IL LATINO VOLGARE Anzitutto, · Tevere, evolvette di pari passo con la società romana e con...

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IL LATINO VOLGARE Anzitutto, per “latino volgare” non s'intende il latino dei bassifondi: difatti, questa formula nasce dalla traduzione letterale del tedesco vulgärlatein 'latino di tutti i giorni, ordinario'. D'altra parte, già Cicerone parlava di plebeius sermo e di sermo vulgaris inteso come 'lingua popolare', un concetto ripreso dagli umanisti e mutuato dai primi studiosi di linguistica storica, il quale è giunto fino ai giorni nostri in tutta la sua complessità. Per comprendere come le lingue volgari non costituiscano una diretta filiazione della lingua degli autori latini di cui possediamo una vasta conoscenza documentaria, basti pensare al fatto che i verbi potere e vedere nelle lingue neolatine non partono, rispettivamente, da VĬDĒRI e POSSE, ma da forme non attestate *POTĒRE e *VIDĒRE. Per comprendere a fondo il passaggio dal latino cosiddetto volgare ai volgari romanzi, bisogna anzitutto chiarire alcuni mutamenti dello stesso latino, che come lingua indoeuropea parlata da un nucleo originario di pastori stanziatisi presso il Tevere, evolvette di pari passo con la società romana e con l’accrescimento della popolazione e il suo progressivo inurbamento. Si dovrà dunque ricordare che la storia del latino si sviluppa in due fasi: 1) l'unificazione o romanizzazione; 2) la disgregazione, con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, della civiltà a esso indissolubilmente legata e la conseguente frammentazione linguistica. Quindi, particolarmente dal VI al III sec. a.C., nel latino intervennero dei fenomeni di mutamento strutturali, che investirono soprattutto fonetica e morfologia e che, dal III sec. in po,i rallentarono per quasi arrestarsi, almeno così parrebbe, nell’epoca di Cesare e Cicerone (I a.C) nel latino letterario: si ebbe in tal modo una divaricazione sempre maggiore fra latino classico e latino volgare , ovvero fra la norma scritta e fortemente codificata dalla grammatica da una parte, e la lingua 1

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IL LATINO VOLGARE

Anzitutto, per “latino volgare” non s'intende il latino dei bassifondi: difatti, questa

formula nasce dalla traduzione letterale del tedesco vulgärlatein 'latino di tutti i

giorni, ordinario'. D'altra parte, già Cicerone parlava di plebeius sermo e di sermo

vulgaris inteso come 'lingua popolare', un concetto ripreso dagli umanisti e mutuato

dai primi studiosi di linguistica storica, il quale è giunto fino ai giorni nostri in tutta la

sua complessità. Per comprendere come le lingue volgari non costituiscano una

diretta filiazione della lingua degli autori latini di cui possediamo una vasta

conoscenza documentaria, basti pensare al fatto che i verbi potere e vedere nelle

lingue neolatine non partono, rispettivamente, da VĬDĒRI e POSSE, ma da forme non

attestate *POTĒRE e *VIDĒRE.

Per comprendere a fondo il passaggio dal latino cosiddetto volgare ai volgari

romanzi, bisogna anzitutto chiarire alcuni mutamenti dello stesso latino, che come

lingua indoeuropea parlata da un nucleo originario di pastori stanziatisi presso il

Tevere, evolvette di pari passo con la società romana e con l’accrescimento della

popolazione e il suo progressivo inurbamento. Si dovrà dunque ricordare che la storia

del latino si sviluppa in due fasi:

1) l'unificazione o romanizzazione;

2) la disgregazione, con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, della

civiltà a esso indissolubilmente legata e la conseguente frammentazione linguistica.

Quindi, particolarmente dal VI al III sec. a.C., nel latino intervennero dei

fenomeni di mutamento strutturali, che investirono soprattutto fonetica e morfologia e

che, dal III sec. in po,i rallentarono per quasi arrestarsi, almeno così parrebbe,

nell’epoca di Cesare e Cicerone (I a.C) nel latino letterario: si ebbe in tal modo una

divaricazione sempre maggiore fra latino classico e latino volgare, ovvero fra la

norma scritta e fortemente codificata dalla grammatica da una parte, e la lingua

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comune, ordinaria, dall'altra. Nel periodo altomedievale (dal VII sec. d.C. in poi) si

trovano due filoni:

1. la lingua della conversazione, ovvero un latino fortemente regionalizzato e

prossimo al volgare;

2. il latino letterario e giuridico, impartito dalla scuola e comunque per via

prevalentemente libresca per chi ne poteva usufruire, ovviamente.

Ciò implica che il latino grammaticalizzato e quello volgare dovettero convivere e

non che essi furono due enti separati, in quanto era impossibile che l’evoluzione del

volgare non trasferisse suoi propri fenomeni evolutivi alla lingua di cultura. Dunque,

risulta inattuale una recisa distinzione fra latino classico e volgare, in quanto il primo

rappresenta la transizione fra l'indoeuropeo e i volgari, i quali sono definibili come

dei dialetti del latino sviluppatisi in epoca medievale.

Il latino dev'essere considerato, come qualsiasi lingua, lo specchio di una società

che si andava evolvendo e che passò dalla sbrigativa semplicità degli auctores arcaici

alla sempre maggiore ricercatezza formale. Data fondamentale fu soprattutto la

battaglia di Pidna del 168 a.C., che vide Roma sottomettere la Grecia e importare un

nuovo ideale di cultura, fondato sull’elegantia: la propria massima espressione di

questo ideale si incarnò nei poetae novi e, in generale, nel cenacolo d’intellettuali che

gravitava intorno al Circolo degli Scipioni, impersonato massimamente da Scipione

Emiliano (185-129a.C.), che promosse con decisione la cultura ellenistica a Roma.

Soprattutto il fascino dell’eloquenza greca condusse alla permanenza nell’Urbe di

numerosi filosofi e retori greci e a tale movimento, che favorì anche un certo livello

di bilinguismo latino-greco, oltre alla generale penetrazione del lessico e perfino di

strutture sintattiche greche, reagì con veemenza il conservatore Catone il Censore

(234-149a.C.), il quale tentò in due occasioni di espellere filosofi e retori dalla città, a

causa della loro pericolosa capacità persuasiva.

Man mano che il latino scritto si codifica e grammaticalizza, si può osservare un

atransizione: dall’antica suddivisione fra urbanitas e rusticitas, ovvero dal latino

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parlato nell’Urbe a quello importato dai paesi finitimi e che non si adeguava alla

norma vigente in Roma – si pensi alla patavinitas dello storico Tito Livio (59a.C.-

17d.C.), ovvero a una sua riconoscibile appartenenza linguistica e culturale alla natia

Padova di cui testimonia Quintiliano (35-40 d.C.-96d.C.) – si giunge a un altro tipo di

suddivisione: quella fra colti e incolti o semicolti, ovvero non solo gli strati più

bassi della popolazione, ma anche militari, medici, tecnici in generale, i quali non

avevano accesso alla cultura alta. Va anche detto che il latino classico aveva

raggiunto lo status di lingua per eccellenza principalmente grazie a Cicerone (106-43

a.C.), ma non grazie alle grammatiche o alle scuole, bensì attraverso un uso della

lingua adatto alle occasioni ufficiali e più solenni per la comunità, cioè quelle legate

all’oratoria, politica come giudiziaria, a cui difatti Cicerone, come l’élite in generale

di Roma, si dedicavano.

Difatti, man mano che la società romana andava evolvendosi in forme di

organizzazione sociale sempre più complesse, la lingua si adeguava a tale evoluzione,

trasformandosi in un sistema sempre più compatto ed economico, nel quale gli

elementi sovrabbondanti venivano pian piano meno. Nel periodo arcaico, in

fonetica:

Gli antichi dittonghi indeuropei si semplificano:

ei > ī (deico > dico);

oi > ū (oinos (cfr. greco) > unus);

ou > ū (douco > duco).

Il dittongo più resistente è AU, sopravvissuto fino all'epoca dei volgari, e

precisamente nell'Italia meridionale, in ladino e occitano antico, mentre in portoghese

passa a ou: es. lat AURUM > rum., lad., prov. aur, port. ouro. Invece, nella Romania

occidentale l'esito au > o è più tardo e mostra uno sviluppo indipendente in ciascuna

lingua. Già in epoca latina, tuttavia, si aveva notizia di questa semplificazione,

avvertita come un provincialismo linguistico e, successivamente, colloquiale. Si ha

inoltre la riduzione di AU in A in sillaba iniziale: ad es. nei graffiti di Pompei si trova

Agusto per Augustus, da cui la forma romanza agosto, e così ascultare per auscultare,

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secondo una tendenza osservbile nella forma ascoltare ecc.

Nel II sec. a.C. altri dittonghi arcaici si semplificano e forme verbali come gli

infiniti pass. in -ier (audier) e i gerundi in -undo scompaiono; ancora, la sequenza

vo passa a ve (vorto > verto) ecc. Dal I sec. in poi le innovazioni registrate dai testi

scritti diminuiscono, fino quasi ad azzerarsi, e si limitano grosso modo alle seguenti:

1. desinenze indoeuropee -os -om > -us, -um dopo temi uscenti in u (equos >

equus);

2. scempiamento di ss dopo vocale lunga o dittongo (causa per caussa);

3. omissione di h-, ormai non più pronunciata come aspirata, confermata da

ipercorrettismi come humerus, dove /h/ è superfluo ecc.

Morfologia

1. locativo e strumentale vengono a cadere e dal sistema a otto casi, tipico

dell’indoeuropeo, si passa a quello semplificato esacasuale, poiché soprattutto

l’ablativo e l’accusativo + preposizione assorbono le funzioni dei due casi

scomparsi;

2. sistema verbale: l’ottativo confluisce nel congiuntivo;

3. l’accento indouropeo dalla prima sillaba (non a caso il greco è ricco di

ossitoni) retrocede sulla seconda, la cui quantità giunse a determinare la

posizione dell’accento: se la vocale della seconda sillaba era lunga, la parola

era parossitona, altrimenti si spostava sulla terzultima, ovviamente se la parola

era almeno trisillaba: SALŪTEM ma MÌLĬTES. Tuttavia, contava anche la

posizione: una vocale breve + due consonanti diventava lunga, quindi se si

trovava in penultima posizione era accentata: ARĬSTA = ARÌSTA.

Ancora, in età imperiale, sotto Augusto, vigeva anche la cosiddetta muta cum

liquida (= r): se la vocale breve era seguita da un’occlusiva (muta) + r (liquida) la

sillaba non era considerata chiusa e restava breve: ÌNTĔGRU, n o n INTÈGRU.

Evidentemente però, nelle lingue romanze, le quali a parte l'ossitonia obbligata

presente nel francese conservano più o meno bene la posizione dell’accento latino, la

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regola muta cum liquida non valse più e le sillabe brevi vennero considerate lunghe,

dunque it. int(i)èro, sp. entéro, fr. entier, sardo intrégu, rum. întreg, mentre la forma

ìntegro è un cultismo che non appartiene al linguaggio popolare.

Con la scomparsa della quantità vocalica, l'accento latino crebbe in intensità, con

la conseguenza della cessazione della regola della penultima e, soprattutto,

dell’indebolimento delle sillabe atone, cui fa séguito la caduta delle vocali

postoniche, ad es. ŎCŬLUM > oclu, attestato già nelle iscrizioni pompeiane, lessema

base da cui derivano le forme romanze, CĂLĬDUM > caldu (utilizzato da Augusto) ecc.

Vi sono però lingue neolatine che subiscono maggiormente le conseguenze di questo

fenomeno, ad es. il francese, basti pensare al passaggio dal lat. FĪCĀTUM (termine

culinario indicante 'fegato d'oca ingrassato con fichi' che sostituisce il lemma di

origine indoeuropea IĔCŬR-ŎRIS) a foi, da QUĬRĪTĀRE a crier ecc. Per questo motivo il

francese, viste le numerose sincopi delle sillabe postoniche e finali, utilizza un nuovo

accento fisso in posizione ossitona che consente l'utilizzo di accenti secondari con

valore stilistico, ad es. s'émerveillEr 'stupirsi'.

Le fonti del latino volgare

L'indagine sul latino volgare consiste essenzialmente nella ricerca delle deviazioni

dalla norma classica, deviazioni che spesso trovano un riscontro nelle lingue

romanze. Anzitutto, va detto che l’evoluzione di queste ultime non passa solamente

attraverso il dialogo fra lingua classica e volgare, ma si ricollega al latino arcaico:

quando si parla degli autori arcaici, insieme a Terenzio (190ca.-159a.C.), l'esempio

maggiormente noto è quello di Plauto (254-184a.C.,), un commediografo che, vista la

prossimità col parlato insita nel genere in questione, utilizzava una molteplicità di

registri linguistici, compreso quello popolare. Ad esempio, Plauto era solito utilizzare

dei diminutivi che non erano abituali nel registro aulico della lingua: in quanto si

trattava di un registro proprio non dei rapporti privati e familiari, ma della vita in

comunità. Tuttavia i diminutivi erano tipici del linguaggio familiare e, spesso, da

questi ultimi derivano le forme nominali dei volgari romanzi: AURIS = ‘orecchio’ lat.

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class. non spiega le forme romanze it. orecchio, fr. oreille, sp. oreja, ecc., mentre la

forma diminutiva AURĬCŪLUM/AURĬCŪLA lo consente, con la caduta della vocale

postonica > auricla e la chiusura del dittongo AU > o. Di fatto, la forma aurĭcūla-ae

'padiglione auricolare' era già ben attestata nel latino arcaico e classico. Oltre al fatto

di essere particolarmente espressivi e dunque molto presenti nel parlato, uno dei

motivi per cui i diminutivi costituiscono la base dei lemmi romanzi (es.

AVIS/AUGELLUS > uccello, VETULUS/SENEX > vecchio, con passaggio in postonia di tul

> tl > cl), è il fatto che essi mantenevano solitamente una forma fonica più estesa

rispetto al grado 0 che ne evitava l’assottigliamento dovuto alle varie sincopi

consonantiche e vocaliche successive all'intensificazione dell'accento latino, tanto che

suffissi diminutivi latini divennero produttivi in romanzo, come accade negli esempi

citati.

Grammatici latini

Le opere dei grammatici sono molto utili perché si trattava generalmente di puristi

della lingua che sottolineavano le forme errate in uso in rapporto a quelle corrette: il

testo più noto è senz'altro la Appendix Probi o Appendix Bobbiensis (V-VI sec. sec.

d.C.), glossarietto trascritto in calce a un codice contenente la grammatica dello

pseudo-Probo, conservato in un manoscritto che si trova presso la Biblioteca

Nazionale di Napoli. Qui un purista, probabilmente di origine africana o visigota,

redasse una lista di forme corrette che, in realtà, non sempre sono conformi alle

regole della lingua classica, accanto a quelle scorrette, del tipo “si dice […] non si

dice”, dunque auris n o n oricla, calidus non caldus, cultellum non cuntellum,

columna non colomna ecc.

Glossari

Affini alle grammatiche si collocano i glossari latini, ovvero 'vocabolari

solitamente monolingui che traducevano parole o espressioni ormai fuori dall'uso

contemporaneo con altre più attuali'. Il lessicografo più noto della tarda latinità è

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Isidoro di Siviglia (570-636 d.C.), che nelle sue Etymologiae ci dà numerose

informazioni sul latino della sua epoca. In generale nelle glosse dinanzi a una parola

latina si offriva una traduzione o in un latino più comprensibile o direttamente in

volgare. Ad esempio, nelle Glosse di Reichenau (IX sec. d.C.) si spiegavano in

latino tardo espressioni della Bibbia troppo difficili, ad es. bella per pulchra, sabulo

per arena, ficato per iecore ecc. Di provenienza bavarese e della stessa epoca sono le

Glosse di Kassel, una sorta di prontuario romanzo-tedesco in cui si trovano tradotte

espressioni come: tundi meo capilli 'tagliami i capelli', radi meo barba 'tagliami la

barba', figido 'fegato' ecc. Infine, ricordiamo le Glosse emilianensi e le Glosse

Silensi del X sec. d.C., di area iberica, che presentano il primo uso cosciente del

volgare locale e che, rispetto alle glosse di area franco-germanica, sono considerabili

come testi pienamente romanzi o quasi romanzi.

Trattati tecnici

Nell'indagine sulle fonti del latino volgare si annoverano gli scriptores rei

rusticae, su tutti Marco Porcio Catone, autore del De Agri Cultura (160 a.C. circa), e

Marco Terenzio Varrone, che scrisse il De re rustica nel 37a.C., i quali dovevano

utilizzare espressioni popolari, altrimenti inusuali nei testi classici e nei generi più

nobili, come oratoria, storiografia, poesia, per redigere i loro rispettivi trattati. Grazie

a tali attestazioni sappiamo che fenomeni grammaticali tipici delle lingue neolatine –

ad esempio il che relativo polifunzionale romanzo – non erano innovazioni dei

volgari, in quanto già presenti nella fase arcaica della lingua. Più tardo ma

importantissimo è il trattato di veterinaria intitolato Mulomedicina Chironis (IV sec.)

che fu in séguito utilizzato da un veterinario di nome Vegezio il quale, però, ne

corresse alcuni volgarismi. Uno notevole è una sorta di articoloide, prefigurazione

dell’articolo determinativo: es. si dictaverit ipsum tempus ‘se lo richiederà il tempo’,

dove il pronome determinativo ipsum ‘stesso’ prefigura la forma di articolo che nasce

da essa e che viene attualmente utilizzato nel sardo (su, sa, sos, sas), a partire da una

funzione di articoloide di ipse sviluppatasi nel tardo latino africano, dove

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probabilmente il testo fu redatto.

Iscrizioni

Sono molto utili allo studio dei volgarismi anche le iscrizioni lapidee di cui il

territorio dell'Impero è disseminato, soprattutto quelle dal tono più modesto, redatte

in una lingua non sempre sorvegliata, come ad es. le iscrizioni di Pompei ed

Ercolano, città sepolte dall'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., contenenti messaggi di

natura privata (amore, antipatie personali, conti privati ecc.) oltre alle formule

magiche incise a graffio su lamine di piombo per gettare il malocchio sui nemici dette

tabellae defixionum, generalmente riposte in luoghi non immediatamente visibili e

ritenuti magici, come templi, fonti, tombe.

Autori classici e post-classici

Alcune opere letterarie latine utilizzavano per varie ragioni un latino meno

ufficiale rispetto a quello dei grandi auctores: si pensi al già citato Plauto, o allo

stesso Cicerone, se si vuole in maniera sorprendente, visto che questo

importantissimo oratore costituisce unanimemente il principale modello di classicità.

Ebbene, costui nelle Epistole ai familiari attesta volutamente espressioni colloquiali,

proprie del sermo cotidianus, ad es. bellus per pulcher, mi vetule 'vecchio mio' in

luogo di senex ecc. Importante è anche il Satyricon di Petronio (I sec. d.C.), un

romanzo che offre uno spaccato corrosivo della società romana, principalmente nella

cena di Trimalcione, un liberto arricchito che dietro pretese intellettuali commette un

ragguardevole numero di strafalcioni, insieme a una congrega di suoi pari che l'autore

si diverte a rappresentare in tutte le possibili sfaccettature linguistiche. Per questo vi è

anche chi considera il Satyricon l'unico testo volutamente redatto in latino volgare.

Traduzioni latine della Bibbia

Se si guarda al latino tardo, si trovano delle traduzioni latine della Bibbia nelle

quali la lingua degli autori cristiani mantiene, almeno inizialmente, un registro umile

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e popolare. La versione più antica è quella approntata nel II sec. d.C., detta Vetus

Latina, mentre risale al 383 la Vulgata di S. Girolamo: poiché il latino cristiano è

volutamente popolare e basso, in tali versioni non mancano dei fenomeni interessanti

per gli studiosi del latino volgare. Lo stesso S. Agostino d'Ippona (354-430 d.C.)

sottolineava l'utilità, più che la bellezza, della lingua, quando affermava: «Melius est

reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi».

Fra le fonti del latino volgare rientrano poi le attestazioni presso autori di non

grande cultura, come accade ad es. in un testo risalente al 417-18 d.C. che narra il

resoconto del viaggio in Terra Santa di una pellegrina probabilmente originaria del

Nord-Ovest della Spagna di nome Etheria o Egeria – probabilmente una monaca di

buona famiglia –, la quale nel suo resoconto del viaggio di ritorno intitolato

Peregrinatio Egeriae ad loca sancta impiega largamente espressioni che hanno un

ben maggiore riscontro nei volgari romanzi che nel latino classico. Il testo fu scoperto

da uno studioso italiano, F. Gamurrini, nel 1884, in un manoscritto cassinese dell'XI

sec. e suscitò ben presto l'interesse degli studiosi. Fra le molte di grande interesse, si

veda ad es. la frase in ecclesia maiore, quae appellatur Martyrio. La forma corretta

avrebbe dovuto essere Martyrium, in accusativo: Martyrio non è certo un ablativo,

bensì un lessema, cioè la forma unica che vale tanto per il soggetto quanto per

l’oggetto, e che può essere distinta al singolare o al plurale attraverso una marca o

terminazione aggiuntiva, quale ad esempio una -s. Ciò attesta che nel parlato (quae

appellatur) si era fatta strada la resa del soggetto all’accusativo e la perdita di

distinzione fra questo caso e il nominativo. Oltre a ciò, nella Peregrinatio è attestata

la sostituzione del genitivo con il costrutto preposizionale: sancto episcopo de Arabia

per Arabiae e altri fenomeni ancora, come l'utilizzo in forma di articolo dei pronomi

ille e ipse che saranno analizzati più avanti.

Latino tardo

Ci riferiremo ora a quei documenti che furono redatti quando i volgari dovevano

essere presumibilmente già nati e utilizzati nella comunicazione: il fatto è che

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nell'Alto Medioevo il latino era rimasto la lingua della cultura, ma spesso nei

documenti pervenutici si impiegava un latino modesto, fortemente condizionato dalla

mancanza di scuole e di istruzione, almeno fino alla rinascita carolingia del IX secolo

ma anche ben oltre, quando cioè si diede il via a una riforma classicista che mirava

alla costruzione di un impero cristiano romano e germanico e che vide una

restaurazione della norma linguistica antica. Anzitutto, bisogna chiarire che esiste

uno scarto abbastanza ampio fra la registrazione dei primi documenti in volgare (IX

sec.) e l'utilizzo dei volgari a livello del parlato, in quanto essendo il latino la lingua

della cultura, ciò ne favorì l'impiego ben oltre il suo utilizzo spontaneo presso la

comunità dei parlanti. In séguito alla riforma culturale voluta da Carlo Magno, che

sancì la proscrizione dello scorretto latino merovingico a favore del latino riformato

e, come conseguenza, una più netta separazione fra latino e volgare, il processo di

scrittura di quest'ultimo fu accelerato e diede origine ai primi documenti, i quali per

forza di cose erano fortemente dipendenti dal latino. Perciò, si spezza in qualche

modo il legame fra il volgo e il latino nella sua prosecuzione naturale, imbarbarita e

scorretta, e si rende necessario l'utilizzo, anche scritto, di una lingua comprensibile.

Così, durante il Concilio di Tours dell'813, nel quale si riunirono vescovi provenienti

da tutto l'Impero, si ha la presa d'atto di quanto appena detto e, al fine di rendere

accessibile a tutti i principi della fede cattolica, dunque di garantire la salvezza dei

fedeli, si proclama:

Et ut easdem omelias quisque aperte transferre studeat in rusticam Romanam linguam aut

Thiotiscam, quo facilius cuncti possint intellegere quae dicuntur.

'E anche [è parso opportuno a tutti noi] che quelle stesse omelie ciascuno di essi [i vescovi] si

applichi a tradurle apertamente nella lingua romana parlata dai 'rustici' ovvero in [lingua] tedesca,

affinché tutti senza eccezione possano comprendere senza difficoltà ciò che viene detto loro'.

Fra i documenti antecedenti la riforma in questione abbiamo la Historia

Francorum del vescovo francese Gregorio di Tours (538-594), redatta in quel latino

fortemente regionalizzato e imbarbarito noto come merovingico: l'autore era ben

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consapevole dei volgarismi di cui la sua opera era intrisa e si dice dispiaciuto,

confessandosi al contempo incapace di porvi rimedio.

Sempre di area francese è la Lex salica, una raccolta di leggi degli antichi franchi

Salii tramandata in più redazioni successive, la cui più antica versione è risalente a

Clodoveo (muore nel 511 d.C.). Ad es., XXX, De convitiis: «Si quis alterum

concagatum (cf. ant. fr. conchier 'disonorare', insozzare') clamaverit, sunt CXX

denarios qui faciunt solidos III culpabilis iudicetur». Molto interessante anche la

parodia della Lex Salica, redatta intorno all'VIII sec. da un copista della Lex forse

irritato dallo stile giuridico dell'opera, a mo' di burla, secondo un uso comune

all'epoca. Se ne vedano alcuni stralci in traduzione:

In nomine Dei patris omnipotentis: Così piacque alla volontà di Laidobrando e di Ado, che (per

quanto concerne) il patto salico […] stendessero con l'aiuto di Dio, nel detto patto un capitolo, che

se alcuno avesse, in casa propria o fuori casa, una bottiglia piena, sia del loro sia dell'altrui, non ne

versino nella coppa neanche una goccia. Se alcuno presumesse di fare ciò, soddisfi un risarcimento

di quindici soldi, e la detta coppa la rompano tutta, al bottigliere rompano il capo, al coppiere

tolgano le bevande [& ipsa cuppa frangant la tota, ad illo botiliario frangant lo cabo, at illo

scanciono tollant lis potionis]. Così si convenne di osservare, (che) bevano dal calice e dentro

facciano la zuppa col vino […] Io che scrissi, non scrissi qui il mio nome. Il colpevole sia giudicato.

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SISTEMA FONOLOGICO

VOCALISMO TONICO

Tipi di vocalismo

Fra i cinque fonemi vocalici di base, in latino vi era una distinzione fra vocali

lunghe e brevi, e si giungeva quindi fino a dieci fonemi. D'altra parte, il sistema

romanzo è basato non sulla quantità vocalica, ma sulla sua apertura o chiusura, quindi

sul timbro, tenuto conto della seguente corrispondenza:

1. vocali lunghe latine = vocali chiuse nel sistema vocalico romanzo;

2. vocali brevi latine = vocali aperte romanze.

Inoltre, dal I sec. d.C. si registra in latino una semplificazione fonologica che

porta alla predicibilità dell'opposizione fra vocali lunghe e brevi in base al

contesto sillabico, per cui la quantità vocalica era lunga in sillaba tonica aperta e

breve in sillaba tonica chiusa.

Le vocali finali, lunghe o brevi, ricoprivano in latino un'importante funzione di

marca morfematica ereditata dall'indoeuropeo, poiché a seconda della lunghezza o

brevità delle stesse il parlante poteva attribuire alla parola in oggetto un preciso

valore semantico all'interno del discorso. Mentre nell'italiano è evidente il passaggio

delle desinenze vocaliche dalla funzione casuale a quella di distinzione fra genere e

numero, nel francese ad es., dove le vocali finali, insieme alle consonanti, hanno per

lo più un valore grafico, è necessario l'inserimento di una preposizione come

l'articolo che possa esplicitare genere e numero (la rose, une rose, les roses).

Prendiamo ad es. la declinazione di un nome della prima declinazione latina:

amică 'l'amica'

amicae 'dell'amica'

amicae 'all'amica'

amicăm 'un'amica'

amică 'oh amica!'

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amicā 'per l'amica, con l'amica' ecc.

Come si può vedere, non è necessario l'utilizzo dell'articolo che difatti il latino, al

contrario del greco, non possedeva, per poter comprendere quale funzione la parola

potesse avere all'interno del discorso. Tuttavia, esistevano delle preposizioni del tipo

per, cum, de ecc. le quali si collocavano prima della parola a cui si riferivano e che

contribuirono a creare una struttura preposizionale parallela al quella

casuale/sintetica la quale, una volta venuta meno la distinzione fra vocali lunghe e

brevi, prevalse sul sistema casuale e permise al sistema morfologico latino di

evolversi in preromanzo, vale a dire uno stadio linguistico nel quale, appunto, le

antiche desinenze persero il loro valore in quanto ormai superflue. Riprenderemo più

avanti il discorso sulle desinenze; si vedano ora i più importanti sistemi del

vocalismo tonico romanzo:

1. Il principale sistema vocalico è quello detto romanzo comune, a 7 fonemi:

ī ĭ ē ĕ ā ă ŏ ō ŭ ū

i e ε a ɔ o u

Ī: FĪLUM > filo.

Ĭ: NĬVEM > neve.

Ē: MĒNSEM > mese.

Ĕ: BĔNEM > bεne.

Ŏ: PŎRTUM > pɔrto.

Ō: SŌLEM > sole.

Ŭ: NŬCEM > noce.

Ū: MŪRUM > muro.

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Probabilmente tale semplificazione è dovuta anche al fatto che le vocali lunghe,

prodotte con un maggior sforzo muscolare, tendono all'innalzamento e alla

chiusura, mentre quelle brevi, all'opposto, si abbassano e diventano aperte, già a

partire dal latino tardo. Si verifica dunque una defonologizzazione in cui l'esito di Ĭ e Ŭ

coincide con quello di Ē e Ō e la conseguente opposizione fonologica presente nella

lingua italiana fra vocali medie aperte /ε/ /ɔ/ e chiuse /e/ /o/.

2. Tipo sardo, a 5 fonemi, diffuso, oltre che in Sardegna, anche in una zona al

confine fra Calabria e Lucania (zona Lausberg) e nei dialetti corsi meridionali. Qui

ogni coppia di vocali si fonde in un unico fonema, senza distinzione degli esiti in

base alla lunghezza della vocale latina. Potremo quindi dire che in questo caso non è

giunta l’innovazione ĭ > e e ŭ > o:

ī ĭ ē ĕ ā ă ŏ ō ŭ ū

i e a o u

Quindi, in sardo avremo filu < FĪLUM ma nive < NĬVEM e furca < FŬRCAM.

3. Tipo: balcanico, presente in rumeno, oltre che albanese e dalmatico, e in

Italia nella Basilicata orientale. Si tratta di un sistema misto, poiché

corrisponde a quello romanzo comune nella serie anteriore, con

defonologizzazione di Ĭ e Ē > e, e a quello sardo nella serie posteriore, con il

mantenimento della distinzione fra Ō e Ŭ:

ī ĭ ē ĕ ā ă ŏ ō ŭ ū

i e ε a ɔ u

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Ī: FILUM > rum. fir, ma Ĭ NĬVEM > nea, come Ŭ > u FŬRCAM > furca.

4. Tipo siciliano comprendente oltre alla Sicilia, la Calabria meridionale e il

Cilento (intorno a Salerno). In quest'area si raggruppano i tre fonemi anteriori e

posteriori in un unico esito e le vocali mediane evolvono regolarmente secondo

lo schema ĕ, ŏ > ε, ɔ:

ī ĭ ē ĕ ā ă ŏ ō ŭ ū

i ε a ɔ u

Esempi: filu, nivi, misi, ma: BĔNEM > bεni; CŎREM > cɔri, ma SŌLEM > suri.

Agli albori della letteratura italiana, ovvero nella Scuola poetica siciliana, quello

illustrato era il vocalismo tonico utilizzato, per cui TENĒRE e VENIRE > tiniri e veniri.

Quando i copisti toscani trascrissero le liriche siciliane, adattarono il sistema vocalico

peculiare di quest'area al proprio sistema fonologico, per cui le rime originarie amicu

: micu, ciascunu : donu furono rese in amico : meco e ciascuno : dono, poiché si

pensò che fosse normale far rimare e : i e o : u, tanto che lo stesso Dante fa rimare

noi : fui (Inf., IX, 20-22). Il dato storico più rilevante è che le copie toscane dei poeti

siciliani (che non erano però tutti di origine siciliana), avevano indotto a credere che

già nel Duecento si utilizzasse una koinè di base toscana.

Anafonesi

Questo il prospetto delle principali evoluzioni vocaliche presenti nelle lingue

romanze. Tuttavia, si trova un'importante eccezione a quanto detto nel toscano

fiorentino denominata anafonesi: davanti a gruppi consonantici come nj, lj, skj, nc e

ng, si ha il passaggio di Ĭ e Ē > i invece che ad e, come accade nel sistema vocalico

del romanzo comune, ad es. tosc. famiglia, lingua ecc., mentre in veneto si ha la

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trafila fonetica regolare Ĭ > e: lengua, fameja.

Dittongamenti

Riduzione dei dittonghi latini: molti erano già semplificati in latino tardo, ad es.

AE > E, EI > I ecc. Il dittongo au si conserva in latino volgare, successivamente si

riduce a o in spagnolo, francese e italiano, mentre in rumeno e occitano in generale si

conserva (AURUM > aur). In italiano la sua permanenza segnala un cultismo: es.

oro/aureo.

In italiano, francese e spagnolo Ĕ ed Ŏ toniche hanno dato luogo a dei dittonghi.

Vediamo i principali casi:

Toscano: si ha dittongamento di ε ed ɔ (< Ĕ,Ŏ) in /jε/ /wo/ solo in sillaba libera:

MĔLEM > miele; PĔDEM > piede; FŎCUM > fuoco; NŎVUM > nuovo ecc.

Francese: a differenza dell’italiano dittongano sia le vocali lunghe, sia quelle

brevi latine in sillaba libera: miel, piè, feu, neuf per la serie delle brevi. Vocali

lunghe: HABĒRE > a. fr. aveir, fr. mod. avoir. FLŌREM > fleur ecc. Una peculiarità del

francese è di far dittongare anche a latina in sillaba libera + nasale: CANEM > chien,

altrimenti MARE < mèr.

Castigliano: in questa lingua, non essendovi vocali aperte, dittongano quelle

chiuse, sia in sillaba libera, sia implicata: FŎCUM > fuego, e così nuevo, ma ŎS/SUM >

hueso, PŎR/TAM > puerta ecc.

Sardo: non fa dittongare le vocali medie aperte e chiuse né in sillaba aperta (pède,

bène, bónu, fócu, tènnere, fròre-i < FLŌREM ma log. fiòre per influsso del tosc.), né in

sillaba chiusa (ossu, ortu).

Metafonesi

Un fenomeno vocalico ampiamente diffuso nella penisola italiana è la metafonesi:

si tratta di un fenomeno indotto, cioè non spontaneo e determinato da cause esterne,

che porta, ad eccezione della Toscana, le vocali toniche chiuse e, o + -i, -u > i, u:

DIGNUM > degno ma al plur. digni a causa della -i metafonetica; DULCEM > dolce ma

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dulci (Giacomino da Verona, XIII sec.). Quando agisce la sola -i la metafonesi è detta

settentrionale o veneta, diffusa nell'area di Vicenza, Padova e Rovigo e attualmente

connotata come rusticismo, ad es. coro 'io corro' ma te curi 'tu corri'. In generale la

metafonesi è un innalzamento della e > i e della o > u indotto dalla presenza di una

vocale anteriore (i) o posteriore (u), cioè dei timbri chiusi, nella sillaba seguente e in

questa tipologia rientra la

Metafonesi meridionale o napoletana. PLENAM 'piena' > femm. sing. ['kjenɘ], ma

masch. PLENUM 'pieno' > ['kinɘ], plur. PLENI > ['kinɘ]. Dunque, si ha una distinzione

metafonetica fra i nomi femminili, la cui desinenza non corrisponde a vocale

metafonetica, e i maschili, dove invece la metafonesi si realizza tanto al singolare,

quanto al plurale.

ε, ɔ in sillaba chiusa + i, u dittongano ad es. CŎLLUM > [kwɔllɘ], TĔMPUS > [tjεmpɘ]

ecc.

Infine, nel cosiddetto gruppo calabro-siculo o dei dialetti meridionali estremi e, o

toniche evolvono in i, u spontaneamente, ovvero senza che la vocale post-tonica

debba necessariamente essere i o u: SOLEM > suli, TELA > tila.

La metafonesi in Sardegna: essa è presente in tutte le varietà linguistiche che

definiamo sarde, mentre è assente nel sassarese e nel gallurese: qui il timbro di e o

toniche dipende dalla vocale postonica: se quest'ultima è i o u, allora la tonica

precedente sarà chiusa, mentre in tutti gli altri casi sarà aperta: [ó]mine/i ‘uomo’;

f[é]mina ‘donna’/’femmina’; b[ó]nu ‘buono’; b[é]llu ‘bello’ ma b[ɔ́]na ‘buona’;

b[ɛ]lla ‘bella’; k[ɛ]ra ‘cera’; b[ɛ]nnere ‘venire’; m[ɔ]rrere ‘morire’; b[ɔ]nos ‘buoni’;

b[ɛ]llos ‘belli’. Nell'area centro-meridionale dell'isola le finali latine -E, -O, che si

conservano nel dominio centro-settentrionale > -i, -u e queste non agiscono sulla

tonica, che rimane aperta: kɔru, frɔri, mentre sarà la U etimologica a determinare la

chiusura: óllu < OLEU(M) , ma ɔllu < *VOLEO. Si creano così coppie minime, ad es.

tεmpus sing. < TEMPUS e tεmpus plur. < *TEMPOS.

In definitiva, la metafonesi non è altro che un fenomeno sincronico di

armonizzazione della lingua, così come altri fenomeni sia vocalici, sia consonantici

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(rispettivamente la nasalizzazione e la lenizione delle occlusive sorde intervocaliche)

che cerca di adeguare organicamente ed economicamente il proprio sistema secondo

tendenze prevalenti, nel modo più economico possibile in funzione della lingua

parlata.

Vocalismo atono

Altri fenomeni vocalici importanti, principalmente sincopi, sono:

La caduta della vocale postonica, soprattutto in parole proparossitone:

(DOMINA > domna, OCULU > oclu, già in Petronio, Satyricon, Coena Trimalkionis) ecc.

Sincope delle vocali di sillaba intertonica: l’intertonica è la sillaba che si colloca

fra l’accento primario e quello secondario: BON(I)TATE > a. it. bontate, fr. bonté, sp.

bontad ecc. Tranne la a, le altre vocali in questa posizione spesso tendono a cadere.

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CONSONANTISMO

Semivocali

Già in latino le semivocali palatale j e velare w tendevano a cadere o a rinforzarsi

diventando consonanti a causa della loro difficoltà a fungere da frontiera sillabica,

come dimostrano forme quali quetus per quietus > i t . cheto ma quieto per trafila

colta. Quanto alla w, essa si pronunciava come fricativa labiovelare (cfr. ingl. wind),

finché dall'epoca imperiale in poi si trova la confusione dei suoni w e b (il latino non

possedeva la fricativa labiodentale sonora v, dunque via si pronunciava [wia]), ad es.

nelle iscrizioni pompeiane baliat per valeat, berus per verus ecc. Da queste iscrizioni

si capisce come si sia verificato il passaggio di -b- e -v- intervocaliche alla fricativa

bilabiale sonora [β] (pronuncia dello spagnolo di nuevo), e in séguito alla fricativa

labiodentale sonora [v] nella gran parte del dominio romanzo, ad es. HABERE > lat.

volg. [aβere] > it. avere, fr. avoir, rum. avea, ma sp. haber [β]. Anche il sardo

conserva per lo più la fricativa intervocalica [β], ad es. [binu] e [su βinu]. A conferma

della contiguità fra v e b si trova il betacismo, ovvero il 'passaggio di v a b’,

soprattutto dopo l, r, ad es. nella Appendix Probi «alveus, non albeus» 'alveo', poi,

nelle lingue romanze, CORVU > rum. corb, ant. fr. corb e corp, poi fr. mod. corbeau <

CORVELLU, sardo corbu/crobu [β], ma it. corvo, sp. cuervo.

Quanto a j, pronunciata come nel fr. payer, era indicata dai grafemi <I> <i> già

utilizzati per indicare la vocale i, per cui IANUAM ['januam]. A partire dal I sec. d.C. j

si consonantizza principalmente in posizione intervocalica, dove tende a evolvere in

geminata, come palesano grafie del tipo maiior. Il passaggio successivo, soprattutto

in italiano, francese, ladino, provenzale, è quello alle affricate [dƷ] e [dz]: IOCUM > it.

gioco, fr. jeu, occit. jòc, port. jogo [Ʒ], rum. joc, mentre nelle varietà del sardo di area

centro-orientale j si conserva in nuor. joku (varietà centro merid. giògu) e, a sua volta,

lo spagnolo realizza una fricativa velare sorda [x] in juego .

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Labiovelari kw e gw

La labiovelare sorda kw tende a perdere l'appendice labiale, a eccezione di sardo

e rumeno, che invece labializzano kw e gw se seguite da a: AQUA > sardo centro-

settentrionale abba, rum. apa. Pertanto, a Pompei si trova comodo per QUOMŌDO;

Appendix Probi «equs non ecus» mentre nelle lingue romanze, si sono avuti risultati

alternanti: dalle forme COQUI e COCI si ha it. cuoco e cuocere, rum. coace, fr. cuire, sp.

cocer ecc., o, ancora, QUATTUOR > it. quattro, sp. quatro, f r . quatre [katR], sardo

battoro. Davanti a i il nesso labiovelare alterna mantenimento (QUĪNDECIM > it.

quindici) o riduzione (QUI, QUID > it. chi), fino a QUINQUE > it. cinque, forma

documentata già in latino (CIL VI 17508, Roma) con cīnque/cīnquaginta. La

labiovelare sonora gw si trova in latino solo preceduta da n, ad es. lingua, e tende a

conservarsi, mentre nel sardo centro-settentrionale e in rumeno si ha la

labializzazione, ad es. LINGUA > limba.

Fenomeni prosodici tra vocalismo e consonantismo

Si è detto come sia fondamentale ricordare il passaggio dalla quantità sillabica

latina al timbro vocalico:

1. vocali lunghe latine > vocali chiuse romanze;

2. vocali brevi latine > vocali aperte romanze.

Abbiamo poi riepilogato le norme accentuative del latino:

1. l’accento cadeva sulla penultima sillaba se questa era lunga, altrimenti sulla

terzultima;

2. vocale breve + due consonanti > lunga (per posizione)

3. muta cum liquida, es. catĕdra, dove la tonica resta breve.

Già nel latino volgare si verificavano degli spostamenti d’accento: il più

importante riguarda quello in cui, in latino classico, la penultima sillaba con ĕ, ŏ era

preceduta da i, e senza che ciò desse vita a un dittongo e in questo caso abbiamo lo

iato: FI-LÌ-O-LUM, MU-LÌ-E-REM, PA-RÌ-E-TEM ecc. Nel latino volgare si eliminano

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progressivamente gli iati formati da ĭ, ĕ + vocale, a causa della difficoltà ad articolare

tali nessi, generalmente attraverso lo sviluppo di un elemento semivocalico e la

riduzione sillabica conseguente a tale sviluppo (FAC-Ĭ-O > fak-jo). Dunque, già nel

latino imperiale le vocali palatali i, e divennero semivocali, per cui lo iato venne a

mancare e si ebbe lo sviluppo di un dittongo: quindi cade la sillaba in più determinata

dallo iato e l’accento non può che risalire di una posizione, con la conseguenza di una

palatalizzazione della consonante precedente: FI-LÌ-O-LUM > *FI-LIÒ-LUM > fi-gliò-

lo, LIN-TE-O-LUM > *LIN-TEÒ-LUM > len-zuò-lo. I nessi formati da consonante +

semivocale coinvolti sono le occlusive velari k, g, dentali t, d, nasale n e liquida l + j,

sibilante s.

L + J > [λ] FOLIUM > it. foglio, fr. feuille, sp. hoja, port. folha, rum. foaie.

T + J > [ts], PUTEÒLI > Pozzuoli ecc. Normalmente, allo spostamento d’accento

segue una modifica nella consonante che precede la semivocale, la quale dapprima si

allunga e poi si palatalizza: PUTEUM > *put-tju > *put-tsu > pozzo ['pottso], a.fr. puis

[uj] (fr. mod. puits), sp. pozo, rum. puţ. Tale evoluzione è attestata già dal II sec. d.C.,

mentre risulta documentata più tardi, intorno al V-VI sec. d.C., l'evoluzione

dell'occlusiva velare sorda, ad es. *FACIAM [fakiam] > it. faccia [tʃ], e in [ts], ant. fr.

fas [fatsə], fr. mod. face [fas], sp. haz, rum. faţă ecc.

D + J > [dƷ] e [dz]: l'esito è coevo dell'esito T + J > [ts]: HODĬE > oggi, fr. hui [uj],

sp. oy [j], sardo oje [j], ma j può anche dileguare e dare oe.

N + D + J: VĔRĔCUNDĬA > [ŋ] : it. vergogna, ant. fr. vergoigne o, più tardo,

vergonde, ma sp. vergüenca [θ].

N + J > [ŋ]: VINEAM > it. vigna, fr. vigne, sp. viña, port. vinha ecc.

L'aspirata

In latino esisteva un'aspirata iniziale di origine indoeuropea <h> e la tendenza alla

deaspirazione, ritenuta di origine etrusca, si nota già in epoca repubblicana con

ipercorrettismi vari. A Pompei (79 d.C.) forme come hire per ire segnalano la

scomparsa dell'aspirata nella pronuncia. Invece, in posizione intervocalica l'aspirata

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era scomparsa già in epoca preletteraria, come si vede dai composti come NEMO <

*ne-hemo (= -homo) e non la si pronunciava neppure in mihi, nihil ecc.

Palatalizzazione delle occlusive velari

L'occlusiva sorda [k] + [e], [i] era pronunciata in latino come mediopalatale (come

nell'it. chiaro, finché non tende a realizzarsi come palatale vera e propria intorno al

III sec. d.C. nell'area del cosiddetto romanzo comune e a evolvere ulteriormente, a

eccezione del sardo e dell'estinto veglioto, ad es. CERVUM -, it. cervo, rum. cerb [tʃ],

f r . cerf, port., cervo[s], sp. ciervo [θ], ma sardo centro-sett. ['kerβu]. Tuttavia,

nonostante la vastità del fenomeno, in latino si hanno indizi grafici modesti e tardi,

ad es. intcitamento per INCITAMENTO (V sec. d.C.). Probabilmente, l'innovazione non

si diffuse fino ai gradi più alti della società e dunque il valore velare poté durare più a

lungo di quanto non sia dato ipotizzare, per presentarsi così in prestiti latini ad altre

lingue che, difatti, mantengono la pronuncia velare, ad es. ted. keller < CELLARIUM.

Inoltre, si è già detto della palatalizzazione delle occlusive velari sorda e sonona

davanti ad a in francese, del tipo CANEM > chien, che si è verificata anche in

engadinese, friulano, ladino dolomitico, provenzale settentrionale e franco-

provenzale, realizzandosi in maniera peculiare a ciascuna di queste aree.

Lenizione delle consonanti occlusive

A proposito della suddivisione fra lingue romanze occidentali e orientali si è

parlato della lenizione delle consonanti occlusive intervocaliche, che consiste

nell’indebolimento (lenizione appunto) di queste ultime nel passaggio dal latino al

romanzo in:

1. Penisola iberica,

2. Francia

3. Italia settentrionale;

4. varietà retoromanze (romancio, ladino e friulano);

5. parzialmente in sardo, dove il fenomeno è più recente, viste le

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attestazioni documentarie medievali che tendono a conservare le occlusive

intervocaliche senza che esse sonorizzino.

Al di sotto della linea La Spezia-Rimini o Massa-Senigallia, che dovrebbe

grosso modo segnare il passaggio dal dominio linguistico dei dialetti settentrionali a

quelli dell'area centromeridionale, toscano compreso, la lenizione è limitata di

conseguenza ai dialetti che stanno al di sopra di questa linea di isoglosse, per quanto

tale suddivisione risulti più sfumata di quanto non sembri.

In breve, lo schema della sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche

è il seguente:

[t] > [d], [δ], [ø]

[p] > [b], [v]

[k] > [g], [γ], [ø]

lat. ROTA; rum. roată; it. ruota; fr. roue; sp. rueda.

SAPONE; rum. săpun; it. sapone; fr. savon; sp. jabón.

URTICA; rum. urzică; it. ortica; fr. ortie; sp. ortiga.

La documentazione latina in merito diventa abbondante solamente a partire dal V

sec. d.C., dunque è difficile stabilire una cronologia precisa del fenomeno.

-s- latina era pronunciata solo sorda, come nello spagnolo, ma finisce per

sonorizzarsi nelle varietà gallo-romanze e nei dialetti italiani settentrionali.

L’italiano si trova in una posizione ambigua: CAUSA > cosa [s], ROSA > rosa [z], ma

presenta sempre [z] quando la sibilante è seguita da consonante sonora (ad es.

sbaglio, trasmettere ecc.), mentre si realizza come [s] quando segue una semivocale

(ad es. siamo).

Fra gli altri fenomeni consonantici si può ricordare rapidamente l’esito di TL > cl:

VETULUM > *vetlu > *veclu > vecchio, passaggio che si ritrova in tutto il dominio

romanzo, trattandosi di un fenomeno che agiva già nel latino arcaico: *POTLOM >

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POCULUM > poclum. Si tratta di una intolleranza a un gruppo consonantico

secondario, cioè formatosi in séguito a una sincope e sostituito con un nesso più

facilmente pronunciabile.

Semplificazione del nesso -ns-: si tratta di un tratto molto ricorrente nei

documenti volgari, attestato fin dal II sec. a.C. Nell'Appendix Probi si trova «mensa

non mesa», e tale assimilazione è attestata in maniera compatta nelle lingue romanze:

SPONSUM > it. sposo, sp. e port. esposo, fr. époux, sardo (i)sposu ecc.

Consonanti finali latine

In generale le consonanti finali sono deboli dal punto di vista articolatorio e sono

dunque portate a subire delle modificazioni, soprattutto in fonosintassi, ovvero in

base alle parole seguenti. Già in latino sappiamo che -m e -s tendevano a cadere, il

che creava problemi di chiarezza in merito ai morfemi flessionali, poiché ad esempio

-m finale, da tempo elisa in metrica e caduca già in iscrizioni del III sec. a.C., era

specialmente deputata alla connotazione del caso accusativo, dunque del

complemento oggetto, al singolare, mentre la -s era la marca dei plurali. Più stabile,

ma anch’essa soggetta a caduta, era -t finale, presente nelle terze persone singolari e

plurali dei verbi. Questo fatto di natura fonetica ebbe forti ripercussioni a livello

morfologico: la declinazione casuale ne risultò assai indebolita tanto che, per iniziare

a distinguere le forme di accusativo e le funzioni grammaticali di un lessema come

amicu si dovette aggiungere una preposizione o uno specificante che precisasse quale

ruolo il lessema ricoprisse nella frase. Un esempio significativo dell’indebolimento

della -m finale e delle sue conseguenze a livello morfologico è fornito da un fascicolo

di 5 lettere risalenti al II sec. d.C., scritte dal soldato di marina Claudio Terenziano al

padre Claudio Tiberiano. Si tratta di una rara attestazione del latino parlato allora in

Egitto e il fenomeno più evidente che si può constatare è proprio la tendenza alla

indistinzione fra nominativo e accusativo, ad. es. saluta Saturninum scriba,

Capitonem centurione … Terentium gubernatorem et Frontone …et Marcellu

collega tuum. Evidentemente, alcune forme sono in accusativo ma quelle successive,

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che dovrebbero concordare nello stesso caso, mancano della -m: es. Saturninum

scriba, Capitonem centurione… Ciò significa che veniva marcato col morfema

accusativale -m solo il primo elemento del sintagma, mentre il secondo era ritenuto

superfluo, quindi eliminato, e si realizzava quindi come lessema, cioè nella forma

base.

Nelle lingue romanze -m finale non lascia traccia, se non in alcuni monosillabi,

trasformata spesso in n: REM > fr. rien; cum > it. sp. con, port. com, sardo kun, ma

rum. cu; QUEM > sp. quien. In SUM/SUNT > it. sono, sardo soe/seu, sun(u), si nota la

presenza della vocale paragogica finale.

La -s finale in latino era più stabile rispetto alla -m e su questa base la Romania si

trova ripartita in due aree, ovvero l'area occidentale, che la conserva e che

comprende anche il sardo, oltre a una parte del ladino, all'ibero-romanzo e al gallo-

romanzo, e l'area orientale, rappresentata da italiano e rumeno, in cui -s > -i o cade.

In breve, nella morfologia nominale l'area occidentale presenta un plurale sigmatico,

così come la 2a pers. sing. dei verbi, mentre quella orientale mostra un plurale

vocalico cui corrisponde la terminazione, sempre vocalica, della 2a pers. sing. NOS

'noi', CANTAS 'canti': sp., port. nos, cantas; cat. nos, cantes; prov. nos, cantas; fr. nous,

chantes (ant. fr. con -s articolata); engad. nus, soprasilv. contas; sardo no(i)s, cantas,

ma it. noi, canti; rum. noi, cînţi. Dunque, il plurale sigmatico, più esteso rispetto a

quello vocalico, deriva dall'accusativo plurale latino, mentre la terminazione -i

(masch.) e -e (femm.) della Romania orientale ha un'origine più controversa: la

terminazione in -i potrebbe derivare regolarmente da AMICI = nom. plur. con

palatalizzazione di [k] + [i] latino e successiva estensione analogica anche ai nomi

della III declinazione (CANES > it. cani, rum. câini). Per i femminili è plausibile la

derivazione da acc. plur. AMICAS > *AMICAJ ([j] < [s] in dileguo, come NOS > noi) >

amicae, dopo però che era terminato l’effetto palatalizzante di [k] + [e], [i]. Infine,

parrebbe che nella Romania orientale si sia generalizzata la caduta di -s dapprima

davanti a consonante sonora. Sembra dunque che sia l'area orientale asigmatica ad

avere innovato, mentre la Romania occidentale, col plurale sigmatico, attesterebbe la

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forma più antica.

La -t si conserva bene in latino, con omissioni solamente sporadiche, mentre nelle

lingue neolatine essa permane nelle desinenze di 3a sing. e 3a plur. in antico francese

e ancora oggi in liaison (croit-il, aiment-ils), ma non negli altri casi, e permane in

sardo (cantat), mentre nel resto della Romania la forma canta/cantan(o) è quella

prevalente. Si veda inoltre l'evoluzione della 3a pers. sing. del verbo essere latino, est,

che evolve in ant. fr. est, poi fr. mod. con articolazione solo in liaison (est-il), prov.,

cat., sp. es, port. é, it. è, rum. e, este, sardo este, esti.

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MORFOSINTASSI

Nelle lingue romanze a eccezione del rumeno non si trovano più i casi e gran parte

dei lemmi di origine latina derivano dall’accusativo singolare e plurale; si trovano

talvolta sporadici residui lessicali di altri casi, ad es. nom. HOMO > it. uomo, fr. on,

rum. om, mentre dall'acc. HOMINEM > fr. homme, sp. hombre, sardo ómine e così per

MULIER > moglie, SANGUEN > sangue ecc. In latino quindi una parte delle funzioni

sintattiche di sostantivi e aggettivi era espressa tramite desinenze: a sei casi

corrispondevano le varie funzioni sintattiche, ma il problema fondamentale nasceva

allorché si creavano pericolosi sincretismi, principalmente l’uso della stessa forma

per più casi. A ciò si sommava il fatto che, con la semplificazione da 8 a 6 casi, molte

delle funzioni grammaticali degli antichi casi locativo e strumentale erano confluiti

nell’ablativo, il che creava un sovraccarico e una complicazione innaturali nel

principio di economia delle lingue; perciò, si può dire che l'attuale situazione delle

lingue romanze, in cui i casi sopravvivono solo nel rumeno, è il risultato di un'antica

e inarrestabile evoluzione. Così, derivante dalla necessità di precisare meglio la

funzione e il valore dei casi e di fianco al cosiddetto sistema sintetico, in cui a una

terminazione casuale corrispondeva una precisa funzione grammaticale, si era però da

tempo sviluppato un sistema analitico, che esprimeva cioè alcune funzioni

grammaticali tramite preposizione. In particolare, la tendenza dell'accusativo a

diventare caso obliquo universale determina una sua sostituzione ai danni

dell'ablativo quando preceduto da preposizione, finché i costrutti preposizionali si

impongono definitivamente sulle forme sintetiche.

Prendiamo quindi in esame i seguenti fattori fonetici:

1. debolezza di -m e successivamente di -s, con difficoltà di distinzione fra

nominativo e accusativo;

2. neutralizzazione della quantità vocalica.

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Il processo di disintegrazione del sistema si verifica però solo a partire dal sec. IV

d.C., mentre in precedenza le attestazioni di confusione fra casi sono talmente

sporadiche da far pensare più a una semplificazione che a una crisi vera e propria.

Invece dal sec. IV d.C., eccezion fatta per la Gallia, si realizza l’indistinzione fra i

casi retti nominativo e accusativo: da quest'ultimo caso deriva una forma invariabile

a marca ø, che non connota cioè in alcun modo genere e numero e che definiremo

lessema. Potremmo dire, quindi, che mentre il latino adottava il sistema specificando

+ specificante, cioè parola + morfema desinenziale, il sistema romanzo invertì:

specificante (preposizione) + specificando (parola), e ciò particolarmente nei casi

obliqui, con l'adozione di sintagmi retti da una proposizione.

Passiamo a soggetto e oggetto: vengono fissate delle posizioni precise nell’ordine

sintattico, che riducono l’estrema libertà che caratterizzava la sintassi latina, da cui

deriva la costruzione bloccata SVO, che rese superflue le marche casuali. Bisogna

chiedersi però se i fenomeni fonetici di cui sopra riescano da soli a giustificare questa

fondamentale trasformazione: pensiamo ad esempio che se leggiamo un periodo

latino comprenderemo più lentamente il significato delle frasi, soprattutto a causa del

fatto che, visto il sistema casuale che favoriva una grande libertà sintattica, quindi

forti separazioni fra soggetto verbo e oggetto, il discorso diventa più lento da

immagazzinare, poiché il significato pieno si avrà solo alla fine del periodo, un po’

come avviene nel tedesco, ad esempio. Perciò la realizzazione fonica di tali periodi

dovrà essere più lenta, per favorire la comprensione, appunto. In una frase romanza

invece il tempo di realizzazione fonica è indubbiamente minore: le lingue romanze e

le innovazioni che le contraddistinguono sono finalizzate a un minor costo di

realizzazione e fanno sì che la parte atona delle parole sia portata a termine con minor

energia articolatoria, quindi in tempo più rapido, il che comporta la caduta delle

sillabe atone, soprattutto nel francese (es. CLAVEM > clef, o QUIRITARE, it. gridare, sp.

critar, fr. crier ecc). Alla minore forza articolatoria nella parte finale della parola,

quindi delle informazioni grammaticali in essa contenute, corrisponde un inevitabile

rafforzamento delle preposizioni, quindi degli specificanti: così, potremo ipotizzare

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che le innovazioni volgari si affermano in funzione della maggiore rapidità del tempo

del discorso conforme alla nuova sintassi. Difatti, mentre il latino prediligeva l’ordine

SOV, secondo l’ordine tipicamente indoeuropeo, le lingue romanze prediligono

l’ordine bloccato SVO, col verbo non più in clausola ma al centro della proposizione.

Si è detto che lemmi romanzi derivano quindi dall’accusativo, con la caduta di -m

e -s. Tuttavia in antico francese e antico occitano si formò una declinazione

bicasuale:

Antico Francese

Singolare Plurale

Nom. li (< dativo ĬLLĪ) murs < MURUS li mur < MURI

Acc. le mur < MURU(M) les murs < MUROS

Idem per l’occitano:

Nom. amics < AMICUS amic < AMICI

Acc. amic < AMICUM amics < AMICOS

Il caso retto o cas sujet corrisponde a soggetto e vocativo, il cas régime o caso

obliquo a tutti gli altri casi. Nella fase moderna della lingua, tanto il francese quanto

l'occitano persero questa distinzione, facendo derivare quasi tutti i lemmi dal caso

obliquo e parificandosi quindi col resto del dominio romanzo. Ciò poiché andava

scomparendo nella pronuncia la -s, che era l’unica marca distintiva rispetto al grado ø

e, difatti, spetta all’articolo il compito di distinguere i singolari dai plurali (es. la

mère, les mères).

La seconda classe nominale non presenta -s al nominativo singolare e rappresenta

solo alcuni nomi latini uscenti in -er:

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Sing. Plur.

Nom. li frere 'fratello' li frere

Acc. le frere les freres

L a terza classe nominale raccoglie i sostantivi e gli aggettivi ad alternanza

radicale:

Sing. Plur.

Nom. l'enfes < INFANS li enfant

Acc. l'enfant < INFANTEM les enfanz

Declinazione nel rumeno

Il rumeno possiede ancora oggi un sistema casuale basato sulla suddivisione fra

nominativo/accusativo e genitivo/dativo, più l’articolo, posposto al nome, nei

femminili, mentre i maschili non sono modificati a seconda del caso, ma solo

nell'articolo:

Maschile (lup 'il lupo'):

Sing. Plur.

Nom. Acc. lupuL lupiI

il lupo' 'i lupi'

Gen. dat lupuLUI lupiLOR

'del, al lupo' 'dei, ai lupi'

Femminile (casa)

Sing. Plur.

Nom. Acc. casĂ cáseLE

'la casa' 'le case'

Gen. dat casEI caseLOR

'della, alla casa ' 'delle, alle case'

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Se però si declina il nome con l'articolo indeterminativo – anch'esso declinabile –

si può vedere meglio come il femminile conservi la distinzione fra casi diretti e

obliqui al singolare, neutralizzandola al plurale, mentre il maschile la neutralizza

comunque e affida la distinzione all'articolo:

Sing. Plur.

Nom. Acc. o (< UNA) casă nişte case (manca l'articolo)

'una casa' 'alcune case'

Gen. dat unei case unor < *UNORUM case

'di, a una casa' 'di, a alcune case'

In più, il rumeno possiede un caso vocativo: omule! 'uomo! in cui la terminazione

in -e è latina e slava, mentre i vocativi terminanti in -o, ad es. bunico 'nonna!' sono di

provenienza unicamente slava. Infine, questo sistema di declinazione è presente solo

nel dacorumeno, mentre gli altri dialetti, ovvero arumeno, istrorumeno e

meglenorumeno, hanno perduto i casi.

Pronomi

Trattandosi di elementi del discorso utilizzati di continuo, nel passaggio dal latino

ai volgari i pronomi conservano le forme flessive che invece andarono perdute nei

nomi e negli aggettivi: ad es. io < EGO; me ogg. dir. < ME, acc. mi ogg. indir. < MIHI, e

cosi per i pronomi di 2a e 3a persona. Per il pronome di 1a sing. io, sardo (d)eo, fr. je,

s p . yo, rum. eu ecc. si parte da una forma *eo: in latino letterario il pronome

personale era utilizzato raramente, mentre nel parlato esso doveva avere un impiego

espressivo assai diffuso, finché non si posizionò prima del verbo, ormai privo di

connotazione espressiva o semantica. In particolare, in latino era presente l'impiego

anaforico del pronome e aggettivo ille e tale uso va consolidandosi nei volgari, tanto

che esso si diffuse come articolo, assente in latino, in tutta la Romania, ad eccezione

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del sardo e di alcune varietà guascone e catalane. Tra le forme dei dimostrativi, si

possono ricordare il dat. ILLĪ che passa al pronome enclitico it. fr. li, sp. le, rum. i,

mentre da illae > it. e sp. le. Peraltro, ILLĪ è analogico sul relat. QUI > it. egli, poi gen.

illuius, dat. illui > it. fr. rum. lui, dat. *illaei > it. lei, ant. fr. *liei > li, rum. li ecc. Il

sardo parte da ipse: IPSUM, IPSAM, IPSOS, IPSAS > issu, issa, issos, issas 'lui, lei, loro';

gen. plur. IPSORUM issoro 'loro', mentre le altre lingue neolatine partono da ILLORUM,

che sostituisce in parte il possessivo suus e perdura nell'it. loro, fr. leur, rum. lor,

eccezion fatta per la Penisola Iberica. Vi sono inoltre delle forme rafforzate con

ecce o eccum + iste/istorum, ille/illorum > it. questo, quello, coloro, costoro; sp.

aquesto, aquello; sardo custu, cuddu, mentre il fr. ant. utilizza le forme, cist, cil > fr.

mod. ce, cet, celui ecc.

L'articolo

L'articolo è un determinante che accompagna obbligatoriamente il sostantivo nelle

lingue neolatine, ma già in latino si aveva un uso similare di ille anaforico, ad es.,

Antimo 84: «Mela bene matura in arborem quae dulcia sunt; nam illa acida non sunt

congrua» '[…] ma quelle acide non convengono'. Un esempio di articoloide nella

Peregrinatio Aetheriae, 15.1: «Requisivi de eo, quam longe esset ipse locus. Tunc ait

ille sanctus presbyter...» 'chiesi […] quanto fosse lontano quel luogo. Allora disse

quel santo vescovo...'. Infine, nella parodia della Lex Salica, metà dell'VIII sec., si

trova un articolo ormai formato: «[...] & ipsa cuppa frangant la tota, ad illo botiliario

frangant lo cabo, at illo scanciono tollant lis potionis» 'e la detta coppa la rompano

tutta, al bottigliere rompano il capo, al coppiere tolgano le bevande'.

È probabile che ille e ipse diventino veri e propri articoli a partire dal VI sec.,

quando cioè i due pronomi, che nel mentre vedono indebolirsi la funzione

pronominale primaria, si riducono allo stato monosillabico, il che spiega le forme

romanze, perlopiù monosillabiche appunto, e i conseguenti rafforzamenti con

ecce/eccu, necessari per evitare la scomparsa dei lemmi e rivitalizzarne il valore

pronominale.

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Va ricordato che, mentre tutte le lingue romanze prepongono l’articolo al

sostantivo, in rumeno esso è posposto come enclitico, analogamente ad altre lingue

baltiche quali albanese e bulgaro, finitime del rumeno e che potrebbero quindi indurci

a spiegare come reazione di sostrato questo fatto. Per quanto concerne la derivazione

dell'articolo da ipse 'stesso' anziché da ille, bisogna precisare che ipse assorbì idem

'medesimo', andando a designare un elemento già noto del discorso in funzione

anaforica, ovvero di ripresa o ripetizione. Infine, si sviluppò l’articolo

indeterminativo del tipo un, uno-a a partire dal numerale latino, già documentato in

epoca arcaica, quando unus = ‘uno solo’ venne ad assumere il senso di quidam,

ovvero del pronome indefinito, quindi ‘uno qualsiasi’.

Generi

Dei tre generi latini il neutro, connotante cose e oggetti, è andato perduto nelle

lingue romanze, a eccezione del rumeno, lingua che conserva una categoria di nomi

cosiddetti ambigeneri, vale a dire maschili al singolare, femminili al plurale,

formandone anche di nuovi (ad es. masch. scaun, femm. scaune < SCAMNUM,

*SCAMNAE per SCAMNA 'sedia') e in alcuni dialetti meridionali italiani, che conservano

un’uscita in -u per i maschili latini (lu vientu) e in -o per i nomi che erano neutri: lo

fierro. In italiano si hanno esempi del tipo braccio-braccia, uovo-uova, labbro-

labbra < BRACHIUM-BRACHIA, OVUM-OVA, LABIUM-LABIA, come pure in fr. feuille, rum.

foaie, sp. hoja, port. folha, sardo foza, folla, singolari che derivano da FOLIA neutro

plur. Tuttavia, rispetto al rumeno, si tratta di fossili e non di forme produttive. È noto

che già in latino si ebbero numerosi passaggi da un genere all’altro, e ad es.

diventarono maschili arbor e vari nomi di piante, mentre neutri plurali del tipo folia,

mirabilia passarono al femminile: foglia, meraviglia. Ciò implica che nelle lingue

romanze i passaggi di genere non fossero sempre uniformi, per cui il neutro mare-is

diventa maschile in italiano e spagnolo ma femminile in fr. (la mer), mentre ad es

tempus passa al maschile in tutte le lingue romanze per influsso dell’uscita in -us,

caratteristica di tale genere in tutte le lingue romanze.

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Crisi del comparativo

In latino classico il comparativo era sintetico, come pure il superlativo: dunque,

esso si otteneva con l’alterazione di grado dell’aggettivo, il quale dal grado 0, altus,

passava al grado positivo, il comparativo altior/-us e al superlativo altissimus,

reintrodotto per via culta in italiano, spagnolo e portoghese. Ancora nel IV d.C. il tipo

analitico, formato da magis + agg. nelle lingue iberiche e nel rumeno (sp. más alto,

port. mais alto, rum. mai înalt) e da plus nei restanti domini romanzi, non si trova che

sporadicamente, mentre accade di frequente che il morfema che denuncia il

comparativo sintetico, es. altior, sia affiancato da magis e plus: una forma come plus

altior chiarisce che il morfema a grado positivo non era più inteso nella sua funzione,

poiché in generale si andava formando una struttura nella quale il morfema

specificante, che connotava cioè in qualche modo, non poteva più essere posposto

allo specificato: nel caso di altior lo specificante era la terminazione -ior, mentre lo

specificando era alt. Idem per il superlativo assoluto, già da tempo in concorrenza

con altre forme quali l’iterazione del grado positivo dell’aggettivo (altior altior), che

si riflette in formule altamente espressive, come ad es. alto alto, costruzioni con

magis ecc. Una volta introdotto l’articolo, questo venne a connotare il superlativo

assoluto rispetto al relativo, il quale per recupero dotto ritornò alla forma sintetica:

altissimo. Si hanno inoltre dei relitti dei comparativi sintetici maior, minor, minus,

peior o peius che dànno in ant. fr. maire, moindre, meilleur, mieux, pire ecc., it.

maggiore, minore, meno, migliore, meglio, peggiore, peggio ecc. In sardo le forme

mezus, peius derivano dai neutri melius, peius. Infine, mentre attualmente magis +

agg. è presente nelle aree laterali della Romania, nel loro stadio più antico le lingue

della Penisola Iberica hanno utilizzato anche plus + agg. il quale a sua volta, rispetto

a magis, s'instaura in luogo del comparativo sintetico in epoca imperiale, da

Tertulliano in poi (160-220 d.C.).

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Il verbo: le coniugazioni

Nell’evoluzione del latino delle 4 coniugazioni (-are, -ēre, -ĕre, -īre), sono la

prima e la quarta a restare più stabili, mentre fra seconda e terza si hanno le

oscillazioni più marcate, a causa della distinzione affidata alla sola quantità vocalica,

tanto che si registrano esitazioni fin dal periodo arcaico. Successivamente, a causa di

processi analogici, i cambiamenti di coniugazione hanno favorito la classe con uscita

in -ĕre, ad es. RIDĔRE in luogo del più corretto RIDĒRE > i t . ridere, fr. rire ecc.

Tuttavia, in spagnolo e portoghese la terza coniugazione è confluita nella seconda

(LEGĔRE > sp. leér, port. ler), mentre in sardo abbiamo I, III e IV, ad es. HABĒRE >

['aεr(ε)], TENĒRE > ['tεnnεrε] ecc.

Inoltre, nell’economizzazione del sistema non c’è posto per gli irregolari di

grande uso a partire dai presenti anomali possum, potes e volo, vīs < POSSE, VELLE, i

quali si modificano a partire dal perfetto potui e volui e dal participio presente potens,

volens in poteo, potebas, ecc, dunque anche nell'infinito *POTĒRE, *VOLĒRE > it.

potere, ant. fr. podeir, pooir, fr. mod. pouvoir, sp. poder, rum. putea, sardo pòder o

pòter, e it. volere, fr. vouloir, sp. cat. voler, rum. vrea. Ugualmente, l'infinito esse

'essere' si regolarizza in it. e sardo essere, ant. fr. estre > être, cat. occit. esser, mentre

esse in area iberica è rimpiazzato da SEDĒRE > sp. seer > ser. Nella Penisola Iberica e

nell'Italia Meridionale, Sicilia esclusa, all'it. e fr. esse+re > essere e être,

corrispondono i verbi ser, estar in sp. e port., esser, estar in catal. Per quanto

concerne habere, si ha haber/tener in sp., haver/ter in port. (haver è ormai un

arcaismo), aver/tenir in catal. Dunque, in sp. ser = 'essere', mentre estar = 'stare', per

cui estamos en casa è utilizzato in luogo di somos < ser. Inoltre, come nell'it. merid.,

tener sostituisce avere non ausiliare, ad es. tengo sed 'ho sete' e si utilizza anche nel

significato di 'dovere' nel tipo tengo que irme 'devo andare'. In francese si registra

l'utilizzo di habere + stare nel tipo avoir été 'essere stato'.

Il passivo

In latino il passivo personale era proprio solo dei verbi transitivi, mentre quello

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impersonale, del tipo itur 'si va', poteva essere costruito con transitivi e intransitivi.

Successivamente, le voci passive sintetiche del tipo amor = ‘sono amato’, amaris 'sei

amato', amatur 'è amato' ecc., scompaiono a favore della forma perifrastica

declinabile amatus -a -um + sum, che in latino classico corrispondeva però al

perfetto passivo ‘fui amato’. Essendo sum un presente, tale forma fu considerata a

sua volta un presente, quindi atta a sostituire amor. Passata così al presente, la forma

del perfectum fu sostituita con amatus fui, che dava bene l’idea di ‘compiuto nel

tempo’. Quindi tutto il passivo organico venne ricostruito in questo modo: participio

perfetto + sum.

Futuro

Il futuro in latino era organico, ma mancava evidentemente di omogeneità nelle

varie coniugazioni: amabo, monebo, legam, audiam, mentre del futuro del verbo

essere, ero, si trova una traccia nell'ant. fr. (i)er, poi sostituito da serai. Inoltre, forme

di fut. pres. come amabit si confondevano con l'ind. pres. amavit, così dices e dicet

con dicis e dicit, oltre alle numerose forme concorrenti perifrastiche che esistevano

già in latino, ad es. gerundio + sum e altre ancora, finché non si diffusero dei futuri

perifrastici i quali sono presenti nelle lingue neolatine, secondo il tipo infinito +

habeo: amabo > amare habeo > *amarabeo > *amarejo > *amaraio > amerò, fr.

amerai, sp. amaré ecc. Tuttavia, in spagnolo e portoghese antichi era possibile

separare le due parti: dar-me-as 'tu mi darai'. Ci è noto un esempio preromanzo di

futuro perifrastico in cui i due elementi sono già fusi e lo si trova nello storico

burgundo Fredegario, che nella sua Cronaca redatta nel VII sec. d.C., 85, 27, scrive:

«Et ille [il re dei persiani] respondebat: “Non dabo”; Iustinianus dicebat: “daras”». Si

tratta di un dialogo fra l'imperatore Giustiniano e il re dei Persiani, appena sconfitto

dal primo che chiede dunque la restituzione delle province. Il re dei persiani rifiuta

(non dabo) e Giustiniano replica con daras, che secondo Fredegario resterà come

nome della città in cui si tenne l'incontro. Inoltre, bisogna chiarire che l'uso di habeo

nella costruzione del futuro perifrastico dipende dalla considerazione del futuro come

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di qualcosa di imposto dal destino, che si esprimeva anche con verbi come debeo e

volo e, difatti, esistono anche forme con inf. + velle: rumeno voi cânta 'lett. voglio

cantare', o con habere a, ad + inf. , come nel sardo sardo appo a cantare ['ap:a

k:an'tare], mentre il dalmatico, anch'esso resistente rispetto al modello romanzo più

diffuso, usava la forma non perifrastica kantu(o)ra < fut. ant. CANTAVERO.

Condizionale

Sullo stesso modello infinito + habeo nacque il condizionale, assente nel latino,

che troviamo nell'apodosi del periodo ipotetico (lo farei, se potessi): la sua

formazione è del molto simile a quella del futuro, in quanto può essere costruito con

infinito + imperfetto o perfetto indicativo di habeo = habebam/habui: es. CANTARE

HABEBAT > fr. chanterait, sp. port. occit. cantaría, oppure, esso poteva essere formato

da CANTARE HEBUIT > it. canterebbe. Come accade per il futuro, nelle fasi antiche di

spagnolo e portoghese gli elementi potevano essere tenuti separati. Inoltre, per quanto

riguarda le tre aree già resistenti al tipo prevalente di futuro, sardo, rumeno e

dalmatico, esse formano il condizionale in maniera peculiare: in rumeno si ha la

costruzione invertita ausiliare ‘avere’ + infinito: am cânta 'canteremmo' o canta am.

In sardo cantare dia o dia a cantare si spiega a partire da DEBERE > déppere 'dovere',

mentre in dalmatico e in alcune aree centromeridionali italiane non è attestato il

condizionale perifrastico o analitico. Invece si è conservato in piuccheperfetto o

trapassato, ad es. CANTAVERAM > dalm. kant(u)ora, che coincide col futuro.

Perfetto

Si veda l'evoluzione delle desinenze latine:

-avi > ai; -ii

-a(vi)sti; -isti

-avit > ait, -aut, -at; -iit > -it

-a(vi)mus; -iimus > -imus

-a(vi)stis; -istis

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-arunt; *-irunt.

In particolare la terminazione della 3a sing. evolvette in -ait > -ò = *cantaut > it.

cantò, sp. cantó, port. cantou, mentre passò a -a(t) in fr. chanta e cat. cantá. A sua

volta -iit (it. partì, fr. partit) si diffuse massicciamente, salvo in sp. e port., dove

prevalse -iut (sp. partió, port. partiu). Assai produttivi furono i perfetti forti

sigmatici del tipo DĪXĪ > dissi, sp. dije, fr. dis ecc. come pure i tipi in -ui, es. fui,

sebbene vada detto che il perfetto tende a perdere terreno a favore del passato

prossimo o perfetto composto, anch'esso perifrastico. Tale erosione del perfetto

semplice è poligenetica nella Romania, poiché avviene secondo modalità differenti

nelle diverse aree linguistiche: ad es. non essa non si è verificata nell'Iberoromania

(portoghese, spagnolo), in occitano, nell'Italia centromeridionale e nel toscano , oltre

che nella lingua letteraria italiana. In Sicilia invece è accaduto il contrario, per cui il

perfetto composto è stato rimpiazzato dal perfetto semplice.

Sintassi

Un cenno riepilogativo va fatto sulla sintassi, quindi sulla posizione occupata dai

vari elementi del discorso: in generale il latino sembra preferire la posizione del

verbo in clausola (S O V oppure O S V), e comunque è ben nota a chi ha tradotto un

po’ di latino l’estrema libertà degli elementi del discorso; un classico esempio è la

frase di Virgilio tacita per amicae silentia lunae ‘per i taciti silenzi dell’amica luna’:

il soggetto silentia è separato dall’aggettivo per la frapposizione del genitivo amicae

lunae: solo, anche lunae e amicae sono separati fra loro, e infine la preposizione per,

che in italiano collocheremmo in principio di frase, è posposta a tacita. In generale

sostantivo e attributo o aggettivo possono stare distanti fra loro: non si faceva ad

esempio troppa distinzione fra urbis salus o salus urbis = ‘la salvezza della città’.

Nelle lingue romanze è invece diffusa la costruzione SVO e l’articolo precede

sempre il nome, con l'eccezione del rumeno (es. lupul = ‘il lupo’). Inoltre, a parte

eccezioni della lingua letteraria o burocratica, (es. il di lei coniuge) l’aggettivo segue

il nome, altrimenti cambiano le sfumature di significato: ad es. un uomo buono è

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diverso da un buon uomo.

Nella fase medievale, le lingue romanze si presentano più libere a livello

sintattico, sebbene anche in questa fase vigessero delle regole abbastanza rigide che,

tuttavia, vedevano prevalentemente il verbo in seconda posizione, mentre la fluidità

maggiore era relativa alla prima posizione, che poteva essere occupata da vari

elementi del discorso e non solo dal soggetto (oggetto diretto e indiretto, avverbi,

soggetto ecc.). In generale, l'ordine SVO era sì presente, ma non frequente come nelle

lingue moderne. In particolare, il francese è l'unica lingua ad ammettere un solo

ordine sintattico preciso, ovvero l'oggetto diretto o ordre direct, ereditato dai

grammatici del '700 i quali ritenevano che la successione SVO fosse l'unica

riconducibile alla logica (langue de la raison). Tuttavia, anche questa lingua presenta

delle eccezioni a tale regola, a partire dalle interrogative, dove il verbo è anteposto al

nome, ad es. Pierre, où est-il? Marie, va-t-elle bien? Sempre per il francese, si può

ricordare la peculiarità della negazione in cui sono presenti obbligatoriamente gli

elementi ne … pas o point: Je n'irai pas là o je n'irai point. 'non ci andrò', sebbene la

presenza di ne si stia indebolendo, soprattutto a livello colloquiale. In francese

moderno è dunque obbligatorio l’ordine SVO, es. tu dis des choses bien dures;

durante il Medioevo era praticamente regolare la seconda posizione del verbo o verb

second, mentre in apertura potevano stare tanto un avverbio, quanto soggetto o

oggetto. Tale relativa libertà nel primo elemento era dovuta al mantenimento della

declinazione bicasuale, che favoriva appunto una comprensione da parte del

ricevente a prescindere dalla posizione di soggetto e complemento. Essa però viene

fortemente minata dalla perdita della -s e della -t finali, cui seguono a ruota quella di

-nt nelle 3e plurali (disent) e della -e, per cui nella pronuncia si avevano

numerosissimi omofoni (je dis, tu dis, il dise, ils disent, con l’eccezione di 1a e 2a

plur.: disons, disez) che era necessario distinguere tramite la dislocazione a sinistra di

un elemento del discorso chiarificatore e obbligatorio: il cosiddetto prenom sujet.

Così, mentre in italiano diremo volentieri mangiano per loro mangiano o essi

mangiano, in francese è obbligatorio e necessario specificare che ils mangent,

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altrimenti potremmo dire, col solo mangent, ‘io mangio, tu mangi, egli mangia, essi

mangiano’.

Sempre in epoca medievale vigeva la legge di Tobler-Mussafia: tale legge

stabilisce la posizione dei pronomi atoni rispetto ai verbi di modo finito nell'it. del

Duecento e del primo Trecento, sebbene tale norma vigesse anche in antico francese

e occitano. All'inizio della frase l'enclisi è obbligatoria: «Ruppemi l'alto sonno nella

testa» (Dante, Inf., IV, 1), come pure dopo congiunzioni del tipo e, ma, o: «E

cheggioti, per quel che tu più brami», Purg. XIII, 148; «Mal volentier lo dico; ma

sforzami la tua chiara favella» Inf., XVIII, 52-53. Negli altri casi si utilizza la proclisi.

Nella lingua odierna tracce di tale norma vigono negli imperativi, ad es. dimmi, nei

modi indefiniti (dirmi), nel gerundio (muovendosi) e nelle formule cristallizzate

vendesi, dicesi ecc.

Un cenno finale alla subordinazione: mentre in latino era normale dopo i

cosiddetti verba dicendi, sentiendi, sperandi ecc., esprimere la proposizione

subordinata tramite oggetto + infinito, la cosiddetta infinitiva o oggettiva (censeo

Carthaginem esse delendam o delendam esse 'penso che Cartagine debba essere

distrutta') le lingue romanze non continuano affatto tale costruzione, e sostituiscono

l’infinito con un quod che introduce un verbo di modo finito: credo che tu sia… Il

quod diventa che, fr. que sp. que, sardo ka, più antico, e ki, di derivazione italiana o

spagnola (que) ecc., e diventa polifunzionale, atto cioè a ricoprire varie funzioni

sintattiche all’interno del discorso.

Principali teorie sul passaggio dal latino ai volgari

In conclusione del discorso sul latino volgare, vediamo poi un quadro rapidissimo

delle principali teorie sviluppatesi sul passaggio dal latino alle lingue romanze.

1) Ad esempio si pensò che il latino fosse stato corrotto dalle invasioni barbariche

e che quindi, a partire dalle diverse popolazioni germaniche stanziatesi in ogni punto

dell’impero, corrispondesse un dato tipo di corruzione del latino. Ciò non è affatto

comprovabile, poiché è impossibile che una famiglia linguistica assai differente

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Page 41: IL LATINO VOLGARE Anzitutto, · Tevere, evolvette di pari passo con la società romana e con l’accrescimento della popolazione e il suo progressivo inurbamento. Si dovrà dunque

rispetto a quella latina potesse scalzare quest’ultima, dando però esito a lingue che

sono comunque la prosecuzione del latino.

2) Si pensò poi che già in epoca classica vi fosse una perenne diglossia fra il latino

alto e letterario e quello quotidiano o latino volgare: da ciò sarebbe nata la distinzione

fra latino grammaticale, immobile, e quello parlato, dal quale originerebbero i volgari

romanzi. Chiaramente non abbiamo alcuna prova di una simile diglossia; inoltre,

come ha efficacemente dimostrato Michel Banniard, c’è molta più continuità nel

sistema fra latino arcaico, classico, imperiale, tardo (IV sec in poi) e protoromanzo, di

quanto una simile teoria, molto accreditata nella communis opinio, lasci

minimamente trasparire. Banniard ritiene a ragione che niente provi che la

metamorfosi del latino parlato tardo in protoromanzo derivi da una evoluzione che

riguardi il solo latino degli illetterati; a ciò va aggiunto che:

1. il latino resta lingua di comunicazione molto più a lungo di quanto sia opinione

comune;

2. che il distacco fra lingua popolare e lingua colta sia avvenuto molto meno

repentinamente di quanto si dica;

3. il latino resta a disposizione, sebbene semi-diretta, per le élites laiche anche nel

tardo Medioevo come superstrato più o meno latente.

3 ) Abbiamo poi visto come l’Ascoli abbia sviluppato con generale profitto la

teoria dei sostrati, per cui si evinse che la differenziazione fra i vari latini fosse

addebitabile in buona misura alle lingue palate in precedenza nelle varie provincie

colonizzate. Il fatto è che, mentre nel caso di alcuni specifici fenomeni la teoria dei

sostrati può essere di una qualche utilità, nel caso della differenziazione all’interno

del latino nei vari “latini” da cui deriverebbero le lingue romanze, è difficilissimo

ricondurre il tutto a lingue praticamente sconosciute come i dialetti italici o il non

attestato antico germanico: non vi è insomma base d’appoggio. Inoltre, viene da

chiedersi come mai nella Romània nuova non vi sia che un debole influsso delle

lingue indigene preesistenti alla colonizzazione spagnola, portoghese o francese nei

vari domini coloniali.

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Page 42: IL LATINO VOLGARE Anzitutto, · Tevere, evolvette di pari passo con la società romana e con l’accrescimento della popolazione e il suo progressivo inurbamento. Si dovrà dunque

4 ) A partire da una teoria esposta da Gustav Gröber su una differenziazione

cronologica della latinizzazione delle varie provincie, per cui il latino giunto in

Sardegna nel III sec. era più arcaico di quello importato in Gallia nel I, da cui

derivava la maggiore conservatività del sardo, Wilhelm von Wartburg pensò che la

Romània occidentale (Gallia, Iberia e ovviamente Italia) fosse stata colonizzata da

ceti più colti e quindi più ligi alla grammatica, mentre la Romània orientale da soldati

e contadini che parlavano una varietà meno normativizzata. Da ciò si sarebbe avuto

un primo discrimine fra lingue romanze occidentali e orientali, cui si sarebbero poi

sovrapposti i parlari dei vari superstrati germanici, che avrebbero completato la

frantumazione latina. L’ipotesi non è affatto sciocca nel principio di una relativa

differenziazione dei latini all’interno delle provincie, tuttavia non vi sono documenti

che possano giustificare di per sé la nascita dei volgari a partire da una netta

suddivisione fra latino colto e latino popolare in questa o quella regione.

5) Infine, il linguista inglese R. Wright ha ipotizzato che i volgari romanzi non

costituiscano la continuazione del latino tout court, ma di quello medievale,

merovingio, carolingio ecc. Secondo Wright, difatti, fra VIII e IX secolo si scriveva

in un romanzo cammuffato da latino, il quale, difatti, non si leggeva più secondo la

sua grafia, come accade oggi, ad esempio, per inglese e francese, scritti in modo assai

difforme rispetto alla pronuncia. Una volta che la corte carolina decise di re-istituire

la norma latina classica, si creò così la frattura fra il latino restaurato e quella

competenza, ormai indebolita ma ancora esistente, di questa lingua secondo la sua

realizzazione tarda, e quindi si “inventarono” i volgari. Wright coglie nel giusto

quando rimarca il fatto che il latino non era più letto secondo la grafia ancora in uso,

ma non spiega affatto come da una differenziazione fra scripta e pronuncia nel latino

si sarebbe giunti ai volgari, che per lui sarebbero il frutto della necessità di trovare

una grafia corrispondente ai nuovi suoni. Ciò accadde anche in epoca pienamente

latina, come dimostra il tentativo di introdurre il digamma per indicare la labiodentale

sonora v da u, eppure il sistema entrò in crisi molti secoli dopo.

Diciamo insomma che, finché il latino corrispose ad un’entità politica e statuale

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Page 43: IL LATINO VOLGARE Anzitutto, · Tevere, evolvette di pari passo con la società romana e con l’accrescimento della popolazione e il suo progressivo inurbamento. Si dovrà dunque

precisa come l’Impero, le evoluzioni si verificarono compatibilmente con una norma

linguistica rappresentata dal latino imperiale e sancita dagli auctores, pur con forti

variazioni, ad esempio, fra latino d’Africa e latino d’Iberia, senza che però potesse

nascere una varietà talmente individualizzata da originare un parlare nuovo, anche

per il contributo delle lingue di sostrato. Fino al III d.C. quindi, possiamo dire che il

latino è, in generale, un sistema differenziato al suo interno ma ancora organico e

coeso, sebbene già dagli ultimi anni del II sec. d.C. la decadenza della classe

dirigente, il clima di anarchia politica e militare, cui conseguiva la crescente

indipendenza delle provincie, si potesse presagire la mancanza di uno stato capace di

tenere insieme l’enorme gigante dai piedi d’argilla che era il tardo Impero. E in

effetti, è opinione diffusa che il grande Tacito (muore nel 117 d.C.) sia stato l’ultimo

autore ad utilizzare il latino classico “con naturalezza”, cioè senza che esso fosse

impartito dalla scuola e dai libri, quindi quale lingua che si andava artificializzando.

Dopo questo periodo, una volta caduto l’impero nel 476, venne a cadere la stessa

entità statuale, quindi il centro attorno al quale gravitava l’unità culturale e

linguistica, cui si sovrappose la frammentazione determinata dalle invasioni

barbariche. Con la suddivisione in più regni, le entità statuali divennero molteplici:

quella gotica, franca ecc. In Italia vi fu la spaccatura fra impero bizantino, grecofono,

(da Roma a Venezia) e il regno Longobardo, germanofono, nella pianura padana e

oltre. Roma non fu che il simbolo di un tempo ormai lontano, e venuta a mancare la

norma linguistica latina della capitale, si ebbero i latini parlati dai ceti dirigenti nei

diversi regni, ora sì con forti differenziazioni, cui si aggiungevano quelle preesistenti,

riconducibili alle differenti colonizzazioni: pensiamo oggi ai vari italiani regionali,

per cui determinati vocaboli od espressioni saranno comuni a Roma, ma molto meno

a Cagliari; eppure, non è compromessa la comprensione reciproca fra un romano e un

cagliaritano, a meno che entrambi non intendano non farsi capire. Quindi, tali

differenziazioni, senza una norma unitaria, passarono da eccezione a regola, dando

quindi vita ad un protoromanzo diverso in ogni regione, e che poté evolversi di

conseguenza in maniera indipendentemente da zona a zona, con tratti di continuità

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Page 44: IL LATINO VOLGARE Anzitutto, · Tevere, evolvette di pari passo con la società romana e con l’accrescimento della popolazione e il suo progressivo inurbamento. Si dovrà dunque

rispetto alla lingua madre, ma anche di grande innovazione. Venuta meno la

corrispondenza fra Roma e romanus, venne meno anche il principio di unità

linguistica che, dopo la riforma carolinga, impedì ulteriormente la comprensione del

latino se non ai ceti più colti. Da ciò derivò un’ancor più profonda specializzazione

dei diversi pre-volgari, e la definitiva cancellazione del senso di appartenenza al

vecchio impero, quello dei Cesari, e non di Carlo Magno e Papa Leone, sancito il 25

dicembre dell’800, in un’epoca ben lontana dai fasti prima repubblicani, poi

imperiali.

Oltre a ciò è opportuno ricordare che la crisi della familia romana, la quale era un

raggruppamento reso unito non tanto dai vincoli di sangue, ma dalla soggezione

totale nei confronti del pater familias (spiegare gen. familiai > familias, sopravvissuto

solo in questa espressione). La dissoluzione di questa struttura, associata alla crisi dei

valori determinata dal cristianesimo, minarono alle fondamenta la cultura

propriamente romana. Tuttavia, l’avvento del latino volgare non nasce a partire da

una decadenza dell’Impero, bensì dalla nuova cultura originatasi dal contatto con la

civiltà greca. L’innesto del greco fu decisivo, e prestiti in settori del lessico in cui non

esisteva il corrispettivo in latino dànno la misura della loro importanza: idea,

fantasia, ma anche vocaboli che sostituiscono quelli preesistenti e latini: cataunus per

quisque, > catà > sardo e sp. cada, plaga ecc, oltre a diverse costruzioni sintattiche.

Quindi possiamo vedere il greco, rappresentante di un cosmopolitismo che spingeva

a d emanciparsi dal culto delle tradizioni locali, come un importante impulso al

rinnovamento che, assieme ad altri fattori storici (invasioni barbariche), culturali

(avvento del cristianesimo) e fonetico-morfologici di cui sopra, possono aiutarci a

completare il quadro della rivoluzione che ci conduce ad essere continuatori neolatini

di una madre progenitrice indoeuropea che si fa custode di noi stessi.

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