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Gianfranco Ravasi

Il libro di Giobbe

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Realizzazione del formato digitale:Emme2 Sas, Bologna ISBN e-book: 978-88-10-967928

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Indice

1. UN’ANGUILLA TRA LE MANI

La corniceDialoghi e rovineUn’intrusione inattesaCollocazioni difficiliQuale lingua per quale opera?Sentieri in altura

2. STORIA DI UN SOFFERENTE

Il vero volto di GiobbeLa struttura del libroIl dolore di GiobbeLa «piaga maligna»Senza un filo di speranzaIl grande Avversario

3. STORIA DI UN CREDENTE

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«Lasciami inghiottire la saliva»Fare causa a DioIl giuramento di innocenzaLo scandalo del maleLa teoria della retribuzioneL’insorgenza del realeUna scuola di grandezzaIl dolore che trasforma

4. FACCIA A FACCIA CON DIO

Una lotta con DioNon risposte, ma domandeLe meraviglie del creatoDio domina la natura e la storia«Ora i miei occhi ti vedono»

CONCLUSIONE

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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1. Un’anguilla tra le mani

Giobbe è una figura difficile da arginare, una specie d’insonnia cheattanaglia tutti coloro che in qualche modo incrociano le sue strade. Tral’altro, essa non appartiene nemmeno al mondo ebraico, perché Giobbe –lo si dice proprio nella prima riga del libro biblico – è uno dei figlid’Oriente, della regione di Uz, la quale indica probabilmente qualcosa diremoto e di esotico per lo stesso narratore ebraico autore del prologo.

La sua è una presenza continua – nella teologia, nell’esegesi,nell’arte, nella letteratura, nel pensiero – che ha segnato un numeroenorme di personalità della cultura. Un piccolo saggio degli effetti diquesti incontri mostra quanto possa essere significativo leggere Giobbeattraverso i suoi lettori e interpreti. In effetti, ogni libro non si riducesoltanto a ciò che l’autore scrive, ma comprende anche ciò che l’autoregenera attraverso la sua opera, e tutto ciò che il lettore quasi aggiunge, oscopre o discerne, all’interno del testo. Se poi la lettura del testo biblicoavviene in un contesto di fede, i credenti ammettono anche l’interventodello Spirito di Dio.

Nel suo Cours familier de littérature del 1856, il famoso poeta e

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saggista Alphonse de Lamartine scriveva: «Giobbe non è un uomo, èl’umanità. Una razza che può sentire, pensare, esprimersi con questoaccento è veramente degna di scambiare la sua parola con la parolasoprannaturale e di conversare con il suo creatore». Un uomo capace diarrivare a questi livelli è degno non solo di essere creatura di Dio, maanche di interloquire con il suo creatore.

In questa luce, Giobbe continua a rappresentare anche figure in cuinon si riconoscerebbe appieno, ad esempio i cosiddetti «pazienti». Il luogocomune della pazienza, soprattutto in ambito popolare, accompagnaancora oggi il nome di Giobbe: è paziente come Giobbe, si dice.Quest’idea è penetrata perfino nel Nuovo Testamento, in cui si legge:«Proclamiamo beati quelli che hanno perseverato. Avete udito parlaredella perseveranza di Giobbe e conoscete l’esito finale, opera del Signore,perché il Signore è ricco di bontà e misericordioso» (Gc 5,11). Questapazienza trova la sua celebrazione più entusiasta nell’opera Moralia in Job(ossia «Riflessioni morali su Giobbe»), che assomma trentacinque libri, incui continuamente Gregorio Magno ribadisce l’idea dell’umiltà di Giobbe,della sua dedizione e sopportazione; queste virtù assumono tratti eroici,addirittura stoici diremmo, o persino «musulmani», nel senso etimologicodella «sottomissione» completa al volere di Dio.

In questa linea, la figura di Giobbe paziente e orante sul letamaiocostituisce il modulo dominante nell’iconografia, lungo tutta la storiadell’arte. Naturalmente esiste qualche appiglio per tale lettura, il cuifondamento rimane tuttavia davvero esiguo e non appartiene interamentealla sostanza poetica del libro, né al suo messaggio; si tratta di una letturaassolutamente secondaria. In diverse forme, poi, il libro di Giobbe è statoripreso da tanti autori moderni. Il Faust di Goethe, con il suo duplice

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prologo in cielo e in terra, altro non fa che seguire l’inizio del libro diGiobbe. Anche il misterioso mostro marino di Melville, Moby Dick, èinteramente desunto, anzi quasi citato alla lettera, dal capitolo del libro diGiobbe in cui appare un mostro impressionante, il Leviatano. Similmente,nel corso di quell’esperienza impegnativa e straordinaria che è la letturadei Fratelli Karamàzov di Dostoevskij, ci si imbatte nella veementediscussione sul mistero del male tra l’incredulo Ivàn e il fratello monacoAlëša. Anche questo duello è condotto sulla filigrana dei temi presenti neltesto di Giobbe.

Proseguendo la rassegna, riscontriamo gli influssi del libro di Giobbeanche su quel mondo che non si ispira direttamente alla fede biblica. Jung,uno dei padri della psicanalisi, scrive la sua Risposta a Giobbe, nella qualetenta di capovolgere paradossalmente il senso del libro biblico. Dio,essendo superiore al bene e al male, alla giustizia e all’ingiustizia, è percosì dire «immorale», e deve essere educato da Giobbe, l’uomo morale,che ricorda a Dio l’esistenza di un’oggettività della giustizia edell’ingiustizia. Inoltre, Jung recupera in parte la tradizione cristianaaccostando a Giobbe la figura di Gesù Cristo. Jung separa anche GesùCristo dal cliché del Giobbe paziente, e lo fa emergere come uomo:quando si scatena l’ira del Padre che – secondo Jung – decide liberamenteil bene e il male, di fronte a lui non si erge più soltanto Giobbe, il piccolouomo che osa sfidare Dio, ma anche il Figlio di Dio fatto uomo, checapisce le ragioni di Giobbe.

Gli esempi di questa posterità culturale del libro di Giobbe sonopraticamente inesauribili; da ricordare il romanzo Giobbe di Joseph Roth,lo scrittore ebreo mitteleuropeo; la figura di Giobbe sottintesa nella Pestedi Camus; e il Giobbe presente nel Processo di Kafka. Ricordiamo anche

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le parole di Lamartine: «Ho letto oggi tutto il libro di Giobbe. Non è lavoce di un uomo, è la voce di un tempo. L’accento viene dal più profondodei secoli ed è il primo e l’ultimo vagito dell’anima, il primo, ultimovagito di ogni anima».

Questi accenni suggeriscono di considerare il libro di Giobbe comeun testo che non soltanto dice qualcosa in sé, ma che è attuale e dicequalcosa del lettore, il quale si sente perfettamente a suo agio perché viritrova la voce dell’umanità. Il problema più immediato è quello didiscernere all’interno del lungo e tormentato grido di Giobbe il percorsofondamentale che egli sta seguendo.

Leggere Giobbe è come «tenere nelle mani un’anguilla».L’espressione, peraltro facilmente comprensibile, è di un lettore genialedella Bibbia, il grande traduttore della Bibbia in latino, Girolamo. Nellasua premessa a Giobbe, formula questo paragone, di grande pertinenza efolgorante per la capacità di rappresentare l’arduo impegno di ogni lettorenel tentare di spiegare e di comprendere Giobbe, di trovare cioè l’assefondamentale della sua interpretazione, anche all’interno di una foresta dialtri significati.

Girolamo, infatti, sostiene che «spiegare Giobbe è come tentare ditenere nelle mani un’anguilla o una piccola murena: più forte la si preme,più velocemente sfugge di mano». La frase equivale a confessareun’impotenza interpretativa. Se si prende un’anguilla, si fa evidentementefatica a tenerla in mano: quanto più si preme, tanto più scivola via.Quando pare di aver afferrato il significato del libro di Giobbe, subito ci siaccorge che non era quello il senso. Eppure si è premuto qualcosa, si ètoccato qualcosa di vero.

Questo libro di quarantadue capitoli è veramente un mistero in sé,

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davanti al quale secoli e secoli di analisi non hanno esaurito le risposte.Giobbe è una cittadella da assediare, che da secoli patisce l’assedio daparte di tutti, commentatori e semplici lettori. Tutti cercano di aprire laloro piccola breccia e ricavare qualcosa da questa cittadella; attraverso unospiraglio fanno uscire rumori e voci, suoni e profumi, ma il cuore dellacittadella – la sua piazza centrale – rimane sempre irraggiungibile; inqualunque luogo si arrivi, rimane il sospetto che sia una meta secondaria,non quella definitiva. Del libro di Giobbe è impossibile farsi, per così dire,la mappa completa.

Spiegare il libro di Giobbe comporta prima di tutto un esercizio diumiltà e la custodia della coscienza di non aver capito tutto. Per questomotivo, attorno a questo libro impazzano continuamente le questioni, leinterpretazioni, le verifiche, le analisi, le ipotesi e le tesi.

Anche le traduzioni si moltiplicano, perché è un libro scritto in unalingua povera, l’ebraico biblico, che possiede un vocabolario di sole 5750parole; Giobbe ne usa molte di meno, eppure queste parole sonocontinuamente variegate, iridescenti. Non si riesce mai a «catturarle»,perché hanno a volte due o tre significati diversi e l’autore le usa consfumature che ci sfuggono. L’impresa del traduttore è davvero ardua. Perragioni pratiche, si ricorre a una traduzione di riferimento, mainevitabilmente spesso se ne devono sottolineare i limiti. A una buonatraduzione non soltanto si chiederebbe sempre un’equivalenza materiale –frase per frase, parola per parola –, ma anche di rendere tutto il saporedell’originale, gli aloni che stanno attorno alle parole; il traduttoredovrebbe essere anche un poeta, per riuscire a rendere la fragranzaulteriore del testo.

Ebbene, delle tante questioni che toccano il libro di Giobbe, ne

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elenchiamo sei; non perché non ne siano possibili altre, ma per dire quasiidealmente che si tratta di un elenco forzatamente incompleto. Il «sei» –sette meno uno – nella simbolica della Bibbia è infatti un numero diimperfezione.

LA CORNICE

La prima questione riguarda la cornice del libro: all’inizio e alla finesi racconta una parabola, distinguibile dal corpo del libro perché è inprosa, mentre i capitoli centrali sono in poesia. È convinzione generaleche questa parabola sia una storia popolare – Volksbuch, in tedesco –molto naïf, dai tratti leggendari; comincia proprio così: «C’era una voltaun uomo nella terra di Uz…».

Il racconto è semplice, si può riassumere in poche battute: un uomobaciato dalla fortuna vede la sua esistenza lacerata all’improvviso dalladisgrazia, il che lo porta a una grande desolazione. Egli, però, è tanto mitee paziente che alla fine Dio si ricorda di lui e lo ristabilisce nellasituazione di partenza. È quanto si legge nei capitoli 1–2 e nei versettifinali del capitolo 42.

Adattando tale racconto a servire da cornice, l’autore probabilmentevoleva che i lettori ricordassero una storia, sulla quale egli avrebbericamato, intessendo altri significati.

La vita di questo sceicco dalla figura statuaria – Giobbe èrappresentato dalla parabola iniziale proprio in questo modo – vienedistrutta da una tempesta, che divelle la sua tenda familiare e scardina lasua stessa vita, la tenda del corpo, la pelle. Eppure continua a conservareintatto quello che è espresso molto bene in due battute, peraltro celebri,

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che si leggono nei primi due capitoli. In Giobbe 1,21 egli dice: «Nudouscii dal seno di mia madre, nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, ilSignore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore». Questa frase, tral’altro, ricorre presso i musulmani – i quali pure venerano Giobbe – inoccasione dei loro riti funebri, nel corso dei quali è ripetuta con frequenza:«Dio ha dato, Dio ha tolto, sia benedetto il nome di Dio».

Ancora, in 2,8-10 Giobbe è rappresentato colpito non soltantoall’esterno, nelle sue relazioni, beni e affetti, ma è colpito nella suapersona, nel suo corpo, ossia (per il mondo semitico) nella sua intimità,nel suo essere personale: «Giobbe prese un coccio per grattarsi e stavaseduto in mezzo alla cenere». Il coccio è diventato anche il titolo di unromanzo di Riccardo Bacchelli (Un coccio di terracotta), dedicato aGiobbe. Il morbo maligno, che colpisce Giobbe, lo isola e lo rendeimpuro. Giobbe non è soltanto un malato, è uno scomunicato, è ai marginidella città, sulle immondizie.

«Allora sua moglie disse: “Rimani ancor fermo nella tua integrità?Benedici Dio e muori!”». In ebraico si trova: «Benedici Dio», ma in realtàil significato è «Maledici Dio», perché non si può mai mettere con il nomedi Dio un verbo negativo: bestemmiare sarebbe quasi grammaticalmentesbagliato, prima ancora che teologicamente.

«Ma egli le rispose: “Come parlerebbe una stolta tu hai parlato; se daDio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?”. In tuttoquesto Giobbe non peccò con le sue labbra».

La figura di Giobbe è presentata inizialmente sospesa in un limbo dipazienza, di adesione e obbedienza quasi cieca, perinde ac cadaver (nellostesso modo di un cadavere). Ma, al tempo stesso, all’interno del libro sisviluppa un discorso del tutto antitetico. Poche righe più avanti, infatti (Gb

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3,1ss), la voce di Giobbe cambia; è la voce del poeta che mette in bocca aGiobbe le parole che lo allontanano dal cliché dell’uomo paziente: «Dopo,Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno: “Perisca il giorno in cuinacqui e la notte in cui si disse: ‘È stato concepito un uomo’. Quel giornosia tenebra, non lo ricerchi Dio dall’alto, né brilli mai su di esso la luce.Lo rivendichi tenebra e morte, gli stenda sopra una nube e lo faccianospaventoso gli uragani del giorno! Quel giorno lo possieda il buio, non siaggiunga ai giorni dell’anno, non entri nel conto dei mesi. Ecco: quellanotte sia lugubre e non entri giubilo in essa”».

È la maledizione dell’essere nato, del giorno della propria nascita, ildesiderio non del suicidio, ma di non essere neppure esistito. Il tema èripreso forse dal profeta Geremia, che nel capitolo 20 presenta una paginaanaloga. Il discorso di Giobbe prosegue con un’amarezza senza tregua.

Le traduzioni non riescono a rendere ragione della potenza e dellaforza di questo grido: un grido paradossalmente barocco, se si vuole, macondotto sempre con una sobrietà e una forza che impressiona, la forza dichi ha provato il soffrire e lo descrive con veemenza, ma senza teatralità,senza il «birignao» dell’attore che recita, anche rappresentando i drammipiù terribili.

Per un momento, consideriamo anche l’ultima parte della cornice, alcapitolo 42,7-17. Costituisce per il libro una finale solare, luminosa; aprima vista sembra che l’autore voglia guidare qui i lettori, condurli avedere l’atteso happy end, quando Giobbe ritorna ad avere di nuovo tuttociò che aveva perso: «Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbepiù della prima, egli possedette quattordicimila pecore, seimila cammelli,mille paia di buoi, mille asini, ebbe ancora sette figli e tre figlie. A unamise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Fiala-di-stibio. In

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tutta la terra non si trovarono donne così belle come le figlie di Giobbe e illoro padre le mise a parte dell’eredità insieme con i loro fratelli. Dopotutte queste meraviglie di Dio, Giobbe visse ancora 140 anni e vide figli enipoti di quattro generazioni» (42,12-13).

In realtà, proprio poche righe prima, con l’effetto di contrasto giàpresente al termine dell’introduzione, l’autore pone la vera conclusionedel libro, il vero approdo della sua riflessione: «Io ti conoscevo per sentitodire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provopentimento sopra polvere e cenere» (42,5-6). Giobbe alla fine haincontrato Dio, ma Dio l’ha lasciato sulla polvere e sulla cenere, l’halasciato nella miseria, l’ha lasciato ancora nel dolore. Va assolutamenteevidenziato che tra il testo di partenza (il racconto popolare, documentatoanche in altre forme nell’antico Vicino Oriente) e il poema (checostituisce il corpo del libro) permane una tensione continua, stridente, epertanto il lettore è obbligato a barcamenarsi tra sensazioni differenti.

DIALOGHI E ROVINE

Passiamo a una seconda considerazione. Il corpo del libro è il dialogopoetico, costruito sulla base del confronto di Giobbe con i tre amici.Giobbe parla con Elifaz; poi dialoga con Bildad, il secondo amico; infine,interloquisce con Zofar, il terzo amico. Questi tre amici sono maestri,teologi, che parlano secondo prospettive differenti; sono probabilmente«professori» di discipline diverse. Il primo sembra essere uno specialistadi letteratura profetica, il secondo di letteratura giuridica sacra e il terzo diletteratura biblica sapienziale.

Giobbe dialoga con tutti e tre, per tre volte; il libro risulta composto

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così di tre atti, tre cicli di dialoghi. Ma ecco la sorpresa: ci si aspetterebbesempre lo stesso schema ripetuto. E in realtà ritroviamo la successione:Elifaz-Giobbe, Bildad-Giobbe, Zofar-Giobbe. Ma, a un certo momento,nel terzo atto, all’improvviso tutto si confonde: senza alcuna spiegazione,qualche amico non parla più o parla brevissimamente; Giobbe intervienepiù brevemente e poi scompare e gli amici rimangono sulla scena conpoche frasi. L’effetto è simile a quello che si prova entrando in unacattedrale bombardata: una parte rimane in piedi, visibile e comprensibile;ma là dove dovrebbero continuare le altre navate, con la stessa scansionedi cappelle, si trovano solo rovine.

Per spiegare questa architettura così strana, quasi lesionata, sono stateformulate ipotesi diverse. Alcuni pensano che sia avvenuta una censura,perché Giobbe qui avrebbe adottato un linguaggio eccessivamenteprovocatorio nei confronti di Dio, e un testo così veemente non sarebbepotuto passare indenne nella tradizione successiva. Altri, invece, ritengonol’opera incompiuta, non finita; di questo avviso era Luis Alonso Schökel,autore di un suggestivo commentario, che paragonava Giobbe allacosiddetta «Pietà Rondanini», anch’essa incompiuta: «Giobbe come laPietà Rondanini di Michelangelo, è la maturità dell’incompiuto, è lasupremazia dell’abbozzo sull’immagine perfetta, del ruvido sullasuperficie liscia, levigata». Giobbe esprimerebbe un intenzionale non-finito, ove l’incompiutezza è una forma di armonia, come accade in queltesto musicale di straordinaria bellezza che è l’Incompiuta di Schubert o inquel capolavoro michelangiolesco; saremmo, quindi, di fronte a un’operanon levigata, come il dramma che in essa si raggruma. Qualche studiosopensa anche che il libro di Giobbe sia un work in progress, cioè un’operache cresce, alla quale molti hanno messo mano.

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UN’INTRUSIONE INATTESA

Giungiamo, così, a una terza annotazione. Dopo la parabola, che fa dacornice, il corpo poetico del libro comprende, dunque, i capitoli 3–27,composti dai dialoghi tra gli amici. A questo punto, ci si aspetta che ildramma passi al momento culminante, introducendo dopo un ampiodiscorso di Giobbe (capitoli 29–31) la risposta di Dio, un Dio costretto afare la sua deposizione pubblica all’interno di un ideale processo.

Giobbe aveva contestato le tesi tradizionali della teologia difese dagliamici, rigettandole come insufficienti. Secondo lui, non i suoi avvocatidifensori, ma Dio stesso avrebbe dovuto parlare in proprio favore. Giobbevoleva affrontarlo faccia a faccia. Si incunea, invece, all’improvviso, Eliu,un altro personaggio, mai apparso fino a questo momento. I suoi quattrodiscorsi costituiscono i capitoli 32–37.

Gli interrogativi degli studiosi riguardano l’identità dell’autore diquesti discorsi e la loro strategia. Quale bisogno c’era di presentare unultimo amico, quando tutti gli altri teologi erano già stati consideratiinsufficienti?

Secondo un’interpretazione, Eliu, alla stregua dei nouveauxphilosophes francesi, rappresenta una sapienza nuova e più progressista;egli conosce bene la teologia più avanzata e sa bene che non è sufficienteripetere i dogmi alla maniera stereotipata degli altri amici. Secondoun’altra ipotesi, Eliu si esprime come uomo ispirato, assumendol’atteggiamento del profeta: «Nell’uomo c’è uno spirito, il soffiodell’Onnipotente che rende intelligente. Mi preme lo spirito che è dentrodi me» (32,18). Dopotutto, il suo nome, Eliu, è molto simile a quello diElia, il profeta per eccellenza.

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Oltre all’impossibilità di stabilirne chiaramente l’identità, sorprendesoprattutto il suo insegnamento, del tutto particolare, sul significatopedagogico del dolore. Il dolore, secondo Eliu, è come un grande lavacrodi purificazione, un crogiolo che libera dal male e dalle sue scorie.

COLLOCAZIONI DIFFICILI

Quarta osservazione: nel libro di Giobbe, alcuni brani sono di difficilecollocazione. Oltre ai discorsi di Eliu, anche il capitolo 28 presenta delleanomalie nella sua posizione all’interno del libro. Dopo la tensione delladiscussione con gli amici, è come se calasse il sipario: scompare Giobbe,scompaiono gli amici e pare diffondersi un suono molto dolce e delicato,di cembalo o d’arpa, e levarsi un coro. Il coro canta la sapienza di Dio conun poema veramente molto bello, in tre strofe; un’antifona potrebbe esserecantata dal coro, mentre la voce solista declama la lode che sale verso Dioe la sua sapienza, con accenti lirici e soprattutto pacificati.

Poco prima risuonava invece l’urlo, il grido disperato. Ora si distendela quieta e pacata contemplazione. Chi ha composto questo intermezzo?Chi l’ha collocato a questo punto del libro? Che significato può avere?Quale contributo fornisce alla soluzione del dramma di Giobbe?

Un ulteriore interrogativo concerne i due grandiosi, monumentalidiscorsi finali di Dio, un capolavoro assoluto (cc. 38–39 e 40–41).Tuttavia, il secondo di essi è profondamente diverso dal primo, tanto chemolti lo ritengono il frutto di un’altra mano: una pagina di grande potenzascritta in maniera peculiare, aggiunta al termine di una rassegna dimeraviglie, nella quale appaiono anche Behemôt, un immane ippopotamo,e il Leviatano, un coccodrillo mostruoso. Pure in questo caso, non è certa

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l’identificazione delle due fiere, né lo è il loro significato.

QUALE LINGUA PER QUALE OPERA?

Questa nostra quinta considerazione richiederebbe qualche eserciziosul testo ebraico. Esso è costellato di problemi, a partire dalla linguastessa. Gli studiosi non sono ancora d’accordo nel determinare la qualità ela cronologia della lingua in cui sono state scritte le pagine poetiche dellibro di Giobbe.

Per alcuni, si tratta di una lingua molto moderna. Ci sono delle formearamaizzanti, tipiche dell’epoca in cui gli ebrei, tornati dall’esilio diBabilonia, parlavano o almeno conoscevano l’aramaico, la linguadiplomatica e del commercio internazionale, l’inglese di allora, e avevanoin parte dimenticato l’ebraico. Come accade nelle lingue moderne, anchel’ebraico scritto diveniva ibrido, carico di prestiti linguistici esterni.Un’opera scritta in tale lingua dovrebbe essere piuttosto tardiva, attorno alV-IV secolo a.C.

Tuttavia, altri studiosi, tra cui Daniel Noel Friedman, esaminandomolti particolari, ritengono di aver identificato parecchie espressioniarcaiche, come se l’autore volesse imitare in qualche misura il cananeo, lalingua madre dell’ebraico. Risuonerebbe allora nel libro la lingua parlataal tempo della monarchia, nel VII o VI secolo a.C.

Un dettaglio interessante riguarda i nomi divini. Dio non è chiamatosempre allo stesso modo: nel prologo e nei discorsi finali, ricorre il nomesanto e impronunciabile, YHWH. Ma nel corso del dibattito poetico traGiobbe e gli amici, Dio è chiamato con nomi abbastanza rari esorprendenti. Si trova, certo, il nome comune per la divinità (‘El), anche

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nella sua forma arcaizzante (‘Elôah). Ma ricorre pure il nome ancora piùarcaico ‘El Shadday, di origine forse babilonese; in accadico il termineshadu significa «montagna»: il Signore è il «Dio della montagna», il Diotrascendente, o remoto, pantokrator, cioè «onnipotente», come traducel’antica versione greca dei Settanta.

Forse l’autore, con l’uso intenzionale di questi nomi che hanno ilsapore di titoli imperiali, intende presentare Dio come un signoretrionfatore, e non certo come un padre con cui si possa dialogare.

SENTIERI IN ALTURA

Soprattutto per coloro che hanno grande familiarità con questo libro,le contraddizioni, le interrogazioni e i problemi che esso pone, nella suacosì mutevole articolazione, affiorano continuamente alla memoria. Ènaturale porsi alla fine questa sesta e conclusiva domanda: qual è il sensoultimo di questo testo?

Sono possibili diverse risposte, benché alcune più probabili di altre.Di certo, però, l’invito alla pazienza non rientra nel messaggio del libro,con buona pace della fama che Giobbe si è attirato.

Forse la domanda più spontanea che sorge è la seguente: è un librosulla sofferenza, sul senso del dolore? Soprattutto, sul senso del doloreinnocente? Su questo punto, la risposta di molti autori è affermativa. Altri,sempre più numerosi, e io con loro, rimangono più esitanti: Giobbe non vaconsiderato un testo di teodicea, non intende cioè cercare di giustificareDio nei confronti del male e del dolore. Eppure, è fuor di dubbio cheGiobbe elevi un lamento continuo, e che la sua figura costituisca il ritratto,tra i più compiuti all’interno della Bibbia, di tutte le sofferenze possibili,

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specialmente di quelle interiori, fino al silenzio di Dio.Possiamo enumerare anche il tema dell’amicizia infranta, o quello

della fede, certamente presenti. Per quest’ultimo, basti soltanto vedere chel’autore, quando ha ripreso la famosa fiaba antica per farne la cornice deisuoi poemi, sicuramente ha aggiunto qualcosa, in modo da cambiare ilsignificato del racconto. In 1,9 il satana (un nome comune, in ebraico, cheindica non il diavolo, ma un angelo del consiglio della corona di Dio, unasorta di pubblico ministero della corte celeste deputato a difendere leragioni di Dio) dice: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla?». Si potrebbetradurre: «Forse che Giobbe crede in Dio per nulla?». Il satana insinua cheGiobbe abbia una fede «economica», attenta a tutti i vantaggi che glivengono dall’essere fedele a Dio, che l’ha benedetto sia nella sua vitapersonale, sia nella famiglia. Il punto significativo è l’espressione «pernulla» (ḥinnâm). Il tema della gratuità della fede è dunque rilevante e,anzi, fondamentale. La fede non cerca il ricambio, il ritorno; Giobbe, a uncerto punto, arriverà a dire: «Quand’anche egli mi uccidesse io continueròa credere in lui» (13,15). Questa dichiarazione entusiasmava santa Teresadi Lisieux, che rimaneva impressionata di fronte a una tale espressione difede, una fede che non si risolve nell’apatia, ma sprona alla ricerca e quasial combattimento con quel Dio dall’agire misterioso, in cui si crede.

Altri propongono di considerare il tema della lotta contro la teologia«scolastica» o «accademica» di allora, contro la teologia dei luoghicomuni. Infine, ed è questa la tesi verso la quale sembra si debbapropendere, il libro di Giobbe tratta della vera scoperta di Dio, attraversouna ricerca che non può essere condotta se non attraverso sentieri inaltura, erti e irti di difficoltà, coi piedi sanguinanti.

Tutte queste domande indicano la necessità di leggere e rileggere

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questo testo complesso, che è un intreccio di sofferenza e di fede, diantropologia e di teologia, di dubbio e di mistica, di protesta, di ribellionee di fiducia. Come invito alla lettura integrale del libro, si può citare unaltro lettore famoso di Giobbe, Ugo Foscolo; in una lettera alla nobildonnaveneziana (ma nata a Corfù) Isabella Teotochi Albrizzi (19 gennaio 1808),scriveva:

«Ora sto rileggendo e copiando in un libricciuolo tutto il libro di Giobbe; lo trascrivo con iltesto greco e latino. Vorrei pur sapere di caldeo e di ebreo, sublime libro, com’è pieno digrande e magnanimo dolore, come parla con Dio senza superstizione, delle proprie sciaguresenza bassezza. L’uomo sciagurato contempla con certa malinconica compiacenza letempeste della sua vita. Le passioni sono più consolate in quelle effusioni di amarezze e diquerele che in tutte le gloriose sentenze di Epitteto. Sublime libro! E vi fu chi ardiva atradurlo in versi e rime e con fredde eleganze?».

Giobbe è certamente un libro da tradurre, ma prima di tutto daascoltare all’interno della coscienza.

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2. Storia di un sofferente

La lettura di Giobbe che ora proponiamo potrebbe essere definita, conun’espressione che si usa spesso, un «viaggio testuale», un itinerarioall’interno del testo. Non si offrirà la lettura esegetica di paginecircoscritte, quelle che con un nobile termine greco sono dette «pericopi»,brani ritagliati. Il modo di procedere si prefigge invece di stimolare lalettura personale, possibilmente completa, di questo libro biblico.

Il testo sarà percorso in maniera trasversale, operando una scelta dipassi molto ampia che permetta di delineare i tratti autentici del volto diGiobbe.

IL VERO VOLTO DI GIOBBE

Esistono ritratti popolari di Giobbe: quello con il volto sofferente,innanzitutto, che è in assoluto il più celebre e che spesso viene letto inmaniera soltanto negativa, deformato da un’interpretazione insufficiente enon conforme alle intenzioni dell’autore. Come si è detto, a questo voltosofferente si aggiunge un ulteriore tratto, quello della pazienza. Giobbe èpaziente in un duplice senso: da un lato soffre, patisce; dall’altro sopporta.

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Anche questo aspetto, però, va considerato non molto pertinente dal puntodi vista della lettura accurata del testo.

In realtà, il corpo del libro, ossia la planimetria nella quale cimuoveremo, presenta Giobbe come una persona che patisce e protesta.Tuttavia, l’opera è circondata da una cornice piuttosto imbarazzante, chedavvero non corrisponde alla forza del poema centrale. Questa cornice,una sorta di parabola, comprende i primi due capitoli e il finale delcapitolo 42 e disegna un Giobbe che è effettivamente paziente e vive ildolore in maniera intensa, ma che alla fine ammicca quasi idealmente aquell’alba che sta per sorgere e che cancellerà completamente l’amarezzae il tormento della sua notte di dolore.

Uno studioso francese, Samuel Terrien, nel suo commento al libro diGiobbe del 1963, proprio riguardo al finale – un happy end in cui tutto perGiobbe ritorna a essere splendido – ha commentato così: «Dopo unavisione di Dio così alta come quella dei capitoli precedenti – dobbiamoproprio dirlo – il racconto della ricompensa finale di Giobbe non è altroche una digressione fuori luogo con un tocco di volgarità». Infatti,disturba non poco vedere quest’uomo che ha sfidato Dio, che è penetratonel mistero, che ha cercato in tutti i modi di caricare su di sé quasi tutta lagamma del soffrire e del dolore e che è diventato quasi un vessillo dellasofferenza umana, concludere alla fine la sua esistenza come uno sceiccoorientale, sotto le sue tende che volano al vento, mentre, dimentico deifigli che ha perso e delle disgrazie precedenti, banchetta e si gode la nuovanumerosa famiglia e il bestiame che popola il suo orizzonte restaurato.

Il grande poeta autore di quest’opera ha preso come spunto questaparabola soltanto perché tutti ricordassero la figura di Giobbe. Maall’interno della parabola, attraverso le parole del protagonista ha intessuto

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un discorso completamente diverso, che approda sì a una soluzionepositiva – come si vedrà –, ma che non è quella del benessere e dellaprosperità. Sorge spontanea l’obiezione: perché non ha cancellato questaparte finale? Probabilmente, perché questo è un costume culturaledell’antico Vicino Oriente, del mondo semitico: quando si fa unacitazione, la si riporta nella sua integralità, anche quando non corrispondeesattamente alla tesi che si vuole sostenere. Si evoca un personaggiofamoso e di quel personaggio famoso l’uditorio conosce tutta la storia.L’autore la racconta di nuovo, però dicendo qualcosa di diverso.

Questo modo di raccontare o di presentare un testo, intessendovi altrisignificati, va continuamente tenuto presente, per far sì che non si vengadistratti dal racconto popolare conservato all’inizio e alla fine comecornice. È, quindi, necessario puntare direttamente all’interno del libro,senza scordare la cornice, ma valorizzando in maniera particolare le altrepagine, che intercorrono da 3,1 fino a 42,6.

LA STRUTTURA DEL LIBRO

La prima parte, una sorta di primo atto, è il dialogo tra Giobbe e i suoiamici (capitoli 3–27). I tre amici sono teologi che cercano in tutti i modi dispiegare il dolore di Giobbe, comprimendone l’incandescenza all’internodi uno stampo freddo, di uno schema prefissato: sono i consolatori diprofessione, i cappellani di un Dio che alla fine risulta molto freddo edistante come i suoi ministri. L’impressione che questi capitoli lasciano èriassunta in un’ironica osservazione di Kierkegaard, il filosofoottocentesco danese che ha dedicato molte delle sue riflessioni al libro diGiobbe, in particolare nella sua opera La ripetizione (o Ripresa). Una sua

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battuta, famosa e sovente citata, osserva che Giobbe sopportò la perditadei figli e dei beni, la piaga maligna che gli rovinava la pelle quasiconsumandogli il corpo e perfino la moglie petulante, senza perdere mai lapazienza. Quando invece si presentarono i teologi per elargirgli le loroconsolazioni, allora si mise a inveire. Giobbe respinge come inaccettabileuna religione ridotta a spiegazione di seconda mano, usata semplicementecome narcotico spirituale. L’autore, si vedrà, con la sua opera intendecantare la grandezza della fede e non elaborare idee speculative e gratuite,in una sorta di gioco intellettuale.

Dopo il primo dialogo dei capitoli 3–27, c’è un intervallo, unintermezzo formato dal capitolo 28 a cui segue il dialogo con Dio, l’unicointerlocutore con il quale a Giobbe interessa discutere. Giobbe incominciaallora un lungo discorso (capitoli 29–31), che sarà però interrottodall’irruzione di Eliu (capitoli 32–37), un personaggio un po’ strano, forsefrutto di un’inserzione posteriore. Egli rinnova a più riprese la suaproposta teologica, magari un po’ più aggiornata rispetto a quella deglialtri tre amici, teorizzando che Dio non debba spiegare nulla alla suacreatura, insistendo sulla funzione pedagogico-catartica della sofferenza; ecerca di placare quest’uomo che a suo avviso, sfidando Dio, stabestemmiando. Ma esaurita questa fastidiosa intromissione, Giobbe èsorpreso che Dio abbia deciso non di fulminarlo per una presuntabestemmia, ma di rispondergli, con buona pace dei teologi. Dio ha decisodi dialogare con lui, anzi di interrogarlo e di indicargli, alla fine, il grandeapprodo della fede (capitoli 38–42).

IL DOLORE DI GIOBBE

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La ricerca ansiosa e tormentata del protagonista ha motivato i tantititoli anticonvenzionali che sono stati dati a commentari e a studi sul librodi Giobbe, titoli davvero significativi, perché ci mostrano un volto diGiobbe più vicino a come l’autore biblico ha voluto rappresentarlo. Adesempio, Roland de Pury ha scritto un commento su Giobbe intitolatoGiobbe, l’uomo in rivolta. L’americano Harold Louis Ginsberg e lospagnolo José María Cabodevilla hanno intitolato il loro libro nello stessomodo: Giobbe, l’impaziente. Ancora, un esegeta italiano, Antonio Bonora,ha intitolato la sua breve sintesi su Giobbe Il contestatore di Dio. Ilfrancese Jean Lévêque ha intitolato i due volumi del suo lungo studio suGiobbe Giobbe e il suo Dio, e un altro saggio, Giobbe o la speranzasradicata. L’accento cade sempre sulla speranza messa in crisi, sulcontestatore di Dio, sull’impaziente, sul sofferente che protesta.

È, dunque, necessario ribadire che, se il dolore è capitale nel libro diGiobbe, non è però il tema centrale. Il libro di Giobbe non vuole spiegareil dolore; sebbene in realtà Giobbe sia capace di superarlo, esso nondiviene la realtà del tutto ovvia e comprensibile come vorrebbero fosse gliamici di Giobbe. Ancora al termine del libro, il mistero del dolore rimaneintatto e indecifrabile; solo, è possibile viverlo in maniera diversa perl’intervento di una grazia, quella che Giobbe riceve da Dio.

Se non è il tema centrale, il dolore rimane tuttavia un datofondamentale dell’esperienza di Giobbe e va illustrato attraverso la letturadel testo. All’inizio del percorso, è possibile porre a mo’ di stemma, disigillo o di motto, le parole che Giobbe pronuncia in 19,10: «Demolitopezzo per pezzo, io sto ormai crollando, sradicato come un albero».Un’immagine edilizia e un’immagine vegetale sono unite per indicarequalcosa che è completamente devastato. Va tenuto presente che, nella

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visione dell’autore biblico, la sofferenza non è una realtà fine a se stessa; èuna strada che conduce a un altro piano e a un’altra prospettiva, a un altroorizzonte e a un altro approdo.

Occorre pertanto distinguere due momenti: il primo concernel’antropologia del soffrire. Il libro di Giobbe ci presenta innanzituttoun’analisi della sofferenza umana. Si condensa nelle sue pagine tutta lagamma oscura della sofferenza, lo spettro terribile dei colori checostituiscono il soffrire: spettro continuamente mutevole perché, se lagioia è per così dire uguale per tutti, il dolore ha un’identità specifica perciascuno. Ciascuno vive il dolore in un modo proprio, tant’è vero chenormalmente il dolore è raramente comunicato e anzi, più sovente, ètenuto dentro di sé: le persone si vergognano di piangere in pubblico. Setalvolta lo fanno, lo fanno in modo rituale o perché indotte da undeterminato contesto; ma abitualmente considerano il piantoun’esperienza umana e psicologica strettamente personale.

Il secondo momento riguarderà la teologia del soffrire. Giobbe mostracome la sofferenza abbia in sé anche una presenza di Dio, oscura e persinoterribile, ma anche significativa e persino epifanica.

LA «PIAGA MALIGNA»

Al primo livello, quello antropologico, il dolore è un’esperienzauniversale. In misure diverse, magari bevendo solo un sorso di questocalice avvelenato, tutti passano attraverso la sofferenza. Presentiamo dueesempi fondamentali, due modelli di dolore, che ovviamente noneliminano sfumature e iridescenze.

Innanzitutto, il dolore è la «piaga maligna», espressione che troviamo

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nel prologo del libro, perché Giobbe comincia a soffrire proprio per questavia. Indica tutta la sofferenza fisica, esteriore e materiale, fermo restandoche per Giobbe – come forse per ogni uomo – il baratro del dolore fisico,in tutta la sua drammaticità, ha sempre risonanze di tipo sociale, spirituale,interiore: non esiste mai una sofferenza puramente esteriore in quanto tale.

L’uomo vive la sofferenza integralmente, simbolicamente, cioè laelabora. Come sosteneva la scrittrice americana Susan Sontag, nel suolibro dal titolo emblematico: Malattia come metafora (1978), la malattia èsempre un simbolo, un segnale che l’uomo riceve e che lancia. Lei partivadall’esperienza personale di un cancro, malattia per sua natura davverosimbolica, al punto tale che non si osa neppure pronunciarne il nome,ricorrendo a perifrasi o a termini medici come «neoplasia». Ugualmente sipuò dire dell’AIDS: sono malattie-simbolo.

Anche Giobbe soffre di una di queste malattie-simbolo: dopo laperdita dei beni e dei figli, egli stesso è toccato personalmente. Il satana,che – come si è detto – è una sorta di pubblico ministero nel consigliodella corona di Dio, propone una radicale verifica della fedeltà di Giobbeattraverso la piaga che colpisce la pelle. «Colpire la pelle» non significasoltanto avere una patologia esterna, una specie di eczema o quant’altro.L’esame filologico del testo ci mostra che si cita un detto popolare: «Pelleper pelle» (2,4). Il satana svolge la funzione di colui che deve dimostrarel’autenticità della fede degli uomini, in questo caso di Giobbe; ma èconvinto che Giobbe non sia un credente autentico. Anzi, il satana èconvinto che «per salvarsi la vita l’uomo è pronto a mollare tutto» (2,4).La pelle è il simbolo della vita: anche noi diciamo «salvare la pelle».

Inoltre, l’infezione maligna si estende «dalla pianta dei piedi fino alcranio» (2,7) e Giobbe deve uscire dal villaggio e vivere in una zona di

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impurità. Deve stare sopra le immondizie, lasciate di solito ai margini delvillaggio. Questa piaga della pelle è, quindi, molto di più di un’affezionedermatologica. Il termine usato per «piaga maligna» si ritrova in Levitico13 e Deuteronomio 28, ove indica le malattie che, come la lebbra,comportavano l’allontanamento dalla comunità, in quanto considerateparticolarmente infettive. Inoltre secondo i passi del Levitico e delDeuteronomio, queste malattie costituiscono una condanna che punisce itrasgressori della Legge e dell’alleanza con Dio, provocandone lascomunica e l’allontanamento dalla vita sociale. Giobbe così non è piùsoltanto il malato infettivo: in se stesso diviene l’emblema di tutti gliemarginati rigettati dalla società.

Una tale sofferenza non è soltanto fisica, ma è carica di risonanzeulteriori e possiede già in sé una dimensione propriamente spirituale.Queste risonanze sono rimarcate soprattutto nella concezione comune agliamici che circondano Giobbe, la tipica concezione dei teologi dell’anticoIsraele: di quanti cioè verranno in apparenza a consolarlo, ma in realtà agiudicarlo. È la nota teoria della retribuzione, secondo la quale se unosoffre è perché ha peccato: delitto e castigo. Quindi, chiunque porti uncastigo, e di quel tipo, è segno che ha gravemente peccato.

Il primo degli amici che parla, Elifaz, dirà così in 15,20: «Per tutta lasua vita il malvagio è tormentato e anni limitati sono assegnatiall’oppressore». Detto in altri termini: «Non c’è ombra di dubbio: se haiuna vita breve o una vita tormentata, è perché sei un peccatore». Giobbe,dal momento che non si sente peccatore, vuole a tutti i costi scardinarequesta tesi e ne dimostra l’infondatezza. Infatti, basta osservare la storia:la stessa realtà insorge e conferma che tale dottrina non è veritiera, perchéci sono molti empi che prosperano e ci sono tanti giusti che sono umiliati.

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La tesi della retribuzione è una ricetta preconfezionata e non spiegaquell’«incandescenza» del dolore per la quale esso non può esserecompresso nello stampo freddo di una tesi o di una spiegazionesemplificatrice. Per gli amici di Giobbe, invece, la sofferenza non èsoltanto un caso clinico, è un caso morale, anche quando si trattasemplicemente di una questione fisica. Giobbe sente anche su di sé questopeso, questo rigetto.

Uno studioso americano, John L. McKenzie, ritiene che il ritratto diGiobbe sofferente sia stato tracciato intenzionalmente in modo tale daaddensare in esso tutta la tipologia del soffrire: Giobbe è il «prototipo delsofferente», rappresenta il colmo della disintegrazione fisica, è una vera epropria enciclopedia ambulante di tutte le malattie che la carne haereditato ma anche delle sofferenze interiori.

Il poema riflette un’analisi della sofferenza ricca, sterminata, il cherende impossibile riferire tutti i testi (cf. 7,5; 13,28; ecc.). La pelle diGiobbe si screpola e suppura, tempestata com’è di croste e di vermi. Lasua carne si sfalda come un legno tarlato, o come un vestito corroso dalletarme. Le piaghe si moltiplicano, il respiro viene meno, la bocca è amaracome fosse ingozzata di fiele. Gli occhi si appannano, le membra sidebilitano, diventando esili come ombra. Le ossa si incollano alla pelle ealla poca carne, la vita è stretta quasi tra i denti, immagine intensa, questadel prendere la vita quasi per i denti, trattenuta ormai soltanto attraversoun filo. Giobbe sente avanzare lentamente la cancrena (vista comel’avanguardia della morte), mentre la febbre (più volte rappresentata) stabruciando tutto il suo organismo. Nausea e vomito accompagnano un’altracondizione generata dalla debolezza, ossia l’incubo continuo che creaeccitazione, confusione mentale. Giobbe vede la notte con terrore, com’è

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abituale per un malato, che appena si corica desidera già che sia mattinaperché pesa quel lungo pellegrinaggio solitario nella tenebra. «La notte ètroppo lunga e ci si rigira agitati fino all’alba» (7,4): un unico versorappresenta tutto il dramma, non solo fisico, ma anche interiore,psicologico.

Nelle notti in cui si sentono le fitte nelle ossa, le piaghe che siallargano e le viscere che ribollono (cf. le descrizioni di notti terribili: 7,3-4; 30,17; ecc.), affiora allora una domanda (cf. l’intero capitolo 10):perché Dio, che ha intessuto con tanta finezza e premura il corpodell’uomo, nel grembo della madre – anche il Salmo 139 descrivel’embrione come un ricamo di Dio –, vuole accanirsi contro di lui con lamalattia e la sofferenza, demolendolo in una maniera così aspra, cosìviolenta? Con accenti che evocano Gen 2,7 (il famoso passo in cui ilCreatore, come un vasaio, plasma il suo manufatto dalla creta), Giobbegrida a Dio: «Sono state le tue mani a plasmarmi e a modellarmi in tutto ilmio profilo. Vorresti ora annientarmi? Ricordati: come argilla mi haiimpastato ed è alla polvere che mi vuoi riportare? […] Non sei stato tu arivestirmi di pelle e di carne, a intessermi di ossa e di tendini?» (10,8-11).Ecco la contraddizione: se Dio ci ha fatti come creature viventi, perchéfossimo nel mondo con il nostro corpo, perché poi si accanisce a umiliarele sue creature attraverso la malattia?

La sofferenza fisica è sentita come una sorta di primo gironeinfernale; il malato, nell’eccesso insopportabile del dolore, vede la mortecome l’unico scampo possibile, l’estuario paradossale che il Dio creatoredella vita gli presenta continuamente davanti agli occhi, anzi verso il qualelo spinge con forza. E in un crescendo senza respiro, il grido di Giobbearriva fino al desiderio del suicidio. Il desiderio del suicidio non è molto

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comprensibile nel mondo orientale, sebbene anche nella Bibbia vi sianodiverse rappresentazioni di queste fini, talvolta viste come eroiche.Maggiormente presente, invece, è il sogno di non essere mai esistito, ildesiderio del nulla, simbolo della disperazione: la non esistenza può esseredavvero la realtà più desiderabile quando si è nella sofferenza macerante.

Il desiderio della morte diventa l’unica attesa, come nell’urlo con cuiGiobbe comincia la sua protesta (c. 3). Il poeta autore del libro di Giobbeprende spunto da una delle più sconcertanti confessioni del profetaGeremia (20,7ss), in cui il profeta maledice il giorno della sua nascita, ilgrembo fecondo di sua madre e il giorno in cui annunciarono a suo padreche gli era nato un maschio. Quel giorno – dice Geremia – dovrebbeessere considerato come il giorno della distruzione di Gerusalemme, ilgiorno di uno sfascio completo. Le parole di Giobbe si fanno anche piùroventi, fino a sostenere che è meglio morire impiccato, piuttosto chevivere in uno scheletro martoriato.

E l’acme è raggiunto in una supplica, per molti versi blasfema,indirizzata alla morte. Ora, nella Bibbia e soprattutto nell’AnticoTestamento, la morte è l’anti-Dio per eccellenza: Giobbe quindi invoca lanegazione di Dio, e la sua preghiera suona come un rigetto di Dio: «Alsepolcro io grido: “Padre mio sei tu”. Ai vermi: “Mia madre e mie sorellevoi siete”» (17,14).

L’espressione è di una forza dissacrante straordinaria, anche inconsiderazione del genere particolare di questa invocazione. La formula dibase dell’invocazione è antichissima, ed è presente anche in altre partidella Bibbia. Questa formula è giunta a noi anche nella forma solennedelle preghiere regali mesopotamiche. Alla fine dell’Ottocento, è statoscoperto in Mesopotamia un cilindro di basalto interamente iscritto, il

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«cilindro di Gudea». Gudea era il re di Lagash, una città mesopotamica, efu re dal 2150 al 2130 circa a.C., quindi più di 4000 anni fa. Costuiinvocava così la sua divinità: «Io non ho più madre, tu mi sei madre. Ionon ho più padre, tu mi sei padre». Questa preghiera la ritroviamo anchenel Salterio: «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma ilSignore mi ha raccolto» (Sal 27,10). Ora, una preghiera indirizzata a Dio,concepito come madre e padre, viene trasformata, deviata e quasidegenerata da Giobbe, diventando un’invocazione rivolta alla morte e alsepolcro, persino ai vermi: «Voi siete l’unica mia speranza». Con questafrase, Giobbe si augura ormai di avere comunione non più con Dio, macon la morte e con i vermi.

Ciononostante, quella di Giobbe è una vera confessione: nuda,tragica, senza remore, che rimane nell’interno della parola ispirata. Lutero,commentando Giobbe, diceva che Dio gradisce molto di più la bestemmiadell’uomo disperato – che egli sa capire – che non le lodi compassate delborghese benpensante, la domenica mattina durante il culto. Questapreghiera intessuta di bestemmia – e lo sarà poi in maniera ancor piùterribile – è sempre in ultima analisi una ricerca di Dio, al di là di comenoi possiamo giudicarla dall’esterno. Tutto il libro di Giobbe è questaricerca di Dio attraverso la galleria oscura della sofferenza.

Da questi pochi elementi è già chiaro che l’autore ha voluto delinearel’intero e progressivo disfacimento dell’organismo e l’approdo finale dellamorte come una realtà così amara da rappresentare la sofferenza comeun’autentica manifestazione del male di vivere.

SENZA UN FILO DI SPERANZA

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Il secondo elemento dell’antropologia della sofferenza si puòriassumere con l’espressione: «senza più un filo di speranza». Essa ricorrein un versetto (7,6), che di solito viene indicato come prova della difficoltàdi tradurre il libro di Giobbe. La difficoltà è legata al vocabolo ebraicotiqwâ: esso ricopre probabilmente due parole analoghe, segnate dallostesso suono, ma che hanno due significati diversi. Giobbe le usaentrambe contemporaneamente, creando una difficoltà al traduttore, che ècostretto o a utilizzare due parole oppure a saltare uno dei due significati.In ebraico tiqwâ significa «speranza» e al tempo stesso «filo».

Nella sua confessione sull’infelicità della propria esistenza, Giobbedice: «I miei giorni svaporano, veloci come una spola. Svaniscono senzapiù tiqwâ». Che cosa vorrà dire Giobbe? «Svaniscono senza piùsperanza»? È sicuramente corretto, però prima ha parlato della spola; sipotrebbe dire che «svaniscono senza più filo», non hanno più filo. Peringlobare i due significati, si dovrebbe quindi tradurre così: «I miei giornisvaporano, veloci come una spola. Svaniscono senza più un filo disperanza», usando una locuzione anche a noi comune. Con questadichiarazione Giobbe mostra che la sua vita, da un lato, si sta ormailentamente cancellando, e al tempo stesso fa balenare in manieraabbastanza nitida l’esperienza del male di vivere, la mancanza di speranza.

A volte le traduzioni non tengono conto di questa duplicità disignificato; traducono di per sé correttamente, ma non aiutano lacomprensione. Il fenomeno del duplice significato è frequente nel libro diGiobbe. In 7,6 possono bastare due parole, ma altre volte ciò non accade;l’originale è talvolta infinitamente ricco di allusioni che non possonoessere rese da alcuna traduzione. L’autore usa da vero genio questa linguapovera che è l’ebraico e sa tenderla verso significati ulteriori. Tra

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parentesi – sempre in 7,6 – costruisce anche un gioco di parole tra i verbiutilizzati, in ebraico qallû e yiklû. Tale assonanza si può cercare direnderla in italiano con due vocaboli simili: «svaporano», «svaniscono».Si ricorre a suoni simili per ribadire la realtà del dissolvimento.

Questa coscienza del dolore, di un dolore che non si placa e non siestingue perché è interiore, presenta anche in questo caso moltesfaccettature. Parte dall’esterno, però poi pulsa nell’interno del cuore. Èuna sorta di nudità esistenziale, la spoliazione profonda dell’essere.All’inizio delle sue sventure, Giobbe diceva: «Nudo io sono uscito dalgrembo di mia madre, nudo tornerò nella tomba» (cf. 1,21). In altriversetti, Giobbe parla anche della nausea della vita, della ripugnanza alsolo sentire la parola vita, dell’impotenza di continuare a vivere, dellacertezza di non assaporare più la felicità, della sazietà e ubriacatura damiseria, del cuore amareggiato… Sono tutte sensazioni esistenziali chenon sono passibili di una misura quantitativa, di una mera verificafisiologica.

Questa analisi poetica del male di vivere conosce molte paginealtissime, sulle quali ci si deve soffermare. Giobbe sente fortissimamentela radicale fragilità della vita e dell’esistere: «Noi siamo affidati a unnumero limitato d’anni e siamo avviati a una strada senza ritorno» (16,22),il nostro è uno svanire goccia a goccia. Su questa fragilità c’è sempre iltimbro dell’infelicità: «Se si potesse pesare la mia angoscia, se sipotessero ammassare su una bilancia le mie disgrazie, sarebberocertamente più pesanti della sabbia dei mari» (6,2-3).

Giobbe ricorre anche a immagini di estrema durezza, prese dalla rudedisciplina del servizio militare, dalla privazione di libertà dello schiavo,dalla corvée del lavoratore a cottimo, costretto a faticare durante la

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giornata sotto il sole implacabile. Esse diventano emblemi di un’esistenzatorturata interiormente. «L’uomo vive sulla terra sottoposto a un serviziopesante; i suoi giorni si snodano come quelli di un cottimista. Come loschiavo anela all’ombra, come il cottimista aspira al suo salario, così miaeredità sono mesi vuoti, notti di dolore mi sono state assegnate» (7,1-3).La sofferenza comporta una sorta di costrizione continua, come per ilsoldato o lo schiavo obbligato al lavoro, che sogna il momento di quieteche non arriva mai.

Nei suoi interventi, Giobbe ricorre sovente a immagini straordinarie,di una bellezza insuperabile, con effetti di grande intensità: i vegetali sonopiù fortunati degli uomini, perché tagliati non cessano di gettare germoglie possono ancora diventare alberi nuovi, ricominciando quasi una speciedi fresca giovinezza; ma l’uomo, quando spira, giace abbattuto persempre… La speranza scende con lui nella tomba, nello še’ôl; è quasi unmanto che porta con sé, negli inferi, sprofondando per sempre nellapolvere (cf. 14,7-12; 17,15-16).

Lo stesso vale per i discorsi pronunciati dagli amici. Nel capitolo 8,Bildad rappresenta la fragilità della vita dell’uomo, facendo risaltare ilsenso della fine attraverso immagini per molti versi folgoranti. Dalla suaposizione «dogmatica» di sicurezza, dice che la sofferenza tocca solo iperversi, che sono giudicati e condannati da Dio. Il giusto al contrario nonpatisce alcuna maledizione, non è come la ragnatela che si squarciaquando cade su di essa una goccia di rugiada, né come la barca di papiroche può ben presto essere portata via, e non è neppure come un rampicanteche è stato strappato dal suo posto e piantato da un’altra parte e si secca.Se sarai giusto questo non ti capiterà (cf. 8,13-20). Giobbe, invece, èfermamente convinto che questo è il destino comune di tutti e non soltanto

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dell’empio (cf. 9,22-26).Un altro aspetto, ripetutamente sottolineato, della sofferenza

psicologica e interiore è la solitudine, che appartiene soprattutto – sebbenenon esclusivamente – all’esperienza del malato. Nelle prime battute dellibro Giobbe è abbandonato dalla moglie, con un distacco totale anche sulpiano della fede. La moglie gli dice: «Benedici Dio e muori» (2,9); inrealtà – come si è già avuto occasione di spiegare –, dato che non si puòmai coniugare un verbo negativo con il nome di Dio, la vera traduzione è:«Maledici Dio e crepa». In altri termini, la donna ha capito che nonbisogna più credere in un Dio del genere. Giobbe protesta e quasibestemmia, ma continua a credere in Dio e ad attendere che egli sipresenti. La donna invece l’ha ormai rimosso; di fronte al problema delmale ella ha concluso: «Maledici Dio e non pensarci più. Ormai sei undisgraziato: vattene!».

L’isolamento sociale è rappresentato da subito dal cumulo diimmondizie su cui Giobbe siede, segno dell’ostracismo dalla vita delvillaggio e dalla società, di un’emarginazione sempre più aggressiva, che– a dire di Giobbe – lo rende come «la favola del popolo, colui al quale sisputa in faccia» (17,6).

Ma sono gli altri protagonisti del libro, gli amici di Giobbe, a renderepiù amara la solitudine. Chi è stato malato sa che certe visite sono più dipeso che non una vera e propria consolazione. Piuttosto che quellapresenza, meglio l’assenza. Tali visite costituiscono un martirio sia per ilvisitatore (che viene per dovere e non vede l’ora di potersene andare) siaper il malato (che capisce che il visitatore adempie un dovere di parentelao di vaga amicizia). Questi amici sono i freddi testimoni della tragedia diGiobbe. Passano dalla consolazione iniziale all’indifferenza e persino a

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una sottile tortura psicologica; vestono i panni del medico spirituale,sempre capaci di insegnare come si deve soffrire per potere alla fine averedei meriti, ma non condividono il dolore, rimanendone all’esterno. EGiobbe li definisce «medici da strapazzo» (13,4).

Il ruolo ambiguo degli amici ricorre anche in un altro passo davveroincantevole (6,15-21). Essi sono come quei torrenti che a primaverascorrono vorticosi per le acque del disgelo, ma con il caldo dell’estate siriducono a essere soltanto dei canali esili e poi secchi, colmi solo di pietrearide. Le carovane sanno che in quel punto c’è un torrente e deviano dallapista: hanno sete e immaginano di trovare l’acqua. Fanno ciò che neldeserto non si deve mai fare, lasciare la pista sicura. Cercano l’uadi cheessi ricordavano d’inverno ricco d’acqua e, trovatolo, lo scopronocompletamente secco. Intanto, però, hanno smarrito la pista e sono votatea girare disperse senza scampo nel deserto e a morire. Giobbe dice agliamici: «Voi siete così: in apparenza ricchi d’acqua per dissetarmi, in realtàsiete aridi e, anzi, sorgenti di morte».

Un altro passo di grande forza si trova nel capitolo 19, un passocapace di rappresentare l’isolamento, la solitudine e soprattutto la rotturache avviene nel dolore e nella sofferenza anche con le persone più care.Esistono persone veramente eroiche, capaci di vivere anni accanto aipropri cari, ridotti a un grumo di carne terribilmente malata, e di stare loroaccanto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, sempre con amore. Allo stessomodo, succede – e questo è umano, non si può condannarlo – che alcuni,non potendone più, a un certo punto rigettino la presenza di un doloretroppo pesante. Giobbe ricorre a un’immagine forte, molto barocca, peraccusare la moglie che non lo sopporta più: «I miei conoscenti mi si sonofatti estranei, sono scomparsi i vicini, i familiari mi ignorano. Come un

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forestiero mi trattano ospiti e serve, ai loro occhi sono un intruso. Chiamoil mio schiavo: neppure mi risponde. Devo implorarlo con la mia voce. Amia moglie ripugna il mio alito, faccio schifo ai figli del mio ventre.Anche i monelli mi disprezzano e mi colmano d’insulti» (19,14-19). È danotare l’allusione al bacio: la consuetudine di vita fa accogliere nonsoltanto i profumi, ma anche gli odori dell’altra persona, della sua pelle,del suo alito. Alla moglie di Giobbe ora ripugna l’alito del marito eGiobbe prova in pienezza la solitudine, questa grande malattia interiore.

IL GRANDE AVVERSARIO

A questo punto potremmo anticipare – dopo la fisiologia e lapsicologia della sofferenza – alcuni cenni alla teologia del soffrire, ungrande capitolo che sarà sviluppato trattando il tema della fede di Giobbe.

Nel dolore, non c’è soltanto sofferenza fisica o interiore: solitudine,male di vivere, un’esistenza ormai ridotta a veleno da ingurgitare. Ildolore contiene anche un’altra esperienza: quanti provano sofferenzegravissime, soprattutto se credenti, avvertono spesso il silenzio di Dio. Inon credenti in quel momento tentano di aggrapparsi a qualcosa ditrascendente e hanno la conferma che esso non esiste. Soprattutto in quelmomento sentono che Dio non esiste, quando sarebbero magari pronti ascommettere qualcosa, in una visione di fede anche profondamenteimperfetta. È un punto importante: anche Giobbe dovrà convertirsi,essendo anch’egli convinto che Dio, se è giusto, non può non intervenire.

Il silenzio di Dio non è colto semplicemente nell’assenza, masoprattutto nella sua dimensione oscura, ostile. Ed è uno dei temi piùsconvolgenti del libro di Giobbe, che sempre più appare ai lettori attenti

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sia come una sfida lanciata all’uomo da parte di Dio, che sembra provarloquasi senza criterio, sia come una sfida che il sofferente Giobbe rilancia aDio con inaudita veemenza. Una tale lotta e una tale notte richiamano davicino la lotta di Giacobbe al fiume Iabbok (Gen 32). Si tratta del temafondamentale del libro: anche il tema della sofferenza, capitale ma noncentrale, a questo punto cede il passo.

Questo incontro con Dio sconcerta: quando si accanisce sull’uomofacendolo soffrire, gli appare come un imperatore impassibile, prontopersino a schiacciarlo; la reazione dell’uomo, allora, raggiunge unaviolenza impensabile. Questa esasperazione si riflette, nella terza parte deldialogo di Giobbe con gli amici, nelle numerose difficoltà testuali.L’alternanza del dialogo è interrotta, perché probabilmente Giobbe urlavae usava delle espressioni talmente forti e blasfeme che sono statecancellate. Ma quelle che sono rimaste sono già impressionanti. Dio, ilcarceriere dell’uomo, il grande Avversario, è il boia che con la forza dellasua mano stritola la sua creatura e, dall’alto della sua superiorità, laterrorizza. Egli è l’arciere che trafigge le carni dell’uomo con frecceavvelenate. Infatti, Dio – dice Giobbe – ha al suo servizio una torma diarcieri che, come quelli delle scene scolpite sulle mura del palazzo reale diPersepoli, posti a guardia dello spazio sacro contro i grandi spiriti maligni,si lanciano in una crudele battuta di caccia contro chi soffre e si divertonoa trafiggerlo.

Lo sfogo più impressionante di Giobbe dà vita a una pagina davverosanguinaria, terribile nel suo dettato, che cercheremo di rendere in unaversione più trasparente possibile. «La sua banda mi sta addosso e mi haincatenato… La sua rabbia mi perseguita per dilaniarmi; contro di medigrigna i denti, contro di me il mio nemico affila gli occhi… Ero sereno e

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lui mi ha stritolato, mi ha afferrato per la nuca e mi ha sfondato il cranio,ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri prendono la mira su di me;senza pietà mi trafigge i reni, versando per terra il mio fiele, apre su di mebreccia su breccia, infierisce su di me come un generale trionfatore» (Gb16,7-14).

Ma, mentre gli amici di Giobbe – attraverso la loro vita tranquilla,quieta, compassata, perfino moralmente corretta, fatta di preghiere e dibuone opere – non incontrano il vero volto di Dio, per Giobbe da questoabisso tenebroso sboccerà invece una luce straordinaria.

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3. Storia di un credente

A questo punto la riflessione che proponiamo è in profonda continuitàcon quella della lettura biblica precedente («Storia di un sofferente»), masi apre al tema centrale del libro biblico. Lungo questo percorso, si passacontinuamente da un versante della ricerca di Giobbe all’altro: non c’è unsolo momento in cui Giobbe sia soltanto sofferente o un momento in cuisia soltanto credente. Sempre inseguendo il testo attraverso una serie dicitazioni, si può ricostruire un tessuto, una trama di parole delprotagonista, per far balenare in maniera più netta, all’interno del grandedolore che lo attanaglia, la sua dimensione di credente. Questa fede è peròlacerata e tormentata, in cammino fino al suo approdo al termine del libro.

«LASCIAMI INGHIOTTIRE LA SALIVA»

La partenza è iscritta nella pagina, particolarmente violenta eveemente, in cui Giobbe si rivolgeva a Dio come a una tigre a caccia dipreda (immagine che ricorre effettivamente in 10,16). Egli non solopatisce la separazione da questo Dio, ma avverte qualcosanell’atteggiamento di Dio nei propri confronti che assimila addirittura

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all’odio. Giobbe si esprime proprio in questi termini, inutile negarlo. «Eglimoltiplica le mie piaghe senza ragione – dirà in 9,17 – demolisce la miasperanza; è sempre pronto a imprigionarmi in una rete malefica». A questoDio il credente quale domanda può rivolgere? Quale preghiera puòelevare? Giobbe gli rivolge affettivamente due domande, rilevanti ancheper rintracciare il senso generale del libro.

La prima domanda è paradossale, antitetica all’invocazione che ilsalmista abitualmente rivolge a Dio, chiedendo di non essere abbandonato,e che il volto del Signore non si volga lontano da lui (cf. Sal 13, adesempio). Giobbe implora esattamente il contrario. Egli invoca Dio perchési allontani e lo lasci in pace, concedendogli una tregua. Questo «attimo direspiro» è espresso in ebraico da una formula presente anche nell’arabomoderno, che suona letteralmente: «Lasciami inghiottire la saliva»:«Lasciami, i miei giorni sono un soffio: quando la finirai di spiarmi e milascerai inghiottire la saliva e mi lascerai un attimo di pace, di tregua?»(cf. 7,16-19). Questa preghiera mostra che tra il sofferente e Dio sistabilisce un vero e proprio territorio gelido, una distanza. Giobbe teme losguardo ispettivo e implacabile di Dio, fonte soltanto – lo si dice più diuna volta – di terrore e di disgrazie.

L’unico parallelo di questa preghiera è da cercare nel Salmo 39,14che è ugualmente eccezionale e si sposa idealmente con la preghiera diGiobbe. Il salmista supplica Dio di distogliere lo sguardo, di lasciarlo inpace un momento, «perché respiri (inghiottisca la saliva), prima che se nevada e più non sia». È una preghiera nuda, minima, che rappresentaparadossalmente l’antitesi della preghiera, perché lo scopo principale dellapreghiera è quello di stabilire un ponte di comunicazione con la divinità.

Giobbe dà forma alla preghiera del disperato che chiede a Dio

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semplicemente di allontanarsi perché la sua presenza non è sorgente disalvezza né radice di speranza, ma è solo principio di desolazione, unavera e propria persecuzione. A un certo momento, con un’immaginetipicamente orientale, egli accenna a un Dio così insistente nella suaispezione da raccogliere nel suo sacchetto tutti i peccati degli uomini, perconservarli sempre e poterli così giudicare (14,16-17). L’immagineproviene dal mondo dei pastori nomadi, che usavano tenere in una borsadi cuoio o in un contenitore di ceramica delle pietruzze bianche o nere checomputavano il numero delle pecore di loro proprietà e quelle di proprietàdel padrone per cui lavoravano: i due colori segnavano questa differenza.Il sistema, usato lungamente anche in Africa, nell’antico Dahomey(l’attuale Benin), per i censimenti, viene ora applicato da Giobbe a un Dioche vede sempre pronto a registrare il male commesso dagli uomini e nona mostrare un volto paterno. In sintesi, la preghiera di Giobbe è abbastanzasconvolgente e quasi blasfema: implora l’assenza di Dio, sogna e auspicache Dio scompaia dall’orizzonte, perché tutte le volte che si è presentatoha soltanto creato terrore.

FARE CAUSA A DIO

La seconda domanda è ancora più rilevante dal punto di vistateologico ed evidenzia il carattere paradossale della situazione di Giobbe,che non può avere risposta in alcun modo. Da un lato, si invoca Dioperché se ne stia lontano e, dall’altro, si invita Dio a comparire, pur nellaconvinzione che, anche qualora risponda, ciò non costituirebbe unvantaggio. Nella sua sofferenza, Giobbe chiede ripetutamente un processogiusto in cui possa elencare le proprie ragioni, protestando contro Dio e

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magari incriminandolo. È una posizione arditissima, soprattutto all’internodelle concezioni religiose del tempo, iniziatrice di una corrente che,attraverso il tardo giudaismo, giunge fino al pensiero ebraico dei nostrigiorni. È famosa la storia di quell’ebreo, Rachover, così colpito e umiliatoda presentarsi al giudice della propria città. Alla richiesta del giudice: «Perche cosa sei venuto?», risponde: «Sono venuto per incriminare uno». «Chiè questa persona?», chiede il giudice. «Dammi le sue generalità». ERachover ribatte: «Beh, le generalità sono semplici: si chiama Elohim,Dio. Io voglio far causa a Dio».

Anche Giobbe ricorre al linguaggio giuridico. Tuttavia, scoprel’impossibilità di poter avere una contestazione aperta con Dio. Percelebrare un processo in cui l’imputato sia Dio, occorre trovare quello cheGiobbe chiama con un termine tradotto spesso – ma in modo non del tuttocorretto – con «mediatore». Il mediatore in questione è un mediatoregiuridico, un’istanza superiore, un vero e proprio giudice ultimo, di unacassazione suprema. Questo arbitro neutrale e superiore a tutti, per poteressere tale, per giudicare un Dio che nega i diritti, dev’essergli superiore operlomeno pari; il giudice, infatti, di sua natura, perché le sue sentenzeabbiano valore, deve avere autorità su coloro che vengono giudicati. Ora,nessuno è superiore a Dio.

È questo il paradosso in cui si trova impigliato Giobbe, l’impassenella quale è necessariamente bloccato. Come può convocare Dio davantia un giusto processo quando, non essendoci altro mediatore, Dio daimputato necessariamente diventa anche il giudice? In questo contenzioso,il testimone, il difensore, il giudice, il mediatore o l’arbitro per poteressere tali devono assicurare una correttezza giuridica. E come può esserciuna tutela per la parte lesa se l’imputato è al tempo stesso il giudice? La

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ricerca del mediatore apre qui una pista che, procedendo oltre il libro diGiobbe, conduce a comprendere la funzione di Cristo mediatore secondola teologia neotestamentaria: Cristo, uomo e Dio, è contemporaneamentedalla parte dell’uomo e dalla parte di Dio e, come tale, è in grado dirispondere alla domanda impossibile che Giobbe continua a levare alcielo.

Questa domanda, ripetutamente rilanciata da Giobbe, sembraritornare a lui non esaudita, come anche la sua preghiera, indirizzata versoun cielo muto. Giobbe paradossalmente spera che il cielo sia muto perché,con l’esperienza finora vissuta, se da esso la divinità rispondesse, sarebbesoltanto a sua punizione e suo tormento. Eppure, dopo aver chiesto senzasperanza un intervento giudiziario in cui Dio almeno si giustifichi, Giobbesi mette idealmente lo stesso in cammino attendendo quell’estremo attogiuridico. È un punto molto delicato del libro, al capitolo 31.

IL GIURAMENTO DI INNOCENZA

Giobbe nei capitoli 29–31 fa un lunghissimo discorso, che sicompone in una sorta di trittico. Nel capitolo 29 guarda al suo passato connostalgia e dice: «Perché allora io ero così felice e avevo sopra di me laluce di un Dio amoroso?». Poi guarda il suo presente e si vede umiliato edevastato, sotto un cielo dal quale si affaccia un Dio che è furore e terroresoltanto. Come terzo momento, allora, Giobbe gioca la carta del«giuramento di innocenza». Si tratta di un istituto giuridico previsto dallalegislazione biblica, quando si verificavano delitti per i quali laresponsabilità dell’indiziato non poteva essere dimostrata con prove tali daconsentire l’emissione di una sentenza.

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Chi era accusato di un delitto in via solo indiziaria – e ingiustamente,a suo dire –, poteva ricorrere a quest’ultimo espediente: giuravapubblicamente la propria innocenza, chiamando in causa Dio stesso easserendo che Dio era l’unico in quel momento capace di manifestare lasua innocenza. Se avesse detto il falso, Dio avrebbe dovuto annientarlo.Un tale costume negli ordinamenti giuridici moderni non avrebbe alcunvalore. La cultura occidentale ha perso il senso della forza che possiedeuna parola pronunciata o ancor più un giuramento. Per il mondo orientaleantico, invece, la parola, soprattutto se pronunciata in ambito sacrale, eraconsiderata efficace; chi avesse proferito un tale giuramento si sarebbeassunto un’enorme responsabilità.

Giobbe imbocca questa strada; si presenta con tutta la solennità di chiritiene di avere dalla sua la forza del diritto e della giustizia, ritenendo didire la verità, e grida: «Datemi qualcuno che mi ascolti. Ecco qui la miafirma, l’Onnipotente mi risponda, il mio rivale scriva il suo documento. Iogli renderei conto di tutti i miei passi e come un principe mi presenterei alui» (31,35-37). Giobbe, con tutta la dignità dell’uomo consapevole diessere innocente, sfida Dio; si presenta davanti a lui carico del propriogiuramento di innocenza, che in realtà costituisce una sentenza a luifavorevole. Si presenta a Dio senza piagnucolare e senza timori; non tentadi circuirlo, come si cerca di fare con chi è pur sempre il più forte (oaddirittura l’Onnipotente), e al tempo stesso lo definisce il suo «rivale». Edi fronte a un simile rivale Giobbe è capace di presentarsi come un«principe», a viso aperto e in piedi.

Lo scandaloso ardimento di Giobbe, espresso dall’apparentementeblasfemo giuramento di innocenza che accusa Dio di essere colpevole diviolenza nei confronti di un innocente, è forse il motivo dell’interruzione

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che il dramma patisce a questo punto, come se dalla platea uno spettatoredisgustato si alzasse, irrompendo sul palcoscenico per esprimere il propriodissenso. I discorsi di Eliu, il quarto amico, si inseriscono inattesi neldialogo giudiziario tra Dio e Giobbe; senza dare a Dio il tempo dirispondere, Eliu ne prende le difese.

La tensione che innerva il dramma giunge così al punto di rottura. Daun lato, Giobbe, il credente, non può prescindere da Dio: «Quand’ancheegli mi uccidesse io continuerò a credere in lui»; quand’anche egli siarivale, io da lui non posso prescindere e mi presento a lui con il coraggiodel credente, con il coraggio anche dell’innocente (cf. 13,15). D’altro lato,gli amici che gli sono attorno, Elifaz, Bildad, Zofar, compreso il quarto,Eliu, che ha tentato di placare lo sdegno furibondo del bestemmiatoreGiobbe, si aspettano che Dio irrompa davvero, in una teofania a caratteregiudiziale, per annientare con folgori e tuoni chi ha osato contestare lagiustizia di Dio, criticare il Creatore, denunciare Dio in un processo.

L’originalità decisiva del libro di Giobbe riposa tutta nell’estremacelebrazione di una fede che non deve temere la lotta, nemmeno quellacon Dio. Riaffiora alla mente il misterioso episodio – veicolato dallatradizione come la «lotta con l’angelo» – narrato nella Genesi (capitolo32) e da noi già evocato, quando Giacobbe combatté di notte lungo le rivespumeggianti del fiume Iabbok contro un essere misterioso, segno di Diostesso. Il momento della lotta del credente con Dio è anche quellodell’incontro tra i due: si tratta di un incontro-scontro. Nel caso di Giobbe,contro ogni aspettativa, Dio accetterà di deporre davanti al sofferente. Maquesto intervento divino sarà esaminato in seguito.

LO SCANDALO DEL MALE

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Ora, di fronte a Giobbe credente e sofferente, affrontiamo unadomanda di importanza capitale: qual è il senso ultimo della ricerca diGiobbe, condotta nella galleria oscura del dolore fisico e interiore e dellacontesa aspra con Dio? Giobbe vive la sua sofferenza straziante e la suasolitudine esistenziale come una continua domanda su Dio, ossia comeuna domanda di fede. Il libro di Giobbe, perciò, non elabora un’etica deldolore in quanto tale, una riflessione morale sul soffrire e sul perché delsoffrire – come secoli di tradizione ci hanno abituato a ritenere e a dire –,ma è un testo teologico che intende parlare del vero volto di Dio, contro ifantasmi della teologia tradizionale, la quale è convinta di trovare nellateoria della retribuzione una spiegazione della sofferenza che salvi Diodallo scandalo del male.

La questione del rapporto tra la sofferenza umana e l’agire di Dio èantica come l’umanità. Il tema – che nei secoli ha prodotto analisi,riflessioni e testimonianze innumerevoli e differenti – esigerebbe unatrattazione a se stante. Le testimonianze raccolte lungo la storia all’internodelle diverse culture mostrano che di fronte al dolore le persone non siaccontentano di una semplice spiegazione morale e neppure di unaspiegazione teologica classica, di tipo solamente razionale. Tutte legiustificazioni – consolazioni, definizioni, ideologie o ricette che siano –risultano sempre inadeguate e finiscono per scoppiare tra le mani.

Una carrellata rappresentativa, dalla più remota storia dell’umanità,può iniziare con l’antico Egitto, che fin dai primordi si presenta alla ribaltadella cultura umana con le sue altissime testimonianze, tramandate neipapiri. Citato sovente quando si parla di Giobbe, il Papiro 3024 (dettoanche Papiro di Berlino, del 2200 a.C.) contiene un testo intitolatosignificativamente dagli studiosi Dialogo di un suicida con la sua anima.

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È la storia di un uomo disperato la cui ricerca di senso non trova rispostané nella consolazione umana o morale, né nell’elaborazione teologica. Glistudiosi sostengono che per gli antichi egizi con la morte si entrava incomunione con la divinità, prescindendo dal giudizio morale sul suicidio,e quindi al protagonista del Dialogo rimarrebbe una radice di speranza;tuttavia, nel testo non è mai esplicitata. Il papiro semplicemente siconclude con la celebrazione della morte vista come la liberazione per unprigioniero, la guarigione per un malato, il profumo della mirra, unabrezza dolce della sera stando sotto una vela lungo il Nilo, il fior di lotoche sboccia: immagini di bellezza che evocano però la realtà più terribile,la cancellazione dell’esistenza.

La seconda testimonianza che scegliamo deriva dal mondo greco e ciè consegnata da un solo verso di un grande tragico greco, Eschilo. Alverso 635 della sua tragedia I persiani, un personaggio grida: «Io lancio inalto le mie sofferenze infinite, dal profondo dell’ombra, chi miascolterà?». Questa domanda non ha risposta: Dio tace; in altri termini:Dio è assente. Si noti, tuttavia, che l’interrogazione non si pone su unpiano razionale o teologico, nel senso abituale del termine. Si tratta di unadomanda religiosa: lanciata verso Dio, la domanda interpella Diodirettamente ma l’esito è il silenzio e, quindi, l’assenza di senso deldolore.

Restando nell’antica Grecia, incontriamo Epicuro. È un filosofomolto più geniale di quanto comunemente si creda, spesso frainteso esvalutato a motivo della non corretta volgarizzazione di alcune sue tesi, inrealtà piuttosto complesse. Epicuro, in un frammento conservato dalloscrittore cristiano Lattanzio (240 ca.-320 ca.), formula in maniera«razionale» la difficoltà nella quale si trovano tutti coloro che, per

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spiegare il mistero del male, propongono una «teodicea», cercando – comedice il termine greco – di «giustificare Dio». Sono poche battute,strettamente consequenziali, che alla fine lasciano disarmati. Con la solaragione non si raggiunge una risposta su questo tema che coinvolge Dio.Ecco il ragionamento di Epicuro: «Se Dio vuol togliere il male e non può,è allora impotente e quindi non è il vero Dio. Se può e non vuole, allora èa noi ostile. Se vuole e può, come dovrebbe essere proprio di un Dio,perché allora esiste il male e non viene eliminato da lui?». Pare nonesistere scappatoia da queste tre possibilità. È possibile concludere che,quando si ammettono l’esistenza e l’attività di Dio nella natura e nellastoria, egli sia da ritenere ostile e nemico degli uomini se si apre ilcapitolo della sofferenza innocente.

Un’altra testimonianza – sempre in questa libera carrellatainterpretativa – è quella di Georg Büchner, uno dei più intensi scrittoridell’Ottocento tedesco. Nel suo dramma La morte di Danton (1835), ilpersonaggio si chiede: «Perché soffro?». E conclude: «Questa è la rocciadell’ateismo», cioè la sofferenza è il terreno nel quale si celebrano leapostasie.

Sempre nell’Ottocento incontriamo una figura ancora più alta, tra ipiù grandi scrittori dell’umanità: Dostoevskij. È un credente; tuttavia,sulle orme di Giobbe, anch’egli vive e rappresenta quel travaglio che, difronte al dolore, rigetta come insufficienti e inutili tutte le spiegazioni diseconda mano, con buona pace dei teologi e di tutta la loro fatica. Nelromanzo I fratelli Karamàzov, il fratello Ivàn rappresenta la luciditàrazionale, renitente ad ammettere altro che non siano le proprieosservazioni, le quali di gradino in gradino portano inesorabilmente acadere nel baratro del non senso: «Se tutti devono soffrire, per comprare

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con la sofferenza l’armonia eterna, che c’entrano i bambini? È del tuttoincomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro, e perchétocchi pure a loro comprare l’armonia con la sofferenza».

L’idea è ripresa poi nel Novecento dal famoso romanzo di AlbertCamus La peste. Mentre la peste dilaga per la città di Orano, il dottorRieux cerca in tutti i modi di prodigarsi con la sua arte medica. Dopo lamorte dolorosa di un bambino contagiato dal male, lacerato dal non sensolancia un grido: «Non potrò mai credere in un Dio finché vedrò unbambino morire così». Anche quando l’epidemia è terminata e la cittàritorna alla stupidità e alla superficialità dell’abitudine, egli sarà il solo agridare a tutti gli incoscienti: «Il bacillo della peste non scompare mai». Ildramma e la lacerazione creati dal dolore non permettono mai di starequieti, di ritornare a una religione tranquilla.

Per finire, ecco la testimonianza di un pensatore francese del secoloscorso, Jean Claude Coutureau che, da ateo, non esitava a dichiarare:«Non credo in Dio, ma se Dio esistesse sarebbe il male in persona.Preferisco negarlo piuttosto che addossargli la responsabilità del male».

LA TEORIA DELLA RETRIBUZIONE

Le voci diverse dei credenti e dei non credenti – questi ultimi spessotrovano proprio nel problema del male il fondamento del loro ateismo – cifanno comprendere quanto fondamentale sia la questione toccata dal librodi Giobbe: ragionando seriamente del mistero del male, non è possibileprescindere dal discorso religioso, di fede. Dio è necessariamentecoinvolto, sebbene gli esiti possano essere differenti. Ad esempio, ilgrande mistico medievale tedesco Meister Eckhart, contemporaneo di

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Dante Alighieri, scriveva: «Nulla sa più di fiele del soffrire. Nulla sa piùdi miele dell’aver sofferto. Nulla di fronte agli uomini sfigura il corpo piùdel soffrire, nulla di fronte a Dio abbellisce più dell’aver sofferto».

La spiegazione addotta è certo del tipo che Giobbe non condivide, maè più simile a quelle che nell’interno del libro risuonano attraverso le vocidegli amici teologi, i «difensori di Dio» che, per cercare di salvare Dio e isuoi diritti, sono disposti a sbarazzarsi dell’uomo e delle sue ragioni. Essidimenticano che Dio è così grande da non aver bisogno né della lorodifesa, né dell’umiliazione inflitta alla libertà della sua creatura. Alla fineessi sono il prototipo di quanti non comprendono il dolore dei fratelli, illoro dramma interiore, e sono pertanto incapaci di ascoltarnel’invocazione di aiuto.

Per spiegare il dolore e risolverne le difficoltà esistenziali, gli amici apiù riprese propongono a Giobbe un’unica via: la teoria della retribuzione.Il loro schema – ben noto anche in ambito biblico – tende a semplificare ilproblema: il dolore altro non è che il processo attraverso il quale bene emale si pareggiano. A chi compie il male Dio dà il dolore per riportarlo albene: dopo il delitto, il castigo ristabilisce la giustizia. Questa sorta ditecnologia morale, per la quale a ogni giro di ruota si ritorna da capo, èadottata da quegli amici teologi come il modo per comporre tutti i drammidella storia. Se ci sono tanti dolori, essi vengono perché assolvono a unafunzione purificatrice: devono giudicare il male, dissolvendolo; così, unavolta finita la sofferenza, ritorna la pace.

È utile richiamare a questo proposito la testimonianza di uno degliamici di Giobbe. Elifaz è il primo a prendere la parola; dal ritratto che neviene fatto, pare incarnare la teologia profetica, poiché parla spesso divisioni ricevute direttamente da Dio. Ecco alcune battute del suo

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intervento:

«Felice l’uomo, che è corretto da Dio: perciò tu non sdegnare la correzione dell’Onnipotente,perché egli fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana. Da sei tribolazioni ti libererà ealla settima non ti toccherà il male; nella carestia ti scamperà dalla morte e in guerra dalcolpo della spada; sarai al riparo dal flagello della lingua, né temerai quando giunge larovina. Della rovina e della fame ti riderai né temerai le bestie selvatiche; con le pietre delcampo avrai un patto e le bestie selvatiche saranno in pace con te. Conoscerai la prosperitàdella tua tenda, visiterai la tua proprietà e non sarai deluso. Vedrai, numerosa, la prole, i tuoirampolli come l’erba dei prati. Te ne andrai alla tomba in piena maturità, come si ammucchiail grano a suo tempo. Ecco, questo abbiamo osservato: è così. Ascoltalo e sappilo per tuobene» (5,17-27).

Elifaz in sostanza dice a Giobbe: «Se pratichi la giustizia seipremiato: avrai tanti figli e una vecchiaia serena, il tuo campo saràrigoglioso. Se invece hai peccato, ti arriva addosso tutta una serie di maliper poterti purificare, per la tua correzione». Giobbe non accetta laspiegazione, perché non trova dentro di sé alcun delitto; e nemmenoaccetta l’ipocrisia di confessare delitti mai commessi e tali da giustificarelo scatenarsi dell’ira divina, al solo scopo di placare Dio.

Entra in scena a questo punto il secondo amico, Bildad, cherappresenta il diritto sacrale. Egli in 8,21 ripete a Giobbe: «Dio colmerà dinuovo la tua bocca di sorriso e le tue labbra di grida di gioia». Basta cheegli riconosca di essere peccatore e si penta.

Il terzo amico, Zofar, rappresenta il mondo della sapienza. Anch’egliribadisce convinto il concetto «che l’allegria del perverso dura soltanto unistante, è un’illusione. Solo il giusto può godere in pienezza la vita». Eprosegue: «La tua vita risorgerà più radiosa del mezzogiorno, le tuetenebre saranno come un’aurora. Sarai certo dell’esistenza della speranzae considerando la tua situazione, riposerai sereno, dormirai senza

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soprassalti, molti ti accarezzeranno il viso» (11,17-19). Questa visioneirenica è sempre condizionata dalla prontezza di Giobbe a riconoscere cheDio è giusto nel punirlo, perché vuole purificarlo, cancellando il male cheè dentro di lui secondo la legge necessaria della giustizia retributiva: ognipeccato deve avere la giusta espiazione.

L’INSORGENZA DEL REALE

Giobbe, invece, reagisce con veemenza a questo schema dogmatico,che egli definisce una «menzogna» e paragona a un blando palliativo, unrimedio incapace di far cessare il dolore. Reagisce in due modi:innanzitutto, afferma di non sentirsi affatto colpevole, pur esaminando lapropria coscienza, fino a giurare la propria innocenza; inoltre, contesta lamiopia degli amici che non tengono conto dei fatti, richiamando la loroattenzione su quella che potremmo definire «l’insorgenza del reale». Lavisione meccanica degli amici teologi – per la quale il peccato comportaun immediato intervento di Dio che piomba sul peccatore e lo colpisceristabilendo così la giustizia, mentre il giusto è premiato – èsemplicemente smentita dalla realtà, che molto spesso procede in modoesattamente contrario. Giobbe insiste dicendo che «le tende dei rapinatorisono tranquille, vivono sereni coloro che sfidano Dio» (12,6).

In un altro passo, alquanto lungo (21,7-34), Giobbe descrive ilsuccesso del mascalzone. Chi è perverso e ingiusto è acclamato; anchequando muore, riesce ad avere i più bei funerali della storia del villaggio eottiene il mausoleo migliore degli altri.

«Perché i malvagi vivono e invecchiano, anzi sono potenti e gagliardi? La loro proleprospera insieme con essi, i loro rampolli crescono sotto i loro occhi. Le loro case sonotranquille e senza timori; il bastone di Dio non pesa su di loro. Il loro toro feconda e non

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falla, la vacca partorisce e non abortisce. Mandano fuori come un gregge i loro ragazzi e iloro figli saltano in festa. Cantano al suono di timpani e di cetre, si divertono al suono dellezampogne. Finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli negli inferi. Eppuredicevano a Dio: “Allontanati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie. Chi è l’Onnipotenteperché dobbiamo servirlo? E che ci giova pregarlo?”. Non hanno forse in mano il lorobenessere? Il consiglio degli empi non è lungi da lui? Quante volte si spegne la lucerna degliempi, o la sventura piomba su di loro, e infliggerà loro castighi con ira? Diventano forse essicome paglia di fronte al vento o come pula in preda all’uragano?» (21,7-18).

L’ultima immagine indicava abitualmente la retribuzione degli empi(cf. Sal 1), destinati a non lasciare traccia di sé. Un risultato non certoverificabile nella storia che, anzi, vede solitamente saldi e sereni imalvagi.

Poi il testo riporta una frase degli amici («Dio serba per i loro figli ilsuo castigo»), che espone un adattamento correttivo della teoria dellaretribuzione, cioè la sua eventuale applicazione all’interno delladiscendenza dei peccatori. La sentenza è forse citata sarcasticamente daGiobbe che, contestandone l’assurdità, si scatena:

«Ma lo faccia pagare piuttosto a lui stesso e lo senta! Veda con i suoi occhi la sua rovina ebeva dell’ira dell’Onnipotente! Che cosa gli importa infatti della sua casa dopo di sé, quandoil numero dei suoi mesi è finito? S’insegna forse la scienza a Dio, a lui che giudica gli esseridi lassù? Uno muore in piena salute, tutto tranquillo e prospero; i suoi fianchi sono coperti digrasso e il midollo delle sue ossa è ben nutrito. Un altro muore con l’amarezza in cuore senzaaver mai gustato il bene. Nella polvere giacciono insieme e i vermi li ricoprono. Ecco, ioconosco i vostri pensieri e gli iniqui giudizi che fate contro di me! Infatti voi dite: “Dov’è lacasa del prepotente, dove sono le tende degli empi?”. Non avete interrogato quelli cheviaggiano? Non potete negare le loro prove, che nel giorno della sciagura è risparmiato ilmalvagio e nel giorno dell’ira egli la scampa. Chi gli rimprovera in faccia la sua condotta e diquel che ha fatto chi lo ripaga? Egli sarà portato al sepolcro, sul suo tumulo si veglierà e glisono lievi le zolle della tomba. Trae dietro di sé tutti gli uomini e innanzi a sé una folla senzanumero. Perché dunque mi consolate invano, mentre nelle vostre risposte non resta cheinganno?» (21,19-34).

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Gli amici – obietta Giobbe – non tengono conto della realtà e la realtàè drammatica e le loro risposte sono ingannevoli e fasulle.

UNA SCUOLA DI GRANDEZZA

Un’ulteriore spiegazione del significato del dolore è tentatadall’ultimo amico, Eliu. Egli condivide quanto detto dagli amici, però altempo stesso è consapevole del carattere grossolano delle loro riflessioni edella necessità di analisi più profonde per riuscire a giustificare e aspiegare il male.

Tra parentesi, la teoria della retribuzione non è completamente falsa;chi fa il male sperimenta in realtà la retribuzione, perché il male contienegià la propria ammenda, ritorcendosi in qualche misura contro chi locompie. Tuttavia, con questo schema si rimane ben lontani dal riuscire aspiegare tutta la sofferenza presente nel mondo. Gesù stesso, di fronte alcieco nato, reagisce alla domanda tradizionale dei discepoli – «Chi hapeccato perché costui sia nato cieco?» – sconfessando la tesi dellaretribuzione: «Né lui né i suoi genitori hanno peccato perché costuinascesse cieco» (cf. Gv 9,1-3). Come si è visto, anche Giobbe respingeval’idea che i figli debbano pagare per i genitori (21,19). Se lo schemaretributivo possiede qualche plausibilità in linea di principio e per qualchecaso specifico, è però inaccettabile a livello generale da chi vivepersonalmente l’esperienza del dolore, soprattutto nelle sue forme piùdevastanti.

Così, Eliu introduce una spiegazione differente, condivisa da moltealtre culture e in forme analoghe ancora circolante ai nostri giorni, inambito sia popolare sia religioso: la sofferenza è una catarsi, una paideia o

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educazione. Non soltanto purifica dal male, ma ammaestra e rafforza;anche per l’innocente, la sofferenza ha sullo spirito un effetto per così diretonificante. Cediamo nuovamente la parola a testimoni diversi.

La prima voce, dall’antica Grecia, è quella di Eschilo. Nella tragediaAgamennone, Eschilo afferma che «la saggezza si conquista attraverso lasofferenza» (cf. vv. 176-178). La sentenza ha un fondo indiscutibile diverità. Ci sono persone che attraverso la sofferenza hanno distillato ilmeglio di sé. Persone magari banali o superficiali diventano diverse,raggiungendo una profondità interiore insospettabile. Altre vivono nellamalattia, con sofferenze inaudite, e diventano maestri per altri, capacipersino di dare consolazione a tutti.

Baudelaire, il grande poeta romantico francese, si era interessato delproblema della sofferenza e del male, anche quello più tragico compiutodall’uomo: il peccato. Nella poesia Bénédiction (che apre la raccoltaSpleen et idéal, la prima dei suoi Fleurs du mal), egli prega Dio in questitermini: «Sii benedetto mio Dio, che dài la sofferenza come divinorimedio delle nostre impurità». Il dolore inteso come rimedio per leimpurità svolge sull’animo umano la funzione del crogiolo che fa brillarel’oro, per cui diviene un dono e non un incubo.

Un altro poeta romantico francese, Alfred de Musset, nella poesiaNotte di maggio, scrive che «nulla rende così grandi come un grandedolore». Per finire, è la volta di uno scrittore canadese naturalizzatostatunitense di origine ebraica, non particolarmente interessato allequestioni religiose, Saul Bellow, premio Nobel per la letteratura nel 1976.Nel suo romanzo Il re della pioggia (del 1959) scrive: «La sofferenza èforse l’unico mezzo valido per rompere il sonno dello spirito». Il sonnodello spirito è l’indifferenza: passa il fulmine del dolore e questo sonno è

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infranto, si è destati e si diventa coscienti.La medesima convinzione è formulata con passione da Eliu:

«Dio parla in un modo o in un altro, ma non si fa attenzione. Parla nel sogno, in visionenotturna, quando cade il sopore sugli uomini e si addormentano sul loro giaciglio; apre alloral’orecchio degli uomini e con apparizioni li spaventa, per distogliere l’uomo dal male etenerlo lontano dall’orgoglio, per preservarne l’anima dalla fossa e la sua vita dalla morteviolenta. Lo corregge con il dolore nel suo letto e con la tortura continua delle ossa; quando ilsuo senso ha nausea del pane, il suo appetito del cibo squisito; quando la sua carne siconsuma a vista d’occhio e le ossa, che non si vedevano prima, spuntano fuori, quando egli siavvicina alla fossa e la sua vita alla dimora dei morti. Ma se vi è un angelo presso di lui, unprotettore solo fra mille, per mostrare all’uomo il suo dovere, abbia pietà di lui e dica:“Scampalo dallo scender nella fossa, ho trovato il riscatto”, allora la sua carne sarà più frescache in gioventù, tornerà ai giorni della sua adolescenza: supplicherà Dio e questi gli useràbenevolenza, gli mostrerà il suo volto in giubilo, e renderà all’uomo la sua giustizia. Egli sirivolgerà agli uomini e dirà: “Avevo peccato e violato la giustizia, ma egli non mi ha punitoper quel che meritavo; mi ha scampato dalla fossa e la mia vita rivede la luce”. Ecco, tuttoquesto fa Dio, due, tre volte con l’uomo, per sottrarre l’anima sua dalla fossa e illuminarlacon la luce dei viventi» (33,14-30).

Ecco l’insegnamento: la sofferenza, descritta da Eliu con sintomiterribili, è data perché l’uomo non solo si converta, ma anche – conl’anima purificata e glorificata dalla sofferenza – sia trasfigurato e alla finesottragga alla fossa la propria vita. La sofferenza è il grande strumento chepermette di purificare l’anima, ma soprattutto di esaltarla. È la grandepedagogia di Dio.

IL DOLORE CHE TRASFORMA

Tale dottrina non suona del tutto falsa; anzi, abbiamo portato esempianche di autori «laici» che riconoscono la forza trasformatrice del dolore.Giobbe però è colpito da una sofferenza umiliante e senza limiti, che

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demolisce colpo su colpo tutta la sua realtà e lo riduce a essere come unabestia, a invocare la morte, a desiderare la sepoltura e a chiamare i vermi«padre, madre, fratelli e sorelle». Egli non vede alcuna esaltazione; anzi,sempre di più precipita in un gorgo oscuro, davvero infernale. A questopunto, entrambe le spiegazioni razionali addotte dagli amici – quellaretributiva e quella pedagogica – sono cadute. Nella storia dell’umanità,sono state escogitate molte altre teorie che potessero dare un senso aldolore. La stessa Bibbia ne presenta diverse, che tuttavia ora è superfluoelencare.

Rimane da considerare, invece, la scelta operata dall’autore del librodi Giobbe. La lunga sequenza di interventi poetici presenti nel corpodell’opera non scioglie l’intreccio tra la trama delle vicende umane el’ordito del progetto di Dio, ma vuole conservare integra la tela percercare di scoprirne il disegno, il senso di tale apparente opposizione. Essosi rivela differente da quello immaginato dagli amici e inculcato dallatradizione; è un senso inatteso. La fede di Giobbe, all’apice della suaavventura esistenziale, trova non esattamente una spiegazione, ma lapossibilità di una composizione, di un legame permanente tra il dolore eDio, senza più la necessità di negare o il dolore da un lato, o Diodall’altro. In questo approdo consiste la grande originalità del libro, chenon chiude gli occhi di fronte alla realtà di lacrime e di miseria dell’uomo,ma neppure si rassegna all’idea di un Dio che risolva tutto quasi come inun gioco di caleidoscopio. Giobbe, resistendo su questo crinale cosìtagliente, difficile e tragico, lo vede toccato da un raggio di sole, da unraggio dell’infinito e dell’eterno che proprio lì comincia a illuminarel’uomo. Dio, che fino a questo momento aveva taciuto, ora parla esoprattutto si rivela, si manifesta all’uomo con il proprio volto.

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4. Faccia a faccia con Dio

Il libro di Giobbe cristallizza al proprio interno una voce che risuonanel deserto del dolore, un grido verso Dio. Da un lato, il deserto dellasofferenza è un terreno particolarmente tormentato, impraticabile: unasuperficie che ferisce i piedi e fiacca il fisico di chi la percorre, ma checolpisce anche nell’animo. Dall’altro, questo grido non viene lanciato nelvuoto; non si rivolge nemmeno ai propri simili, agli amici, cercando inessi dei consolatori: per Giobbe questa possibilità è già esaurita. Eglilancia il suo grido sempre e solo verso l’alto e non attende altra risposta senon quella che discende dall’alto: è vana quella che proviene dagli amicie, se si vuole, è vana pure quella fornita dalla sua stessa intelligenza edall’esperienza personale precedente. La sua voce è la voce di unsofferente, ma anche la voce di un credente.

Tuttavia, nella sua voce e nelle voci degli amici, che sono una sorta dicoro tragico attorno a Giobbe sofferente, risuonano echi differenti, siscoprono anche altri linguaggi: si distinguono, cioè, diverse modalità performulare la domanda sul dolore. Gli studiosi, più tecnicamente, parlanodella presenza di generi letterari differenti, attraverso i quali il tema è

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affrontato ed espresso. Di tali linguaggi è possibile stilare un inventario.Si riscontrano, ad esempio, il linguaggio della fede popolare,

soprattutto all’inizio; il linguaggio del silenzio, cupo e negativo; illinguaggio del dubbio; il linguaggio del diritto sacrale; il linguaggio deldibattito processuale, per un processo ad armi pari con Dio; il linguaggiodella profezia, quando Elifaz, il primo degli amici, parla di visioni e, peralcuni studiosi, anche Eliu si presenta in vesti profetiche; il linguaggiodella sapienza classica d’Israele o – in altri termini – della filosofia, cheesprime le indagini della mente umana. Si trovano ancora la lamentazione,la protesta, la supplica e – spesso, anzi quasi sistematicamente sulle labbradi Giobbe – la preghiera, mentre l’inno è per lo più in bocca agli amici.Talvolta risuona il linguaggio della discussione o diatriba tra sapienti,simile a una «tavola rotonda» sul tema: le argomentazioni di Giobbe sonosottoposte a un’analisi serrata e contestatrice da parte degli amici; maGiobbe stesso liquida con veri fendenti e non in punta di fioretto iragionamenti degli amici. Da ultimo, degno di particolare interesse è illinguaggio della mistica, linguaggio della fede e dell’adorazione.

A questo punto, dopo aver identificato la voce che grida a Dio neldeserto del dolore, una voce screziata da mille altre tonalità che ne mutanocontinuamente il colore, possiamo tentare di formulare la tesi che cerca dispiegare il significato ultimo di questo libro. L’immagine dell’anguilla odella piccola murena formulata da san Girolamo a propositodell’interpretazione del libro di Giobbe e da noi già evocata all’inizio dellatrattazione, dovrebbe tuttavia rendere sempre cauto ogni lettore neltentativo di formulare la tesi fondamentale del libro. Sono troppi glielementi al suo interno che non si lasciano codificare o congelare nellostampo freddo di una definizione, di una spiegazione univoca.

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Di certo, il libro di Giobbe, come si è detto, non è un elogio dellapazienza: questo lo abbiamo già sufficientemente dimostrato nel momentodel dolore. Giobbe è un impaziente per eccellenza, un ribelle. Ma pur seribelle, non perde mai l’aggancio con la fede. Per usare un’immaginepresa dai suoi discorsi, Giobbe è fermamente convinto che dalle sue labbraesca un filo, il filo della vita, sempre annodato alle mani di Dio: Dio reggeil filo della vita di tutti gli uomini, «il respiro dell’uomo di carne» (12,10).

Nella nostra analisi così sintetica non è tecnicamente possibileelaborare una vera dimostrazione della nostra proposta di interpretazionedel libro di Giobbe, perché essa richiederebbe analisi di testi e distinzionianche molto sofisticate; tuttavia, è possibile avanzare la tesi che l’opera –come scopo ultimo – si ponga il problema di come parlare di Dio neltempo della sofferenza.

Parlare di Dio non significa far chiacchiere al suo riguardo, comesecondo Giobbe fanno i suoi amici. Parlare, nel linguaggio biblico,significa scoprire il senso. Detto altrimenti, si tratta di incontrare Dioproprio in quel terreno nel quale di solito è più facile che germoglino lebestemmie o le apostasie. In questo, il libro di Giobbe è estremamenteoriginale rispetto a tutto l’Antico Testamento, solitamente più incline avedere Dio nell’epifania gloriosa su un monte, nelle solennità del tempio,nei momenti prosperi della nazione, nella fertilità dei campi, ossia insituazioni e immagini di festa, di gioia, di luce.

Giobbe invece sospetta di tutte queste immagini: è convinto che siparli di Dio in maniera più giusta, scoprendone il vero volto, nel tempodella sofferenza. L’intuizione fondamentale di Giobbe è questa: quando siè nel dolore, bisogna avviarsi sulla strada della fede personale per cercareun incontro diretto con Dio, senza lasciarsi distrarre dai percorsi

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prefabbricati, dalle spiegazioni di seconda mano. Il dolore è il momentoideale per parlare di Dio in modo puro, impedendosi di dare ascolto a tantemotivazioni che non sono libere e disinteressate; nella prosperità, infatti, sihanno tutte le ragioni per lodare Dio e per incontrarlo.

UNA LOTTA CON DIO

Proprio perché bisogna parlare di Dio e parlarne in modo retto, illibro si configura come un viaggio incontro a Dio, un itinerario checomprende anche la sfida. Contrariamente all’opinione comune – cheritiene Dio più incline ad andare incontro a chi lo prega, fa le opere buonee se ne sta tranquillo – Dio accetta la sfida e l’incontro-scontro conGiobbe. La persona ferita, che urla a Dio tutta la sua desolazione e la suadisperazione, è per il libro di Giobbe l’interlocutore migliore a cui Diovoglia rispondere. E Dio infatti risponde.

In altri termini, Giobbe sostiene che per scoprire Dio bisogna lottarecon lui. La lotta è il momento più forte che genera l’abbraccio. Come si ègià accennato, uno dei quadri più emozionanti della Bibbia è la scenaindimenticabile di Genesi 32, quando Giacobbe lotta con un esseremisterioso, identificato dalla tradizione con l’angelo, ma che in realtà è ilsimbolo di Dio. Giacobbe lotta nella tenebra e all’alba riesce vittoriososenza conoscere il nome di Dio: Dio resta sempre un mistero, impossibileda ridurre alla propria misura. Giacobbe non conosce il nome di Dio, ma èormai completamente cambiato: non è più un qualsiasi sceicco tribale dinome Ya‘ăqôb, Giacobbe; ora è un chiamato, la cui vita è attraversata daun destino nuovo, inedito e sorprendente, quello di essere Yiśrā’ēl, Israele:in lui si riassume l’identità di un intero popolo e della sua storia, che è la

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storia della salvezza.Come Giacobbe, che ha incontrato Dio e che ha lottato con lui, non

rimane indenne ma zoppica, colpito da Dio, anche Giobbe non esceindenne dal suo incontro con Dio. Anzi, proprio Giobbe, che nel suodolore si è avvalso della spada della parola, al termine si ritrovasilenzioso, senza più nulla da dire. L’immagine della lotta ricorre,accompagnata da un tocco di ironia e di sarcasmo all’interno delle pagineche costituiscono l’approdo del libro, nelle prime righe del capitolo 38: «IlSignore rispose a Giobbe di mezzo al turbine: “Chi è costui che oscura ilconsiglio con parole insipienti? Cingiti i fianchi come un prode, io tiinterrogherò e tu mi istruirai”» (38,1-3). Dio non compare per distribuirecarezze e facili consolazioni, come vorrebbe il finale della parabola checostituisce il prologo e l’epilogo del libro. Il nucleo centrale del libro diGiobbe presenta invece un Dio lottatore che invita al confronto.

NON RISPOSTE, MA DOMANDE

Il confronto si sviluppa in due discorsi divini, cui seguono duebalbettanti risposte da parte di Giobbe. Una volta di fronte a Dio, Giobbenon combatte più, pur essendo invitato e sfidato alla lotta. Il perché lo diràlui stesso: in quel momento, avrà una visione diversa, si muoverà a unlivello differente da quello della protesta; avrà aperto gli occhi e non saràpiù quello di prima. In questa linea, i capitoli finali – forse le pagine piùbelle e più alte del libro – sono curiosamente intessuti di domande e non dirisposte. Nel primo dei discorsi divini vi sono ben sedici domande,articolate in sedici strofe. La cifra non è casuale: il numero quattro per lacultura orientale rievoca i punti cardinali ed è un simbolo di totalità. Dio

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presenta a Giobbe la totalità dell’essere, ma non spiegandogli come essa è;gliela presenta coinvolgendolo, sfidandolo a rispondere alle domande cheegli pone.

Il primo discorso è quello dei capitoli 38–39. Rispetto alla culturadell’antico Vicino Oriente, della stessa Bibbia, queste pagine ci offronouna vera e propria rivoluzione copernicana: l’uomo non è più al centro,con la natura relegata a semplice fondale; ora è l’universo, l’immensofluire dell’essere, a presentarsi alla piccolezza umana, soverchiandone lacapacità di contemplare e di comprendere. Così, la creazione appareincomprensibile all’uomo come, ad esempio, il motivo della pioggia neldeserto, che non serve a nulla (cf. 38,26). Questo mondo, nella dimensionedell’infinitamente grande, delle strutture cosmiche, gli appare ignoto. Gliappare incomprensibile e ignoto anche nella dimensione dell’infinitamentepiccolo, diremmo noi nel livello atomico o sub-atomico, rappresentato quiin modo tutto orientale, nel parto delle camozze o capre nubiane (cf. 39,1).

Eppure questo universo, di cui l’uomo afferra soltanto alcunielementi, è coerente e unitario, perché frutto di un «progetto». Questotermine fondamentale, in ebraico ‘ēṣâ (38,2), intende un disegno dinamicoconcepito con il rigore della mente, come l’architettura di un edificio o latrama di un romanzo, la raffinatezza di un manufatto o anche ilprogramma di una giornata.

Paul Ricoeur, il grande filosofo francese, in una sua opera moltoimportante e suggestiva intitolata La simbolica del male, scriveva aproposito di Giobbe:

«Il poeta orientale annunzia un ordine al di là dell’ordine, una totalità piena di senso,all’interno della quale l’individuo deve collocare la sua recriminazione, la sua protesta. Lasofferenza non è spiegata né moralmente né altrimenti, ma la contemplazione del tuttoabbozza un movimento che deve essere completato con l’abbandono della pretesa di formare

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solo per sé un isolotto di senso nell’universo, un impero nell’impero divino».

Si tratta di abbandonare l’illusione di poter estendere al tuttodell’universo il giudizio di insensatezza formulato a riguardo della propriaesperienza, segnata dal sigillo sconcertante e scandaloso del dolore.

Per l’autore sacro, Giobbe, considerando razionalmente la propriasofferenza, ha tutto il diritto di urlare e di ritenere il dolore insensato;tuttavia, se sotto la guida divina – giacché da soli è impossibile – adottasseil punto di vista divino, riuscirebbe a vederne tutto intero il progetto. Taleprogetto non si riduce a qualcosa di misterioso, da accogliere senzadiscutere, sulla falsariga del credo quia absurdum. Non è possibileaffermare che Dio agisca in modo arbitrario secondo pianiincomprensibili. Piuttosto, i discorsi attribuiti a Dio mostrano come il suoprogetto e la sua azione corrispondente garantiscano una reale unità delcosmo, nonostante i limiti della conoscenza umana, in modo cheall’interno dell’essere esista – per così dire – una metarazionalità, unaragione più alta, un significato coerente trascendente.

Il comportamento iniziale di Giobbe (cf. 1,21: «Dio ha dato, Dio hatolto, sia benedetto il nome del Signore») si avvicina alla tradizionecoranica per la quale Dio considera la sua creatura «come il cadavere nellemani del lavatore». Il cadavere è in stato di totale passività nelle mani dicolui che prepara la salma per il funerale. L’intervento divino denunciacome inadeguato un tale comportamento: Dio non vuole questa passività;anzi, si presenta a Giobbe per mostrargli il suo grande disegno. Lasequenza di domande presenti nei capitoli 38–39 ha lo scopo di dimostrarea Giobbe che esiste una logica suprema (‘ēṣâ) che raccoglie tutto l’esseree tutta la storia in un disegno trascendente efficace, capace di armonizzarein sé anche ciò che la mente di Giobbe trova incomprensibile, disarmonico

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e scandaloso.Il testo presenta, perciò, un’elaborazione teologica in senso stretto; il

Dio di cui parla non è un gorgo oscuro e tenebroso, in cui si precipita e siviene risucchiati come in un buco nero. È piuttosto un Dio personale, cheha un progetto e una volontà; tuttavia, egli è trascendente e il suo sguardo,come quel suo disegno generale sull’essere, è infinito ed eterno.

LE MERAVIGLIE DEL CREATO

Le sedici domande rivolte da Dio a Giobbe appartengono a una speciedi grande affresco, che si distende in scene straordinarie, ricche di figure edi colori: gli studiosi usano parlare, alla tedesca, di Mirabilienliteratur, di«letteratura delle meraviglie», con la quale si mostra la complessità delreale.

Si rappresentano innanzitutto le grandi strutture cosmiche. La terraviene concepita come una piattaforma, posta su enormi colonne, che siregge al di sopra del mare, simbolo del caos. Nella pagina bellissima diGiobbe 38,8-11 si rappresenta l’oceano come un bimbo appena uscito dalgrembo, agitato al punto che non si riesce a trattenerlo, avvolto nelle fascedelle nubi ma perennemente in moto; oppure come un carcerato incatenatoal limite della battigia, ma in continua agitazione. La creazione non ètranquilla e quieta, comprende anche il caos, la minaccia del nulla e delnon senso; eppure in essa tutto avviene secondo le disposizioni divine:«Tu – vien detto all’oceano – fin qui giungerai e non oltre, qui siinfrangerà l’orgoglio delle tue onde».

L’aurora è rappresentata come una massaia mentre scuote via daltappeto multicolore del mondo i malvagi che temono la luce, che vivono

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nella notte. L’aurora è protagonista in altre scene successive: sotto il suodolce splendore prende forma la terra come un pezzo di argilla sulla qualenon sia ancora inciso il sigillo, non vi sia ancora alcun disegno. Almattino, quando si stende la luce del sole, tutto ciò che prima era oscuro eindistinguibile, diventa luminoso, simile a un grande disegno. Il poemapoi descrive il giorno e la notte, la neve e la grandine, i ghiacci e la brina;compaiono pure il calore dello scirocco e la pioggia che, cadendo sullesolitudini desertiche, fa sbocciare qua e là germogli privi di futuro, madetentori anch’essi di una peculiare funzione nell’universo.

Lo sguardo muove verso il cielo dove occhieggiano le costellazionidelle Pleiadi, di Orione, dell’Orsa e dello Zodiaco, tra loro legate damisteriosi vincoli che stringono anche la terra e gli uomini, secondo lecredenze popolari di allora, ma anche di oggi. Seguono versettiaffascinanti sui fenomeni atmosferici, sulle nubi, ad esempio: «Le nubicome otri che si inclinano versando la pioggia sulla terra». Secondol’antica credenza, le previsioni meteorologiche erano affidate all’ibis,l’uccello che, soprattutto in Egitto, si riteneva segnasse il tempo e le pienedel Nilo, e al gallo, altro animale considerato una sorta di barometrovivente.

L’obiettivo poi si sposta in una selva con i leoncelli appiattati e prontia balzare per afferrare la preda, il nutrimento che li farà crescere forti. Dioha pensato anche a questo nesso aggressivo – peraltro un po’ scandaloso–, ma che permette la sopravvivenza delle specie. Ci sono i corvi che siagitano nel nido e lanciano al cielo il loro gracchiare affamato, e Dio sipreoccupa anche di loro.

Il poema mostra uno stupore particolare, che forse può sorprendere,per l’animale chiamato yā‘ēl, termine di solito tradotto con «camoscio», al

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femminile «cerve» nella traduzione della CEI; in realtà, si tratta dellacapra nubiana, che vive tra i dirupi bruciati dal sole e dal sale presso lecoste del mar Morto. Gli antichi zoologi si interessavano in manieraparticolare di questa capra, di cui ignoravano la fisiologia riproduttiva.Quando la capra è gravida, infatti, fugge fra le rocce e le rupi più imperviee non è possibile osservarla, se non quando ricompare con il suo piccolo.Perché si ricorre a questa immagine? Per dire a Giobbe che anche perrealtà limitate e di poca importanza, non certo grandiose e drammatichecome il dolore, gli uomini non hanno potuto trovare una spiegazione;eppure anch’esse hanno un senso, un frutto di vita.

Segue una rassegna di misteri della natura, tra cui l’asino selvatico,l’onagro, pervaso da un’irresistibile voglia di libertà, che gli fa preferireterre salmastre e inospitali alla ricca pastura di una greppia domestica.Allo stesso modo, il bufalo, eccezionale condensato di forza, non puòessere piegato dal giogo al lavoro agricolo, se non raramente. Perché Dioha creato nel mondo anche queste energie incontrollabili?

Un gioiello a sé stante è l’unica strofa non formulata comeinterrogativo: è il ritratto dello struzzo (39,13-18), animale moltodiffamato in Oriente al punto che ancora oggi nel mondo arabo si dice«stupido come uno struzzo»: si riteneva infatti che, dopo aver deposto leuova sotto la sabbia, ne dimenticasse l’ubicazione, lasciando che altrianimali le calpestassero o finisse per calpestarle egli stesso. In realtà, ilcaldo rende la sabbia un’ottima incubatrice per le uova. Soprattutto, lostruzzo era irriso per il suo strano piumaggio da cicogna, che rendevaancor più ridicolo il suo goffo agitarsi, le sue forme strane. Non esiste,tuttavia, animale più veloce di lui, dotato di una straordinaria capacità dicorsa, che lo mette in grado di evitare tutti i pericoli. La descrizione è

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molto vivace:

«L’ala dello struzzo batte festante, ma è forse penna e piuma di cicogna? Abbandona infattialla terra le uova e sulla polvere le lascia riscaldare, dimentica che un piede può schiacciarle,una bestia selvatica calpestarle. Tratta duramente i figli, come se non fossero suoi, della suainutile fatica non si affanna, perché Dio gli ha negato la saggezza e non gli ha dato in sortediscernimento. Ma, quando giunge il saettatore egli fugge agitando le ali: si beffa del cavalloe del suo cavaliere» (39,13-18).

Lo struzzo diviene così l’emblema di come nel cosmo si uniscanomancanza di senno e abilità, assurdità e ordine: non esiste realtà che nonabbia aspetti positivi.

L’accenno al cavallo fa da transizione verso una delle pagine piùbelle in assoluto. Il cavallo in battaglia era, nell’antico Oriente, larappresentazione di quanto di più elegante e possente si potesseimmaginare. Il poeta si lascia catturare da questa figura, che rappresentaquella parte del mondo creato da Dio più familiare all’uomo. Tuttavia,anche questa realtà nota esprime un mistero. La scena è presa dal vivo,una scena di battaglia ove riecheggia un nitrito:

«Puoi tu dare la forza al cavallo e vestire di fremiti il suo collo? Lo fai tu sbuffare come unfumaiolo? Il suo alto nitrito incute spavento. Scalpita nella valle giulivo e con impeto vaincontro alle armi. Sprezza la paura, non teme, né retrocede davanti alla spada. Su di luirisuona la faretra, il luccicare della lancia e del dardo. Strepitando, fremendo, divora lospazio e al suono della tromba più non si tiene. Al primo squillo grida: “Aah! …” e dalontano fiuta la battaglia, gli urli dei capi, il fragore della mischia» (39,19-25).

Partito dal cielo – con l’aurora, le stelle e le costellazioni –, questoviaggio tra le meraviglie del creato finisce ancora però rivolto al cielo, ovevolteggia maestoso lo sparviero. Dall’alto degli speroni rocciosi, lungo lespirali dei suoi voli, lo sguardo acutissimo di questo animale si appuntaimplacabile su una meta. L’autore lo segue, mentre come un proiettile

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piomba con impeto nel fondovalle, su una carogna: a essa e al suo sanguemira il rapace, con un istinto e un’abilità che nessun uomo saprebbeinsegnargli. Tali doti e abitudini – la vista acuta, il gusto della preda, laprecisione nell’identificarla – rimangono misteriose nella loro origine.

Perlustrati tutti e quattro i punti cardinali, il discorso divino dischiudeagli occhi di Giobbe una planimetria mirabile che sfugge al controlloumano e in cui le apparenti contraddizioni hanno un senso e si placano.Giobbe comprende il messaggio: il dolore e la sofferenza, nel mare di unarealtà a volte contraddittoria e altre volte superba, non sono un isolottorefrattario al senso del tutto, sono da collocare in una realtà più grande.Semplicemente Dio non spiega tutto: Giobbe e il suo dolore fanno partedel suo disegno e il suo disegno può essere percepito, ma non esaurito e hain sé un suo senso globale, sia pure non classificabile pienamente dallamente umana.

Giobbe, apostrofato in maniera diretta, reagisce quasi balbettando (cf.40,1-5). Si esprime con un linguaggio giuridico: «Ecco sono benmeschino, che cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca.Una volta ho parlato, non replicherò più; due volte ho parlato, noninsisterò più». Nel gergo forense dell’antico Egitto, «chiudersi la boccacon la mano» significava riconoscere ufficialmente, in sede di giudizio, laragione dell’avversario o anche l’innocenza dell’accusato. Con questogesto Giobbe riconosce l’innocenza di Dio, che ha accusato. Il filosofoRicoeur, in un’altra opera intitolata Le mythe de la peine («Il mito dellapena»), commentava: «Non è una risposta quella che Giobbe ha ricevutoda Dio, ma è il potere di sospendere la sua domanda, comprendendo chec’è un ordine incomprensibile». Questa affermazione riassume davvero ildiscorso di Dio e la posizione ultima dell’autore del libro di Giobbe.

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Giobbe sospende la domanda non perché ha trovato la risposta, ma perchéha inteso che nella realtà regna non l’incomprensibilità cieca e assurda, maun ordine che egli non riesce a esaurire e all’interno del quale devecollocare anche la grande domanda della sua sofferenza.

DIO DOMINA LA NATURA E LA STORIA

Tuttavia, Dio pare non accontentarsi e torna ancora all’attacco con unsecondo discorso, steso con un linguaggio completamente diverso (alcuniesegeti pensano che si tratti di un’inserzione successiva, opera di un altropoeta). La pagina è di una bellezza straordinaria e meriterebbe una letturamolto accurata. Non si compone più di domande (le sedici brevi sceneprecedenti), ma è fatta di due tavole immense, come due grandi quadridinamici, un vero e proprio solenne dittico (40,7–41,26). Dai bozzetti insuccessione giungiamo a due quadri potenti: in essi campeggiano duefigure grandiose, rappresentate in uno stile poetico differente da quello delprimo discorso divino, frutto appunto della penna di un altro autore.Questa pagina ha catturato molti lettori soprattutto per uno dei dueprotagonisti: il famoso Leviatano.

Il filosofo inglese Thomas Hobbes aveva intitolato Leviathan (1651)la sua opera maggiore sulla politica e le strutture degli Stati; per lapubblicazione, aveva voluto che sul frontespizio dell’opera apparisse, nellatino della Vulgata, una citazione di questa pagina: non est potestas superterram quae comparetur ei, «sulla terra non c’è un potere che gli siasimile» (41,25).

Anche Moby Dick, la balena bianca di Melville, è descritta con unacitazione letterale dei capitoli 40–41. Moby Dick è la rappresentazione del

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mostruoso presente nella storia; è un romanzo arduo, filosofico,metafisico, di lettura tutt’altro che facile.

Lo scrittore francese Julien Green, riferendosi esplicitamente al testodi Giobbe, ha intitolato Leviathan il suo romanzo in cui rappresenta ilcaos, il non senso in cui siamo continuamente immersi.

L’anonimo autore russo de La via di un pellegrino usava ladescrizione del Leviatano per rappresentare il demonio, il male.

Il termine liwyātān contiene una radice arcaica del semiticonordoccidentale, la radice ltn, che indica letteralmente l’«avvinghiarsi»,l’«avvoltolarsi» del serpente. Gli animali rappresentati sono però due. Ilprimo in ordine di apparizione è chiamato bĕhēmôt. Come suona inebraico, il termine è un plurale femminile: potrebbe essere inteso «glianimali». In realtà, si tratta di una desinenza femminile singolare arcaica:bĕhēmôt è quindi un solo animale, la bestia per eccellenza, che incarna percosì dire le potenze oscure.

Leggendo queste pagine, passo per passo, si nota che bĕhēmôt èrappresentato come un animale acquatico, simile all’ippopotamo, qualcosadi minaccioso che avanza come una grande nave da guerra. Si muove nelmare, nell’oceano, nell’acqua, simbolo del caos.

E la seconda bestia, il liwyātān, è chiaramente rappresentato come unenorme coccodrillo che nessuno osa frenare o stuzzicare mentre nuotanell’oceano, che nessuno osa cacciare con l’arpione. La corazza di cui èrivestito gli conferisce un aspetto bellicoso, le sue fauci mostrano dentiterrificanti; quando si leva e si avventa nessuna difesa gli resiste, nessunaarma lo colpisce. Il suo passaggio sconvolge la natura intera, per mare eper terra. Indimenticabile è la scena finale in cui il Leviatano, «con lostarnuto che irradia luce» e col suo corpo corazzato, affonda nel mare in

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un trionfo di schiuma, proprio come un sommergibile.L’oceano, simbolo del caos, è l’habitat di entrambi i mostri; essi

incarnano tutto ciò che nel mondo è tormentoso, oscuro, privo di senso,nulla. In realtà, più precisamente, la loro funzione nel discorso divino èquella di rappresentare il caos o il nulla in equilibrio con l’essere: purattraversato da elementi di disordine e di disarmonia, il mondo continua aesistere come insieme di opposti. Nell’esperienza degli uomini, anche ildolore (visto come bĕhēmôt e liwyātān) si accompagna alla gioia, al bene,alla luce. Ebbene, secondo l’autore, solo il Dio creatore dell’universo ècapace di comporre i contrasti temibili tra il caos e l’essere e può dare unsenso anche all’esperienza del male e del dolore.

I due mostri sono infine definiti «i sovrani di tutti i mostri piùorgogliosi» (41,26). Anche per questo dettaglio, alcuni studiosi hannopensato all’eventualità che i due mostri siano personificazioni del malecome agisce nella storia e nelle istituzioni, ossia delle grandi potenzeegemoni dell’antichità: bĕhēmôt potrebbe essere lo stemma dellasuperpotenza orientale, la Mesopotamia, poiché lungo il Tigri e l’Eufrateun tempo viveva l’ippopotamo; il liwyātān o coccodrillo, che vive nelNilo, potrebbe rappresentare l’Egitto, la superpotenza occidentale.

Perfino lungo il corso della storia, dove si muovono le grandi potenzedistruttrici, e non solo nella natura, il potere del caos non dominaincontrastato: anche lì Dio realizza il suo disegno o ‘ēṣâ, unità e sensodella realtà intera, nonostante le ingiustizie, le violenze e il dolore generatidalla libertà umana.

«ORA I MIEI OCCHI TI VEDONO»

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Al termine del discorso divino, Giobbe pronuncia la sua frase inassoluto più importante. È l’autentica «ultima parola» dell’autore, chespiega in sintesi che cosa il libro intende sostenere. «Io ti conoscevo soloper sentito dire, ora i miei occhi ti vedono. Per questo mi ritratto e mipento sopra la polvere e la cenere» (42,5-6).

Giobbe sostiene di essersi comportato fino a questo momento come isuoi amici, avendo parlato per sentito dire. Anch’egli, come gli amici,desiderava che Dio intervenisse in modo conforme allo schema delproprio ragionamento: se era innocente, perché doveva essere punito?Inconsciamente, Giobbe ragionava come gli amici, voleva che Dio sicomportasse razionalmente. Ma Dio gli ha presentato un altro modo dileggere tutta la realtà; ciò è avvenuto direttamente, senza mediazioni,attraverso un’esperienza di fede diretta, mistica, una visione nella qualeDio ha incontrato Giobbe e gli ha parlato. Per questo, per spiegare ildolore, nella visione cristiana è fondamentale la presenza di Cristo: eglivive il dolore sulla propria pelle, ma al tempo stesso è realmente Dio,collocando il dolore all’interno di un disegno differente.

Il poeta biblico perciò non ha voluto fare una teodicea, unagiustificazione di Dio. Ha voluto fare una vera teologia, presentando ilvero volto e la vera azione di Dio. A questo punto, Giobbe non ha piùbisogno che Dio lo guarisca e gli restituisca tutto. Se ha ripudiato la logicadella retribuzione propugnata dagli amici, non può avvalersene ora, nonpuò ricollocare il mistero del dolore in uno schema razionale a misurad’uomo.

Dio non tenta di dimostrare a Giobbe come l’esperienza del malepossa coesistere con l’essere e il senso; ma gli dice che questo incastroesiste. Nel mondo ci sono caos ed essere, tenebra e luce, senso e non

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senso, animali strani e animali utili, tutti insieme all’interno di un disegnonon dominabile razionalmente. È un disegno che può essere colto solo pervia mistica.

Il poeta biblico è convinto che il terribile e costante scandalo del malenon possa essere razionalizzato e addomesticato con un facile teoremateologico, ma allo stesso tempo non si ferma a questa soluzionemeramente negativa. Egli è convinto che esiste una razionalità superiore,un disegno o ‘ēṣâ di Dio che riesce a contenere al suo interno ciò che perl’uomo sembra uscire da ogni progetto. Ma si tratta di un’armonia reale,che si percepisce soltanto attraverso la rivelazione. E la rivelazione è undono divino che avviene attraverso l’incontro di fede. Per questo il libro diGiobbe è un’opera su Dio, sul suo mistero e sulla fede e la sua particolareconoscenza e sapienza.

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Conclusione

È utile terminare questo percorso con le parole di un grande esegetadi Giobbe, il gesuita spagnolo Luis Alonso Schökel, perché rendono inmodo suggestivo e intenso il messaggio del libro di Giobbe:

«Il libro di Giobbe è un’opera geniale, emergente nella letteratura universale. Gigantesca eimperfetta, come un ciclope cui manchi un occhio o abbia dita in eccedenza. Forse la suastessa imperfezione, la sua incompiutezza è segno dell’insufficienza umana di fronte aiproblemi ultimi dell’uomo. Forse, se fosse perfetta, ci fideremmo meno di essa. Essa èaudace nello sfidare il grande enigma, sorprendente nell’imbastire la situazione, tesa in granparte dello sviluppo; nello stesso tempo è ripetitiva, imbrigliata in ambiguità e allusioni,claudicante di incoerenze. Giobbe è un libro affascinante e sconcertante».

«Il libro di Giobbe è un libro singolarmente moderno, provocante, non adatto ai conformisti.È difficile ascoltarlo senza sentirsi interpellati. È difficile comprenderlo se non si prendeposizione. Esso vuole un pubblico inizialmente curioso che ne esca compromesso. Anche lospettatore deve cambiare nel corso della rappresentazione. Poiché questo libro lascia unsegno su colui che vi si espone, come Giacobbe che uscì zoppicante dalla lotta. Giobbe è un“vino da vertigini” che scardina e trasporta oltre; è un reagente inesorabile che correggealcune idee e cambia un modo di pensare».

Ed ecco la frase di Alonso Schökel che può condensare bene il fruttodella riflessione teologica del libro di Giobbe: «Terminata la scena,

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quando si toglie lo scenario, parleremo con Dio, parleremo di Dio nellostesso modo di prima?».

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Bibliografia essenziale

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Una riflessione sul libro di Giobbe, Queriniana, Brescia 1986.LUBSCZYK H., Il libro di Giobbe, Città Nuova, Roma 1971.POMA A., Avranno fine le parole vane? Una lettura del libro di Giobbe,

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Indice

Frontespizio 2Colophon 4Indice 61. Un’anguilla tra le mani 8

La cornice 13Dialoghi e rovine 16Un’intrusione inattesa 18Collocazioni difficili 19Quale lingua per quale opera? 20Sentieri in altura 21

2. Storia di un sofferente 24Il vero volto di Giobbe 24La struttura del libro 26Il dolore di Giobbe 27La «piaga maligna» 29Senza un filo di speranza 35Il grande Avversario 41

3. Storia di un credente 44«Lasciami inghiottire la saliva» 44Fare causa a Dio 46Il giuramento di innocenza 48Lo scandalo del male 50La teoria della retribuzione 54L’insorgenza del reale 57Una scuola di grandezza 59Il dolore che trasforma 61

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4. Faccia a faccia con Dio 63Una lotta con Dio 66Non risposte, ma domande 67Le meraviglie del creato 70Dio domina la natura e la storia 75«Ora i miei occhi ti vedono» 77

Conclusione 80Bibliografia essenziale 82

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