorgervi le sagome nere di tre cani, la fi gura intabarrata di un cac-ciatore, una ragazza addormentata in una torre, e più in là

un’ombra orrenda che li sovrasta: è nera e inconoscibile, tutta occhi e zanne.

Sono i semi della mia storia questi, presagi e visioni di quanto state per ascoltare. Se fate attenzione vi accorgerete di come le mie parole siano le ombre che la mia lanterna getta sulla parete.

Ma come ogni ombra ha un corpo che la genera, così ogni parola è il ricordo di un oggetto o di una passione, ogni nome un grido lanciato in un pozzo: non appena lo si ascolta, suscita in noi un’eco.

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UNO

I l Mangianomi arrivò nel Ducato di Acquaviva una notte d’autunno: il primo ad accorgersene fu il Barone di Spargi-fi ume.

Il Barone Turciuto di Spargifi ume era un omone grosso la cui pappagorgia sormontata da baffi neri gli dava qualcosa del tri-checo e qualcosa dell’orango. Il nobile vestiva di fustagno nero, un cappello piumato, al cinturone un paio di moschetti: più che un nobiluomo pareva un bandito, che a incontrarlo di notte un contadino sarebbe morto di spavento.

Quella notte, come di consueto, era andato per cantine e ta-verne fi no a tardi e solo adesso se ne rincasava in groppa a Urri, il suo cavallo bianco.

Ci voleva un bel coraggio ad andare in giro a quell’ora, in una notte in cui sembrava che Dio avesse cominciato a piangere per tutti i peccati del mondo. Pioveva, di quella pioggia fi tta che tra-sforma i contorni delle cose; i fusti delle vigne parevano vecchi chini nel freddo a contarsi le ossa dei piedi.

L’effetto dell’alcol si era già dissolto nel gelo e il Barone male-diceva il suo cattivo sangue, che lo aveva costretto a uscire per soddisfare il gusto del vino e della buona compagnia. Tutto ciò che desiderava adesso era entrare nel palazzo, liberarsi del man-tello fradicio e farsi servire un arrosto di montone con un po’ di fave lessate. Le luci del castello si erano fatte vicine, e colto da un moto di impazienza il Barone spronò il suo cavallo.

«Vai Urri, vai!»La bestia nitrì e fece uno scarto in avanti.Il Barone rise, e alla sua risata fece eco lo strepito di un tuono.

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«Zeus accompagna le mie parole!» gridò, e la sua voce gli suo-nò così assurda da farlo ridere ancora di più.

Fu in quel momento che vide la quercia: era stata piantata da un suo antenato e aveva quasi trecento anni. Il Barone rallentò il cavallo e si mise a osservarne il tronco maestoso illuminato a tratti dai riverberi bianchi dei fulmini. Aveva un fusto immenso, alto quattro uomini, tutto nodi, bocche di legno, radici, e l’acqua ruscellava tra le sue foglie come se un fi ume invisibile si fosse messo a cantare.

Oltre la quercia, sulla sinistra, c’era la via bassa che a falce di luna lambiva la discesa e portava al castello. L’uomo sorrise, die-de un colpo di redini e si avviò al trotto.

Ploc! Qualcosa l’aveva colpito sulla testa. Il Barone si toccò la tesa del cappello. Una ghianda. Qualcuno gli aveva tirato una ghianda.

«Chi va là? Fatevi avanti!» disse, e nel farlo estrasse le pistole che teneva sotto il mantello perché non si bagnassero.

Silenzio; fruscio della pioggia: nessuno.Eppure era ben strano che una quercia centenaria si mettesse

a tirar ghiande, su di un Barone poi! Allora lo vide, o meglio, ne intravide la sagoma, perché per sua fortuna la luce del lampo era stata troppo rapida per illuminarlo bene.

«Per i miei antenati, cos’è?» disse.Non ebbe tempo di aggiungere altro: la creatura diede un urlo

atroce, saltò giù dall’albero, e lo disarcionò.

Il Barone si riebbe lentamente.Aveva preso una gran bella botta, la gamba gli faceva male e la

testa gli girava ancora. Alzò la faccia dal fango, con cautela. Pio-veva meno forte.

Non sapeva per quanto tempo fosse rimasto disteso, forse mezz’ora. A parte una storta al piede, che gli doleva, non si sen-tiva niente di rotto; piuttosto, uno strano sentimento, un’assenza

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lugubre e solida da poterla toccare, gli s’era acquattata nel punto vuoto del cuore, come un amore antico che avesse dimenticato.

Si rialzò in piedi pulendosi il fango dalla faccia e dai vestiti come meglio poteva. Le sue pistole erano ancora asciutte, il suo mantello le aveva protette dal fango. Ne estrasse una per cautela e si girò.

Una bestia orribile, bianca del pallore dei morti, lo osservava con occhi d’incubo. Non era la creatura di prima, ma un’altra, come se un convegno di mostri si fosse dato appuntamento lì sotto all’albero.

La bestia stava a quattro zampe, enorme, magra di una ma-grezza estrema, le vene azzurre a fi or di pelle, il lungo muso che sorrideva zanne, gli occhi bolliti, iridi bianche e cieche fi sse su di lui.

A quella vista il Barone, che si vantava di non temere nulla entro i confi ni delle sue terre, sentì i peli della nuca e delle brac-cia drizzarsi come fi l di ferro.

«Via! Vai via!» urlò.La creatura fece un passo in avanti: fu l’ultimo. Il lampo della

pistola illuminò il campo. La creatura stramazzò per terra, stec-chita.

Sotto la pioggia che già lavava l’odore della polvere da sparo dall’aria, il Barone si avvicinò per osservare meglio quella mo-struosità.

In fondo era stato coraggioso, si disse, aveva mantenuto i ner-vi saldi dove un altro galantuomo sarebbe scappato a gambe le-vate. E poi adesso aveva un trofeo, e che trofeo! Già immaginava la faccia basita del Conte di Torrespacca, il silenzio attonito del Balisto, lo sguardo di approvazione del Duca di Acquaviva, un eroe...

Immerso in quei pensieri gloriosi il Barone spinse con lo sti-vale la testa della creatura liberandola dal fango. Era Urri. Aveva ucciso il suo cavallo.

Ma... e la bestia? Che avesse scambiato Urri per una creatura

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infernale? D’un tratto udì un rumore dietro di sé, un soffi o di risa trattenute.

C’era ancora qualcosa acquattata sulla quercia, forse la stessa creatura che lo aveva colpito e disarcionato. Il Barone estrasse la seconda pistola e si avvicinò all’albero, completamente in ombra, alzò il cane del l’al tra pistola e attese che un lampo lo illuminasse.

Venne il fulmine e poi il tuono, ma il Barone, diversamente da quanto credeva, non era pronto.

Perché la quercia non c’era più: era come se tutto l’albero mu-tasse sotto il suo sguardo, fl uendo come fi amma fi no a diventare qualcos’altro. Dove c’erano stati rami si protendevano braccia amputate, al posto delle foglie orecchie mozze, invece delle radi-ci gambe gonfi e di cancrena, e lui non era più sotto una quercia, bensì sotto un albero di cadaveri intrecciati.

Il Barone urlò, urlò, urlò; e cominciò a correre.

Non mancava molto al castello.A cavallo ci sarebbero voluti pochi minuti, ma a piedi, sotto

quella pioggia, gli sembrò un’eternità. C’era un pezzo di bosco da attraversare, prima che la via bassa si aprisse ai cancelli del castel-lo, e il Barone lo percorse nella più totale oscurità, correndo.

A volte si girava all’indietro, perché sapeva che la creatura ne-ra, qualsiasi cosa fosse, lo stava inseguendo.

«Libera nos a malo» salmodiava tra i rantoli dell’affanno, «non peccherò più, lo giuro. Mai più donnacce, mai più vino, sarò devoto, Signore Domineddio salvami!»

Era troppo impegnato a guardarsi indietro per accorgersi della radice davanti al suo piede. Vi inciampò sopra e rovinò per terra. Subito provò a raccogliere la pistola, ma gli scivolò di mano e cadde nel fango.

Sentì uno schiocco di rami spezzati, e per un attimo gli parve di vedere il rifl esso della luna in due occhi tondi come monete. Aspettò il ringhio, le fauci che gli avrebbero squarciato il collo,

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ma non accadde nulla. L’unica cosa che si udiva nel sottobosco era il suo respiro affannoso.

Era solo. Lentamente si rialzò da terra, si guardò intorno e poi ricominciò a correre ringraziando i Santi e la Vergine, ché non si era mai sentito tanto religioso in vita sua. Allora venne in vista delle mura, un chiarore di lanterne e fi accole che si aprivano alla sua destra, in discesa. Non appena vide il castello, gli sembrò che dentro il petto gli si riaccendesse un calore come di legna scop-piettante e vino.

Il castello di Spargifi ume pareva un gatto nero con gli occhi accesi di malizia, le zampe stese a formare due torrette di guardia e in mezzo un ponte levatoio. Su questo stava piantato Verticillo, il suo goffo e fedele servo, che lo aspettava sotto alla tettoia inta-barrato come un alemanno.

Non appena lo vide il Barone sentì una voglia incontenibile di abbracciarlo. Si avvicinò verso il ponte zoppicando e alzò la ma-no con un segno di saluto convenuto.

«Altolà! Chi siete?» disse il servo alzando il fucile.«Verticillo, son’io!»L’uomo, piccolo e tozzo, con il cappellaccio che versava ac-

qua, strinse gli occhi e alzò la lanterna.«Dio sia lodato!» disse il padrone. «Se solo sapessi quello che

ho passato...»«Fermo!»Il Barone rimase immobile, bianco sotto la lanterna di Ver ti-

cillo.«Ve lo chiedo ancora: chi siete?»Turciuto di Spargifi ume si mise a fi ssarlo con occhi larghi co-

me fori d’archibugio.«Verticillo, questo non è il momento di scherzare».«Chi scherza! Il mio moschetto è carico e ho l’ordine del Si-

gnor Barone di non far passare nessuno che non dichiari il suo nome e le sue generalità».

«Ma se il Signor Barone sono io, testa d’uovo!»

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«Forse che non conosco l’uomo che mi è padrone? Avete scel-to il merlo sbagliato».

«Ma quale merlo e merlo! Se non ti levi da qui ti faccio fusti-gare tanto che tua moglie ci metterà un mese a riconoscerti per il fesso che sei».

«Ebbene, vi dico allora che se non ve ne andate subito per la vostra strada farò fuoco. Conto fi no a tre».

«Pezzo d’asino, come osi! Puntare un’arma contro un genti-luomo!»

«Uno».«Ti apro in due come la canaglia che sei! Fammi solo tornare

a prendere la mia spada e vedrai».«Due. Badate che non scherzo».«Ah, nemmeno io! Ti faccio condannare dal Balisto all’impic-

cagione se non...»«Tre!»Il Barone si gettò sul servo con un grido stridulo. Ci fu una

breve lotta, poi uno sparo, e un corpo cadde a terra.

Una fi gura nera, appollaiata su di un ramo, osservava la scena. Verticillo gridava e scuoteva il corpo del Barone, inutilmente. Già il suo sangue imbrattava il ponte e la pioggia lo lavava via.

«Madonna santissima, che ho fatto! Signor Barone!»Dal castello venivano le lanterne, fi gure scure come insetti lu-

minosi che si affaccendavano sul ponte. La creatura fece uno strano verso, come di pena; ci fu un altro lampo nel bosco, ma la sagoma nera non c’era più.

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DUE

Una mattina di ottobre un gruppo di cacciatori era partito alla volta della Volpaia per fare incetta di pernici. Erano sei uomini alle dipendenze del fattore degli Acquaviva,

accompagnati dai loro bracchi da caccia. Al tramonto non erano ancora tornati.

La mattina del terzo giorno dalla loro scomparsa le mogli dei cacciatori si rivolsero al Balisto, affi nché mandasse un gruppo di armigeri a battere la campagna.

Quella che si presentò agli occhi dei soldati quando li trovaro-no fu una scena agghiacciante. I sei cacciatori giacevano distesi sotto un olmo in un sudario di mosche e silenzio, le gole sbrana-te a morsi, le armi ancora in pugno come a difendersi da una minaccia.

A vegliarli c’erano i loro cani. Non solo non permettevano a nessuno di avvicinarsi ai corpi dei loro padroni, ma non la smet-tevano di tremare e di guaire con la testa nella polvere.

Poiché vi erano tracce evidenti di una sparatoria, il terreno fu battuto alla ricerca dei segni del passaggio di qualche belva fero-ce. Ma i soldati non trovarono né orme, né ciuffi di pelo, né trac-ce di animali.

Non ci si capiva nulla. I cani erano stati risparmiati, niente e nessuno aveva assalito i loro padroni, eppure quelli erano morti con gli archibugi in mano, dilaniati.

Gli armigeri si sedettero, sudati e perplessi sotto al sole d’au-tunno: a memoria d’uomo non si era mai visto un tale rompica-po. Fu allora che si accorsero dell’evidenza di ciò che avevano sempre avuto sotto gli occhi.

I bracchi.

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Guaivano disperati, i musi umidi di sangue e gli occhi implo-ranti che li pregavano di eseguire la condanna per il loro odioso crimine.

Le sei bestie furono abbattute seduta stante.Ma perché i cani avessero sbranato i loro padroni restò un

mistero.

C’era una fattoria a est, detta la Brumaga.Dei poderi del Ducato, la Brumaga era quella che rendeva me-

glio in ricotta e formaggi di capra.La gestivano due contadini, Ampario e la Ghirlinda, due vec-

chietti che avevano dedicato tutta la loro vita all’allevamento del-le capre.

Una mattina la Ghirlinda si era svegliata per andare a munge-re gli animali, come sempre faceva, era entrata strascinando il secchio per la mungitura e dalla bocca le era scappato un grido. Quando il marito era accorso con lo schioppo in mano si era trovato davanti alla scena di un incubo.

Al posto delle loro capre il mungitoio era occupato intera-mente da trenta creature brune. Erano simili a cani rognosi, con orecchi d’osso e occhi come tizzoni, piccole manine da neonato al posto dei piedi, lunghe lingue raspose che penzolavano nere tra i denti.

In preda al terrore Ampario aveva preso lo schioppo e aveva cominciato a sparare all’impazzata fi nché non le aveva ammazza-te tutte col fucile o fi nite con il forcone.

La cosa più strana però fu che quando Ampario chiamò il fat-tore per mostrargli quelle orrende bestie, tutto quello che trova-rono furono i corpi straziati delle sue capre.

Il fatto più grave avvenne ai primi di novembre.Il Bargelso era una grande fontana a sud della città, di quelle

con le vasche di pietra e gli stenditoi. Verso la mezza tutte le don-

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ne del popolo andavano al Bargelso a lavare i panni e a fare il punto su quello che si diceva e non si diceva in paese.

Quella mattina Scurcino, il fi glio del vasaio, vi si era recato con sua madre. La sporta di lenzuola e camiciole era tanto grossa da spezzare le braccia di un contadino, ma Scurcino aveva già compiuto nove anni e si sentiva forte come un toro. Scendeva per la rampa di scale coi piedi nudi scartando le galline e le don-ne che salivano con i panni in testa.

C’era quell’atmosfera concitata di una mattinata di novembre, ma col sole caldo come a san Giovanni. Tre servette si accapiglia-vano per sfregare un orlo di camicia, mentre due ragazzi passava-no su un mulo lanciando pere alle più belle.

Scurcino raccolse un frutto che era rotolato via, lo pulì con l’orlo della sua giacca e gli diede un buon morso. Fu in quel pre-ciso momento che la moglie del liutaio alzò la testa al sole e disse: «Santa Vergine, ma cos’è?»

Alcune delle ragazze si fecero da schermo con la mano per guardare meglio. Scurcino non gli prestò attenzione, si accucciò accanto alla madre seguitando a spolpare la pera.

«Non so, forse un orso».«Che scema sei! Mica si avvicinano così tanto».«Mio cognato una volta ne ha visto uno proprio sotto casa

sua, che frugava nell’immondizia».«Tuo cognato frequenta troppe taverne per distinguere un or-

so da un ceppo d’albero».Risate.«Forse è un lupo».«Ma se ha le corna».«Le corna le avrà tuo marito!»Altre risate.«Guardate, si avvicina».«Fate vedere».Scurcino sentì sua madre bloccarsi di colpo.«È vero, viene da questa parte».

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«Oddio, lo vedo bene».«Sì, ha gli occhi strani come...»Calò un lenzuolo di silenzio. Il ragazzino lo sentì, cercò di al-

zarsi, scivolò. Provò di nuovo, si rimise in piedi e vide. Una fi gu-ra tozza e nerastra si allontanava a grandi balzi sul muro di cinta che separava il campo dalle Selve.

Scurcino cercò in seguito di ricordare esattamente cosa avesse visto: era un cinghiale, un lupo, una faina? Il bambino non lo sapeva.

L’impressione che aveva avuto era che si trattasse di qualcosa di grosso, e poi una sensazione sgradevole, come se la bestia gli scivolasse via dagli occhi, ripiegandosi, fl uendo braccia e occhi e artigli e zanne...

Scurcino tornò in sé. Si accorse di stringere la mano di sua madre, proprio come faceva da piccolo quando percorrevano la via di casa al buio. Ma adesso non c’era più nessuna ragione di avere timore, la cosa scura se ne era andata.

E tuttavia Scurcino continuava a sentirlo: il silenzio. Era un rumore di mosche, un gocciolare lento di panni bagnati, un in-cresparsi dell’aria. Non una delle donne si era mossa, non una sola aveva aperto bocca.

D’un tratto, con chiarezza assoluta, Scurcino ebbe paura. Tirò la mano della madre e disse: «Andiamo a casa».

La donna si volse verso di lui e sorrise. Ma era un sorriso cat-tivo, di rughe e denti gialli. Perché la mano che lui stringeva non era più quella di sua madre. Era la mano di un’estranea.

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TRE

La mia voce vi guida come la spola di un arazzo, avanti e indietro, dal viso terrorizzato di Scurcino al grande affre-sco del Ducato. Continuate a seguirla, lasciate che vi

conduca via da questo vicolo verso tenute lontane e castelli.Ecco che già le ombre della mia lanterna mutano, allargando-

si a macchia per mostrare un paesaggio più ampio, una mappa di torri e bastioni.

La chiamavano la Città dei Nomi ed era antichissima.Era fatta di torri sbilenche, di stradine opache, di salici pian-

genti e case, strette le une alle altre come se si facessero coraggio a stare vicine. Era nella regione est del Regno di Napoli, tra le Selve e il feudo degli Acquaviva.

L’avevano chiamata così per la grande quantità di dotti che un tempo l’avevano abitata. Città universitaria, aveva contenuto una delle più grandi biblioteche del mondo, fi umi di carta su cui nuotavano quegli strani pesci d’inchiostro chiamati parole. In se-guito a un terribile incendio la biblioteca era andata perduta, l’università era stata trasferita in una città vicina e così, lentamen-te, la Città dei Nomi aveva perso importanza: dopo due secoli, della grandezza passata era rimasto solo qualche ricordo e alcune tradizioni.

Soprattutto, quelle che riguardavano i nomi. C’è un detto: sai di essere qualcuno quando sei diventato un aggettivo. E questo era particolarmente vero nella Città dei Nomi.

Così era accaduto a Scigno, l’iracondo fattore, il cui nome era diventato sinonimo di rabbia gratuita.

A Pacchione, il primo Balisto – l’antico titolo che designava il

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sindaco della città – ad aver raggiunto i centotrenta chili di staz-za, il cui nome ora signifi cava tondo come un barile.

O alla bellissima Sarachella, la più splendida ragazza del Du-cato, che aveva dato nome al saracheo, una carezza veloce segui-ta da un bacio.

Insomma in quelle contrade si cominciava indossando un no-me e si fi niva per diventarlo.

Nella Città dei Nomi infatti niente era importante quanto as-segnare un nome a un neonato. E poiché si credeva che un nome potesse infl uenzare tutta quanta la sua vita, si era costretti a in-ventare nomi che fossero assolutamente originali. Era inoltre opinione comune che dare il nome di un defunto portasse sfor-tuna, legando indissolubilmente il destino di un vivo a quello di un morto. Per questo era indispensabile inventare dei nomi che fossero differenti da quelli dei cittadini che erano venuti prima. Nessun nomaio doveva avere il nome uguale a quello di un altro cittadino della Città dei Nomi, vivo o morto che fosse.

Si può ben immaginare dopo secoli quanto fosse diventato diffi cile scovare un nome nuovo. Ci voleva un uomo di ingegno per cavare fuori dall’espressione di un neonato il nome giusto che avrebbe indossato tutta la vita.

Proprio per assolvere quell’arduo compito in quelle contrade era nata la fi gura del Contaombre. Né indovini, né cantastorie, né attori ma un po’ tutti e tre, il compito dei Contaombre era inven-tare storie che avessero come cuore un nome.

E non solo i Contaombre erano in grado di divinare il nome giusto per ogni infante, ma erano anche grandi narratori: tesse-vano arazzi di storie dai più sottili fi li di verità.

Chiunque si poteva rivolgere a un Contaombre: poteva dire il suo nome o il nome di ciò che lo affl iggeva, e in men che non si dica quello tirava fuori un racconto stupefacente, di quelli in gra-do di cambiare una vita.

Così di contrada in contrada, di paese in paese, i Contaombre

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spargevano il seme dei loro racconti, perpetuando ricordi e tra-smettendo notizie.

Non è un’esagerazione affermare che dopo il grande rogo del-la biblioteca erano stati i Contaombre a riedifi care la Città dei Nomi, ricostruendola senza mattoni o calce, bensì parola per pa-rola, nome per nome, affi nché non fosse dimenticata mai. Perché esistono città che vivono nel tempo, e muoiono. E città che vivo-no nei nomi, e di esse, anche se non esistono, se ne ha memoria.

Ma tutto questo apparteneva al passato. Nel tempo di cui sto narrando, erano già parecchi anni che dei Contaombre non vi era più traccia. Se si fossero trasferiti in altre regioni del Regno, o fossero morti tutti, nessuno poteva dirlo. Tuttavia erano più di trent’anni che nel feudo di Acquaviva non se ne faceva vedere uno, cosa che nella nostra storia avrà una notevole importanza.

Fu anche per questo che quando cominciarono i fatti di cui stiamo narrando nessuno li prese sul serio, poiché insieme all’abitudine alle storie si era persa la capacità di riconoscere quanto fosse vero e quanto inventato. Come spesso accade, il peggio arrivò come uno sconosciuto alla porta di casa, inatteso.

Alla taverna del Gallo non si parlava d’altro.«Dicono sia stato un Gatto Mammone, il più feroce dai tempi

della gelata» fece il macellaio.«No, no» replicò il capraio, «è qualcos’altro. Avete sentito co-

sa è accaduto alla Brumaga? Tutte quelle capre...»«Succede di peggio ai cristiani» si intromise il mugnaio: «l’al-

tra notte la moglie di Gramunno, il fattore, per poco non lo am-mazzava credendolo un ladro. Quello strillava che era suo mari-to, ma nemmeno i suoi fratelli sono stati capaci di riconoscerlo».

«E come hanno fatto a rendersi conto che era lui?»«Lo hanno portato di fronte al Balisto con l’accusa di scasso e

rapimento, con la donna che piangeva e gridava ‘Non ti conosco, ridammi mio marito’. Se non fosse stato per una voglia che aveva sulla spalla dalla nascita sarebbe fi nita male».

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«L’avranno assolto però».«Sì, ma non è tutto. Dopo qualche giorno si è ammalato, ha

cominciato a non rispondere e a fi ssare il vuoto per ore come se anche lui non si riconoscesse più. Sono andato a trovarlo: non mi riusciva di capire se fosse un uomo o una statua».

«E non succede mica solo alle persone o agli animali. L’altra notte sono sceso al mattatoio per il passetto».

«Il canneto che divide il fi ume dal paese?»«Ebbene, faccio quella strada da quando sono ragazzo, cono-

sco ogni singola canna come le dita di questa mano. Invece quando mi ci sono trovato dentro...»

«Hai perso la strada».«Peggio, era come essere diventati ciechi. Il canneto era lì, ma

non era più il canneto. Poi ho sentito un rumore come di grilli, e di colpo le canne sono diventate uno sciame, insetti lunghi e bianchi che mi sbattevano contro la faccia, una selva di cavallette sottili che frinivano, frinivano. Sono scappato urlando, ma quan-do mi sono girato il canneto era ancora lì, uguale a prima».

«Madonnasantissima!»«Di’, avete sentito delle lavandaie?»«Pare che nemmeno i fi gli le riconoscano. Anche loro come il

Gramunno se ne stanno in cantina con occhi selvaggi, impazzi-te».

«Quella mattina, alla fontana, sembra che abbiano visto qual-cosa, una bestia».

«La stessa che ha assalito Gramunno».«Una cosa nera...»«Ma che cos’è? Non si è mai sentito di una belva simile».«Una belva? Mica li ha divorati».«Ha fatto di peggio. Gli ha mangiato il nome».I tre rabbrividirono.«Che cosa si può fare?»«Lo abbiamo chiesto al Balisto».«E lui?»

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«Aspetta che quelli del castello si decidano».«E gli Acquaviva che fanno?»«Che fanno di solito gli Acquaviva?» domandò il mugnaio.

Ma i due non risposero.La taverna era quasi deserta, un vento freddo soffi ava dagli

spifferi animando il fuoco del grande camino. I tre rimasero in silenzio. Poi il mugnaio diede voce ai loro pensieri e mormorò: «Niente».

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QUATTRO

La Duchessina Asprimia di Acquaviva era di malumore, tanto per cambiare. Doveva assolutamente trovare il guanto da falcone, se sperava di tornare dalla caccia pri-

ma del tramonto. I servi si muovevano nervosi intorno a lei, aspettando l’urlo impaziente che li avrebbe fatti scattare. Invece la ragazza era come assorta davanti alla gabbia e accarezzava Gringiasangue, il falco rosso da cui non si separava mai.

«Eccellenza» si arrischiò uno dei lacchè, «mi dispiace, è sicu-ra che...»

«Babbei!» sbottò lei. «Sono circondata da una schiera di bab-bei!»

A passi lunghi e calcolati la ragazza uscì dalla sua stanza e si diresse giù nel grande salone, dove gli Acquaviva erano soliti prendere il tè delle quattro.

La grande sala era un luccicare di specchi e candelabri argen-tati, arazzi, quadri e statue di alabastro. Asprimia entrò con passo da battaglia.

Il Duca Merrigio di Acquaviva era un uomo alto per quei tem-pi. Gli anni avevano incurvato appena la sua fi gura e i baffi briz-zolati gli davano un’aria da scopa polverosa. Era intento a marca-re delle banderuole su un gigantesco albero genealogico affresca-to alla parete, quando trasalì alla voce della fi glia.

«Signor Padre!»«Asprimia, capiti a proposito. Si era qui col Conte a discutere

della tua balia. Lui sostiene fosse secondogenita, mentre a me pare fosse la quinta di dodici fi gli, dico bene?»

La Duchessina sbuffò e fece fi nta di non averlo sentito, come

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spesso faceva quando qualcuno interrompeva il fl usso dei suoi pensieri.

«Signor Padre, i servi hanno perso il mio guanto da falconie-re. Sapete quanto ci tengo ad andare a caccia: esigo che venga trovato immediatamente!»

«Eccellenza» disse un’altra voce alle sue spalle, «mi permetta-no, siete davvero sempre più bella, bella come un... giglio candi-do, candido in un prato al tramonto...»

L’uomo che aveva parlato e che adesso si faceva mestamente avanti per farle il baciamano era il Conte Ciancio di Torrespacca. La sua faccia larga annegava nella cipria e nei nèi fi nti, gli occhi acquosi e mobili, come lupi magri che corressero da un lato al-l’al tro di una gabbia.

Sui cinquanta anni, portati male, era una vita che Torrespacca corteggiava la Duchessina, senza altro esito che muovere il disde-gno di lei. Questa fi era opposizione non faceva che acuire la bel-licosità del Conte, sempre che di bellicosità si potesse parlare.

Torrespacca, avendo acquisito il suo titolo con il suo mestiere di notaio, era mal visto dai nobili del luogo che lo consideravano un parvenu. L’unica eccezione era il Duca di Acquaviva, dato che Torrespacca era il solo che lo ascoltasse nei suoi lunghi sproloqui sul suo argomento preferito: le biografi e dei grandi.

Da vero nomaio il Duca di Acquaviva si era infatti convinto che non ci fosse nulla di più nobile che indagare sulla vita dei grandi della storia: Alessandro Magno, Cesare, Campanella, Ke-plero, sant’Agostino. Naturalmente il sogno della sua vita era di scrivere una grande biografi a: la sua.

Si trattava di un progetto titanico perché egli voleva inserire anche le vite di tutte le persone che aveva conosciuto, nonché di tutti i loro avi, fi no alla settima generazione.

Per orientarsi in mezzo a questo mostruoso arazzo di riferi-menti aveva disegnato la Grande Mappa. Ogni volta che il Duca conosceva qualcuno aveva subito cura di fargli il terzo grado, per poi inserirlo nell’immenso disegno.

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A ora la Grande Mappa era alta nove piedi e lunga quattordici pareti, praticamente faceva il giro di tutto il salone grande, pren-deva buona parte della camera da pranzo e persino un pezzo dell’ingresso.

La Duchessina sbuffò e si ritrasse dal baciamano del Conte, che fece fi nta di niente ed esibì anzi un atroce sorriso.

In quel momento entrò la Duchessa Ermenita di Acquaviva, seguita da due dame di compagnia. Il Conte si alzò e fece un in-chino.

«Ah, Duchessa! La parrucca di quest’oggi è incomparabile, di gran lunga superiore a quella di ieri».

«Trovate?»«Certamente».La Duchessa non disse nulla e non sorrise.Non sorrideva mai.La sua pelle, che subiva due ore di toeletta prima di vedere la

luce del sole, pareva quella levigata di una statua. Sopra alla fac-cia bianca troneggiava una parrucca enorme, alta sei piedi. Quel-la di oggi era rosa, con tredici coccarde dorate e un fi lo di perle che faceva la spola da un fi occo al l’al tro. Inutile aggiungerlo: ogni giorno la Duchessa cambiava parrucca.

«Signora Madre, devo trovare il mio guanto o non potrò uscire con Gringiasangue. È inconcepibile!»

«Siediti e bevi un po’ di tonico, vedrai che si trova...»«Smettetela, non sono più una bambina!»«Asprimia, ti prego...»«No! Se non avrò subito il guanto... mi strapperò l’orecchio!»Silenzio di tomba.Dei suoi diciassette anni, almeno gli ultimi quindici Asprimia

li aveva passati imponendo la tirannia dei suoi desideri agli abi-tanti del castello.

La minaccia con la quale aveva tenuto in scacco centoventi servitori nonché trentasei parenti titolati era sempre la stessa: «Se

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non avrò questo o quest’altro mi strapperò l’orecchio». Sarebbe parsa una stupidaggine se non fosse stato per un particolare.

A tre anni la balia di Asprimia si era rifi utata di leggere l’ulti-ma storia, perché ormai era tardi ben oltre il consentito. Incapace di digerire il rifi uto, la bambina aveva afferrato il suo orecchio destro con tale forza da farlo sanguinare. Da allora bastava che Asprimia se lo toccasse per avere tutto quello che desiderava. A furia di tirarlo però l’orecchio destro aveva preso una pendenza tutta sua; adesso sporgeva come un’ala spezzata e pareva bastasse una carezza per farglielo volare via.

Con uno sguardo acceso la ragazza incominciò a strattonare.Subito il Conte, imbarazzato, le si avvicinò.«Ehm, Duchessina... vi prego... credo di poter... il guanto...»Ma Asprimia continuava a tirare, il lobo destro che si impor-

porava come un gelso maturo, gli occhi fi ssi su quelli di Torre-spacca.

«...credo di sapere dove si trova».«Lo dite solo per farmi smettere».«Non oserei mai Signorina; è che, insomma...»«Ma allora dov’è? Ditemelo!»«Ebbene, sta infi lato nella vostra cintura, proprio lì».Asprimia si bloccò.Era diventata di un bel rosso peperone che poco donava ai

suoi raffi nati lineamenti. Senza lasciare l’orecchio si toccò circo-spetta la cintura, il guanto da falconiere era lì, nella tasca del suo corsetto.

La Duchessina scoccò un’occhiata di puro veleno al Conte.«Naturalmente lo sapevo. Volevo solo vedere se eravate at-

tenti».«Naturalmente».«Bene. Prendo Bailampo. Sarò qui per cena».«Asprimia» disse il Duca, «è proprio indispensabile?»«Cosa vuol dire il Signor Padre?»«Hai sentito anche tu quello che si dice in paese. Pare che ci

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sia una bestia pericolosa in giro. Sarebbe meglio se ti facessi scor-tare».

«Se la Duchessina mi facesse l’onore di gradire la mia presen-za io...»

«La ringrazio molto, Torrespacca, ma non ce n’è bisogno. Il Signor Padre ha un animo troppo sensibile; se si dovesse prestare fede a ogni storia che inventa il popolino dovrei rassegnarmi a trascorrere tutta la mia vita chiusa nel castello».

«Puoi sempre uscire con noi domenica».«Domenica? Io voglio cavalcare adesso. Ora scusatemi, devo

ordinare ai servi di sellare Bailampo. Con permesso».Le dame di compagnia si fecero da parte per far passare la ra-

gazza. Un attimo dopo, di lei rimaneva solo l’eco degli stivali sul pavimento di marmo. Il Conte indugiò ancora con gli occhi nel punto dove lei si era allontanata e parve trattenere un sospiro.

Subito il Duca afferrò un’altra bandierina e la piazzò sulla sua mappa.

«Bene bene, dove eravamo rimasti? Ah sì, la balia: quinta di dodici fratelli...»

Non c’era nulla che Asprimia amasse più di cacciare.Solo in groppa al suo cavallo, con gli artigli di Gringiasangue

sul guanto ruvido, la ragazza si sentiva veramente libera: d’un tratto il suo cipiglio si spianava e splendeva il bel tempo del suo sorriso. Quanto lontano sembravano il castello e la noiosa mono-tonia delle sue ore!

Asprimia odiava il castello di suo padre, quel feretro di pietra pieno di vecchi libri. Eppure amava leggere, libri di avventura però, di quelli inutili e perniciosi che, il suo precettore la ammo-niva, le avrebbero dannato l’anima. Ma lei preferiva dannarsela mille volte di seguito, se questo le permetteva di abbandonarsi nelle sterminate pianure della sua fantasia. Oh, viaggiare con i pirati, signora incontrastata di una tetra ciurma, ricca e venerata come una dea antica; oppure regina di un regno sotterraneo,

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amante di demoni segreti che l’avrebbero resa potente e immor-tale; o ancora, sposa a un sultano di una terra lontana, custode di un tesoro di perle e rubini, spietata e bellissima.

Asprimia teneva quelle fantasie sottochiave, inconfessabili an-che a suo padre che pure era l’unico a cui lei parlasse. Come era ingiusto, da farle tremare la mascella di rabbia: perché non pote-va essere come quei personaggi da romanzo, perché non poteva vivere una vita senza mura, senza divieti, senza confi ni?

La realtà invece era quella stanza in cui si svegliava sempre, sempre uguale, lo stesso paesaggio di colline stinte alla fi nestra. Allora, come adesso, la voglia di scappare lontano le ardeva nelle vene, una sete imperiosa che poteva spegnere solo correndo con Bailampo per le Selve.

Asprimia afferrò le redini e si lanciò al trotto. Il vento le solle-vò la veletta, liberando il bel volto all’aria della sera. Non la infa-stidiva cavalcare con il falco aggrappato al guantone con gli arti-gli, anzi. Gringiasangue era per lei più di una bestia da riporto, lo considerava ormai una parte di lei, una mano che potesse stacca-re a suo piacimento e tuffare nel cielo.

Bailampo era giunto in una piccola radura delle Selve, un bo-schetto di faggi che l’autunno aveva già colorato di arancio. Asprimia diede un’occhiata intorno e vide che non lontana c’era una macchia di pruni. Era il posto giusto.

Aveva appena fermato il cavallo che vide infatti un paio di tor-tore alzarsi dai cespugli. Con un gesto sollevò il cappuccio di Gringiasangue.

L’uccello si alzò in volo. Asprimia lo osservava con occhi pieni di amore. Era così bello vederlo volteggiare, le sembrava di vola-re lei stessa, le bastava chiudere gli occhi per sentire il vento tra le dita, le nuvole tra i capelli e la terra lontana, tutto era remoto e piccolo, persino lei stessa.

Un grido trafi sse il cielo. Sembrava che lo strillo di Gringia-sangue fosse uscito dai suoi polmoni, tanto vibrava in lei. La ra-

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gazza vide che l’uccello si tuffava come una mannaia di ali e bec-co, colpiva la preda, infi ne risaliva con una curva elegante.

Tese il braccio e il falco planò verso di lei con la tortora fra gli artigli che lasciò cadere sul letto di foglie morte. Asprimia smon-tò da cavallo e si chinò per raccoglierne i resti.

Fu allora che se ne accorse. Quello che aveva tra le mani non era una tortora, non sembrava nemmeno un uccello. Alla Du-chessina parve una mano con cinque becchi spalancati, uno per ogni dito, che si aprivano e si richiudevano in agonia, boccheg-giando sangue.

La ragazza strillò e lo lasciò cadere per terra.La mano piumata strisciò via. Asprimia rabbrividì. Non aveva

mai visto nulla di simile, né vivo né morto. Non era un animale. Non era nemmeno una cosa. Era quanto di peggio un nomaio potesse immaginare: una creatura senza nome.

Un sorso di freddo le scese nello stomaco. Risalì in fretta a cavallo ma Bailampo, che pure di solito era mansueto, incomin-ciò a scartare e a sbuffare come avesse avvertito qualcosa. La Du-chessina si guardò alle spalle, a destra e poi a sinistra, ma non vedeva nessuno, solo faggi.

Asprimia incitò il cavallo e si mise al galoppo.Il cambiamento giunse così, inatteso. Un attimo prima galop-

pava nel sottobosco delle Selve; poi la radura mutò. I cespugli di pruno erano adesso bambini di foglie e rami, senza occhi e con le braccia alzate, le dita magrissime e curve che gli artigliavano il volto, sorridendo sorrisi di corteccia.

Asprimia urlò. La selva intera fl uiva sotto i suoi occhi, labirin-to di oggetti sinistri. Le foglie del sottobosco erano palpebre umi-de che si aprivano al suo passaggio; i rovi si contorcevano in un tremito serpentino di corpi viscidi; l’aria stessa era gravida di in-setti immondi, mosche e tafani con facce umane, minuscole boc-che spalancate.

In quel momento la ragazza sentì un tonfo dietro di sé e Bai-

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lampo si impennò precipitandola dalla sella. Con un frullare di ali Gringiasangue spiccò il volo. Era sola.

Asprimia si rialzò a fatica, la bocca sporca di terra, facendo appello a tutto il suo coraggio per non abbandonarsi al terrore, guardò avanti a sé, e lo vide.

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CINQUE

I l Duca di Acquaviva diede il via alle ricerche personalmente. Mai nel Ducato si era vista una simile battuta di caccia: sem-brava che nelle Selve ardesse un incendio, tante erano le fi ac-

cole che si intravedevano tra i fusti degli alberi.«Duchessina!» gridavano le voci.Gnerno di Soldana, centoseiesimo Balisto di Acquaviva, aveva

una faccia piena di rughe, crudeli come cicatrici. Tirò a sé le re-dini del cavallo e diede ordine ai suoi uomini di disperdersi a cerchio.

Da una radura scoscesa sbucò a cavallo la fi gura tozza del Conte di Torrespacca, con addosso una cotta che lo faceva simile a un barile.

«Signor Balisto!»«L’avete trovata?»«No ma... c’è qualcosa...»Il Balisto si fece avanti col suo cavallo nero, scortato da sei

guardie armate di moschetti. Entrarono nella radura e i cavalli si impennarono: il bosco stava cambiando sotto i loro stessi occhi.

Uno dei soldati gridò: «Sono giganti! Giganti di legno!»Fu così che li videro. Dove prima c’erano olmi, faggi, allori

adesso stavano tetri giganti, chini su di loro. Avevano capelli fatti di rami, denti di spine, nodi per occhi, la corteccia rugosa incro-stata di insetti. Si muovevano appena, dondolando come vecchi al ritmo notturno del vento, sussurrando parole di legno e te-nebra.

«Via, via!»«Non vi disperdete!» gridò il Balisto.Ma era troppo tardi. Presi dal panico molti dei soldati si erano

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sparpagliati, perdendo l’orientamento. Le Selve erano ormai tut-to un caos di uomini che gridavano, di colpi d’archibugio, di la-trati di cani.

«Dove siete?»«L’ho visto! Eccolo eccolo!»«Cosa? Dove?»«Di là!» «Sparate, sparate!»Il Balisto impiegò quasi un’ora per uscire dalla radura. Nel

frattempo, tre manipoli dei suoi erano scomparsi senza lasciar traccia. Li cercarono chiamandoli a gran voce, ma l’unica rispo-sta che ebbero fu quella della pioggia, che spense le loro torce una a una.

Fecero il punto della situazione in un casino di caccia abbando-nato, alle pendici delle Selve. Dopo tre interi giorni di ricerche non solo non avevano trovato la Duchessina, ma avevano perso anche la metà degli uomini, venti cavalli, trentasei cani, la mag-gior parte dei quali era stata abbattuta per errore.

Il Duca di Acquaviva era seduto accanto al camino acceso, a tal punto coperto di fango che i baffi se ne stavano su per conto loro, dritti come spade. Accanto a lui Torrespacca si lamentava delle vesciche, poiché da quando aveva perso il suo cavallo aveva dovuto proseguire a piedi.

Solo il Balisto sembrava non aver perso la speranza: era sicuro che per quanto pericolosa fosse quella creatura doveva pur esser-ci un modo per catturarla. Il vero problema erano le Selve: erano diventate così spaventose e irriconoscibili che sembrava impossi-bile non perdersi, soprattutto al buio.

Fu allora che nel casino di caccia entrò un messaggero.«Eccellenza!»«L’avete trovata?»«No Eccellenza, però...»«Spiegati» disse il Balisto.

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«Sembra che il casolare di Bigione sia stato assalito, il fattore dice di aver sentito degli strani rumori venire dal pollaio. Credia-mo sia la bestia, Eccellenza».

Quando il Balisto, Acquaviva e Torrespacca giunsero alla fattoria era ancora buio pesto. I cacciatori e i soldati facevano un gruppo compatto, alzando le torce di tanto in tanto come a sbirciare ti-morosi nelle tenebre. Il fattore gli venne incontro con il cappello in mano, agitatissimo.

«Ringrazio Iddio che siete qui. Appena ho capito cosa poteva essere ho chiuso l’aia e vi ho mandato a chiamare. Ho fatto bene Eccellenza?»

«Hai fatto benissimo, Bigione».Si fecero strada circospetti, le torce alzate e gli archibugi spia-

nati, per ogni evenienza. Un armigero diede un colpo alla porta e la spalancò.

«Mi raccomando, non lo fi ssate negli occhi» sussurrò il Ba-listo.

La luce delle torce illuminò l’ambiente: una fi la di archi in tufo pieni di balle di paglia e dell’odore del letame.

Si aspettavano qualsiasi genere di orrore, invece videro un macabro spettacolo: in mezzo alla stia una dozzina di uomini, sporchi di fango, si azzuffavano per i resti di una gallina cruda, dilaniandola con i denti.

«Per la barba di Sardanapalo! Sono i nostri!» esclamò il Ba-listo.

«Guardate i loro occhi! Non ci hanno nemmeno riconosciuti».«Proprio come gli altri».«E tu? Riconosci qualcuno dei tuoi compagni, soldato?»«Io, non posso dirlo Eccellenza, è strano...»«Strano?»«È come... come se non riuscissi a ricordarli bene...»«Il Mangianomi».«Fate luce e tirateli fuori da lì».

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Alcuni armigeri si fecero strada fra i loro compagni e cercaro-no di rimetterli in piedi, ma quelli o non reagivano per nulla oppure opponevano una feroce resistenza.

I più avevano la bocca ancora sporca di piume, e si attaccava-no tenacemente ai resti sanguinolenti della loro gallina. Uno di loro, tanto sporco di fango da essere irriconoscibile, assalì le guardie tirando graffi e calci.

«Tenetelo fermo!»«È forte come due uomini!»Alla fi ne lo afferrarono in tre tenendogli le braccia dietro la

schiena. Fu il Balisto ad accorgersene per primo.«Guardate!»«Signore?»«Non è un uomo. È una donna!»Con un panno pulirono la faccia infangata, rivelando il viso di

una donna giovane, che li osservava con occhi innocenti e sel-vaggi.

«Forse è una contadina. Qualcuno di voi la riconosce?»Scossero la testa.Poi, fulminato da un’intuizione, il Duca le si avvicinò. Con

una mano le scostò i capelli incrostati di sporcizia e lo scoprì. L’orecchio destro, pendente come un’ala spezzata.

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SEI

I l forestiero arrivò in città poco dopo il tramonto. Aveva pio-vuto per tutto il giorno e il ragazzo, intabarrato in un cap-puccio color tabacco, aveva gli stivali ancora pieni di fango.

Passò per la porta Grande, ma i pochi soldati di guardia non si interessarono né a lui né al suo lasciapassare. Sembrava che l’in-tera Città dei Nomi si fosse svuotata: le strade e le piazze deserte, gli usci delle botteghe serrate, non un alito di fumo dai camini.

Il perché di questa desolazione il forestiero lo scoprì facendo-si strada sulla piazza Ducale. Una grande folla riempiva comple-tamente lo spiazzo a conchiglia, sembrava che tutti i nomai fos-sero raccolti sotto il grande balcone del palazzo del Balisto, un unico viso dotato di duemila occhi, alzati al cielo.

Fulcro di quegli sguardi erano due fi gure, sedute su un seggio sistemato sul balcone. Il giovane si fece strada a spintoni cercan-do di distinguerle bene: uno era un ometto dalla faccia severa con indosso l’abito uffi ciale di Balisto, l’altro un gentiluomo al-lampanato con lunghi baffi irti e uno sguardo dolente. Il nobile aveva appena fi nito di parlare che la folla si mise a gridare.

«Dobbiamo bruciare le Selve!»«Staniamolo col fuoco!»Il forestiero cercò di intendere la risposta del Balisto, ma gli fu

impossibile. Non appena l’uomo ebbe parlato esplose un altro grido.

«Basta con le battute di caccia! A cosa son servite?»«Nessuno torna vivo dalle Selve!»«Il fuoco! Il fuoco!»Il ragazzo incappucciato avanzò ancora tra la folla, fi nché fu

quasi sotto al grande balcone. Adesso scorgeva bene il Balisto

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che si sbracciava cercando di imporre il silenzio. Il forestiero si spostò ancora ma fu sospinto da dietro e fi nì addosso a un cor-pulento capraio con la faccia butterata.

«Ma te vada in bruga, mandrucchio!»«Scusatemi, mi hanno spinto».«Sei un bel mandrucchino tu» disse il capraio, che si chiamava

Purpacchio e parlava in nomaiese stretto. «Te nun sai mica un ghengero, però a spinger spingi da nusbaio».

«È che sono arrivato oggi qui, e non ci capisco nulla. Chi so-no quei due?»

«Sono il Balisto e Acquaviva. Stanno lì a bofonchiar franzate men-tre qui la situazione si è fatta pergolissima».

«Perché, cosa dicono? Che è successo?»«Ma allora sei proprio mono! Nun hai ciaspato nulla che è succe-

duto? Qui il Mangianomi ci fa tutti barbugi!»«Il Mangianomi... credevo fosse una burla dei paesani».«Ma quale sbuccia e sbuccia! Qui c’è chi va a trabaggiare nei cam-

pi senza saper se la sera torna a casa e ci trova fi ji o sconasciuti».«E il Balisto che dice?»«Dice franzate. Dice che appicciare il fuoco non serve a una bruga.

Ma è l’unico modo, ché quello senza le Selve non si annasconde più, e poi zacchete! lo pijute pure coi bertambotti».

«I bertambotti?»«I cacciatori».«Ah. Ma non ne hanno già inviati?»«Ssss, statte sunziuto che il Balisto accomincia...»Il Balisto infatti era fi nalmente riuscito ad alzare la voce sopra

al ruggito della calca. Dietro a lui il Conte di Torrespacca era se-duto in silenzio accanto alla Duchessa, bianca come una morta con una parrucca nera imperlata di strass.

«Ve l’ho già detto, non è possibile stanare il Mangianomi col fuoco...»

Urlo generale di protesta.«Innanzitutto perché ha piovuto e il bosco è umido, in secon-

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do luogo... silenzio!... in secondo luogo perché il fuoco potrebbe dirigersi verso i campi. Sarebbe la fi ne del Ducato, non ci sareb-be più lavoro per nessuno, niente più terre da coltivare, è questo che volete?»

Per la prima volta la folla non replicò.Poi una voce accanto al forestiero, Purpacchio, urlò.«E allora che sghimbescio volete fare Eccellenza!»Il Balisto si aspettava quella domanda.«Chiameremo un cacciatore da fuori».Subito si udirono altre grida. La gente fi schiava, urlava con le

mani attorno alla bocca.«Ce ne avete già mandati un sacco e una sporta».«Perché uno di fuori dovrebbe fare il lavoro meglio di un no-

maio?»«Non era un cacciatore comune» rispose il Balisto, «quello a

cui si pensava».«E chi allora? L’Imperatore di Spagna con il suo esercito?»Risate.«Magubalik».E nella piazza affollata si fece silenzio.

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SETTE

L’ombra della lanterna questa volta è netta.Un uomo tetro, con un cappello nero calcato sul

viso, un eroe da leggenda, un santo brigante, un di-spensatore di ferite e di benedizioni. Perché con le ombre è come con le nuvole: vedete solo quello che pensate di vedere. E se è così che ve lo immaginate, allora è così che lo vedrete.

Magubalik.

Non c’era nessuno in tutta la valle che non ne avesse sentito par-lare.

Si diceva che fosse lui ad aver ucciso il temibile Lupo del Nord, un animale con occhi così gelidi che con un solo sguardo ghiacciava interi raccolti. Sua era stata la cattura delle Volpi d’Ombra, bestie maligne che sussurravano pensieri alla gente portandole alla pazzia. Sempre lui infi ne avrebbe ucciso e scuo-iato l’ultimo Gatto Mammone rimasto nel Regno, un felino gran-de come un orso che faceva morire di paura soltanto a sentirne il grido.

Magubalik, il silenzioso. Di lui si raccontava che fosse alto sette piedi, due occhi come laghi d’inverno e un sorriso affi lato come il suo coltello, Tagliaferro, che incideva l’acciaio e la pietra e provocava ferite che non sanguinavano. Cacciava da solo, muo-vendosi tra i monti con tale abilità che nessun guardiacaccia era in grado di stargli dietro a lungo.

La stessa origine di Magubalik era avvolta nel mistero. Pareva fosse il fi glio illegittimo di un Marchese e di una serva che era morta dandolo alla luce. La notte in cui nacque, dicevano, era sta-ta la notte più gelida del secolo, faceva talmente freddo che i pen-

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sieri dei contadini si congelavano e cadevano sulla terra arida co-me fi gure di porcellana, spezzate e inutili.

Si raccontava che nell’istante in cui era venuto alla luce dal bosco si fosse alzato un coro di ululati, a cui la madre aveva ri-sposto con un grido prima di accasciarsi, morta.

Quello era stato il suo primo ricordo: l’urlo dei lupi e quello della madre.

Gli anni successivi Magubalik li aveva trascorsi come sguatte-ro e fi glio del Marchese, due scarpe spaiate che era costretto a indossare al contempo.

I primi anni di infanzia erano stati per lui come pentole in cui cuocesse al fuoco lento dell’impazienza i divieti, gli ordini e le urla degli sguatteri e dei cuochi. Cresceva solitario e taciturno quel bambino, due occhi grandi e freddi che nessuno aveva il coraggio di contrastare. Le botte le prendeva in silenzio, senza mai protestare ma con le sopracciglia tanto tese che chi lo batteva a volte si ritraeva per paura che scoccasse uno sguardo letale.

Solo quando aveva fi nito le sue mansioni nelle cucine riceve-va il permesso di andare a visitare il padre nei suoi appartamenti. Questi lo prendeva in braccio e lo scrutava a lungo, cercando nel suo sguardo severo le tracce di quello della madre, che aveva tanto teneramente amato.

Bisognava vederli, il Marchese e il bambino, uno più serio del l’al tro a fi ssarsi come lupi, senza sorriso. Poi il vecchio lo met-teva giù e apriva l’armadio delle armi, lasciando che fosse lui a scegliere. Magubalik toccava l’arma con un dito, il Marchese la caricava, gli metteva l’archibugio tra le mani e diceva: «Spara!» E quello sparava per davvero, facendo esplodere statuette, orologi, bicchieri, tutti fragorosamente in frantumi tra le risate del padre.

Così a sei anni Magubalik aveva imparato l’uso dell’archibu-gio, della spingarda, dei falchetti, del moscardino e di tutte le altre armi.

Dalla sedia in cui era confi nato, il vecchio Marchese impartiva le sue lezioni con spietata disciplina, come se attraverso di esse

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potesse rivivere gli anni verdi di cacce e battaglie. A guidarlo, quasi una premonizione, la certezza che quel bambino non sa-rebbe vissuto a lungo con loro.

Tutto divenne chiaro il giorno in cui Magubalik entrò nelle Selve innevate. A otto anni non aveva ancora mai messo piede fuori dal castello. Non c’era stata una ragione precisa, piuttosto un’in-tuizione: sapeva che nell’istante in cui fosse uscito gli sarebbe stato diffi cile tornare.

La neve, i fusti dei pini, l’odore del sottobosco, tutto si im-presse nella mente di Magubalik con la lunare chiarezza di un sogno. Entrò nella foresta e ne uscì solo a notte inoltrata.

Quella sera il Marchese, pazzo di preoccupazione per la sua fuga, lo fustigò con trentasette bacchettate sulle ginocchia. Quando ebbe fi nito, Magubalik lo guardò in viso e con calma disse che da quel momento chiunque lo avesse toccato sarebbe morto. Poi prese la bacchetta e la spezzò.

Da allora Magubalik trascorse come sempre il giorno nel ca-stello: in cucina tra pentole e fornelli, e con suo padre a imparare l’uso della tagliola e del coltello.

La notte però apparteneva ai boschi, oscuri maestri di altre lezioni. Cosa facesse, che cosa imparasse, e da chi, non era dato saperlo, ma quando tornava dalle sue escursioni aveva gli occhi accesi e un odore addosso di vento e aghi di pino.

Fu così che cominciarono a circolare le prime storie. I caccia-tori che passavano per Ondastretta diretti alla Volpaia racconta-vano di aver scorto un bambino nudo a cavallo di un cervo. Al-cuni giurarono di averlo visto in un campo di grano seduto in mezzo a un cerchio di volpi nere, a fi ssarle con occhi sbiancati di luna. Altri andavano raccontando di un piccolo elfo, uno spirito dei boschi che a volte si materializzava alle fi nestre delle case, con occhi di ghiaccio e edera fra i capelli.

Fu a causa di tutto ciò che il Marchese non si stupì il giorno in

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cui il ragazzo scomparve, né lo fece cercare dalla servitù. Dietro di sé aveva lasciato un biglietto.

‘Devo imparare’ c’era scritto.Il Marchese non si era aspettato di meno. Un’antica promessa

era stata mantenuta: il bosco si era ripreso il suo vero fi glio.

Solo anni più tardi, sul letto di morte, lo rivide.Nessuno lo aveva visto entrare nel castello, non un cane aveva

abbaiato al suo ingresso, eppure lui era lì, in mezzo alla stanza. Il tempo trascorso nei boschi lo aveva smagrito e la sua voce era divenuta roca di solitudine. Ma quando il fi glio si avvicinò al suo letto il Marchese vide che i suoi occhi erano sempre gli stessi, gli occhi di sua madre e dei lupi.

Magubalik gli strinse la mano e allora suo padre indicò il suo moschetto e una sacca con dentro un pugnale, Tagliaferro, dono di una fattucchiera di cui in gioventù era stato l’amante.

«Signor fi glio» disse, «questa è la vostra eredità: il vostro do-minio sarà la tagliola, la cacciagione i vostri sudditi».

E così fu. Poiché Magubalik era fi glio illegittimo, un cortigia-no molle e incipriato si insediò al castello al posto di suo padre. In caso il bastardo avesse osato accampare diritti di discendenza il nuovo Marchese mise una taglia di cento ducati sulla sua testa.

Per due lunghi mesi trenta fra cacciatori e briganti cercarono di prenderlo su per i monti. Magubalik non fu tenero con loro, li rispedì tutti al castello, vivi e legati, con un foglio su cui era scrit-to: ‘Questa è caccia troppo grossa perché la si possa scuoiare’.

Da allora il giovane Marchese levò la taglia, e si diceva che camminasse per il suo castello con due moschettieri sempre ac-canto, saltando di spavento a ogni ombra.

Magubalik non si limitò certo alle terre del Marchesato d’On-dastretta. In breve la sua fama si sparse per tutto il Regno. Se c’era un lupo feroce, un orso impazzito, un leone di montagna, Magubalik arrivava. Non si sapeva come facesse a sapere le cose, se lo leggesse nelle interiora degli animali che uccideva o nella

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forma delle nuvole al tramonto. Fatto sta che il giorno successivo all’affi ssione di una taglia Magubalik era lì, con la testa della be-stia nel sacco.

Tuttavia, ormai erano alcuni anni che non si faceva vivo nella Valle dei Nomi. Dicevano se ne stesse rintanato su Montefosco, un rifugio impervio dove pochissimi osavano disturbarlo. A proteg-gerlo una foresta infestata di banditi, una palude piena di vermi succhiasangue e, soprattutto, il freddo mantello della sua fama.

Abituato alla neve e al silenzio, le chiacchiere della gente e i bordi affi lati dei loro doppi sensi lo confondevano. Non per lui erano i consessi degli uomini, le città con le loro leggi, i castelli dominati dai Signori. Nato per essere un Marchese o un servo, Magubalik non era nessuno dei due. Se avesse avuto un suo ca-stello o delle sue terre, chissà, ma non essendo così preferiva ri-manere in disparte oltre l’orlo del mondo.

A furia di camminare nei boschi, si diceva che si fosse inselva-tichito, che la sua barba si coprisse di licheni in inverno e di boccioli a primavera, che i suoi denti fossero zanne, e le sue ma-ni zampe.

Ma tutte queste erano favole, di quelle che la notte le balie sussurravano ai bambini per spaventare e rincuorare. «Se non stai zitto ti do al Mammone» dicevano, ma poi aggiungevano, «e se fai il bravo viene Magubalik, che lo fa a pezzi».

Questo raccontava la gente. Quello che la gente non sapeva, quello che non avrebbe mai potuto immaginare, era la solitudine. Allora, quando l’assenza di voci e sorrisi si faceva insopportabile, il cacciatore si arrampicava sugli alberi e spiava l’intimità di un focolare, il chiacchiericcio delle voci a notte fonda, l’odore di zuppa tiepida.

E Magubalik lì, tutta la notte, con occhi da animale e sorriso da uomo, sorriso che svaniva nell’istante in cui metteva piede a terra, nel bosco che era il suo regno. Perché sebbene cercasse di scac-ciarne il ricordo, nel grido dei lupi sentiva sempre quello di sua madre. E dentro quella voce tutte le voci, sotto quel tetto tutti i

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tetti, in quel focolare tutti i focolari. Perché Magubalik era sì dei boschi, ma era anche degli uomini.

Su quella linea di confi ne si muoveva come un nuotatore in acque infi de, che sarebbe bastato poco per trascinare a fondo.

Perché lui conosceva bene le abitudini delle bestie, le trap-pole, le tracce e le tagliole, ma quella luce lì, quel fuoco in un abbraccio o in una risata, proprio non sapeva cosa fosse.

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OTTO

Un brivido di voci percorse la folla.Intanto il Balisto si alzò e fece il segno del silenzio.

Questa volta fu il Duca di Acquaviva a farsi avanti al balcone e a parlare.

«Ascoltate! Sussiste ancora un problema. Sappiamo che Ma-gubalik vive lontano da qui, a Montefosco. È necessario che un gruppo di volontari vada ad avvertirlo e a proporgli la taglia».

Di nuovo mormorio nella piazza.«Purtroppo gli uomini d’arme rimasti sono indispensabili per

proteggere la città. Confi do tuttavia che tra i presenti ci siano valorosi in grado di adempiere all’obbligo per la comunità».

Alle sue spalle il Conte di Torrespacca si volse verso la Du-chessa e mormorò: «Ci andrei io stesso, se non fosse per l’infer-mità che mi affl igge» disse indicando i piedi coperti di bende.

Il Duca si aspettava una selva di mani alzate e già si preparava all’arduo compito di dover scegliere tra i pretendenti. Fu deluso. Un silenzio assoluto era sceso sulla piazza. Nessuno fi atava.

«Nessuno?» biascicò sua Eccellenza Ducale.I nomai se ne stavano immobili, parevano comparse di un

presepe vivente.Allora il Duca capì: non era la paura del viaggio che li frenava.

Quello che temevano di più era di tornare in paese e scoprire che nel frattempo il Mangianomi aveva cancellato i volti delle perso-ne che amavano. Nessuno si sarebbe mai fatto avanti. In quel momento una mano si alzò fra le teste.

«Andrò io».La folla si aprì davanti al forestiero che si fece strada fi no al

balcone ducale. Il Duca, il Conte, il Balisto, persino l’imperturba-

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bile Duchessa si affacciarono per osservare lo sconosciuto. Il fo-restiero abbassò il cappuccio e si mostrò ai loro sguardi: era un giovane, piccolo e magro, con un gran naso dritto, occhi neri e profondi. A tracolla aveva uno zaino e stringeva il suo bastone da viaggio, un pezzo di faggio con una testa di metallo.

«Voi non siete un nomaio. Perché dovreste affrontare questa impresa?»

«Ho bisogno di denaro».«Quindi volete una ricompensa».«L’ho appena detto».«Mi sembra onesto. Fatevi avanti».Il forestiero si fece strada sulla scala che portava al balcone e i

servi che reggevano i candelabri lo fecero passare. Non appena il Duca lo ebbe davanti sembrò deluso. Era proprio giovane, dimo-strava pochi anni più di sua fi glia.

«Dunque, voi mi sembrate un bravo giovanotto, ma l’impresa che vi propongo non è priva di rischi».

«Se il compenso sarà adeguato non è un problema».«Tuttavia la strada da qui a Montefosco è diffi cile, anche per-

ché dovrete percorrerla molto in fretta».«Lo so».«Dovrete inoltre passare al guado lo Scorrifi ume e poi attra-

versare la Palude Sempreverme, senza contare che Montefosco è un covo di banditi».

«So anche questo».«E pensate di potercela fare, diciamo, in una decina di giorni?»«Sei, se il cavallo è buono».In quel momento il Conte si fece avanti.«Eccellenza, permettetemi, questo giovane ci racconta che è

in grado di fare tutte queste cose prodigiose. Tuttavia mi chiedo: cosa ci dice che non prenda i suoi ducati e se ne vada per la sua strada?»

«Li prenderò al mio ritorno».«Come vedete, Torrespacca...»

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«Certo Eccellenza, però, se mi è concesso, anche se il ragazzo è in buona fede, potrebbe non essere lo stesso capace di attraver-sare la palude».

«Ci sono già stato».«Ah. Bene, senz’altro, non dico di no, ma allora saprete che il

luogo è infestato da terribili vermi succhiasangue, delle bestie raccapriccianti che...»

«Come questa?»Con un gesto il forestiero aprì la sua sacca da viaggio e ne

rovesciò il contenuto sulla balaustra. Era un Verme Paludiforme: una bestia schifosa e molliccia, con un paio di ali da pipistrello e una doppia fi la di denti appuntiti come stiletti.

La Duchessa emise un sospiro di disgusto e si mise il ventaglio davanti agli occhi. Quanto alla folla non si era persa né una paro-la né un gesto. L’unico che non si era mosso era il Balisto, che osservava il ragazzo con occhi attentissimi. Il volto del Duca par-ve incenerirsi. Poi dalle ceneri emerse un rosso sorriso.

«Straordinario, davvero straordinario» disse saggiando il ver-me morto con il dito. «È un raro esemplare di Chitionus Paluden-sis Gravis. Notate l’aspetto vestigiale delle ali? Viene da... be’, for-se più tardi. Vedete bene che è tutto risolto, caro Conte».

«Eccellentissimo Acquaviva, permettetemi ancora. Il ragazzo ha dimostrato di essere stato nella palude: e con questo? Tutti possono procurarsi un verme morto e portarlo come prova, ma siamo sicuri che lui sappia difendersi? Montefosco è pieno di senzadio, banditi, tagliagole, non mi sembra viaggio da affi dare a un ragazzo».

«Me la cavo, con le armi».«Ve la cavate, eh? E con cosa? Archibugi, carabine, moschet-

ti?»«Il coltello».«Ah, il coltello! Un’arma pericolosissima, soprattutto quando

qualcuno vi punta la canna di una carabina, davvero micidiale».

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«La vede quella candela, in fondo a destra?»«Cosa credete, che solo alla vostra età si abbiano occhi buo-

ni?»«Bene».E detto questo il giovane afferrò il pomo del suo bastone e lo

sfi lò. Era un coltello d’acciaio nero, di punta triangolare, perfet-tamente mimetizzato nel bastone. Il forestiero lo prese con la punta delle dita e lo scagliò per tutta la lunghezza del balcone, verso un servo in livrea che lo fi ssava con occhi terrorizzati. La lama volò dritta e staccò lo stoppino di una candela, con tanta precisione che questi, separato dalla candela, non si spense e continuò anzi a bruciare infi sso in una persiana. La folla, che aveva visto tutto, lo fi ssava impietrita.

Il forestiero estrasse il coltello dall’anta e imperturbabile lo rinfi lò dentro al bastone. Il Conte sembrava incapace di aprir bocca: si sedette di peso su una sedia e non disse più nulla.

«Bene! Credo che abbiamo trovato l’uomo che fa per noi».Così dicendo il Duca lo presentò alla folla che scoppiò in un

fragoroso applauso.«Fermi! Non ci sarà nessuna spedizione!»Quello che aveva parlato e che adesso si sporgeva sulla balau-

stra era il Balisto. La folla rumoreggiò, indispettita.«Signor Balisto, ma cosa dite?» intervenne il Duca.«Dico che non ci sarà più alcun viaggio a Montefosco».«E perché mai?»«Chiedetelo a questo ragazzo, chiedetegli come si chiama».Il giovane guardò il Balisto e sorrise.«Ebbene» disse il Duca, «come vi chiamate?»«Il mio nome...»Un silenzio elettrico percorse la folla, un paio di donne si mi-

sero persino i pugni in bocca, in attesa.«Il mio nome è Magubalik».Un attimo dopo la piazza intera, tutta la città era esplosa in un

terremoto di grida e applausi – chi abbracciava il proprio vicino

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per la gioia, chi lanciava il cappello per aria – così che in quel marasma il ragazzo non ebbe nemmeno il tempo di voltarsi e accorgersi che il Conte di Torrespacca lo stava fi ssando, per una volta non benevolo, non impacciato e nemmeno servile, bensì con uno sguardo di puro e inequivocabile odio.

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NOVE

«Perché non l’avete detto subito?» gli chiese il Balisto.«E voi? Mi avevate riconosciuto».«Volevo vedere quale era il vostro gioco».

«La gente si immagina che io sia un gigante con la bocca irta di zanne. Sarebbero rimasti delusi».

«Improbabile, a sentire quello che dicono di voi. Il Duca vi ha già fatto preparare una stanza al castello. Potrete disporre di tutti gli uomini e i cani che desiderate a partire da domani».

«Non ho bisogno di uomini. Quanto ai cani, me ne servono tre».

«Solo tre?»«Tre».«In quanto tempo pensate di poter partire?»«Questo dipende da quando troverò i cani adatti».«E come saprete se avrete trovato quelli giusti?»«Una caccia è una strana faccenda Signor Balisto, le coinci-

denze più incredibili vengono sempre in aiuto a un buon caccia-tore. Basta saperle riconoscere».

«E voi, non siete dunque un buon cacciatore?»«Il migliore» sorrise Magubalik.

La voce che il cacciatore di Montefosco cercasse tre cani per la sua caccia si sparse presto nella Città dei Nomi. Pareva incredibile: tutti sapevano che bastavano pochi minuti nelle Selve per perde-re non solo l’uso dell’olfatto, ma anche quello della ragione.

Tuttavia Magubalik aveva i suoi buoni motivi. Innanzitutto: tre era il numero perfetto. Se un cane fosse stato ferito, gli altri

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due si sarebbero sostenuti a vicenda per aiutarlo; e i cani erano più intelligenti di un cavallo, più fedeli di un uomo.

Inoltre, era di fondamentale importanza che Magubalik potes-se accorgersi della sua preda prima che questa si accorgesse di lui. Al Mangianomi sarebbe bastato guardarlo dritto una sola vol-ta per succhiargli l’anima dagli occhi. Per questo l’udito, l’olfatto e l’istinto di un cane gli erano indispensabili.

Ma c’era un altro motivo, il più importante, la vera ragione per cui aveva accettato la sfi da: di tutte le sue cacce questa sarebbe stata la più pericolosa. Una preda in grado di annullarti con un’occhiata, di mutare non solo le sue impronte, ma tutto l’am-biente circostante: fi nalmente il cacciatore aveva trovato un de-gno avversario. Per questo non poteva permettersi di sperare che le cose andassero per il meglio, e doveva invece prepararsi all’eve-nienza più catastrofi ca. E per questo, aveva ideato un piano.

Per prima cosa ispezionò il canile ducale. La disastrosa battuta contro il Mangianomi aveva dimezzato il numero dei segugi, la-sciando i più vecchi o i cuccioli. Magubalik li esaminò lo stesso uno a uno, ma non ne trovò nessuno che lo soddisfacesse.

Il Conte di Torrespacca, dopo le prime perplessità, apparì prodigo di buoni consigli, offrendogli anzi di far portare al ca-stello i segugi della sua tenuta.

Nel frattempo Magubalik aveva occupato uno degli apparta-menti degli ospiti, nell’ala est della fortezza, il mignolo. Il castel-lo di Acquaviva aveva infatti una forma bizzarra, che lo faceva assomigliare a una mano: cinque torri, di grandezza diseguale, circondavano la fortezza che dominava la vallata.

Dalla sua fi nestra il cacciatore poteva osservare tutta la tenuta ducale. Com’era strana ai suoi occhi la vita di quella gente. Da anni abituato ad avere il cielo come tetto, Magubalik non riusci-va a comprendere in che modo si potesse passare giorni interi in quella gabbia di pietra, trascinandosi da un salotto al l’al tro. Quella vita gli faceva più paura della più letale delle Volpi d’Om-

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bra, eppure se ne sentiva misteriosamente attratto. Gli ricordava forse l’infanzia trascorsa nel castello di suo padre, le facce che lui sbirciava dalle fi nestre delle case, quel calore di caminetto e risa-te a cui non apparteneva. Li osservava spesso, i servi come i no-bili, affaccendarsi per il cortile o nelle sale piene di arazzi, scam-biarsi lunghi discorsi, strette di mano, inchini di cortesia, quasi fosse un balletto, un affannarsi misterioso di sguardi e passi.

Fu così, contemplando il tramonto dalla sua stanza, la mente invasa da strani pensieri, che Magubalik scorse la ragazza.

Era poco più di una sagoma affacciata a una torre, ma il cac-ciatore intuì il rossore di un viso giovanile. D’istinto Magubalik sentì nascere una strana emozione; gli sembrava avesse sbirciato dalle fi nestre di una vita che non gli apparteneva. Eppure non riusciva a distogliere lo sguardo.

Troppo tardi. Di colpo la ragazza era sparita, lasciando vuota la fi nestra, un occhio di vetro che la notte rendeva opaco.

Cosa ancora più strana, la Duchessa (la si riconosceva per l’e-nor me parrucca verde) percorse il ballatoio ed entrò nella torre.

Ne uscì di lì a poco, il volto coperto con un ventaglio, la gran-de sottana nera che si gonfi ava di vento.

Da quella distanza era diffi cile dirlo, però Magubalik, che ave-va la vista assai aguzza, ne era quasi certo: la Duchessa piangeva.

Era già passata una settimana dal suo arrivo ad Acquaviva e Ma-gubalik non aveva ancora trovato neanche uno dei cani di cui aveva bisogno. Non gli restava ormai che sperare nell’arrivo dei cani di Torrespacca.

Quel giorno decise di recarsi in città: era un giovedì e come sempre si teneva il mercato. La piazza Ducale era piena di donne e bambini che camminavano tra grandi tende colorate. L’odore forte delle spezie, le grida dei venditori, il profumo del baccalà fritto si mescolavano.

I nomai lo additavano mentre passava tra i banchi di frutta e le botteghe. Un paio di bambini tirarono persino l’orlo del suo

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mantello per poi nascondersi impauriti sotto le ruote di un carro di carbone. Magubalik rispose imbracciando il suo bastone come un archibugio e facendo con la bocca un rumore di schioppo. I bambini si sparpagliarono nella piazza ridendo.

Magubalik sorrise e li seguì con lo sguardo nel grande slargo oltre il banco del pesce. In quel punto, un angolo buio circonda-to da vecchie case, si era formato un siparietto di gente. Grida di incitamento, risate e acclamazioni riempivano l’aria. Poi d’im-provviso la folla indietreggiò, e dai recessi della piazza si sentì un latrare furioso che li azzittì di colpo.

Il cacciatore si fece largo tra la folla. C’era un uomo, magro e dai vestiti rabberciati, che si muoveva facendo offerte. Accanto a lui, posata su un carretto, una grossa gabbia con le sbarre di fer-ro. L’uomo, che aveva gli occhi storti e calzava un cappellaccio piumato, cercava di attirare l’attenzione del pubblico roteando un bastone da banditore.

«Quindici ducati, signore e signori, è un buon prezzo. Chi non vorrebbe un manto simile? Potrete vantarvi di averla uccisa voi stessi e appenderla sopra al vostro camino, o farne una pellic-cia per la vostra signora...»

«Quindici ducati?» disse un mercante alto e pelato. «Mi ci compro dodici giacche di buona pelle, una anche per te».

Un’eco di risa seguì le parole del mercante. Lo strabico si risi-stemò il cappellaccio sdrucito, poi rivolse alla folla un ghigno avvelenato.

«Ridete, ridete. Credete sia una bestia comune questa? Allora ecco, forza, dategli un’altra buona occhiata».

Così dicendo l’uomo immerse il bastone tra le sbarre. Subito si udì un ringhio tremendo, e una bocca irta di zanne si fece avanti con tale violenza da strappare il bastone dalle sue mani. Di nuovo presa alla sprovvista, la folla fece un balzo all’indietro.

Era una lupa, ed era enorme. Cicatrici di ogni forma le segna-vano la testa e la pelliccia bianca, striandola. I canini erano lunghi

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quattro dita, e gli occhi parevano pugni stretti. L’animale si gettò contro le sbarre con impeto, e il legno della gabbia si scheggiò.

Quest’ultimo scarto fu così violento che un bambino scoppiò in lacrime. Come fosse un segnale convenuto, la gente incomin-ciò ad allontanarsi.

«Ammàzzatela tu».«Va’ in mona, sbargiugo!»«Aspettate» disse lo strabico, «dieci, sette ducati!»Ma la gente aveva preso a disperdersi e in un attimo la folla si

era decimata. Lo strabico raccolse il bastone e si volse rabbioso verso la gabbia.

«Questa volta giur’Iddio che ti accoppo».Si diresse al carro e da una sacca di tela prese una pistola. Ar-

mò il cane dell’arma e con freddezza mirò alla testa dell’animale che lo guardava con le orecchie abbassate come non aspettasse altro.

Magubalik gli afferrò la mano. Lo strabico si girò verso di lui e il suo sguardo si riempì di sorpresa.

«Magubalik! Cosa ci fai qui?»«Potrei chiederti lo stesso: l’ultima volta che ti ho visto dovevi

scalciare appeso a un faggio».«Ti riferisci a quella incomprensione con la legge? Il Balisto di

quella città mi fece la grazia. Aveva capito che ero un gentiluomo e che dopotutto era stato un malinteso».

«Il che, tradotto, vuol dire che la tua banda ha trovato un mo-do per farti fuggire».

Il brigante strabico, che si chiamava Sgargiotto, aprì la bocca sdentata in una risata.

«Sei sempre lo stesso».«E tu? Ti sei messo a vender lupi adesso?»«Iddio mi è testimone se non ne farei volentieri a meno. Da

quando un bracconiere mio compagno me l’ha venduta, non ho fatto altro che penare. E diceva che era un affare» sputò per terra. «Che gli vada la faccia in canchero!»

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«Insomma, una fregatura».«Biblica. Parli bene tu che cacci pure i sassi, ma qui nella val-

lata non c’è verso di sparare a una beccaccia da quando le Selve sono maledette. Per questo un onesto cacciafrodo come me si deve arrangiare».

«Perché non l’hai uccisa? Potevi venderne la pelle».«Ci ho provato, ma ogni volta che mi faccio sotto per ammaz-

zarla quella...»Guardò con aria affl itta la lupa, poi afferrò il cacciatore per un

braccio e prese a sussurrargli in un orecchio.«Senti, forse non ci crederai. Ho mai avuto paura di uomo o

animale io? Mai. Eppure, questa lupa è diversa. Ti giuro che quando mi faccio per ucciderla quella mi guarda con certi occhi, come fosse una donna, come volesse morire».

«Morire...» mormorò Magubalik allisciandosi il mento. «Ascol-tami, mi è venuta un’idea. Facciamo così, ti pago per ammazzarla. Ecco, venti carlini, tutto quello che ho. Poi, una volta uccisa la scuoiamo, e facciamo a metà del ricavato, che ne dici?»

«Sembra un affare».«Allora, ci stai?»«Ci sto».Si sputarono sui palmi e si strinsero la mano. Sgargiotto gli

diede la pistola e fece cenno. Magubalik però non la afferrò e si chinò accanto alla gabbia.

«Cosa fai? Non...»Non fece in tempo a fi nire.Magubalik estrasse Tagliaferro dal suo bastone e colpì le sbar-

re. Uno sprizzo di scintille e le sbarre tintinnarono per terra. Sgargiotto se ne stava impietrito, guardando la gabbia come fosse la bocca dell’inferno, spalancata.

Magubalik si accoccolò accanto a essa.«Vieni» disse.

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DIECI

E ra nata in gabbia.Non aveva nemmeno due mesi quando venne separa-

ta da sua madre, una lupa argentata dagli occhi color neve. Ricordava bene i suoi ululati mentre si gettava contro gli assalitori che le strappavano via i cuccioli. Quelle fi gure nere con le fi accole e i bastoni, quei volti sporchi di fuliggine, non li avreb-be dimenticati mai: erano uomini.

Non vide più sua madre, né ebbe tempo di pensarci poiché il suo addestramento era già iniziato. La chiusero in un sacco di juta e la lasciarono lì dentro a soffocare per delle ore. Ricordava l’odore della juta, il buio, il terrore; poi, senza preavviso, una gragnola di colpi, forti da spezzare la schiena. Lei si agitava, cer-cava di capire da dove venisse quella minaccia, chi era che le fa-ceva tanto male e perché.

Quando venne fuori dal sacco ringhiava, e tentò di mordere la mano che la prese per la collottola. L’uomo barbuto rise. Era per quello che lo facevano, per insegnarle diffi denza, dolore e fe-rocia.

Dopo, la trattarono abbastanza bene. C’erano altri come lei in altre gabbie. La puzza dello sterco e della paglia era insopporta-bile, le davano da mangiare e da bere, poi iniziava l’addestra-mento vero. Doveva fare quello che l’uomo in mezzo all’arena le diceva. Era diffi cile perché gli uomini usavano quei suoni dalla bocca e allora doveva capire come a ogni suono corrispondesse un’azione.

Un errore una frustata. Due errori una frustata e tre bastonate, sulla schiena e sul muso, dove faceva più male. Dopo tre errori ti portavano nell’angolo oltre la tenda e non tornavi più. La lupa

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ascoltava la voce del bastone e la voce del l’uo mo. Erano due lin-guaggi diversi ma dicevano la stessa cosa: obbedisci o muori. E lei voleva vivere.

Era una vita dura, in quei trenta piedi quadri di paglia, escre-menti e sbarre. Non poteva avere contatti con altri come lei, se non a volte attraverso le sbarre, il tempo di annusarne l’odore e poi non restava che tornare alle proprie gabbie. Per il resto tutti giorni erano uguali agli altri, e sarebbe stato anche sopportabile se non fosse stato per i sogni e la canzone. La canzone. Nel sonno la sentiva spesso, e allora la nostalgia diventava insopportabile.

Si addormentava e si trovava in un posto tutto alberi e freddo. Stava correndo e c’erano altri lupi che le venivano dietro, inse-guendo qualcosa di marrone e vivo. Lei faceva un balzo, lo affer-rava e gli lacerava la gola. Sentiva il sapore del sangue, anche se non lo aveva mai provato sapeva che era sangue. Allora gli altri intorno a lei alzavano la testa e attaccavano la canzone.

Poi l’addestramento divenne ancora più duro. Doveva impa-rare a saltare, a mordere, a muoversi velocemente, a schivare. Adesso la picchiavano più spesso, soprattutto l’uomo con la bar-ba, quello che l’aveva tirata fuori dal sacco quando era piccola. Ma lei non era più piccola. Col passare dei mesi i confi ni della sua cella si erano ristretti. Anche gli uomini sembravano rimpic-cioliti e la guardavano con quello strano modo di avere paura, senza abbassare le orecchie ma con gli occhi per terra e la puzza di terrore.

Cominciarono i combattimenti. L’uomo con la barba rideva e odorava di vino e segatura. La teneva a digiuno per giorni, la picchiava con il bastone attraverso le sbarre fi no a che l’odore del suo stesso sangue le riempiva la testa di fame e follia. Solo allora, quando già ringhiava pazza di dolore, lui apriva la gabbia e la faceva scendere nell’arena. C’erano centinaia di uomini a guar-darla. Molti trattenevano il respiro, altri gridavano. Nessuno ave-va mai visto una come lei.

‘Grande’ era un termine riduttivo per descriverla. Guardava la

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platea con quel suo modo fi ero, come dicesse al mondo: ‘Ec-comi’.

Allora arrivava un altro lupo, dalle gabbie. Sapeva che anche quello era stato picchiato e affamato, e avrebbe voluto annusarlo e leccargli il muso, ma poi la rabbia cieca prendeva il sopravven-to e prima di capire si trovava in mezzo all’arena a dilaniare, con gli uomini tutti intorno che gridavano e battevano le mani.

Poi fi niva e l’altro era per terra con la gola sbranata, e l’uomo con la barba e tutti gli altri si alzavano in piedi e urlavano, e lei non poteva più sentire la canzone.

Dopo un combattimento passavano sempre un paio di setti-mane tranquille. E lei giurava a se stessa che non avrebbe mai più lacerato la gola di un fratello per il loro divertimento. Ma poi tornava il tempo della fame e della follia, tornavano le bastonate sul muso, tornava la nebbia rossa, e quando la nebbia fi nalmente si alzava lei era lì nell’arena e un altro lupo giaceva ai suoi piedi, morto.

Era brava a uccidere, e divenne sempre più brava. Adesso la facevano combattere non contro uno, bensì contro due, poi tre, poi sette lupi contemporaneamente. L’uomo con la barba faceva affari d’oro, ‘il mio gioiello’ la chiamava. Un giorno portarono persino un orso dalle montagne, una bestia più grande di lei, che quando si alzava toccava quasi il tetto del capannone.

Non si fece intimidire: l’orso era grande, era feroce, era anche svelto. Ma la sua disperazione, il suo odio, quello non ce l’aveva nessun altro. Gli strappò il fegato a morsi, davanti a una folla impazzita. Per lei era indifferente, l’unica cosa che le interessava era che fi nisse presto.

La sera, da sola, nella gabbia, quando capiva che aveva ucciso altri come lei, cercava di leccarsi via di dosso l’odore. Ma per quanto a fondo sfregasse, per quanto leccasse, c’era sempre una macchia minuscola che non riusciva a cancellare.

Sarebbe andata avanti così se non fosse stato per il sogno. An-che questa volta stava correndo nella foresta, insieme ai fratelli,

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solo che non era una lepre quella che seguiva. Era qualcosa di grosso, lento, impacciato e soprattutto indifeso; lo raggiunse con un balzo e gli squarciò la carotide, e solo quando sentì l’urlo del-la preda capì che era l’uomo con la barba quello che stava ucci-dendo.

Fu una rivelazione. Questa volta invece di aspettare le basto-nate e la nebbia rossa, si mosse in anticipo. Cominciò a ringhiare e a ululare come aveva visto fare ad altri cani nelle gabbie. Le bastonate e il digiuno vennero ugualmente, ma più mitigate, e adesso nella confusione e nel dolore si sentiva forte perché in testa aveva la canzone.

Scese ancora nell’arena e ancora una volta atterrò i suoi avver-sari, senza pietà. Solo che questa volta si mise a guaire e a stri-sciare come se le avessero spezzato una zampa. L’uomo con la barba imprecò e le si avvicinò aprendo il cancelletto di ferro.

Fu l’ultima cosa che fece. La lupa gli azzannò la gola e per un attimo lo tenne così, con il sangue che scorreva e le mani di lui che cercavano inutilmente di aprirle le fauci. La lupa rimase a guardarlo con gli occhi di neve di sua madre, mentre moriva.

Poi lo alzò da terra col muso, lo scagliò tra la folla che urlava e con un balzo corse via dall’arena.

I boschi scivolarono verso di lei come un abbraccio di neve e alberi. La lupa correva felice, uccideva, si nutriva di cervi o lepri, trascorreva le notti sotto l’occhio lucido della luna, sempre in cerca, sempre in ascolto.

Poi una notte, mentre fi niva di squartare la carcassa di un pic-colo daino la sentì: la canzone. C’erano una dozzina di fratelli intorno a lei. La lupa alzò il muso e si immerse nella canzone. Ma quelli non si avvicinarono, continuarono a osservarla senza muo-versi. Allora lei trascinò il daino verso i lupi, come offerta per entrare nel cerchio. Poi si avvicinò al capobranco con le orecchie basse in segno di sottomissione, sebbene lei fosse grande il dop-pio del più grande di loro.

Un ringhio, zanne spiegate. Il capobranco fece uno scarto e le

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andò contro lacerandole la groppa. Nessun dolore infl ittole dagli uomini si poteva paragonare a quello.

La lupa si disimpegnò e li guardò, cercando di capire. Il cer-chio era intorno a lei, il capobranco che ringhiava con le zanne rosse del suo sangue.

E allora capì. Non la volevano. Su di lei c’era la puzza del l’uo-mo, della vita dietro le sbarre, del sangue di altri lupi. Perché lei era diversa, enorme, forte e magnifi ca, e quelli non l’avrebbero mai accettata.

Indietreggiarono e svanirono nel bosco.

Da quel momento impazzì davvero.Cominciò a correre senza uno scopo, attraversando il bosco e

uccidendo qualsiasi animale le capitasse a tiro, pazza di un dolo-re così grande da non poterlo nemmeno nominare.

Si era fatta così feroce che a volte assaliva linci, orsi, razziava pollai e sbranava cavalli, attaccando tutto quello che incontrava sul suo cammino.

La follia che la rendeva invincibile la rese anche imprudente. Alla fi ne cadde in una trappola, non la più astuta né la più effi ca-ce, solo la prima in cui si era imbattuta. Ci vollero dodici uomini per farla entrare in una gabbia e altrettanti bastoni.

Ormai non le importava più nulla, sapeva che non sarebbe mai più uscita da quella gabbia, se non per tornare nell’arena, o per morire.

E lei voleva morire, lo voleva con tutta la forza della sua di-sperazione, perché non c’era nulla o nessuno per cui valesse la pena vivere. Avrebbe combattuto un’ultima volta, danzando la sua canzone di artigli e sangue, fi nché non fosse stata abbattuta da bastoni, zanne e scoppi d’archibugio.

Così, nel momento in cui le sbarre della gabbia caddero e la voce la chiamò da fuori, la lupa uscì con il solo scopo di uccide-re, e di essere uccisa.

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UNDICI

La lupa balzò fuori e gli saltò alla gola.Magubalik non tentò nemmeno di bloccare il suo im-

peto, anzi si acquattò, e sfruttando il suo stesso slancio la mandò a rovinare nella piazza. Subito la bestia scattò sulle zampe e si girò per azzannargli il braccio, ma già il cacciatore si levava il mantello e con un gesto glielo avvolgeva intorno alla testa. Furio-sa e cieca, la lupa prese a mordere a vuoto e a dimenare il capo con violenza, da destra a sinistra, stracciando il manto e liberan-dosi.

La lotta non era nemmeno cominciata che, vedendoli combat-tere, la folla fece cerchio, chi fi schiando, chi con occhi sgranati e pavidi, chi battendo piedi e mani. Questa volta però la lupa non vi badò: tutta la sua attenzione era rivolta a quel ragazzo smilzo e sfrontato che lì, in piedi in mezzo ai suoi simili, la sfi dava.

Ed eccoli i due contendenti, la bestia bianca e l’uomo, si tene-vano a distanza di tre passi l’una dal l’al tro, scrutandosi, gli stessi cerchi guardinghi, gli stessi occhi attenti. Senza mai perderla di vista Magubalik rinfoderò Tagliaferro alla cintura e prese quello che rimaneva del suo mantello. Se lo stava appunto arrotolando intorno al braccio quando la lupa caricò.

L’enorme testa scattò in avanti, si sentì lo schiocco delle zanne che si chiudevano a vuoto una, due volte. Il ragazzo pareva non essersi mosso ma la bestia l’aveva mancato e adesso lui era alle sue spalle, incolume. Fissava la lupa, la fronte aggrottata, il man-tello lacero tra le mani. Poi la belva si girò su se stessa e fece uno scarto talmente repentino che la folla fece un passo indietro.

Non Magubalik, che all’ultimo momento allungò il mantello a mo’ di frusta e centrò il muso della lupa con un colpo secco.

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Starnutendo e ringhiando di dolore, l’animale si fece indietro. Magubalik fece cenno alla bestia. Vedendo quel gesto di sfi da, la lupa caricò a testa bassa. Un’altra frustata sul muso, la bestia guaì e si fece di nuovo indietro. Grida di giubilo scoppiarono tra gli astanti, alcuni urlavano il nome del cacciatore, poi senza preav-viso la lupa saltò. Subito quelle grida ammutolirono in un silen-zio attonito, rotto da uno strillo di donna.

«Attento!»Magubalik si girò, un attimo in ritardo, che già la lupa bianca

fi niva il suo salto gettandolo in terra sotto il suo peso di artigli e zanne. La piazza intera si animò allora di un grido d’orrore, poi-ché il cacciatore era a terra, indifeso, la belva che lo trascinava per il selciato della piazza a zampate e colpi di muso come fosse una bambola di pezza.

Era un gioco crudele, poiché in quella furiosa lotta il cacciato-re non era in grado di estrarre il suo pugnale o di difendersi. Rabbrividendo Sgargiotto afferrò il suo fucile e lo puntò sulla schiena della bestia, ma non gli riusciva di prendere la mira per-ché quella si muoveva troppo in fretta.

Nella mischia furiosa si vide un guizzo di gambe e zampe, un guaito, ed ecco la lupa a terra, il muso stretto dal mantello, il cacciatore in piedi su di lei, ansimante e con un braccio che già si imporporava di sangue. Subito la bestia diede uno strattone, ma il cacciatore la teneva ben stretta, la punta di Tagliaferro dritta sulla giugulare. La lupa diede un altro guaito, poi stette, supina sulla schiena e immobile, offrendo la gola.

Un sospiro si alzò fi nalmente tra la gente, ma la lupa e il cac-ciatore ancora non si muovevano. Lentamente, palmo a palmo, il cacciatore ritrasse il suo pugnale e con uno strattone la lasciò li-bera. Tra il brusio della folla la lupa si girò e si tirò su, ringhiante, pronta a saltare ancora, gli occhi accesi sul cacciatore. Costui però non sembrava darsene conto, e anzi gettò a terra il mantello e il pugnale, rimanendo disarmato davanti a lei.

«Vieni» disse ancora.

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E la lupa veniva, non più caricando alla cieca bensì guardinga, confusa, le zanne snudate e la coda tra le gambe. Quel l’uo mo, non lo capiva. Era il primo ad averla mai battuta, ma pur aven-done l’occasione non l’aveva uccisa. Adesso era lì, alla sua mercé, senza armi o speranza, eppure lei lo sentiva, non c’era paura nel suo odore, né rabbia, e nemmeno il puzzo dolciastro dell’ingan-no. Perché non scappava come tutti? Perché non l’aveva uccisa?

Allora la lupa cercò i suoi occhi, e in essi rimase intrappolata. C’era neve in quegli occhi, e silenzio, e in quel silenzio una ri-sposta, come se lei avesse posto una domanda all’inverno e il cacciatore le rispondesse così, con quello sguardo.

La lupa smise di ringhiare e si avvicinò a testa bassa. Maguba-lik capì che tutto dipendeva dai prossimi istanti. Con cautela, senza perdere mai il contatto con i suoi occhi, alzò una mano. La lupa non si mosse nemmeno quando cominciò ad accarezzarla. Il cacciatore sentì i muscoli della bestia vibrare in un lungo brivi-do, poi la lupa guaì e si accucciò ai suoi piedi.

Solo quando la folla cominciò a battere i piedi e a fi schiare Magubalik si concesse un sospiro. Estrasse dalla sua borsa quin-dici ducati e li lanciò a Sgargiotto, che osservava la scena con la bocca spalancata.

«Nulla in contrario?» chiese il cacciatore.«È tua» disse il brigante.Magubalik si accucciò accanto alla lupa e le accarezzò il muso

mentre lei gli leccava la mano.«Tu sei la prima» disse. «Da questo momento ti chiamerai

Uba».

Impiegò tre settimane per addestrarla.Sarebbe stata un’impresa disperata, se Uba non avesse vissuto

già molti anni in mezzo agli uomini. Nonostante ciò fu un lavoro duro, incessante, giorno dopo giorno a vincere la diffi denza che nella lupa si era radicata verso gli uomini e il loro mondo.

Magubalik la portava nei boschi che circondavano il castello e

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lì le insegnava ad attaccare a comando, a retrocedere, a saltare, ad accorrere a un suo fi schio.

Poi il cacciatore cominciò a condurla al castello, sotto gli sguardi sgomenti di servi e nobiluomini. Prima brevi sortite, poi passeggiate più lunghe per il cortile, infi ne anche all’interno dei saloni affrescati.

Ben presto tutto il castello di Acquaviva entrò in agitazione per la presenza della lupa bianca, ma quando il Duca insistet-te per chiuderla nel canile Magubalik si oppose con forza. La sua libertà era l’unica moneta di scambio che lui aveva per conqui-starsi la sua fi ducia: mai più sbarre, mai più catene l’avrebbero tenuta al giogo di sguardi estranei.

In qualsiasi momento Uba sarebbe potuta scappare nei bo-schi, lontano dal cacciatore e dalla casa di pietra dove lui viveva. Ma questo era appunto il mistero: che nell’obbedienza alla sua voce, alle sue mani, ai suoi occhi, Uba si sentiva per la prima volta libera.

Qualcosa, tra la lupa e l’uomo, si era ritrovato in quel primo sguardo il giorno della loro lotta. Forse era la canzone, l’urlo dei lupi e il grido di sua madre, o forse un fi ore segreto, che entram-bi si portavano dentro e non avevano mai mostrato a nessuno.

Così trascorrevano i ciechi pomeriggi assolati, correndo nei boschi o giocando nel cortile del castello.

Tutte le sere Uba si addormentava ai suoi piedi, e se qualcuno si avvicinava senza preavviso alla porta della sua stanza la lupa si levava con occhi ardenti, a difendere il suo padrone.

Tutte le mattine l’alba li sorprendeva insieme, a cacciare lepri nei boschi. Con un ringhio la lupa gli gettava la preda ancora tiepida e lui le si faceva sotto, rovesciandola per gioco in mezzo alle foglie cadute.

Allora lui si inginocchiava ridendo, la lupa alzava la testa e gli offriva la gola, vinta dall’amore dei suoi occhi.

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DODICI

Due settimane dopo il suo arrivo il Duca di Acquaviva fece chiamare Magubalik nella Sala degli Specchi. Con lui era presente tutta la compagnia: il Conte di Torre-

spacca, la Duchessa, il Balisto. Il Duca si schiarì la voce e con duchesca cautela chiese se l’addestramento e la ricerca dei cani avrebbe richiesto ancora molto.

«Richiederà il necessario, Eccellenza. Non eravamo forse d’ac-cordo che avrei cacciato il Mangianomi dalle Selve per un com-penso di quattromila scudi?»

«Certo...»«Non avevamo forse stabilito che avrei potuto impiegare tutti

i mezzi a mia disposizione?»«Tuttavia...»«E allora, i mezzi da me scelti son questi. Tre cani e del tem-

po».«Quello che il Duca voleva dire» si intromise severo il Balisto,

«è che forse non disponiamo di tutto questo tempo. Non passa giorno che qualcuno o qualcosa non perda il proprio nome ad Acquaviva».

«Non ho mai pensato che sarebbe stato facile. Anzi, si può dire che ho accettato proprio perché ritenevo fosse impossibile».

«Non vi seguo. Se è impossibile perché avete accettato?»Un fuoco strano si accese negli occhi di Magubalik.«Per provare a me stesso di poterlo fare».Si udì un rumore nel salone.La Duchessa aveva aperto il suo ventaglio e si faceva aria, gli

occhi impenetrabili sotto la parrucca striata di strass.«Del Mangianomi non si sa nulla» proseguì il cacciatore, «né

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da dove sia venuto, né perché si nutra di nomi, né quali siano le sue abitudini. Non si è sicuri nemmeno del suo aspetto. Chi ci di-ce poi che possa morire? Potrebbe benissimo essere immortale».

«Voi vi state divertendo a spaventarci» lo aggredì a voce bassa il Balisto, «se fosse davvero così, come fate a essere sicuro di po-terlo uccidere?»

«E infatti non ne ho la certezza. Però so una cosa. Che tutti quelli che l’hanno visto bene hanno dimenticato il proprio no-me».

«E quindi?»«E quindi ho bisogno di questo: di tempo e di tre cani».

In verità Magubalik non era così sicuro come voleva apparire. L’addestramento di Uba era ormai completo ma per quanto lui cercasse tra i segugi del Duca e dei cacciatori di Acquaviva non ne aveva trovato nessuno degno dell’impresa. Quanto ai cani del Conte, si facevano ancora attendere per via di un nubifragio che aveva allagato tutte le strade a sud di Salerno.

Sapeva bene Magubalik che affi darsi alla benevolenza della nobiltà non era cosa da prendersi alla leggera. Gli Acquaviva gliene avrebbero concessa solo fi no a quando lo avessero ritenu-to opportuno.

A peggiorare le cose ci si metteva l’opera tetra del Mangiano-mi. Ogni notte si sentivano per il paese le grida dei disgraziati che la malasorte aveva messo davanti a quella bestia. Madri che non riconoscevano i propri fi gli, fratelli che si prendevano per sconosciuti, amici che si assalivano a morsi e pugni dimentichi della loro amicizia.

Quasi tutti i nomai ormai tenevano in casa un parente imme-more e muto, senza passato e senza volto, che fi ssava con occhi opachi gli angoli affumicati delle sue stanze. Quelle larve umane facevano pena a vedersi, ma anche paura, poiché averli accanto era come dare ospitalità a uno sconosciuto, pallido e idiota, di cui ci si rammentava sempre più a stento.

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Come assediata dalla peste, la Città dei Nomi prese a morire. Prima le botteghe, poi i mercati, infi ne anche i campi vennero abbandonati. Ben presto il numero di quei fantasmi vivi avrebbe superato quello dei viventi, facendo della città un libro scritto in una lingua che il mondo aveva dimenticato. La sera non si senti-vano più le voci dalle fi nestre delle case, l’acciottolio dei piatti, l’abbaio dei cani, il profumo del vino e della legna, non più le risa, i rintocchi di campana, le corse delle ragazze nei vicoli; solo silenzio, il vento, un pianto di donna soffocato da una preghiera.

Per questo, quando il cacciatore scendeva in paese, gli stessi bottegai che nei primi giorni lo avevano salutato con calore tira-vano via senza degnarlo di uno sguardo, mormorando dietro alle sue spalle parole rabbiose.

Perché Magubalik indugiava ancora? Che la ricompensa del Duca non fosse suffi ciente? Che lui non li ritenesse degni della sua bravura?

Eppure, per quanto penose gli fossero quelle occhiate tirate di traverso, per quanto egli si sentisse dentro un’impazienza amara, il cacciatore teneva a freno l’impulso di sellare un cavallo e parti-re. Non aveva accettato l’incarico del Duca per la riconoscenza della gente di Acquaviva, né per il premio in palio, e nemmeno per accrescere la sua fama. Era vero quello che aveva detto al Balisto, anche se quella era stata la prima volta che lo aveva capi-to con chiarezza: cacciare il Mangianomi gli era inevitabile come lo era stato entrare nelle Selve innevate quando era bambino, perché per lui quella creatura era il nero stesso dei boschi, il bri-vido di tutte le cose marce e senz’anima, era la lunga notte della sua solitudine.

Per questo non poteva che dedicarle il meglio di se stesso e del suo ingegno, aspettando fi no a quando non avrebbe avuto anche gli altri cani: solo allora sarebbe partito.

La mattina del diciottesimo giorno dal suo arrivo uno strepito di urla e di insulti penetrò nel suo sonno fi no a svegliarlo del tutto.

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Magubalik si affacciò alla fi nestra della sua torre. Nel retro del giardino ducale, non distante dalle cucine, un ometto vestito di bianco sbraitava come un pazzo.

«Ancora! È inconcepibile! Zucchillo!»Un ragazzino vestito da sguattero si fece strada attraverso il

cortile per ricevere un bel ceffone.«Quante volte te l’ho detto, eh? Quante?»«Moltissime, Signore».«Lo sai che se uno non ci guarda quella entra e si frega le bi-

stecche. E adesso cosa mangia il Duca per pranzo, me lo dici?»«Ho provato a inseguirla, Signore».«Hai provato? E non lo sai che quella è il diavolo?»L’ometto, che poi era il cuoco, continuava a sbraitare e a sof-

fi are come una pentola in ebollizione. Non a caso il suo nome era Sciuscio. Tutto in lui dava l’idea dell’uovo: la faccia tondissima, le mani grasse, persino il grembiule, che a furia di stare accanto a pentole e fuochi aveva assunto un color ocra.

«Che succede?» chiese Magubalik, che era sceso di fretta e ancora si infi lava la camicia nei pantaloni.

Sciuscio salutò col capo il cacciatore, e si rivolse a lui.«Succede quello che succede tutti i giorni alle sette in punto!

Quel demonio fetente ruba la carne dalle cucine, la ruba a me».«Chi?»«Lei, quella sciagurata, quella bestia immonda, quella cagna

lurida!»«Una cagna? E non basta cacciarla via?»«Cacciarla?!» rise il cuoco. «Quella là una volta che ha affer-

rato la sua preda prende un fugone che nemmeno la pallottola di uno schioppo la raggiunge. Pensate di poterci fare qualcosa? Sapeste che tormento sono per me questi furti, mi viene una fi tta proprio qua, all’altezza del fegato, come se avessi mangiato cotiche».

Magubalik lo scrutò, poi disse: «Mostratemi la cucina».Sciuscio e Zucchillo lo scortarono dentro. Fra le pentole e il

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tavolo di marmo, una mezza dozzina di donne e di garzoni si affaccendavano cucendo involti di carne. Un paio di ragazze si volsero a guardare Magubalik quando lui entrò a seguito di Sciu-scio e gli sorrisero. Un odore di sughi, di olio e origano, si span-deva per l’aria. Era un profumo familiare per Magubalik, lo stes-so in cui aveva trascorso tutta la sua infanzia.

«Abbiamo provato con turni di guardia, un cane fuori alla catena, del veleno. Tutto inutile. Quella bestia è tanto lesta o tan-to silenziosa che nessuno se ne accorge mai. È un fantasma, non un cane».

«Quindi entra dalla porta Grande».«Esatto. Non possiamo chiuderla perché ci serve per andare a

prendere l’acqua al pozzo, basta un momento di distrazione che la cagna è già dentro».

«E fuori? Dove fugge?»«Fuori? Come fuori?» rispose il cuoco sorpreso.«È ovvio che non è del canile. Quindi o è un cane randagio

che vive nel castello oppure viene da fuori».Sciuscio fi ssava il cacciatore con la bocca spalancata.«Ma certo! Si potrebbe scovarne la tana! Zucchillo, mostragli

il cortile».Il ragazzo fece strada. Con il dito gli mostrò il punto fi n dove

riuscivano a vedere la ladra, l’ingresso di un’ala vuota delle scu-derie ducali.

«Abbiamo provato a cercarla qui dentro ma è come se svanis-se. Non abbiamo mai capito come fa» disse lo sguattero.

Magubalik si era chinato e studiava il terreno. Segni di zampe marchiavano il suolo; il cacciatore saggiò un punto con la scarpa, poi si diresse verso un mucchio di fi eno.

«Ecco come» e diede un calcio al mucchio, sparpagliandolo.Sotto la sterpaglia c’era una buca che si apriva per una trenti-

na di piedi fi no all’esterno, sotto le mura.«Per le trippe di sant’Aquinio!» esclamò il cuoco che li aveva

raggiunti. «Dev’essere un vecchio scivolo per scaricare i rifi uti

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fuori delle mura. Lo avranno riempito di terra per paura che lo si usasse come via di accesso. Quel cane l’ha trovato e l’ha scavato con le sue zampe!»

Magubalik sbirciava la profondità del buco e le tracce di un-ghiate sul terreno. Nemmeno per un cane grosso e affamato do-veva essere facile farsi strada in un passaggio così stretto.

«Dov’è il tratto più vicino di mura?»«Di qua».I tre uscirono dalle scuderie e si diressero verso i bastioni.

Magubalik si mise a osservare le mura, pensieroso. Il cuoco e lo sguattero lo fi ssavano come pazienti che aspettassero il responso dal medico.

«Allora?» sbottò infi ne il cuoco.Magubalik si scostò dalle mura e si avvicinò loro.«Faremo così» disse, e incominciò a spiegare.

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TREDICI

Lasciate che abbassi ancora un poco il fuoco della lampa-da. La sua luce ormai non è che un rifl esso, un arrossire di ombre e odori notturni.

È così che dovete immaginarla.

L’alba. Un chiarore appena accennato tra le montagne che cir-condano la valle. Nel cortile del castello è già un viavai di donne con fascine di legna e otri di vino sulla testa. Scortiamo una di queste nel suo viaggio fi no alla cucina. La sguattera lascia la por-ta socchiusa, si siede nel camino e vi dispone la legna: una scin-tilla ed ecco che la fi amma prende vita, animando la stanza di rifl essi.

La donna si siede accanto al fuoco e incomincia a spennare un pollo, accanto a lei un gruppetto di sguatteri appronta gli ingre-dienti per la colazione della Duchessa.

Sono tutti così intenti, così impegnati, che nessuno si accorge dell’ombra. È una sagoma magra e lunga, che scivola tra le buie pieghe della cucina, non fa alcun rumore, si allunga incerta fra i tavoli, poi si ferma.

L’enorme bistecca è abbandonata sul grande tavolo di marmo. Uno scatto, un balzo, un morso, ed ecco l’alano fuggire come una freccia; non bastano le grida, gli improperi, le pentole che gli altri gli lanciano contro. È già fuori, la bistecca tra i denti e il na-so verso le scuderie, uggiolando felice con l’unico orecchio al vento, perché non c’è nulla che lei ami di più o sappia fare me-glio: correre.

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Era un dono innato il suo, come il colore grigio dei suoi occhi o le macchie sul dorso, un istinto tramandato di generazione in generazione, di cane in cane, fi no ad arrivare a lei.

La prima volta che avevano cercato di ucciderla aveva sei me-si. Avevano atteso che si avvicinasse al bidone per raccogliere gli avanzi di cui viveva, poi da uno dei vicoli era partito un colpo di archibugio. La cagna aveva guaito forte, si era girata a guardare il contadino che le veniva incontro con l’arma spianata ed era fug-gita. Aveva sentito chiaramente le pallottole che fi schiavano, gli scoppi, l’odore di polvere da sparo, e allora qualcosa di misterio-so era scattato in lei.

Velocità: un fi ume in piena di cui era appena consapevole, un turbine di zampe e di strade vorticose. Un attimo e si era trovata fuori dalla città, fuori dal bosco, fuori dalla Contea. In meno di un’ora aveva percorso sessanta leghe.

Certo, come tutti i cuccioli della sua età aveva già corso prima; ma c’era correre e correre ed era questo nuovo tipo di fuga che aveva appena scoperto.

Quel giorno per l’alano segnò l’inizio di una nuova stagione di furti e rapine. Non avrebbe più dovuto frugare nella spazzatura come gli altri randagi, poteva fare di meglio. Bastava infatti sfor-zarsi che d’un tratto la sua velocità centuplicava, trasformandola in una sagoma dai contorni indistinti. Appena accelerava i bo-schi divenivano macchie verdi, un’estasi di vento e foglie e si trovava dal l’al tra parte, a dieci leghe dal punto di partenza.

Ma non erano le lunghe distanze che la interessavano. No, lei voleva scattare come un colpo di freccia, bruciare piccoli tratti come un fulmine canino, e questo era molto più diffi cile. Per esercitarsi prese a correre sull’acqua di un fi ume. Aveva infatti scoperto che se correva abbastanza veloce, ma veramente veloce, non sarebbe affondata.

Chi, una di quelle mattine, si fosse alzato per andare a pesca-re, avrebbe visto questo strano spettacolo: la sagoma di un cane

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che percorreva il fi ume da una sponda al l’al tra con una tale velo-cità da sollevare l’acqua in una nube di vapore.

Quando tornò in paese, non era più il cucciolo impacciato con le lunghe orecchie. Al suo posto c’era una bestia grande come un pony, magra di una magrezza estrema, ma con zampe lunghe e robuste come rami nodosi.

La cagna si immerse con gioia nella sua nuova vita. Poteva entrare in una cucina, addentare un rognone, svanire, tutto pri-ma che un’onesta famiglia si accorgesse della sua presenza. Ru-bare sotto al naso di contadini e fattori le era facile come correre in un prato, così che di giorno in giorno poteva scegliere se man-giare fegato, baccalà, o pollo ripieno di castagne e uvetta.

Non ci volle molto perché i cittadini si accorgessero che qual-cuno rubava le loro provviste; e dal momento che non potevano vederla, se la presero con gli altri randagi. Furono disposte ta-gliole, bocconi avvelenati, lacci, e nel giro di due settimane dieci cani ci avevano già rimesso la pelle.

Vennero da lei in branco. Sapevano dove viveva perché lei non ne aveva mai fatto un segreto, una grotta dove in tempi di magra invitava i suoi compagni per dividere il frutto delle sue scorribande.

In effetti l’alano pensava che quella fosse una delegazione in cerca di cibo, l’inverno era alle porte. Si stava preparando a divi-dere le sue scorte con gioia, quando quelli le furono addosso. Era veloce certo, ma solo se non la si coglieva di sorpresa, solo se lo voleva. Il capo, un vecchio randagio guercio, le si avvicinò men-tre lei scalciava cercando di liberarsi da una dozzina di suoi si-mili.

Non era una sentenza di morte quella, ma di esilio: non avreb-be mai dovuto più mettere piede dentro la città, mai più. E per assicurarsi che avesse capito, il guercio le si avvicinò e con un morso le strappò un orecchio.

Sconvolta, sanguinante, ferita nel suo amor proprio, l’alano si

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scrollò di dosso i randagi e attaccò a correre. Correva come mai aveva corso, correva per disperazione, correva per dolore, corre-va come se la corsa fosse l’unica cura per la sua infi nita ferita.

Correva e corse per una notte e un giorno intero e un’altra notte ancora, e quando fu esausta e ormai per la velocità le mac-chie sul dorso le si erano fuse in un grigio uniforme, l’alano crol-lò a terra e morì.

Morì per diciassette ore prima di riaprire gli occhi e accorgersi che qualcuno sopra di lei gli bagnava il muso con dell’acqua. Era una bambina, una faccia bianca incorniciata da capelli rosso fuo-co, efelidi come semi in un campo di neve. In tutta la sua vita l’alano non aveva mai visto niente di così bello.

La bambina mise una mano sulla sua pelliccia tremante, rise, e in quel sorriso la cagna si sentì sciogliere d’amore. Prese a lec-carle la faccia, tutta la tristezza e il dolore svaniti, lasciati dietro nella sua corsa di cento leghe.

Allora lei afferrò qualcosa dalle sue tasche e gliela porse, un biscotto di frumento. Era la prima volta che l’alano riceveva del cibo da un essere umano. Lo prese tremante di riconoscenza, assaggiandolo con delicatezza in quella sua bocca enorme e ma-gra. Capelli Rossi annuì soddisfatta, e la stava accarezzando quando per sbaglio le sfi orò la ferita all’orecchio. La reazione dell’alano fu un semplice rifl esso: la morse.

La mano della bambina era morbida e si ruppe subito tra i suoi denti. Non appena si rese conto di cosa aveva fatto, la cagna lan-ciò un ululato di disperazione, così alto che uno stormo di tordi si alzò in volo dagli alberi. La bambina piangeva, la mano sangui-nante, il cane accanto che le leccava disperatamente la ferita.

Così li vide il contadino quando entrò nella radura, sua fi glia che piangeva accanto a una bestia con il muso umido di sangue. L’uomo urlò e si lanciò contro la cagna con il suo bastone. Que-sta volta l’alano non fece nulla per fuggire. Sentì i colpi nelle os-sa, lo schiocco delle costole che si spezzavano, e sperò che la

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morte fosse una freccia, rapida. Allora la bambina si mise in mez-zo, ancora in lacrime, il sangue che striava il prato tutt’intorno.

«Andiamo via» disse al padre.Il contadino la prese in braccio, lasciando il bastone spezzato

e l’alano disteso nell’erba alta.

Ci volle molto prima che le sue ferite guarissero. E non le ossa o lo squarcio all’orecchio, perché anche se la bambina e i randagi l’avevano dimenticata, l’alano non riusciva né a dimenticare né a perdonarsi.

Prese a vivere nel sottobosco, lontano dagli uomini e dai pro-pri simili. E poiché la sua corsa l’aveva portata in contrade lonta-ne preferiva di gran lunga depredare qualche castello di tanto in tanto, piuttosto che avvicinarsi alle città.

L’unica vera differenza con il passato era che adesso l’alano si lasciava vedere, voleva che sapessero che era lei a derubarli, che la prendessero di mira, che inveissero pure contro di lei, l’impor-tante era che qualcuno sapesse che lei esisteva, che era viva.

Per questo amava tanto quei momenti di corsa: in quegli istanti era vulnerabile, si mostrava agli occhi di tutti, svelava il suo gioco.

Ma ormai il gioco era fi nito e adesso lei zampettava nel cuni-colo sotto alle mura per emergere al sicuro dal l’al tra parte. La cagna si sporse e inalò profumo di fi eno e libertà, e solo allora si accorse che ce n’era un altro, un odore d’uomo.

Una mano le strappò la bistecca dalla bocca.

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QUATTORDICI

Contava sulla sorpresa e sorpresa era stata: la cagna era rimasta immobile e attonita mentre lui afferrava la bi-stecca e attaccava a correre.

Due respiri dopo Magubalik si stava già arrampicando sulla sua corda, a mezza strada verso la nicchia nel muro che aveva adocchiato per mettere a segno il suo piano, e fu allora che l’ala-no gli venne dietro.

Dire che era veloce non sarebbe esatto, la descrizione più pre-cisa era questa: la cagna volava, le sue zampe invisibili come le ali di una mosca, l’attrito così forte che l’erba intorno prese fuoco.

Al sicuro nella sua nicchia Magubalik la vide: quel turbine di zampe e fuoco non se lo era aspettato. In ogni caso la nicchia stava a dieci piedi di altezza e non c’era nessuna possibilità che l’alano lo raggiungesse.

E qui naturalmente si sbagliava. Perché a questo punto la ca-gna era così furiosa che arrivata al muro non solo non si fermò, ma sfruttò la sua velocità per salire ad angolo retto, per la parete, dritto verso di lui.

In quel momento l’alano inciampò nella corda che era rimasta appesa al muro. Fu l’esitazione di un attimo, ma bastò perché la gravità la trascinasse rovinosamente verso terra. La cagna cercò di tenersi con le unghie, ci fu uno stridio come di gesso, poi ven-ne giù.

La bestia si ritrovò di nuovo a terra con quel l’uo mo che, dalla nicchia in cima al muro, le sventagliava il suo bottino. Diede un balzo fenomenale, sette piedi, quasi otto, non abbastanza.

«Vieni» disse il cacciatore.L’alano guaiva impazzito. Era una questione d’onore ormai,

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un primato lungo una vita era stato messo in discussione e lei non avrebbe mai ceduto. Lanciò un ululato e spiccò un altro sal-to, un altro ancora, e un altro.

A lungo il cacciatore rimase a osservarla dal suo nascondiglio. Man mano i tentativi della cagna si facevano sempre più deboli; ormai l’alano aveva la bava alla bocca e lo osservava a tratti con il capoccione reclinato da un lato, per poi riprendere a girare in-diavolata su se stessa, senza pace.

Magubalik aspettò ancora, mise la bistecca nella sua bisaccia e strinse fra le mani inguantate i due lacci di cuoio che aveva fab-bricato per l’occasione. Gettò un’ultima occhiata in basso: ecco, la cagna si era girata con la testa verso il bosco, era quello il mo-mento. Saltò e si calò velocissimo giù per la corda, dritto sulla schiena della bestia.

Vi atterrò con un grugnito, le mani agili che già stringevano i due lacci intorno al dorso della cagna, legandola a sé in una ru-dimentale imbracatura. Ebbe giusto il tempo per stringere un nodo, che l’alano cominciò a scalciare e a sgroppare, con tale violenza che, nonostante i lacci, il ragazzo dovette impiegare tut-ta la forza delle sue braccia per non cadere. Poi, quando ormai pensava che la bestia si fosse arresa alla sua stretta, la cagna cari-cò a testa bassa nel sottobosco.

Nulla poteva averlo preparato a quell’abbandono di fuga e vento. Correvano. Il sentiero sotto di loro era una biscia infuria-ta, l’orizzonte una ferita luminosa verso cui venivano scagliati a tutta forza, e poi l’impatto del vento nelle orecchie, un frustare di foglie e rami che li sfi oravano, per perdersi subito alle loro spalle.

Magubalik non riusciva a capire dove fossero, tanto rapido era il mutare del paesaggio: un pioppeto intricato d’ombre, colline aride d’argilla, il giallo acre dei campi. Si era quasi abituato a quel furioso incedere quando intorno a lui l’aria esplose di spi-ghe. L’alano si era infi lato in un campo abbandonato e dove pas-sava lei uno zampillo di spighe straziate si alzava nell’aria.

Magubalik chiuse gli occhi, appena in tempo. I cardi delle

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spighe li colpivano come dardi, penetrando a sangue attraverso i vestiti del cacciatore e il manto dell’alano. Ma la bestia non se ne curava: tutto quello che desiderava era liberarsi dell’intruso ab-brancato alla sua schiena. Non era più solo l’onta di essere stata sorpresa a rubare; la sola presenza del cacciatore sporcava la per-fetta solitudine delle sue fughe: mai nessuno, uomo o cane, ave-va osato tanto.

Il cacciatore stava quasi soffocando nell’abbraccio giallo delle messi, quando d’un tratto il cielo gli venne di nuovo incontro, immacolato. Avevano lasciato il campo dietro di loro e adesso correvano sul declivio di un colle di sterpi. Magubalik tossì san-gue, estrasse una spiga che gli si era piantata sul polso, e sgranò gli occhi.

L’alano stava correndo incontro a un macchia di rovi. Un ra-mo basso fendette l’aria all’altezza della sua testa. Con una rapida acrobazia il ragazzo si gettò sotto alla pancia dell’alano, tenendo-si stretto alla sua imbracatura di lacci. Subito rami bassi e fruste rostrate sferzarono l’aria.

L’alano correva a testa bassa evitando come poteva la massa di rovi e arbusti, la sua schiena era già un fl agello di tagli e sottili ferite. Intanto Magubalik faticava a tenersi per le braccia, la terra sotto di lui che scorreva rapida come un torrente. Nella corsa la cagna diede un sobbalzo e la spalla del cacciatore fi nì a strusciare in terra, il cuoio della giacca si polverizzò, e per l’attrito il man-tello prese fuoco. Tenendo la destra ben stretta al suo laccio, ar-meggiò con la sinistra sul fermaglio e se ne liberò.

Il terreno adesso era cambiato, le zampe dell’alano parevano affondare, e senza preavviso una tempesta di sabbia investì il vol-to del cacciatore.

Aveva fatto in tempo a trattenere il respiro, ma anche così po-teva sentire i granelli bianchi infi larglisi nelle nari, sfregiargli le labbra, lottare per penetrare sotto le sue palpebre serrate a forza.

Nella violenza dell’impatto Magubalik sentì che i suoi vestiti si stracciavano e, peggio ancora, che le sue mani stavano perden-

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do la presa. Con uno sforzo disumano, a occhi chiusi, Magubalik issò un braccio intorno alla groppa dell’alano e con un violento strattone si tirò su.

Pulendosi come poteva il viso dall’impasto di sabbia e sangue il ragazzo aprì gli occhi e inspirò l’aria salmastra.

Il mare. Erano arrivati fi no al mare. Correvano paralleli alle acque verdi e luccicanti, su una striscia di spiaggia che si allun-gava fi no a una insenatura rocciosa, lontana. Dove le zampe dell’alano si posavano un getto di sabbia saliva nel cielo in un pulviscolo bianco dando la fantastica illusione che stessero caval-cando una tempesta di sabbia. Nonostante tutto il cacciatore sen-tì le viscere sciogliersi in un brivido di euforia. Lanciò un grido, e vide l’alano alzare la testa in risposta. Era da un poco che l’an-datura della bestia era diventata meno frenetica, come se la cagna si fosse dimenticata di lui e corresse per il solo piacere di correre. Magubalik si levò un guanto con la bocca e mise una mano nuda sul dorso dell’alano. Era bagnato, di sudore e sangue, caldo, un intrico di muscoli che si tendevano instancabili. Poi il cacciatore alzò lo sguardo e vide la parete rocciosa correre verso di loro co-me uno schiaffo di pietra. Era questo dunque: disperata, la cagna si stava gettando contro il promontorio che gli si ergeva davanti.

Lentamente, senza mai staccare la presa dalle redini, il caccia-tore prese ad accarezzare il collo dell’alano, mormorandole al-l’orecchio. La cagna continuava a correre, ma il ragazzo sentiva che la bestia lo ascoltava, il collo teso, il muso dritto in avanti. Piano, così impercettibilmente che all’inizio non se accorse nem-meno, l’alano cominciò a rallentare. Prima la nuvola di sabbia si fece più inconsistente, poi il cacciatore distinse le spume del ma-re, e anche l’impatto dell’aria sul suo viso si alleggerì.

Infi ne il galoppo indiavolato divenne un trotto, un lento ince-dere. L’alano si fermò. Ansimava, il dorso fradicio, la vecchia fe-rita all’orecchio un impasto di nuovo sangue e sabbia. Dolce-mente, piano, Magubalik continuò ad accarezzarla, poi discese, sempre tenendola per quelle redini improvvisate.

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La bestia lo fi ssava con occhi pavidi, attenti a ogni movimento brusco, ma il cacciatore continuava a parlarle piano.

Magubalik si avvicinò ancora e le sfi orò l’orecchio mozzato, i segni degli antichi morsi ancora visibili, strisce bianche che non venivano via. Subito l’alano fece uno scatto all’indietro, negli oc-chi un’altra precipitosa fuga.

Il ragazzo le si fece appresso e, con cautela, prese una fi asca d’acqua dalla sua bisaccia e la versò sulla crosta di sabbia e san-gue, pulendola.

Solo allora la cagna si girò verso di lui e cominciò a leccargli furiosamente le mani; sembrava volesse lavare via qualcosa, l’odore del sangue o quello dei cattivi ricordi.

Magubalik accarezzò la testa dell’alano e dalla sua bisaccia estrasse il bottino, la bistecca rubata.

Si fi ssarono a lungo, uomo e cane.La cagna guardava con la testa di traverso la carne che lui le

tendeva. Magubalik sorrise e gliela porse. L’alano non la toccò e invece, tremando dalle zampe alla coda, si accucciò ai suoi piedi. Il cacciatore si chinò, le prese l’enorme testa tra le mani e la baciò sul muso.

«Da oggi in poi» disse, «il tuo nome sarà Maag».

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QUINDICI

C i mise quasi tre giorni per cavalcare l’alano senza che quello tentasse di disarcionarlo, e solo quando ci fu riu-scito e fu sicuro che la cagna non sarebbe scappata al

primo segno di ostilità, Magubalik la portò al castello.Da allora, tutte le mattine, il cacciatore scendeva in cortile e

sotto gli sguardi di disapprovazione del cuoco e di Zucchillo si metteva a addestrare le due bestie. Non gli bastava infatti che la lupa attaccasse o che l’alano corresse: dovevano essere in grado di agire all’unisono, come una bestia sola.

All’inizio la lupa aveva fi utato l’alano con diffi denza, tenendo-sene in disparte e ringhiando quando quella le si avvicinava troppo. Non sembrava gradire la sua presenza intorno al caccia-tore a tal punto che, se si fosse potuta usare una parola simile per un lupo, si sarebbe detto che era gelosa.

Il gigantesco alano sembrò però accettare di buon grado quel-la distanza. Solo due volte il cacciatore l’aveva sorpresa a posare delicatamente un grande osso, rubato alle cucine, nella tana del-la lupa. Uba non l’aveva toccato ma da allora il cacciatore notò che, sebbene ancora non la lasciasse avvicinare, almeno non le ringhiava più.

Fino a tardi il ragazzo se ne restava in cortile a provare e ripro-vare con l’alano e la lupa salti a comando, il riporto, a insegnargli agguati repentini, assalti inattesi, fi ancheggiamenti di zampate e fughe.

Accadde proprio in una di queste notti che, sbirciando in alto verso la luna, il cacciatore la vide ancora: la sagoma scura di una ragazza, alla fi nestra della torre bassa. Se ne intuiva appena il profi lo nero, come l’ombra di una farfalla intrappolata nel rifl es-

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so di un lume, ondeggiante, incerta. Allungò una mano sul vetro, lunghe dita d’ombra, poi la luce alle sue spalle disparve e la fi ne-stra tornò scura, senza risposta.

Magubalik non si era affatto dimenticato della ragazza nella torre; in quelle settimane di addestramento era anzi un pensiero che non lo lasciava mai completamente. C’era infatti qualcosa di strano nel comportamento degli abitanti del castello di cui, il cac-ciatore ne era ormai certo, riteneva responsabile la prigioniera.

Perché nessuno spendeva mai una parola su di lei? Per essere alloggiata in una torre doveva essere una persona di rango. E se non lo era, a chi allora erano rivolte le lettere che il Conte scrive-va nel corso di lunghi pomeriggi? A chi i libri, i profumi, i gioiel-li che il Conte faceva recare alla torre chiusa? Insomma, chi era quel fantasma vivo?

Solo una volta, durante una cena, il cacciatore osò sfi orare l’argomento. Ci arrivò con una scusa, e cioè che nel periodo del-la sua residenza al castello egli aveva potuto vedere tutte le sue magnifi che torri tranne una. Era forse perché vi custodivano il tesoro di famiglia, o era semplicemente un’ala abbandonata?

La risposta che ricevette fu la stessa di sempre: il silenzio di chi non vorrebbe ricordare e che invece non fa che pensare a quell’unica cosa. Persino l’impassibile Duchessa, a quell’accen-no, aveva alzato l’ala del suo ventaglio per celare un inopportuno rossore.

Così fi nché, quel tardo pomeriggio, il cacciatore si trovò senza rendersene conto sul ballatoio che portava alla torre. Per un atti-mo rimase interdetto, era così immerso nei suoi pensieri che non si era accorto di aver preso la direzione sbagliata. Fece per diri-gersi nuovamente ai suoi appartamenti ma in quel momento sentì un rumore.

Era un suono di vetri infranti, seguito da un urlo di così pro-fonda disperazione da fargli drizzare i peli sulla nuca. Magubalik non ci pensò un attimo, diede una spallata alla porta ed entrò.

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La stanza era affrescata di fi ori, siepi, alberi, che davano l’illu-sione di uno spazio aperto. All’interno, dritta di fronte a lui, una ragazza giovanissima brandiva una boccetta di profumo, che sca-gliò ai suoi piedi.

Di nuovo seguì un grido. La giovane urlava come avrebbe ur-lato un uccello se avesse avuto una gola umana, sulle sue spalle le mani robuste di una fantesca che la scuotevano per farla torna-re in sé.

«Vi prego, non fate così, calmatevi...»Ma la ragazza non si calmava. Afferrava invece ogni oggetto

della stanza lanciandolo con rinnovato furore, un ciclone di rab-bia: libri rilegati, lettere, profumi, gioielli, vestiti seguirono tutti la stessa traiettoria, sfasciandosi sul muro in un fragore di vetri e fogli. Persa in quel marasma la fantesca scorse fi nalmente il cac-ciatore e, scambiandolo per un servo, gli fece cenno.

«Cosa fai lì impalato! Presto, bisogna tenerla giù, prima che incominci a strapparsi i vestiti!»

E infatti la ragazza aveva cominciato a lacerarsi l’abito di broc-cato, tanto che una spalla nuda fece capolino e Magubalik non poté trattenersi dall’arrossire.

«... Perché fa così?» chiese alla fantesca mentre l’aiutava a te-nerla ferma.

«E chi lo sa? Di solito è calma come una morta, poi una volta alla settimana ha queste crisi».

A furia di gentili spinte e meno gentili strattoni riuscirono a adagiarla sul suo letto; ma la ragazza non si calmava, muoveva la testa a destra e a manca con quel mezzo grido strozzato in gola. La fantesca intanto aveva preso dei lacci di cuoio e già la stringe-va forte, immobilizzandola al materasso.

«Che stai facendo?»«Così non si fa male».«Aspetta».E così dicendo il ragazzo afferrò la borsa che teneva a tracolla

e vi prese a rimestar dentro. Il cacciatore sapeva per esperienza

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che un animale ferito non sente ragioni, ma proprio a questo lui aveva un rimedio segreto. Magubalik trasse dalla sua borsa una custodia di pelle. Dentro la custodia c’era un sacco di velluto, dentro al sacco di velluto c’era un fl auto, ma non un fl auto qual-siasi.

Era un fl auto d’osso, ricavato dalla tibia di un Gatto Mammo-ne. Se infatti l’urlo del Mammone uccideva chiunque lo sentisse, la musica che usciva dalle sue ossa calmava e rappacifi cava ogni creatura.

Esistevano solo tre fl auti d’osso di Gatto Mammone al mondo. Uno era custodito da Caterina la Grande che non lo usava mai, il secondo era seppellito sul fondo dell’oceano in un galeone affon-dato dell’Invincibile Armata, il terzo era quello che stringeva in mano Magubalik, dei tre certamente il meno bello, ma di formi-dabile natura quanto lo erano gli altri.

Non appena il giovane ebbe messo le labbra sullo strumento, la ragazza si irrigidì, immobile. Magubalik continuò a soffi are nel fl auto, inseguendo le note una a una. La voce dello strumento assomigliava a quello di una cornamusa: un trillo straziante che cangiava in serpentine fughe e repentini ritorni, raccontando di piogge notturne, di frecce scoccate al buio, di corse fi no all’alba. Magubalik sentì la musica chiudergli le palpebre come fosse una mano di vento. D’un tratto si ritrovò a rivivere un altro luogo, un altro tempo. Correva, correva insieme ai lupi nelle Selve illumi-nate dalla luna, i cervi che al solo vederli già saltavano via in un fi ume in fuga tra i castani senza foglie. Stava ancora correndo dietro a quelle bestie fuggenti quando le ombre degli alberi lo inghiottirono nel nero.

Era ai piedi di un letto adesso, in una camera appena illumi-nata da due rosse candele. Il cranio calvo di suo padre spiccava sul cuscino di lino verde, da sotto le coperte una mano era prote-sa verso di lui. Guardò quella mano che conosceva così bene, la pelle ormai gialla e chiazzata, e vide che stringeva qualcosa, un pugnale con tre lame, nero. Era per lui. Magubalik si avvicinò al

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padre, con il viso calmo e dentro tutto un contorcersi di fresche colpe e rabbie antiche: il vecchio gli sorrise e strinse forte la sua mano.

Come sentì quella stretta le pareti della stanza sbiancarono in un lungo, gelido lampo. Aveva le labbra torpide, spilli di luce negli occhi, e la stanza affrescata della torre era ormai immersa nella penombra del tardo pomeriggio. Eppure, il cacciatore se ne accorse subito, qualcuno gli stava tenendo davvero la mano. Era la ragazza muta, il volto inespressivo, una piega di dolcezza sulle labbra.

Magubalik abbassò il fl auto e si rese conto di non esser solo. Intorno a lui c’erano gli Acquaviva al completo, Torrespacca in-cluso. Addossati alla parete fi orita, sia il Conte che la Duchessa guardavano il cacciatore con un riverbero verde negli occhi, co-me fosse un insetto molesto che andasse schiacciato.

«Da quanto?» chiese rauco.Il fl auto d’osso non era infatti uno di quegli strumenti che

nelle leggende si usano per fermare eserciti o placare belve feroci, la sua era una magia sottile e a doppio taglio, poiché non incan-tava soltanto chi lo ascoltava ma anche il suonatore, perdendoli entrambi in acque profonde.

«Abbiamo sentito la musica provenire dalla torre» disse il Du-ca, ma non riuscì a proseguire. Sfi orava le guance della ragazza con le sue dita da vecchio. «Non ha mai reagito così mia fi glia».

«Vostra...»«Sì, la Duchessina Asprimia».

Da allora tutte le sere, su richiesta del Duca, Magubalik si recava nella torre chiusa per suonare. Si sedeva sul bordo del letto e la-sciava che la musica li trasportasse lontano.

All’inizio lei pareva non accorgersi nemmeno della sua pre-senza, ma non appena il cacciatore apriva l’astuccio del fl auto la ragazza si distendeva sul letto, in quieta attesa. Durante l’esecu-zione, a volte, la mano di lei cercava il suo viso con movimenti

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da cieca, le dita fresche che gli esploravano la gobba del naso, la ruvidezza delle guance, la secchezza della sua bocca. Sempre suo malgrado, Magubalik lasciava fare, e sempre una strana emozio-ne metteva radici in lui.

Cos’erano quei brividi argentini, quei calori, quelle arsure im-provvise che sentiva alle guance, alla bocca, agli occhi?

Dell’amore Magubalik sapeva quello che sanno gli animali: che in un certo periodo dell’anno la foresta si riempiva dei ri-chiami e dei versi di tortore e beccacce, di daini e lupi. Al con-fronto il corteggiamento degli uomini gli sembrava assai più mi-sterioso: non c’erano versi, colori o danze, solo l’ambiguo segna-le di un sorriso, di un’occhiata.

Forse era per questo che era attratto dalla ragazza della torre chiusa. Più che una creatura umana sembrava un animale, inno-cente, una pagina bianca di cui potesse immaginare ogni cosa.

E in ogni cosa lei si rifl etteva, come uno specchio di carne. Asprimia passava infatti gran parte del tempo credendo di essere qualcos’altro. Se guardava una sedia, in breve diventava una se-dia; si chinava per terra e si piegava sulle braccia alzando le gam-be per formarne la spalliera, immobile come fosse di legno. Se la si pettinava con una spazzola, diveniva spazzola lei stessa, met-tendosi a scavare con le dita nelle teste di tutti i presenti. Bastava fi ssasse le stelle di un cielo notturno per vederla volteggiare per la camera con i pugni chiusi, che apriva a intermittenza a simular le stelle. La mattina, se un passero si posava sul davanzale, biso-gnava stare attenti che lei non si lanciasse dalla torre nel tentativo di imitarlo.

L’unico momento in cui tornava a essere se stessa era quando Magubalik suonava. Allora se ne stava senza respiro a scrutare il soffi tto coome uno specchio vuoto. Quando la musica fi niva il cacciatore non poteva fare a meno di osservarla. Si chiedeva co-me fosse stata la ragazza prima del suo incontro con il Mangiano-mi, e a questo proposito cominciò a far domande agli Acquaviva.

Fu come aprire una diga. Torrespacca, il Duca di Acquaviva e

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sua moglie lo inondarono di racconti. Le dissero delle sue caval-cate improvvise, dei suoi capricci inopportuni, della rarità dei suoi sorrisi. Ma anche dei suoi scoppi di generosità, del suo sen-so di giustizia, della sua strana perspicacia. La descrissero come si descrive una persona assente e amata, i cui pregi e i cui difetti sembrano ingigantirsi nella distanza.

Magubalik non capiva come si potesse essere testardi e remis-sivi, astiosi e pronti al perdono, cupi e sorridenti. Eppure non c’erano dubbi: tutti la descrivevano così, un nodo di contraddi-zioni.

Confuso, Magubalik decise che si sarebbe fatto una sua opi-nione. Se da Asprimia non poteva cavare parola, per leggere in lei aveva pur sempre un aiutante infallibile: il suo corpo.

Cominciò con le mani. Erano lunghe, affusolate, e con le pun-te delle dita minuscole. Magubalik le impresse dentro di sé con tale accuratezza che avrebbe potuto disegnarle a occhi chiusi. Si convinse che erano mani orgogliose, pronte a colpire, ma anche a trattenere altre mani e a stringerle a sé. Di certo non aveva mai visto nulla di così bello.

Poi scoprì le sue spalle. Erano tornite, di un incarnato unifor-me e morbido. Parevano tese a sopportare un peso insostenibile, ma lui le immaginava leggere, scosse da un riso sommesso e di-screto. Cos’erano le sue mani a confronto di quella curva morbi-da? Per ore Magubalik sedeva nella sua camera tracciandone la linea nell’aria.

Era ormai convinto che nel creato non vi fosse nulla di para-gonabile, quando si accorse del suo collo. Sembrava che il cac-ciatore non avesse mai visto un collo in vita sua, tanto era lo stupore che gli arrossava il volto mentre lo osservava. Bianco, sottile, punteggiato da piccole vene azzurre, fi umi turchini che affl uivano al suo viso. Nel sonno si piegava sulla sinistra, dando-gli qualcosa di fragile e precario. A volte invece se lo fi gurava dritto come il gambo di un girasole, pronto a fronteggiare ogni astro avverso.

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Nessuna di quelle scoperte però fu tanto sconvolgente quanto il suo volto. Era una mappa, la geografi a di un continente nuovo che egli esplorava con lo spirito di un avventuriero: il promonto-rio del suo naso, l’altopiano delicato della sua fronte, le lisce col-line delle sue guance.

Nella sua presunzione Magubalik si convinse che nessuno aveva compreso Asprimia meglio di lui. La sua saccenteria, i suoi capricci, erano i sintomi di un’anima bisognosa di amore e schiacciata dall’indifferenza. Ogni tratto del suo viso lo indicava con chiarezza, il naso volitivo, la fossetta dubbiosa, quella picco-la cicatrice oltre il sopracciglio e, naturalmente, il suo orecchio storto.

Vagando per quelle terre sconosciute Magubalik si smarriva, ignaro delle ore che passavano. Gli occhi di lei trattenevano ac-que in cui affogava con gioia: a volte calmi come in bonaccia, altre accesi del riverbero della sua musica, oppure scuri come una notte profonda.

Il cacciatore amava quel viso, lo amava tutto, dalle ciglia alla punta del naso, dalla fronte alle labbra sottili, anche il suo orec-chio pendulo. Soprattutto quello, poiché vi leggeva ostinazione e fragilità, disincanto e passione, l’unico difetto del suo viso perfet-to e quindi l’apice imperfetto della sua perfezione.

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SEDICI

Uba e Maag combattevano. Scartavano con violenza, si inseguivano per un tratto di roccia e poi giù, a rove-sciarsi a morsi in un groviglio di zanne, che era impos-

sibile stabilire chi stesse vincendo.Un fi schio interruppe il gioco. I due animali si tirarono su e

scattarono festosi verso la fi gura incappucciata che li chiamava dal colle. La prima ad arrivare fu Maag, una saetta di pelo e zam-pe, poi giunse Uba, il muso umido che già si intrufolava nella mano aperta del cacciatore.

Il ragazzo si chinò e le due cagne si rotolarono ai suoi piedi. Era con loro da poco meno di un mese e poteva già dire di non aver mai visto bestie simili. Nell’orgoglioso distacco della lupa, nella fame di fughe dell’alano, Magubalik riconosceva un colore aspro che sapeva suo. Era strano, come essere madre e padre al contempo, più di un amico, più di un padrone: per la prima vol-ta nella sua vita Magubalik si sentiva totalmente responsabile per qualcuno.

Quello che gli mancava adesso era un puntatore, un terzo ca-ne che potesse sentire la loro preda a qualsiasi distanza, e proprio questo terzo egli non riusciva a scovare. Finalmente però, dopo un mese di ritardi e di scuse, la muta di cani che Torrespacca gli aveva promesso era giunta al castello di Acquaviva. Una cosa era certa: se non lo avesse trovato, la caccia al Mangianomi sarebbe stata la più breve della sua vita.

Il canile risuonava di un continuo, furioso latrare.Magubalik passò tra le schiere di cani come un generale in

visita al suo esercito. In mano aveva un panno su cui era stato

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strofi nato del sangue di cinghiale. Il panno era stato successiva-mente lavato, inzuppato nel vino, nell’aceto, cosparso di profu-mo e messo a bollire per mezza giornata. Solo il naso più raffi na-to del miglior segugio avrebbe potuto sentire l’odore del cinghia-le. E proprio di un cane simile il cacciatore aveva bisogno.

Torrespacca lo seguiva passo passo mentre si prodigava in mille consigli. Da tempo Magubalik aveva imparato che la genti-lezza di Torrespacca andava di pari passo con la sua antipatia: più qualcuno gli stava antipatico, più Torrespacca cercava di es-sere gentile con lui.

«È assurdo vi dico, nessuno lo fi uterebbe mai».«Non cerco un cane comune».«Allora considerate l’alsaziano, quello con la macchia bianca,

è un fi utatore formidabile, per non parlare di come scava, solo l’estate scorsa ha stanato tre tassi».

«Torrespacca, il Mangianomi non è un tasso».Il Conte fece per rispondere piccato, ma in quel momento un

piccolo segugio color tabacco e dotato di lunghissime orecchie, si mise a latrare dal fondo del canile.

Magubalik si avvicinò a lui e agitò lo straccio. Che sentisse l’odore del cinghiale? Improbabile, visto che il cane era girato e latrava col muso contro la parete.

«Cos’ha?» chiese il cacciatore.«Lasciatelo perdere quello. È pazzo, avevo dato ordine ai miei

servi di abbatterlo».«Pazzo?»«Abbaia come un forsennato per cose inesistenti. Se non fosse

un animale direi appunto che ha le traveggole».E in effetti non appena aveva sentito la voce del cacciatore il

segugio aveva srotolato quelle sue immense orecchie e le aveva volte verso di lui, gli occhi nocciola accesi di una strana fi ssità.

«Come si chiama?» chiese il giovane.«Muccio, ma non risponde come gli altri cani. Guardate: ehi,

Muccio bello, vieni qui!» urlò Torrespacca.

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A quel grido subito il segugio si acquattò a terra e nascose la testa sotto le zampe, uggiolando disperato.

«Vedete? È pazzo».Il cacciatore non disse nulla, e si avvicinò invece al cane che

tremava di un fremito incontrollabile. Mentre gli accarezzava la testa il segugio alzò gli occhi acquosi e prese a leccargli le mani.

«Non mi piace vedere una bestia soffrire così» disse Maguba-lik. «Vi prego di farlo abbattere quanto prima».

«Certo, certo, provvederò».

Il Conte lo condusse fuori dal canile.A lungo Magubalik rimase con lo sguardo perso nella polvere

del cortile. Sapeva che la pazienza degli Acquaviva stava per fi ni-re e adesso, con l’arrivo dei cani del Conte, anche l’ultima spe-ranza si dileguava.

«Eccellenza, Eccellenza!»Il ragazzo si girò e vide che un messo a cavallo, entrato dal

ponte levatoio in tutta fretta, si dirigeva al trotto verso il Conte di Torrespacca.

«Eccellenza, porto un messaggio da parte del Balisto».«Non è una faccenda grave spero?»«Gravissima, Eccellenza, il Mangianomi...»«Ancora?»«... è entrato in paese».«Cosa dici?!»«Sì, Eccellenza, il Balisto mi ha chiesto di riferire il messaggio

direttamente a voi e al Duca».Per un attimo sembrò che il volto incipriato del Conte doves-

se svanire, tanto era diventato pallido. Poi si riprese e chiese.«La bestia, il Mangianomi, è ancora in città?»«No, Eccellenza».«Ha fatto altre vittime?»«No... non proprio, Eccellenza».«Come ‘non proprio’? Spiegati!»

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Il messo impiegò tre respiri per scegliere con cura le sue pa-role.

«Il campanile, Signor Conte. Ha preso il campanile. Tutta la chiesa a dire il vero».

«Non capisco... Il campanile, è sparito?»«No, c’è ancora, ma è come... come se non ci fosse, non so se

mi spiego. La gente guarda in alto e vede... cose: chi un dente gigante, chi un albero di pietra, chi un fungo mostruoso. Per me era una faccia immensa con due orbite nere, vuote. Nessuno rie-sce a capire come sia successo...»

Torrespacca gemette e guardò oltre le mura, mormorando tra sé: «... Ci cancellerà casa dopo casa... abitante dopo abitan-te... fi n quando non ci sarà rimasto nulla... nemmeno il nome».

«Non è tutto, Signor Conte».«Che altro!»«Quando il Mangianomi ha toccato la torre, le campane si

sono schiantate a terra. Hanno fatto un frastuono terribile, l’inte-ro paese è sceso in piazza».

«E questo è accaduto...» si intromise il cacciatore.«Poco fa, ho corso come il vento, Eccellenza».Magubalik e il Conte si guardarono: il Mangianomi non aveva

mai attaccato in pieno giorno.«Riferisci al Balisto che avvertirò personalmente il Duca» dis-

se il Conte.«Sarà fatto» disse il messo e spronò il cavallo.«Aspetta!» gridò Magubalik, che era stato folgorato da un’in-

tuizione.«Signore?»«In che direzione è il campanile rispetto al castello?»Il messo lo guardò perplesso, poi alzò il braccio verso il canile.«Di là, Signore».«È quanto volevo sentire! Dite al Balisto che manterrò la mia

promessa».L’uomo fece un cenno di assenso e partì al galoppo.

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«Non capisco» disse il Conte, «non avevate detto di aver biso-gno di tre cani per partire in caccia?»

«Ce li ho infatti!»«E qual è il terzo?»Ma il cacciatore non poteva rispondere perché era troppo in-

daffarato a correre verso il canile. Entrò in un lampo, ma ne riu-scì subito, trafelato.

«Dov’è Muccio?» chiese prendendo il Conte per le spalle.«Come? L’ho fatto abbattere da un servo come avevate detto

voi!»Magubalik lanciò un grido di rabbia.«Dov’è questo servo? Forse siamo ancora in tempo!»«Io... io non lo so...» balbettava il Conte, fi ssando il cacciatore

come se questi fosse impazzito.«Dove?»«Ma credo qui... credo qui dietro, vicino alle scuderie».Magubalik si volse in quella direzione, le mani a coppa intor-

no alla bocca.«Muccio!» gridò.«Cosa fate? Se anche il cane fosse ancora vivo non potrebbe

udirvi».«Voi dite?»E infatti, dal fondo nel cortile una sagoma correva verso di

loro con le orecchie al vento. Era Muccio, inseguito da un servo inferocito con un coltellaccio in mano.

«Il vostro segugio non è pazzo. Quando le campane sono ca-dute in paese Muccio le ha sentite. È per questo che abbaiava verso la parete».

«Ma com’è possibile? La città dista almeno otto leghe ed era-vamo al chiuso».

«Non lo so. Ogni mille cani ne nasce uno che è diverso. Più veloce degli altri, come Maag, o più forte, come Uba. Muccio ha in dono un udito così fi ne che per lui la caduta di uno spillo è come un battito di mani».

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«Sciocchezze!»«No. Era per questa ragione che si copriva la testa. Se ha udito

il rumore delle campane a quella distanza, immaginate cosa ha sentito quando voi gli avete urlato contro...»

Come vide Torrespacca e il cacciatore, il servo si fermò sui suoi passi, basito. Il Conte fece un cenno di congedo, l’uomo ri-spose con un inchino e si allontanò.

In quel mentre il segugio arrivò in mezzo a loro. Era poco più di un cucciolo e scodinzolava festoso mordendo gli stivali del cacciatore e azzuffandosi da solo nella polvere. Magubalik lo ac-carezzò sul muso e gli sorrise, poi il Conte urlò: «A cuccia Muc-cio, a cuccia!»

Fu come se lo avesse preso a calci. Il segugio guaì, rotolò di fi anco, e si appiattì con le zampe sulla testa. Il cacciatore si girò di scatto verso il Conte, la faccia bianca e i pugni stretti. Infi ne esalò un sospiro, prese il pezzo di stoffa che aveva ancora in ma-no e lo avvolse a mo’ di cappuccio intorno alle orecchie del se-gugio.

«Questo attutirà i suoni almeno un po’».Il cane sgranò gli occhi. Muoveva la testa avanti e indietro, e

abbaiava felice in tutte le direzioni, come per provare il suono nuovo della sua voce.

«Torrespacca, me lo cedete?»«Certo, io... di buon grado».«Bene» e così dicendo il ragazzo tirò a sé la testa del segugio e

gli sussurrò: «Tu, sarai la mia guida, il mio cercatore. Il tuo nome non è più Muccio. Da ora in poi sarai Lik».

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DICIASSETTE

Lasciò il castello poco dopo l’alba. Aveva avuto tutto il giorno prima per equipaggiarsi al meglio e preparare i tre cani. L’addestramento di Uba e Maag era ormai conclusa,

e quanto a Lik non ce n’era il tempo. Doveva fi darsi del suo istin-to di segugio, sebbene questa volta avrebbe seguito la preda ascoltando e non fi utando.

Per attenuare il suo straordinario udito Magubalik aveva fatto tessere un cappuccio che gli tappava le lunghe orecchie, e di cui all’occorrenza poteva liberarsi con uno scatto della testa. Se mai riconoscenza s’era vista in un cane, era quella che brillava negli occhi del cucciolo ogni volta che guardava il cacciatore. Bastava che il ragazzo sussurrasse a se stesso un pensiero ad alta voce che Lik arrivava come se lui lo avesse chiamato, non importava in quale punto del castello egli si trovasse. Il segugio entrò nella compagnia come il pezzo mancante di un mosaico. Se l’alano aveva zampe sagge di fughe e la lupa zanne forti di molte lotte, Lik pareva fatto di puro ascolto. Non un passo d’uomo, non un abbaio lontano, o il volo di una mosca sfuggivano alla sua atten-zione. Sempre distratto da suoni nuovi, Lik aveva l’aria assente dei sognatori e l’irrequieta timidezza dei bambini.

Fu questo forse, più di tutto, a conquistare le due cagne. In poche ore, dopo una breve ed effi mera diffi denza, l’alano e la lupa avevano adottato il cucciolo quasi fosse il loro, e adesso lo viziavano con leccatine e colpi di muso come due vecchie zie.

Vedendoli insieme, la lupa e l’alano e il segugio che si rincor-revano per il cortile, Magubalik ebbe una folgorante intuizione: che tutta la sua vita era stata solo il prologo, l’antefatto necessario per arrivare a quell’alba davanti ai suoi cani e alle Selve.

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La sera prima della partenza Magubalik aveva preso commia-to da Asprimia, suonando per lei un’ultima volta. Quello, non c’erano dubbi, era un addio. In qualsiasi modo fossero andate le cose lei sarebbe andata promessa a qualche nobile del Regno di Napoli e lui avrebbe continuato la sua vita di vagabondaggi nelle foreste.

Quando ebbe fi nito di suonare il cacciatore sentì come se l’ul-tima nota gli si fosse messa di traverso, e non accennasse a usci-re. La ragazza gli aveva preso la mano, ma con un’insistenza nuo-va, quasi intuisse qualcosa. Magubalik aveva dovuto liberarsi con gentilezza da quella presa, un dito alla volta, un gesto che gli risultò assai penoso.

Infi ne si era abbassato verso i suoi occhi strani e innocenti, si era chinato sulla sua fronte e l’aveva baciata. Un tremore aveva attraversato le labbra della ragazza. Era durato solo un attimo, ma per Magubalik era stato come se lei avesse sussurrato: «... Torna».

Il cacciatore entrò nei boschi seguito da tre lunghe ombre.A tracollo aveva un archibugio, alla cintura un corno di polve-

re da sparo, nella mano il suo bastone con dentro nascosto Ta-gliaferro. Quello e una bisaccia con una lanterna e dei viveri, erano tutto il suo equipaggiamento.

Camminarono a lungo nel sottobosco poi, senza preavviso, si trovarono nelle Selve. I tre cani si strinsero intorno a lui rin-ghiando col muso rivolto ai boschi.

Magubalik chiuse gli occhi e cercò di fare il vuoto dentro di sé lasciando scivolare via le acque tetre della sua paura. Avanzò di un passo e spalancò gli occhi. I peli sulle braccia gli si rizzarono, dritti come spade.

«Per il Creatore» disse.Gli olmi intorno a lui piangevano. Era un pianto di rami e

fruscii, di radici che raspavano su roccia, di terra smossa e silen-zio. I nodi di legno erano occhi da cui scendevano lacrime nere, pioggia orrenda; le labbra di muschio degli alberi boccheggiava-

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no, bianche come quelle degli annegati e gonfi e di rugiada. Sotto di lui il terreno vibrava di quel lamento, i cespugli del sottobosco si contorcevano, aggrovigliandosi in forme che sorridevano den-ti putridi.

In quel momento una di quelle nere lacrime fi nì sulle sue dita. Magubalik le ritrasse, scottato. Subito la mano si mosse come fosse dotata di una sua orrenda vita. Le sue dita erano divenute appendici estranee, vermi senza bocca che reclamavano cibo, ra-spavano, raspavano sulla sua faccia con l’intento di cavargli gli occhi, affamate. Senza nemmeno accorgersene il cacciatore affer-rò Tagliaferro con l’intenzione di amputarsele.

Poi Lik guaì e il giovane tornò in sé. La sua fronte era madida, le braccia gli tremavano. Si guardò la mano. Erano le sue stesse dita di sempre. Il cacciatore prese una decisione repentina, strap-pò un pezzo di stoffa dal suo mantello e se la annodò davanti agli occhi. Con cautela salì sulla groppa dell’alano, diede un colpo coi tacchi, e s’inoltrò al trotto nei boschi.

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DICIOTTO

V iaggiarono così, in un silenzio stregato, senza mai so-stare.

Se fossero stati soli certamente i cani si sarebbero per-duti in quel labirinto di forme liquide, o forse sarebbero diventa-ti anche loro come tutto ciò che li circondava, senza nome; inve-ce il vincolo che li legava tra loro e al loro padrone li tenne uniti, una freccia canina scagliata dritta al loro nero bersaglio.

A volte il cacciatore doveva condurre alla cieca Maag attraver-so il bosco, con piccoli strattoni e ordini sussurrati. Più spesso però era la cagna a condurre lui, seguendo quello stesso istinto che per tanti anni le aveva permesso di sopravvivere ai margini del mondo degli uomini.

Magubalik non aveva un piano per raggiungere la sua preda, sapeva bene che la sua esperienza di cacciatore non serviva a nulla in quei boschi d’incubo. Non su orme, su sentieri battuti, su odori o carcasse di prede abbandonate poteva fare affi damen-to per trovare la sua bestia. L’unica speranza che avevano era addentrarsi nelle profondità delle Selve e farsi attaccare.

Fu dopo un’intera giornata di trotto che l’alano si fermò, di col-po. Il ragazzo avvertì un odore di muschio e pietrisco, ben diver-so dall’aria putrida delle Selve.

Con cautela Magubalik scese dalla groppa dell’alano e si sfi lò la benda dagli occhi. Erano al centro di un boschetto di querce morte, calve e senza foglie.

Per un attimo il ragazzo rimase interdetto. Erano forse usciti dalle Selve? Le querce che aveva davanti parevano più grandi del normale ma comuni e tuttavia quella sensazione sgradevole per-

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maneva, come se l’essenza stessa della luce fosse stata sottratta a tutte le cose. Guardingo Magubalik si fece avanti in mezzo agli alberi, in cerca di un qualsiasi segno del passaggio del Mangia-nomi.

I fusti erano enormi, non ne aveva mai visti così, dovevano avere più di un secolo, il ventre cavo spolpato dal tempo, la su-perfi cie piena di grossi buchi irregolari, bocche immobili. Il ra-gazzo passò una mano sulla corteccia e la ritrasse. Era di pietra.

Il cacciatore guardò meglio la quercia che aveva davanti, e si accorse allora che quelli che aveva creduto fossero buchi erano in realtà fi nestre. I rami stessi non erano di legno, bensì di calce e mattoni, l’interno cavo era rivestito di grosse piastrelle. In bas-so si apriva persino una minuscola porta, deformata.

Non erano alberi. Erano case.Magubalik si voltò. La quercia alla sua destra, quella che si

protendeva al di sopra di un profondo fosso, era un ponte. Il cacciatore la percorse in preda alla più grande meraviglia. Sotto i suoi piedi poteva vedere i punti dove la metamorfosi non era completa, le sagome dei blocchi nella corteccia, l’arco che si pro-pagava dalle radici.

Un intero paese abbandonato, con case, fontane, e chiese, si era trasformato in un bosco di querce. Le rovine e le pietre, per-dendo il proprio nome, avevano riprodotto i boschi che li cir-condavano. Fu allora che si accorse delle luci; venivano dall’in-terno di un albero-casa, al centro della radura.

Sul l’al tro lato dello spiazzo si ergeva infatti una quercia così alta da sovrastarle tutte. Era bianca come il marmo, con fi nestre a bifora che occhieggiavano verso un interno affrescato, e non si faceva fatica a capire che un tempo era stata una chiesa. All’inter-no grappoli di candele di pietra fi orivano sulle pareti e si apri-vano a intermittenza, come lucciole.

Incuriosito il cacciatore entrò, e i suoi passi riecheggiarono nel silenzio.

Si sentiva ancora odore di incenso e polvere. Su in alto, il ra-

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gazzo intravide le immagini di santi sbiaditi sulle pareti grinzose. I fi ori erano candele che si accendevano e si spegnevano, stelle timide che si schiudevano al suo passaggio. Bastava infatti un gesto del suo braccio perché l’intera parete rilucesse. L’edifi cio sentiva il calore del suo corpo e rispondeva di conseguenza, in un tremolio di fi ammelle.

Forse non tutto quello che perdeva il proprio nome perdeva la sua bellezza, pensò il ragazzo, e la sua mente stava indugiando sul ricordo di Asprimia quando inciampò su qualcosa.

Guardò in basso: era l’osso di un braccio, lungo e bianco.Rapidissimo, Lik arrivò di corsa e lo strattonò per la giacca.

Magubalik vide appena in tempo una radice di pietra uscire dal muro, dritta verso la sua testa. Alzò il bastone deviando il colpo in alto, poi estrasse Tagliaferro dall’impugnatura.

Già i fi ori luminosi si stavano spegnendo uno a uno, poi la corteccia della quercia si chiuse in un abbraccio di mattoni e vi-ticci terrosi, intombando lui e il segugio. Troppo tardi il cacciato-re si gettò con pugni e calci sulla corteccia, ormai solida come un muro. Erano intrappolati, tagliati fuori dagli altri due cani. Subi-to la superfi cie terrosa si animò in un formicolare di radici e rami.

Lesto, Magubalik roteò il pugnale tranciando via le radici che gli aggredivano la faccia, mentre Lik abbaiava contro quei rostri uncinati strappandoli a morsi dai muri.

Il cacciatore continuava a dare stoccate a destra e sinistra, e monconi di radice si agitavano sul pavimento schizzando via co-me bisce senza testa. Finalmente libero il cacciatore indietreggiò, non accorgendosi di un ramo che dal basso gli uncinò il piede.

Cadde. Non appena fu a terra i viticci lo avvilupparono come ragnatele troppo zelanti. Facendo appello a tutte le sue forze il cacciatore cercò di rialzarsi, ma per ogni laccio che tagliava altri lo stringevano, e anche il segugio era ormai intrappolato in una morsa di legno.

Si udì un rimbombo di terra smossa e il cacciatore alzò il ca-po. Due grosse zampe, così veloci che se ne intravedeva appena

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lo scintillio delle unghie, stavano scavando in gran fretta un buco nella parete.

Uno spruzzo di terra e aria li investì, poi dalla fenditura ap-parve il muso della lupa bianca, che si gettò con tutto il suo peso contro la corteccia. Ed ecco, dalla nuova apertura una macchia canina saltò in mezzo a loro. Magubalik fece appena in tempo ad afferrare il segugio per la collottola che Maag schizzò via, solle-vandoli in mezzo al frustare cieco delle radici.

Come furono all’aperto il cacciatore atterrì. L’intero querceto si era animato di una sinistra vita, muggendo scricchiolii come se una tempesta furiosa lo agitasse tutto. Ma non c’era vento: per l’aria solo quei versi orrendi, cupi, in mezzo all’ondeggiare delle case, alle fi nestre boccheggianti, alle radici protese. Rami enormi, ibridi di pietra e legno, venivano giù su di loro e solo la velocità dell’alano gli fece salva la vita. Maag zigzagava come una saetta, senza fermarsi, schivando e saltando i micidiali arti che cadevano dall’alto come martelli da guerra.

A ogni colpo a vuoto la terra stessa tremava, lasciando crateri, buche, ferite nere nella terra viva. Agile, l’alano si gettò in una corsa di fi nte e scatti, la lupa che gli veniva dietro come poteva, latrando. Percorsero in fretta e furia il ponte, e l’avevano già qua-si attraversato quando videro che l’arco di pietra si arricciava su se stesso. Il ponte gemette, poi si alzò come una proboscide di legno, scagliandoli all’indietro.

A un ordine secco del cacciatore l’alano si accucciò schivando un’enorme radice, e saltò dal ponte. Atterrarono su una collinet-ta d’erba e terriccio e lì stettero, ormai al sicuro fuori dalla città.

Le case-querce gemettero ancora nell’aria; l’oscillare di quei rami divenne un fruscio; poi, il silenzio.

Accese un fuoco sul limitare delle rovine.Adesso sapeva: la Città Fiorita non era uno spettacolo per

viandanti, ma una trappola mortale. Aveva sentito di piante che si nutrivano di piccoli insetti, attirandoli con colori e profumi; forse

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la Città era stata posta sul loro cammino dal Mangianomi; o forse le rovine non avevano solo ricalcato l’aspetto delle querce, ma anche gli istinti predatori degli animali che vi avevano abitato. Tuttavia, per quanto pericolosa fosse, la Città Fiorita era un’oasi. Meglio dormire in mezzo a quelle querce assassine che perdere la ragione vagando nei boschi.

Magubalik prese dallo zaino la sua razione di carne secca e la divise equamente tra sé e i cani. Erano partiti da nemmeno un giorno e già gli avevano salvato la vita più di una volta; adesso giacevano esausti e un po’ tristi tra lui e il fuoco. Il cacciatore era stanco ma sapeva che non poteva permettersi di dormire. Aveva fasciato bene le ferite sue e del segugio, ma in quelle Selve chissà quali creature avrebbe potuto attirare l’odore del suo sangue.

Tirò fuori il fl auto d’osso. Per la durata di un respiro fi ssò lo strumento che aveva in mano. Cosa avrebbe suonato?

Quando era con la ragazza della torre attraverso la musica del fl auto aveva raccontato di boschi e di caccia. Adesso, in un posto come le Selve, boschi e predatori erano l’ultima cosa a cui voleva pensare. Un’immagine nitida gli si formò invece nella mente: due occhi profondi, isole chiare in un lago nero di capelli.

Appoggiò le labbra al fl auto e diede la prima nota. La musica si alzò nel silenzio, e il ragazzo si perse nei ricordi di lei.

Qualcuno latrava accanto a lui.Magubalik si riscosse e abbassò il fl auto. Il piccolo segugio si

era tirato su e ululava. Anche l’alano e la lupa erano all’erta, le orecchie all’indietro e gli occhi vigili.

Il cacciatore afferrò l’archibugio e lo armò. Non vedeva nulla al di fuori delle ombre che si agitavano ai limiti del bivacco. Pre-se un ramo secco e lo buttò nel fuoco. Subito la fi amma si ravvi-vò illuminando lo spiazzo buio che li circondava. Dita di fronde, facce di corteccia e un sussurro di vento. Non c’era nessuno. Ma poi, quando aveva quasi abbassato l’arma, lo sentì.

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Un pianto. Era un lamento da gelare il sangue, né d’uomo né di bestia, simile al pianto degli olmi ma mille volte più doloro-so, così carico di angoscia che a sentirlo Magubalik rabbrividì. Aveva suonato il fl auto d’osso e il Mangianomi gli era venuto incontro.

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DICIANNOVE

Un tremito gli strisciò nelle gambe. Con un gesto levò il cappuccio di Lik, liberandogli le orecchie.

«Lik» sussurrò. «Questo suono, tienilo a mente».Il segugio diede un guaito di assenso. In quel momento si

sentì un rumore di frasche, e una sagoma nera entrò nella cerchia del fuoco.

Magubalik reagì nell’unico modo possibile. Chiuse gli occhi, alzò l’archibugio, e sparò. Il colpo rintronò nei boschi. Quando il cacciatore aprì gli occhi l’odore della polvere da sparo aleggiava ancora nell’aria, ma del Mangianomi non c’era traccia.

«Maag!»Sparpargliò il fuoco con un calcio, si bendò gli occhi, e salì in

groppa all’alano; un momento dopo stavano già correndo in mezzo alle Selve.

Schizzarono via tra gli alberi mostruosi delle Selve. Bisbigli, dita di rami e unghie di rovi li assalivano da ogni parte laceran-doli e graffi andoli, ma ogni volta Lik li conduceva senza incertez-ze, dritti verso la preda, sempre più vicina.

Infi ne l’aria intorno a loro si fece più calda, e il cacciatore si accorse attraverso la benda che il sole era ormai sorto. C’era un suono nuovo nell’aria, un rombo che si faceva sempre più forte. Maag fece uno scarto improvviso e si fermò.

Con un gesto il cacciatore si slacciò la benda che si era legato in viso. Erano sul greto di un fi ume di montagna, una grande fenditura rocciosa che tagliava il bosco in due. Sia il fi ume che gli alberi che gli stavano intorno sembravano normali, piccoli faggi sottili che si allungavano nel cielo della mattina. Lik gli si avvici-

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nò con la testa bassa e gli leccò la mano. Il ruggito del fi ume era tanto forte da coprire il pianto del Mangianomi. L’avevano perso.

Il ragazzo imprecò sottovoce e si mise a caricare di nuovo l’ar-chibugio, per ogni evenienza. Era a metà dell’opera quando se ne accorse. Per un attimo credette fosse il riverbero dell’acqua a dar-gli quell’impressione, invece no. Strizzò gli occhi e li riaprì, ma la scena era ancora la stessa. Un gruppo di faggi correva verso di lui. I tre cani cominciarono a ringhiare.

Non c’era da sbagliarsi. Vedeva chiaramente i fusti degli alberi avvicinarsi, strisciando, radici divelte per gambe, cinque o sei braccia di legno ciascuno: due fi le di alberi ingobbiti marciavano verso di loro come fossero un esercito.

Un’altra delle trasformazioni delle Selve? Un trucco del Man-gianomi per confonderli? Non aveva più importanza. Il cacciato-re e i suoi cani avevano appena cominciato a scendere verso il fi ume che la carica di faggi li travolse in pieno.

L’odore della terra e del muschio gli entrò in gola. Nel polve-rone Magubalik fece in tempo a distinguere le sagome dei fusti. Assomigliavano a tanti soldati: menti prominenti, lance di rami appuntiti, corazze di corteccia ed elmi di muschio. Erano alberi che credevano di essere uomini? Oppure i militi del Balisto che, privati del loro nome, si erano tramutati in faggi?

Non lo avrebbe mai saputo. Fece in tempo a gridare il nome dei suoi cani, poi una mano di radice lo colpì in pieno petto sca-raventandolo nel fi ume.

L’acqua era gelida.Magubalik nuotava avvinghiato al suo bastone. Le acque del

fi ume erano però troppo vorticose e sia lo zaino che l’archibugio a tracolla gli erano d’impaccio. Provò a liberarsene, ma il fi ume lo aveva spinto verso una serie di piccole rapide. Cercò di ag-grapparsi col bastone a qualche ramo di passaggio ma continua-va a roteare senza controllo, bevendo acqua. A tratti sentiva un

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latrare lontano, i cani lo stavano cercando, poi la velocità della corrente diminuì.

Incominciò a nuotare verso la riva, mancava poco ormai, il fondo era basso e con i piedi poteva spingersi facilmente in avan-ti. Fece un ultimo sforzo dando un colpo col bastone e allora si accorse del dislivello.

Da dove si trovava poteva vedere tutta la vallata circostante. Il rumore del fi ume era più forte. Non più uno scrosciare insisten-te, ma un urlo profondo e vibrante: si trovava sul bordo di una cascata.

Il cacciatore raddoppiò gli sforzi. Invece di ostacolare la cor-rente prese a sfruttarla, utilizzandone lo slancio per spingersi in direzione dei rami che si sporgevano verso di lui. Ancora dieci piedi, otto, due...

Solo all’ultimo si rese conto di aver preso troppa velocità. Il ramo gli venne incontro come una randellata in pieno mento.

Un lampo bianco, poi nul l’al tro.

Era umido.In sottofondo, qualcuno parlava fi tto fi tto.«Secondo me bisognerebbe lasciarlo stare» disse la prima voce.«Secondo me sei un idiota. Non vedi che si sta congelando?»

fece la seconda.«È solo svenuto» aggiunse una terza.«E se fosse morto?»«Hai mai visto un morto avere i brividi?»«Tiriamolo dentro».«Per cosa?»«Allora sei mono!»«Pensavo al tressette, no?»«Pensi mai ad altro?»«Tu ricordati che mi devi ancora due prosciutti e una bottiglia

di Borgogna».«Va bene, adesso però stai zitto e aiutami».

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Qualcuno lo sollevò, ma quasi non se ne accorse tanto era intorpidito. Svenne di nuovo. Quando si svegliò stava disteso davanti a un caminetto acceso.

Nelle mani semiassiderate stringeva ancora il suo bastone. Era troppo irrigidito dal freddo per parlare o muoversi, ma poi lenta-mente il calore del fuoco si fece strada dentro di lui intiepiden-dogli le gambe e le braccia. Riaprì gli occhi, e intravide un tavolo e delle sedie in una stanza spoglia dalle pareti in legno, l’interno di un casino di caccia.

Tre fi gure erano sedute intorno al tavolo e lo osservavano. Portavano tutti e tre dei grossi cappelli, con tanto di piume e pen-ne, e vestivano con giacche rabberciate e calzoni alla guascona.

Ma qui fi niva ogni somiglianza con un essere umano.Perché i tre, a dirla tutta, erano lupi.Più piccoli di Uba, ognuno di loro aveva il pelo di un colore

diverso: uno era bigio, uno fulvo e l’altro argentato.Al momento stavano distribuendo le carte da gioco, aiutando-

si goffamente con le zampe e con la bocca. Non appena il lupo argentato vide che il ragazzo aveva aperto gli occhi, gli rivolse un sorriso tutto denti.

«È sveglio».«Deve avere una tempra dura» rispose il fulvo.«Potremmo fargli fare subito una mano, per scaldarci» ag-

giunse il bigio.«Aspetta che si riprenda un po’».«Venite, venite» gli si rivolse il fulvo. «Sedetevi qui con noi e

bevete un buon bicchiere di Borgogna».Magubalik scosse il capo, frastornato. Di lupi ne aveva uccisi,

cacciati, scuoiati, persino addestrati, ma non ci aveva mai giocato a tressette. Barcollò verso una sedia e si sedette, la testa che anco-ra gli girava. I lupi lo stavano osservando con attenzione metico-losa e Magubalik capì che lo studiavano con occhi da predatori.

«Da... da quanto sono qui?»«Vi abbiamo ripescato due ore fa sulla riva del fi ume. Se non

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foste rimasto incastrato in quel paio di rami la corrente vi avreb-be trascinato giù nella cascata».

«Una gran fortuna. Bevete, il vino vi terrà caldo».Il cacciatore non se lo fece ripetere e bevve avide sorsate dal

bicchiere che gli veniva offerto. Era acre, ma buono. Nel frattem-po studiava i Lupuomi. Aveva la netta impressione che si aspet-tassero qualcosa da lui.

«Vi fate una mano con noi?» chiese il bigio.«... Perché no?» biascicò rauco Magubalik.«Voi siete bravo a tressette?»«A vincere o a perdere?»«Allora ve ne intendete! A perdere».«Me la cavo».«Anche noi, a dire il vero» si intromise il fulvo.«Un gran gioco».«Superbo».«E dite: voi ve lo sentite quando sta per arrivare la mazza?»«La mazza?» replicò basito il cacciatore.«Il mio amico qui» disse il lupo bigio indicando con una zam-

pa il fulvo, «intendeva l’asso di bastoni. Come sapete vale undici punti, basta prenderlo una volta di troppo e si è fuori».

«Tutto dipende dalla mazza» assentì grave il fulvo.«Io la sento: quando qualcuno sta per calarla ho come un for-

micolio qui, sulla punta del muso».Il fulvo distribuì in silenzio le carte. Intanto Magubalik si

chiedeva dove fossero i suoi tre cani, e se l’udito straordinario di Lik sarebbe stato in grado di sentirlo anche a quella distanza. Doveva prendere tempo.

«Come vi chiamate?» chiese ai lupi.Seppe di aver fatto un errore nell’istante in cui quelle parole

lasciarono la sua bocca. I Lupuomi smisero di scrutare le carte e lo fi ssarono. Un tempo erano stati dei lupi, ma come la Città Fio-rita si erano ricostruiti un’identità: avevano deciso di diventare uomini. Naturalmente rimanevano lupi, e la sua domanda non

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faceva che rammentargli la loro disperata situazione. Il cacciatore si morse la lingua e decise di essere più prudente. Prima che i Lupuomi potessero dire o fare alcunché aggiunse:

«Io mi chiamo Lik» e alzò la voce. «Il mio nome è LIK!» ripe-té ancora.

«Abbiamo capito».«Un bel nome».«Davvero, complimenti».Nel frattempo, la strana partita a carte seguiva il suo corso; il

bigio calò ori, il cacciatore a ori aveva un tre, il fulvo era piombo, cioè non aveva più carte.

In quell’istante il Lupuomo si grattò il muso con una zampa ed esplose in un orrendo ululato. Fu un urlo talmente forte e improvviso che Magubalik per poco non cadde dalla sedia. I suoi compagni si unirono al fulvo e il casino di caccia si riempì del suono delle loro risate.

Sì, perché quel suono cacagliante e sinistro erano proprio ri-sate. Non appena guardò il centro del tavolo Magubalik ne capì la ragione. Il fulvo, che non aveva ori, aveva scartato l’asso di bastoni, la mazza. E con il tre di ori che aveva in mano, il caccia-tore era costretto a prenderlo.

Aveva perso.I Lupuomi continuavano a sganasciarsi dandogli grandi zam-

pate sulla schiena, come fossero vecchi amici. La scena era tal-mente strana che Magubalik sorrise, suo malgrado. Era così sol-levato dall’idea di aver perso che la domanda lo colse alla sprov-vista.

«E qual è la vostra professione?» chiese il bigio.«Sono cacciatore».Bam!La zampa dell’argentato calò sul tavolo con tal forza da rove-

sciare un bicchiere. Tutti e sei gli occhi ardenti dei Lupuomi era-no fi ssi su di lui. Magubalik si mordicchiò la lingua.

«Cacciatore?!»

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«Oh, di lepri, fagiani, quaglie... piccola cacciagione insom-ma».

«Ahhh!» esalò l’argentato e sorrise.«Anche noi vedete, siamo in un ramo simile».«Sì?»«Ci occupiamo di ricettazione. Acquistiamo cioè piccoli og-

getti, di abbigliamento per lo più».«E cosa c’entra la caccia?»«C’entra».«Diciamo che la caccia è la fonte di questi oggetti».Magubalik non capiva. Uccidevano daini e cinghiali per poi

farci delle pelli? Alzò gli occhi nel tentativo di darsi una risposta e la trovò. Tutte le pareti del casino erano cosparse di elmi, mo-schetti, fi nimenti, cotte, stivali fi ssati con chiodi rugginosi al mu-ro, come trofei di caccia. Erano indumenti in dotazione alla guar-nigione degli Acquaviva. D’un tratto il ragazzo ripensò alla disa-strosa battuta in cui erano andati dispersi tanti soldati e seppe qual era stata la loro fi ne.

Per tutto quel tempo i Lupuomi non avevano guardato lui, ma il suo mantello, il bastone, la sua giacca e i suoi stivali. Allora perché non l’avevano ucciso e derubato delle sue cose? Al suo pensiero, quasi l’avesse letto, rispose il fulvo.

«Vedete, noi siamo persone civili, la violenza ci ripugna».«Ci ripugna, certo».«È per questo che giochiamo a carte. Se qualcuno ci batte le-

almente noi lo lasciamo andare. Altrimenti ci deve dare un og-getto in suo possesso».

«Non dimenticate che vi abbiamo salvato la vita».«In fondo è una proposta equa. Voi scommettete i vostri og-

getti e per ogni mano che perdete ve ne prendiamo uno. Qualora li perdeste tutti vi possiamo dare la rivincita».

«E in quel caso cosa mi giocherei?»I lupi non dissero nulla, ma sorrisero un sorriso tutto zanne.

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«Capisco... per me va bene. Questa mano l’ho persa, iniziamo un altro giro?»

«Certamente» sorrise l’argentato.«Qual è l’oggetto da mettere in palio?» chiese il bigio.Magubalik rifl etteva.Era molto probabile che i Lupuomi lo avrebbero sbranato co-

munque, tressette o non tressette.«La mazza» sorrise il giovane alzando il suo bastone da terra.«Ah, molto appropriato» ridacchiò il fulvo.«Non mi sembra però di grande valore» replicò il bigio, de-

luso.«Guardatelo attentamente, non è un bastone comune, osser-

vatene la testa di metallo battuta a freddo».Il bigio, miope come tutti i canidi, tese il collo.«In effetti è un bel lavoro» disse.Furono le sue ultime parole. Non fece in tempo a fi nirle che

Magubalik estrasse Tagliaferro e colpì con tutte le forze. La testa del Lupuomo volò nel camino, la ferita che già si chiudeva senza spillare sangue.

I Lupuomi si gettarono su di lui con un ringhio, ma il caccia-tore aveva già sferrato un altro fendente, staccando di netto una zampa del fulvo. L’animale rotolò per terra guaendo dal dolore, mentre l’argentato era già addosso al cacciatore. Lo atterrò con un balzo facendo capovolgere il tavolo e mandando per aria tutte le carte. Non appena le zanne dell’animale gli presero l’avam-braccio Magubalik spinse a fondo il coltello sui denti del lupo.

Con un colpo solo Tagliaferro tranciò di netto un canino e due incisivi. Il Lupuomo argentato diede un uggiolio e si fece indietro. Il giovane aggirò il lupo che si rotolava col muso per terra e si diresse verso l’uscita. Fu un errore che per poco non pagò con la vita.

Zoppicando su tre zampe il fulvo lo azzannò alla caviglia e Magubalik rovinò per terra. Fece per afferrare il suo pugnale, ma nella caduta Tagliaferro era scivolato dalle sue mani ed era fi nito

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oltre la sua portata. Con lenta premeditazione i due Lupuomi mutilati venivano verso di lui. Nella lotta avevano perso cappelli, vestiti e ogni parvenza di umanità.

«Baro!» disse il fulvo, come fosse l’insulto più grave. E gli si stava avventando alla gola, quando una fi gura bianca calò rin-ghiando e lo scaraventò via. Era Uba.

La lupa si girò furiosa verso i suoi simili, e caricò. Azzannò l’argentato poco sotto il collo, e con un morso gli strappò un orecchio e un pezzo di giugulare. Subito l’odore del sangue im-pregnò l’aria, la bestia ferita guaì orribilmente e stramazzò a terra.

Ululando il fulvo si fece avanti per aiutare il suo compagno agonizzante, ma Uba lo udì e si girò in tempo, accecandolo con una zampata sugli occhi. Il lupo si stava ancora rotolando per il pavimento che quella gli era già sopra, ad azzannargli il fegato a morsi. Un gorgoglio di sangue, un gemito, ed era tutto fi nito.

Di lì a momenti l’alano e il segugio entrarono nel rifugio, cir-condando il ragazzo in una danza di festosi abbai.

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VENTI

A lla luce del camino Magubalik si concesse qualche ora di sonno. Più tardi nel retro del rifugio trovò gli scheletri di quelli che l’avevano preceduto, miseri resti che testimo-

niavano quanto a buon mercato fosse stata l’onestà dei Lupuomi.Magubalik e i tre cani si mossero verso il fi ume poco dopo

l’alba. Avevano perso le tracce del Mangianomi proprio accanto al fi ume, e adesso quella era l’unica pista che gli rimaneva.

Usando il bastone come gruccia per la caviglia ferita il caccia-tore si avviò alla ricerca di un guado. Lo trovarono dopo molte ore, tre leghe più a valle della cascata, un sentiero stretto di pietre larghe come tartarughe.

Non fu facile raggiungerlo perché il sottobosco sulla riva era fi ttissimo e cangiante come gli alberi delle Selve. I grovigli di rovi e pruni continuavano a tramutarsi in un intrico di serpenti, un unico ammasso di aspidi, bisce d’acqua e serpi. Ci vollero ore prima che riuscissero ad aggirare l’ostacolo e a calarsi nel fi ume.

Lo specchio dell’acqua era quasi immobile e rifl etteva le nubi bianche e dense che si agitavano in cielo. Per abbreviare il viag-gio Magubalik salì sul dorso di Maag, ed erano quasi a metà del loro cammino quando Lik cominciò a ululare. Molto più in là, dal l’al tra parte della riva, acquattata su un masso levigato dal fi u-me, una fi gura nera li osservava.

Di quella sagoma oscura sulla roccia si intuivano appena le braccia lunghissime, che oscillavano avanti e indietro, indietro e ancora avanti.

Magubalik comandò all’alano di accelerare, e in quel momen-to la creatura si mosse. Il cacciatore abbassò lo sguardo con un

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brivido ma con la coda dell’occhio vide il gesto della creatura. Il Mangianomi aveva messo un dito nell’acqua.

Di colpo una massa vaporosa salì con un boato verso il cielo. Il fi ume, insieme alle migliaia di pesci che conteneva, era divenu-to vapore bianco. L’acqua aveva perso il suo nome e si era muta-ta in ciò che aveva rifl esso per secoli: un’unica gigantesca nube.

Magubalik e i suoi tre compagni si trovarono immersi nella nuvola come se fossero sott’acqua.

Intorno a loro galleggiavano trote e lucci, tanto vivi quanto disorientati. Magubalik provò a respirare e un’onda di panico lo afferrò: sarebbero morti tutti, annegati in un fi ume di nuvole. Poi Maag si fece avanti, lanciò un latrato soffocato dalla nebbia ac-quosa, e si scagliò a tutta velocità attraverso il fi ume d’aria. Sia la lupa che il segugio le si abbarbicarono sul dorso come potevano, le zampe dell’alano veloci come ali di mosca.

Il tempo sembrò fermarsi. Da quanto stava trattenendo il fi a-to? Sembravano trascorse ore. Maag sfrecciava squarciando la nu-be, tanto veloce che le sue zampe si poggiavano quasi sul vuoto, spingendoli inesorabili verso l’altra sponda: un attimo di esitazio-ne, un istante solo, e si sarebbero schiantati sul fondo del fi ume.

Invece la nebbia si diradò di colpo e si trovarono sul l’al tra sponda. Magubalik fece in tempo a girarsi e vide dietro di loro il fi ume che si allontanava nel cielo lasciando un solco arido dove aveva vissuto per millenni. Un grosso luccio diede un colpo di coda accanto a lui, poi salì verso l’alto e scomparve in cielo.

Magubalik e i tre cani giacevano esausti sulla sponda, fradici come se avessero percorso a piedi il fondo di un oceano. Era la seconda volta che il Mangianomi li attaccava e questo, il caccia-tore ne era certo, poteva signifi care una sola cosa: erano vicini alla sua tana.

Il segugio guaì di piacere e si lanciò di corsa verso la preda. Lo seguirono per un lungo tratto roccioso poi, dopo nemmeno cin-quecento passi, si fermarono.

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Un tempo era stato un orrido, un cumulo di massi scabri franati in età antichissime dalla montagna su cui si stavano arrampican-do. Il cacciatore sapeva che gli orridi erano rifugi perfetti per orsi o linci perché fornivano cibo fresco dal fi ume, riparo dagli uomi-ni e tane confortevoli. Tutto questo però avveniva prima che il Mangianomi lo sfi orasse con il suo tocco, perché ciò che il cac-ciatore e i suoi cani videro davanti a loro fu ben altro.

Il corpo immenso e sproporzionato di un gigante di pietra si allungava sotto un sole lattiginoso. La protuberanza sulla quale si erano arrampicati era un ginocchio, dal quale potevano osser-vare tutta la tetra fi gura. Sembrava che un vecchio di pietra si fosse adagiato nella valle per dormire e che fosse rimasto lì, supi-no e a occhi spalancati, incapace di prender sonno. La collina che formava il torace espirava lentamente, le costole dossi incro-stati di edere che si alzavano e si abbassavano. La cosa più racca-pricciante era forse la testa, con i pori di fango e sabbia, gli occhi due caverne buie e spalancate, una barba di rovi e arbusti.

Infreddoliti ed esausti i quattro si fecero strada in mezzo a quelle membra enormi. Un silenzio innaturale impregnava l’aria di quella tensione vibrante che si sente prima della pioggia. C’erano migliaia di anfratti e nascondigli dove il Mangianomi avrebbe potuto nascondersi: tra le pieghe della mano, dentro alle narici, sotto al mento o dietro il collo del mostro di pietra. Se non fosse stato per l’udito di Lik si sarebbero persi, vagando per giorni sul corpo del gigante fi nché fame, sete e pazzia non li avessero sfi niti. Invece, senza esitare, il segugio si diresse verso l’occhio destro, cavo e vuoto come quello di un teschio.

Le ciglia della creatura erano stalattiti appuntite, e il foro nero del suo occhio pareva snodarsi fi n dentro al cranio. Puntellando il piede ferito con il suo bastone il cacciatore si fece avanti.

Lik si girò di scatto, abbaiando. Erano stati così silenziosi che quasi non li aveva sentiti arrivare. Tre dozzine di Lupuomi si av-vicinavano loro scendendo dalle guance del gigante. Erano vesti-ti come nobili e mercanti, con cappelli e guanti tessuti a fi l d’ar-

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gento, un paio stringevano tra le zanne le lame arrugginite di qualche vecchio pugnale.

«Sorella, perché ti accompagni a costoro?» si rivolse a Uba il più grande di loro, quello con i guanti sulle zampe.

«Vieni con noi, lasciali perdere».«Sei bella sorella, sii dei nostri».Per tutta risposta Uba emise un ringhio, così raccapricciante

che persino Magubalik rabbrividì. Un paio di Lupuomi si fecero indietro.

«Te lo fi utiamo addosso, sorella».«Ti sei macchiata del sangue dei nostri».«Se non cedi l’uomo, divoreremo anche te».«E questo ci dispiacerebbe assai».«Vieni con noi, ti vestiremo di broccato e suoneremo per te i

più bei madrigali».Uba ringhiò ancora più forte.«Come desideri» disse quello coi guanti.I Lupuomi li assalirono con un ululato assordante.Due di loro stramazzarono dopo nemmeno due passi: il mo-

schetto di Magubalik li aveva centrati in petto, trapassandoli di fi lata. Il ragazzo estrasse svelto dallo zaino altre due pistole che aveva trovato al casino di caccia e fece ancora fuoco. Altri due Lupuomi caddero al suolo tra gli spasmi dell’agonia, poi gli altri gli furono addosso.

Dapprima il vantaggio fu dei difensori, poiché i Lupuomi si ostinavano ad attaccare come uomini, in posizione eretta. Uba e Maag sfruttarono questa debolezza aggrappandosi con gli artigli ai loro vestiti per rovesciarli facilmente per terra e lacerargli la gola.

L’alano era una macchia confusa di pelo e zanne, una cosa grigia che balzava, schizzava di lato, investiva cinque o sei Lu-puomi con l’impatto della sua mole, poi si ritraeva. Allora arriva-va Uba, e non c’era un artiglio o una zanna che non andasse a segno, ogni volta che colpiva uno dei lupi rimaneva a terra. Il

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segugio restava in disparte, ma non appena qualcuno dei Lupuo-mi gli dava le spalle quello sgattaiolava lesto e ne sbranava i ten-dini delle zampe posteriori, facendolo rovinare per terra.

Dopo un po’ la lotta si fece così feroce che vestiti e posizione eretta vennero abbandonati. Adesso i Lupuomi combattevano come veri lupi; e anche se quasi la metà di loro giaceva in terra, Uba e Maag sanguinavano da dozzine di ferite e la loro forza an-dava diminuendo.

Magubalik faceva il possibile roteando il bastone e tranciando zampe e zanne con la sua lama stregata, ma la mischia dei cani e dei lupi era talmente furiosa che gli era impossibile mettersi in mezzo.

D’un tratto un Lupuomo argentato riuscì a balzare sul dorso di Maag e la addentò dietro al collo. La cagna uggiolò di dolore, le zampe le cedettero; subito un paio di lupi le si gettarono ad-dosso per fi nirla.

Scrollandosene due di dosso Uba caricò, mordendo quanto le capitava a tiro e allontanando gli assalitori dalla compagna ferita. Seguì un brusco silenzio, nel quale attaccanti e difensori si squa-drarono, attenti.

L’alano perdeva sangue dalla ferita al collo e i suoi occhi sem-bravano appannarsi a tratti. Lik zoppicava: si era buscato un brutto morso alla zampa destra. Solo Uba, alle cui cicatrici si erano aggiunte nuove ferite, sembrava ancora in grado di com-battere. Dei trentasei Lupuomi che li avevano assaliti, diciotto erano morti e sei non erano più in grado di muoversi. Ne restava ancora una agguerrita dozzina, troppi.

«Venite» gridò Magubalik ai suoi cani.L’unica speranza era retrocedere lentamente nel cunicolo, co-

stringendoli ad affrontarli uno alla volta. Lik lo seguì, mentre l’alano e la lupa indietreggiavano ringhiando per tenere lontano gli attaccanti. In quel momento il suolo prese a tremare come se il gigante di pietra avesse atteso quel fatale momento per assopir-

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si. Il cacciatore sgranò gli occhi: l’enorme palpebra di pietra cala-va rapida verso di loro.

Il ragazzo udì l’uggiolare di Lik sotto di lui, il segugio gli saltò addosso e lo buttò a terra. In quel momento un rombo immane scosse la caverna e una nube bianca di pietrisco li investì. Il cac-ciatore fece in tempo a intravedere Uba e Maag che venivano as-salite dalla furia dei Lupuomi, poi l’enorme palpebra si chiuse tagliandolo fuori dalla luce del sole.

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VENTUNO

Seduto su di lui il segugio non la smetteva di leccarlo. Ma-gubalik si issò in piedi, cercò di scorgere qualcosa della caverna in cui si trovava ma solo un debole chiarore fi l-

trava da fuori. Dal l’al tra parte della frana si udiva il latrare furio-so dei Lupuomi. La battaglia stava terminando e non c’erano dubbi su chi l’avrebbe vinta.

Con furia Magubalik si scagliò sulla parete di roccia franata, ma per quanto sbuffasse e spingesse, per quanto cercasse di spo-stare i massi più grandi fi no a farsi sanguinare le dita, non ci fu nulla da fare. Tese allora le orecchie, nella speranza che... Invece niente più, né ululati, né guaiti.

Il cacciatore si sedette nel buio e pianse di rabbia, stringendo a sé il piccolo segugio che tremava di paura, fi nché cane e padro-ne non si furono calmati l’un l’altro. Infi ne si pulì il viso e lenta-mente un odio gelido cominciò a risalirgli dentro.

Per anni aveva cacciato senza provare nulla se non la pura necessità di sopravvivenza, senza pietà né odio per le sue prede. Adesso però aveva perso i suoi cani, era coinvolto come non mai, e proprio per questo poteva sbagliare. In nove anni di cacce nei boschi Magubalik non aveva mai commesso errori, e per tale ra-gione era diventato una leggenda. Ma il Mangianomi non era una preda come le altre: senza nemmeno affrontarlo allo scoperto aveva reso vani tutti i suoi sforzi, tutti i suoi stratagemmi.

Ferito, esausto e demoralizzato, senza armi da fuoco e con un solo cane azzoppato, il cacciatore si chiese se quella caverna non sarebbe diventata la sua tomba.

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Si mossero incerti nel buio.Era più di un’ora che camminavano nelle caverne. Non c’era

nulla che potesse orientarli se non, di tanto in tanto, un soffi o d’aria sotterraneo. Anche l’udito di Lik era quasi inutile, per via dell’eco che moltiplicava all’infi nito ogni rumore. Più volte erano stati sicuri di cogliere quello strano pianto, ma ogni volta che il segugio si era lanciato verso la fonte del suono si erano ritrovati in un passaggio vuoto.

Col tempo gli occhi di Magubalik si erano abituati al l’o scu ri tà. Invece di un nero uniforme adesso vedeva sagome grigie. Fortu-natamente l’acqua, che fi ltrava dai muri in piccole pozze azzurre, non mancava. Ci sarebbero volute settimane prima di morire di fame, una bella prospettiva. Magubalik si fermò, esausto. Presto sarebbero stati così stanchi da crollare al suolo. Il cacciatore pre-se una decisione.

Trovò un angolo sicuro, un incrocio di gallerie dove spirava una corrente d’aria fredda. Alla cieca si mise a cercare nello zaino la lanterna e usando Tagliaferro come acciarino diede fuoco allo stoppino. La fi amma della lanterna non sarebbe durata a lungo ma era suffi ciente a illuminare la caverna. Si trovavano all’inter-no della bocca del gigante. Denti appuntiti scendevano dal soffi t-to, minacciosi; la superfi cie delle pareti un palato umido, palpi-tante.

Magubalik si sedette e inspirò a lungo per cancellare ogni pensiero. Si concentrò sul sordo pulsare della caviglia, e alla luce di quel dolore bruciò ogni incertezza.

Con Lik al suo fi anco e Tagliaferro in grembo, il cacciatore appoggiò le labbra al fl auto d’osso e incominciò a suonare.

La bocca di pietra si trasformò in una grande cassa di risonanza.Magubalik suonava della Città dei Nomi. Era un canto di per-

dite e di abbandoni: cantava della ragazza della torre chiusa, del-le centinaia di senza nome, dello strazio delle Selve, dell’ango-scia dei Lupuomi e della perdita dei suoi cani. Seduto a gambe

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incrociate, solo con il suo segugio, Magubalik chiamava il Man-gianomi.

E il Mangianomi venne. Venne come viene la sera, un’ombra che lentamente si ingigantisce fi no a divorare tutto ciò che la circonda.

La fi amma della lanterna vacillò, Lik lanciò un guaito.Il cacciatore continuò a suonare. Sapeva che il suo nemico era

davanti a lui, non più distante di dieci passi, ma non aprì gli oc-chi, non ancora. Lasciò che la musica facesse il suo lavoro, atti-randolo a sé, lasciandolo avvicinare.

Le ultime note vagarono ancora nell’aria e poi si spensero. Con un tremito Magubalik spalancò gli occhi. Una sagoma nera era seduta a tre passi da lui. Il cacciatore ne evitò gli occhi, ma anche così riuscì a intuirne dimensioni e forma.

Non aveva né dimensioni né forma. Il suo aspetto fl uttuava, espandendosi e contraendosi come un cuore. Il cacciatore non avrebbe saputo dire cosa era, solo che cosa sembrava.

Era una massa di buio dentro cui si agitavano braccia, artigli, zanne, corna. Appena si spostava la sua sagoma cambiava, rim-picciolendosi come un gatto o ingrandendosi a raggiungere la stazza di un orso. Non era un animale ma molti, l’ombra di tutte le sue vittime, la forma di tutti i nomi che aveva sottratto agli al-beri, alle rocce, agli uomini e alle belve; era tutte queste cose e nessuna, perché il cuore del suo essere non aveva nome.

Si muoveva impacciato davanti a Magubalik, una sagoma che si squagliava e si rimodellava come cera nera. La musica doveva averlo incuriosito, sembrava quasi non avesse cattive intenzioni, e fece un passo avanti.

Lik era completamente immobile, la statua di un cane con il muso rivolto a terra. Anche il cacciatore non si muoveva, conti-nuava a tenere gli occhi bassi aspettando che il Mangianomi si avvicinasse. Qualsiasi cosa accadesse non doveva guardarlo negli occhi. La massa nera si mosse incerta. Avrebbe attaccato o se ne sarebbe andata? Ancora un passo.

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Magubalik scattò in piedi e colpì. Tagliaferro volò dritto verso il cuore della creatura, e lo mancò.

All’ultimo la bestia si era contratta, rimpicciolendosi davanti alla lama. Il Mangianomi gemette di sorpresa, quasi di delusione, poi con uno scatto repentino gli artigliò il petto.

Il cacciatore cercò di accompagnare il colpo, ma la caviglia cedette e gli artigli della bestia lo squarciarono all’altezza del co-stato. Il ragazzo sentì le labbra della ferita bruciare al calor bian-co. Era solo un graffi o ma pulsava come fosse vivo, al ritmo con-vulso del suo cuore. Già la testa gli girava, da un punto lontano sentiva il segugio abbaiare forsennato, e a stento si accorse della sagoma nera che schizzò in avanti per colpire ancora.

Magubalik si abbassò e cercò di schivarlo, ma dalla ferita un gelo scendeva dal suo petto intorpidendogli le gambe. Saltellan-do in avanti il Mangianomi lo colpì con un malrovescio, sca-gliandolo violentemente in terra. Il ragazzo si puntellò con la schiena sulla roccia per rialzarsi, cercando a tentoni Tagliaferro alla fi amma tremolante della lanterna.

Ed ecco, le sue dita insensibili avevano sfi orato qualcosa di metallico, il pugnale. Il cacciatore ne strinse l’impugnatura con forza, alzò lo sguardo e rimase avvinto negli occhi della bestia. Erano bianchi, accecanti, vuoti. Ci poteva vedere attraverso co-me fossero buchi vivi, ma dal l’al tra parte non c’era la caverna, né carne o sangue, solo il nulla, un muro candido e senza fi ne. Un biancore improvviso gli fi oriva nella testa, nelle braccia, in viso.

La sentiva, la lenza invisibile che usciva da quegli occhi fi no a penetrare nel cuore del suo cuore. D’un tratto una scintilla nera, un frammento di cenere scura e incandescente, volò via dalle labbra pallide del cacciatore.

Il Mangianomi la addentò a mezz’aria tirando il capo indietro e Magubalik urlò. Per un istante egli vide se stesso da tutti gli angoli della sua vita, bambino, adolescente, adulto, e seppe che nulla di quanto aveva mai temuto, sperato o amato, nulla aveva importanza.

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Immerso in quella nebbia come se osservasse tutto da un punto esterno e remoto, si accorse appena che Lik si lanciava in un ultimo disperato assalto contro il Mangianomi e che questi incredibilmente retrocedeva, fi nché entrambi non sparirono dal-la sua vista in un tunnel. Il cacciatore cercò di rialzarsi, le gambe non lo ressero, inciampò nella lampada e cadde.

Era al buio.

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VENTIDUE

Nel l’o scu ri tà Lik tendeva le orecchie.Migliaia di suoni venivano a lui attraverso le vene di

pietra del gigante: un lento gocciolare, un respiro, ru-more di zampe, ma gli echi della caverna ne disperdevano l’ori-gine, confondendolo.

Ancora non riusciva a credere che la loro preda gli fosse fuggi-ta a quel modo. Sembrava che il Mangianomi non si fosse affatto curato di lui, che una volta avuto quello che voleva dal suo pa-drone non l’avesse considerato più di una seccatura. E allora per-ché non l’aveva ucciso, perché si era allontanato tanto in fretta?

Non che il segugio avesse molto di che complimentarsi con se stesso. Aveva perso il Mangianomi e non riusciva a trovare la strada per tornare dal suo padrone. Era solo. Ma a questo, alme-no, era abituato.

Quello a cui non era abituato era avere appunto qualcuno da cui tornare. Si fece strada zoppicando nei cunicoli bui, lasciando che il suo istinto lo guidasse verso una speranza di salvezza.

Prima di tutto c’erano i suoni.Nella mente del segugio occupavano tutta la tavolozza dei co-

lori e degli odori. Li percepiva anche quando dormiva, anche se non voleva, sempre. C’erano momenti che lo trafi ggevano di bel-lezza: il canto notturno di una ragazza, i sussurri di due innamo-rati sul fi ume, la risata di un padre al sorriso del fi glio.

Tutto questo portava il vento, costruendo immagini sonore nella sua mente. Ma quando poi si trattava di raccontarle ai suoi compagni di canile Muccio non ne era capace.

Cercava di mimarle con scodinzolii e pantomime canine, si

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rotolava per terra, ringhiava e faceva balzi, ma gli altri segugi lo guardavano scuotendo il capo tristemente, senza capire. Come avrebbero potuto? Loro pensavano con gli odori, lui con i suoni.

Odiava il canile. Se ne stavano stipati a centinaia, l’uno accan-to al l’al tro e il latrare notturno gli era insopportabile. Muccio era indifeso al mondo dei suoni. Venivano da lui come coltelli, a scavargli una scia di melodie nel cuore. Le urla dei cacciatori, il ringhio dei suoi compagni, gli scoppi degli archibugi, era in mezzo a quel frastuono che Muccio viveva le sue giornate. E quando l’angoscia di quel caos sonoro si faceva insostenibile, Muccio si buttava per terra con le zampe sul capo sperando che il grande silenzio scendesse presto su di lui.

Fu proprio in un giorno come quello che, esausto e affl itto, aveva udito la sua prima nota. A due leghe da lui un pastore suo-nava il suo fl auto di canne. Era un suono diverso da tutti gli altri. Muccio si era rialzato di scatto tendendo le enormi orecchie: che cos’erano quelle parole senza parole, quei suoni senza suoni? Perché d’un tratto tutto era così chiaro, il sole e gli alberi, il cielo e il silenzio?

‘Musica’ era la parola che gli uomini avevano dato a ciò che aveva appena scoperto. Da allora Muccio aveva lasciato che il vento gli portasse solo quella. La sentiva nei ruscelli, nell’agitarsi delle fronde dei boschi, nel fi schio del vento, come se la vita suo-nasse un unico strumento e questo fosse il mondo. Muccio si aggrappava a quei suoni come un naufrago, l’unica difesa che aveva per sottrarsi alle staffi late dei servi e ai morsi dei cani più grandi di lui. Per Muccio erano molto più che una bella melodia, era una promessa di vita.

Non sarebbe vissuto a lungo, lo sapeva. Da tempo il segugio aveva imparato la lingua degli uomini, e aveva sentito l’ordine che il suo padrone, il Conte, aveva dato per abbatterlo. Cosa ave-va fatto per meritarselo? Nulla, non c’era bisogno di aver fatto nulla, per morire. Era solo una questione di tempo; ogni volta che un servo veniva al canile con le ciotole piene, Muccio non

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poteva fare a meno di chiedersi se sarebbero state quelle mani a cavargli il sangue dalla gola.

A ritardare la sentenza fu quel viaggio, l’ultimo per lui. So-spinti dalle fruste degli stallieri i cani entrarono nelle gabbie, trainati dai cavalli verso una destinazione sconosciuta. Poi una notte, accampati sulla strada maestra a sole dieci leghe dal castel-lo di Acquaviva, Muccio udì il fl auto d’osso.

Nessuna musica che aveva udito le era paragonabile: suonava di ricordi, di dolore, di solitudine, uno spartito vivente che non era una canzone ma l’anima stessa del cacciatore in musica.

Muccio capiva cosa voleva dire essere metà in un mondo e metà in un altro, sospesi senza essere a proprio agio in nessuno, incapaci di esprimere ai propri simili quello che si sentiva. Quel-la era la melodia che Muccio avrebbe cantato se ne fosse stato capace, e quella melodia veniva dalle labbra di un uomo.

Notte dopo notte, per tutta la traversata il segugio ascoltò la canzone di Magubalik. Avrebbe voluto conoscerlo, toccare le sue mani, vedere il suo viso almeno una volta, prima di morire. E così, mentre la distanza che lo separava dalla sua esecuzione si accorciava, Muccio sentì rinascere una nuova speranza.

Quando lo vide la prima volta nel canile degli Acquaviva non lo riconobbe. Come poteva? Di lui conosceva tutto, tranne l’aspet-to. Fu solo quando gli parlò che ne ebbe la certezza. Era quello il respiro che aveva ascoltato per settimane, quella la voce dietro la musica del fl auto.

Non doveva avergli fatto una grande impressione, rintronato com’era dall’urlo delle campane, dagli strilli di Torrespacca e dai mille rumori che nessuno tranne lui poteva udire.

Ma anche così il dolore che provò fu grande, quando Maguba-lik alzò la mano dalla sua testa e disse quella parola: ‘Abbattetelo’.

Perché un cane non si uccide, no, lo si abbatte come fosse un albero, ché bastano pochi colpi di scure e poi non ci si pensa più.

Muccio si sentiva già morto. Sperava che almeno l’uomo del

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fl auto avrebbe visto, che avrebbe compreso, invece era stato pro-prio lui a condannarlo.

Lo stalliere lo aveva condotto fuori dal canile, un coltello stretto nella mano destra sotto al grembiule. Il segugio non si era nemmeno ribellato, voleva solo che la musica che aveva dentro si spegnesse, il prima possibile.

Poi l’aveva sentito, chiarissimo: l’uomo del fl auto lo stava chiamando.

Mai il suo nome gli era sembrato tanto bello come in quel momento. Il segugio era corso a lui, felice della nuova sinfonia che il mondo gli suonava intorno. Allora il cacciatore lo aveva accarezzato e gli aveva donato un frammento della sua melodia: un nome, il suo.

Era per questa ragione e non per altre che il segugio rifi utava di arrendersi, per questo doveva ritrovare i suoi compagni e ripor-tare indietro il suo padrone, perché Lik si era donato a lui, e quel dono era la melodia segreta del suo cuore. Il cane diede un guai-to e si perse nei cunicoli sommersi e oscuri della grande caverna.

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VENTITRÉ

Ancora un’ombra.È la sagoma di una ragazza che si affaccia da una fi ne-

stra illuminata. Se ne vede solo il profi lo, e mentre lo guardate avete l’impressione di sbagliarvi, perché quello che ave-te preso per un naso potrebbe essere un becco, e le onde crespe dei suoi capelli ali, le ali di un falco.

Sola nel cuore della torre la ragazza si svegliò nel suo letto. Se qualcuno del castello l’avesse vista adesso, con il volto teso e gli occhi lucidi dalla paura, avrebbe rivisto in lei solo l’ombra della Duchessina Asprimia.

Ma Asprimia non c’era più. Al suo posto la ragazza senza pas-sato vagava con lo sguardo per la camera buia. La sua fantesca russava ai piedi del suo letto, le mani appoggiate sotto la guan-cia, immobile.

La ragazza alzò il capo verso la fi nestra. Qualcosa di terribile era accaduto. Una luce lontana, una fi ammella che aveva sentito accanto a sé per tutto quel tempo, si era spenta di colpo.

Il respiro della ragazza fu scosso da un brivido. La sua mano artigliò le lenzuola, le dita in agonia. D’un tratto i suoi polpa-strelli strisciarono sulla sua guancia, come percorressero un sen-tiero da tempo abbandonato, e si fermarono sul suo orecchio destro.

Non appena lo sfi orò sentì il richiamo, una nostalgia feroce che le rimescolò il sangue. Si alzò dal letto come una sonnambula.

La stanza stessa per lei era un regno d’incubo, che la attirava a sé con forza. Nel lasso di un respiro Asprimia morì e rinacque dozzine di volte. Divenne una sedia, un cappello di broccato,

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una scarpa abbandonata, una scatola piena di fermagli per capel-li. Entrava e usciva dentro gli oggetti con uno sguardo, e le cose la trattenevano, intrappolandola.

Con uno sforzo barcollò verso il fondo della camera buia.C’era una gabbia, addossata alla parete.La ragazza sentiva il respiro dell’animale sotto il panno di vel-

luto, lo sentiva irregolare e furioso.Asprimia strappò il panno.Gli occhi di Gringiasangue, gialli, nei suoi.La ragazza sentì come suoi gli artigli che si aprivano impa-

zienti sulla sbarra di ferro, le piume brune sul suo volto, il becco aperto.

Le sue mani, intorpidite e remote, spalancarono la porticina della gabbia.

Gringiasangue spiccò il volo e si tuffò oltre la fi nestra, nella notte.

Volava come una lancia rossa scagliata in faccia alla luna. Cime di alberi, picchi di roccia, radure improvvise scorrevano sotto di lui. La luna era già sorta e accendeva la valle di Numera di un’iride-scenza biancastra.

Le Selve si contorcevano in agonia. Alberi che non erano più alberi urlavano con le braccia protese al cielo, istrici con volti umani banchettavano del cadavere di un soldato, un gatto selva-tico cantava con voce di ragazza straziandosi la faccia con gli ar-tigli.

Tutto questo e altro ancora vedevano gli occhi del falco, ma la sua meta era ancora lontana. Gringiasangue virò, si tuffò a peso morto nelle correnti d’aria che gli vorticavano intorno. Le sentiva sulle piume, la massa del cielo percorsa da venti improvvisi, vuo-ti d’aria, vortici. Superò il fi ume arido planando, percorse la su-perfi cie irregolare dell’orrido, il gigante addormentato, e infi ne li vide.

Carogne di lupi erano disseminate nel bianco lunare. Più in là

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altri Lupuomi stringevano d’assedio due fi gure addossate sul fi anco di una frana.

La lupa e l’alano si battevano a morte. Per ogni assalto che i Lupuomi avevano sferrato uno di loro era caduto. Per ogni lupo morto una nuova ferita aveva sfregiato il loro manto. I sei Lupuo-mi sopravvissuti attendevano il momento propizio, che non era lontano. I cani erano allo stremo. Lentamente i Lupuomi strinse-ro il cerchio, un passo per volta, inesorabili.

Gringiasangue descrisse un arco e si tuffò.Il suo becco spaccò il cranio del primo lupo come un’accetta.

Il Lupuomo stramazzò senza un gemito, il suo sangue già spilla-va sulla roccia bianca. Gli altri si dispersero, furiosi verso un ne-mico che non riuscivano a scorgere.

Il falco planò ancora e beccò gli occhi di un altro Lupuomo, scartò e ne colpì un altro sul muso. Bastava un tocco dei suoi speroni o del suo becco a far sbocciare una ferita. I Lupuomi si erano addossati gli uni agli altri, saltando a vuoto nel tentativo di azzannarlo, e fu in quel momento che Maag attaccò.

Un tornado di zanne e zampe li investì sbaragliandoli con la sua furia. Due Lupuomi urlarono con voce umana quando l’ala-no e la lupa si fecero sotto per fi nirli a morsi. Uba caricò il più vicino, lo rovesciò con il suo peso e gli affondò le zanne in gola. Subito un altro Lupuomo gli si abbarbicò sulla schiena, Uba scartò e lo scaraventò per terra spezzandogli la schiena.

Ne erano rimasti due. Adesso cani e Lupuomi erano pari.Il grido del falco lacerò l’aria. Gringiasangue spiccò il volo e

con un colpo d’ala si allontanò in cielo, verso la torre e la ragazza che lo aspettava.

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VENTIQUATTRO

L’uomo senza nome rimase disteso.Nella caverna non c’era più nulla, come nulla c’era

dentro di lui.Nemmeno il neonato più innocente, la pietra più inanimata

erano vuoti come l’uomo senza nome. Per molto tempo rimase immobile, quasi senza respirare. Sentiva l’eco di un tempo in cui aveva avuto uno scopo, una direzione. Quella sensazione accreb-be, divenendo sgradevole fi no a trasformarsi in angoscia. Aveva perduto qualcosa, ma cosa?

L’uomo si alzò a fatica nella grotta buia. Si toccò le gambe con stupore. Erano sue quelle? E le mani? Cos’erano quelle dieci cose lunghe e morbide che toccavano la sua faccia? Aveva una faccia? Si toccò il naso e la bocca e si spaventò quando ne uscì la lingua a saggiare il sapore salato del suo sangue.

Era tutto così nuovo, così strano. Faticosamente l’uomo co-minciò a pensare. Doveva muoversi? E perché mai? Non ce n’era ragione. Aveva freddo, questo sì. Ma oltre al freddo c’era quel senso di vuoto, che a fatica egli cercava di scacciare.

L’uomo si chinò e fece per sedersi, ma un nuovo dolore gli strappò un grido. Era la sua voce quella? Gridò di nuovo. Gli pia-ceva quel suono, era familiare. A tentoni toccò l’oggetto che l’ave-va ferito, non poteva vedere bene ma con le dita sentì che era ap-puntito e triangolare, un coltello. Anche quello gli sembrava fa-miliare.

Non appena lo prese in mano la sensazione tornò. C’era un’ur-genza, qualcosa di importante che doveva essere fatto. L’uomo si prese la testa tra le mani. Non voleva! Aveva troppa paura. Pregò

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perché quell’emozione se ne andasse via: tutto quello che deside-rava era sedersi ed essere tutt’uno col buio.

Provò a farlo, respirò lentamente, i suoi occhi si chiusero.Ecco: adesso era in pace.

In quel momento sentì l’ululato.Si rialzò in piedi tanto in fretta che la ferita al costato gli diede

una fi tta. L’uomo lanciò un grido. Cos’era stato? Era stato lui a provocare il suono di prima? Non gli sembrava.

Niente, solo silenzio. Poi l’ululato si ripeté.Di nuovo quella sensazione si fece intensa. L’uomo gemette.

Perché non lo lasciavano in pace? Si rialzò ancora, l’eco dell’ulu-lato non si era ancora spento. Suo malgrado incominciò a proce-dere verso la fonte del suono.

Si muoveva a tentoni, fermandosi spesso, le mani contro le pareti umide. Ascoltava in silenzio, poi lanciò un altro grido: questa volta l’ululato gli rispose più vicino, non un ululato solo, bensì due!

L’uomo prese a zoppicare più velocemente. Qualcosa dentro di lui gli diceva che era un suono amico a guidarlo. Gridò una terza volta, e ancora gli giunsero gli ululati, solo che questa volta erano tre.

Prese a correre forte, dimenticandosi del dolore alla caviglia, poi si accorse che poteva vedere e si fermò. Un grigiastro chiaro-re rischiarava infatti la caverna dall’alto, illuminando pareti spu-gnose di licheni e calcare, palpitanti di un vento sotterraneo. Da-vanti a lui le pareti grigie proseguivano a vista d’occhio, grappoli di alcove sbalzate su cui si aprivano altre nicchie, anfratti, pertu-gi, in un inseguirsi di volte d’ombra: i polmoni del gigante; e il vento che sentiva, il suo respiro.

L’uomo senza nome alzò il dorso delle sue mani e le portò all’altezza degli occhi. Era la prima volta che poteva osservare quella geometria di pelle e vene, poi un uggiolio lo fece voltare. Non era più solo.

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Dietro di lui, accucciate dentro una nicchia di pomice, stava-no tre strane creature, e lo fi ssavano.

Erano tre cani. Una lupa enorme striata di cicatrici; del san-gue fresco le macchiava ancora il muso bianco. Un alano con un profondo squarcio sul manto grigio. Un segugio, piccolo, la coda che sbatteva a destra e a sinistra.

L’uomo senza nome li guardò e non li riconobbe. Eppure un’emozione potente gli si accese in gola. Fece un passo in avan-ti, stringendo il coltello. Erano forse una minaccia? I cani non si mossero e lo guardavano, come si aspettassero qualcosa.

Voleva scacciarli, allontanarli da sé, e agitò il coltello nell’aria.I cani continuavano a fi ssarlo. L’uomo cercò allora di gridargli

contro qualcosa, ma non aveva più parole, tutto quello che usci-va dalla sua gola erano strilli e gemiti. Provò ancora, e un suono risalì dal fondo aspro dei suoi polmoni.

I cani non si mossero. L’uomo senza nome si concentrò su quel suono, una vibrazione all’altezza del diaframma che comin-ciò a scuoterlo, fi no a farlo tremare dai piedi alla testa. Non c’era nulla da fare, non riusciva a tirarselo fuori quel grido.

Si accasciò per terra, singhiozzando. Perché non lo lasciavano stare? Chi erano quelle bestie? Perché lo riconoscevano? Chi era lui? E allora comprese.

Che le due domande erano in realtà una sola. Era lui, i cani erano lui.

Inspirò a fondo, chiuse gli occhi e con quanto fi ato aveva gri-dò i tre nomi, e i tre nomi divennero uno.

Maag, Uba e Lik.Magubalik.Il cacciatore aprì gli occhi e si toccò la faccia. Era di nuovo se

stesso.I cani gli si strinsero addosso.

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VENTICINQUE

Immobile, il muso teso in avanti, il segugio drizzava le enor-mi orecchie orientandole prima su una caverna, poi verso un’altra. In silenzio il ragazzo, l’alano e la lupa aspettavano il

responso di quell’oracolo canino; poi Lik si girava festoso e sco-dinzolando infi lava uno dei passaggi rocciosi. E loro dietro, svel-ti e quieti, nel dedalo intricato dei polmoni del gigante.

Attraversarono così quella grigia nuvola di calcare ed entraro-no dritti nella grande aorta di pietra. Pareva l’infi nita navata di una chiesa illuminata da fi nestre rossastre: un chiarore debole e intermittente soffondeva il profi lo dei tre cani, animando Taglia-ferro di un sanguigno scintillio. Proseguirono per un lungo tratto sospesi in quella luce senza tempo, poi Lik si fermò e guardò il cacciatore con la testa piegata. Magubalik sorrise; lo sentiva an-che lui adesso. Lontano, così fi oco che pareva appena il ricordo di un suono, un ritmico martellare.

Tun-tun tun-tun. Un cuore. Il cuore.«Portaci da lui» sussurrò il cacciatore.Il segugio zampettò in quel labirinto, conducendoli ormai

senza esitazione. Camminarono, stivali e zampe che marciavano senza sosta, il rosseggiare delle pareti che si faceva più intenso, quel battito sempre più cupo nelle loro orecchie, infi ne si arre-starono.

TUN-TUN TUN-TUN TUN-TUN.L’aria intorno a loro palpitava, uscendo e rientrando da due

pertugi circolari l’uno di fronte al l’al tro: i due ventricoli, l’ingres-so nel cuore. Magubalik inspirò a fondo e fece un cenno alle sue bestie. Silenziosi, cacciatore e cani entrarono.

Nonostante si sentisse la gola arida per la lotta di lì a venire,

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Magubalik non riuscì a trattenere un sospiro di pura meraviglia. Si trovavano sotto una cupola alta da perdersi nel nero, le pareti incancrenite di amebe di luce amaranto. Su quella sterminata superfi cie di pietra porfi rica grappoli di pozze mandavano rifl es-si rugginosi, come di sangue.

E proprio lì, davanti al più vasto specchio d’acqua, era acquat-tata l’ombra.

Nera, enorme, allungava la testa verso le acque immobili, dal-la sua bocca un fascio di lingue bianche, raspose, che leccavano quella rossa brodaglia.

La mente del cacciatore si fece pura come un campo di neve. Come sempre gli accadeva davanti alla preda, una certezza inte-riore insorse a calmare l’incedere del suo sangue. Il suo braccio era già un tutt’uno con il suo coltello, leggere le gambe, e il cuo-re. Non ebbe bisogno nemmeno di un cenno, che la lupa e l’ala-no avevano già circondato l’avversario, Lik ringhiava di fi anco a lui.

Alzando la testa di scatto, il Mangianomi ritirò le sue lingue nella grande bocca nera e si girò a fi ssarlo. Di nuovo Magubalik sentì quello strappo, una forza invisibile che gli arpionava il re-spiro e cercava di strapparglielo vivo dal petto, ma il cacciatore aveva già perso il suo nome una volta, e ormai nulla poteva su di lui quello sguardo.

Vedendo che, per la prima volta, il suo potere non sortiva al-cun effetto, il Mangianomi rabbrividì, onde concentriche sulla sua pelle come increspature nell’inchiostro. Si girò quindi verso destra e si trovò davanti Uba, feroce di zanne, e alla sua sinistra Maag, le grandi zampe già incoccate in un salto.

Disperata, l’ombra si voltò verso il cacciatore, Magubalik sor-rise e le venne incontro, cauto, la lama del pugnale che tagliava l’aria in lenti cerchi.

L’aveva quasi raggiunta quando la creatura mise le grandi ma-ni sulla nera bocca, e la spalancò tirandone giù gli angoli. Pareva un’atroce maschera da tragedia, due buchi per occhi e quella tri-

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ste ferita per bocca; il Mangianomi gonfi ò il petto come si prepa-rasse a urlare, dalla sua gola risalì un brulicare nero, poi uno sciame orrendo vomitò dalle sue labbra.

Il cacciatore si coprì gli occhi e il viso quando lo sciame lo investì in pieno. Ma non erano insetti quelli: parevano lucciole infernali, intermittenti di buio, una fl otta di girini incandescenti che guatasse nell’aria per avvolgerlo in un viscido abbraccio. Tut-ti erano della consistenza di un’ombra, impalpabili eppure vivi, e non appena sfi orarono la sua pelle divennero coaguli di nero, grassi e cangianti, saldandoglisi addosso come sanguisughe.

Un vento scuro soffi ava nella mente del cacciatore. Lui era...... un boscaiolo che spaccava la legna di fronte all’uscio di casa,

alzò la testa, un rumore di frasche, la scure gli cadde di mano, quegli occhi bianchi...

... una ragazza sul greto di un fi ume che lavava i panni, mosse le dita ad agitare il rifl esso dell’acqua, c’era un’ombra dietro di lei, si girò...

... una lepre ferita in un roveto, tremante, qualcosa di enorme e nero le stava appresso, forse non l’aveva vista...

Il ragazzo urlava folgorato da un assalto di ricordi non suoi, le nere creature che ormai gli si erano attaccate alle braccia, alla faccia, alle gambe, e vano era ogni tentativo di staccarsele di dosso.

Non erano insetti o invertebrati, né animali né piante, né vivi né morti. Erano Nomi, i gusci indigesti dei divorati, impurità dell’io e della memoria. Fischiavano per l’aria in un sussulto di sillabe e senso, che a sforzarsici si poteva intenderli, appena ap-pena, fi ochi come sussurri.

Avvolto da quel lenzuolo nero e stridente Magubalik si sentiva dissolvere, incapace di capire quale degli ‘io’ che bruciavano nel suo animo fosse il suo. E quel che era peggio non era la paura, bensì l’ebbrezza, di essere non più una cosa sola ma tante. Non più ‘io’ ma ‘noi’, e in quel dissolversi la comprensione che la fi amma vera di se stesso non era quella del cacciatore più di

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quanto fosse quella di una lepre o di un boscaiolo; che lui non era i suoi ricordi, non era il suo corpo, non i suoi pensieri, ma una cosa misteriosa e senza nome che viveva nelle radici di tutte le cose.

Con le dita avvinghiate sulla fronte il cacciatore barcollò in avanti, i tre cani che ringhiavano e mordevano l’aria cercando senza successo di allontanare quel brulicare dal loro padrone. Più in là, assiso sulla sua roccia, il Mangianomi volse via la testa, e a balzi e saltelli si allontanò giù per un tunnel.

Come vide che la preda gli stava sfuggendo il cacciatore fece un ultimo immane sforzo, concentrando quanto rimaneva del suo pensiero su un unico scopo. A passi incerti Magubalik avan-zò verso la pozza d’acqua e lì cadde, trascinando con sé quella nuvola nera. Ci fu un ribollire vivo nelle acque rosse, la lupa e l’alano che abbaiavano disperati, Lik con le lunghe orecchie driz-zate e attente.

Già infatti alla superfi cie venivano su bolle d’aria, poi i corpi d’ombra cominciarono a risalire, cadaveri a dozzine che si spe-gnevano come lucciole annegate. Subito Uba si gettò nelle acque nuotando a grandi zampate, e la superfi cie della pozza esplose in uno spruzzo rossastro. Tossendo sangue il cacciatore si abbrancò alla schiena della lupa e con essa raggiunse la riva, ferito, contu-so, fradicio, ma vivo.

Lik e Maag gli si fecero vicino, leccandogli via il fango ruggi-noso dal volto. Il cacciatore si pulì gli occhi e infi ne sorrise, un sorriso più duro e affi lato di Tagliaferro. Erano ancora in caccia.

«Vai Maag» disse, «vai e prendilo».L’alano guaì di gioia e divenne un fi ume di zampe in corsa.

Il Mangianomi fuggiva in un cunicolo, distanziandoli.Per poco quello strano ragazzo e i suoi cani non lo avevano

preso. A niente erano serviti i Lupuomi, i faggi fuggenti, il fi ume di nubi, la trappola del gigante di pietra, sembrava che nulla po-

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tesse fermarli, nemmeno la maledizione che lo avvolgeva nella sua stretta di odio e magia.

Il Mangianomi gemette. Un tempo era stato una creatura di carne e sangue come le altre, un essere terreno. Poi era successa quella cosa terribile, che lui ormai non riusciva più nemmeno a ricordare. Una nebbia bianca gli si era parata davanti accecando l’occhio del suo passato. Non sapeva che cosa era stato, che cosa aveva fatto di lui ciò che era. L’unica cosa che conosceva ormai era quella fame disperata, la voglia di annullarsi negli altri, di colpire ancora e ancora. E ogni volta che si nutriva, per un atti-mo aveva la certezza di esserci, di essere ancora vivo, di avere un nome; ma poi tornava la fame torva e non c’era nulla che potesse tenerla lontana.

Dentro di lui si agitavano migliaia di vite, di nomi, di ricordi. Era un lupo grigio affamato di lepri, era un cervo, un orso, un fi ume, una montagna intera, era i nomi di tutti gli alberi delle Selve, delle rovine perdute, di gatti e linci e serpenti. Ed era an-che il Barone di Spargifi ume, la madre di Scurcino, Gramunno il fattore, era i cento soldati sperduti nelle Selve, e anche Asprimia, persa nella sua prigione di fi ori dipinti.

Ma prima di tutto, il Mangianomi era vuoto. Vuoto di calore, una stagione di ghiaccio che non aveva fi ne, e dolore, un dolore bianco che non si spegneva e divampava freddo ogni volta che ricordava le pareti di una cella lontana, un luogo e un tempo re-moto in cui era stato se stesso.

E adesso non aveva scampo, non dal dolore del passato né dal volto di quel ragazzo con gli occhi di lupo.

Sentì un ringhio dietro di sé e si girò.

La prima a raggiungerlo fu Maag.Lo rovesciò per terra con l’impeto della sua carica, poi si girò

con le zanne snudate, pronta a colpire. Il Mangianomi ruggì.Era un suono atroce, mille gole di bestie e uomini che grida-

vano all’unisono, la creatura gonfi ò il petto e cominciò a cresce-

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re. Adesso era più alto di un orso, con la testa sfi orava le stalatti-ti della caverna, si girò verso l’alano e attaccò.

Rapidissima Maag lo schivò, lasciando che il Mangianomi grattasse frammenti di roccia dalla parete dietro di lei, poi l’alano si fece sotto per azzannargli il braccio, ma già l’ombra si era vol-tata e le sfregiava il dorso con il suo rostro di artigli. La cagna diede un guaito, la profonda ferita sulla groppa si era riaperta e fi ottava sangue. In un brivido di agonia l’alano tentò di rimetter-si in piedi, inutilmente.

Ci fu un lampo di pelo bianco, un ringhio, e Uba arrivò in corsa, gettandosi con un salto alla gola del Mangianomi. La gran-de sagoma d’ombra cadde per terra con la lupa bianca abbarbica-ta al collo, poi una delle sue grandi braccia si allungò, la afferrò per la collottola e la scaraventò lontano. Uba ruzzolò sul fondo della caverna e si rialzò.

Non appena il Mangianomi si toccò la gola squarciata, un brulicare nero si coagulò intorno alla ferita, compattando quel tessuto d’inchiostro pezzo a pezzo, fi nché sulla sua pelle non si scorsero più segni.

Quando lo aveva morso, Uba non aveva sentito carne o san-gue, bensì un gelo intenso, come avesse addentato un blocco di ghiaccio. Adesso si stava avvicinando, illeso, le braccia che si al-lungavano come lunghi rami, gli artigli rossi e gli occhi senza speranza.

Maag gli corse incontro in una macchia furiosa, ma il Mangia-nomi fu più lesto, alzò una mano enorme e la intercettò con un potente pugno, scagliandola a terra. Di nuovo Uba balzò alla go-la del mostro sbranando e artigliando, di nuovo la sagoma nera fl uì via dalla lupa, facendole mancare la presa. La creatura rin-ghiò, poi ingigantì fi no a riempire la caverna.

Come un sudario la cosa nera si gettò contro Uba e la stritolò in un feroce abbraccio. Una fi la di bocche apparvero sul petto del Mangianomi, zanne di lupi e linci, un brulicare di fauci pron-te a lacerarle il cuore. Uba mordeva e si dibatteva come una furia,

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ma le ferite che infl iggeva erano squarci bianchi che si cicatrizza-vano immediatamente.

Trionfante il Mangianomi gonfi ò le spalle e si preparò a squar-tare in due la lupa, quando Tagliaferro le morse il fi anco strap-pandogli un grido.

Il cacciatore gli stava di fronte, armato. La bestia nera scagliò la lupa lontano sulla parete, e si girò verso di lui. Lì dove la lama l’aveva trafi tto, il ragazzo lo vedeva bene, c’era un buco, livido e pulsante, da far intravedere la parete dietro; e già le lame di Ta-gliaferro sbiancavano, arroventandosi, come se la magia del Mangianomi e quelle del pugnale si fossero riconosciute e ardes-sero all’unisono. L’ombra mise una mano sul fi anco, ma la ferita non cicatrizzò e rimase così, un occhio vuoto sotto il costato.

Ancora stordito dal dolore, il Mangianomi si gettò su di lui. Magubalik fece in tempo a rotolarsi di fi anco, sentì sopra la testa lo spostamento d’aria degli artigli, poi saltò al lato vibrando un fendente, dal basso in alto.

Di nuovo la creatura grugnì di dolore e retrocedette, il braccio segnato da un lungo squarcio. Questa volta però un liquido scu-ro colava dalla ferita, gocce di pece che cambiavano non appena toccavano terra, sfarfallando in un aggrovigliarsi di forme.

Il cacciatore capì cosa doveva fare. Aspettò che il Mangianomi si facesse sotto ancora una volta, schivò, poi saltò in avanti, una fi nta, e con un affondo improvviso si abbrancò alla gola del mo-stro e vi spinse a fondo la lama.

Un grido assordò l’aria. Il Mangianomi urlava e si contorceva, frenetico, mutando forma pur di liberarsi dal morso del pugnale, poiché mai, nella sua vita, aveva provato un simile strazio. La sagoma ombrata prese a squagliarsi, divenendo di volta in volta quella di una enorme serpe, di un lupo, di un uomo, di un leone, urlava disperato cercando di schiacciare Magubalik sotto il suo peso, ma il cacciatore non mollava, le sue braccia avvinte a forza alla bestia.

Rotolarono per il pavimento della caverna, e ormai la creatura

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cominciava a perdere le forze, sembrava anzi che quella massa nera cominciasse a contrarsi.

Magubalik aveva un taglio profondo sulla fronte, sanguinava dalle mani scorticate e dalla ferita al costato, ma le sue braccia si rifi utavano di lasciare la preda, Tagliaferro bianco al calor vivo che apriva quella gola a strappi, quando d’un tratto un fi otto nero sgorgò dallo squarcio.

Uscirono tutti insieme: un marasma di voci, di sussurri, di urla, un vento bestiale che riempì la caverna, scagliando il cac-ciatore lontano dalla sua preda. Erano come un banco di pesci furiosi, d’ombra, che scorrevano come un fi ume per tunnel e cunicoli. La nube nera fi ottò senza fi ne dalla ferita, addensò il passaggio, e infi ne esplose all’aperto, alzandosi al di sopra dei boschi e della notte.

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VENTISEI

Ampario stava venendo su per il sentiero per recarsi ai campi, quando decise di fare sosta. Era vecchio, e basta-va una salita come quella per dargli il fi atone. Non che si

potesse evitarlo, perché da quando aveva perso le sue capre era costretto a lavorare tutti i giorni per i Baroni della Cummarola.

Il contadino appoggiò la fronte al fusto di un nocciolo e guar-dò in basso.

La campagna si disegnava perfetta nell’aria del primissimo mattino. Ampario vide gli scacchi gialli dei campi, e sparsi tra essi i casolari con le fi nestre ancora chiuse e opache. Poi il suo sguardo si spostò a sinistra, e incontrò le Selve. Il vecchio rabbri-vidì. Quel contorcersi nero, quel cangiare senza requie gli riempi-va lo stomaco di sgomento e vertigine. Voltò la testa verso la cima del colle e stava già per rincamminarsi quando avvistò la nube che l’alba stagliava netta, un fi ume nero che allagava lentamente il cielo.

Ampario piantò le unghie nel suo bastone e vide che dove quella massa turbinosa le toccava, le Selve tornavano a svettare quelle di sempre, verdi e quiete; e che nelle case sui cui tetti si allungava, sempre si udiva un grido, una fi nestra sbatteva, e le stanze si animavano di voci e candele. L’oscura fi umana sgusciò nell’aria e fl uì via verso la Città dei Nomi.

Il vecchio osservò tutto senza un respiro, diede un colpo di bastone per terra e si lanciò infi ne giù per il sentiero, le braccia alzate e il nome di sua moglie stretto fra le labbra in un grido.

Merrigio di Acquaviva sedeva accanto a sua fi glia.Da quando Magubalik e il suo fl auto avevano lasciato il castel-

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lo Asprimia era diventata sempre più assente. Incapace di provo-care una reazione in lei, il Duca le sedeva accanto per ore, leg-gendo lunghi passi del De Bello Gallico. A volte, come adesso, anche Merrigio si assopiva, fi nché la serva che veniva per dargli il cambio non lo scuoteva.

Il Duca si svegliò. Aveva udito un rumore nella stanza. Inforcò le lenti e diede un’occhiata. A parte lui e sua fi glia, nella torre non c’era nessuno. Si voltò verso di lei per vedere se dormiva e solo allora si accorse che la ragazza era seduta sul letto, con gli occhi ben aperti.

«Padre, ho fatto un sogno così strano» disse. «Non ero più io, ero un falco. Planavo fuori della fi nestra del salone, verso le torri del castello.

«Alla fi nestra di una torre ho intravisto la vostra fi gura addor-mentata, proprio su una sedia come questa. Sono entrata nella stanza e sapete chi ho visto nel letto? C’ero io, proprio io, che dormivo. Svegliati!, ho detto a me stessa.

«Allora ho aperto il becco e ho lanciato un grido. In quel mo-mento, pensate, mi sono svegliata davvero.

«Non è strano? Secondo voi cosa signifi ca?»Il Duca non disse nulla: si alzò dalla sedia e la abbracciò. La

tenne stretta a lungo, prima che la porta della torre si aprisse ed entrasse la fantesca con la notizia che in tutto il paese si stava facendo festa.

Il primo segno inequivocabile fu il campanile, che era tornato a svettare innocuo sopra i tetti delle case. Poi i prati, gli alberi, le radure e i roveti, le bestie, gli uccelli e gli insetti, i campi e i can-neti. Infi ne, una a una in paese le vittime smemorate tornarono in sé, un esercito di lazzari che invadevano le strade come son-nambuli festanti.

Un corteo spontaneo di donne e bambini nacque allora dal centro della città, dando il via a una festa a cielo aperto. Gusci d’uova colorate e bucce d’arancio piovevano da ogni fi nestra, i

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fornai per le strade distribuivano il pane senza chieder denaro, persino ladri e pezzenti si univano ai festeggiamenti ballando nelle piazze nei loro stracci.

Solo una cosa mancava perché il trionfo fosse completo: il cacciatore. Tutti inneggiavano al coraggioso che li aveva salvati dall’oblio, chi urlando il suo nome nelle piazze, chi raccontando ai bambini le sue antiche imprese, chi addirittura strepitando che il Duca gli desse un titolo.

Squadre di armigeri vennero allora mandate ai quattro angoli delle Selve, con l’incarico di battere la foresta palmo a palmo. Lo cercavano i soldati, lo cercavano i cacciatori e i contadini, perché il Balisto in persona aveva promesso una ricca ricompensa a chi avesse riportato indietro l’eroe della Città dei Nomi. Invece nulla, nessuno dei tentativi andò a buon fi ne. Sembrava che Magubalik fosse svanito nel nulla.

Dopo dieci giorni di disperate ricerche, in paese era comincia-ta a circolare la voce che fosse morto.

Il cacciatore, dicevano i vecchi nelle taverne, aveva forse tro-vato un avversario alla sua altezza. Subito quell’atmosfera di festa concitata sbiadì, impallidendo in un coprifuoco di silenzio. Fuo-ri delle porte delle vittime cominciarono ad apparire coccarde nere in segno di lutto, fi nché l’uso si sparse in tutto il paese, e non c’era ormai portone che non ne facesse mostra.

Quanto ai nobili, le voci sulla morte di Magubalik li avevano colpiti ognuno in maniera diversa. Il Conte non faceva che parla-re di come tra lui e il giovane cacciatore stesse nascendo una grande amicizia, spezzata tragicamente. Torrespacca si nominò anzi ‘il confi dente del valoroso’ e a tutte le dame del bel mondo raccontava con tono commosso di come il giovane avesse scelto uno dei suoi cani per intraprendere la fatale impresa.

La Duchessa Ermenita mostrava invece un contegnoso riserbo a parlare del cacciatore. Alle amiche fi date, tra le tende di velluto del suo palazzo, confessava: quel ragazzo era stato una stella co-meta, troppo fulgida, troppo bella, per durare.

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Fra tutti, il Duca di Acquaviva era quello che sembrava più sinceramente toccato dalla morte di Magubalik. Aveva già stabi-lito di dedicarsi, negli anni a venire, a stendere una biografi a che riferisse di tutte le sue imprese. Per bocca di un suo cognato di Montefosco aveva poi saputo di quei suoi nobili natali, e ben presto la notizia era diventata la chiacchiera preferita delle popo-lane.

Il ragazzo aveva del sangue blu nelle vene, era fi glio di un Marchese, illegittimo ma pur sempre galantuomo! Tutti i nobili del Ducato, Balisto e Duchessa inclusa, dissero che fi n dalla pri-ma occhiata lo avevano capito: quel portamento impettito, da Signore, non poteva mica appartenere a un plebeo.

L’unica che in principio non parlava mai di Magubalik, nem-meno un accenno o una mezza parola, era proprio Asprimia. Do-po aver appreso le vicende accadute durante il suo lungo sonno, la ragazza si era chiusa in un ostinato mutismo.

Sebbene non ne serbasse memoria, le vicende vissute pareva-no averla cambiata. Una serietà nuova era scesa a impallidirle il viso. La ragazza, sola, si teneva in disparte, gli unici di cui cercas-se la compagnia Gringiasangue e Bailampo.

Nel silenzio delle sue giornate Asprimia rifl etteva. Tutti, suo padre, i servi, persino sua madre, non facevano che raccontarle della sua fortuna, del miracolo della sua guarigione, di come solo al cacciatore dovesse la vita e l’anima.

Asprimia lo odiava. Quale altro nome si poteva dare al senti-mento che le si arroventava dentro? Magubalik aveva ucciso per lei una bestia così terribile che nemmeno un intero esercito era riuscito a sconfi ggere, l’aveva strappata all’oblio dei senza nome, aveva dato alla sua città un futuro, e poi era morto.

Come aveva osato? Come aveva osato morire?!La notte Asprimia restava sveglia osservando la luna sorgere

sulla città. Nel silenzio la ragazza alzava una mano su quel disco bianco e cercava di ricordare. Aveva una sola immagine chiara del suo lungo sonno: una mano, bianca e forte, stretta alla sua.

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Quanto poco sapeva di quella mano! Aveva accarezzato altre donne? Quante bestie aveva ucciso, quante ferite aveva inferto? Era affusolata come quella di un ragazzo o muscolosa come quel-la di un uomo? Non l’avrebbe saputo mai.

Disperata, la ragazza incominciò a chiedere a tutti quelli che l’avevano conosciuto, dagli stallieri al Conte di Torrespacca. Vo-leva sapere tutto di lui, come camminava, come parlava, quali erano le cose che era solito dire.

Così, di domanda in domanda, l’immagine del cacciatore ven-ne a formarsi nitida nell’occhio della sua mente.

Intere notti trascorreva Asprimia a dargli vita; ecco, bastava una pennellata delle sua ciglia chiuse che poteva vedere la sua barba, perché così se lo immaginava, alto e con la barba; e poi gli occhi, neri dovevano essere, leggermente a mandorla, come quel-li di un lupo; e la bocca, rossa come un lampone, dalle labbra sottili. Invece, bastava volgere il capo altrove per vederlo svanire, e nulla restava nella stanza se non il fantasma del suo respiro.

Passarono i giorni, e notte dopo notte pareva che Asprimia smagrisse, che diventasse di nuovo l’ombra taciturna che era sta-ta, più cupa anzi, e senza sorriso. A nulla servivano le cavalcate nelle Selve, a nulla le chiacchiere di salotto o i romanzi che prima leggeva dall’alba al tramonto: la grande avventura della sua vita era venuta, l’aveva sfi orata senza che lei lo sapesse, ed era passata oltre.

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VENTISETTE

Ignaro di tutto, il cacciatore si dirigeva in città.Aveva trascorso gli ultimi dieci giorni a curare se stesso e i

suoi cani, aspettando che si riprendessero dalle battaglie so-stenute. La ferita sulla groppa di Maag era stata grave, c’era man-cato poco che l’alano ne morisse dissanguato. Per una settimana intera cacciatore e cani non avevano fatto che riposare, e solo allo scadere del settimo giorno Magubalik si era deciso a rimettersi in marcia.

Da tempo ormai avevano lasciato il casino di caccia, e adesso si trovavano nelle Selve immacolate, a sole sei leghe dalla Città dei Nomi.

Magubalik avrebbe dovuto essere felice; aveva sconfi tto la be-stia più pericolosa del Regno di Napoli e in cambio avrebbe otte-nuto fama, onorifi cenze, e oro a suffi cienza da sistemarsi per molti anni a venire. Eppure, senza che ci fosse una ragione preci-sa, egli sentiva quel successo insapore come un vino troppo gio-vane. In fondo, se aveva vinto il Mangianomi lo doveva solo ai suoi cani; anzi, per la prima volta...

Il cacciatore rammentava con chiarezza.La caverna, l’uragano di Nomi, e poi quel silenzio, puro come

fosse il primo mattino del mondo. Ricordava i guaiti dei cani in-torno a lui, il dolore nelle braccia, il Mangianomi che rimpiccio-liva man mano che quelle nere scintille fl uivano via da lui. Inerte sul pavimento quel guscio d’ombra si era dissolto, e aveva infi ne rivelato la forma in esso contenuta, anche se nella nuova oscurità il cacciatore non aveva potuto capire quale fosse.

Rialzandosi in piedi il cacciatore aveva estratto Tagliaferro dal-la ferita, che subito si era cicatrizzata. Gli occhi della creatura

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sotto di lui, l’unica cosa visibile nel buio sopraggiunto, non era-no più due buchi spaventosi: solo gli occhi puri di una bestia impaurita. Il ragazzo aveva alzato il coltello e glielo aveva punta-to dritto al cuore.

Ma poi, davanti al compimento di quella giusta esecuzione, la sua mano aveva esitato. Troppo bene ricordava l’angoscia di esse-re privo di sé, e quella ancora peggiore, dei mille nomi estranei che lo straziavano da dentro. E se quell’agonia lui l’aveva provata solo per pochi momenti, cosa mai doveva aver vissuto quella creatura? Allora il Mangianomi aveva aperto bocca e aveva detto: «Perdonami». Il cacciatore era rimasto senza fi ato. Non tanto per la sorpresa di sentirlo parlare, ma perché in quella voce aveva sentito un dolore assoluto e puro, l’innocenza di un animale in parole umane. Magubalik aveva alzato di nuovo il coltello, il ne-mico alla sua mercé.

«Vattene» aveva detto invece. «Vattene e non tornare più».E la bestia si era alzata, allontanandosi nel buio e nel silenzio.Questo ricordava adesso alla luce del sole, e davanti alla me-

moria di quella misteriosa vittoria il cacciatore si sentì calare ad-dosso una pesante stanchezza.

In nove anni trascorsi nei boschi Magubalik aveva catturato, cacciato, ucciso ogni tipo di creatura e bestia, raggiungendo una notorietà che cacciatori più esperti di lui avevano impiegato una vita a ottenere. Adesso che aveva sconfi tto il Mangianomi era diventato forse il più grande cacciatore non solo del Ducato, ma dell’intera regione; persino a corte si sarebbe parlato della sua impresa, dame incipriate avrebbero sussurrato il suo nome tra ventagli d’avorio; suo padre, il Marchese, ne sarebbe stato fi ero. Era strano, altri avrebbero gioito per ognuna di quelle sue vitto-rie, e invece lui non sentiva niente, non gioia, né trionfo.

Suo malgrado, Magubalik sorrise. Era in momenti come que-sti che amava suonare il fl auto d’osso per staccarsi dalla sua ma-linconia, ma lo strumento era andato perduto nelle caverne e non c’era possibilità di recuperarlo.

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D’un tratto il cacciatore si ritrovò a pensare alla ragazza della torre e si accorse che quei pomeriggi trascorsi a suonare per lei gli mancavano terribilmente. Si chiese anche dove fosse adesso la mano che era solito stringere, se dormiva o era intenta a spazzo-larsi i capelli.

Magubalik stese la sua contro il sole che si affacciava dalle nubi.

Forse anche lei stava facendo lo stesso. E allora, poiché i cieli sopra la terra sono tanti e diversi ma il sole è uno, sarebbe stato un po’ come stringerle ancora la mano, dita su dita, palma contro palma, attraverso la distanza di cipressi, campi e case. Uba diede un lungo ululato distogliendo Magubalik dai suoi pensieri.

Con un gesto il ragazzo si rimise lo zaino in spalla e si sporse dal picco che si affacciava sulla vallata. Sotto di lui mura antiche cingevano una distesa di tetti e comignoli. Erano arrivati.

Si fecero strada fra le grandi porte di ferro, spalancate.Un silenzio assoluto regnava per le vie, sembrava che tutto

fosse tale e quale al giorno del suo arrivo: il paese era deserto. Questo lo sorprese. Si era immaginato una città in festa, e invece era come se una nuova sciagura si fosse abbattuta tra le sue mura.

Lentamente Magubalik si incamminò per le strade vuote. Tut-te le fi nestre delle case erano sbarrate, gli scuri dei negozi serrati, coccarde nere di lutto pendevano da tutte le porte.

Magubalik si sentì in petto un cattivo presentimento e accele-rò il passo. Stava avanzando per le strade seguito dai suoi cani quando udì un sommesso vociare dalla parte del mercato. Il gio-vane svoltò l’angolo e si trovò davanti a uno spettacolo inatteso.

Tutta quanta la città sfi lava sotto un velo di pioggia in un cor-teo funebre, fi accole alla mano, seguendo un grande carro tirato da sei neri cavalli. In testa alla processione la carrozza del Duca conduceva verso il cimitero.

Il ragazzo si unì alla folla. Alcuni nomai gli diedero appena un’occhiata fugace, presi com’erano dalla cerimonia. Magubalik

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gettò uno sguardo al corteo e si accorse che il carro trainava, dentro una bara d’argento, un corpo pallido vestito di broccati, ma il movimento della gente non gli permise di vedere meglio.

Il cacciatore cercò di avvicinarsi a qualcuno per domandare di chi fosse quel funerale e andò invece a sbattere sulla schiena di un omone incappucciato, facendogli sfuggire la fi accola in una pozzanghera.

«Ma te vada in bruga!»Magubalik riconobbe subito la voce. Era Purpacchio, il capra-

io con cui aveva parlato il giorno del suo arrivo in città.«Purpacchio, non mi riconosci? Sono io, Magubalik. Dimmi ti

prego, di chi è il corpo che state scortando? È forse quello della Duchessina Asprimia?»

Il contadino sgranò gli occhi e con un grido lo sollevò da terra.«Che ti prende? Lasciami!»Ma il capraio nemmeno lo ascoltava tanto era fuori di sé dalla

contentezza, e lo tenne stretto per le braccia facendolo roteare come un bambino.

Quando lo rimise giù un gruppetto di nomai li aveva già cir-condati, facendo ressa con le fi accole intorno al cacciatore. Con quanto fi ato aveva Purpacchio si lanciò strepitando verso la testa del corteo.

«Eccellenze! Aggribbia! Aggribbia lu corteu!»Al grido del capraio il corteo si era arrestato, e il Duca si spor-

se verso di lui dalla fi nestra della carrozza.«Che cosa c’è? Nemmeno per i morti avete rispetto?»«Vossignoria, o’ bertambotto, o’ bertambotto!»«Cosa?!»«Il cacciatore, Eccellenza. È tturnatu!»Il Duca scese e si fece largo a spintoni verso il centro del cor-

teo, seguito da due armigeri e dal Balisto, e vide che tutto intor-no la gente gridava e cantava, lanciando le fi accole al vento. In mezzo a quel marasma stava, alquanto confuso, Magubalik. Non

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appena lo vide il Duca lasciò perdere l’etichetta e lo abbracciò stretto come fosse un fi glio.

«Eccellenza! Mi dica, che cosa gli è preso a tutti? Di chi è que-sto funerale?»

«Non lo avete capito?» rispose commosso il Duca. «È il vo-stro».

Era stato dopo lunghe rifl essioni che il Balisto e il Conte avevano deciso di tributare al cacciatore funerali degni di un nobile di Spagna. In mancanza di un corpo da seppellire, Asprimia stessa aveva ordinato ai migliori impagliatori del Ducato di costruire un manichino di cera con le sue sembianze.

Per tre giorni e tre notti costoro avevano lavorato senza ripo-so, per terminare infi ne quello che a detta di tutti era il loro ca-polavoro. Vestito dei più bei velluti di Parigi, il feretro di cera era stato adagiato sul letto di una bara scoperta, d’argento. Era una statua, ma così ben fatta, così somigliante all’originale da far rab-brividire quanti l’avevano conosciuto per davvero.

Il naso affi lato, le ciglia sottili, gli zigomi scavati, le labbra spesse, Asprimia lo osservava tutt’occhi. Eccolo dunque, la neme-si del Mangianomi, colui che aveva salvato il Ducato e lei stessa: un ragazzo smilzo e dai capelli arruffati, di vent’anni nemmeno.

La ragazza chiese e ottenne di rimanere sola con il manichino. L’odore della cera e della paglia riempiva l’aria della camera fu-nebre, e solo quando fu certa di essere sola Asprimia si lasciò andare in un pianto disperato.

Le lacrime le correvano dalle sue guance a quelle bianche del manichino, dando l’illusione che anche la statua di cera pianges-se. A lungo Asprimia ne aveva accarezzato le gote fredde, le ma-ni, la fronte, come se le sue dita ricordassero le cieche carezze di un tempo. Non era che un pupazzo certo, eppure per lei era qua-si reale, quasi vero, l’assenza viva di lui.

Infi ne si era chinata su quelle labbra immobili, e le aveva ba-ciate.

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Di malavoglia la Duchessina, che avrebbe voluto seguire il fune-rale a piedi, aveva ceduto alle insistenze di sua madre perché si attenesse alle consuetudini del suo rango, viaggiando in carroz-za. Così il corteo avrebbe dovuto accompagnare il cacciatore per tutte le strade della città, arrampicandosi su per il colle del cimi-tero prima di fi nire il suo viaggio davanti alla tomba di famiglia.

O almeno, quella era stata l’intenzione.

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VENTOTTO

Come tra i nomai si seppe che il cacciatore era vivo, e che anzi era proprio lì, in mezzo a loro, la folla eruppe in un grido liberatorio. A ondate gli si strinsero addosso e

lo issarono sulle spalle, ridendo, i tre cani che abbaiavano felici intorno.

La carrozza ducale ci mise un po’ a farsi strada tra la calca, poi dalle sue porte istoriate scesero la Duchessa e il Conte di Torre-spacca: entrambi elargivano sorrisi come monete false, e i loro volti erano bianchi.

La Duchessina Asprimia rimase invece a lungo dentro la car-rozza. Quando ne emerse il suo bel viso era bianchissimo, nero era il suo vestito e nere le sue scarpe, sul braccio ardeva rosso Gringiasangue.

Il Duca e il Balisto accolsero il cacciatore sul balcone del pa-lazzo ducale, lo stesso dal quale gli avevano affi dato la sua mis-sione. Non appena raggiunse la balaustra la folla scoppiò in un coro di grida e fi schi. Magubalik era felice, anche se tutto quel trambusto poco si adattava alla sua natura schiva; guardava in-certo la folla agitando la mano, senza sapere cosa altro fare o dire.

Poi Asprimia mise piede sul balcone e i suoi occhi non ebbero spazio per altro. La giovane donna che aveva davanti era molto diversa dalla ragazza della torre chiusa, ma certo non meno bella. L’innocenza della prima si era trasformata in uno sguardo voliti-vo, mento alto e occhi orgogliosi, che teneva puntati su di lui come a sfi darlo; solo un leggero tremito delle labbra tradiva le emozioni che le si agitavano dentro.

I due si fi ssavano, parevano due avversari pronti a darsi batta-glia, i loro sguardi non accennavano a staccarsi. Infi ne Maguba-

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lik abbassò gli occhi e dal braccio della Duchessina Gringiasan-gue lanciò un grido.

Intanto il Duca aveva fatto cenno alla folla di far silenzio. Il nobile si volse a Magubalik, e a voce alta disse: «Giovanotto, voi avete trasformato un lutto in una grande festa. Non solo ci avete liberato dal Mangianomi, ma ci avete riportato l’eroe della nostra città».

Ci volle parecchio prima che tornasse il silenzio.«Il debito che abbiamo nei vostri riguardi è incalcolabile e qui

a ringraziarvi non è solo il Duca, ma anche il padre a cui avete restituito il bene più grande: la vita di sua fi glia».

Un fragoroso applauso scosse la piazza.«Pertanto riteniamo che il debito di quattromila scudi d’oro

che avevamo verso di voi sia nullo. Noi vi dobbiamo la vita, e la vita non ha prezzo. Chiedete qualsiasi, ripeto, qualsiasi cosa, e se è in nostro potere, noi ve la concederemo».

La folla trattenne il fi ato. Che cosa avrebbe chiesto Maguba-lik? Un castello, delle terre, una somma in denaro, un titolo?

Il cacciatore stette a lungo in silenzio, poi disse: «Vi ringrazio Duca per le vostre parole. Tuttavia, poiché l’unica cosa che io vorrei voi non potreste concedermela, non desidero nulla se non il pagamento del prezzo stabilito».

La risposta di Magubalik provocò un brusio di sorpresa.Il Balisto si avvicinò a lui e gli sussurrò alle orecchie: «Suvvia,

non siate stupido, cercate di approfi ttarne».Ma il cacciatore seguitava nel suo silenzio. Per un attimo alzò

il capo e incontrò gli occhi di Asprimia. La Duchessina lo scruta-va con il viso imporporato, lo sguardo acceso.

Il Duca, che non aveva staccato un momento gli occhi dal ra-gazzo se ne accorse, assentì gravemente e disse: «Bene. Se voi non desiderate nulla che noi possediamo, lasciate ugualmente che vi faccia una proposta. Il Barone di Spargifi ume è morto me-si orsono senza lasciare eredi. Vorreste voi diventare nostro vas-sallo, e prendere il baronato di Spargifi ume?»

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Un baronato! Nessuno sano di mente avrebbe mai rifi utato una proposta simile. Persino tra la gente incominciarono ad al-zarsi delle voci.

«Accetta Magubalik!»«Sì, accetta!»Il cacciatore si passò una mano sulla faccia.«Voi siete troppo generoso perché io possa rifi utare senza of-

fendervi» rispose il giovane. «E tuttavia, devo rifi utare una se-conda volta».

Grida di protesta si udirono dalla folla. La Duchessa Ermenita, che alle parole del marito era impallidita, si fece rossa di stizza.

«Come osa?» disse tra i denti. «Come osa?»Accanto a lui il Balisto biascicò con disprezzo: «Siete uno

sciocco».L’unico che non sembrò scomporsi affatto era il Duca, il quale

si volse e guardò sua fi glia. Asprimia d’istinto mise una mano al suo orecchio pendulo, ma la sua pareva più una supplica che una minaccia.

Il Duca le sorrise poi si rivolse al cacciatore.«E sia. Noi accettiamo il vostro rifi uto come segno di nobiltà

d’animo, ma ciononostante ripetiamo la nostra offerta. Questa volta però prima di rifi utare vi chiediamo di rifl ettere su questo: che secondo la legge del regno soltanto un nobiluomo può spo-sare una nobildonna».

Magubalik trattenne il respiro.«Che cosa signifi ca?»«Signifi ca che poiché voi ci avete restituito nostra fi glia noi

abbiamo deciso di farvene dono. E poiché io so che mia fi glia sarebbe ben felice di questa unione ve lo chiedo per l’ultima vol-ta. Vorreste voi divenire Barone di Spargifi ume e prendere così la Duchessina Asprimia in isposa?»

Nessun silenzio fu mai così assoluto come quello che calò nel-la piazza dei Nomi in quel momento. La folla dei nomai, i nobili

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sul balcone, gli armigeri, persino i tre cani di Magubalik, tutti erano immobili statue di cera.

Magubalik guardò Asprimia, e Asprimia guardò Magubalik. Poi il cacciatore si volse verso il Duca e disse:

«Lo voglio».

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EPILOGO

Le nozze furono celebrate un mese dopo, al suono delle grandi campane della chiesa, le stesse che il Mangianomi aveva precipitato con il suo tocco.

Che notte fu quella! Illuminata da luci pirotecniche e fuochi greci, la Città dei Nomi pareva un’antica signora vestita di luce.

Lasciate che ve ne descriva lo splendore: un corteo di carri in festa che si allungava nella campagna, stelle fi lanti e girandole ai lati delle strade, capannelli di gente, gli strilli delle ragazze e gli scoppi dei petardi nei vicoli.

E poi nella piazza Grande lo vedemmo tutti: Magubalik che usciva con Asprimia dall’arco della chiesa, i tre cani che li segui-vano come scorta d’onore.

Uba, magnifi ca nella sua ferocia, teneva alte le sue ferite come medaglie permettendo a quanti osavano di accarezzarle il manto striato.

Maag era una trottola di velocità indiavolata, scartava e corre-va per la piazza, causando spavento tra gli adulti e risate tra i bambini.

Ultimo veniva Lik, pareva fosse cresciuto da quel cucciolo che era, trottava felice a fi anco del suo padrone con quello strano cappuccio che gli copriva le orecchie.

Magubalik guardava la folla e salutava, stretto ad Asprimia che gli poggiava la testa sulla spalla, l’orecchio pendente in bella vista.

In alto su di noi volteggiava Gringiasangue, che di tanto in tanto planava e lanciava uno stridio feroce.

Ci fece segno con la mano il cacciatore, poi i due sposi saliro-no nella carrozza ducale e si fecero strada fra le urla della gente,

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verso il castello di Acquaviva dove un sontuoso ricevimento era stato approntato per l’occasione.

I fortunati che vi assistettero raccontarono di torte di pernici alte come un uomo, di servi in livree dorate e parrucche di fi lo d’argento, di lanterne e fi accole tanto numerose da illuminare il cielo come un’alba.

Tra la folla di servi e cuochi spiccava una selva di teste titolate. Vi erano il Principe Cariati, il Marchese Campolattaro, il Duca di Caracciolo, la Duchessa di Monteleone, persino il Principe di Ca-rafa, fi glio del Viceré, e tanti e tanti altri ancora, le loro mantelle di trine dorate ardevano al fuoco delle torce. Tutti brindarono al cacciatore, seicento calici di cristallo alzati in suo onore tra gli scoppi di archibugio e il latrare gioioso dei cani.

Così i festeggiamenti andarono avanti per giorni e notti intere, e fu in quella occasione che, per la prima volta dopo vent’anni, venne visto in quelle contrade un Contaombre, un omone bar-buto che si faceva strada accompagnato dalla sua scimmia balle-rina e dalla sua lanterna.

Il nostro era stato un viaggio lungo e avventuroso, una traversata diffi cile e piena di imprevisti, e tuttavia quello era un appunta-mento a cui non potevamo mancare. Non appena giungemmo alle porte della città, la sola vista dei fuochi e dei cortei ci sembrò uno spettacolo già suffi ciente a ripagarci di tanta fatica.

Vennero a noi prima a dozzine, poi a centinaia, a migliaia.Eravamo l’unica oasi in un deserto di assetati, soli davanti a

centinaia di orecchie desiderose di una sola cosa: ascoltare la sto-ria di Magubalik, ancora e ancora.

Giovani lavandaie, contadini, vecchi artigiani: a chiunque ce lo chiedesse non lesinavamo il nostro tesoro. Con il solo aiuto della nostra lanterna narrammo di come il cacciatore e i suoi tre cani avevano attraversato le Selve, di quando erano sfuggiti alle fauci della Città Fiorita e avevano affrontato la minaccia dei Lu-

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puomi, fi no a penetrare nel cuore dell’orrido e nella tana del Mangianomi.

Secondo il nostro estro imitavamo i rumori della pioggia e del vento, il cozzare delle spade, persino l’agghiacciante risata dei Lupuomi.

Dietro di noi, sui muri delle case la danza delle nostre ombre animava il loro sguardo: forme vaghe nelle quali si scorgevano la fi gura del cacciatore, le sagome dei Lupuomi, quella deforme del Mangianomi, oppure le ombre dei tre cani che correvano nei bo-schi.

A lungo, quando fi nivamo di raccontare, la gente rimaneva immobile e muta. Poi applausi e grida salivano dalla folla come un uragano e noi passavamo tra loro, la scimmia con il piattino e l’uomo con il cappello, e le monete vi cadevano dentro a pioggia.

Infi ne facevamo un inchino, la lanterna si spegneva e restava solo il buio e il silenzio dei grilli.

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LIBRO SECONDO

Il Contaombre

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Buio, e in questa piccola notte una luce.Appena la lanterna si accende il vicolo si anima di super-

fi ci inquiete. La luce rifl ette due ombre sulla parete: la scim-mia e il vecchio cantastorie, se ne stanno in piedi, senza riposo davan-ti a un letto di legno e paglia.

C’è una fi gura distesa su quel letto, accanto al vecchio e alla sua bertuccia. È un uomo nudo e vivo, disteso supino. I capelli sono lunghi, come lunga è la barba, le guance ancora incrostate di fango e foglie. Pare morto, solo le ali delle sue ciglia palpitano appena, un battito, due.

L’ombra del vecchio cantastorie si china su di lui, afferra il panno bagnato che la sagoma nera della scimmia gli allunga. Così incomin-cia a pulirlo, lui il volto, la scimmia le mani, un’opera di restauro come fossero pittori antichi a intingere il pennello nelle vene di Dio. L’uomo disteso è scosso da un sussulto, i suoi pugni si stringono, poi si rilasciano in un sospiro: dorme, forse sogna.

Avvicinatevi: ora che l’argilla più tenace si è sciolta si scorgono chiaramente due sfregi che scendono dagli occhi fi no al mento, come avesse pianto lacrime affi late. E non solo, tutta la sua schiena è un camposanto di cicatrici a croce, di fori di pallottole, di tagli e croste non rimarginate, intricata geometria del dolore.

Lo riconoscete? Eppure sapevate il suo nome, era un racconto che ne abbracciava molti altri, la fi amma stessa della nostra lanterna, la mia voce in una notte di ombre e ferite.

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PRIMA PARTE

La Preda

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UNO

L’uomo, troppo alto e troppo magro per i suoi sessan-t’anni, si mosse a regolare la lanterna a olio che sfarfal-lava sulla scrivania.

Il Duca Merrigio di Acquaviva non riusciva a prendere sonno. Era stato a lungo sveglio sui suoi libri ad acchiappare parole co-me lucciole, nel tentativo di fi nire il terzo tomo dell’opera.

Dalla fi nestra aperta un tepore di luna primaverile irradiava nell’alta stanza della torre. Merrigio cercò ancora di concentrare la svogliata attenzione sulla penna di struzzo che aveva in pugno, inutilmente. Uno strano malessere, forse dovuto all’afa lunare, non gli concedeva né la resa del sonno, né il pieno bene dell’in-telletto.

Arrendendosi al morso della malinconia notturna il Duca si alzò e si affacciò dalla fi nestra. L’alone bitumoso delle fi accole sulle mura e, di là da esse, una vastità nera di terra bagnata e la-trar di cani, lontano, lo raggiunsero.

Solo nel perfetto silenzio della luna l’Acquaviva notò le ferite nere degli spalti, erosi dal fuoco, scheggiati dai colpi d’archibu-gio. E pensò a quanto poco c’era mancato a che il castello fosse adesso tutto una rovina, un cuore desolato di carbone.

Come era bella invece la campagna ammantata e oscura di ri-cordi: pareva ieri che suo padre Arciulfo di Acquaviva, coi baffi lucidi e il frustino di cuoio in mano, lo conduceva a cavallo per le vie basse delle Selve a stanare lepri e beccacce. Voltando il ca-po il vecchio nobile scorse l’ombra che la lanterna soffi ava sul muro. Pareva la medesima della sua adolescenza, più curva forse, ma della stessa nera materia di sempre. Eppure quanto era cam-biato, quanto più antico e triste si sentiva.

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Si avvicinò al libro che stava scrivendo come se tra le pagine cercasse la risposta alle sue bianche domande. Era forse per que-sto che aveva cominciato a scrivere la storia della vita di Maguba-lik? Anche adesso che lui era solo il nome di un ricordo, una promessa mancata? Sì, era dunque così, poiché nel cacciatore il Duca si era rivisto ragazzo, innocente di sogni adulti, vivo d’im-prese impossibili, e di quelle imprese e dell’innocenza di quei sogni si sentiva il custode affi nché si tramandassero di pagina in pagina nella memoria di tutti. Con un sospiro il vecchio si acco-stò alla fi nestra per chiuderne le ante e accingersi di nuovo a scrivere, quando vide la creatura.

La luna la disegnava a quattro zampe, netta e bianca accanto alle mura affumicate. Acquaviva guardò meglio, si sporse, certo era colpa dei suoi occhi stanchi. E invece alla base della torre più alta c’era davvero qualcosa.

Non si era sbagliato: un animale grosso come un cristiano era acquattato sotto la fi nestra della Duchessina. Ne vide chiaramen-te il respiro vaporare dal muso, poi quello poggiò le zampe ante-riori sul muro, alzò la testa, si acquattò e spiccò un salto. L’om-bra schizzò in alto, quasi dodici piedi d’altezza, ricadde in terra, si accucciò pronto a saltare ancora.

Il fi ato nella bocca del Duca si agghiacciò in un grido. Rie-cheggiò nelle colline e più in là, al buio, verso i casolari alle pen-dici delle Selve.

Sotto la torre un rifl esso di luna riverberò verde in quegli oc-chi. Il vecchio inghiottì: la bestia lo aveva visto. Un cane, pensò subito il Duca, un cane orrendo, ma non riuscì a ricordare cosa avesse provocato in lui quel pensiero perché, in quell’istante, il Latrante latrò.

Un grido oscurò la notte di vento e fame, il Duca lo sentì moz-zare di netto il suo respiro. Lo riconosceva. Era l’urlo agonizzan-te del suo primo cavallo nelle scuderie, era il gemito nel pugno di lui ragazzo davanti al letto funebre del padre, era la notte stes-

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sa incui era diventato Duca di Acquaviva e aveva perso tutte le sue imprese d’infanzia.

Il latrato salì al suo apice, calò, si arrese al silenzio.Seguì l’abbaio di tutti i cani del cortile, il nitrire dei cavalli,

uno strepito di allarme e voci.Il Duca Merrigio si riscosse a fatica, madido, le orecchie che

ancora gli ronzavano di quella nota cupa. Si affacciò alla fi nestra, e vide che sugli spalti le guardie cercavano di orientarsi per pren-dere di mira l’invasore. Ma dell’urlatore notturno non vi era già traccia, svanito, non aveva lasciato altro che il ricordo del suo grido.

Lentamente il Duca si staccò dalla fi nestra e si voltò, in tempo per incrociare lo sguardo vacuo di sua moglie, la Duchessa Er-menita di Acquaviva. Costei era entrata silenziosa, ancora in ve-staglia, le iridi grigiastre che luccicavano sotto la mole di un’im-mane parrucca, alta da sfi orare il soffi tto.

«State bene?» chiese Merrigio.La Duchessa non rispose, pareva cercasse tra l’ordito della

parrucca un fi lo di pensieri interrotto. Si pulì invece una grassa lacrima sulle guance, fi ssò gli occhi arrossati nei suoi, e il Duca stava certo per dirle qualcosa, qualcosa di importante e decisivo sulla strana esperienza che avevano appena vissuto, quando dal-la fi nestra giunse un altro grido.

Non inumano e nemmeno d’uomo: di donna.

La mano magra del Duca girò la chiave della torre, dietro di lui il volto impassibile della Duchessa.

Non appena la porta della camera fu aperta il lume del Duca ne esplorò i recessi. Era una stanza vuota, i cui affreschi un tem-po vividi erano sbiaditi, lasciando sulle pareti appena le tracce stinte di rose, margherite, gigli. Sotto una lunga scala che si ar-rampicava in alto c’era una gabbia da falcone coperta da un pan-no. E lì a fi anco, dritta come una candela nera, stava la ragazza.

Tredici veli la ricoprivano da capo a piedi, tutti neri, sottili

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come il sussurro di un serafi no, dandole l’aspetto di un fantasma a lutto, e tra essi appena si intuiva l’orecchio pendulo, bianco come un’ala. Una mano pallida si fece strada alle labbra nel se-gno del silenzio, come se già osassero troppo a respirare.

«Avete sentito?» disse. «Di nuovo. Lo hanno fatto ancora. Non è quel grido che li ha svegliati. Era come se sapessero già, come se l’avessero atteso. E dopo il grido... Pensavo si fossero spaventati, e sono corsa alle gabbie. Allora quelli...»

Ancora silenzio, poi il Duca disse: «State bene fi glia? Quella bestia...»

«Dovete venire a vedere» interruppe lei. «Venite!»Così dicendo la Duchessina Asprimia prese l’anello di chiavi

alla sua cintura e si fece strada verso la porticina sull’alta scala.Come il Duca vide a quale porta sua fi glia si dirigeva la fronte

gli si gelò di sudore. Con passo incerto si fece strada sulla stretta scala seguito dalla moglie, tre ombre ondeggianti sulla parete di tufo.

La porta del soppalco si aprì con un crepitio. L’attico era va-stissimo, circolare, tutto travi e ragnatele, e proprio in mezzo a quel cerchio stava la gabbia. Era enorme, le sbarre contorte come fossero serpi di ferro, maculate di ruggine, una spessa catena la inchiodava al pavimento e alle travi in alto, anelli spessi un dito. Per terra tutt’intorno a essa c’erano mozziconi spenti di candele, punte di frecce di balestre, una scodella di legno in cui arrancava uno scarafaggio zoppo.

Il Duca trasalì quando intravide, alla luce della sua lucerna, una fi gura umana sdraiata per terra.

Disteso come se dormisse c’era infatti un manichino di cera. Era uno spettacolo ben strano, quella sagoma umana, tanto rea-listica da sembrare viva, bianca e immobile in mezzo alla pol-vere.

Non appena il Duca gli si fece appresso si accorse che il volto del manichino era stato sfregiato a coltellate, più e più volte, fi n-ché il viso non era diventato irriconoscibile. Si udì un ringhio

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profondo. Il Duca si girò e alzò la lanterna verso la gabbia: i tre cani erano lì.

Erano mesi che l’Acquaviva non faceva visita alla gabbia, e come vide i suoi tristi abitanti il Duca rabbrividì e abbassò la lanterna, nascondendoli alla luce.

«Non capisco» sussurrò alla fi glia.«Ecco» rispose lei, indicando le tre bestie che avevano preso

ad agitarsi nella gabbia. Allora dal buio il ringhio dei cani si fece un uggiolio, divenne una voce bestiale, roca, umana.

«Torna» dissero, tre gole e una sola voce d’uomo.

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