Ehi tu! Vuoi essere mio amico? Bibliografia per bambini e ragazzi
Il libro - DropPDF3.droppdf.com/files/B3b18/percy-jackson-racconta-gli-dei-greci.pdfquaranta...
Transcript of Il libro - DropPDF3.droppdf.com/files/B3b18/percy-jackson-racconta-gli-dei-greci.pdfquaranta...
Il libro
Amori, passioni, eroismi, avventure, colpi di genio. Ma anche furti, bugie,
pugnalate alle spalle, fratricidi e, per non farsi mancare nulla, un pizzico di
cannibalismo.
Gli dei della mitologia greca, si sa, hanno un caratterino imprevedibile e nessuno
meglio di Percy Jackson conosce gli esiti spesso catastrofici delle loro estrosità.
Del resto un semidio ha uno sguardo privilegiato sugli abitanti dell’Olimpo e può
svelarci le loro storie osando intitolarle ―Tutti pazzi per Afrodite‖, ―Dioniso
conquista il mondo grazie a una bevanda rinfrescante‖ o ―Artemide sguinzaglia il
Maiale della Morte‖.
Dissacrante e ironico come sempre, ma al tempo stesso preciso e accurato nel
racconto dei miti greci più celebri, Rick Riordan torna con una guida
divertentissima al Monte Olimpo e dintorni, dopo la quale ninfe, ciclopi e divinità
primordiali vi sembreranno familiari come i vostri cugini.
L’autore
Autore per ragazzi e adulti, Rick Riordan
è stato premiato con i riconoscimenti più importanti del genere mystery. Dopo aver
insegnato inglese per quindici anni, ora si dedica a tempo pieno alla scrittura e vive
a Boston, con la moglie e i due figli. Le saghe ―Percy Jackson e gli dei
dell’Olimpo‖, ―Eroi dell’Olimpo‖ e ―The Kane Chronicles‖ sono un successo
mondiale e in Italia hanno venduto più di un milione di copie.
Rick Riordan
Percy Jackson racconta gli dei greci
Traduzione di Laura Grassi
A mio padre, Rick Riordan Senior,
che mi ha letto il mio primo libro di mitologia
INTRODUZIONE
Spero di guadagnarmi una bella nota di merito per questo lavoro.
Quando un editore di New York mi ha chiesto di buttar giù quello che so sugli dei
greci, gli ho chiesto: — Posso farlo sotto pseudonimo? Perché non ho nessuna
voglia che gli augusti Olimpi se la prendano con me un’altra volta.
Ma se conoscere gli dei greci può aiutarvi a sopravvivere se mai dovessero
materializzarsi davanti ai vostri occhi, allora immagino che scrivere tutto questo
costituirà la mia buona azione settimanale.
Nel caso non mi conosciate, mi chiamo Percy Jackson e sono un semidio – mezzo
dio e mezzo mortale, figlio di Poseidone – ma non voglio dilungarmi su di me. La
mia storia è già stata scritta in un bel po’ di libri di pura invenzione (ops, mi è
scappata una strizzatina d’occhio), e io non ne sono che un personaggio (già,
colpetto di tosse).
Solo, siate clementi con me mentre vi parlo degli dei, d’accordo? Esistono almeno
quaranta ziliardi di versioni dei miti greci, quindi non cominciate subito a dire:
―Ehi, a me risulta in un altro modo, guarda che ti sbagli!‖.
Io vi racconto la versione che secondo me ha più senso. Giuro che non ho
inventato niente. Ho preso tutte le storie da quei tizi greci e romani che le hanno
scritte per primi. Credetemi, non potrei inventarmi della roba così pazzesca.
Quindi, ecco qua. Innanzitutto vi racconterò come fu creato il mondo. Poi
snocciolerò una lista di dei e vi dirò le mie opinioni su ciascuno. Spero solo di non
farli arrabbiare tanto da incenerirmi prima che…
ARGGGHHHHHHH!
Scherzavo! Sono ancora qui.
Comunque, voglio cominciare con la storia della creazione secondo gli antichi
Greci che, tra l’altro, è decisamente incasinata. Infilate occhiali protettivi e
impermeabile. Pioverà sangue.
L’INIZIO DI TUTTA LA FACCENDA
In principio io non c’ero. E credo che non ci fossero nemmeno gli antichi Greci.
Nessuno aveva carta e penna per prendere appunti, quindi non posso garantire per
quello che segue, ma di certo è ciò che i Greci hanno pensato sia successo.
All’inizio, dunque, non c’era praticamente niente. Tanto niente.
Il primo dio, se così lo si può chiamare, fu Caos: una cupa, densa nebbia con tutta
la materia del cosmo a vorticarci dentro. Eccovi un primo dato: Caos significa
letteralmente ―baratro‖, ―buco‖, ―gap‖, e non stiamo parlando della marca di
vestiti.
Dopo un po’ Caos diventò meno caotico. Forse si era stufato di essere così cupo e
nebbioso. Un po’ di quella materia coagulò e si solidificò, diventando la terra, che
purtroppo però sviluppò una personalità vivente, la quale si autonominò Gea, la
Madre Terra.
Ora, Gea era proprio la terra: le rocce, le colline, le valli… insomma, primo,
secondo e contorno. Ma poteva anche assumere sembianze umane. Le piaceva
passeggiare sulla terra – il che fondamentalmente significava passeggiare su se
stessa – assumendo l’aspetto di una matrona con tunica a fiori, riccioli neri e
sorriso gentile. Il quale sorriso, però, nascondeva un brutto carattere. Ve ne
accorgerete abbastanza presto.
Dopo un bel po’ di tempo passato tutta sola, Gea alzò gli occhi al nebbioso nulla
sopra di lei e si disse: — Sai cosa ci starebbe bene? Un bel cielo. Un cielo mi
piacerebbe proprio. E sarebbe carino se ci fosse anche un bell’uomo di cui potermi
innamorare, perché quaggiù con l’unica compagnia di queste rocce mi sento un po’
sola.
Delle due, l’una: o Caos la sentì e decise di collaborare, oppure Gea usò tutta la
propria forza di volontà perché ciò accadesse. Sta di fatto che sopra la terra si
formò il cielo: una cupola protettiva, azzurra di giorno e nera di notte. Il cielo
decise di chiamarsi Ouranos, che poi è solo un altro modo di scrivere Urano.
Perché non si sia scelto un nome migliore – tipo Portatore di Morte o José – non lo
so, ma la cosa potrebbe spiegare perché fosse sempre così scorbutico.
Come Gea, anche Urano poteva assumere sembianze umane e visitare la terra. Il
che era un vantaggio, perché il cielo è lontano uno sproposito, e le relazioni a
distanza non funzionano mai bene.
In forma umana, Urano aveva l’aspetto di un uomo alto e atletico, con capelli scuri
di media lunghezza. Indossava solo un perizoma e aveva la pelle cangiante: a volte
azzurra con disegni di nuvole sui muscoli, a volte scura e ricoperta di stelle
luccicanti. Ehi, era stata Gea a sognarlo così, non date la colpa a me. A volte vi
capiterà di vederlo raffigurato con in mano la ruota dello zodiaco, a rappresentare
le costellazioni che attraversano il cielo per l’eternità.
Dunque, Urano e Gea si sposarono.
E vissero felici e contenti?
Non esattamente.
In parte il problema fu che Caos si entusiasmò un po’ troppo per la faccenda della
creazione. Nella sua nebbiosa e cupa mente pensò: ―Guarda un po’, Cielo e Terra.
Divertente! Vediamo cos’altro riesco a fare‖.
E così in breve creò tutta una serie di problemi, e con problemi intendo gli dei.
Dalle nebbie di Caos si raccolse l’acqua, che gocciolò negli anfratti più profondi
della terra e formò i primi mari, che ovviamente svilupparono una coscienza: il dio
Ponto.
Poi Caos andò davvero fuori di testa e pensò: ―Ci sono! E se facessi una cupola
come il cielo, però sotto la terra? Sarebbe straordinario!‖.
Ed ecco che un’altra cupola si materializzò sotto la terra, ma questa era buia e
tenebrosa e per niente accogliente, dal momento che la luce del cielo non ci
arrivava mai. E questo era il Tartaro, il Pozzo del Male; come potete arguire dal
nome, quando sviluppò una personalità divina non vinse propriamente la gara di
simpatia.
Il problema era che sia a Ponto sia a Tartaro piaceva Gea, e questo creò un po’ di
tensione nella relazione tra lei e Urano.
Poi saltò fuori un’altra combriccola di dei primordiali, che a volerli nominare tutti
si impiegherebbero settimane. Caos e Tartaro ebbero una figlia (non chiedetemi
come: non lo so) di nome Nyx, che era la personificazione della notte. Poi Nyx –
da sola! – ebbe una figlia di nome Emera, che era la personificazione del giorno.
Le due non andavano mai d’accordo, perché erano diverse come… be’, lo sapete.
Secondo alcune versioni, Caos creò anche Eros, il dio della procreazione… in
parole povere, mamme dee e papà dei che fanno tanti figlioletti dei. Altre fonti
dicono che Eros fosse figlio di Afrodite, ma a lei arriveremo più tardi. Io non so
quale versione sia vera, ma so per certo che Gea e Urano cominciarono ad avere
figli, con risultati piuttosto… vari.
All’inizio ne scodellarono dodici: sei femmine e sei maschi, chiamati Titani.
Avevano un aspetto umano, solo erano molto più alti e più forti. Ora direte che
dodici figli avrebbero dovuto essere abbastanza per chiunque, giusto? Con una
famiglia così numerosa, praticamente uno ha il proprio reality show personale…
In più, una volta nati i Titani, il matrimonio di Gea e Urano cominciò ad andare in
crisi. Urano passava sempre più tempo a non fare niente in cielo; non andava più a
trovare la moglie; non dava una mano con i bambini. Gea era davvero scocciata, e
iniziarono le discussioni. A mano a mano che i bimbi crescevano, Urano li
sgridava sempre di più. Insomma, si comportava davvero da cattivo papà.
Un paio di volte i due cercarono di aggiustare le cose. Gea decise che forse, se
avessero avuto un altro stock di figli, si sarebbero riavvicinati…
Lo so, lo so. Era una pessima idea.
In ogni caso, Gea partorì tre gemelli. Problema: i nuovi figli rispondevano
perfettamente alla definizione di ―ORRENDI‖. Erano grandi e grossi come i Titani,
solo ancora più colossali e animaleschi, e con un impellente bisogno di una ceretta
integrale. Ciliegina sulla torta: avevano un solo occhio in mezzo alla fronte.
Si sa, per una mamma il proprio bimbo è sempre una meraviglia. E infatti Gea
amava molto i suoi tre ultimi nati e li chiamò ciclopi. Furono i ciclopi maggiori,
che alla fine generarono un’intera genia di ciclopi minori. Ma questo accadde
molto tempo dopo.
Quando Urano vide i tre gemelli, diede di matto: — Non possono essere figli miei!
Non mi somigliano neanche un po’!
— E invece lo sono, fannullone! — strillò Gea. — Non osare lasciarmi a tirarli su
da sola!
— Non c’è pericolo, non ti preoccupare — grugnì Urano.
Uscì come un tornado e ritornò con un mazzo di robuste catene fatte della pura
oscurità del cielo notturno. Legò i ciclopi e li scagliò nel Tartaro, che era l’unica
parte della creazione dove non avrebbe dovuto prendersi cura di loro.
Piuttosto severo, non trovate?
Gea gridò e gemette, ma Urano si rifiutò di liberarli. Nessuno osò opporsi ai suoi
ordini, perché a quel punto si era guadagnato la reputazione di soggetto a dir poco
terribile.
— Io sono il re dell’universo! — strepitò. — Come potrei non esserlo? Sono
letteralmente al di sopra di chiunque altro.
— Ti odio! — piangeva Gea.
— Puah! Tu farai come dico io. Io sono il primo e il migliore degli dei primordiali.
— Io sono nata prima di te! — protestò lei. — Tu non esisteresti nemmeno se io
non…
— Non mi provocare — ringhiò Urano. — Ho ancora un sacco di catene di
oscurità.
Come potete immaginare, Gea provocò un vero e proprio terremoto, ma non
sapeva cos’altro fare. I suoi figli maggiori, i Titani, erano ormai quasi adulti, ed
erano terribilmente dispiaciuti per lei. Il padre non piaceva granché neanche a loro
– Gea parlava sempre male di lui, e a ragione – ma lo temevano, ed erano
impotenti nei suoi confronti.
―Devo tenere unita la famiglia per i ragazzi‖ pensò Gea. ―Forse devo dargli
un’altra possibilità.‖
Così organizzò una serata romantica: candele, rose, musica soft. Sperava di
riaccendere un po’ dell’antica magia.
Qualche mese dopo, diede alla luce un’altra tripletta di gemelli.
Come se avesse avuto bisogno di un’ulteriore prova che il matrimonio con Urano
era finito… i nuovi nati erano ancora più mostruosi dei ciclopi. Ognuno aveva
cento braccia, il petto ricoperto di spine come ricci di mare e cinquanta minuscole
teste appollaiate sulle spalle. A Gea però non importava. Lei adorava quei faccini,
tutti e centocinquanta. Chiamò i tre gemelli centimani. Ma fece appena in tempo a
scegliere i nomi che arrivò Urano, lanciò loro un’occhiata e glieli strappò dalle
braccia. Senza una parola, li avvolse nelle catene e li gettò nel Tartaro come sacchi
di spazzatura.
Il tizio aveva decisamente dei problemi.
Questo però fu davvero troppo per Gea. Pianse e strepitò e causò una quantità tale
di terremoti che i Titani vennero a vedere cosa ci fosse che non andava.
— Vostro padre è un vero…!
Non so come lo definì, ma ho la sensazione che la prima parolaccia sia stata
inventata in quell’occasione.
Gea raccontò loro quello che era successo. Poi sollevò le braccia e fece tremare la
terra sotto di sé. Evocò la materia più dura che potesse trovare nel suo dominio,
con rabbia le diede forma e creò la prima arma mai forgiata: una lama di ferro
ricurva lunga circa un metro. La assicurò a un manico di legno ricavato dal ramo di
un albero lì vicino, poi mostrò la sua invenzione ai Titani.
— Prendete, figli miei! — esclamò. — Ecco lo strumento della mia vendetta. Lo
chiamerò falce!
I Titani borbottarono tra loro: — E a cosa serve? Perché è curva? Come si scrive
fal-ce?
— Uno di voi deve farsi avanti! — gridò Gea. — Urano non è degno di essere il re
del cosmo. Uno di voi lo ucciderà e prenderà il suo posto.
I Titani apparivano decisamente a disagio.
— Ecco… spiegaci questa faccenda dell’uccidere — disse Oceano. Era il più
vecchio dei Titani, ma di solito bazzicava le lontane distese del mare assieme al dio
primordiale dell’acqua, che lui chiamava zio Ponto. — Cosa vorrebbe dire
uccidere?
— Vuole che facciamo fuori papà — azzardò Temi. Era una delle femmine più
sveglie, che colse immediatamente il concetto di ―punizione per un crimine‖. —
Come dire… non farlo esistere più.
— Ed è possibile? — chiese la sorella Rea. — Pensavo fossimo tutti immortali.
Gea ringhiò di frustrazione. — Non siate vigliacchi! È semplicissimo. Prendete
questa lama affilata e riducetelo in pezzi, così che non possa più infastidirci. Chi di
voi ci riuscirà sarà il capo dell’universo! E io gli preparerò anche quei biscotti che
vi piacciono tanto, quelli con lo zucchero a velo.
Al giorno d’oggi abbiamo una parola per definire questo tipo di comportamento:
psicotico.
A quei tempi però le regole erano molto più elastiche. Forse, sapendo che la prima
famiglia del creato fu anche la prima famiglia disfunzionale, vi sentirete meglio
riguardo ai vostri consanguinei.
I Titani cominciarono a borbottare e a indicarsi l’un l’altro dicendo: — Caspita, tu
saresti bravissimo a uccidere papà.
— Nooo, secondo me dovresti farlo tu.
— A me piacerebbe un sacco, davvero, ma ora come ora devo finire una cosa,
quindi…
— Lo farò io! — si levò una voce dal fondo.
Il più giovane dei dodici Titani si fece largo a spallate. Crono era il più piccolo dei
fratelli e delle sorelle. Non era il più sveglio, né il più forte, né il più veloce. Ma
era indubbio che fosse il più assetato di potere. Immagino che quando sei l’ultimo
di dodici figli, passare il tempo a cercare di distinguerti e farti notare sia la norma.
Al Titano più giovane l’idea di comandare il mondo andava parecchio a genio,
soprattutto se questo significava essere capo dei fratelli. E l’offerta dei biscotti con
lo zucchero a velo non guastava di certo.
Crono era alto circa tre metri, che per un Titano non è niente di eccezionale. Non
aveva l’aria pericolosa come alcuni suoi fratelli, ma era scaltro. Si era già
guadagnato il soprannome di ―Gancio‖, perché nei corpo a corpo giocava sporco e
non era mai dove ti aspettavi che fosse.
Aveva il sorriso e gli stessi riccioli scuri della madre, ma la crudeltà del padre.
Quando ti guardava, non sapevi mai se ti avrebbe dato un pugno o raccontato una
barzelletta. Anche la barba era inquietante. Era giovane per averla, eppure si era
già fatto crescere le basette in un’unica striscia che gli sporgeva dal mento come il
becco di un corvo.
Quando vide la falce, gli brillarono gli occhi. La voleva a tutti i costi. Era l’unico
tra i fratelli a capire quanti danni avrebbe potuto causare quella lama di ferro.
Quanto all’uccidere suo padre… perché no? Urano lo notava a malapena (anche
Gea, se era per quello). Entrambi i genitori molto probabilmente non si
ricordavano neppure il suo nome.
Crono detestava essere ignorato. Era stufo di essere il più piccolo e di indossare i
vestiti smessi da quegli stupidi dei suoi fratelli.
— Lo farò io — ripeté. — Farò a pezzi papà.
— Il mio bambino preferito! — gridò Gea. — Sei meraviglioso! Sapevo di poter
contare su di te… Ehm, chi saresti tu?
— Crono — rispose lui, riuscendo a conservare il sorriso. Insomma, per una falce,
qualche biscotto e la possibilità di commettere un assassinio, poteva pur
nascondere quello che provava davvero. — Sarà un onore uccidere per te, madre.
Ma faremo come dico io. Prima di tutto, voglio che tu inganni Urano e lo convinca
a farti visita. Digli che ti dispiace. Digli che è tutta colpa tua e che gli preparerai
una cenetta prelibata per farti perdonare. Tu pensa solo a farlo venire qui stasera e
comportati come se lo amassi ancora.
— Puah! — fece Gea, sul punto di vomitare. — Sei impazzito?
— Devi solo fare finta — insistette Crono. — Una volta che avrà assunto
sembianze umane e si sarà seduto accanto a te, salterò fuori io e lo attaccherò. Ma
avrò bisogno di aiuto.
Si girò verso i fratelli, tutti improvvisamente molto concentrati a guardarsi i piedi.
— Sentite, ragazzi — disse. — Se va male, Urano si vendicherà su tutti noi. Non
possiamo permetterci errori. Ho bisogno di quattro che lo tengano fermo e facciano
in modo che non scappi in cielo prima che io lo abbia finito.
Gli altri rimasero in silenzio. Probabilmente si figuravano quel nanerottolo del
fratellino che attaccava l’enorme e violento padre, e le probabilità non erano certo
a suo favore.
— Avanti, insomma! — li sgridò Crono. — Sarò io a sobbarcarmi il lavoro sporco
di farlo a fette. Quattro di voi dovranno solo tenerlo fermo. Quando sarò re, quei
quattro verranno premiati! Darò a ognuno un angolo di terra da governare: nord,
sud, est e ovest. Prendere o lasciare. Chi è con me?
Le ragazze erano troppo sagge per farsi coinvolgere in un assassinio. Trovarono
ciascuna una scusa e se ne andarono in fretta.
Il figlio più vecchio, Oceano, si rosicchiò nervosamente il pollice. — Io devo
tornare nel mio mare per delle faccende… ehm, ecco… acquatiche. Scusatemi…
E con questo rimasero solo Ceo, Giapeto, Crio e Iperione.
Crono sorrise. Prese la falce dalle mani di Gea e ne saggiò la punta, facendosi
uscire una goccia di sangue dal dito. — Dunque, quattro volontari. Fantastico!
Giapeto si schiarì la voce. — Ecco, in effetti…
Iperione gli diede una gomitata. — Siamo con te, Crono! — assicurò. — Conta su
di noi!
— Eccellente — disse Crono, e fu la prima volta che un genio del male pronunciò
la parola ―eccellente‖. Poi spiegò loro il piano.
Quella sera, Urano venne davvero.
Apparve nella valle dove di solito incontrava Gea, e quando vide la tavola
apparecchiata sontuosamente aggrottò la fronte. — Ho ricevuto il tuo biglietto.
Intendi sul serio ricominciare?
— Assolutamente! — Gea indossava il suo vestitino verde senza maniche, il più
bello che aveva. I capelli erano tempestati di pietre preziose (era facilissimo per lei
procurarsele, essendo la Terra), e profumava di rosa e gelsomino. Si distese su un
sofà, alla luce soffusa delle candele, e fece cenno al marito di avvicinarsi.
Nel suo perizoma, Urano non si sentiva abbastanza elegante. Non si era nemmeno
pettinato. La sua pelle versione notturna era scura e tempestata di stelle, ma questo
non rispondeva esattamente al dress code previsto per una cena importante. Pensò
che avrebbe dovuto almeno lavarsi i denti.
Sospettava qualcosa? Non lo so. Nessuno nella storia del cosmo era mai stato
attirato in un’imboscata e fatto a pezzi fino a quel momento. Lui sarebbe stato il
primo. Un tipo fortunato. E poi si sentiva un po’ solo, sempre in giro per il cielo.
L’unica sua compagnia erano le stelle, la personificazione dell’aria Etere (che era
uno svaporato totale), Nyx ed Emera, madre e figlia, che litigavano
immancabilmente a ogni alba e tramonto.
— Allora… — Urano sentì le mani sudate. Aveva dimenticato quanto potesse
essere bella Gea quando non gli urlava contro. — Non sei più arrabbiata?
— Affatto! — lo rassicurò lei.
— E… ti va bene che io incateni i nostri figli e li getti negli abissi?
Gea digrignò i denti, ma riuscì a imbastire un sorriso. — Per me è okay.
— Perfetto — grugnì Urano. — Perché quei ragazzini erano davvero ORRENDI.
Gea diede un colpetto al divano. — Vieni a sederti qui vicino a me, marito mio.
Urano sorrise e si avvicinò con passo goffo.
Non appena si fu sistemato, Crono sussurrò da dietro il masso più vicino: — Ora!
I quattro fratelli balzarono fuori dai loro nascondigli. Crio si era camuffato da
cespuglio. Ceo si era scavato un buco e l’aveva coperto di frasche. Iperione si era
infilato sotto il divano (era un divano molto grande) e Giapeto stava cercando di
farsi passare per un albero, con le braccia tese in fuori tipo rami. Non so come, ma
aveva funzionato.
I quattro fratelli afferrarono il padre. Ciascuno prese un arto e, lottando, lo
inchiodarono a terra, braccia e gambe divaricate.
Crono emerse dall’ombra. La falce di ferro splendeva alla luce delle stelle. —
Ciao, papà.
— Che significa questo? Gea, di’ loro di lasciarmi!
— Ah! — Gea si alzò dal divano. — Tu non hai avuto pietà per i nostri figli,
marito caro, quindi nemmeno tu la meriti. Oltretutto, chi si metterebbe mai in
perizoma per una cena elegante? Sei disgustoso!
Urano cercò di divincolarsi. — Come osi! Io sono il Signore del Cosmo!
— Non più. — E Crono sollevò la falce.
— Attento! Se lo fai, ehm… com’è che ti chiami tu?
— CRONO!
— Se lo fai, Crono — riprese Urano — ti maledirò! Un giorno anche i tuoi figli ti
distruggeranno e ti ruberanno il trono, come tu stai facendo a me!
Crono rise. — Lascia che ci provino.
E calò la falce.
Che colpì Urano proprio… be’, sapete una cosa? Non posso dirlo. Se siete dei
maschietti, immaginate pure il punto più doloroso in cui potreste essere colpiti.
Ecco. Lì.
Urano ululò di dolore, e Crono lo fece a pezzi. Fu il più disgustoso B-movie horror
che possiate immaginare. Sangue dappertutto… solo che il sangue degli dei è d’oro
e si chiama icore.
Le rocce ne furono tutte schizzate, e quella roba era così potente che in seguito,
quando nessuno vedeva, dall’icore si sollevarono tre creature, tre demoni sibilanti:
le Furie, gli spiriti della punizione. Volarono subito nell’oscurità del Tartaro. Altre
gocce del sangue del cielo caddero sul terreno fertile, dove si trasformarono in
creature selvagge ma miti, chiamate ninfe e satiri.
La maggior parte del sangue però non fece altro che schizzare ovunque. Ve lo dico
io: quelle macchie non sarebbero MAI venute via dalla maglietta di Crono.
— Ben fatto, fratelli! — esclamò con un sorriso che gli andava da un orecchio
all’altro, la falce grondante sangue.
Giapeto si mise a vomitare all’istante. Gli altri risero e si diedero delle gran pacche
sulle spalle.
— Oh, figli miei! — disse Gea. — Sono così orgogliosa di voi! Biscotti e punch
per tutti!
Prima di brindare, Crono raccolse i resti del padre nella tovaglia. Forse perché era
arrabbiato con il fratello maggiore Oceano che non lo aveva aiutato, fatto sta che li
portò al mare e ve li gettò dentro. Il sangue si mescolò con l’acqua salata e… più
avanti vedrete cosa ne uscì.
E ora vi chiederete: ―Okay, ma se il cielo è stato ucciso, perché se guardiamo in
alto lo vediamo ancora?‖.
Risposta: ―E io che ne so?‖.
La mia ipotesi è che Crono avesse ucciso la forma fisica di Urano così che il dio
del cielo non potesse più farsi vedere sulla terra e rivendicarne il dominio.
Praticamente lo esiliarono nell’aria. Quindi non è propriamente morto, ma ora non
può fare altro che essere l’innocua cupola del mondo.
Comunque, Crono ritornò nella valle e i Titani fecero festa.
Gea nominò Crono Signore dell’Universo. Gli fece una corona d’oro, pezzo unico
griffato da collezione e quant’altro. Lui mantenne la promessa e diede ai quattro
fratelli che lo avevano aiutato il controllo dei quattro angoli della terra. Giapeto
diventò il Titano dell’Ovest, Iperione ebbe l’Est, Ceo il Nord e Crio il Sud.
Quella sera, Crono sollevò il suo calice di nettare (che è la bevanda preferita degli
immortali). Cercò di mostrare un sorriso fiducioso – perché i re dovrebbero sempre
sembrare fiduciosi – anche se in realtà cominciava già a preoccuparsi per la
maledizione di Urano, e cioè che un giorno i suoi stessi figli lo avrebbero
detronizzato.
Nonostante ciò, gridò: — Fratelli, un brindisi! Abbiamo dato inizio all’Età
dell’Oro!
E se vi piacciono le bugie, i furti, le pugnalate alle spalle e il cannibalismo, allora
andate pure avanti a leggere, perché fu decisamente l’Età dell’Oro di tutto questo.
L’ETÀ DELL’ORO DEL
CANNIBALISMO
All’inizio Crono non era così male. Doveva ancora diventare un perfetto sacco
di… be’, insomma, di merda. E scusate il francesismo.
Liberò i ciclopi maggiori e i centimani dal Tartaro, cosa che rese estremamente
felice Gea. E i mostri finirono anche per risultare utili. Avevano trascorso tutto il
tempo negli abissi imparando come forgiare i metalli e realizzare costruzioni di
pietra (immagino non ci fosse molto altro da fare, laggiù) e così, al fine di
dimostrare la loro gratitudine per la riconquistata libertà, costruirono per Crono un
palazzo gigantesco, in cima al Monte Otri, che a quei tempi era la montagna più
alta della Grecia.
Il palazzo era tutto di marmo nero. Imponenti colonne e saloni immensi brillavano
alla luce di torce magiche. Il trono era ricavato da un blocco unico di ossidiana,
tempestato d’oro e di diamanti: impressionante, certo, ma forse non molto comodo.
A Crono però non importava. Poteva starsene seduto lì tutto il giorno, a rimirare il
mondo sotto di lui gridando maligno: — Mio! Tutto mio!
I suoi cinque fratelli e le sei sorelle non discutevano mai con lui. Avevano già
ottenuto i territori che volevano e comunque, dopo averlo visto brandire la falce,
non avevano molta voglia di contraddirlo.
Oltre a essere il re del cosmo, Crono divenne il Signore del Tempo. Non poteva
spostarsi lungo la linea del tempo come Doctor Who o gente così, ma a volte
riusciva a rallentarlo o ad accelerarlo. Ci riusciva per davvero! Quando siete a una
lezione noiosissima che sembra non finire mai, prendetevela con Crono. O quando
il fine settimana è incredibilmente troppo corto, anche in questo caso è colpa sua.
Del tempo, gli interessava soprattutto il potere distruttivo. Essendo immortale, non
riusciva a capire cosa potessero significare pochi brevi anni per una vita mortale.
Soleva andarsene a spasso per il mondo facendo accelerare la vita delle piante e
degli animali così da poterli veder sfiorire e morire, solo per divertimento.
Quanto ai suoi fratelli, quelli che lo avevano aiutato a uccidere Urano avevano
avuto i quattro angoli della terra, il che è un po’ strano, dal momento che i Greci
credevano che il mondo fosse un grosso cerchio piatto come uno scudo, e quindi
non avrebbe dovuto avere angoli, ma comunque.
Crio era il Titano del Sud. Come simbolo aveva scelto l’ariete, perché la
costellazione dell’ariete sorge nel cielo a sud. La sua armatura blu scuro era
punteggiata di stelle, e dall’elmo sporgevano due corna di ariete. Era un tipo
tenebroso e di poche parole. Se ne stava là, al confine meridionale del mondo, a
guardare le costellazioni perso in pensieri profondi… O forse pensava
semplicemente che avrebbe dovuto pretendere un lavoro più eccitante.
Ceo, o Coio, era il Titano del Nord, e viveva al capo opposto del mondo
(ovviamente). A volte veniva chiamato Polo, perché aveva il controllo del Polo
Nord. Questo prima che ci si trasferisse Santa Klaus. Ceo fu anche il primo Titano
ad avere il dono della profezia. In effetti koios in greco antico è un termine che ha a
che fare con le domande. Faceva domande al cielo, e a volte il cielo gli bisbigliava
le risposte. Da brividi? Già. Non so se comunicasse con lo spirito di Urano o cosa,
ma le sue sbirciate nel futuro erano così utili che gli altri Titani cominciarono a
porgli quesiti cruciali tipo: ―Che tempo farà sabato?‖; ―Oggi Crono mi ucciderà?‖;
―Cosa mi metto per il ballo di Rea?‖. Cose di questo genere. Alla fine Ceo
tramandò il dono della profezia ai suoi figli.
Iperione, il Titano dell’Est, era il più luminoso dei quattro. Dato che la luce del
sole arrivava ogni mattina da est, si autoproclamò Signore della Luce. Dietro le
spalle tutti lo chiamavano Crono Light, perché faceva sempre tutto quello che gli
diceva il fratello ed era fondamentalmente una copia di Crono con metà delle sue
calorie e sapore zero. Comunque, indossava una brillante armatura d’oro ed era
noto per andare a fuoco nei momenti più impensati, il che lo rendeva molto
divertente alle feste.
La sua controparte, Giapeto, era più tranquillo, essendo il Titano dell’Ovest. Un
buon tramonto ti fa sempre venire voglia di distenderti e rilassarti. Nonostante ciò,
era meglio non farlo arrabbiare. Era infatti un eccellente lottatore e sapeva come
usare un’asta acuminata. Giapeto significa ―colui che punge‖, e sono sicuro che
non si è guadagnato questo nome applicando piercing in un centro estetico.
Quanto all’ultimo fratello, Oceano, si era preso il comando delle acque che
circondavano il mondo. Ecco perché le immense distese d’acqua che fanno da
confine alle terre si chiamano oceani. Sarebbe potuta andare peggio. Se fosse stato
Giapeto a governare le acque, oggi parleremmo di ―Giapeto Atlantico‖ e ―navigar
sull’azzurro Giapeto‖, e non avrebbe la stessa musicalità.
Ora, prima di dedicarmi alle sei fanciulle, le Titanidi, lasciate che mi tolga il
pensiero e sbrighi alcune faccende antipatiche.
Sapete, alla fine i Titani cominciarono a dirsi: ―Ehi, papà ha avuto Gea come
moglie. E noi? Chi saranno le nostre mogli?‖. Poi guardarono le Titanidi e
pensarono: ―Mmmh…‖
Lo so. State gridando: ―CHE SCHIFO! Sposare le proprie sorelle?!‖.
Già. Anch’io lo trovo abbastanza disgustoso, ma il fatto è che i Titani non
consideravano i legami famigliari nello stesso modo in cui li consideriamo noi.
Prima di tutto, come ho già detto, le regole di comportamento a quei tempi erano
molto più permissive. E poi non c’era una gran scelta, quando si trattava di cercare
qualcuno da sposare. Non si poteva semplicemente andare su Titanmatch.com e
trovare l’anima gemella.
Ma, soprattutto, gli immortali sono diversi dagli umani. Vivono più o meno per
sempre. Hanno poteri fighissimi. Hanno icore invece che sangue e DNA, e quindi
per loro se le linee genealogiche non si combinano bene, non è un problema. È per
questo che non guardano alla faccenda fratelli/sorelle allo stesso modo nostro. Tu e
la ragazza che ti piace potete essere nati dalla stessa mamma, ma una volta che sei
cresciuto non devi più necessariamente pensarla come tua sorella.
Questa è la mia teoria. O magari invece i Titani erano solo fuori di zucca, lascio
decidere a voi.
Comunque, non tutti i fratelli sposarono le proprie sorelle, ma ecco una breve
sintesi.
La più vecchia delle Titanidi era Teia. Se si voleva attirare la sua attenzione,
bastava sventolarle qualcosa di brillante davanti al naso. Lei adorava le cose
luccicanti e i paesaggi inondati di luce. Ogni mattina, al ricomparire dei raggi del
sole, danzava felice. Scalava le montagne solo per poter vedere per chilometri
intorno a sé. Scavava gallerie sotterranee e recuperava pietre preziose, usando i
suoi poteri magici per farle brillare. Teia è colei che ha dato all’oro la brillantezza e
ai diamanti il loro fulgore.
Diventò la titanide della vista acuta. Dato che era tutta luccichii e bagliori, finì per
sposare Iperione, il Signore della Luce. Come potete immaginare, andarono molto
d’accordo, però come riuscissero a dormire, con lui che brillava tutta la notte e lei
perennemente a ridacchiare: ―Che luce! Che luce!‖, non lo so.
Sua sorella Temi era esattamente l’opposto. Silenziosa e riflessiva, non cercava
mai di attirare l’attenzione su di sé. Indossava sempre un semplice scialle bianco
sui capelli. Si rese conto fin dalla più tenera età di avere una predisposizione
naturale per ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è corretto e ciò che non
lo è. E quando aveva qualche dubbio, sosteneva di poter attingere saggezza dalla
terra. Non credo si riferisse a Gea, però, perché sua madre aveva qualche problema
riguardo al concetto di giusto e sbagliato.
Comunque, tra i fratelli e le sorelle, Temi godeva di una buona reputazione.
Sapeva mediare anche le peggiori discussioni. Diventò la titanide delle leggi
naturali e della giustizia. Non sposò nessuno dei fratelli, il che dimostra appunto la
sua saggezza.
La terza sorella è Teti, e vi prometto che è l’ultimo nome con la ―T‖ per le ragazze,
perché persino io faccio confusione. Teti amava i fiumi, i ruscelli e l’acqua
corrente in genere. Era molto dolce, sempre a offrire ai fratelli qualcosa da bere,
sebbene questi si fossero ormai stufati di sentirsi dire che un Titano medio ha
bisogno di ventiquattro grossi boccali d’acqua al giorno per mantenere
l’idratazione. A ogni buon conto, Teti si considerava l’infermiera del mondo, dal
momento che tutti gli esseri viventi hanno bisogno di bere. Finì per sposare
Oceano, un vero e proprio decerebrato. «Ehi, ti piace l’acqua? Anche a me!
Dobbiamo proprio uscire a bere qualcosa, una volta o l’altra!»
Febe, la quarta sorella, viveva nel centro geografico del mondo, che per i Greci era
l’Oracolo di Delfi: una sorgente sacra dove a volte, se si sapeva ascoltare, si poteva
sentire qualche previsione riguardo al futuro. I Greci chiamavano quel posto
omphalos, ―ombelico‖, del mondo, anche se non hanno mai specificato se fosse
rientrante o sporgente.
Febe fu tra i primi a capire come ascoltare la voce di Delfi, ma non era una di
quelle veggenti tutta luci soffuse e mistero. Il suo nome significa ―brillante‖, e lei
guardava sempre il lato positivo delle cose. Le sue profezie tendevano a essere
come i biscotti della fortuna: solo e semplicemente buoni. Il che andava benissimo,
immagino, se ti bastava sentire le belle notizie, ma non poi così bene se avevi
qualche problema serio. Tipo, se saresti morto l’indomani, Febe probabilmente ti
diceva solo: ―Oh, ecco, vedo che non dovrai preoccuparti per la verifica di
matematica della settimana prossima!‖.
Finì per sposare Ceo, quello del Nord, perché anche lui aveva il dono della
profezia. Sfortunatamente si vedevano solo una volta ogni tanto, perché vivevano
in due posti molto lontani. Curiosità extra: parecchio tempo dopo, il nipote di Febe,
un tizio di nome Apollo, rilevò l’Oracolo. E dato che aveva ereditato i suoi poteri,
a volte veniva chiamato Febo Apollo.
La titanide numero cinque era Mnemosine: e, ragazzi, con la mia dislessia ho
dovuto sillabare questo nome almeno venti volte, e probabilmente è ancora
sbagliato. Mnemosine era nata con una memoria fotografica molto prima che
qualcuno sapesse cos’era una fotografia. Davvero, non scherzo. Si ricordava tutto:
i compleanni delle sorelle, i compiti, portare fuori la spazzatura, dare da mangiare
ai gatti. Per certi versi era okay. Teneva gli annali di famiglia e non dimenticava
mai, mai niente. Ma a volte averla intorno era uno sfinimento, perché non
permetteva a nessuno di scordare nemmeno il più piccolo particolare.
Quella cosa imbarazzante che avevi fatto quando avevi otto anni? Ebbene sì, lei se
la ricordava. La promessa che le avresti restituito il prestito? Se la ricordava,
tranquillo.
Ma la cosa peggiore era che Mnemosine si aspettava che anche gli altri avessero
un’ottima memoria. Pensando di rendersi utile, inventò le lettere e la scrittura, così
che tutti noi poveri mentecatti privi dell’ottima memoria sopra citata potessimo
tenere traccia permanente di ogni cosa. Diventò la titanide della memoria,
soprattutto della memorizzazione meccanica. La prossima volta che dovete
studiare una poesia o imparare le capitali degli stati senza nessuna ragione
plausibile, ringraziate Mnemosine. Questo tipo di compiti sono stati solo ed
esclusivamente una sua idea. Nessuno dei Titani volle sposarsela. Indovinate
perché.
E finalmente, la sorella numero sei: Rea. Povera Rea. Era la più dolce e la più bella
delle Titanidi, il che ovviamente significa che a lei toccarono tutte le sfortune e la
vita peggiore. Il suo nome vuol dire sia ―alta marea‖ sia ―tranquillità‖, ed entrambe
le definizioni le stanno a pennello. Arrivava con la marea e infondeva tranquillità
nelle persone mettendole a proprio agio. Vagava per le vallate della terra facendo
visita ai fratelli e alle sorelle e chiacchierando con le ninfe e i satiri che erano nati
dal sangue di Urano. In più amava gli animali; il suo preferito era il leone. Nei
dipinti che la raffigurano se ne vedono sempre un paio al suo fianco, cosa che la
faceva stare in una botte di ferro quando se ne andava a spasso, persino nei
quartieri più malfamati.
Rea diventò la titanide della maternità. Adorava i bambini e aiutava le sorelle
durante il parto. Tanto che alla fine, quando ebbe figli suoi, si guadagnò il titolo di
Grande Madre. Purtroppo, prima che questo potesse accadere, dovette sposarsi, che
è il motivo per cui cominciarono i problemi…
Oh, ma era tutto così fantastico! Cos’è che poteva andare storto?
Questo pensava la Madre Terra Gea. Era talmente soddisfatta di vedere i suoi
ragazzi prendersi cura del mondo che decise di tornare a sprofondarsi nella terra e
per un po’ essere soltanto… terra, appunto. Ne aveva passate così tante! Aveva
avuto diciotto figli… un po’ di riposo se lo meritava.
Era certa che Crono avrebbe pensato a tutto e sarebbe stato un buon re per
l’eternità. (Già, proprio.) Così si predispose a fare un bel sonnellino, che in termini
geologici significava qualche millennio.
Nel frattempo i Titani cominciarono ad avere figli, che andarono a formare la
seconda generazione di Titani. Oceano e Teti, il signor e la signora Acqua, ebbero
una figlia di nome Climene, che fu la divinità della fama. Immagino fosse così
fissata con la fama perché era cresciuta sul fondo dell’oceano, dove non succedeva
mai niente. Tutto quello che le interessava erano pettegolezzi e riviste mondane,
oltre che aggiornarsi sulle ultime notizie da Hollywood… o almeno le sarebbe
interessato, se Hollywood fosse esistita. Come molte persone ossessionate dalla
celebrità, andò in California. Finì per innamorarsi del Titano dell’Ovest, Giapeto.
Lo so, tecnicamente era suo zio… Ma, come ho già detto, per i Titani era diverso.
Il mio consiglio è di non soffermarsi troppo sui particolari.
Comunque, Giapeto e Climene ebbero un figlio di nome Atlante, che si rivelò un
grande lottatore, ma anche un grande fesso. Quando crebbe, diventò il braccio
destro di Crono e il suo sicario di fiducia.
Dopo di lui, Giapeto e Climene ebbero un altro figlio di nome Prometeo,
intelligente quasi quanto Crono. Secondo alcune leggende, fu Prometeo a inventare
una forma di vita inferiore di cui probabilmente avete sentito parlare: la specie
umana. Un giorno era lì a trastullarsi sulla riva di un fiume fabbricando statuette di
argilla, quando si accorse di avere scolpito una coppia di buffe figurine che
somigliavano ai Titani, solo molto più piccole e facili da distruggere. Forse
nell’argilla c’era qualche goccia di sangue di Urano, o forse Prometeo ci soffiò
sopra di proposito, non lo so. Sta di fatto che le creature di argilla presero vita e
diventarono i primi due esseri umani.
Pensate che si sia guadagnato una medaglia per questo? Noooo. I Titani
guardarono a quegli umani come noi potremmo guardare ai gerbilli. Alcuni di loro
li giudicarono carini, ma talmente poco longevi che non servivano a granché. Altri
pensarono che fossero disgustosi roditori. E altri ancora non li degnarono di uno
sguardo. Quanto agli umani, per lo più si riparavano nelle caverne e sgambettavano
in giro cercando di non essere calpestati.
I Titani continuarono a generare altri Titani. Non li citerò tutti, altrimenti
dovremmo starcene qui per tutta la durata del pisolino di Gea; dirò solo che Ceo e
Febe, la coppia delle profezie, ebbero una figlia di nome Leto, che decise di essere
la protettrice della gioventù. Fu la prima baby-sitter. Le mamme e i papà titani
erano sempre felicissimi di vederla.
Iperione e Teia, signor e signora Lucentezza, ebbero due gemelli, che chiamarono
Elio e Selene, a cui furono affidati il sole e la luna. Vi torna, giusto? Non c’è niente
di più luminoso del sole e della luna.
Ogni giorno Elio guidava il carro del sole nel cielo, anche se questo gli faceva
accumulare un sacco di chilometri. Lui però pensava di essere molto figo, e aveva
la sgradevole abitudine di chiamarlo il suo ―bolide acchiappa-ragazze‖.
Selene non era altrettanto appariscente. Guidava il suo carro della luna attraverso il
cielo notturno, e generalmente se ne stava per conto suo, anche se la volta che si
innamorò davvero si trattò della storia più triste mai sentita.
A ogni buon conto, c’era un Titano che non si era sposato e non aveva figli, ovvero
Crono, il Signore dell’Universo. Se ne stava semplicemente seduto sul suo trono
nel palazzo sul Monte Otri, e più gli altri se la spassavano più lui si imbronciava.
Ricordate la maledizione con cui Urano lo aveva minacciato, che un giorno o
l’altro i suoi figli lo avrebbero detronizzato? Crono non riusciva a togliersela dalla
testa.
All’inizio si era detto: ―Vabbè, che sarà mai. Basta che non mi sposi, così non avrò
figli!‖.
Ma è brutto starsene da soli quando tutti intorno a te si sistemano e mettono su
famiglia. Crono si era guadagnato il trono in modo onesto e leale, ma quella
maledizione faceva svanire il piacere di aver fatto a pezzi suo padre. Ora, mentre
gli altri si godevano la vita, lui doveva stare attento a non farsi destituire. No, non
era per niente bello.
I suoi parenti non erano più assidui come un tempo. Dopo che Gea se ne era
tornata nella terra, avevano smesso di venire a palazzo per il pranzo della
domenica. Dicevano che erano terribilmente occupati, ma Crono sospettava che i
fratelli, le sorelle e i nipoti semplicemente avessero paura di lui. E in effetti aveva
ereditato il caratteraccio del padre e la stessa indole crudele. La sua falce poi era
decisamente minacciosa, e in più lui aveva la tendenza un po’ spiazzante a gridare:
―Vi uccido tutti!‖ ogni volta che qualcuno lo faceva arrabbiare. Ma cosa poteva
farci se era così?
Un mattino si mise davvero a dare i numeri. Si svegliò perché un ciclope stava
martellando un pezzo di bronzo proprio fuori dalla finestra della sua camera da
letto. Alle sette del mattino di un fine settimana!
Come aveva promesso a sua madre, Crono aveva liberato i ciclopi e i centimani dal
Tartaro, ma cominciava ad averne davvero abbastanza di quei parenti così brutti,
che oltretutto diventavano sempre più ributtanti a mano a mano che invecchiavano.
Puzzavano come i WC chimici degli stadi, non curavano per niente la propria
igiene personale e in più erano incredibilmente rumorosi: costruivano cose,
martellavano metalli, spaccavano pietre. Erano stati molto utili per erigere il
palazzo, ma ora erano solo una gran rottura.
Chiamò allora Atlante, Iperione e un paio di altri suoi sicari. Questi circondarono i
ciclopi e i centimani e dissero che sarebbero andati tutti a fare una bella gita in
campagna in cerca di fiori selvatici. Poi balzarono loro addosso, li avvolsero di
nuovo nelle catene e li rispedirono nel Tartaro.
Se Gea si fosse svegliata, non ne sarebbe stata contenta… E allora? Adesso Crono
era il re. Volente o nolente, mammina avrebbe dovuto accettarlo.
A palazzo la vita proseguì molto più tranquilla, ma Crono aveva ancora un altro
motivo per essere di cattivo umore. Non era giusto che lui non potesse avere una
ragazza.
Anche perché ne aveva in mente una in particolare.
Segretamente si era preso una cotta per Rea.
Rea era bellissima. Ogni volta che la famiglia si radunava, Crono le lanciava
occhiate furtive. Se si accorgeva che altri maschi flirtavano con lei, li prendeva in
disparte per una conversazione privata, con la falce in mano, e li metteva in
guardia dal riprovarci.
Adorava il modo di ridere di Rea. Il suo sorriso era più luminoso del bolide
acchiappa-ragazze di Elio… cioè, del sole. Amava il modo in cui i riccioli neri le
sfioravano le spalle. I suoi occhi erano verdi come i prati, e le labbra… be’, Crono
quelle labbra sognava di baciarle.
E poi Rea era dolce e gentile, e tutti le volevano bene. Crono pensò: ―Se soltanto
avessi una moglie come lei, i miei famigliari non avrebbero tutta questa paura di
me. Si presenterebbero a palazzo più spesso. Rea mi insegnerebbe a essere un
Titano migliore. La vita sarebbe meravigliosa!‖.
Ma un’altra parte di lui pensava: ―No! Non posso sposarmi, per via di quella
stupida maledizione!‖.
Così scalpitava in preda alla frustrazione. Lui era il re dell’universo! Poteva fare
tutto quello che voleva! Forse Urano aveva solo voluto spaventarlo, e in realtà non
c’era nessuna maledizione. O forse sarebbe stato fortunato e non avrebbe avuto
figli.
Prendi nota: se stai cercando di non avere figli, non sposare una che è la titanide
della maternità.
Crono alla fine non ce la fece più. Invitò Rea a una cena romantica e le confessò i
propri sentimenti. E lì su due piedi le chiese di sposarlo.
Ora non so se Rea lo amasse o no. Nella seconda ipotesi, immagino fosse troppo
spaventata per dirglielo. Lui era Crono il Bastardo, dopotutto, il tizio che aveva
ucciso il loro padre. Il re dello stramaledetto universo.
E non aiutava nemmeno che per tutto il tempo della cena la falce fosse rimasta
appesa a un gancio sul muro dietro di lui, con la lama luccicante che, alla fiamma
delle candele, sembrava ancora ricoperta di icore dorato.
Rea accettò di sposarlo.
Forse pensava di riuscire a redimerlo. Forse anche Crono ci credeva. Fecero una
bellissima luna di miele. Qualche settimana dopo, quando Crono seppe che
(sorpresa! sorpresa!) Rea aspettava il loro primo figlio, cercò di convincersi che
tutto sarebbe andato per il meglio. Era felice. Non sarebbe mai stato un cattivo
padre come Urano. Non importava che il bambino fosse un maschietto o una
femminuccia. Lui lo avrebbe amato comunque, e avrebbe dimenticato la vecchia
maledizione.
E poi il figlio nacque: era una bellissima bambina.
Intimamente Rea aveva temuto che suo figlio potesse nascere ciclope o centimano.
Probabilmente anche Crono si era stressato per questo. Invece no. La bambina era
perfetta.
Anzi, forse lo era persino un po’ troppo.
Rea la chiamò Estia. La avvolse in una morbida coperta e la mostrò all’orgoglioso
papà. All’inizio Crono sorrise: la bimba non era un mostro. Fantastico! Ma quando
le solleticò il mento e la guardò negli occhi facendo i soliti teneri gorgoglii che si
fanno a un neonato, si accorse che Estia non era affatto un Titano.
Era più piccola di un bambino Titano, ma più forte e dalle proporzioni perfette. E
gli occhi erano fin troppo intelligenti per una neonata. Irradiava potere. Con la sua
conoscenza del tempo, Crono poté figurarsi che aspetto avrebbe avuto una volta
cresciuta. Sarebbe stata più bassa dei Titani, ma capace di grandi imprese. Avrebbe
superato qualsiasi Titano in qualunque cosa avesse scelto di eccellere.
Estia era una versione migliorata dei Titani: Titano 2.0, Titani, il ritorno.
E infatti non era un Titano. Era una dea: il primo individuo di un ramo totalmente
nuovo dell’evoluzione degli immortali.
Guardandola, Crono si sentì come un vecchio cellulare davanti all’ultimo modello
di smartphone. Seppe all’istante che i suoi giorni erano contati.
Il sorriso orgoglioso da bravo papà si spense. A quella bambina non doveva essere
permesso di crescere, o la profezia di Urano si sarebbe avverata. Doveva agire in
fretta. Sapeva che Rea non avrebbe mai acconsentito che sua figlia venisse uccisa,
e poi si portava sempre appresso quegli stupidi leoni. E lui non poteva mettersi a
lottare nella sala del trono. Non poteva nemmeno prendere la falce, con la bambina
in braccio. Doveva sbarazzarsi di Estia immediatamente e definitivamente.
Aprì la bocca, la spalancò al massimo, più di quanto avesse mai creduto di poter
fare. La mandibola si disarticolò come quella di certi serpenti che possono papparsi
una mucca in un sol boccone. Ci cacciò dentro Estia e la inghiottì.
Un solo glup, e la piccola era sparita.
Come potete facilmente immaginare, Rea diede in escandescenze.
— Mia figlia! — strillò. — Tu… hai appena…
— Oh, accidenti — disse Crono con un rutto. — Che sbadato. Mi dispiace.
A Rea schizzarono gli occhi fuori dalle orbite. Se possibile, urlò ancora di più. Si
sarebbe lanciata contro Crono per tempestarlo di pugni, o avrebbe ordinato ai leoni
di attaccarlo, ma aveva paura di far male alla bambina imprigionata dentro di lui.
— Vomitala fuori! — lo implorò.
— Non posso — rispose Crono. — Ho uno stomaco di ferro. Una volta che va giù
qualcosa, non può più uscire.
— Ma come hai potuto inghiottirla? — continuò a gridare Rea. — Era la nostra
bambina!
— Già, a proposito di questo… — Crono cercò di assumere un’espressione
contrita. — Ascoltami, tesoro, con quella bambina le cose non avrebbero
funzionato.
— Funzionato?!
— È per via della maledizione. — Crono le raccontò quello che Urano aveva
profetizzato. — Insomma, andiamo, pasticcino mio! Quella bambina non era
nemmeno un Titano vero e proprio. Avrebbe creato un sacco di problemi, te lo
dico io! Il prossimo verrà meglio, ne sono certo.
Il che gli sembrava decisamente ragionevole, ma chissà perché Rea non fu per
niente d’accordo. Si precipitò fuori dalla sala, furibonda.
Penserete che non lo avrebbe mai perdonato. Insomma, vostro marito si mangia il
primo figlio come un hamburger farcito… Una madre normale se la legherebbe al
dito.
Ma la situazione di Rea era complicata.
Prima di tutto, Crono aveva inghiottito la piccola Estia tutta intera. Tecnicamente,
come i genitori, la bimba era immortale. Non poteva morire, persino nello stomaco
del padre. Vomitevole? Sì. Un filino claustrofobico? Potete scommetterci. Ma
mortale? No.
―È ancora viva‖ si consolava Rea. ―Troverò il modo di tirarla fuori.‖
Questo la calmò un poco, anche se non aveva ancora elaborato un piano. Non
poteva ricorrere alla forza: era una titanide mite. Anche se avesse cercato di
combattere, la maggior parte dei Titani più forti, come Iperione e quel tirapiedi di
Atlante, avrebbero spalleggiato Crono.
Non poteva nemmeno tentare un attacco a sorpresa con un coltello o la falce, o
persino con i suoi leoni, perché avrebbe potuto fare del male alla bambina.
Forse ora starete pensando: ―Aspetta un attimo, se la bimba era immortale, perché
Rea si preoccupava di poterle fare del male?‖.
Vedete, anche gli immortali possono essere feriti gravemente, storpiati o mutilati.
Una ferita può non ucciderli, ma anche loro non sempre riescono a guarire:
possono restare storpi per l’eternità. Ne avrete qualche esempio più avanti. Rea
non aveva nessuna intenzione di squartare Crono e rischiare di tagliare anche la sua
bambina, perché vivere senza un pezzo di corpo non è certo bello, soprattutto
quando ti tocca vivere per sempre.
Non poteva divorziare da Crono, perché il divorzio non era ancora stato inventato.
E in ogni caso, lei era troppo terrorizzata per provarci. Non la si può certo
biasimare. Come avrete senz’altro notato, Crono era decisamente un brutto
soggetto. E Rea questo lo sapeva sin da quando lui aveva fatto a pezzi il padre e
poi se n’era andato in giro durante la festa post-assassinio, con la tunica tutta
macchiata di icore, gridando: — Fantastico parricidio, ragazzi! Batti il cinque!
Non poteva scappare, perché Crono era il signore di tutto il mondo. A meno che
non volesse tuffarsi nel Tartaro (ipotesi da non considerare), non aveva un posto
dove andare.
Non le restava che tener duro, prendere tempo e aspettare finché non avesse
trovato un modo per tirare fuori Estia.
Crono cercò di essere carino con lei. Le fece dei regali e la portò fuori a cena,
come se questo potesse farle dimenticare la figlioletta che lui aveva nello stomaco.
Quando Crono pensò che fosse passato abbastanza tempo – tipo tre o quattro giorni
– cominciò a insistere per avere altri figli.
Perché? Forse desiderava inconsciamente la morte. Forse era diventato così
ossessionato dalla profezia di Urano che voleva vedere se il prossimo figlio
sarebbe stato un vero Titano o un altro di quegli orribili, troppo potenti e
assolutamente perfetti piccoli dei.
Così Rea ebbe un secondo bambino: un’altra femmina, ancora più bella della
prima. La chiamò Demetra.
E osò sperare. Demetra era così adorabile che forse avrebbe fatto sciogliere anche
il cuore di Crono. Non poteva certo sentirsi minacciato da quel fagottino di gioia.
Crono prese la bimba tra le braccia e si accorse subito che Demetra era un’altra
dea. Brillava di un’aura ancora più potente di quella di Estia. E questo significava
una sola cosa: problemi con la P maiuscola.
Questa volta non ebbe nemmeno un attimo di esitazione. Spalancò la bocca e la
inghiottì all’istante.
Vi lascio immaginare la crisi isterica della mamma. Vi lascio immaginare le
giustificazioni con cui il papà cercò di scagionarsi.
Rea era veramente tentata di scatenare i suoi leoni, ma adesso la posta in gioco era
ancora più alta. Dentro la pancia Crono aveva due figlie.
Lo so, lo stomaco del Signore dei Titani cominciava a essere un po’ affollato. Ma
gli dei sono abbastanza flessibili in fatto di taglia. A volte sono enormi. A volte
non sono più grandi degli umani.
Io non c’ero nello stomaco di Crono, fortunatamente, ma posso solo ipotizzare che
le due bimbe immortali avessero fatto in modo di restare piccole. Continuarono a
maturare, ma senza crescere. Erano come germogli che si arrotolavano sempre più
stretti su se stessi, sperando un giorno di poter sbocciare. E ovviamente pregando
che Crono non buttasse giù salsa piccante.
Povera Rea.
Crono insistette per provare ancora. — Col prossimo andrà meglio — promise. —
Vedrai che non dovrò mangiare più nessun bambino!
Il terzo figlio? Anche quello una femmina. Rea la chiamò Era, e questa fu
addirittura la meno titanica, la più divina. Rea era davvero la Grande Madre. Anzi,
era persino un po’ troppo brava: ogni figlia che aveva avuto era migliore e più
potente della precedente.
Non avrebbe voluto mostrare la piccola Era a Crono, ma anche a quei tempi era
una tradizione: il papà doveva prendere in braccio il neonato. Si trattava di una di
quelle leggi naturali su cui Temi aveva sempre insistito (a dire il vero, c’era anche
una legge naturale che proibiva di mangiare i propri figli, ma Temi aveva troppa
paura per farne cenno a Crono).
E così Rea si fece coraggio. — Mio signore, ti presento tua figlia Era.
GLUP.
Questa volta Rea lasciò la sala del trono senza nemmeno fare una scenata. Era
troppo addolorata, disperata e incredula. Aveva sposato un bugiardo compulsivo,
assassino e cannibale.
Poteva andare peggio di così?
Oh, un momento! Crono era anche il re dell’universo, con una nutrita schiera di
gorilla ai suoi ordini, quindi lei non poteva certo ribellarsi e fuggire.
Appunto. Certo che poteva andare peggio.
Altre due volte Rea diede alla luce perfetti e adorabili neonati divini. Il quarto
bambino era un maschio e fu chiamato Ade. Rea sperò che Crono lo avrebbe
lasciato vivere, perché ogni papà vuole un figlio maschio con cui giocare a pallone,
giusto? Niente da fare. Giù anche lui per il passavivande!
Il quinto figlio era un altro maschio, Poseidone. Stessa storia. Slurp.
A questo punto, Rea fuggì da palazzo. Pianse e gemette e non sapeva più che fare.
Andò dai fratelli e dalle sorelle, dai nipoti e dalle nipoti, ma nessuno volle starla a
sentire. Implorò aiuto. Gli altri Titani però o avevano troppa paura di Crono (come
Temi) o lavoravano per lui (come Iperione), e le dissero di smetterla di lagnarsi.
Alla fine Rea andò a trovare la sorella Febe, all’Oracolo di Delfi, ma purtroppo
nemmeno l’Oracolo poté darle consiglio. Corse allora sul prato più vicino, si gettò
a terra e cominciò a piangere. All’improvviso, udì un mormorio salire dal terreno.
Era la voce di Gea, che ancora dormiva; ma persino nei sogni la Madre Terra non
poteva sopportare di udire il pianto della sua adorata figlia.
Quando starai per dare alla luce il tuo prossimo figlio, bisbigliò la voce, vai a
partorire a Creta! Là troverai aiuto! Questo bambino sarà diverso! Salverà tutti
gli altri.
Rea tirò su col naso e cercò di ricomporsi. — Dov’è Creta?
È un’isola giù a sud, disse la voce di Gea. Devi prendere il mar Ionio verso, direi,
Kalamata. Poi gira a sinistra e… be’, sai che ti dico? Non preoccuparti, la
troverai.
Quando si avvicinò il momento del parto, e Rea cominciò a essere davvero molto
grossa, fece qualche respiro profondo, chiamò a raccolta tutto il proprio coraggio e
caracollò nella sala del trono.
— Crono, mio signore — annunciò — parto per Creta. Tornerò con il bambino.
— Creta? — si accigliò Crono. — Perché Creta?
— Be’, ecco — disse Rea — sai che Ceo e Febe a volte riescono a dare uno
sguardo al futuro?
— Ebbene?
— Non voglio rovinarti la sorpresa, ma hanno profetizzato che se avrò questo
bambino a Creta, ti piacerà più di tutti gli altri! E ovviamente, mio signore, farei
qualsiasi cosa per compiacerti!
Crono aggrottò la fronte. La faccenda lo insospettiva, ma pensò: ―Insomma, le ho
mangiato cinque figli, e lei è ancora qui. Se avesse voluto organizzare qualcosa di
losco, lo avrebbe già fatto‖.
In più, ormai aveva la mente un po’ offuscata. Si ritrovava cinque giovani dei che
vagavano nel suo stomaco lottando per farsi spazio, quindi si sentiva sempre come
se avesse mangiato troppo e avesse bisogno di schiacciare un sonnellino.
Voglio dire, cinque dei nella pancia, accidenti! Abbastanza per un tennis doppio
con in più l’arbitro. Erano là dentro da così tanto tempo che probabilmente stavano
sperando che Crono inghiottisse un mazzo di carte o un Monopoli.
Comunque, Crono guardò Rea e disse: — Mi porterai subito il bambino?
— Certo.
— Allora va bene. Vai pure. Dov’è Creta?
— Non lo so di preciso — rispose Rea. — Ma la troverò.
E così fece. Una volta là, incontrò subito alcune ninfe molto collaborative che
come lei avevano udito la voce di Gea. La condussero in una caverna comoda e
appartata ai piedi del Monte Ida. Lì vicino scorreva il loro ruscello, così Rea aveva
sempre acqua fresca a disposizione. E la rigogliosa foresta forniva cibo in
abbondanza.
Lo so, lo so: gli immortali vivevano principalmente di nettare e ambrosia, ma in
caso di necessità potevano mangiare anche altra roba. Essere un dio non avrebbe
niente di divertente se ogni tanto non ci si potesse fare una buona pizza.
Rea partorì un robusto maschietto. E questo era davvero il più bello di tutti. La
mamma lo chiamò Zeus, che a seconda delle persone a cui chiedete può significare
o ―cielo‖ o ―splendore‖ o semplicemente ―vivere‖. Personalmente voto per l’ultimo
significato, perché penso che a questo punto Rea nutrisse per suo figlio un’unica
speranza: che rimanesse vivo e possibilmente lontano da stomaci ostili.
Zeus cominciò a piangere, forse perché percepiva l’ansia della madre. Il suo vagito
riecheggiò nella caverna e si propagò nel mondo così forte che tutti seppero che era
nato un nuovo bambino.
— Oh, fantastico — borbottò Rea. — Ho promesso di portare immediatamente il
bimbo a Crono. Ora gli giungerà all’orecchio che è arrivata l’ora del pasto a base
di neonato.
Il pavimento della caverna tremò, e dalla polvere emerse una grossa pietra, una
roccia liscia e ovale esattamente dello stesso peso e dimensioni del piccolo dio.
Rea non era stupida e intuì subito che quello era un dono di Gea. Normalmente
nessuno sarebbe entusiasta che la madre gli regalasse un sasso, ma Rea capì cosa
fare con quella pietra. L’avvolse nelle fasce e affidò il vero Zeus alle ninfe.
Sperava solo, una volta tornata a palazzo, di riuscire a portare a termine con
successo la sostituzione.
— Verrò a trovarvi ogni volta che posso — promise alle ninfe. — Ma voi sarete in
grado di prendervi cura del piccolo?
— Non preoccuparti — disse una di loro di nome Neda. — Gli daremo da
mangiare il miele delle api che vivono qui intorno. E quanto al latte, abbiamo una
fantastica capra immortale.
— Una cosa? — chiese Rea.
Le ninfe le portarono la capra Amaltea, che produceva un eccellente latte magico
in mille gusti diversi, compreso ―a basso contenuto di grassi‖, ―cioccolato‖ e
―formula per neonati‖.
— Bella capra — ammise Rea. — Ma se il piccolo piange? Avrete senz’altro già
notato che è fornito di ottimi polmoni. E Crono ha un udito finissimo. Potrebbe
sospettare qualcosa.
Neda considerò la faccenda. Poi condusse Rea all’entrata della caverna e chiamò la
Madre Terra: — Oh, Gea! So che stai dormendo, e mi dispiace disturbarti. Ma
avremmo bisogno di aiuto per sorvegliare questo ragazzino! Preferibilmente un
aiuto molto rumoroso!
La terra rombò, e ne emersero tre nuovi collaboratori, nati dalla polvere e dal
sangue sparso di Urano (come già detto, quella roba era schizzata ovunque). Si
trattava di grossi e pelosi umanoidi, coperti di pelo, piume e cuoio come se fossero
diretti a una festa in maschera a tema ―La Preistoria‖. Erano armati di aste e scudi,
e quindi sembravano più cacciatori di teste che balie.
— SIAMO I CURETI! — gridò uno dei tre con quanto fiato aveva in corpo. —
AIUTEREMO NOI!
— Grazie — rispose Rea. — Ma dovete sempre parlare così forte?
— QUESTA È LA MIA VOCE INTERIORE! — strillò il guerriero.
Il piccolo Zeus ricominciò a piangere. Immediatamente i tre guerrieri si produssero
in alcuni passi di danza tribale, battendo le spade sugli scudi, gridando e cantando.
E coprirono completamente il pianto del bimbo.
Per non si sa quale ragione, al piccolo tutto quel rumore sembrò andare a genio. Si
addormentò beato tra le braccia di Neda, e i Cureti smisero di fare chiasso.
— Okay, bene — disse Rea con le orecchie assordate. — Pare che abbiate la
situazione sotto controllo. — Prese in braccio il finto neonato. — Auguratemi
buona fortuna.
Una volta tornata sul Monte Otri, si precipitò nella sala del trono con il suo sasso in
fasce. Era terrorizzata che il piano potesse fallire, ma dopo così tanti anni come
sposa di Crono aveva imparato a essere una brava attrice. Si presentò decisa al re
cannibale e gridò: — Ecco, questo è il più bel bambino in assoluto! Uno splendido
maschietto di nome… Rocky! E immagino che te lo mangerai!
Crono fece una smorfia. A dire la verità, il pensiero di dover inghiottire un altro
piccolo dio non lo entusiasmava. Era strapieno! Ma quando sei re, il dovere innanzi
tutto.
— Già… Mi dispiace, tesoro — disse. — Devo proprio. La profezia e tutte quelle
cose là.
— Ti odio! — sibilò Rea. — Urano sarà anche stato un padre orribile, ma almeno
non ci mangiava!
— Dammi quel bambino! — ringhiò Crono.
— No!
Crono lanciò un urlo possente. Disarticolò le mascelle e spalancò la bocca
all’inverosimile. — Ora!
Afferrò il fagotto di fasce e se lo cacciò in gola senza nemmeno guardarlo, proprio
come Rea aveva sperato.
Dentro la sua pancia, i cinque giovani dei non digeriti sentirono la pietra rotolare
lungo l’esofago.
— Sta arrivando! — gridò Poseidone.
Si spostarono più che poterono in quello spazio ristretto, e Rocky atterrò in mezzo
a loro.
— Ma questo non è un bambino — fece notare Ade. — Credo sia una pietra.
Proprio un acuto osservatore, eh?
Nel frattempo, nella sala del trono, Rea improvvisò una scenata da Oscar. Prese a
urlare e a battere i piedi e a insultare Crono con i peggiori epiteti.
— Rocky! — gemeva. — Nooooo!
Crono cominciò ad accusare un brutto mal di stomaco.
— Quest’ultimo ragazzino mi ha proprio riempito — si lamentò. — Cosa gli davi
da mangiare?
— E che cosa te ne importa? — gemette Rea. — Non farò più figli, mai più!
Crono si dichiarò d’accordo. Era decisamente sazio.
Rea corse via piangendo, e lui non cercò nemmeno di fermarla.
Finalmente a palazzo le cose si acquietarono. Crono era convinto di aver
neutralizzato la maledizione di Urano. Senz’altro i suoi figli non avrebbero potuto
spodestarlo, perché lui sapeva dov’erano in ogni momento. Era il re del cosmo, e
nessuno l’avrebbe mai detronizzato!
Intanto Rea si recava al Monte Ida ogni volta che poteva. Il suo bambino cresceva,
e lei si premurò di raccontargli un sacco di fiabe della buonanotte sul suo orribile
padre e i cinque fratelli non digeriti che aspettavano solo di essere tirati fuori dalle
viscere del mostro.
Quindi ormai avrete capito che quando Zeus sarà grande abbastanza, ci sarà uno
scontro padre-figlio di proporzioni epiche. Se per Crono e i suoi Titani volete un ―e
vissero sempre felici contenti‖, allora smettete pure di leggere. Perché nel prossimo
capitolo, Zeus scatenerà una guerra nucleare.
GLI OLIMPI SFONDANO QUALCHE
TESTA
Sul Monte Ida Zeus ebbe un’infanzia felice. Trascorreva le giornate a correre per la
campagna assieme alle ninfe e ai satiri, imparava a combattere con i suoi rumorosi
amici Cureti, si faceva scorpacciate di miele e latte magico di capra (slurp!) e
ovviamente non andava mai a scuola, perché la scuola non era ancora stata
inventata.
Crescendo, si trasformò in un gran bel tipo: un giovane dio abbronzato e
muscoloso grazie a tutto il tempo passato nella foresta e sulla spiaggia. Aveva
capelli corti e neri, una barba ben curata e occhi azzurri come il cielo, che però
potevano rannuvolarsi molto velocemente se si arrabbiava.
Un giorno andò a trovarlo mamma Rea, con il suo cocchio tirato dai leoni.
— Zeus — gli disse — devi trovarti un lavoretto per l’estate.
Zeus si grattò la testa. La parola ―estate‖ gli piaceva. Non era altrettanto sicuro che
gli piacesse la parola ―lavoro‖. — Cos’avresti in mente?
Gli occhi di Rea brillarono. Era da parecchio che programmava la sua vendetta
contro Crono. Ora, guardando il figlio – così sicuro di sé, forte e bello – capì che il
momento era arrivato.
— A palazzo c’è un posto vacante da coppiere — gli spiegò.
— Ma io non ho nessuna esperienza nel maneggiare le coppe — ribatté Zeus.
— È facile — lo rassicurò Rea. — Ogni volta che il re Crono chiede da bere, tu
glielo porti. La paga non è alta, ma il lavoro presenta un sacco di vantaggi: per
esempio, la possibilità di spodestare tuo padre e diventare il Signore del Creato.
— In effetti, per questo mi sento proprio portato — considerò Zeus. — Ma non è
che poi Crono si accorge che sono un dio?
— Ci ho pensato — rispose Rea. — I tuoi fratelli sono sopravvissuti nella sua
pancia per tutti questi anni e come te sono ormai adulti. Ciò significa che devono
avere il potere di cambiare forma e dimensioni. E anche tu dovresti avere questa
capacità. Vedi un po’ se riesci ad apparire meno divino, più… Titanoso.
Zeus si mise a riflettere. Aveva già scoperto di essere capace di cambiare forma.
Una volta aveva spaventato la sua tata ninfa trasformandosi in un orso. Un’altra
aveva vinto una corsa con i satiri trasformandosi in un lupo. Secondo i satiri aveva
imbrogliato, ma era assolutamente falso. Era una gara di corsa, no? E i lupi
corrono. Non si era mica trasformato in un’aquila (cosa che avrebbe potuto
benissimo fare)!
L’unico Titano che Zeus avesse mai visto da vicino era sua madre, ma sapeva che
in genere erano più grossi di lui. Però non irradiavano il suo stesso potere.
Emanavano una vibrazione leggermente diversa: più violenta, e con una sfumatura
più rozza. Immaginò se stesso come Titano, e quando riaprì gli occhi, per la prima
volta si ritrovò più alto di sua madre. Si sentiva come se avesse dormito male dopo
una brutta giornata trascorsa a strangolare nemici.
— Ottimo! — esclamò Rea. — E ora andiamo a fare questo colloquio di lavoro.
Fine dell'estratto Kindle.
Ti è piaciuto?
Scarica la versione completa di questo libri