Il danno biologico da vessazione e da violenze morali sul posto di lavoro: una guerra non dichiarata
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Il danno biologico da vessazione e da violenze morali sul posto
di lavoro:
una guerra non dichiarata.
Dott. Enzo Cordaro, psicoterapeuta, direttore centro per la rilevazione del danno biologico mobbing
compatibile - ASL RMD - [email protected] - www.apolisprevenzione.it
Dott. Roberto Rossi, psicoterapeuta, responsabile accoglienza centro per la rilevazione del danno biologico
mobbing compatibile - ASL RMD - [email protected]
L’ autorità razionale si fonda sulla competenza ed aiuta a crescere coloro che si appoggiano ad essa;
l’autorità irrazionale si basa sul potere e serve a sfruttare la persona che ad essa è asservita.
Eric Fromm
Le caratteristiche del contesto lavorativo assumono un’importanza speciale per riuscire a
comprendere la sofferenza psicologica del singolo individuo che sia intenzionalmente sottoposto a
relazioni umane disfunzionali e vessanti. L’esperienza di un centro per la valutazione del danno
biologico mobbing compatibile ha evidenziato, infatti, le specificità di vari contesti lavorativi
dominati da arroganza, protervia e sopraffazione, caratterizzati dalla consistente presenza di
emozioni negative, da elementi di disgregazione sociale, da competitività esasperata ed, infine,
limitati nelle proprie potenzialità da un’organizzazione disfunzionale non orientata primariamente
al raggiungimento degli obiettivi.
In un posto di lavoro caratterizzato, invece, da tolleranza, convivenza e accoglienza, l’emozionalità
è considerata come un valore aggiunto ed un elemento centrale di progettazione: la coesione
sociale che ne deriva, permette la presenza di una competitività leale e l’organizzazione può così
esprimere al meglio la propria potenzialità.
Il contesto lavorativo è comunque il luogo in cui tutte le relazioni e le comunicazioni assumono il
loro significato, ed il carattere individuale delle persone viene definito, permettendone la crescita a
livello individuale e sociale. Ne deriva quindi come, a causa di un contesto relazionale vessante e/o
disfunzionale, il soggetto possa sperimentare una notevole sofferenza psicologica che si può
concretizzare nelle patologie stress correlate, quali le malattie psicosomatiche, i disturbi
dell’adattamento (con ansia, depressione, disturbi dell’emotività e della condotta), i disturbi post -
traumatici da stress; tutte patologie individuate da un Decreto Ministeriale come “malattie
psichiche e psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione e del lavoro” - (lista n. 2 del DM 14-
1-08).
Un altro riferimento legislativo è rappresentato dal D.lgs. 81/08 (e successive modifiche D.lgs.
106/09) che prevede la precisa responsabilità del datore di lavoro nel garantire l’assenza di rischi
chimici, fisici, biologici e psicosociali sul posto di lavoro. La novità della legge è la puntuale
considerazione dei rischi psicosociali che possono portare a patologie stress - correlate sui posti
di lavoro. Nel caso in cui il lavoratore manifesti una sofferenza psicologica riconducibile
all’organizzazione lavorativa, scatta l’obbligo per il datore di lavoro di rimuoverne le cause. Se
fosse accertato il mobbing, verificata la conoscenza di questo da parte del datore di lavoro, si
configurerebbe la sua colpa per dolo, mentre nel caso di una sua ignoranza dei fenomeni di disagio
da lavoro, si configurerebbe la sua negligenza, per non aver effettuato interventi atti a rimuovere i
fattori di rischio psicosociali. In questo quadro, le aggressioni ai danni di un lavoratore, compiute
nel proprio ambiente, non sono più eventi che “possono succedere”, lasciando alle capacità
individuali di difesa il compito di far fronte alle violenze morali, ma è individuata in modo preciso la
responsabilità di chi gestisce l’organizzazione di evitarle a tutti costi, allo stesso modo di come si
dovrebbe evitare la presenza di rischi fisici o biologici che potrebbero danneggiare la salute del
lavoratore.
Il fenomeno del mobbing può essere definito come un’aggressione psicologica deliberata e ripetuta
nel tempo ai danni di un membro del gruppo di lavoro, con la finalità di espellerlo, isolandolo dai
colleghi e provocando sofferenze psicologiche fino a spingerlo all’estromissione dal servizio o
all’auto - licenziamento. La parola deriva dal verbo inglese to mob (attaccare) ed è stata coniata da
K. Lorentz per descrivere l’attacco di un gruppo di animali ai danni di un proprio membro, allo
scopo di escluderlo.
Le nostre osservazioni hanno categorizzato due forme principali di comportamenti comunicativi
nell’ambito delle violenze morali:
1. Comportamenti squalificanti, nei quali la comunicazione nel contesto mobbizzante è basata sul
rifiuto del ruolo lavorativo della vittima. Il rifiuto non comporta la negazione dell’esistenza del
mobbizzato. La vittima non è ignorata totalmente come persona: infatti, essa può ottenere
ancora un minimo di considerazione, ma è squalificata in quanto soggetto lavoratore, perché il
messaggio relazionale veicolato dai comportamenti del gruppo è: “non fai parte di questo
gruppo”. Le “costrittività organizzative” prevalenti sono l’assegnazione di compiti lavorativi de-
qualificati rispetto al profilo professionale posseduto, in modo da confermare un’immagine
d’incompetenza per la vittima e la sua marginalizzazione ed isolamento che causano un vissuto
depressivo ed un calo dell’autostima. Inoltre, esercizio esasperato ed eccessivo di forme di
controllo, lo screditamento della reputazione ridicolizzando, calunniando e attaccando le
diversità di pensiero, i rimproveri ed i richiami per errori normalmente trascurabili,
contribuiscono a danneggiare l’immagine di sé del colpito, che può reagire ribellandosi ed
innescando un circuito conflittuale che difficilmente non lascerà i suoi segni, per molto tempo,
sulla vita personale e familiare.
2. Se le caratteristiche della comunicazione nel contesto violento sono improntate dalla
pressoché totale indifferenza dei capi e dei colleghi nei confronti della vittima parliamo di una
situazione di disconferma, in cui non vengono assegnati né gli strumenti di lavoro, né i compiti
lavorativi, con inattività forzata, svuotamento delle mansioni e marginalizzazione dalla attività
lavorativa. Completano il quadro, l’isolamento della persona dal resto del personale, con
proibizione di rivolgergli la parola e l’inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni
inerenti all’ordinaria attività di lavoro. Con questa configurazione relazionale e comunicativa, si
ignora quello che prova e pensa la vittima, con l’obiettivo, spesso raggiunto, di minare la
capacità di un individuo di padroneggiare il rapporto con gli altri, con se stesso e, addirittura,
con la realtà. In questo caso, il carattere della violenza esercitata verso il lavoratore ha effetti
molto più devastanti, in quanto l’attacco è rivolto contro la persona nella sua totalità, ovvero
contro la sua esistenza relazionale.
All’interno dell’esperienza da noi effettuata, abbiamo avuto modo di osservare parecchi casi
provenienti da situazioni altamente gerarchizzate, come le forze armate, la polizia, le guardie
giurate, i vigili urbani. In questi casi, il contesto relazionale ed organizzativo, che abbiamo visto
essere particolarmente influente nel mantenimento di un equilibrio psicologico ottimale, è
caratterizzato da un’organizzazione altamente formale, amministrata centralmente a tutti i livelli
organizzativi, secondo una struttura piramidale che tende a controllare anche gli aspetti più
dettagliati della vita privata del soggetto, arrivando ad influire sulle dinamiche relazionali del gruppo
di lavoro.
Inoltre, chi vuole farne parte deve manifestare la sua piena identificazione con le intenzioni e le
finalità espresse dall’istituzione, attraverso una scelta di piena adesione ai valori da essa
rappresentata: legalità, onestà, rettitudine, importanza del gruppo maggiore di quella dell’individuo,
obbedienza, difesa dei cittadini, difesa della patria, difesa dei più deboli. Questa piena
identificazione con l’istituzione, necessaria per farvi parte, può rappresentare un ulteriore fattore
di fragilità: essersi pienamente identificati con un gruppo d’appartenenza e poi venirne esclusi,
significa minare ancor di più le basi del proprio senso d’identità.
Un’altra caratteristica prevalente di questi ambienti lavorativi, è la diversità delle loro regole da
quelle del mondo lavorativo esterno, che rappresenta una importante fonte di difficoltà e
sofferenza, in quanto chi è colpito da vessazioni e violenze morali non può essere difeso, come
accadrebbe ad un altro cittadino (grazie alla tutela sindacale, al codice civile): si aggiungerebbe
quindi un sentimento di estraniazione dalla comunità civile.
L’elevata concentrazione di potere in poche mani, dovuta alla struttura organizzativa piramidale,
aumenta il rischio che deviazioni comportamentali individuali possano manifestarsi in
comportamenti vessatori nei confronti di soggetti sottomessi, senza la possibilità di controlli o
limitazioni.
Dalle nostre osservazioni, l’elemento “trigger” (grilletto) che innesca le violenze morali può essere
rappresentato da uno dei seguenti eventi relazionali sul posto di lavoro:
1. Il soggetto manifesta sul lavoro un eccessivo zelo o professionalità quando invece il contesto
richiede complicità nei confronti di comportamenti del gruppo percepiti come irregolari, non
morali e non etici; oppure il soggetto, di solito un ufficiale, avanza delle proposte di
innovazione che confliggono con la staticità organizzativa presente nelle forze armate,
mettendo in crisi antichi e consolidati equilibri.
2. Vengono richiesti benefit (es. 104, alloggi riservati) ai quali si ha diritto, ma questo entra in
conflitto con l’usanza vigente dei superiori di concederli solo discrezionalmente, in modo da
esercitare ulteriormente il proprio potere.
3. Riorganizzazione: più tipico delle forze di polizia, l’arrivo di una nuova dirigenza richiede una
fedeltà che la “vecchia guardia” potrebbe non garantire, per cui quest’ultima viene esclusa con
violenza.
4. Malattia: una condizione di fragilità, sfruttata per escludere il soggetto che non sarebbe più
considerato “affidabile”: in realtà viene temuta la rivendicazione di diritti alla malattia collegati.
Non diversamente dal resto della popolazione degli afferenti al nostro centro, il danno biologico
rilevato consiste, oltre alle patologie tabellate dal decreto ministeriale del 14-1-08, in disturbi della
personalità, con difficoltà nello stabilire relazioni interpersonali soddisfacenti, a causa di
sospettosità, diffidenza, mancanza di fiducia, inibizione nell’espressione dei propri sentimenti;
depressione; con drastico calo dell’autostima, apatia, difficoltà nell’infuturazione; elevata ansia che
viene espressa tramite disturbi somatici: insonnia, cefalee, impotenza sessuale, disturbi
gastrointestinali e dermatologici. Queste condizioni di sofferenza, inoltre, sono alla base di
importanti compromissioni del funzionamento sociale e familiare dei colpiti.
Le serie difficoltà psicologiche, certificate dal nostro centro, affondano le loro radici nell’incontro
fra un’organizzazione caratterizzata da particolari rigidità ed una persona portatrice di importanti
aspettative esistenziali che cercano di essere soddisfatte facendo parte di un’organizzazione del
genere. Infatti, dai racconti dei nostri utenti, emergono i loro valori e problematiche che in
qualche modo hanno rappresentato la spinta a scegliere di lavorare in contesti “militari”:
1. Valori di salvaguardia e protezione dell’altro, che il soggetto vive come particolarmente
fondanti la propria autostima e senso d’identità, che l’istituzione rappresenta e dovrebbe
garantire attraverso il rispetto della legalità.
2. il puntuale rispetto delle regole e delle procedure standardizzate, tipico delle organizzazioni
altamente gerarchizzate, è un elemento che può garantire a determinate personalità la
riduzione dell’incertezza e quindi la riduzione della propria ansia personale.
3. Il rispetto delle regole, della disciplina e della moralità, tipiche delle forze armate o di polizia
sono “attrattori psicologici” che inducono a farne parte persone provenienti da una tradizione
familiare di professioni militari, o legali: in qualche modo la scelta della professione del soggetto
rimane permeata da questi valori, in modo da confermare il mandato familiare.
4. I soggetti provengono da famiglie in cui la professione militare è considerata fonte di riscatto e
rivincita sociale (le forze armate sono considerate a livello simbolico come un “buon padre di
famiglia” che garantisce reddito e rispettabilità).
Avviene così che il soggetto ricerchi nell’istituzione i suoi valori di riferimento, allo scopo di
confermare la propria struttura di personalità e continuare a rispettare i valori familiari. Questo
incontro fra il soggetto e l’istituzione può rivelarsi terreno fertile per le molestie e le violenze
morali, quando l’istituzione non mantiene le sue premesse valoriali a causa delle sue percepite
inefficienze, clientele e disorganizzazione: in questo caso, infatti, il soggetto, che sente come tradite
le premesse, si appella ai valori, che vede compromessi, con rivendicazioni, puntigliosità,
implementazione di conflittualità anche legali. Inizia così un percorso conflittuale, in cui l’istituzione
difende se stessa iniziando e/o proseguendo le pratiche vessatorie tese ad escludere il soggetto.
Il disagio personale che ne deriva rende la persona più fragile ed isolata, in quanto sperimenta un
forte disequilibrio valoriale che si ripercuote sul senso di autostima e d’identità.
In un periodo a cavallo fra il 2008 ed il 2009, su un
campione di 212 utenti, il 9% dei soggetti proveniva da
organizzazioni altamente gerarchizzate (Fig. 1).
All’interno di questo campione, vediamo come sono
rappresentate le varie categorie delle forze armate (Fig.
2). Per effettuare un confronto con le altre categorie di
utenti colpiti da mobbing, abbiamo rilevato che il 9%
proveniva da organizzazioni altamente gerarchizzate,
Il 5% degli utenti da ASL- aziende ospedaliere,
Figura 1
Il 4% utenti da banche (compreso Poste Italiane) ed Il 3% degli utenti da TELECOM. Questo
dimostra come le varie tipologie di forze armate siano ampiamente rappresentate nel campione,
con una numerosità maggiore rispetto ad altre categorie di lavoratori, relativamente confrontabili
per importanza e rilevanza.
Un altro dato da rilevare è quello che evidenzia
come tra gli utenti provenienti da
organizzazioni altamente gerarchizzate, il 79%
avevano un ruolo di quadro o dirigente: è la
dimostrazione che il mobbing, in questi casi,
colpisce le persone con più responsabilità che
possono, quindi, esprimere un maggior grado di
autonomia decisionale e di opinione; al
contrario della popolazione degli utenti, dove il rapporto si inverte: infatti qui la dirigenza / quadri
è rappresentata solo dal 33% degli utenti.
Dai dati da noi raccolti risulta, quindi, che il mobbing si esprime nell’ambito delle forze armate con
le stesse modalità e frequenze con cui si esprime negli altri comparti del lavoro. Con due
particolarità in più: la prima rappresentata dalla maggiore rigidità ed immobilismo che le istituzioni
militari devono avere nel loro funzionamento; una rigidità che in alcuni casi va a discapito
dell’individuazione dei bisogni soggettivi dei suoi membri. La seconda è che la tipicità del lavoro
non è garantita da una contrattualità sindacale che possa rappresentare la possibilità di gestire il
conflitto. Non sta a noi dire se le istituzioni militari possono essere organizzate in modo diverso,
ma sta a noi dire che le peculiarità sopra descritte possono rappresentare un terreno fertile in cui
una gestione del potere autoritario, può incrementando ulteriormente comportamenti vessatori e
prevaricatori.
Se il fenomeno sta emergendo in questo periodo è a causa della maggiore informazione e
sensibilità dei media, che prima tendevano a liquidare come fenomeni di “nonnismo” i
maltrattamenti e le violenze morali, con il risultato di considerarli come innocua goliardia,
stendendo una coltre di indifferenza sulla reale sofferenza di chi ne era colpito.
Continuare a minimizzare il fenomeno contribuirebbe, oggi, a perpetrare queste forme di violenza
morale, colludendo con la rigidità organizzativa di istituzioni che devono invece adeguarsi al più
presto alla nuova cultura di prevenzione dei rischi organizzativi.
Figura 2