il foglio di yorick

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il foglio di yorick idee da leggere inoltrare stampare http://www.yorickthefool.blogspot.com/ dire ciò che forse non si dovrebbe dire (ciò che è scomodo dire?), per fare proposte “inat- tuali” nel senso di Nietzsche, proposte fuori tempo... utopiche, che qui si tenta di risveg- liare la sua voce. perchè dovremo rima- nere confinati in ciò che è e non provare ad inventare ciò che an- cora non è? ma per fare ciò, ci vuole un po’ di follia; anzi, c’è bisogno del risveglio di una moltitu- dine di folli. la follia è definita solo dalla pros- pettiva di ciò che det- ta le regole, di ciò che “domina”. Musil lo chiama “il senso della realtà”, e già quasi un secolo fa si chiedeva perchè mai “si dovrebbe dare più importan- za a ciò che è, che a ciò che non è”. per lui, dare più importanza a ciò che non è o non è ancora è vivere secondo il “senso della possibilità”, più che secondo quello della “realtà”. nanza interna ed invisibile. Non è forse il momento che anche in noi, come in Amleto, la sua voce inizi a parlare? è per provare ad articolare in parole e pensieri un’altra idea di presente, per Yorick dunque, di per sè, non ha mai avuto voce; egli parla nelle voci altrui, quasi come una riso- [email protected] numero zero

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idee da leggere inoltrare stampare

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il foglio di yorick

idee da leggere inoltrare stampare

http://www

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fool.blogs

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dire ciò che

forse non si dovrebbe dire (ciò che è scomodo dire?), per fare proposte “inat-

tuali” nel senso

di Nietzsche, proposte fuori tempo... utopiche, che qui si tenta di risveg-

liare la sua voce.

perchè dovremo rima-

nere confinati in ciò che è e non provare ad

inventare ciò che an-

cora non è? ma per

fare ciò, ci vuole un po’ di follia; anzi, c’è

bisogno del risveglio

di una moltitu-

dine di folli. la follia è definita solo dalla pros-

pettiva di ciò che det-

ta le regole,

di ciò che “domina”. Musil lo chiama “il senso della

realtà”, e già quasi un

secolo fa

si chiedeva perchè mai “si dovrebbe dare più importan-

za a ciò che è, che a ciò

che

non è”. per lui, dare più importanza a ciò che non è o

non è ancora è vivere secondo il “senso

della possibilità”, più che secondo quello della “realtà”.

nanza interna ed invisibile. Non è forse il momento che anche in noi, come in Amleto, la sua voce

inizi a parlare? è per provare ad articolare in parole e pensieri un’altra idea di presente, per

Yorick dunque, di per sè, non ha mai avuto voce; egli parla nelle voci altrui, quasi come una riso-

[email protected]

numero zero

Che cos’è “il foglio di yorick”, questa cosa che avete appena “aperto” (già, ma senza sfogliarlo!) e che, forse, vi ap-prestate a leggere? Si potrebbe cominciare dicendo che non è una “cosa” ben definita. È piuttosto “più cose” alla ricerca di una sintesi, di una forma nuova. Dunque è anche un tentativo, una prova: appunto, un esperimento. Proviamo a mettere un po’ d’ordine.

Cosa ci troveremo dentro. Primo esperimento.Aprire uno spazio critico. “il foglio di yorick” vorrebbe essere un luogo per molte voci, luogo del pluralismo dello sguardo sul nostro tempo. Ma vorrebbe anche andare oltre la presentazione delle molte voci: non vorrebbe arrestarsi ad una generica condanna del nostro presente, alla denuncia e all’informazione; vorrebbe anche essere uno spazio in cui lo sguar-do e la critica del presente assumono una prospettiva progettuale, sforzandosi di tracciare i contorni di un futuro pos-sibile. Uno spazio di critica e di proposta, quindi; un foglio a partire dal quale parlare, discutere. Perché la critica mutila se stessa se non diviene (pro)positiva e non favorisce l’incontro.

Forme intermedie. Secondo esperimento.Carta o schermo. Libro o e-book. Lo scenario del presente è un’intersezione di modi e supporti comunicativi, nessuno dei quali è ancora risultato vincente. Lanciare una sfida. Far interagire questi modi antagonisti in maniera virtuosa, com-plice. Il sottotitolo dice: idee da leggere inoltrare stampare. Leggere: il formato A4 orizzontale rende agevole la lettura a schermo intero (ctrl+L), rimanendo funzionale anche alla stampa su carta nel formato più tradizionale. I links attivi, colorati, permettono inoltre di usare “il foglio di yorick” come un ipertesto, collegandolo alla rete e aprendolo oltre i suoi stessi confini.Inoltrare: la diffusione de “il foglio di yorick” sarà gratuita e a portata di mouse, facile per tutti i suoi lettori.Stampare: forse la scommessa maggiore. Ogni articolo sarà un piccolo “foglio” autonomo, con tutti i riferimenti e le indi-cazioni presenti sul giornale. L’idea è quella dello “stampa e diffondi”: ogni lettore potrà stampare l’articolo che più gli è piaciuto o che ritiene più importante, lasciandolo poi nei luoghi dove potrà essere letto da altre persone che en-treranno così in contatto con il mondo di yorick. Autobus, uffici, aule studio, piazze…. Ovunque. Stampare, insomma, per seminare le idee su terreni che forse sono fertili ma che non conosciamo nemmeno. E qui arriviamo ad una ulteriore scom-messa.

Un nuovo lettore. Terzo esperimento.Creare partecipazione, condivisione, allargare la cerchia del dibattito. Un nuovo lettore, che non si limiti a rilanci-are con un clic di mouse. “stampa e diffondi” vuol dire anche scegliere luoghi da colonizzare, territori incerti verso i quali aprirsi, territori intorpiditi da scuotere. Un modo, anche, per uscire dalla virtualità telematica, per ricreare una agorà fatta di voci, di sguardi, di toni, di sostanza. Passare nelle mani di una persona un’ idea per il nostro presente è occasione di parole, di conoscenza, di scambio che non sempre un “inoltra” garantisce. Un lettore che partecipi, dunque, all’opera di informazione e di proposta. Un lettore che diventi anche autore, rispondendo agli articoli e inviandone di propri.

Tutto questo è in movimento, si nutre di idee scambiate tra amici a volte migliaia di km lontani. Assomiglia molto ad una avventura, e come ogni avventura non sa dove andrà a finire e chi incontrerà, né che mezzi adopererà. L’unica cosa di cui noi siamo convinti è che abbiamo bisogno di nuove forme per poter continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto: pen-sare.

il progetto_tre esperimenti

indice ... editoriale

Eccoci pronti a presentare il primo “esemplare” del “foglio di yorick”, un numero che abbiamo deciso di chiamare numero “zero”, per sottolinearne il carattere sperimentale e provvisorio, quasi di scommessa un po’ pazza che non sappiamo dove ci porterà. Ques-to, naturalmente, dipende anche da voi lettori, dalle vostre opin-ioni e dai vostri riscontri.

Voci dalla scuola. Come educare a stare al… mondo p.5 La scuola come laboratorio di convivenza e luogo di esperienza interculturale. Una testimonianza diretta che ci porta direttamente in classe, con ragazzi ed insegnante impegnati nel difficile ma appassionante dialogo per costruire una convivenza dal volto davvero umano.

di Caterina Ugoli.

Visti da fuori. Un’esperienza francese p.9Un simpatico ma implacabile confronto tra il “Bel Paese” e il suo vicino francese, che mette a nudo differenze di trat-tamento e prospettive per i giovani e non solo. Un termometro anomalo per misurare il “grado di civiltà”.

di Roberta Zarantonello.

Verona alza la testa p.7Il 13 Maggio, con il via alla raccolta firme per il referendum sul traforo delle torricelle, la società civile di Ve-rona ha mostrato di sapersi destare dal torpore politico e di sapersi organizzare, rivendicando il proprio diritto a decidere di se stessa. Analisi di un risveglio che può portare lontano.

di Stefano Pippa.

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indice ... editoriale

La “rivolta dei mouse” e l’impotenza della società civile p.18Una lettera al direttore di Micromega che si chiede come si può organizzare una vera “opposizione civile”, uscendo dal-la rete e dandosi quella dimensione propositiva che fino ad ora le è mancata.

di Stefano Pippa.

Vecchie ideologie e nuove prospettive p.13Dalla conclamata (ma per questo tanto più sospetta) “morte delle ideologie” alla necessità di una nuova sinistra, ital-iana ma non solo. Un viaggio attraverso le figure del nostro tempo, dal muro di Berlino alla tv italiana, fino alla ne-cessità di pensare nuovi concetti per una mutata realtà.

di Stefano Pippa.

Politica a Verona p.11Dalla debacle di Zanotto al “ménage osceno” tra Lega Nord e neofascismo: lo scenario politico veronese e le prospettive di un impegno che può cambiare la città.

di Benny Calasanzio.

Per portare avanti la nostra iniziativa abbiamo bisogno di voi… quindi “leggi inoltra e stampa!”, come dice il nostro motto. Se ogni lettore lo invia ad anche solo 5 persone, in un batter d’occhio arriviamo ad una “tiratura” di 1000 copie! Aspettiamo i vostri commenti e i vostri consigli, le vostre lettere, le vostre segnalazioni, e ovviamente i vostri articoli… non esitate a scriv-erci, vogliamo continuare a ragionare e pensare assieme; facciamo crescere le idee!

Il “caso Mantova” e le prospettive del Pd p.16Intervista a Daniele Pagliarini, ex responsabile comunicazione del comune di Mantova.

a cura di Yorick the Fool.

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svolgere un programma (e farlo per tut-ti), relazionarsi con i compagni e gli insegnanti, collaborare, fare la ricrea-zione insieme, frequentare un luogo per sei giorni su sette e per nove mesi su dodici.

E così arriviamo al come, che banalmente e in modo pressappochista riassumiamo nel termine “integrazione”.Prima di approdare in questo luogo dove lavoro, integrazione per me signifi-cava due cose. La prima, un ricordo: all’asilo avevo un compagno nigeriano, William, e io ci giocavo lo stesso an-che se era nero e nelle foto di gruppo non gli si vedeva mai bene il viso se non per la lucentezza del suo largo sorriso. La seconda, una sorta di con-cetto morale che avevo maturato ai tempi dell’università e che riassumevo nel-la frase “Voglio lavorare nell’ambito dell’intercultura” che pronunciavo con grande soddisfazione, soprattutto per-ché suscitava terrore negli occhi di mia madre. Ma letteralmente il termine “integrare” deriva dal latino “integer”, dunque vuol dire rendere integro, intero, non solo, ma anche completo e conforme a gius-tizia. E’ come prendere un puzzle in-somma e cercare di combinarne i pezzi nel modo più sensato, secondo giustizia, appunto. Quindi in fin dei conti un concetto morale c’è, la giustizia. E la scuola non solo rientra nell’ampio pal-azzo della giustizia ma è tutelata dalla stanza più preziosa del diritto. Dunque, non dimentichiamo il significato e paragoniamolo con quello che arriva da ben altri palazzi, dove si ragiona e dove si fanno leggi che dovrebbero “ri-formare” la scuola. Leggi che obbligano a dei tetti di presenza, non più del 30% degli allievi stranieri, o leggi che

Brevi cenni sull’esperienza didattica con allievi stranieri e italiani

Parlare di lavoro si sa non fa mai bene. Ma mi hanno chiesto di farlo per questa occasione e lo farò. E considerando il fatto che la mia “professione” rispec-chia quello sono, penso e credo, non mi sarà neanche difficile raccontarvela. In fin dei conti vi parlo di me.

Dunque iniziamo. Prima da dove. Per-ché il luogo di cui vi parlo è carico di significato. Innanzitutto sorge, come altri luoghi di Verona del resto, dritto in faccia all’Adige, così porta un po’ con sé il ritmo del fiume che scorre, perché lo respira a causa del-la vicinanza, perché ha a che fare con flussi inarrestabili. Di ragazzi, prima di tutto, e poi anche di madri, di pa-dri, di cittadini italiani e non. Ecco è questo il punto di forza, perché nel Centro di Formazione Professionale Enaip si iscrivono ogni anno più di 70 alunni stranieri, cioè il 40 % degli iscritti. Ed è un numero destinato ad aumentare.

E senza volerlo ho già introdotto il “cosa”. La sostanza. O meglio ciò a cui cerchiamo di trasmettere una sostanza, un’identità, una formazione culturale e professionale. Gli allievi, le persone che ogni giorno frequentano la scuola. Si tratta, per questo anno scolastico che sta ormai volgendo al termine, di 34 romeni, 10 brasiliani, 8 ganesi, 9 nige-riani, 5 marocchini, 3 albanesi, 1 ven-ezuelano, di cui molti appena arrivati in Italia . Non sono cifre da capo giro se consideriamo che nell’anno scolastico 2009-10 in Italia gli allievi strani-eri contano le 629 mila unità. Ma sono cifre che parlano di azioni quotidiane. Che significano: comprendere la lingua, il foglio di yorick

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caterina ugoli

come educare a stare al ...mondo

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nostra città. Un successo. Numero di allievi stranieri sul palco: 15, numero allievi italiani: 5. Non è difficile capire allora quale sia la nostra mission. E’ vero che il nos-tro scopo primario è quello di promuo-vere non solo il lavoro, ma anche e soprattutto la crescita civile, so-ciale e professionale delle persone, con particolare attenzione a quelle più svantaggiate, ma è anche vero che per questo i nostri allievi hanno una mar-cia in più. Nessuno di loro considera lo straniero un nemico, perché ci ha convissuto condividendo un banco. Nes-suno di loro considera lo straniero un approfittatore perché ha visto quanta fatica ci voglia per imparare una lingua e le regole di un paese. Nessuno di loro considera uno straniero un criminale perché ha capito che sono loro ad aver paura di noi. E tutti al termine del loro percorso triennale potranno dire di aver vissuto, appreso, imparato avendo di fronte un piccolo spaccato di mondo e non solo di città o addirittura di quar-tiere.

Se per meglio apprendere è necessario sperimentare allora devo ammettere che tutti questi allievi saranno degli ot-timi cittadini perché hanno provato a stare in un microcosmo, la classe, che possiamo definire, mondo.

volgono ad una separazione tra italiani e non perché così si va meglio con il pro-gramma. Lavorare con una classe “mista” è molto difficile è vero. Prima di tutto è dif-ficile per l’insegnante perché deve tro-vare un modo per comunicare e comunicare con tutti. Poi perché si devono fare i conti con una mole di programma non in-differente e si devono preparare prove di livelli diversi quindi è complicato valu-tare tutti con i medesimi parametri.

Ma lavorare con una classe mista è anche emozionante e si ottengono dei risultati sorprendenti. Eccoci arrivati al perché. Ve lo spiego con un esempio. Un giorno volevo spiegare in classe un brano dei Promessi Sposi, l’addio ai monti. Ebbene i miei allievi stranieri pur non com-prendendo appieno la struttura del testo ne avevano colto in pieno il significa-to. Perché era scritto sulla loro pelle. E così iniziarono a raccontare la loro esperienza di migrazione ai compagni che capirono molto meglio ciò che provava la sventurata Lucia mentre si allontanava da “u paesello”. Ho i ricordi densi di episodi di questo tipo. Ultimo fra tutti il successo che hanno ottenuto sul palcoscenico quando, guidati dal regista Alessandro Anderloni hanno messo in scena lo spettacolo teat-rale “La panchina”. Una variopinta rap-presentazione delle contraddizioni della

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motore del referendum, autorizzandolo a procedere e caricando le spese legali sulle spalle del comune. Per la sua os-tinazione, la giunta perde più di 5000 euro (che potevano ad esempio essere spese in finanziamenti sociali e cul-turali? Sono pochi, si dirà, ma 5000 a zero non è nulla), e anche- cosa forse più importante- la sua intangibilità. La struttura democratica vince sul consenso uno a zero. Chi l’avrebbe mai detto, a Verona?

Ora la sfida è di raccogliere le firme necessarie entro fine giugno. (alla stesura dell’articolo era appena par-tita la raccolta firme, che ora ha am-piamente raggiunto l’obiettivo minimo, n.d.r.) Ne servono 7500, e non sono poche: ma la mobilitazione c’è e le forze disposte a spendersi per questa avventura sembrano essere tante. Ma al di là dell’esito che il referen-dum potrà avere, se si farà (cosa molto probabile), alcuni rilievi devono essere fatti già ora. Il dato fondamentale è che in città, dove la Lega sembra aver dilagato e dove il consenso sarebbe, secondo le indicazioni elettorali, alle stelle, si riscontrano forze di resist-enza. Va detto che queste forze di re-sistenza sono riuscite ad organizzarsi non tanto attorno ad una opposizione ideologica al credo leghista di Flavio Tosi, ma attorno a questioni davvero specifiche che riguardano l’immediata vita di ciascuno, l’interesse stesso dei cittadini. Il comitatismo, in ef-fetti, è speso pericoloso: riunisce at-torno a particolarismi interessati, e non è sempre detto che le forze lì riu-nite si traducano in spinta politica di più ampio respiro. Ma nel tal caso, qui non è in gioco una questione di espro-prio di territori, di strade che pas-

Dal 13 Maggio 2010 la giunta leghis-ta di Verona, presieduta dal sinda-co Tosi, non può più dirsi immune da crepe. Forse è ancora il “sindaco più amato d’Italia”, ma per la prima volta ha dovuto cedere di fronte ad una op-posizione interna cittadina che ha sem-pre creduto di poter trascurare. Lo sceriffo e la sua squadra tengono da anni la città sotto controllo, forti di una maggioranza compatta e decisionista che scavalca de facto tanto il dibat-tito democratico in sede istituzionale quanto il confronto con l’opinione pub-blica, tenuta a bada con mosse propagan-distiche sia dell’amministrazione locale sia dall’astuta macchina del consenso leghista nazionale; ma di fronte ad una questione così delicata come quella di un’opera pubblica, il cosiddetto “tra-foro delle torricelle”, una nuova auto-strada cittadina, che 1) mette in gioco i soldi (tanti) dei cittadini, 2) scon-volge parte del territorio veronese au-mentandone l’area cementificata, 3) non può che incrementare la mole di traffico in una delle città più inquinate del nord Italia che già soffre dell’incrocio di due tra le principali autostrade del nord (A4 e A22), la propaganda legista e il suo populismo retorico poco hanno potuto. Anzi, forzando la mano, negando ostinatamente la richiesta di un ref-erendum cittadino accampando che il traforo era stato promesso in campagna elettorale e sostenendo quindi che il suo adempimento sarebbe rientrato nella semplice esecuzione del programma stes-so (mentre in realtà il costo è aumen-tato notevolmente e il progetto stesso è mutato), il sindaco ha dato prova dell’autoritarismo della sua giunta, andando però a cozzare contro la balance des pouvoirs: il Tribunale di Verona ha accolto le richieste del comitato pro-il foglio di yorick

verona alza la testa

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stefano pippa

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riattivati nel sopito tessuto sociale veronese, e si svelano incompatibili con il modello proposto dal partito del “per te”. Ritorna in scena la necessità del pensiero: ciò che è da pensare è nien-temeno che la gerarchia degli interessi dei cittadini. E qui, inaspettatamente, valori più universali si oppongono al particolarismo fomentato dalla lega. E tutto ciò, a Verona.

Un percorso politico può- e deve- trarre ispirazione da questa esperienza. Questo referendum dice molto di più di quan-to non appaia, perché va letto come un segno di risveglio. Ci sono sfere che la demagogia non può arrivare a colo-nizzare, riflessioni che sembrano avere radici più solide di quelle che il non-pensiero regolato dai media può giungere a sradicare. Questo referendum deve apr-ire un percorso per la città di Verona, un percorso di recupero di una coscienza civica forte, di una coscienza critica vigile che si ponga come severo censore delle scelte politiche asservite ad al-tro che all’interesse pubblico di tutti gli attori sociali del suo spazio po-litico. Questo referendum può diventare l’inizio di questo percorso, perché di-mostra che, se è vero che il sonno della ragione genera mostri, quella ragione non è del tutto narcotizzata e ha ancora la possibilità di librarsi in spazi più alti, dove stanno valori più universali ed importanti, e dove il “per te” si fa davvero politico nel suo senso più preg-nante ed universale. Questa ragione è sveglia anche a Verona. Forse è proprio il caso di dire: buongiorno, notte!

sano sopra i tetti o dentro gli orti di alcuni cittadini; o meglio, se questo è effettivamente in gioco, c’è anche molto altro. Si tratta di un’opposizione ad un certo modello di sviluppo cittadino. Si rende evidente, ora, che anche nel gi-oco della Lega Nord qualcosa va storto: il “vota per te” degli adesivi abusiva-mente attaccati ai semafori delle vie del centro viene messo fuori fuoco, la sua trasparenza si appanna. Una arte-ria cittadina, a pagamento, che mi per-metta forse di arrivare prima al lavoro, ma che incentivi l’uso dell’auto (avete mai visto le colonne d’auto veronesi? Sono un magro esempio di triste solitu-dine moderna: uno per macchina, sguar-do fisso sul semaforo e sull’orologio, cellulare in mano per mancanza di con-tatto umano, chiusi come si è tra quat-tro lamiere e un motore), di conseguenza promuovendo l’inquinamento e affossando l’idea di servizio pubblico, unico rime-dio all’aumento dei valori delle polveri sottili: tutto questo è “per me”? E una serie di centri commerciali lungo questa tangenziale, tra le belle colline vero-nesi, opere garantite in saldo dal comune alla ditta appaltata, anche questo è “per me”? A qualcuno potrebbe venire il sos-petto che ci siano sotto altri interessi. Forse il sindaco più amato d’Italia di-aloga con qualche potentato economico prima che con i cittadini? La penetrante retorica del voto interessato (già di per sé antipolitico nel senso più nobile dell’universalismo che la politica as-sumerebbe in un lessico post-illuminista) si appanna e vacilla, nel momento stesso in cui l’amministrazione, certo inavver-titamente, mette in movimento stimoli che sono come un reagente per l’attivazione di un pensiero più alto. Valori come “salute” e “ambiente”, con i connessi diritti, vengono dalla stessa Lega Nord

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timanali di un dipendente pubblico, e delle norme che tutelano la donna e la maternità, in uno stato più laico e meno maschilista. Consiglio l’emigrazione an-che agli anziani, che potranno trovare con facilità persone disposte a lasciare loro il posto in metropolitana e numer-osi centri di cultura in cui trascorrere il tempo libero.Amo il mio paese, ma credo che sia un dovere di tutte le persone intelligenti ammettere quando si deve “prendere esem-pio”.

Ecco alcuni motivi per cui credo che la Francia sia un posto migliore in cui vi-vere. Ho stilato questo elenco quasi per gioco, una volta rientrata in Italia, e l’ho diffuso via Facebook.

1- il governo francese ti aiuta a pagare l’affitto, sia che tu sia studente, sia che tu sia lavoratore (da un minimo di 110 euro mensili).

2- il governo francese mette a dispo-sizione concorsi ed esami di stato (per chi vuole diventare insegnante ci sono ad esempio tre concorsi differenti)

3- c’è un salario minimo decente

4- i preservativi costano la metà e le sigarette costano di più

5- più figli hai più aiuti sociali hai

6- l’università costa 300 euro all’anno (in Italia 2000)

7- se prendi un salario minimo non paghi nemmeno il dentista

8- con un lavoro qualsiasi part time potresti vivere decentemente visto che

Mi sono innamorata per la prima volta a 14 anni, quando ho capito che la filoso–fia e la sottesa pratica maieutica potevano scuotere l’uomo attraverso il dialogo e la ragione. Purtroppo il mio successivo scuotimen-to è stato un’amara scoperta: in Ita-lia questo antico amore per la sapienza non viene soltanto considerato obso-leto e inutile, ma il paese sembra es-sersi fermato ai tempi in cui, durante la rivoluzione industriale, la nascita della scienza economica aveva ridotto il valore delle azioni e dei saperi alla loro utilità.Mi sono innamorata la seconda volta quando ho scoperto, vivendoci e lavo-randoci, che nel pese dei lumi la cul-tura umanistica (e la cultura in gene-rale) è considerata parte integrante del “bagaglio” personale dalla maggior parte dei francesi.Italiano: Studi filosofia? Ah e come farai per trovare lavoro?? Ma la filoso-fia a cosa serve?Francese: Studi filosofia? Bello, ho appena letto L’arte di essere felici. Ma è vera quella storia che Schopenhauer parlava solo col suo cane?

É per questo e per altri motivi – tra i quali il modello di integrazione e gli innumerevoli aiuti sociali - che mi sono innamorata per la seconda volta quando ho scoperto un paese migliore, dove la vita è, per chi ama la sapienza, più dignitosa.

Consiglierei infatti a tutti i giova-ni diplomati e alle giovani coppie con figli di trasferirsi in Francia: i primi per intraprendere la carriera universi-taria, i secondi per usufruire dei molti asili (pagabili in base al reddito e al numero dei bambini), delle 35 ore set-il foglio di yorick

visti da fuori. un’esperienza francese

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roberta zarantonello

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17- non c’è la mafia e i concorsi sono nazionali e sempre scritti, basati su un programma unico chiaro e condiviso

18- in francia viaggi con sncf non con trenitalia (e non è necessario spiegare il conseguente vantaggio)

19- se fai il dottorato in Italia ti pa-gano 800 euro, in francia almeno 1300

20- quando i francesi decidono di sci-ope–rare lo fanno anche per mesi finchè non raggitunono il loro scopo e il caos creato ti costringe ad una vacanza for-zata21- quando c’è sciopero dei treni ti rimborsano il biglietto

Perchè la democrazia, universalmente, si misura anche dal grado di civiltà, e il grado di civiltà, universalmente, si misura dalle possibilità che lo stato ti offre per vivere dignitosamente.

ti pagherebbero l’affitto (meno soldi guadagni più soldi hai per il tuo af-fitto)

9- alle vicine elezioni hanno vinto i so-cialisti

10- lo stato laico ti permette di avere delle boulangerie aperte la domenica e il giorno di pasqua

11- esiste una tariffa fissa e bassa per chiamare tutti i fissi in europa

12- non esiste l’idea dello stage non retribuito e non capisco perchè i giovani italiani accettino questo compromesso non dignitoso.

13- non ci sono problemi per la RU486

14- non c’è la lega nord

15- il francese è una lingua meravigliosa e i francesi sono eleganti

16- anche le medicine omeopatiche, come i preservativi, costano meno, e sono molto usate

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stato nominato addirittura all’Assemblea dell’Istituto Veronese per la storia della Resistenza e dell’età contempo-ranea. Si dimise solo in seguite a po-lemiche di rilevanza nazionale. Il mio secondo ricordo è una foto, eloquente e sfacciata: Tosi ad una manifestazione dell’estrema destra rasata, in testa al corteo. Fatti che sembravano studiati a tavolino per farsi odiare dalla gente, per creare sdegno in città. Invece il gradimento di Flavio I continuava a sa-lire. Il fenomeno “Verona” è una speciale ed inedita commistione che ha attecchito solo qui, un ménage osceno tra la Lega Nord e l’estrema destra. Un sogno nato e mai decollato dalla mente impresenta-bile e degenerata di Mario Borghezio; il binomio Lega-estrema destra nel resto d’Italia non ha mai trovato sfoghi is-tituzionali, e non è mai stato visto di buon occhio dai leghisti della prima ora, Bossi in testa. A Verona Miglio-ranzi, ex componente del gruppo musicale fascista e razzista Gesta Bellica, è stato voluto come capolista della lista Tosi. Capolista della lista che porta il nome del sindaco. Questo è un segnale; e, come siciliano, di segnali eloquenti sono esperto. Era un salvagente lan-ciato dal giovane futuro primo cittadino leghista ai “neofascisti”, per salvarli dal pubblico disprezzo e dare loro una possibilità di riciclo, con la sponda di un movimento accattivante e giovane come Casapound. Operazione che ormai si può dire conclusa con successo: i voti dei nostalgici, oggi, più che di nero ce-dono sul verde, senza l’indignazione dei federalisti e degli scissionisti duri e puri.

A fronte di tutto ciò, ho visto crescere la sincera preoccupazione e sconcerto

Provo a presentarmi a chi sta pensando “lo leggo, non lo leggo questo arti-colo”. Mi chiamo Benny Calasanzio, ho 25 anni, sono siciliano, e vivo a Verona da 2 anni, in Veneto da 6. Sono arri-vato qui negli ultimi giorni di campagna elettorale per le elezioni amministra-tive, quando Paolo Zanotto, candidato del centrosinistra, cercava di resist-ere alla cavalcata di Flavio Tosi; a me, estraneo al contesto, più che cavalcata sembrava una passeggiata sulle macerie. E così poi è stato.

Ero in piazza Erbe, ad un tavolo, quando si avvicinò un uomo alto e distinto, chiedendo ai giovani presenti se lo avessero votato la domenica successiva. Così ho conosciuto il centrosinistra a Verona. Quell’uomo era Zanotto e a giu-dicare dai commenti, lì non era simpa-tico a molti. Da quel giorno sono cambi-ate tante cose nella politica veronese, e quell’episodio è e deve rappresentare solo uno spunto ironico per questa ri-flessione sull’arte di gestire la cosa pubblica a Verona.

Potrei parlottare e filosofeggiare per un paio d’ore e per svariate righe sulla mia percezione attuale e passata della politica in città, perla che ho impa-rato ad amare con i tanti pregi e i pochi difetti che ha. Voglio parlarvi invece di quello che più mi ha colpito, che più mi ha intimorito perchè mai mi ero trovato in una situazione simile: la legittimazione istituzionale e sociale di cui qui gode l’estrema destra. Una degenerazione del tessuto democratico a cui nessuno pensa di mettere un freno deciso. Ricordo ancora quando lessi da qualche parte che Andrea Miglioranzi, consigliere comunale che non ha mai rinnegato i propri ideali fascisti, era il foglio di yorick

benny calasanzio

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politica a verona

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della società civile, testimoniato da manifestazioni e incontri di protesta e di riscatto che avvenivano in città, circondati però da un clima di rasseg-nata stanchezza. Da una parte le “mamme per una Verona civile”, dall’altra indif-ferenza e scimmiottamento. Perchè “loro” sono troppo forti, “noi” troppo deboli.

Ho scoperto la politica scaligera dall’interno quando Sonia Alfano, Lui-gi De Magistris, Salvatore Borsellino e Gioacchino Genchi mi hanno chiesto di candidarmi alle elezioni regionali in Veneto, proponendomi di rilanciare qui le tematiche che porto avanti in tutta Italia, e che sono le uniche che conosco bene: antimafia, lotta alle infiltrazio-ni mafiose e sensibilizzazione sui temi della legalità. L’ho fatto senza tessere, come indipendente in un partito del cen-trosinistra. Ricordo ancora le facce non convinte di molti: parlare di questi temi a Verona? No, sarà un fallimento. Poi sono iniziati gli incontri, i convegni, e la sera dello spoglio abbiamo portato a casa 650 voti che per alcuni sono stati tanti, tantissimi.

Il tempo corre però, ed ogni analisi autoreferenziale rischia di peggiorare l’intellettualità del centrosinistra; oggi quel che serve è un intelletto pra-tico, un’intelligenza d’azione. Serve maturità e spirito di servizio non ai partiti ma alla politica. Perchè oggi “loro” devono difendere una politica os-cena e vergognosa. “Noi” dobbiamo racco-ntare alla gente quello che abbiamo vis-to, quello che abbiamo vissuto. Senza la paura di fare paragoni, senza il timore di prendersi un portacenere in faccia dagli amici con le teste vellutate. Per-ché noi siamo la Verona civile, democrat-ica; loro, semplicemente, no.

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(ma anche: possibilità), è vero che le categorie con cui prima l’agone politi-co veniva suddiviso non vanno più, non funzionano più. Destra, sinistra, fas-cismo, comunismo, per citare solo le più trite, non descrivono oggi se non alcuni gruppi di amanti della nostalgia. Ma si è andati più in là di questo pensiero meramente negativo? Mi viene in mente una similitudine. Penso al ring in cui avvengono i combattimenti di pugilato e ci metto dentro due bambini che si combattono. Uno dei due pugili-bambino vince; l’altro si ritira per irrimedia-bile infortunio, e la sua carriera pare finita; in una situazione così si può dire: non esistono più pugili? A me sem-bra più appropriato dire che un pugile ha vinto. Questo pugile rimane solo, e nel frattempo cresce; sessant’anni dopo sarà vecchio, avrà cambiato aspetto e molte novità si potranno leggere sul suo volto. Ma siamo talmente abituati a vederlo lì, con i pugni in alto (e il ring schizzato di sangue), che diciamo volentieri che non esistono più pugili, poiché anch’esso si è fatto mite e non combatte più nessuno. È nel dire che non esistono più le ideologie che noi tras-formiamo in naturalità ciò che è solo il portato di una lotta che poteva an-che avere esito diverso. Ma scambiandolo per naturalità, per verità, svendiamo la possibilità di tornare a pensare e fare diversamente. Il diverso pare non essere più nemmeno possibile.

3.Nonostante sia prettamente di sinis-tra l’idea che il “fattore ultimamente determinante” sia l’economia, e che la struttura regoli e gestisca la co-siddetta sovrastruttura; e nonostante questo facile determinismo sia stato tema di approfondite discussioni in

1. “Sono morte le ideologie”. È una frase che si sente dire spesso. Quasi fosse un mantra, quasi potesse avere forza di vaticinio. Non si capisce bene, in ef-fetti, se sia una verità che il locu-tore vuole dedicare all’ascoltatore (malcapitato); o se sia, al contrario, un tentativo di pubblica autosugges-tione non scevro di diabolica, capziosa sottigliezza. Vediamo. Per uno (rela-tivamente) giovane come me il muro di Berlino è caduto ma esso non ha quasi mai avuto altro significato che qual-cosa di mitologico. È stato assorbito dalle querule e sapute voci retorizza-nti, e alla fine mi sono dovuto chie-dere: cos’è il muro di Berlino? Che segni sulla carne degli uomini che lo hanno attraversato (sia metaforicamente ma anche, certo, corporalmente) ha las-ciato, questo muro? Come ha plasmato l’immaginario, quali paure ha trasmesso? L’indagine sul muro di Berlino mi ha portato, oltre che ad assistere con un vago senso della storia alle celebrazio-ni per la sua caduta (sic), a compren-dere una cosa. Che dalla sua caduta in poi…. “son morte le ideologie”. Per qualcuno questo ha voluto dire che si stava compiendo la fine della storia. Per altri, che era arrivato il momento in cui si poteva smettere di pensare, e finalmente rilassarsi.

2.All’interno di quella attività intel-lettuale che si può definire come “com-prensione” la ragione sconta la propria immobilità nel percepirsi come sempre in ritardo, come Hegel aveva visto benis-simo. Oggi, dopo lo stordimento della caduta del muro, dopo che impalcature centenarie sono evaporate all’improvviso lasciando sul tappeto solo incertezze il foglio di yorick

vecchie ideologie e nuove prospettive

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stefano pippa

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è molto cambiato e potremmo lanciare una seria occhiata al sangue schizzato sul tappeto. L’errore da evitare è pen-sare di aver di fronte lo stesso nemico di tanti anni fa e di potergli opporre soltanto l’antico pugile. C’è qualcosa di vero nell’ “ansia dell’updating” de-scritta più sopra (un’ ansia che, sia ben chiaro, coinvolge tutti, surret-tiziamente o no), ed è proprio questo nascosto nocciolo, che si esprime nev-roticamente come ansia: la malattia, dopotutto, non è mai priva di verità. Di un aggiornamento c’è effettivo bi-sogno, di una riformulazione c’è ef-fettiva urgenza. Questa urgenza deve diventare produttiva mediandosi con la pazienza del concetto e con il ritardo della comprensione; dobbiamo ritrovare nuovi apparati di lettura, nuove comp-rensioni per la realtà. Non altrimenti che così sarà possibile, credo, costru-ire quel primo scalino archimedeo sul quale puntare il piede per la nostra risalita; non altrimenti che di lì pos-siamo iniziare la costruzione di una scala che dia corpo visibile alla voglia dell’alternativa. Ma se i concetti non sono chiari, non è chiaro nemmeno il presente e non potrà essere chiaro nem-meno il futuro; la direzione non potrà diventare una prospettiva, ma sarà uno zigzagare di volta in volta istantaneo. C’è bisogno, dunque, di progettare un nuovo, piccolo pugile pacifico che ab-bia voglia di crescere e di spiegare al vecchio che è ora di scendere dal ring e che non ci sarà più nessun ring. È nec-essario, direi, passare dal negativo al positivo della caduta del muro di Ber-lino, e sta in questo passaggio forse la sua valorizzazione storica più profon-da e sensibile, la sua meditazione più vera. È quindi giusto abbandonare le an-tiche contrapposizioni, ma non è onesto

dispensare dalla fatica del concetto. Su quale scalino potremmo poggiare il piede verso il futuro se non su quello saldo della comprensione raggiunta a fatica? Ma oggi, poiché “le ideolo-gie sono morte”, ci si sente in dir-itto di ammazzare pure il pensiero e il suo esercizio e la sua educazione: a cosa servirà educare a pensare, se viviamo nel migliore dei mondi possi-bili? D’altro canto la stessa coscienza del ritardo ha sviluppato la sua pecu-liare ironia trasformandosi nell’ “ansia dell’updating”: bisogna stare aggiornati ed è preferibile farlo non leggendo un classico, non impegnandosi in associ-azioni in carne e ossa; si può fare più velocemente iscrivendosi a gruppi su facebook e mediante il download, ognuno dalla propria solitaria postazione. La facilità dell’informazione riproduce il suo vecchio bubbone, sostituendo la chiacchiera e il pettegolezzo alla Bil-dung e alle idee, che hanno bisogno di tempo (tutto impegnato nell’updating), di silenzio (coperto dai giga-mp3 fic-cati nell’ipod), di discussione (man-data in pensione dall’arte del commento e del “mi piace”). La versione politica dell’ansia mediatica è lo schizofrenico elogio del “fare” perpetrato da gruppi troppo indaffarati ad ascoltare dove tira il vento per poter concepire una frase avversativa, e di cui si potrebbe dire non inopportunamente quello che Céline diceva di un gruppo di povere e incolte ragazze, e cioè che “la loro impotenza speculativa le obbligava ad odiare senza alcuna distinzione”.

5.Come prima mossa potremmo tornare a dare un’occhiata al ring. Potremmo cominci-are col riconoscere che lo strano essere che vi è sopra e che ha le mani alzate

lunghi decenni di dibattito all’interno delle forze intellettuali della sinis-tra, in Italia abbiamo avuto la fortuna di poter contare sulla dirimenza storica. La storia, anche questo si dice spesso, ha una sua ironia, e chissà se il detto latino fata nolentem trahunt, volentem ducunt non sottintenda una tacita iden-tificazione del destino con la sua ver-sione ironica. A ben guardare, chi meg-lio di Silvio Berlusconi ha compreso che l’economia poteva influenzare la po-litica? Per lui la strategia economica non è solo l’”istanza ultimamente deter-minante”, ma è il modello decisionale e il referente giuridico fatto transi-tare nella sovrastruttura fino a rendere indiscernibili sia l’una che l’altra; diritto e cultura vengono in tal modo riorganizzati attorno alle stelle po-lari della pubblicità e del profitto, l’una dell’altra il rovescio nella soci-età dell’immagine e del consumo (o del consumo di immagini). L’ironico cava-liere del lavoro realizza così la verità dell’osservazione marxiana e per anni anestetizza la capacità di resistenza del pensiero, troppo preso dal consumo (esaltazione del presente connessa) per puntare i piedi su un appoggio archimedeo che non si nota nemmeno per la sua stessa assenza: il pensiero è spedito in vacan-za, e pacchi-sorpresa, Papi, De Filippi e seni al vento lo intrattengono assidui perché non senta il peso della propria inesistenza. Perché insostenibile è la leggerezza del cranio!

4.Tutte le vacche diventano nere, e in Italia sono di certo più nere che al-trove. Ma se è vero che il pensiero op-era nel ritardo come nel proprio el-emento, ciò non può (o non dovrebbe, o meglio: non vorremmo che lo facesse!)

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essere una nuova destra, istituzional-mente inquadrata e aliena dalle tentazi-oni fasciste. Questo numero apre su uno scenario in cui da un lato si discutono concetti per gran parte nuovi in quel contesto politico-intellettuale, quali “cittadinanza di qualità”, “cittadi-nanza inclusiva”, greeneconomy, mentre dall’altro si sottopongono a revisione concetti più classici, uno fra tutti quello di “libertà” e “libertarismo” (che viene ripensato in un contesto garantista-costituzionale). Mi chiedo se sarebbe possibile fare un numero analogo sul dibattito interno alla sinistra, se anche all’interno della sinistra i concetti chiave siano sottoposti a re-visione e messi alla prova dei tempi e ripensati. Se deve avere senso davvero dire che le ideologie sono morte, stiamo noi costruendo, oggi e attraverso il pensiero, una sinistra post-ideologica con nuovi concetti per il nostro futuroe per il nostro paese?

farlo soltanto per gettarsi tra le brac-cia dei concetti vincitori, né dev’essere questa una mossa un po’ pigra con cui disfarsi, liquidandolo, di tutto un pen-siero dell’alternativa che, pur con lim-iti e con peccati, ha portato avanti la difficile pratica della critica; è saggio farlo, invece, per riprendere proprio i fili lasciati interrotti di questo pensi-ero dell’alternativa, per svilupparne una metamorfosi di nuovo in grado di “trac-ciare rotte nei mari”, come i greci vol-evano che la politica sapesse fare, per elaborarne una forma di nuovo in grado di divenire pensiero della prassi e suo contenuto. Un recente numero di Micromega è stato interamente dedicato al dibattito di quell’area della destra che si riconosce in Gianfranco Fini e che, da tempo rac-coltasi attorno alla fondazione Farefu-turo e al giornale Il Secolo d’Italia, sta sviluppando un dibattito attorno ai concetti cardine di quella che dovrebbe

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consegnato un peso difficilmente sop-portabile per le loro reali capacità…

Quali sono state le motivazioni di un tracollo del centrosinistra in un ter-ritorio sul quale governava da più di 50 anni? L’amministrazione paga la temperie nazionale oppure ci sono errori specifici che devono essere imputati al sindaco e alla sua giunta? Quanto ha pesato il “trasformismo” dei tre assessori fuoriusciti dal pd?

Le motivazioni di questa sconfitta par-tono da lontano. Innanzitutto dalla tendenza nazionale, dove perdono con-tinuamente punti i movimenti meno radi-cati sul territorio a favore di quelli più territorializzati o considerati “di protesta”. È il caso della Lega Nord o dell’Italia dei Valori. Nello specifico, poi, si sono riacutizzate le divisioni interne di un Partito che tale non è mai stato, creato sulle ceneri di due idee della sinistra completamente diverse e che nel momento di difficoltà non hanno saputo saldarsi e fare squadra. Altro errore fondamentale, ripetuto anche a livello nazionale, è stato quello di ar-roccarsi nella politica pura, lasciando gli argomenti del popolo ad altri com-petitors. I voti per Sodano, infatti, sono arrivati anche da quartiere tipi-camente popolari, da sempre legati alla sinistra e ai movimenti dei lavoratori.

Spesso si dice che la Lega Nord e il centrodestra hanno un radicamento sul territorio (di cui si fa carico preva-lentemente la Lega), e che di qui deriva la loro maggior forza, politica e an-che comunicativa. Questo vale anche per Mantova? Dopotutto la Lega Nord lì si

Intervista a Daniele Pagliarini, ex re-sponsabile comunicazione del comune di Mantova.

Per fare comprendere come il “caso Man-tova” possa essere considerato il punto di partenza di importanti riflessioni possiamo partire dall’entusiasmo che la vittoria del centrodestra alle ultime elezioni comunali ha suscitato ai piani più alti della politica. Formigoni ha subito commentato: “Cara e bella Man-tova, bentornata in Lombardia”, mentre il Ministro Ronchi ha sottolineato che “la storica affermazione di Nicola So-dano a Mantova rappresenta un successo straordinario e una vittoria simbolica dall’evidente rilevanza nazionale per il centrodestra italiano”, aggiungendo a tale risultato un valore di spartiacque storico perché con la sconfitta della giunta Brioni “cade l’ultima roccaforte rossa del Nord, si chiude definitivamente una stagione e si volta pagina”. Dan-iele, tu hai lavorato a stretto contat-to con la giunta del Pd occupandoti di comunicazione per la durata del mandato e per la campagna elettorale; in qualche misura, si sono avvertiti l’importanza non soltanto comunale di queste elezioni e, in certo senso, l’onere, incombente su Mantova, di resistere all’avanzata della Lega Nord nel Lombardo-Veneto?

In realtà il peso del risultato di Man-tova si è avvertito solo dopo il primo turno elettorale, quando l’avanzata della Lega e la tenuta del Pdl alle elezioni regionali hanno trasformato la città virgiliana nell’ultimo appiglio a cui il Pd avrebbe potuto aggrapparsi per evitare una totale disfatta. Im-provvisamente, quindi, la città è stata catapultata alla ribalta nazionale e ai dirigenti democratici locali è stato il foglio di yorick

Il “caso Mantova”

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e le prospettive del Pd.

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mantovani, per tentare una risalita?

Il centrosinistra a Verona, storica-mente, non ha mai vinto le elezioni, se non in casi assai particolari come av-venne con Paolo Zanotto, quando il sin-daco uscente di centrodestra, Michela Sironi si alleò con lui. Quello che ne uscì fu una maggioranza talmente vari-egata e complessa che concluse poco o nulla. Portare il centrosinistra a Ve-rona vorrebbe dire che sarebbe lo stesso movimento ad essere cambiato, avvicinan-dosi alle masse. Tuttavia, a mio parere, la Lega Nord ha toccato il massimo del suo consenso e non riuscirà comunque a portare a casa quanto promesso, cioè il federalismo totale. A questo punto gli elettori decideranno di premiare un’altra forza, non necessariamente pro-gressista, ma comunque diversa. A quel punto chi vorrà acquisire i voti las-ciati liberi dai leghisti dovrà impeg-narsi sul territorio, riaprendo le sedi nei paesi e investendo sulle persone. Il lavoro e l’impegno paga sempre. Il las-sismo mai. Lega docet.

della Lega sono legate a deficit di pro-posta politica stricto sensu, e quanto invece alle diverse strategie di comuni-cazione?

Il peccato originale del centrosinis-tra si chiama Walter Veltroni, da cui è partito questo progetto di partito al-largato e senza una base forte, fondato solo sulle correnti (da cui derivano le cosiddette elezioni primarie). Questo sistema è valido solo in Paesi dove da tempo si è abituati ad un livello di democrazia superiore al nostro. In Ita-lia, invece, le primarie creano divisio-ni interne e perdita di consensi. Negli altri movimenti, invece, definiti par-titi personali, la leadership è sancita da un congresso in cui il segretario viene sostanzialmente “acclamato”. Al-tro punto assai importante è il target a cui si rivolge il messaggio politico. I grandi numeri, e quindi le vittorie, si fanno con la massa, che in Italia è rap-presentata da elettori che hanno scarsa dimestichezza con le vicende politiche e d’attualità. Ecco perché, nonostante le numerose problematiche del Presi-dente del Consiglio, riportate da peri-odici e quotidiani, i voti continuano a confluire nel movimento da lui fondato, probabilmente anche grazie all’apporto dell’unico strumento che gli italiani ritengono infallibile: l’apparecchio televisivo, con il quale il Pd non ha grande feeling.

Vista la tua esperienza a Mantova, una risalita del centrosinistra a Verona ti dovrà sembrare un’impresa non disperata, ma folle… tuttavia, ti faccio ugualmente questa domanda, sfidandoti a tentare l’utopia. Quali strade potrebbe intra-prendere il centrosinistra veronese, tenendo conto dei molteplici fallimenti

“ferma” al 10%, non raggiunge cioè le vette che raggiunge per esempio a Treviso o Verona….

La Lega, è vero, non ha raggiunto i pic-chi astronomici come nel Nordest, tutta-via partiva da una percentuale comunque molto bassa, quindi la crescita è stata importante e determinante per la vit-toria. A Mantova non ha solo vinto il centrodestra, ma ha soprattutto perso il centrosinistra, non riuscendo a contras-tare un declino strutturale che parte da lontano.

Sappiamo quale è oggi l’importanza della comunicazione nella creazione sia di un rapporto con gli elettori e i concit-tadini, sia nella creazione del consen-so (a mio modo di vedere in questo caso abbiamo più a che fare con distorsioni della pratica comunicativa, in realtà). In che modo si è svolto il tuo lavoro prima e durante la campagna elettorale, e qual è stato il rapporto della giunta con la comunicazione? Hai riscontrato dif-ferenze tra le modalità di comunicazione in campagna elettorale tra centrosinistra e centrodestra? Se sì, in che cosa dif-ferivano?

Non ho svolto comunicazione elettorale, ma solo istituzionale, perché sono stato assunto dal Comune di Mantova e non dal Pd, piuttosto che dall’Idv…. altrimenti avremmo vinto le elezioni..

Credi che dal “caso Mantova” si possa (si debba) trarre un insegnamento più ampio per il centrosinistra, che oggi sta per-dendo terreno anche nelle sue storiche roccaforti? E quanto l’avanzata del centrodestra e

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positiva. Fanno opposizione decostrut-tiva (il che naturalmente nella nostra situazione non solo è encomiabile, ma chiaramente fondamentale). Articoli, post, links che girano in Internet dif-fondono la conoscenza di aspetti della realtà che i circuiti ufficiali di (con-tro)informazione occultano per vocazi-one e, forse, per sadico piacere. La Sua proposta però indica una via di uscita da questa fase e l’entrata in una nuova fase dell’opposizione civile: quella progettuale e costruttiva. Ma, e veniamo al punto, chi può avanzare questa idea di un governo di lealtà istituzionale? Quali forze deve coordinare, a quali si deve, per così dire, collegare? Come si può sostanziare di tutta quella attività di resistenza che si svolge nelle stanze virtuali del web, ma che pure è energia reale?

Il passo di valzer che la società ital-iana sembra incapace di compiere è pro-prio questo passaggio alla seconda fase della contestazione civile. Ma è chiaro, come Lei rimarca, che sarebbe ingenuo, attualmente, riporre la fiducia del cam-biamento nel momento elettorale: la leg-ge elettorale non è una legge democrati-ca e ha trasformato le camere in camere corporative, esautorando nei fatti la libertà del voto pur lasciandolo vigere formalmente; contemporaneamente, come ancora Lei stesso ricorda, il “quarto potere” crea una iniquità sostanziale se possibile ancor più pericolosa. Sap-piamo benissimo che la formalità appar-ente è il più pericoloso degli inganni. Così, nell’impotenza generale, la nostra democrazia ha virato verso il decision-ismo del colpo di fiducia abrogando nei fatti, con la legge elettorale, la nos-tra Costituzione, la cui difendibilità è sempre più complessa proprio per la dis-

La seguente lettera a Paolo Flores d’Arcais, di-rettore di Micromega, è stata pubblicata sul sito micromega.net il 10 Giugno 2010, con il titolo a fianco riportato.

Caro Flores d’Arcais,

Ho letto il Suo articolo “Un governo di lealtà istituzionale per uscire dalla crisi” sul sito di Micromega proprio nello stesso giorno in cui Berlusconi ha sferrato un ennesimo attacco alla Costituzione italiana, colpevole, a suo dire, di rendere il paese di difficile governabilità. Si tratta di capire, ov-viamente, dove sta l’asticella che rende la governabilità “difficile” o “facile”, e di che sostanza sia fatta. Ma senza dilungarmi in analisi della concezione berlusconiana di concetti quali potere, costituzione, democrazia e affini, vor-rei invece proporLe alcune considerazio-ni e farLe alcune domande a partire dal Suo articolo.

Parto dal fondo. Lei chiude l’articolo dicendo che la società civile in re-altà spera di poter cambiare le cose, altrimenti “non continuerebbe a firmare appelli”; e che il cambiamento non si potrà ottenere che attraverso la lotta, da fare anche nelle piazze. Mi viene da pensare che in buona misura la società civile non sta facendo altro (e forse altro non può attualmente fare) che “resistere informandosi” e “rivoltarsi firmando”. A questo punto della con-testazione, dopo alcune manifestazioni che, partite dal web, sono riuscite a concretizzarsi in Piazza San Giovanni e altrove, la maggior parte delle energie che si oppongono al regime berlusconi-ano stanno lavorando in una fase che si potrebbe forse chiamare fase ante-pro-il foglio di yorick

la rivolta dei mouse

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e l’impotenza della società civile

stefano pippa

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e ben sostenuta a livello di pubblica opinione, l’ipotesi di un governo come quello da Lei vagheggiato. Se dovessi provare a rispondere alle domande che sopra Le ho posto, in attesa delle Sue risposte, direi che una via possibile è quella che passa attraverso la creazione di piattaforme stabili all’interno del mondo web, che raccolgano e aggreghino i cittadini che già in quel mondo ten-tano una resistenza al sistema berlus-coniano. Ma queste piattaforme stabili, però, non potrebbero che essere ges-tite, almeno inizialmente, da nodi già relativamente stabili e strutturati, quali i portali di informazione che rac-colgono un ampio bacino di utenza. Solo queste piattaforme potrebbero lanci-are l’opposizione civile in un percorso progettuale costruttivo, che godrebbe anche del vantaggio di modalità davvero nuove, partecipative e pienamente demo-cratiche, favorendo il contatto tra il mondo intellettuale e la massa critica della quale, al momento opportuno, il Presidente Napolitano non potrebbe non tenere conto senza mancare di onorare il suo ruolo.

La “rivolta dei mouse” è stata un capi-tolo importante nella resistenza civ-ile italiana di questi due anni, e si-curamente non finirà. Ma non è essa anche, almeno in parte, un sintomo dell’impotenza della società a organiz-zarsi in forme di azione? E, allora, di nuovo, quale strada intraprendere per andare oltre?

tinzione sostanza/forma, come dimostrano le difficoltà di Napolitano di fronte all’avanzata dell’autoritarismo berlusco-niano. È evidente, dunque, che una difesa dei meccanismi democratici, da attuarsi mediante un governo di lealtà istituzion-ale, è necessaria ed urgente, perché ben presto potremmo ironicamente arrivare a chiederci: come difendere la Costituzione se, in effetti, “Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri non è de-terminata non ha costituzione” (art. XVI della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, corsivo mio)?Se però la proposta di un movimento cos-truttivo dell’opposizione civile non deve rimanere un puro appello, da firmare come ne sono stati firmati fino ad ora a cen-tinaia (e lo dice uno la sua firma l’ha apposta ovunque), non può e non deve prescindere da una precisa risposta alle domande sopra poste, nonché da una at-tenta analisi dell’aspetto, per tanti versi innovativo, della “massa critica” in formazione ed espansione, che sfrutta in maniere sempre diverse e spesso impre-viste i nuovi canali di comunicazione.

A mio modo di vedere, questa Sua è una proposta fondamentale per la vita civile e politica dell’Italia, e chiunque ab-bia a cuore il rispetto della Costituzi-one e della libertà dovrebbe collaborare affinché, nel caso di una (auspicata) caduta del governo attuale, il Presi-dente Napolitano possa trovarsi davanti, come alternativa reale, ben strutturata

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