Il dibattito storiografico sul Risorgimento

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Marco Martini Il dibattito storiografico sul Risorgimento Edizioni ISSUU. COM

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Relazione di Marco Martini, Il dibattito storiografico sul Risorgimento, mercoledì 16/03/2011, Liceo Scientifico Statale “Barsanti e Matteucci” di Viareggio, piano II°, “Aula delle Colonne”. Ciclo di Lezioni “A 150 anni dall’Unità d’Italia: i protagonisti del Risorgimento”. Seminario di Studi rivolto agli studenti delle cl. IV/V del Liceo. Testo integrale della conferenza.

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Marco Martini Il dibattito

storiografico sul Risorgimento

Edizioni ISSUU. COM

Relazione di Marco Martini, Il dibattito storiografico sul Risorgimento, mercoledì 16/03/2011, Liceo Scientifico Statale “Barsanti e Matteucci” di Viareggio, piano II°, “Aula delle Colonne”.

Ciclo di Lezioni “A 150 anni dall’Unità d’Italia: i protagonisti del Risorgimento”. Seminario di Studi rivolto agli studenti delle cl. IV/V del Liceo. Testo integrale della conferenza.

Nella seguente lezione terrei presenti due linee, tra loro connesse: 1) una cronologica, volta ad una disamina del dibattito storiografico sul Risorgimento a partire dal

Risorgimento stesso per arrivare, sia nell’ordine una mirata scelta di autori e testi, ai giorni nostri; 2) 2) una ‘tematica’, consistente nella comparazione di due tesi tra loro antitetiche, quella tesa a

considerare il Risorgimento come fenomeno di massa e quella finalizzata a identificare il Risorgimento come fenomeno elitario, dato dal contributo di poche persone, politici ed intellettuali.

Come ‘spartiacque’ per quanto concerne sia l’approccio cronologico che quello tematico, partirei dall’analisi di un testo di un insigne storico del Risorgimento della passata generazione, degli anni ’60 del Novecento, Franco Valsecchi, che quando fu pubblicato, nel 1960, suscitò non poche polemiche. Valsecchi è uno dei più autorevoli storici del Risorgimento e nel suo studio1 ci presenta un Risorgimento ben lontano dalla tradizione, tutta fatta di eroi e “miracoli”, miti e leggende, “fanfare, pive e trombette”, e propende invece per un Risorgimento “dis-eroicizzato”, un “Risorgimento senza eroi” per usare il titolo di un noto studio dello storico liberale Piero Gobetti2 senza i mantelli della retorica, che ha profondamente influenzato l’interpretazione fascista di questo periodo storico, riscontrabili nello studio di Gioacchino Volpe3, forse l’unico serio storico di parte fascista, per il quale lo Stato fascista, unito e forte, fu il perfezionamento dello Stato risorgimentale, diviso e debole, e nel “Manifesto degli intellettuali fascisti” di Giovanni Gentile, in cui si presenta lo spirito “giovanile” fascista come il degno erede della Giovine Italia (1831) mazziniana4. Raccogliendo i risultati della critica a lui più recente, nel suo studio Valsecchi fissa tre punti fondamentali:

a) i fattori del Risorgimento non sono solo ideali (riscontrabili cioè nei bisogni di nazionalità, indipendenza, unità, diffusisi in Italia con la Rivoluzione francese, il periodo napoleonico ed il Romanticismo), ma anche concreti, reali, come quelli dettati dalla necessità di avere mercati più vasti e liberi, necessari al nuovo sviluppo produttivo, vie di comunicazione non ostacolate da dazi protettori e da barriere doganali;

b) le nuove esigenze di libertà e indipendenza furono sentite da una minoranza della popolazione, soprattutto da intellettuali, studenti, commercianti, professionisti, mentre il popolo, soprattutto nelle campagne, rimase indifferente e talvolta ostile;

c) ma ciò che soprattutto costituisce, per Valsecchi, la base spirituale del Risorgimento è la necessità di superare il particolarismo, l’individualismo che per tanti secoli era stata la rovina politica dell’Italia. Moderati e democratici. Repubblicani e monarchici, divisi per tanti motivi, sentirono la necessità di armonizzare gli interessi individuali con la comunità, di associare il cittadino allo Stato, di stabilire rapporti politici più elevati e più liberi.

In questo contesto s’inserisce l’opera di Giuseppe Mazzini, anima profondamente romantica, che crede che tale elevazione possa scaturire dal risveglio spirituale e religioso del popolo. In questo contesto si comprende anche come:

A) da un lato politici, storici e scrittori del Risorgimento accusarono un periodo aureo della storia culturale italiana, come il Rinascimento, di avere distrutto le “grandi virtù” dei liberi comuni per instaurare la tirannide delle signorie e degli Stati regionali, di avere causato la dominazione straniera successiva al termine del conflitto franco-asburgico (terminato nel 1559 con la pace di Cateau-Cambresis), di non avere favorito, in Italia, la diffusione della Riforma Protestante;

B) dall’altro il filosofo Benedetto Croce ha ritenuto “storicamente vuote”5 queste accuse ed ha invece scorto tra i due movimenti un profondo legame; se si guarda più a fondo e senza pregiudizi, secondo Croce, ci si accorge che il Risorgimento fu “la ripresa del Rinascimento, cioè del suo motivo razionale, che ha condotto la storia europea dalla monarchia antipapale

1 Cfr. F. Valsecchi, Garibaldi e Cavour, in Nuova Antologia, 1960. 2 Cfr. P. Gobetti, Risorgimento senza eroi, Torino, 1926. 3 Cfr. G. Volpe, Momenti di storia italiana, 1925. 4 Cfr. G. Gentile, Manifesto degli intellettuali fascisti, 21 aprile 1925, in E. R. Papa, Storia di due manifesti, Feltrinelli, Milano, 1958. 5 Cfr. B. Croce, La crisi italiana del Cinquecento e il legame del Rinascimento col Risorgimento, in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, vol. I°, Laterza, Bari, 1945, pp. 1-16.

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al giacobinismo, alle repubbliche democratiche, fino poi alle richieste di costituzioni liberali”.6

Ma il superamento del particolarismo è espresso compiutamente da Mazzini in Fede e Avvenire: “Quando un polo crede nel vero Dio, deve necessariamente amare la libertà, la patria, l’indipendenza, l’unità, il progresso, la fratellanza, la società”7 . In Fede e Avvenire Mazzini auspica entusiasticamente una rivoluzione popolare: popolo e monarchia sono irriducibilmente nemici. Il popolo è perennemente giovane e sogna un avvenire di libertà, la monarchia è ancorata ai suoi privilegi. Bisogna risvegliare in un popolo “assonnato”8 i sentimenti di libertà e vendetta; il popolo, al momento, è rassegnato alla sconfitta perché sfiduciato. Nel popolo, al momento, manca la fede, non quella individuale del martirio, ma quella globale, sociale, che porta alla vittoria. Con lo stesso stile ‘infiammato’ Mazzini ci parla di una missione liberatrice che il popolo deve compiere perché animato da Dio. “Dio e Popolo” è infatti uno degli ‘slogan’ del programma mazziniano, oltre a “Pensiero ed Azione”, nel quale notiamo l’influenza della filosofia hegeliana, e “Unità e Repubblica”. E’, questa stessa enfasi mazziniana, presente nell’Ode civile “Marzo 1821”9 di Alessandro Manzoni, nella quale, con fervore patriottico, il poeta auspica la coesione dei patrioti piemontesi e lombardi, nonostante il generale fallimento dei moti degli anni ’20. Sia pure con una dimensione religiosa, Manzoni fa proprio un concetto giacobino: identifica nazione, popolo, patria. Alla fine del coro dell’atto III° dell’Adelchi si parla di “un volgo disperso che nome non ha”.10 Intellettuali italiani di poco precedenti a Manzoni, come Vincenzo Cuoco11 ed Ugo Foscolo12 fanno la stessa operazione. Massimo D’Azeglio s’inserisce nel dibattito politico-risorgimentale auspicando, da una posizione liberale moderata, un “Risorgimento senza Rivoluzione”13; D’Azeglio è quindi fiducioso in un’evoluzione della società moderna verso il sistema rappresentativo. Scopo dei sovrani è rendere felici (D’Azeglio recupera qui una categoria illuministica, quella della “felicità”14) i sudditi e questo è possibile solo con una reciproca collaborazione dei Principi tra loro. Per rendere felici i popoli bisogna appoggiarsi alla forza morale ed alla ragione e rifiutare la prassi rivoluzionaria che ha fatto leva sulla forza materiale e sulle società segrete, che hanno dimostrato il loro fallimento; in questa analisi D’Azeglio riprende la tesi mazziniana circa la necessità di superare i limiti delle società segrete. Nelle pagine di Massimo d’Azeglio emerge però uno stile pacato, molto diverso da quello mazziniano. Il progresso dev’essere “moderato”15 e deve tendere ad un sistema rappresentativo, unico possibile strumento per il progresso sociale, che è invece impensabile nel disordine della prassi rivoluzionaria; tale progresso è affidato ad un esercito regolare, alle leggi dei Codici, alla stampa, al miglioramento delle vie di comunicazione all’interno della penisola, alla libertà nei commerci, agli studi universitari. Vincenzo Gioberti riprende il moderatismo di D’Azeglio e la ‘religiosità’ mazziniana e spera nell’efficacia dell’idea religiosa, ma a differenza di Mazzini, ne affida l’iniziativa alla Chiesa cattolica, al Papa e poi ai Principi. Nella sua celeberrima opera16 afferma la tesi neoguelfa e rifiuta la prassi rivoluzionaria, considerata pericolosa dalla piccola e media borghesia cattolica alla quale Gioberti si rivolge. La rivoluzione porta solo disordine: non v’è pace senza ordine, né bene civile. Due sono le armi del potere sovrano: il diritto, cioè la forza morale, e l’esercito, cioè la forza materiale. Esistono due tipi di rivoluzione:

I) una moderata e legittima, tesa a modificare il potere sovrano quando è necessario;

6 Ibid. 7 Cfr. G. Mazzini, Fede e Avvenire e Questione morale, in Antologia degli scritti politici di Giuseppe Mazzini, a cura di G. Galasso, Il Mulino, Bologna, 1961, pp. 33/36. 8 Ibid. 9 Cfr. A. Manzoni, “Marzo 1821”, in Odi civili. 10 Cfr. A. Manzoni, Adelchi, “Coro dell’Atto III°”, in Tragedie. 11 Cfr. V. Cuoco, Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799, a cura di A. Bravo, Utet, Torino, 1976, pp. 161/68. 12 Cfr. U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Mursia, Milano. 13 Cfr. M. D’Azeglio, Proposta di un programma per l’opinione pubblica nazionale, Le Monnier, Firenze, 1847. 14 La categoria di “felicità” si trova gi espressa in AA. VV., Dichiarazione di indipendenza americana, 4 luglio 1776. 15 Cfr. M. D’Azeglio, Proposta…, cit.. 16 Cfr. V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, in Pagine storiche e politiche, a cura di F. Barbieri, Sei, Torino, 1927.

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II) una violenta ed illegittima, tesa a distruggere il potere sovrano per lasciare spazio solo all’anarchia, “sommo di tutti i mali”17.

La Rivoluzione francese è un esempio di demagogia, che grazie alle “furie della plebe”18 ha portato ad una nuova tirannide: si nota qui l’eco degli scritti di uno dei più feroci critici della Rivoluzione francese, il conte savoiardo Joseph De Maistre, che definì la ‘Grande Rivoluzione’ come “il parto del demonio che ha finito per porre sul trono un gendarme”19. Le rivoluzioni dell’Ottocento europeo sono fallite perché “brutte copie”20 della Rivoluzione francese. Dopo la critica della Rivoluzione, nell’opera del Gioberti si affermano le tesi neoguelfe: il potere temporale del papa afferma le sue radici nella storia, egli scrive, da diciotto secoli, è assistito da Dio, rafforzato dalla fede dei popoli e non ha mai violato le sovranità nazionali, anche nei momenti più difficili della storia. Per Carlo Cattaneo, milanese, animatore delle cinque giornate di Milano, il fallimento dei moti del 1848 risiede nelle responsabilità dei Savoia, al cui potere bisogna sostituire un federalismo laico, gli “Stati Uniti d’Europa”21, sul modello degli Stati Uniti d’America. Il Piemonte è responsabile della sconfitta degli Stati italiani, mentre ogni stato deve essere libero e sovrano di sé stesso, il nemico austriaco è stato solo capace di farsi odiare dagli italiani assoggettati. Sovranità e libertà sono necessarie al popolo: i francesi hanno combattuto per la libertà, ma non l’ hanno avuta, a differenza degli americani, che l’ hanno conservata. L’Italia va organizzata per Cattaneo come uno Stato federale, come gli Stati Uniti d’America, indipendenti, ma uniti in caso di necessità. L’attuale divisione degli Stati italiani porterà soltanto alla servitù e solo un Congresso Nazionale può frenare le ambizioni dei re d’Italia. Scrive Cattaneo: “Giova ripetere: l’Italia non è serva delli stranieri, ma de’ suoi”22, quindi gli Stati regionali italiani sono servi dell’Austria perché prima sono servi di sé stessi, e la penisola è governata dagli Austriaci perché è incapace di governarsi autonomamente. Gli Austriaci sono solo “il braccio armato di monsignori e ciambellani italiani che volevano tenere l’Italia in catene”23. Cattaneo conclude la sua opera criticando la politica dei Savoia, del Piemonte, che non pensa agli interessi nazionali, ma solo ai propri, a conquistare Parma e Piacenza; lo storiografo milanese rivolge quindi le sue critiche sia alla monarchia sabauda che alla prassi rivoluzionaria, come emerge anche negli articoli de “Il Politecnico”, la rivista da lui fondata e considerata la ‘più moderna’ del Risorgimento in quanto quella maggiormente dotata di senso critico. Sull’idea di una federazione di Stati laici concorda anche Giuseppe Ferrari24, ma contrariamente al moderatismo, auspica una rivoluzione armata del popolo che porti ad un’unione di repubbliche federali laiche, e non poste sotto l’egemonia del Papa, a differenza del Gioberti. La questione politica non poteva inoltre essere scissa, per Ferrari, da quella sociale: protagonista della Rivoluzione italiana doveva essere un partito organizzato, di ispirazione democratica e socialista, capace di organizzare un vasto movimento di popolo; da qui la critica all’utopia mazziniana, che considerava la questione sociale secondaria e subordinata al problema dell’unificazione nazionale. Ferrari, conscio del fatto che la riscossa militare italiana dall’Austria sarebbe stata impossibile senza l’aiuto di una nazione amica, guardava fiducioso alla Francia, stessa idea che Cavour metterà in atto. Su un piano del tutto utopico si pone l’opera di Cesare Balbo25, in cui cercò utopisticamente di conciliare la liberazione dell’Italia con la neutralità dell’Austria, che avrebbe dovuto dirigere le proprie attenzioni sui Balcani e sull’impero ottomano, ormai indebolito, lasciando libera l’Italia; tale utopia non teneva conto delle aspirazioni alla libertà dei popoli che si erano già recentemente manifestate con l’indipendenza greca26. Il conte Camillo Benso di Cavour, consapevole dell’immaturità del popolo (a differenza di Giuseppe Garibaldi, che, estraneo ad ogni indottrinamento, vuole suscitarla combattendo qualsiasi forma di dominio, di schiavitù, d’ingiustizia e di disuguaglianza), ha fiducia nell’azione di uno Stato già organizzato a livello

17 Ibid. 18 Ibid. 19 Cfr. J. De Maistre, Del Papa, 1819, in I controrivoluzionari, a cura di C. Galli, Il Mulino, Bologna, 1981, pp. 79/87, 97. 20 Cfr. V. Gioberti, Del primato…, cit. 21 Cfr. C. Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848, in Opere scelte, vol. III°, Scritti 1848-1851, Einaudi, Torino, 1972, pp. 271/283. 22 Ibid. 23 Ibid. 24 Cfr. G. Ferrari, Filosofia della Rivoluzione, Londra, agosto 1851. 25 Cfr. C. Balbo, Le speranze d’Italia, Le Monnier, Firenze, 1844. 26 L’indipendenza greca fu sancita nel 1829 con il Trattato di Adrianopoli, successivo alla fondamentale battaglia di Navarino (1827): la Grecia nasce come Stato autonomo, sia pure sotto la tutela anglo-russa.

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internazionale: la Francia. Per questo crede che il Piemonte, come futuro Stato-guida della Nazione, debba inserirsi nel gioco politico-diplomatico delle grandi potenze, e trova l’occasione nella partecipazione, modesta, ma volontaria, alla guerra di Crimea, al fianco di Francia ed Inghilterra contro la Russia, per poi poter far presente, a conflitto ultimato e vinto, la situazione italiana al Congresso di Parigi del 1856 e stipulare gli accordi segreti di Plombieres con Napoleone III° due anni dopo. La sintesi tra il singolo e la comunità, tra l’individuo e lo Stato, tra la libertà e l’autorità, che Mazzini domandava ad una rinnovata coscienza religiosa, Cavour l’attende dall’azione dello Stato piemontese. Una vita comune, con le stesse leggi e strutture, con gli stessi interessi e vantaggi, con gli stessi diritti e doveri, insegnerà agli italiani di tutte le regioni a vincere il municipalismo, a stabilire rapporti civili e liberali, a formare una coscienza nazionale. Dallo Stato piemontese allo Stato italiano Cavour si propose di passare non attraverso l’azione del popolo, ancora assente, ma per mezzo del gioco diplomatico teso ad ottenere l’aiuto della Francia27. Consenso popolare e coscienza nazionale verranno dopo, con l’azione dello Stato liberale. Sull’idealismo democratico di Mazzini prevalse il realismo diplomatico di Cavour, con tutti i ‘pro’ e tutti i ‘contro’. Nel 1861 “si fece l’Italia, ma non si fecero gli italiani”, come scrisse Massimo D’Azeglio28, e fu l’Italia del Piemonte, di Vittorio Emanuele II° e del suo grande ministro. A tutte le regioni fu imposto dall’alto, e non ‘concesso’, lo Statuto albertino, e questa sarà una delle cause scatenanti la sempre viva “questione meridionale”. L’ ‘altra Italia’ , quella di Mazzini e Garibaldi, ‘fatta’ dal popolo, con le leggi e le istituzioni volute dal popolo, era ancora da venire. Nel duello tra l’ideale ed il reale vinse quest’ultimo, rappresentato da Cavour. Il mito del Risorgimento come “Rivoluzione incompiuta”, “Rivoluzione passiva” e “Rivoluzione fallita” perché opera di una politica dinastica piuttosto che dell’iniziativa del popolo italiano ha attraversato fin dall’inizio le ricostruzioni storiche di questa fase di formazione del nuovo Stato. Particolare importanza ha avuto l’interpretazione di Antonio Gramsci29, che ha influenzato tutti gli storici di sinistra che, nel secondo dopoguerra mondiale, hanno scritto opere sul Risorgimento. Gramsci accusa il partito d’Azione di Mazzini di astrattezza, di non aver considerato la questione contadina al Sud, facendo così il gioco delle forze di Destra, che andava a vantaggio dei latifondisti del Nord, che volevano il Piemonte come Stato-guida dell’Italia, senza interessarsi ai problemi del Sud. Anche Garibaldi fu un elemento nocivo alla questione meridionale, nell’interpretazione gramsciana, poiché la politica di Garibaldi era dettata dall’autoritarismo di Crispi, ed i garibaldini repressero nel sangue alcune rivolte contadine contro i proprietari terrieri; in proposito Gramsci fa esplicito riferimento alle novelle di Giovanni Verga in cui si narrano, con crudo realismo, tali vicende30. Sia Mazzini che Garibaldi, secondo il fondatore del partito comunista d’Italia, non avevano compreso che la questione agraria poteva essere invece la molla per fare entrare in scena le masse, e fare del Risorgimento un successo dell’Italia intera e non solo del Nord. Benedetto Croce, come già detto, nel primo Novecento esalta la profonda trasformazione spirituale ed il notevole progresso politico, economico e sociale che si ottennero in tutta l’Italia dal 1861 al 1915. Per Croce, in questo periodo in Italia si va formando una vita nazionale comune che supera le grette e meschine vite regionali. Persino Gladstone, noto ministro liberale dell’Inghilterra vittoriana, afferma Croce31, paragonò il cambiamento dell’Italia alla trasformazione della Francia tra il 1789 e l’Impero napoleonico. Pasquale Villari, storico meridionalista e ministro della Pubblica Istruzione nel 1891-92, invece, che potè osservare direttamente la vita italiana dell’Ottocento, espresse un giudizio ben diverso da quello crociano: per Villari, sostanzialmente, il Risorgimento non è avvenuto, in quanto “non portò affatto alcuna profonda trasformazione, non vi furono << uomini nuovi >> alla guida del Paese e la guerra contro l’Austria fu vinta con l’aiuto della Francia”32; Villari sembra quindi dar ragione a Bismarck nel minimizzare il contributo italiano dato alla causa nazionale, risolta con l’aiuto di potenze straniere, quali Francia e Prussia, vale a dire appunto con il noto motto bismarckiano delle “ 3 S “ (Solferino, Sadowa, Sedan).

27 Cfr. C. B. Cavour, Discorsi parlamentari, vol. XII° (1855-56), cura di A. Saitta, La Nuova Italia, Firenze, 1961, pp. 362/363. 28 Cfr. M. D’Azeglio, Proposta… , cit. 29 Cfr. A. Gramsci, Il Risorgimento, in Quaderni dal carcere, vol. III°, Editori Riuniti, Roma, 1975. 30 Cfr. G. Verga, “Libertà”, in Novelle rusticane, a cura di C. Riccardi, I Meridiani, A. Mondatori, Milano, VI edizione, 2001. Si narra, con stile crudamente realistico, di come le “berrette bianche” di lana dei contadini si rivoltarono contro i “cappelli” dei signori, i proprietari terrieri a Bronte, piccolo borgo alle pendici dell’Etna, non lontano da Catania; nella seconda invece si descrive l’arresto e la fucilazione indistinta dei contadini da parte del generale garibaldino Nino Bixio, subito dopo la spedizione dei Mille (Bixio non viene esplicitamente nominato da Verga, come nemmeno il paese di Bronte, per una maggiore fedeltà dello scrittore al canone verista dell’impersonalità dell’opera d’arte). 31 Cfr. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari, 1942. 32 Cfr. P. Villari, Saggi di storia, critica e politica, Firenze, 1868.

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In quest’ordine d’idee, ma con maggiore pessimismo si muove Piero Gobetti, storico liberale, antifascista, amico di Gramsci: definì anch’egli il Risorgimento “una Rivoluzione fallita”33, essendo stato condotto non dal popolo unito, ma dai “vecchi conservatori camuffati da liberali”, disposti a tutti i compromessi con il passato e perciò incapaci di comprendere la dinamica della storia dei nuovi tempi, che esigeva l’inserimento del popolo nella vita dello Stato. Scrive infatti Gobetti: “Mancò l’azione, la funzione del popolo, forza di ogni rivoluzione e la conquista dell’indipendenza non fu sentita tanto da diventare la vita intima della nazione stessa”34. Più recentemente, a conclusioni ancora più negative è pervenuto Gaetano Salvemini, storico meridionalista e socialista: sulla base di una rigorosa documentazione, lo storico pugliese afferma che se per Rivoluzione s’intende un movimento violento illegale che distrugge un regime politico-sociale e lo sostituisce con un altro completamente opposto (ed è questa la definizione marxiana di “Rivoluzione” nel Manifesto del partito comunista), come avvenne in Francia nel 1789 ed in Russia nel 1917, si deve escludere nella maniera più categorica che in Italia, dopo il 1861, ci sia stata una Rivoluzione, in quanto la politica del Crispi, un “autoritario di Sinistra”35, nel 1871 appariva ben lontana dallo spirito mazziniano di educare il popolo, e “se qualcuno cercava di educarlo finiva in prigione”36. Non si può parlare, per Salvemini, non solo di Rivoluzione, ma neanche di democrazia: basti pensare che dopo le riforme della Sinistra Storica solo il 9% della popolazione aveva il diritto di voto, dal quale erano esclusi braccianti, contadini, mezzadri, piccoli proprietari, operai, artigiani, anche i professionisti e la parte inferiore degli intellettuali. Non si può quindi parlare di democrazia, ma di autentica oligarchia. Venne meno, per Salvemini, anche un’altra condizione essenziale della democrazia: la presenza di una vera e propria opposizione parlamentare. Questo è il dato fondamentale sul quale si basa l’analisi del noto storico inglese Denis Mach Smith37 per negare alla classe dirigente italiana, da Cavour a De Gasperi, una vera capacità e volontà democratica. Il connubio Cavour-Rattazzi, secondo Mach Smith, inaugurò in Italia quel sistema di coalizione che ben preso diede luogo al trasformismo inaugurato dalla Sinistra Storica di Agostino Depretis e dal parlamentarismo del liberale Giovanni Giolitti. Il sistema, fondato sul compromesso di interessi personali tra gli uomini più influenti di partiti avversi, eliminando il controllo e la critica dell’opposizione, paralizzò la lotta politica e la sostituì con gretti calcoli di interesse opportunistico. La vita parlamentare fu così ridotta ad un coacervo di uomini dalle idee più diverse, ma uniti insieme da meschini interessi contingenti. Mach Smith porta a sostegno delle proprie tesi un grande letterato, testimone del tempo, Francesco De Sanctis, che nel 1887 constatava che, “In Italia non esistevano più partiti solidamente organizzati, all’infuori di quelli fondati sugli antagonismi regionali o sul rapporto personale tra cliente e patrono. I gruppi esistenti erano composti da uomini pronti a cambiare idee e posizioni a seconda dei particolari e personali interessi”38. In epoca attuale lo storico inglese Paul Ginsborg39 e lo storico tedesco George Mosse, studiosi della storia italiana, hanno invece sottoscritto l’idea di un “Risorgimento di massa”, portato avanti dal popolo e non da pochi intellettuali o politici, come Cavour e Vittorio Emanuele II° . Le masse sono coinvolte, afferma Mosse, perché nel Risorgimento, periodo storico parallelo al Romanticismo, “si parla più al cuore che alla ragione”40, a differenza dell’Illuminismo settecentesco. Mosse spiega questo affermando che c’è stata un’ “estetica della politica”41, presente nei romanzi di ampia divulgazione,nei melodrammi, molto popolari al tempo (i biglietti per il teatro, nelle gallerie chiamate “piccionaie”, costano poco e la gente va a vedere i melodrammi che hanno come oggetto, latente o manifesto, il tema della patria), nelle pitture, vendute come stampe per pochi centesimi, nelle canzoni. Giovanni Berchet, il capostipite del Romanticismo italiano con la ‘Lettera semiseria’42, è sicuramente un intellettuale che contribuisce a questa ‘estetica della politica’; teniamo inoltre presente che nell’Ottocento si assiste ad una prima fase di disoccupazione intellettuale per cui gli scrittori si cimentano in temi ‘più caldi’ e più sentiti dal popolo, come quelli della “nazione”, termine

33 Cfr. P. Gobetti, Risorgimento…, cit. 34 Ibid. 35 Cfr. G. Salvemini, Scritti sul Risorgimento, Milano, 1861 36 Ibid. 37 Cfr. D. M. Smith, Storia d’Italia. 1861-1958, Laterza, Bari, 1959. 38 Ibid. 39 Cfr. P. Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Feltrinelli, Milano, 1978. 40 Cfr. G. Mosse, La cultura dell’Europa Occidentale nell’Ottocento e nel Novecento, Mondatori, Milano, 1986. 41 Ibid. 42 Cfr. G. Berchet, Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, a cura di L. Reina, Mursia, Milano, 1977.

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ereditato nell’accezione del vocabolario politico della Rivoluzione francese come sinonimo di “patria” e di “popolo”43. Per lo storico contemporaneo Alberto Mario Banti, docente di storia del Risorgimento all’Università di Pisa, i temi che nel Risorgimento toccano il cuore della gente sono essenzialmente tre44:

I. si parla della “nazione” come di una “famiglia” e non a caso si usa il termine “sangue” che accomuna i nostri avi con noi. La nazione è la famiglia e siamo legati ad essa da un vincolo di sangue. La patria è il “pater” e nell’ “Inno di Mameli”45, che diventa molto importante dopo il 1848, si usa il termine “fratelli”;

II. si valorizzano le donne da parte degli intellettuali del Risorgimento, poiché alle donne è affidata la proliferazione dei figli della patria; si mescolano amore passionale ed amore per la patria, come nel caso del romanzo autobiografico epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis46 di Foscolo, in cui il protagonista Jacopo, proiezione dello stesso Foscolo, si uccide dilaniato dalla duplice passione, amorosa e politica, avendo perso Teresa e vedendo l’Italia ovunque asservita allo straniero. Le donne diventano quindi le eroine della nazione, spesso stuprate dai nemici. Acquista dunque importanza il tema dello stupro della donna, che va difesa: anche Manzoni ci parla di stupro ne I Promessi Sposi quando un signorotto straniero, don Rodrigo, tenta di stuprare una contadina locale, Lucia Mondella47.

III. Coloro che militano nel movimento risorgimentale hanno il dovere del “sacrificio”, un termine che significa rendere “sacro” un determinato comportamento. Coloro che combattono, soffrono, muoiono per la nazione sono “martiri”, parola che nel greco biblico significa “testimone”: il tema del martirio è quindi ripreso dalla tradizione cristiana. Questo è importante per comprendere ancora la ‘religiosità’ risorgimentale e mazziniana, “Risorgimento” significa infatti “Risurrezione” in termini teologici ed anche nell’ultima edizione del Vocabolario dell’ “Accademia della Crusca”. Il libro Cuore48 di Edmondo De Amicis esalta l’amor di patria come un vero e proprio turbinio di passioni: si ama l’Italia perché gli avi sono italiani, la lingua è italiana, il paesaggio è italiano, il tricolore è italiano, i martiri con le teste bendate ed i moncherini fasciati sono italiani. Il nazional-patriottismo sostiene che è meglio morire che essere vili o traditori, indegni figli d’Italia.

Banti riflette sul tema della patria nel Risorgimento, ma non sposa certo alcuna forma di neonazionalismo, come dimostrato dal suo articolo apparso recentemente su “Il Manifesto”49, nel quale critica il comico Benigni per la sua celebrativa irruzione a cavallo, con tanto di tricolore in mano, avvenuta la sera di giovedì 17 febbraio 2011 a San Remo: proprio Benigni, afferma Banti, che anni fa scherzava con Troisi su “Fratelli d’Italia”. Sembra che Benigni inneggi al peggior neonazionalismo che ha alimentato la storia d’Italia dal Risorgimento al fascismo; non ci si deve stupire, scrive il docente dell’ateneo pisano, che a tale neo-nazionalismo inneggino ministri come La Russa e Meloni, ma di Benigni ci si deve proprio stupire in negativo ed augurare che tale spiacevole episodio si sia limitato ad una serata. In conclusione, il mio intervento, introduttivo al suddetto Convegno di studi che si svolge in occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, che ricorre proprio domani 17 marzo 2011 (il 17 marzo 1861 è infatti il giorno in cui Vittorio Emanuele II° diventa re d’Italia e non più del Regno di Sardegna ed è anche il giorno della proclamazione del Regno d’Italia e della prima seduta del Parlamento italiano con capitale a Torino), non è certamente stato esaustivo della sterminata bibliografia sull’argomento, ma anche per logistiche ragioni spazio-temporali, si è voluto limitare a considerare alcuni autori e studi che hanno offerto un contributo imprescindibile su questo tema; si allega, in proposito, una bibliografia essenziale sull’argomento. Saluto e ringrazio i colleghi di materia e gli studenti che hanno partecipato per avermi seguito. MARCO MARTINI

43 Cfr. AA. VV., Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, 26 agosto 1789. 44 Cfr. M. A. Banti, Il Risorgimento italiano, cap. IV°, “Immaginare e progettare una nazione (1820-1847)”, Laterza, Roma-Bari, 2004 e L’onore della nazione, Einaudi, Torino, 2005. 45 Cfr. G. Mameli, “Fratelli d’Italia”, Torino, settembre 1847. 46 Cfr. U. Foscolo, Ultime…, cit. 47 Cfr. A. Manzoni, I Promessi Sposi, a cura di N. Sapegno – G. Viti, Le Monnier, Firenze, 1988. 48 Cfr. Edmondo De Amicis, Cuore, Garzanti, Milano, 1964. 49 Cfr. A. M. Banti, articolo “fuori pagina”, in “Manifesto”, 20-02-2011.

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B I B L I O G R A F I A

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