IL DOSSIER Un milione e mezzo di migranti delle cure ... · Un milione e mezzo di "migranti" delle...

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IL DOSSIER Un milione e mezzo di "migranti" delle cure mediche Esodo verso Milano BONEZZI» All'interno di GIULIA BONEZZI SONO un milione e mezzo all'an- no i migranti sanitari: italiani che si spostano senza varcare i sacri confini, per curarsi o accompagna- re qualcuno a farlo in un'altra re- gione. Un'indagine, commissio- nata al Censis dalla onlus Casami- ca che a Milano ne ospita 4mila all'anno, restituisce una fotogra- fia non scontata di questo «feno- meno fantasma». «Un fenomeno sociale complesso - chiarisce Giu- lio De Rita del Censis - che ne contiene almeno tre». Dei 750 mi- la ricoverati annuali fuori dalla re- gione di residenza (735 mila esclu- se nascite e lungodegenze, il 10% per cause contingenti come un in- cidente), il 12% è a non più di 50 chilometri da casa, uno su quattro non supera i 100 ma quasi altret- tanti (il 23%) ne macinano più di 400. Quasi metà dei migranti sani- tari non sono motivati dall'assen- za di alternative, ma dalla ricerca di cure di qualità (la stessa che spinge i lombardi a far lievitare le liste d'attesa in alcuni istituti fa- mosi). Perlopiù non hanno patolo- gie gravi, oppure non fanno mol- ta strada. Ad esempio, 230 mila malati si spostano tra due regioni del Nord, e 119 mila dalle nove meno popolose alle nove più gran- di (16 mila arrivano in Lombar- dia), ad esempio verso i 12 grandi poli ospedalieri che da soli attira- no il 25% dei pendolari; due, l'Isti- tuto nazionale dei tumori e il San Raffaele, sono a Milano. C'è poi un 30% che fa una scelta «logisti- co-pratica», come i «transfronta- lieri» per cui è più comodo l'ospe- dale della regione limitrofa. Pie- monte e Lombardia si "scambia- no" più di 40 mila pazienti l'an- no. Perché sì, dalla Lombardia nel 2015 sono partiti 62.678 resi- ISTITUTO NAZIONALE DEI TUMORI

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IL DOSSIER

Un milione e mezzo di "migranti" delle cure mediche Esodo verso Milano BONEZZI» All'interno

di GIULIA BONEZZI

SONO un milione e mezzo all'an­no i migranti sanitari: italiani che si spostano senza varcare i sacri confini, per curarsi o accompagna­re qualcuno a farlo in un'altra re­gione. Un'indagine, commissio­nata al Censis dalla onlus Casami-ca che a Milano ne ospita 4mila all'anno, restituisce una fotogra­fia non scontata di questo «feno­meno fantasma». «Un fenomeno sociale complesso - chiarisce Giu­lio De Rita del Censis - che ne contiene almeno tre». Dei 750 mi­la ricoverati annuali fuori dalla re­

gione di residenza (735 mila esclu­se nascite e lungodegenze, il 10% per cause contingenti come un in­cidente), il 12% è a non più di 50 chilometri da casa, uno su quattro non supera i 100 ma quasi altret­tanti (il 23%) ne macinano più di 400. Quasi metà dei migranti sani­tari non sono motivati dall'assen­za di alternative, ma dalla ricerca di cure di qualità (la stessa che spinge i lombardi a far lievitare le liste d'attesa in alcuni istituti fa­mosi). Perlopiù non hanno patolo­gie gravi, oppure non fanno mol­ta strada. Ad esempio, 230 mila

malati si spostano tra due regioni del Nord, e 119 mila dalle nove meno popolose alle nove più gran­di (16 mila arrivano in Lombar­dia), ad esempio verso i 12 grandi poli ospedalieri che da soli attira­no il 25% dei pendolari; due, l'Isti­tuto nazionale dei tumori e il San Raffaele, sono a Milano. C'è poi un 30% che fa una scelta «logisti-co-pratica», come i «transfronta­lieri» per cui è più comodo l'ospe­dale della regione limitrofa. Pie­monte e Lombardia si "scambia­no" più di 40 mila pazienti l'an­no. Perché sì, dalla Lombardia nel 2015 sono partiti 62.678 resi-

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denti: 49.399 per curarsi in altri ospedali del Nord, 5.692 verso il Centro e 7.587 sono andati al Sud.

PIÙ di un migrante su quattro, il 26%, lo è invece «per necessità», cioè non trova le cure di cui ha bi­sogno nella sua regione, perché non ci sono o i tempi sono troppo lunghi; e qui il flusso è soprattut­to da Sud a Nord. Sono 218 mila l'anno gli esodi sanitari oltre i 400 chilometri, soprattutto verso ospe­dali pediatrici, ortopedici e onco­logici. In generale sono casi più gravi e complessi. Le regioni a maggior partenza sono la Campa­nia (56 mila esodi l'anno), Sicilia, Calabria e Puglia. La Lombardia è la principale destinazione: 62.700 migranti a lunga distanza in entrata nel 2015. Se il servizio sanitario nazionale «va in pari», non così le Regioni: la Calabria per rimborsare terapie extraregio­nali perde 265 milioni di euro l'an­

no, il 7% del suo budget sanitario, invece d'investirlo nei propri ospedali. La Campania 235 milio­ni, la Sicilia 155, in una spirale che vede salire i pazienti in paral­lelo agli infermieri disoccupati. Al Nord, se il Piemonte va in per­dita di 60 milioni, la Lombardia è la Regione che guadagna di più: 580 milioni l'anno per curare i ma­lati del resto d'Italia. Ma quasi me­tà, segnala il Censis, finisce alle strutture private convenzionate. Pagano anche i pazienti: l'85%

dei migranti a lunga distanza ha un accompagnatore, uno su tre ha speso oltre 500 euro per l'alloggio e oltre 100 per il vitto, il 12% s'è dovuto assentare dal lavoro. In ge­nerale, chiosa De Rita, se 400-450 mila dei migranti sanitari fronteg­giano «difficoltà gestibili», gli al­tri 300-350 mila affrontano «diffi­coltà sommate» e circa centomila «moltiplicate»: malattie gravi, tra­sferimenti lunghi e costosi, anche di entrambi i genitori dei 70 mila

migranti minorenni. «BISOGNA agire sul bisogno», conclude: «campagne informati­ve» per chi si sposta senza necessi­tà, e «concentrare gli interventi sull'area della drammaticità». Contandogli accompagnatori 180 mila persone, 90mila famiglie «che affrontano una prova durissi­ma e trovano risposte assoluta­mente inadeguate», cioè «solo la buona volontà del personale sani­tario e uno sparuto gruppo di asso­ciazioni che li accoglie fisicamen­te e moralmente». «Non siamo istituzionalizzati in alcun modo», conferma Stefano Gastaldi, il di­rettore di Casamica. Il popolo «a rischio panchina» invece è un fe­nomeno non nuovo né troppo fi­glio della globalizzazione a Mila­no: Lucia Vedani fondò la onlus nell'86, dopo aver visto i parenti dei malati dormire in auto intor­no all'Istituto dei tumori e ai giar­dinetti di piazzale Gorini.

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kk STEFANO GASTALDI

Tutto il lavoro del no profit è basato su rapporti diretti con i professionisti sanitari La difficoltà è trovare interlocutori istituzionali

Ottantamila malati ospitati in trent'anni SOLO il 15% di chi accompagna un parente o un amico a curarsi fuori regione ha trovato

un tetto gratis in una struttura come le case d'accoglienza di Casamica. Dalla prima, inaugurata da Lucia Vedani in via Saldini nell'86 «con 16 posti letto e la gente che mi chiedeva di dormire sulle scale», la onlus

nata all'Istituto nazionale dei tumori ha ospitato in trent'anni ottantamila tra pazienti e familiari in trasferta sanitaria al Nord. Oggi le case a Milano sono quattro, una interamente dedicata ai bambini, i posti letto cento, gli ospiti ogni anno quattromila, che gravitano perlopiù sull'Int e sul neurologico Besta, sull'ospedale pediatrico

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Buzzi e sui privati (forti nell'oncologia) Humanitas e «profit» di Ubi Banca che, attraverso strumenti San Raffaele. E Casamica si è allargata fuori città, con d'investimento come i fondi etici, sosterrà con 250 mila un'altra casa da 38 posti, metà riservati ai bambini, a euro l'associazione in prima linea nell'affrontare quello Roma in zona Trigoria, e di un'altra a Lecco, 18 stanze che Guido Cisternino, responsabile del terzo settore in in via della Rovinata: così la onlus potrà accogliere Ubi Banca che ieri ha ospitato un convegno duemila persone in più. Anche grazie al finanziamento sull'argomento, ha definito il «fenomeno fantasma» delle

2 migrazioni sanitarie.

Vita comunitaria e accoglienza «Anche questo aiuta a guarire»

L'80% delle quattromila persone ospitate gratis ogni anno nelle quattro case milanesi è o ha qualcuno in cura all'Istituto dei tumori o al Besta: «Siamo nati in Città Studi. Le persone arrivano da tutta Italia, ma il 70% da Sicilia, Campania, Puglia e Calabria», spiega Stefano Gastaldi, direttore di Casamica. Gli stranieri sono appena 1*1%, spesso sostenuti da progetti di altre associazioni; in questo periodo vengono soprattutto da Paesi dell'Est. Le quattro case d'accoglienza, tasso d'occupazione sempre superiore al 90%, hanno un massimo di 25 posti letto. Il malato può stare con uno o più parenti, l'accompagnatore anche da solo «ma se necessario gli si chiede di condividere la stanza». La selezione all'ingresso («anche se abbiamo una rete alla quale dirottare chi non possiamo ospitare») si basa «sull'urgenza del bisogno»: degenze lunghe, anche le condizioni economiche nel caso della collaborazione con la Lilt, i cui assistenti sociali filtrano le richieste. «Sono ambienti comunitari, perché anche questo aiuta. Così come aiutano la normalità (ad esempio di potersi cucinare, fere la spesa) e i volontari: l'accoglienza è molto più che dare un posto letto, è far sapere a queste persone che sono sostenute nel percorso di cura. Anche quel che facciamo, curare la persona, è cura, e migliora le percentuali di guarigione. A differenza di trent'anni fa, oggi i medici sono i primi a riconoscerlo».

Dall'Istituto tumori al Besta Un rifugio dopo gli interventi

L'Istituto neurologico Besta è, insieme all'Istituto dei tumori, il partner strategico di Casamica. Punto di riferimento internazionale per neurologia, neurochirurgia e neuropsichiatria infantile oltre che per numerose malattie rare, cent'anni di vita sempre nella stessa struttura, con pochi spazi anche per il comfort dei pazienti: 181 posti letto per 5.682 ricoveri e oltre 220 mila prestazioni complessive nel 2017, degenza media dagli otto giorni ai sei e mezzo, interventi al cervello delicatissimi che durano ore. E il 53% dei pazienti che arriva da fuori regione, soprattutto Calabria, Sicilia, Sardegna e Puglia; appena il 12% ha casa a Milano. Le case d'accoglienza, spiega Clara Moreschi, responsabile del servizio infermieristico, sono fondamentali «per de-ospedalizzare, riservando il ricovero ai malati più complessi. Gli ospedali devono concentrare gli sforzi per curare la malattia, hanno bisogno dell'alleanza con un terzo settore che accolga una persona che dopo un intervento durato ore e quattro giorni di degenza non può tornare in Sicilia in attesa di essere rivista. E lo fa molto meglio di qualsiasi albergo».

4 Una rete da 1.200 posti letto «Fenomeno inarrestabile»

Casamica è una delle quattro associazioni (con Prometeo, Lilt e Avo Milano) che hanno dato vita al progetto «À casa lontani da casa». Una rete, ora diventata associazione, che ha mappato e messo in collegamento novanta case d'accoglienza gestite da 52 enti e collegate a 42 ospedali in Lombardia: 1.200 posti letto che hanno accolto 18 mila persone nel 2016, per un totale di 160 mila pernottamenti. Sempre l'anno scorso la rete si è estesa, inserendo altre case a Pavia, Bergamo, Brescia, Lecco, Varese nel «sistema» che permette di cercare un posto con un numero verde, o attraverso il sito www.acasalontanidacasa.it, o tramite il punto informativo all'Istituto nazionale dei tumori. «Abbiamo scoperto un numero impressionante di case d'accoglienza», spiega Guido Arrigoni, presidente dell'associazione, convinto che questo

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«modello di welfare dal basso che è la forza del territorio lombardo» sarà sempre più cruciale, negli anni. Perché, spiega, la migrazione sanitaria è «un fenomeno non arrestabile: le malattie - e le cure - sono sempre più genetiche, e solo pochi centri specializzati possono raggiungere la massa critica che le garantisca: la cura non può essere sotto casa».

5 «Ma le istituzioni ancora ci ignorano»

la Dal Censis ai diretti interessati, operatori sanitari e del privato sociale, sono tutti concordi: per i migranti della salute e per chi li aiuta, le istituzioni di ogni ordine e grado fanno poco o nulla. «Siamo una rete sociale

connessa a nessuna decisione pubblica - chiarisce Guido Arrigoni di "A casa lontani da casa" -, anzi

c'è proprio una carenza legislativa nel senso che la presenza delle case d'accoglienza non è ad oggi in alcun modo riconosciuta. Se si esclude un codicillo nella riforma nazionale del Terzo settore varata l'anno scorso, ma mancano ancora i decreti attuativi». Costrette a restare

sotto i 25 posti per non esser scambiate per alberghi, le case per i migranti sanitari lavorano

«basandosi solo sui rapporti con i professionisti sanitari - chiarisce Stefano Gastaldi, direttore di

Casamica -. Nemmeno gli ospedali sono "premiati" per questa collaborazione, anzi, paradossalmente perdono i rimborsi dei ricoveri... Il problema storico del no profit è trovare interlocutori istituzionali». Il problema è anche dei pazienti, aggiunge Clara Moreschi, responsabile del Sitra al Besta: «Bisogna creare un'alleanza formale, ridisegnare i processi di cura in co-gestione».

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