Il contratto didattico

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B. Martini, Didattiche disciplinari. Aspetti teorici e metodologici, Pitagora editrice, Bologna, 2000, pp. 79-89. Il contratto didattico Nelle pagine precedenti abbiamo spesso fatto riferimento, in maniera volutamente generica, ai sistemi formali che dettano le “regole” e le “attese” reciproche cui i diversi “attori” del sistema didattico sono più o meno implicitamente assoggettati nel corso della relazione didattica. La necessità di definire più precisamente l’àmbito di applicazione di tali “regole”, ma anche le condizioni nelle quali esse vengono accolte o rifiutate e più in generale la possibilità di comprendere in maniera più critica e problematica il senso dei comportamenti degli allievi e degli insegnanti e la loro incidenza sull’evoluzione del processo di insegnamento/apprendimento, passano attraverso l’introduzione del concetto di contratto didattico 1 che descriveremo nelle pagine seguenti. Cominceremo col richiamare brevemente il contesto empirico nel quale il concetto è nato per passare poi ad analizzare le ragioni che lo situano oggi, dal punto di vista epistemologico, tra i concetti fondamentali delle didattiche disciplinari. All’inizio degli anni ottanta, si impone all’attenzione dei ricercatori in didattica della matematica lo studio di un caso di fallimento elettivo 2 (il “caso Gaël”) per spiegare il quale Brousseau e Péres 3 ricorrono alla nozione di contratto didattico. Gaël è un bambino di poco più di otto anni la cui interazione con l’ambiente didattico si riduce all’applicazione di modelli e routines didattiche (algoritmi, schemi risolutivi,…) la cui utilizzazione è giustificata attraverso il ricorso pressoché esclusivo all’insegnante (a quello che la maestra gli ha insegnato o gli ha detto di fare). Solo il coinvolgimento sistematico di Gaël da parte dei ricercatori in situazioni a-didattiche provocherà una rottura nella sua concezione di situazione didattica, permettendogli di intrattenere con essa una interazione cognitivamente produttiva. È dunque all’interno di un contesto di interazione fra la situazione didattica, l’allievo e il sapere che si sviluppa l’idea di contratto didattico inizialmente definito da Brousseau 4 come «l’insieme dei comportamenti (specifici [delle conoscenze insegnate]) del maestro che sono attesi dall’allievo e l’insieme dei comportamenti dell’allievo che sono attesi dal maestro». Queste “attese” non sono dovute ad accordi espliciti, esse sono progressivamente e tacitamente costruite nel corso della prassi 1 In letteratura, questa stessa denominazione è stata utilizzata in àmbito didattico secondo un diverso significato rispetto a quello che stiamo per presentare. Ci riferiamo in particolare all’idea di “contratto didattico” rintracciabile nel piano Dalton di H. Parkhurst. In questo contesto l’espressione indica, seguendo Frabboni, «il riconoscimento-legittimazione, da parte della scuola, di “saperi” appartenenti a “culture altre” apprezzabili perché equipollenti a quelli dei programmi ufficiali di un determinato grado scolastico: saperi che l’allievo potrà portare “da fuori”, cogliendoli nei terreni antroplogico-culturali del proprio contesto quotidiano di vita» [Frabboni F., Guerra L. e Lodini E. (1995), Il tirocinio nella formazione dell’operatore socioeducativo, Roma, NIS, p. 17]. 2 Con questo termine si fa riferimento in generale al caso di allievi per i quali si registra un “fallimento” cognitivo (ad esempio un deficit di acquisizione o una difficoltà di apprendimento) o non cognitivo (ad esempio una disaffezione pronunciata) in un certo campo disciplinare, ma che manifestano un andamento soddisfacente nelle altre materie. A questo proposito si può vedere: Brousseau G. (1978), Étude de l’influence de l’interprétation des activités didactiques sur les échecs électifs de l’enfant en mathématiques, IREM, Université de Bordeaux I, 18, 170-181. 3 Brousseau G. e Péres J. (1981), Le cas Gaël, IREM, Université de Bordeaux I. 4 Brousseau G. (1980), Les échecs électifs dans l’enseignement des mathématiques à l’école élémentaire, Revue de laryngologie, otologie, rhinologie, 101, 3-4, p. 127.

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B. Martini, Didattiche disciplinari. Aspetti teorici e metodologici, Pitagora editrice, Bologna, 2000, pp. 79-89.

Il contratto didattico Nelle pagine precedenti abbiamo spesso fatto riferimento, in maniera volutamente generica, ai sistemi formali che dettano le “regole” e le “attese” reciproche cui i diversi “attori” del sistema didattico sono più o meno implicitamente assoggettati nel corso della relazione didattica. La necessità di definire più precisamente l’àmbito di applicazione di tali “regole”, ma anche le condizioni nelle quali esse vengono accolte o rifiutate e più in generale la possibilità di comprendere in maniera più critica e problematica il senso dei comportamenti degli allievi e degli insegnanti e la loro incidenza sull’evoluzione del processo di insegnamento/apprendimento, passano attraverso l’introduzione del concetto di contratto didattico1 che descriveremo nelle pagine seguenti. Cominceremo col richiamare brevemente il contesto empirico nel quale il concetto è nato per passare poi ad analizzare le ragioni che lo situano oggi, dal punto di vista epistemologico, tra i concetti fondamentali delle didattiche disciplinari. All’inizio degli anni ottanta, si impone all’attenzione dei ricercatori in didattica della matematica lo studio di un caso di fallimento elettivo2 (il “caso Gaël”) per spiegare il quale Brousseau e Péres3 ricorrono alla nozione di contratto didattico. Gaël è un bambino di poco più di otto anni la cui interazione con l’ambiente didattico si riduce all’applicazione di modelli e routines didattiche (algoritmi, schemi risolutivi,…) la cui utilizzazione è giustificata attraverso il ricorso pressoché esclusivo all’insegnante (a quello che la maestra gli ha insegnato o gli ha detto di fare). Solo il coinvolgimento sistematico di Gaël da parte dei ricercatori in situazioni a-didattiche provocherà una rottura nella sua concezione di situazione didattica, permettendogli di intrattenere con essa una interazione cognitivamente produttiva. È dunque all’interno di un contesto di interazione fra la situazione didattica, l’allievo e il sapere che si sviluppa l’idea di contratto didattico inizialmente definito da Brousseau4 come «l’insieme dei comportamenti (specifici [delle conoscenze insegnate]) del maestro che sono attesi dall’allievo e l’insieme dei comportamenti dell’allievo che sono attesi dal maestro». Queste “attese” non sono dovute ad accordi espliciti, esse sono progressivamente e tacitamente costruite nel corso della prassi

1 In letteratura, questa stessa denominazione è stata utilizzata in àmbito didattico secondo un diverso significato rispetto a quello che stiamo per presentare. Ci riferiamo in particolare all’idea di “contratto didattico” rintracciabile nel piano Dalton di H. Parkhurst. In questo contesto l’espressione indica, seguendo Frabboni, «il riconoscimento-legittimazione, da parte della scuola, di “saperi” appartenenti a “culture altre” apprezzabili perché equipollenti a quelli dei programmi ufficiali di un determinato grado scolastico: saperi che l’allievo potrà portare “da fuori”, cogliendoli nei terreni antroplogico-culturali del proprio contesto quotidiano di vita» [Frabboni F., Guerra L. e Lodini E. (1995), Il tirocinio nella formazione dell’operatore socioeducativo, Roma, NIS, p. 17]. 2 Con questo termine si fa riferimento in generale al caso di allievi per i quali si registra un “fallimento” cognitivo (ad esempio un deficit di acquisizione o una difficoltà di apprendimento) o non cognitivo (ad esempio una disaffezione pronunciata) in un certo campo disciplinare, ma che manifestano un andamento soddisfacente nelle altre materie. A questo proposito si può vedere: Brousseau G. (1978), Étude de l’influence de l’interprétation des activités didactiques sur les échecs électifs de l’enfant en mathématiques, IREM, Université de Bordeaux I, 18, 170-181. 3 Brousseau G. e Péres J. (1981), Le cas Gaël, IREM, Université de Bordeaux I. 4 Brousseau G. (1980), Les échecs électifs dans l’enseignement des mathématiques à l’école élémentaire, Revue de laryngologie, otologie, rhinologie, 101, 3-4, p. 127.

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didattica, in relazione ad azioni abituali o a fattori contestuali che sono riconosciuti come tipici dai partnes della relazione. Ciò, se da una parte contribuisce ad una gestione “economica” della dinamica interazionale, evitando di costringere allievi e insegnante a ridefinire ogni volta ogni aspetto della situazione, dall’altra induce la creazione di routines scolastiche responsabili spesso di disfunzionamenti della relazione didattica. Facciamo due esempi. Il primo. Se l’allievo ritiene che l’intenzione dell’insegnante sia solo quella di valutare il suo rendimento e le sue capacità, quando, nel corso della prassi didattica, esso gli chiederà di scrivere “liberamente” quel che pensa o di esprimersi “con parole sue”, egli non lo farà affatto, ritenendo che sotto quella richiesta ci sia comunque un controllo, una valutazione. Cercherà di rispondere secondo quello che lui ritiene essere “atteso” dall’insegnante, rifugiandosi magari dietro formalismi inadeguati e cercando di replicare proprio l’atteggiamento dell’insegnante a lezione. Il secondo. Se l’insegnante, nel corso di alcune settimane, interroga gli studenti sempre nello stesso giorno, ad esempio il lunedì, è possibile che nell’allievo si crei la convinzione implicita che, da quel momento in poi, sarà sempre così. Una modificazione di questa “abitudine” da parte dell’insegnante, viene giudicata inopportuna o addirittura ingiusta dall’allievo, perché non rientra nelle sue attese, nel sistema di accordi impliciti che crede di aver stipulato con lui. Questi esempi contribuiscono a caratterizzare il concetto secondo un’accezione molto generale che corrisponde solo ad una delle interpretazioni, tra le tante possibili, che si attribuiscono oggi a questo concetto. Essa, in particolare, non chiama in causa in maniera specifica il sapere in gioco essendo riferita a pratiche d’uso, a modi di agire da esso indipendenti. Da questo punto di vista essa è, a nostro avviso, più vicina all’idea di costume nel senso precisato da Balacheff: «insieme di pratiche obbligatorie, (…) di modi di agire stabiliti dall’uso; il più spesso implicitamente»5. Un habitus, generato dalle pratiche sociali, più generale e più stabile delle clausole stipulate dal contratto e che può persistere anche in presenza di contratti didattici diversi. Dal punto di vista epistemologico, il contratto didattico testimonia il tentativo di quegli anni di centrare (o per meglio dire di “ricentrare”) le ricerche educative di àmbito scolastico sull’interazione dei soggetti in classe piuttosto che sul singolo soggetto e sull’ambiente scolastico separatamente. Più precisamente, l’idea stessa di didattica implicita nel concetto di contratto segna il superamento della corrente strutturalista che a partire dalla metà degli anni sessanta si era massicciamente imposta sulle scienze umane. Da questo punto di vista, non è del tutto casuale che l’idea di contratto didattico nasca in àmbito matematico: l’impronta strutturalista data in quegli anni all’insegnamento di questa disciplina ad opera di Autori come Dienes ne costituisce forse uno degli esempi più macroscopici. Si trattava di proporre agli allievi, sotto forma di giochi, delle situazioni basate su strutture matematiche che essi avrebbero dovuto far “funzionare” semplicemente giocando e che costituiscono l’oggetto di insegnamento cui l’insegnante vuole mirare. La proposta di giochi diversi basati sulla stessa struttura avrebbe poi permesso agli allievi di riconoscerla e di impadronirsi della conoscenza corrispondente. La debolezza di questo tipo di approccio emerge non appena si riconosce che esso non si preoccupa, di fatto, di analizzare né le ragioni né le condizioni

5 Balacheff N. (1988), Le contrat et la coutume: deux registres des intéractions didactiques, in Laborde C. (ed.), Acte du premier colloque Franco-Allemand de didactique des mathématiques et de l’informatique, Grenoble, La Pensée Sauvage, p. 21.

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di una tale presa di coscienza, assumendola piuttosto, aprioristicamente valida. Vivace su questo la critica di Brousseau: «Se le regole del gioco corrispondono alle conoscenze da insegnare, come può l’allievo giocare? O egli possiede già queste conoscenze (e l’insegnamento allora è inutile), o il maestro le insegna all’allievo (e il gioco non ha più interesse) o, infine, il funzionamento felice di questo processo può spiegarsi solo con l’esistenza di un contratto didattico grazie al quale l’allievo scopre, nel discorso del maestro, la regola nascosta del gioco»6. Non solo. L’illusione, da parte dell’insegnante, di riuscire nel suo compito di insegnamento, lo deresponsabilizza producendo quello che l’Autore chiama Effetto Dienes: «Più il professore sarà assicurato sulla riuscita da effetti indipendenti dal suo investimento personale e più egli otterrà insuccessi»7. Il contratto didattico implica un sovvertimento di questo modo di pensare rimandando non solo ad un approccio di tipo interazionista (che di per sé non ci affranca da un analogo rischio di riduttivismo), ma facendosi specifico carico, con esso, del problema dell’apprendimento di uno specifico sapere. In effetti, l’interpretazione di questo concetto oggi allude, in senso più generale, alle interazioni, più o meno consapevoli e più o meno normative, che insegnanti e allievi intrattengono relativamente all’acquisizione di conoscenze. È ciò che in questo “contratto” è specifico del sapere che lo declina in senso “didattico” e che lo distingue da altri tipi di contratti. L’idea di contratto non è infatti di per sé nuova. Potremmo anzi sostenere che qualunque tipo di interazione sociale è retta da uno specifico contratto che regola gli scambi “legittimi” tra i partners, attribuendo a ciascuno di essi il proprio ruolo (quindi i rispettivi diritti e doveri) all’interno di uno specifico contesto. In questo senso l’idea di contrat social di Rousseau costituisce un riferimento obbligato, in termini di generalità e pertinenza, per ogni specificazione successiva. In particolare, sono molti gli autori che, nell’àmbito delle scienze dell’educazione, riconoscono, in maniera più o meno esplicita, un ruolo all’idea di contratto per spiegare, a seconda degli specifici campi di interesse, il funzionamento della relazione educativa. L’idea di transazione educativa o di dialogo educativo, ad esempio, possono essere ricondotte, a nostro avviso, ad un simile tentativo.8 La prima si riferisce ad un’operazione “economica” tra le parti, nel senso di una transazione ottimizzante delle risorse di ciascuno dei due partners coinvolti nella relazione educativa. La seconda, sviluppatasi nell’àmbito dell’analisi della comunicazione educativa, trova nel carattere asimmetrico della relazione insegnante-alunno la condizione determinante per una interazione produttiva ai fini dell’apprendimento: il maestro domina il sapere e quindi il senso del dialogo che, da parte sua, l’allievo ignora e che cerca quindi in qualche modo di decifrare.

6 Brousseau G. (1986), Théorisation de phénomènes d’enseignement des mathèmatiques, Thèse de Doctorat d’État, Université de Bordeaux I, p. 309. 7 Brousseau G. (1986), Fondements et méthodes de la didactique des mathématiques, Recherches en Didactique des Mathématiques, 7, 2, p. 60. 8 Si riconosce qui in generale l’idea di transazione di Dewey intesa come momento di aggiustamento reciproco nella relazione dinamica migliorativa tra uomo e ambiente. Per una formulazione moderna dei due concetti possiamo riferirci rispettivamente a: Bradford L. P. (1961), Human forces in teaching and learning, Washington, NTL; ed a: Postic M. (1979), La relazione educativa, Roma, Armando.

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Nello scambio comunicativo tra insegnante e allievo, e dunque nelle interpretazioni ed attribuzioni di significato, sembra cioè sussistere un codice che genera e regola i rispettivi comportamenti al fine di qualificare e rendere efficace il processo di insegnamento e di apprendimento. Un forte carattere sociale è presente anche nell’idea di contratto pedagogico della Filloux.9 Essa ammette l’esistenza di un contratto originario, di tipo istituzionale, che definisce lo statuto dei due contraenti: l’insegnante ha il diritto/dovere di insegnare e l’allievo quello di apprendere. La vita di questo contratto istituzionale è garantita tuttavia da un’altra forma di contratto, quello pedagogico, che di volta in volta, e nel concreto della prassi didattica, «mira a regolare gli scambi tra le due parti contraenti definendo per una durata limitata un sistema di diritti e doveri reciproci; esso presuppone il principio di un mutuo consenso tra i contraenti poiché si fonda sull’enunciato di una regola del gioco alla quale ciascuno deve liberamente sottomettersi ed esclude, per questo fatto, ogni possibile imbroglio (…)».10 Attraverso le analisi dei discorsi degli insegnanti e degli allievi, l’Autrice cerca di spiegare i meccanismi di regolazione che rendono possibile, o al contrario ostacolano, l’azione pedagogica in termini di uno scambio simbolico di vantaggi reciproci: gli allievi si adeguano alle regole imposte dall’insegnante se avvertono che ciò è funzionale al loro successo e in generale alla buona riuscita del progetto in cui sono implicati. Tornando al contratto didattico, esso non è, seguendo Brousseau, «un contratto pedagogico generale. Esso dipende dalle conoscenze in gioco».11 Parlare di contratto didattico significa dunque operare un tentativo di riduzione stringendo la riflessione intorno a ciò che, nella relazione allievi/insegnante, dipende più strettamente dal sapere, dato che non tutte le regole che intervengono nella vita di una classe dipendono da quest’ultimo. Non si tratta quindi di chiamare in causa genericamente le regole di una “pragmatica” della comunicazione, ma piuttosto di spiegare il senso e le modalità d’uso di tali regole in un contesto, come quello delle situazioni didattiche, in cui il loro rispetto deve consentire e anzi favorire l’acquisizione di uno specifico sapere. In altre parole, dovremmo chiederci: quali sono le regole cui l’insegnante da una parte e l’allievo dall’altra sentono di dover soddisfare perché la loro interazione produca apprendimento?, come esse si modificano nel corso dello scambio didattico? e, infine, come queste modificazioni sono connesse con l’evoluzione della conoscenza? Una osservazione ci aiuta a capire che tipo di risposta dobbiamo aspettarci. Le idee di transazione educativa o di dialogo educativo, fino a quella più generale di contratto

pedagogico a cui abbiamo brevemente accennato e che abbiamo voluto identificare come gli antecedenti concettuali del contratto didattico, sembrano riposare su un presupposto normativo dal quale occorre affrancarci, pena lo scivolamento in un inutile e pericoloso tecnicismo metodologico. Esse infatti presumono, a partire dall’analisi di alcuni fattori specifici (il soggetto, l’ambiente, lo scambio comunicativo fra i partners etc.), di razionalizzare la relazione pedagogica, di stabilirne cioè le condizioni ottimali di funzionamento. A prima vista potrebbe essere intesa in questo senso anche la definizione di contratto didattico di Brousseau come “insieme dei comportamenti attesi”: essa farebbe pensare infatti all’esistenza di “migliori” o “peggiori” contratti, cioè contratti più o

9 Filloux J. (1974), Du contrat pédagogique, Paris, Dunod. 10 Ibidem, p. 110. 11 Brousseau G. (1986), Le jeu et l’enseignement des mathématiques, (intervento al 59° congresso AGIEM), Bordeaux, doc. dattiloscritto, p. 158.

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meno produttivi dal punto di vista dell’apprendimento dell’allievo. Se ciò può costituire una ipotesi suggestiva relativamente alla possibilità di fornire, da parte della didattica, mezzi utili alla risoluzione dei problemi dell’insegnamento, essa non può però essere il fondamento di alcuna seria ipotesi didattica data l’impossibilità di stabilire a priori e in modo esplicito le sue regole. Il contratto didattico non si realizza quindi in una specifica comunicazione didattica che si instaura fra gli elementi del sistema, né in un’articolazione determinata delle “abitudini” dell’insegnante con il sapere da acquisire. In altri termini, dal punto di vista teorico, non esistono, “buoni” o “cattivi” contratti, capaci di promuovere o inibire il processo di apprendimento; esiste solo la ricerca di un contratto o, come dice Brousseau: «il processo di ricerca di un contratto ipotetico».12 Ciò deriva dal fatto che il contratto didattico o, meglio, le regole del suo funzionamento, sono necessariamente implicite. Esplicitarle conduce ad una situazione paradossale che nega la possibilità stessa di apprendimento. In effetti, se l’esplicitazione del contratto consiste nel rivelare le “attese specifiche” da parte dell’insegnante, cioè quelle relative ad un certo contenuto, questa esplicitazione rende vano l’apprendimento dato che la conoscenza dovrebbe procedere proprio da ciò che quelle “attese” hanno di implicito. Dunque, è nella rottura del contratto, cioè in ciò che non può comparire come condotta esplicita (le attese specifiche dell’insegnante), piuttosto che nell’adeguamento alla ripetizione di modalità, che si realizza l’apprendimento. Esso «non è più considerato come il risultato del soddisfacimento delle esigenze, anche implicite, del contratto didattico, ma procede, al contrario, da una rottura di quest’ultimo».13 Facciamo un esempio. Di fronte all’enunciato di un problema matematico, gli allievi sono abituati a non mettere in discussione la legittimità e la pertinenza delle domande dell’insegnante. Dunque, per quanto riguarda la risoluzione di problemi, l’allievo costruisce implicitamente la convinzione che ogni problema ha soluzione e che essa è legata ai dati presenti nell’enunciato del problema, ottenibile facendo uso di tali dati numerici e delle usuali operazioni aritmetiche. Posto di fronte ad un problema impossibile, cioè un problema che, in base ai dati forniti, non può essere risolto, l’allievo tende a dare comunque una risposta aritmetica anche se questa non ha alcun senso rispetto al problema posto.14 Che cosa induce l’allievo a comportarsi così? Analizziamo la situazione. In questo caso, il fattore implicito (l’attesa specifica non esplicitata dall’insegnante) è la consegna di un problema impossibile; la rottura del contratto consiste nel fatto che ciò non rientra nella normale prassi didattica, nelle “abitudini” dell’insegnante; la consapevolezza dell’impossibilità di risolvere il problema, corrisponde infine alla conoscenza cui l’azione didattica mira. Ammettere che il problema non ha soluzione significa farsi carico, da parte dell’allievo, della rottura del contratto didattico, cioè ammettere che le sue regole sono cambiate e far evolvere, adeguandola alla nuova situazione, la propria conoscenza. Viceversa, dare comunque una risposta testimonia l’incapacità di assumere la rottura del contratto vigente la cui forza impedisce all’allievo di uscirne.

12 Brousseau G. (1986), Fondements et méthodes de la didactique des mathématiques, Recherches en Didactique des Mathématiques, 7, 2, p. 53. 13 Sarrazy B. (1995), Le contrat didactique, Revue française de pédagogie, 112, 85-118. 14 Il verificarsi di questo atteggiamento è oggi identificato in letteratura come l’effetto “età del capitano” dal titolo di un famoso libro pubblicato dalla psicologa francese Stella Baruk [Baruk S. (1985), L’âge du capitain, Paris, Seuil] nel quale l’Autrice studia il comportamento degli allievi che calcolano la risposta di un problema matematico utilizzando una parte o la totalità dei numeri che sono presenti nell’enunciato, anche quando questo problema non abbia una soluzione numerica. Il risultato di questo studio contribuì fortemente al dibattito che portò in Francia alla revisione stessa dei programmi ministeriali di matematica.

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Più in generale, seguendo l’interpretazione della teoria delle situazioni didattiche, il passaggio da una situazione didattica ad una situazione a-didattica nella quale l’istitutore del contratto (in questo caso l’insegnante) scompare per permettere che si realizzi la devoluzione (la presa in carico personale del problema da parte dell’allievo), rappresenta una situazione di rottura del contratto; contratto che deve essere abbandonato per cercarne uno nuovo che tenga conto della situazione appena vissuta e delle nuove conoscenze acquisite. Seguendo Brousseau: «Imparare significa per lui [l’allievo] rifiutare il contratto ma accettare la presa a carico del problema [la devoluzione]. Infatti, l’apprendimento poggia non sul buon funzionamento del contratto, ma sulle sue rotture».15 Da questo punto di vista, il contratto didattico non è un vero e proprio contratto: esso non è mai realmente stipulato, essendo continuamente modificato dall’evoluzione delle conoscenze; e non è mai esplicito, essendo, come dice Chevallard, «un maestro di cerimonia la cui scienza non è scritta in nessun libro».16 Esso tuttavia, nella molteplicità delle interpretazioni secondo le quali è oggi inteso ed utilizzato, costituisce uno strumento, a volte decisivo, per isolare, nella complessità delle situazioni educative, elementi che siano legati a dimensioni sociali da una parte e cognitive dall’altra. La forza esplicativa e allo stesso tempo il carattere operativo di questo concetto lo qualificano oggi legittimamene come uno dei più potenti costrutti interpretativi dei fenomeni didattici.

15 Brousseau G. (1984), Le rôle centrale du contrat didactique dans l’analyse et la construction des situations d’enseignement et d’apprentissage, Acte du colloque de la troisième Université d’été de didactique des mathématiques d’Olivet, p. 3. 16 Chevallard Y. (1988), Sur l’analyse didactique. Deux études sur les notions de contrat et de situation, IREM, Aix Mairseille, 14, p. 10.