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Daniela Trovato IL FRAMMENTO MANCANTE

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Daniela Trovato

IL FRAMMENTO MANCANTE

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Daniela Trovato, Il frammento mancanteCopyright© 2018 Edizioni del Faro

Gruppo Editoriale Tangram SrlVia Verdi, 9/A – 38122 Trento

www.edizionidelfaro.it – [email protected]

Prima edizione: giugno 2018 – Printed in EUISBN 978‑88‑6537‑656‑0

In copertina: Stone, Tommileew – Pixabay.com

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Dal pontile

Graffi di sole,triangoli iridatifra bagliori e scintille,una folagasegue il suo verso.

Lontano,fra urla festantie schizzi giocosi,immerso,nel silenzio,stai.

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A chi mi ha detto un giorno:“Prova tu, adesso”.

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Prefazione

Se potessi scrivere una prefazione in inglese per questo la‑voro avrei scritto: «She did it again!» che, tradotto in ita‑liano potrebbe essere «L’ha fatto ancora!»

Ma la traduzione italiana non rende appieno il signi‑ficato della frase inglese. Comunque la domanda sorge spontanea: cosa avrebbe rifatto? Un capolavoro. Né più né meno.

Un’autrice nuova, nuova in tutto, in ciò che racconta e in come lo racconta. Ha cominciato con brevi storie, piccole tragedie se vogliamo, in cui la pianista che è in lei, appena sotto la superficie, si è “scaldata” la mano componendo dei brevi scherzi musicali che poi, e questo racconto ne è la di‑mostrazione, sono evoluti in una sinfonia, compiuta e tra‑scinante.

La storia prende spunto da una vera tragedia del nostro recente passato ma Daniela riesce a temperarla in una ma‑gnifica storia d’amore, dove questo è il sentimento che si trova in ogni pagina, amore per le persone, descritte a tal punto che ci sembra di averle sempre conosciute, che fac‑

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| 10 Prefazione |

ciano parte del nostro quotidiano e a cui ci affezioniamo al punto di condividere con Erich il dolore e la pena per una colpa che lui per primo non sa perdonarsi. Riusciamo a ri‑dere con Livia, a sperare con lei nel raggiungimento dell’a‑more completo, quasi fosse l’eredità che Erich vuole pas‑sare a coloro a cui vuol bene.

Amore per i luoghi, che Daniela dimostra non solo di co‑noscere bene ma anche di esserci emotivamente attaccata.

Amore anche per noi lettori, perché ci rende la lettura scorrevole e piacevole e perché riempie le nostre ore libere con la descrizione di persone e posti meravigliosi in cui ci piacerebbe restare al più lungo possibile.

E la sinfonia si sviluppa con un crescendo permeato di mistero e con un linguaggio che Daniela usa come un ar‑peggio, modificandoci i toni, portandoci prima una riga sopra e, poco dopo, una riga sotto il pentagramma dei no‑stri sentimenti, sempre nella pienezza magistrale della sua musica.

Un unico appunto mi sento di farle: dopo averci fatto entrare in un mondo magnifico, a contatto di belle per‑sone, ce ne priva, purtroppo, troppo presto. Avremmo vo‑luto continuare a convivere con loro ancora per settimane, avere un secondo volume da leggere, e magari anche un terzo. Invece, purtroppo, ora siamo tutti un po’ più orfani.

Edmondo Trombetta

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La tranquillità

Livia camminava tra le vie del piccolo paese, dove abita‑vano i suoi genitori, arroccato fra le montagne dell’alto‑piano della Vigolana, in Trentino, lì dove la valle incro‑ciava due massicci e al centro scorreva, a tratti placido, il Brenta. Il fiume accarezzava dolcemente il fondovalle e il Centa vi si immetteva alla sua destra, un torrente che scor‑reva indisturbato e che, scomparendo sotto le viscere della terra, riappariva un poco più in là, come se fosse appena nato dalla sua sorgente. In questo ambiente suggestivo e selvaggio, Livia vi si recava spesso, per trascorrere piacevoli ore in libertà all’insegna dello sport e del contatto con la natura, praticando escursioni a piedi, in mountain bike o a cavallo, costeggiando l’alveo del torrente, lungo le bianche rive ghiaiose del fiume e risalire su, a raggiungere le ca‑ratteristiche cascatelle di Valimpach, fino a raggiungere il ponte, dove l’itinerario finiva e ci si poteva così rimet‑tere sulla strada asfaltata. La zona era un intreccio tra cul‑tura, storia e paesaggi naturali, disseminata di antichi masi e piccole fortificazioni risalenti alla prima guerra mondiale

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costruite e scavate nella nuda roccia dagli austriaci, motivo di attrazione e interesse per i numerosi escursionisti che si avventuravano ad affrontare il sentiero n.  218, impegna‑tivo e ripido.

Livia aveva trascorso l’intera giornata con la sua cara amica Cristina a Trento, alle Muse, il museo della Scienza, che tanto l’aveva affascinata quando, a fine anno scola‑stico, era andata con i suoi alunni, in visita. Era rimasta attratta soprattutto dalla produzione, con una stampante tridimensionale, di un ciondolino, una leggiadra farfalla di plastica colorata che l’esperto dell’attività, le aveva poi regalato per ricordo. Insieme erano andate un po’ in giro, per fare qualche acquisto, e avevano pranzato in un fast food. Avevano chiacchierato a lungo, alternando le risate alla confessione di piccoli segreti, pettegolezzi tra amiche, che fecero loro scattare anche ironici sorrisini. Peccatucci di provincia su qualche amica in comune, che scatenavano innocue invidie e gelosie.

Decisero di ritornare che era già buio, ma non si curarono più di tanto dell’ora tarda. Era una mite sera di inizio d’au‑tunno e ancora si sentiva il dolce tepore estivo. Era stata una strana estate quella: frequenti piogge avevano rinfrescato, forse eccessivamente, le giornate e non aveva dato loro la possibilità di andare a prendere il sole o a fare le escursioni o qualche giro in bici lungo le rive ciclabili dei due laghi contigui. Distanti appena una decina di chilometri, i due laghetti rappresentavano per Livia, la pace e il silenzio. Si animavano durante il periodo estivo quando frotte di tu‑risti olandesi arrivavano a metà luglio con le loro roulotte

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al seguito e si impiantavano nei due campeggi sulle rive del limpido lago, il suo lago. Rompevano quella pace eccessiva‑mente silenziosa dell’inverno e non si udivano altro che gli schiamazzi festanti dei bambini, che si immergevano incu‑ranti dell’acqua fredda del lago. Del resto, portavano anche una ventata di colori con i loro materassini e i palloni gi‑ganti, con la loro presenza e, il fatto che ritornassero ogni estate, stava a indicare quanto amassero quei luoghi, im‑mersi come un tutt’uno nella variegata vegetazione, tra le multi specie di fiori che crescevano spontaneamente, mac‑chiando qua e là, di rosso, giallo e lilla, il verde brillante degli alti alberi. Il lago rifletteva nei suoi colori, quel cielo limpido a volte punteggiato di bianche nuvole che, con i loro lievi movimenti, creavano le più assurde forme che gli occhi di una donna un po’ romantica potessero immagi‑nare. Un po’ più in alto sorgeva una minuscola chiesetta, ri‑salente al medioevo, circondata da rigogliosi gerani dai pe‑tali arricciati e profumati, tonalità crescenti che variavano dal rosa pallido al viola scuro, e dal fragile incanto dei rodo‑dendri intrecciati agli arbusti rampicanti di arancioni e lilla buganvillee, una cascata di rami e foglie, che in quell’estate umida si era ricoperta di numerosissime infiorescenze, deci‑samente molto appariscenti. La natura era ancora generosa in quella stagione che apriva le porte al prossimo inverno.

Livia, viveva lì. Aveva deciso di trasferirsi a valle, affit‑tando una casetta con un piccolo giardino, proprio di fronte al lago.

Spesso andava a trovare Cristina che viveva un po’ di‑stante da lei. Lungo il tragitto, alto e maestoso, si ergeva tra

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file innumerevoli di piantagioni di meli, il castello di Thun, che dominava la Val di Non. Un’armoniosa unione di un castello medioevale con ampi giardini e possenti fortifica‑zioni a una natura antropizzata ma rispettata dagli agricol‑tori della zona, che raccoglievano i loro frutti dalla fertile terra della vallata. Attraversava la Valsugana e si immetteva in quella di Non. E il paesaggio mutava, i monti cambia‑vano colore, il sole mandava i suoi raggi adesso più bassi e le montagne si stagliavano verso il cielo, creando ombre in‑naturali. I paesini si snodavano a una certa distanza l’uno dall’altro e tra la folta vegetazione che ricopriva dove era possibile le montagne, si scorgeva una villa bianca, nascosta tra gli alberi. Sorgeva in alto e spesso Livia si chiedeva chi vivesse lassù, isolato dal mondo: l’idea di una irreale realtà la stuzzicava e la attraeva, e si riprometteva che un giorno, chissà, sarebbe andata a curiosare, idealizzando un luogo misterioso e pieno di segreti. Al più presto, anzi, avrebbe convinto la sua cara amica a salire fino alla casa dell’arcano, proponendole quella strana e inusuale gita.

Intanto la sua vita scorreva nella routine quotidiana e nel suo lavoro di insegnante elementare, ripreso già ai primi di settembre: ritrovarsi con i suoi colleghi era, come sempre, piacevole. La sosta estiva le permetteva di riposarsi, rin‑francarsi e rimettere a posto i pezzetti del puzzle che du‑rante i mesi scolastici a volte si smarrivano. I suoi allievi la adoravano. Vedevano in lei non una maestra, ma quasi una compagna di gioco e di studio. Livia parlava in modo semplice ed era così dolce che i bambini si sentivano lette‑ralmente rapiti. Amava insegnare, riteneva che il suo non

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fosse un lavoro bensì una missione, svolta con passione e tale si rivelava ai piccoli che apprezzavano tutto ciò che lei proponeva sotto forma di un gioco. I bambini ridevano so‑prattutto quando per sdrammatizzare o approfondire un argomento nuovo e ostico, ci si metteva in cerchio e recita‑vano, come in un teatrino: i numeri e le parole erano i per‑sonaggi, la lavagna il palcoscenico.

Livia aveva una personalità sensibile, schiva ma incline alle belle arti. Nelle serate di freddo invernale, amava sdraiarsi sul comodo divano in cucina, di fronte al camino acceso e scriveva, raccontava le sue storie, a volte narrando l’amore altre parlando della quotidianità. Il suo PC era il suo modo, quasi intimo, di raccontare se stessa, i suoi pen‑sieri, i suoi timori, le sue gioie, i suoi stati d’animo. Scri‑veva così di getto, senza avere un plot preciso, i suoi rac‑conti sembravano sgorgare dalle sue dita, che si muovevano agilmente sulla tastiera, sembrava sapessero già le parole da scrivere e la fantasia, la sua vena creativa marciava con un ritmo continuo e pulsante. A volte, si svegliava presto al mattino, amava sentire l’aria fresca accarezzarle il viso e ammirare l’alba, con i suoi colori cangianti, nel dileguarsi delle tenebre che cedevano dolcemente il posto ai delicati colori, ogni mattina sempre così diversi. Ancora una volta veniva presa dall’impulso di scrivere e di nuovo riprendeva senza tregua a narrare le sue storie, caratterizzate da uno spirito creativo in continua evoluzione. Tutto era iniziato qualche mese prima, durante uno dei tanti corsi di aggior‑namento organizzati dalla scuola, erano intervenuti do‑centi professionalmente preparati sull’argomento, e tanti

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altri dalle scuole vicine. I lavori di gruppo che si svolsero dopo la teoria diedero il modo di socializzare e scambiare le proprie opinioni. Il corso prevedeva di elaborare un testo adattabile ai bambini, utilizzando vari metodi e tecnologie e, da lì nacque, o meglio esplose, quello che era già dentro di sé, nascosto. Cominciò così una strana avventura, di cui lei stessa non riusciva a rendersi effettivamente conto. Provò e ciò che uscì fuori dal suo cuore, più che dalla sua mente, era piacevole pensarlo, scriverlo, leggerlo. E lei si di‑vertiva, si emozionava nel farlo. Troppe idee si accavalla‑vano nella mente che Livia sgombrava in fretta: scriveva alla rinfusa, sotto forma di brevissimi appunti, ovunque le capitasse, scontrini, buste per il pane, o volantini pubblici‑tari così come venivano e, il solo scriverlo sulla carta le dava la possibilità di riconoscere le idee migliori, eliminando le altre. Riusciva così a “mettere insieme”, associando i pen‑sieri e, legandoli come anelli di una catena, produceva già mentalmente il suo racconto, una scaletta cui aggiungeva o toglieva idee, come una bussola indispensabile per non smarrirsi.

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La casualità

Aveva trascorso il sabato mattino a riposare più a lungo del solito, non amava crogiolarsi nel letto ma quella mattina restò sotto le coperte perché non aveva impegni da sbri‑gare. Poi mollemente si alzò, aprì le imposte, ammirò l’in‑cantevole paesaggio che le si mostrava davanti agli occhi, il sole colpiva con i suoi raggi, le acque limpide e cristal‑line del lago, che luccicava, a intermittenza, mettendole ad‑dosso gioia solo a guardarlo. Decise che avrebbe fatto una passeggiata, lungo la stradina che lo costeggiava, e celer‑mente fece colazione, indossò dei jeans e una felpa e uscì.

Lungo il tragitto, fu attratta dalle vele delle barche che si muovevano ondeggiando, creando un gioco di colori che la rallegrarono ancora di più. Scese dal ripido sen‑tiero che conduceva fino all’imbarcadero e qui ebbe uno strano quanto gradevole incontro. Un cucciolo di cane guaiva dietro un cespuglio e Livia gli si avvicinò cauta‑mente per non spaventarlo. Il cagnolino sembrava impau‑rito e lei, spinta dalla tenerezza, lo prese in braccio, lo acca‑rezzò teneramente e lui sembrò apprezzare le dolci coccole.

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Decise di chiedere in giro, l’imbarcadero era affollato di gente per via della regata in corso, ma alla sua richiesta di appartenenza, nessuno assentì. Lo avrebbe tenuto con sé. Fu questa la sua decisione. La scelta del nome fu l’unica ti‑tubanza, ma alla fine lo chiamò Fortunello. E il cucciolo di beagle sembrò apprezzarlo, perché scodinzolò allegra‑mente. Fece ritorno a casa, felice. Sin da piccola aveva desi‑derato avere tutto per sé un cagnolino e, adesso gli avrebbe dedicato il suo tempo libero, compatibilmente con gli im‑pegni di lavoro. Nel pomeriggio telefonò a Cristina per renderla partecipe del nuovo arrivo in casa. Chiacchiera‑rono come sempre a lungo delle loro vicissitudini e intanto le chiese di vedersi il giorno dopo per andare a fare un giro su in montagna. Non le spiegò esattamente né dove sareb‑bero andate, né cosa avrebbero fatto, ma Cristina fu con‑tenta di vederla, era da un po’ di giorni che non si incon‑travano.

Il mattino seguente, di buon’ora, Livia si presentò a casa di Cristina che era già pronta e insieme a Fortunello, si av‑viarono. In auto ritenne opportuno dirle cosa avesse in mente e Cristina restò un po’ sconcertata, ma anche lei aveva notato la casa, su in mezzo alla boscaglia e anche per lei era una curiosità da sciogliere. Si inoltrarono attraverso la Valle dei Mocheni, una valle poco distante dalla città di Trento, che aveva mantenuto intatto il suo fascino, conser‑vando una dimensione autentica, intima e profonda. “La valle incantata”, così la aveva denominata Robert Musil, lo scrittore austriaco, che trascorse, come ufficiale al fronte italiano, tre mesi a Palù del Fersina, nel 1915; egli rimasto

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affascinato dalla Valle, dalle sue atmosfere, dai suoi abi‑tanti e, soprattutto dall’idioma, un’isola linguistica dove bavarese, tedesco e italiano si fondevano, caratterizzandola profondamente nella lingua mochena. “Un bosco incantato di vecchi tronchi di larice, gli aghi teneri, un pendio verde. Il ruscello a un certo punto cade su di una roccia come un pet-tine d’argento” da “Grigia”, una novella scritta in base delle annotazioni raccolte nei Diari durante il suo soggiorno in Trentino, precisamente nella valle del Fersina, in occasione del primo conflitto mondiale.

Attraversare quella valle significava vivere un’esperienza di ospitalità originale, dove era possibile immergersi to‑talmente in un’atmosfera unica nel panorama alpino, de‑terminata dal particolare contesto naturale, dalla cultura e dalle tradizioni che la caratterizzavano. Le cime delle montagne della Valle si scorgevano già dal basso, ma una volta entrati ci si sentiva proiettati altrove, in un ambiente lontano, distante dalla quotidianità, ma estremamente reale. Lontana dal turismo di massa, la Valle aveva mante‑nuto intatto il suo fascino, da esplorare in punta di piedi, pronti a cogliere quello che voleva comunicare al visitatore che si avventurava verso il mistero di luoghi ancora da sco‑prire e da vivere. Tra i due versanti della catena montuosa disposta a ferro di cavallo, scorreva il torrente Fersina e, lungo il suo corso, numerose testimonianze delle attività di un tempo: un’antica segheria alla veneziana, un mulino e tracce dell’attività mineraria con gli ingressi ben visibili delle miniere e i paesini, costituiti da piccole case e masi sparsi, piccole aziende a conduzione familiare, produttori

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di eccellenza di fragole, mirtilli, more e ribes, con cui si preparavano confetture, sciroppi e succhi.

Le due amiche si fermarono a Sant’Orsola per acqui‑stare della gustosa lucanica mochena, un insaccato tipico trentino, aromatizzata con l’aggiunta di bacche di ginepro e delle confetture di mirtilli e uva spina. Si rimisero in marcia e iniziarono a inerpicarsi per un sentiero, che un cartello indicava non avere sbocco, ma ormai avevano de‑ciso di avventurarsi e continuarono imperterrite. La strada si presentò subito difficoltosa, poiché da asfaltata si tra‑sformò in un sentiero sterrato e, ancora più avanti, diventò alquanto accidentata. Le frequenti piogge avevano causato piccoli smottamenti del terreno e in alcuni punti sembrava fosse addirittura impraticabile. Decisero di proseguire a piedi e lasciarono l’auto in una piazzola, dove zampillava, da una fontana, acqua fresca. Seguirono le indicazioni che, attraverso una forestale nel bosco di larici, portava verso un capanno da caccia posto su un albero. In quel punto, un bivio divideva in due il sentiero, a destra una leggera di‑scesa arrivava alla Cross de Mala, un fantastico punto pa‑noramico per fotografare il paesaggio mozzafiato. A sini‑stra una mulattiera in salita, delimitata da diversi muretti a secco, si inoltrava tra ruderi di masi e baite dai caratteristici tetti a scandole, abbandonati nel passato. Erano ben attrez‑zate, le scarpe da trekking attutivano i sassi che sembrava quasi non fossero attaccati al terreno: ormai consideravano la gita come una scoperta di un luogo misterioso. Fortu‑nello si fermò, a un tratto, si rifiutava di andare avanti con le sue zampe, forse era stanco o forse come ogni cane pre‑

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sagiva che l’avventura avrebbe avuto un risvolto a dir poco spiacevole.

Parlarono per lasciar correre il tempo più velocemente e intanto si avvicinavano alla loro meta. Prima di giungere, però, sotto i ciuffi d’erba videro delle fragoline e dei lam‑poni e si fermarono per raccoglierli. Erano deliziosi e così, ancora più animate, proseguirono. Era una bella giornata di sole, qua e là delle nuvole lo coprivano ma subito si dile‑guavano rendendo di nuovo il cielo terso. Gli alberi fron‑dosi però nascondevano la vista del panorama sottostante e in alcuni punti nascondevano anche il cielo, che sembrava a tratti oscurarsi tanto era l’ombra che essi creavano. At‑torno a loro un silenzio avvolgente, una pace quasi tom‑bale. Un brivido improvviso le colse, inaspettato. Forse si erano inoltrate un po’ inconsciamente, su per l’erta, da sole. Non incontrarono anima viva, nessun cercatore di funghi e neanche un escursionista solitario. Forse, si dis‑sero, sarebbe stato il caso di non procedere avanti e magari ritornare, ma Livia era troppo curiosa e convinse la titu‑bante Cristina a continuare, mancava ormai poco. E ave‑vano camminato tanto, tornare giù a valle non avrebbe avuto un senso logico.

A un tratto eccola lì, la villa. Si ergeva nella sua maesto‑sità. Le due donne restarono a bocca aperta, incapaci di credere a ciò che si poneva davanti al loro sguardo. Era una costruzione imponente, circondata da alberi secolari, ma il prospetto anteriore era sgombro di alberi, solo fiori e ce‑spugli. Dal piazzale, lo sguardo spaziava verso il suggestivo panorama e non si trovavano parole per poterlo descrivere.

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In lontananza, infatti, si vedevano le alte cime dei monti e incastonati fra essi pittoreschi paesini tra cui spiccavano le caratteristiche chiesette dal campanili a cipolla che sotto i raggi del sole sembrava brillassero. Più in basso, nell’ampia e verde vallata, tra gli alberi ormai ingialliti, il fiume creava il suo ghirigoro di anse e cascatelle. La villa, delimitata da una staccionata in legno, aveva davanti un verdissimo prato e aiuole ben curate che facevano da cornice al portico, dove vi era un salottino in vimini scuro e un tavolinetto in vetro su cui una zucca arancione faceva bella mostra di sé.

Si avvicinarono, un po’ guardinghe, la casa non sembrava affatto disabitata, troppa cura nella vegetazione, ma le im‑poste in legno erano tutte chiuse. Una serie di scalini con‑duceva a un portone di legno scuro e, dal battente di ottone pendeva una ghirlanda di edera intrecciata a delle bacche rosse. Le vetrate al pianterreno non avevano imposte e si intravedevano delle tende, chiuse e colorate. Di certo, lì viveva qualcuno, e ancora una volta pensarono che forse sarebbe stato il caso di tornare indietro. La villa aveva un non so che di misterioso, e il mistero non era il momento di risolverlo adesso. Forse fra qualche giorno sarebbero ri‑tornate ma ora… Fortunello ancora in braccio a Livia, pia‑gnucolava non stava fermo, agitando il capino indietro. Era chiaro che anche a lui quel luogo non piacesse. Ma ormai dovevano scoprire, e così, con molta calma, si avvicinarono alla porta di ingresso e, tenendosi per mano, provarono a bussare. Dall’interno si udì un sinistro rimbombo, come se la casa fosse vuota e priva di mobilia. Ma troppa perfe‑zione vi era intorno per pensare che fosse disabitata. Ripro‑

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varono ancora e intanto Fortunello, sceso dalle braccia di Livia, giocava rincorrendo una lucertolina. Notarono che accanto alla porta vi era un mazzo di chiavi. Non era il caso di provare una di esse, ma si sa le donne per loro natura sono estremamente curiose. Livia le prese, rimase un po’ a osservarle, girandole e rigirandole tra le mani, infine provò quella che secondo lei potesse adattarsi alla serratura, e in‑filò tremando, la chiave. La pesante porta si aprì in un at‑timo, e ciò che si presentò davanti fu incredibile.

Le finestre lasciavano trasparire la luce soffusa del sole, ri‑schiarando l’immenso atrio del pianterreno. A terra il par‑quet era coperto in parte da grandi pregiati tappeti persiani dai colori vivi e intensi. Al centro un pianoforte scuro pa‑droneggiava la sala. Sul leggio alcuni spartiti che il tempo e l’usura avevano ingiallito. Su di esso delle cornici con delle foto, ritratti risalenti almeno a quarant’anni prima, e dei graziosi angioletti di ceramica Thun, facevano da con‑torno. Alle pareti la damascata carta da parati era legger‑mente scrostata dal muro ma rendeva ancora l’idea di una sala sfarzosa, adibita certamente a sala da ballo, o ricevi‑mento importante; proprio di fronte a due accoglienti di‑vani a fiori e due comode poltrone, un caminetto in marmo bianco e sulla mensola scintillavano ninnoli in vetro di Murano, raffiguranti animaletti di varia misura, posti in ordine di grandezza. Una scala di marmo bianco di Car‑rara troneggiava a destra, il corrimano in legno portava lo sguardo al piano superiore. Dal soffitto, ornato di stucchi, pendevano due immensi lampadari di cristallo che vibra‑rono scintillando all’apertura della porta e ciò fece capire

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che doveva esserci qualche altra porta esterna aperta, una corrente d’aria aveva di certo provocato il lieve movimento.

Cristina pensò subito che ciò che stavano facendo non seguiva né la logica né la legalità. Violazione di domicilio, comunque senza reato di effrazione e chissà cos’altro, di certo avrebbero avuto qualche problemino, ma ormai erano lì, e bisognava scoprire quale mistero si celasse nella villa bianca. Fortunello era rimasto fuori a scorrazzare sul prato, adesso era una farfallina l’oggetto del suo correre e del suo gioco e il campanellino nel collarino verde che Livia gli aveva messo al collo, tintinnava allegramente. Spinte da una forza che le faceva muovere come due au‑tomi, Livia e Cristina iniziarono a salire su per le scale, e il bianco e lucido marmo sotto le loro scarpe da trekking, sfregava producendo un suono strano come di foglie ac‑cartocciate. Mentre salivano le loro mani si strinsero an‑cora di più, ma solo un leggero timore le preoccupava, erano ansiose di sapere. Alla fine della scalinata, ancora una volta un senso di meraviglia e incredulità le colse, nell’ampio e lungo corridoio, una schiera di porte quasi tutte chiuse che si inseguivano e si snodavano con una re‑golare continuità. In fondo a esso, un’ampia portafinestra dava luce al disimpegno, alle pareti enormi quadri, alcuni senza cornice, facevano bella mostra con figure dall’a‑spetto altero e in pose tutte uguali, che sembravano le se‑guissero con gli occhi.

Le due donne si guardarono, chiedendosi con gli occhi cosa ci facessero lì, da sole, in una casa sconosciuta, quasi come due ladre. Chi le avesse viste di certo avrebbe pen‑

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Prefazione 9

La tranquillità 11

La casualità 17

La curiosità 30

L’amore 38

La riflessione 48

L’inaspettato 55

La certezza 67

La sorpresa 75

Il dono 80

L’epilogo 89

Breve commento 91

Ringraziamenti 93