Il Cjastelat

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 6 Il paesaggio attuale non cor rispon- de solo a ciò che si percepisce delle trasformazioni territoriali in corso, ma è il risultato di una sedimentazio- ne di segni territoriali dei quali le nuove forme di evoluzione devono tener conto. In pratica il paesaggio, qualsiasi sia la lettura sincronica che ne dia- mo, è composto dall’effetto di azioni economiche in corso (accesso alle risorse da parte della comunità) e dalla resistenza di alcuni segni più antichi. Questi segni possono esse- re anche solo dei «fossili» di organi- smi economici ormai scomparsi, e quindi residui privi di funzionalità, oppure possono essere oggetti ter- ritoriali anche estesi, che sono stati completamente reinterpretati al mu- tare delle condizioni economiche e sociali. Costruire un parallelismo con i paesaggi urbani della città è fin troppo facile. Interi quartieri medie- vali costruiti per la società dei mer- canti sono ora impiegati e riutilizzati da aziende che hanno un diverso orizzonte economico.  Anche i brani delle campagne meglio conservate in realtà sono uti- lizzati con modalità molto diverse da quelle che avevano pianificato la co- struzione di specifici tecnotopi, cioè di ambiti territoriali nei quali, attra- verso un sistema di tecniche che garantivano la conservazione delle risorse, le comunità locali potevano attingere a un prodotto rinnovabile nel tempo. Il concetto di tecnotopo si con - trappone a quello di biotopo espri - mendo l’ambiente umanizzato co- me il risultato di una cultura tecnologica adattata a un ambien- te fisico dato. Il tecnotopo è l’inter- pretazione umana del paesaggio fi- sico via via addomesticato dalle tecniche prodotte dalla società. Il termine esprime l’incontro tra le tec- niche e l’ambiente mediate dalle pratiche e dalle strategie di una co- munità rispetto al suo territorio. Si tratta di unità spaziali omogenee nelle quali la società esprime le tec- niche locali di utilizzo delle risorse territoriali. la «resistenza» dei segni territoriali il Cjastelàt PER UN APPROFONDIMENTO DEL TOPONIMO e l’archeologia del paesaggio di Moreno Baccichet In alto. Visione dal satellite del colle del Cjastelàt adiacente l’abitato di Dardago. Il torrente Artugna lo separa dal colle di Sant’Angelo.  A destra . Una fase del rilievo topografico dell’area, oggetto della ricerca. Nella pagina seguente. La planimetria topografica della sommità del colle del Cjastelàt. Le zone in cui le curve di livello sono più fitte identificano il probabile fossato difensivo.

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Il paesaggio attuale non corrispon-de solo a ciò che si percepisce delletrasformazioni territoriali in corso,ma è il risultato di una sedimentazio-ne di segni territoriali dei quali lenuove forme di evoluzione devonotener conto.

In pratica il paesaggio, qualsiasi

sia la lettura sincronica che ne dia-mo, è composto dall’effetto di azionieconomiche in corso (accesso allerisorse da parte della comunità) edalla resistenza di alcuni segni piùantichi. Questi segni possono esse-re anche solo dei «fossili» di organi-smi economici ormai scomparsi, equindi residui privi di funzionalità,oppure possono essere oggetti ter-ritoriali anche estesi, che sono staticompletamente reinterpretati al mu-

tare delle condizioni economiche esociali.Costruire un parallelismo con i

paesaggi urbani della città è fintroppo facile. Interi quartieri medie-vali costruiti per la società dei mer-canti sono ora impiegati e riutilizzatida aziende che hanno un diversoorizzonte economico.

  Anche i brani delle campagnemeglio conservate in realtà sono uti-lizzati con modalità molto diverse daquelle che avevano pianificato la co-struzione di specifici tecnotopi, cioèdi ambiti territoriali nei quali, attra-verso un sistema di tecniche chegarantivano la conservazione dellerisorse, le comunità locali potevano

attingere a un prodotto rinnovabilenel tempo.

Il concetto di tecnotopo si con-trappone a quello di biotopo espri-mendo l’ambiente umanizzato co-me il risultato di una culturatecnologica adattata a un ambien-te fisico dato. Il tecnotopo è l’inter-

pretazione umana del paesaggio fi-sico via via addomesticato dalletecniche prodotte dalla società. Iltermine esprime l’incontro tra le tec-niche e l’ambiente mediate dallepratiche e dalle strategie di una co-munità rispetto al suo territorio. Sitratta di unità spaziali omogeneenelle quali la società esprime le tec-niche locali di utilizzo delle risorseterritoriali.

la «resistenza» dei segni territoriali

il Cjastelàt

PER UN APPROFONDIMENTO

DEL TOPONIMO

e l’archeologia del paesaggio

di Moreno Baccichet

In alto. Visione dal satellite del colle

del Cjastelàt adiacente l’abitato di Dardago.

Il torrente Artugna lo separa dal colle

di Sant’Angelo.

 A destra . Una fase del rilievo topografico

dell’area, oggetto della ricerca.

Nella pagina seguente. La planimetria

topografica della sommità del colle

del Cjastelàt. Le zone in cui le curve di livello

sono più fitte identificano il probabile fossato

difensivo.

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Gli ambiti territoriali si esprimonocon unità funzionali e formali a scaladi dettaglio, per esempio, il sistemadelle malghe, le «tavelle» adiacentiall’abitato, le praterie artificiali falcia-

te o pascolate dalle comunità, ecc.Nella stessa unità di paesaggiomorfologico o geografico si incon-trano molteplici tecnotopi in tra-sformazione a causa delle politichedi colonizzazione o di abbandonodelle risorse agricole.

La montagna, negli ultimi decen-ni, ha registrato i principali effetti del-la decolonizzazione delle aree piùdifficili da coltivare come effetto diret-to di nuove dinamiche produttive eabitative. Su questi territori più che inaltri settori l’abbandono di tecnicheproduttive più o meno antiche hacomportato la naturale costituzionedei «paesaggi dell’abbandono».

L’archeologia del paesaggio in-daga la diffusione e le tipologie degliinsediamenti umani distribuiti su unterritorio dato. La distribuzione deglioggetti territoriali e le forme antichedelle ampie superfici coltivate utiliz-zando il metodo della ricerca sulcampo e incrociando i dati con l’in-

dagine cartografica, bibliografica edarchivistica.

La disciplina, che sta solo oraassumendo un carattere definito, haun carattere estensivo e dilatato neltempo e nello spazio. Si interessa adefinire l’evoluzione dei diversi qua-dri paesaggistici frutto della storiadel popolamento di un’area coglien-done le fasi di espansione e quelledi crisi. Indaga i segni ancora rico-noscibili in palinsesti territoriali com-

plessi e a volte contraddittori, evi-denziando il rapporto tra l’uomo e lerisorse ambientali. Questo viene col-to attraverso operazioni di censi-mento e di lettura delle attrezzatureabbandonate o ancora mantenuteda una determinata comunità, co-gliendo gli effetti paesaggistici diuna specifica cultura materiale ap-plicata ai caratteri geografici emorfologici del suolo.

Il territorio viene letto come unmosaico di oggetti e superfici sog-

gette a pratiche diverse e anche ariutilizzi. L’ambiente umanizzato vie-ne descritto nella sua evoluzionetemporale riconoscendolo come ilfrutto di un rapporto in continua mo-

dificazione anche quando l’uomosembra aver abbandonato in mododefinitivo i luoghi o un interesse pro-duttivo per gli stessi.

Il rapporto natura-cultura-società

viene letto attraverso la successivaricostruzione di quadri sincronici co-struiti attraverso l’uso di «carte» in-terpretative.

Da alcuni anni in Comune diBudoia si sta consolidando un pro-getto teso a ricostruire il quadro del-le stratificazioni paesaggistiche di unterritorio prealpino che ha la partico-larità di distribuire le diverse attivitàumane su una parete inclinata che

essere riconosciuto e cartografatocon il fine di costruire un quadrodelle successive fasi della coloniz-zazione alpina a partire dal me-dioevo. Durante le ricognizioni sul

campo e quelle archivistiche, sonoemerse delle scoperte di rilevanteinteresse per la storia del popola-mento in quest’area. In modo parti-colare il ritrovamento dei resti di unafortezza altomedievale di terra e le-gno, costruita sopra l’attuale abitatodi Dardago. Una costruzione chenella tipologia anticipa i castelli bas-somedievali e che fu utilizzata perbreve tempo. In questo modo l’ar-chitettura di terra si è conservata

sorge a circa 100 metri di quota eraggiunge i 1900 m. Su questo pia-no inclinato già l’ambiente imponequadri naturali differenziati in basealla quota altimetrica. La stratifica-zione degli assetti territoriali antro-pizzati si distribuisce ancor meglio inbase alla distanza altimetrica tra ri-sorse territoriali e villaggi, tanto chenei secoli ha comportato la costru-zione di una sequenza di aree e di

utilizzi frutto delle convenienze eco-nomiche intraviste nell’interpretazio-ne dei luoghi.

Lungo la scarpata cansigliese uncomplesso palinsesto di segni può

perfettamente visto che il colle fuprivatizzato solo nella seconda metàdell’800 e che le opere messe incampo dai nuovi proprietari per at-trezzare prati e pascoli non danneg-giarono la struttura.

L’altra scoperta di rilevante inte-resse è stata quella che ha permes-so di ricondurre un insediamento distalle chiamato Lon gia rezze al mo-dello originario di un villaggio costi-

tuito da aziende agricole organiz-zate per masi affiancati. Il villaggio,posto su un terrazzo dotato di suoliparticolarmente fertili e di acquasorgiva, era coltivato con campi di

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cereali e prati, ma a partire dal XV

secolo fu abbandonato e usato co-me insediamento temporaneo.

La frantumazione delle originarieproprietà modificò il sistema d’usodella borgata. Le case in muro asecco e coperture in paglia furonotrasformate in stalle, i nuovi proprie-tari costruirono altri ricoveri per glianimali, acquistarono e frazionaro-no le limitrofe terre del comune con-ducendo grandi operazioni di spie-tramento e di miglioramento del

suolo.  All’inizio del secolo scorso lamanutenzione di questo differenzia-to paesaggio inclinato entrò inprofonda crisi e iniziò a deperire. Aipaesaggi della colonizzazione e del-lo sfruttamento intensivo di suolitanto poveri, si contrapposero ipaesaggi dell’abbandono, della ri-vincita del selvatico.

Oggi questi complessi manufattiterritoriali fatti di sentieri, opere dispietramento, recinti, campi e prati

privati costruiti in circa 700 anni distoria sono ancora li ben evidentiper chi voglia leggerli. Per questo ealtri territori potremmo usare la me-tafora di un quadro deturpato da ri-disegni e pennellate successive etese a reinterpretare l’immagine ori-ginale.

Con questo intervento di ar-cheologia del paesaggio intendia-mo fornire alla comunità locale glistrumenti per rileggere e ripercor-

rere anche fisicamente i luoghi delproprio territorio riscoprendoli co-me un fattore identitario.

La costruzione di una sorta dicarta archeologica deve essere fun-zionale da un lato alla costruzione di

una mappa di comunità che per-

metta di disegnare l’immagine chegli abitanti hanno del loro territorio edall’altro alla riscoperta dei luoghi al-

sultabili presso l’Archivio di Stato diPordenone. Per Budoia l’uso delladocumentazione veneziana fu in-fruttuoso. I Sommarioni napoleoniciproprio in occasione dei mappaliche definiscono il colle del Cjastelàt

sono, infatti «muti». Il documento fi-scale attribuisce le particelle del ter-reno senza definirne la proprietà, ledimensioni, l’uso agrario e tantome-no il toponimo. Meno criptica inveceè la carta del Lombardo Venetoconservata a Pordenone, che cor-rettamente descriveva il rilievo po-sto a monte di Dardago come ilColle Castelat. Il toponimo era statogià registrato come Ciastelàt daUmberto Sanson che lo giustificava

come un «toponimo che fa pensaread un luogo fortificato1».

La traccia toponomastica era

l’interno del progetto ecomusealeche Budoia persegue da alcuni anniaderendo all’Ecomuseo Lis Aganis.

La fortezza di Dardago

L’identificazione della struttura fortifi-cata di Dardago è il frutto di una ri-cerca sulla microtoponomasticaestesa a tutta la provincia diPordenone nel 2003. In quell’occa-

sione l’indagine interessò le indica-zioni toponomastiche contenute neiSommarioni del Catasto Napoleo-nico conservati presso l’Archivio diStato di Venezia e le cartografie delcatasto del Lombardo Veneto con-

evidente e si trattava per lo più diverificare il carattere dei resti di unastruttura fortificata che già nel nomerilevava il carattere di profondo de-grado attribuitogli dagli abitanti. Il«Castellaccio», così potrebbe esse-re tradotto il toponimo, doveva es-sersi molto degradato nel tempo.

I primi sopralluoghi condotti conWalter Coletto e Maurizio Cella cipermisero fin da subito di localizzare

un manufatto di difficile lettura acausa delle condizioni della som-mità del colle. La cima del Col 

Nosleit, come viene impropriamentedefinito nelle tavolette dell’IGM peruna originale deriva del toponimo

Modello tridimensionale dell’area di studio.

Modello tridimensionale più ampio in cui si individuano il colle Sant’Angelo, il corso dell’Artugna e

il colle del Cjastelàt.

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Ricostruzione di tipologie di cinta in legno altomedievale. Le barriere difensive sul Cjastelàt,

presumibilmente potevano essere di questo tipo. Si noti nell’esempio A la prima linea difensiva,

il fossato e la seconda cinta più solida. Nella figura B le mura rientranti a difesa dell’ingresso,

nella C esempio di barriera strutturata con l’utilizzo di pali di legno, terra e pietre.

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che si trovava a nord-ovest, era in-vasa da rovi e vegetazione, eppureera possibile riconoscere una seriedi lavori di sbancamento e di riportoassolutamente innaturali. Sembrava

di poter leggere un disegno funzio-nale nei fossati che in parte circon-davano la sommità del colle. Permeglio comprendere lo stato deiluoghi costruimmo un modello tridi-mensionale del territorio capace diesaltare il carattere morfologico delcolle nel contesto della parte inferio-re della Val di Croda.

Il modesto dosso sorgeva quasiisolato ai piedi della ripida scarpatae aveva la parete verso  l’Ar tu gna

particolarmente scoscesa e impren-

dibile in caso di attacchi. Se il latonord era difeso naturalmente gli altritre lati dovettero essere protetti co-struendo delle opere artificiali che findal primo momento identificavamoessere precedenti alla ripresa dellecostruzioni militari in muratura.

Per riuscire a definire la forma di

un manufatto costruito originaria-mente in terra e legno e ormai com-pletamente degradato si rendeva in-dispensabile produrre un rilievopreciso del colle, capace di rendere

evidente ogni piccola modifica delsuolo. Il crollo delle opere lignee el’azione del dilavamento, affiancatoall’uso pastorale che per secoli siera fatto della cima del colle, rende-va difficile apprezzare altrimenti laforma originaria delle difese. Si intui-va chiaramente un primo recinto co-me una sorta di semicirconferenzache si appoggiava alla scoscesa pa-rete nord, ma non si riusciva a leg-gere quale doveva essere stato illuogo dell’ingresso, né se ci fosse

stata una seconda linea di difesa.Con l’attività di volontari la vetta

del colle fu ripulita dai rovi e dalla ve-getazione eccedente. Questa ope-razione fu seguita da un dettagliatorilievo condotto dal prof. GiuseppeMarino dell’Istituto Tecnico per Geo-metri di Pordenone che, con una

1Umberto Sanson, Budoia e il suo territorio.

L’antica toponomastica di Budoia e Dar dago,vol.II, Budoia, Comune di Budoia, 2000, 39.Questo indizio fu trascurato anche in occa-sione di studi recenti. Vedi: Pier Carlo Begotti,Il territorio di Budoia lungo la storia, in Budoia.

Dhent, ciase, crode e storie, a cura di P.C.Begotti, Budoia, Comune di Budoia, 2005,45-69. Vespo invece vorrebbe questo luogo

come una torre di avvistamento tanto da ri-portare la notizia di un non documentato «ri-trovamento delle fondamenta di una strutturacircolare». Giuseppe Vespo, Aspetti del pae-saggio e dell’insediamento, in Budoia. Dhent…, cit., 78.

classe di studenti, misurò tutta lasommità del rilievo con l’uso di stru-mentazione di alta precisione (Gpse stazioni topografiche totali).

Il rilievo ha dato degli esiti molto

positivi. La conferma che ci si tro-vasse di fronte a una struttura moltodiversa da quella di un castello bas-so medievale apriva il campo a nuo-ve ipotesi.

La fortezza definita da due diver-si recinti difensivi apparteneva aquale epoca storica? Eravamo inpresenza di un villaggio protostori-co arginato, di una specola d’etàromana o di un recinto altomedie-vale? Quale poteva essere l’origina-ria funzione di una costruzione così

grande?È evidente che la parola decisiva

su questa fondamentale questionepotrà venire solo con uno scavo ar-cheologico e non con il sistema dielaborazioni territoriali da noi predi-sposto. Vanno però rilevati alcunicaratteri geografici e storici che cipossono essere d’aiuto se incrocia-ti con i dati, ora certi, della distribu-zione e forma del manufatto.

Per cominciare si può notare

l’assenza della calce e di ogni operain muratura che non sia il frutto dimoderne marginature e spietra-menti. Questo ci può permettere diescludere il periodo romano e anti-co, caratterizzati da opere realizzatecon materiale da costruzione raffi-nato. Se ci fosse stata una specolanon si giustificherebbe un recintocosì grande per una postazione dipura osservazione. Cosa si volevadifendere con una doppia cinta dimura? Se ci fosse stata una guarni-

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gione consistente (ma poi per qualemotivo?) questa avrebbe appronta-to opere militari tali da potersi porreal lato della strada che transitavalungo la pedemontana, costruendodifese in muratura e calce.

I recinti descritti dal rilievo sonoal contrario troppo piccoli per esse-re ricondotti a un villaggio protosto-rico. È vero che anche in quel perio-do era frequente la costruzione direcinti con cassoni di legno e terra,ma all’interno del luogo cinto staval’intero villaggio, composto da mol-te capanne e da ampi recinti neiquali raccogliere gli animali per lanotte.

Lo spazio attrezzabile era soloquello del recinto superiore, la vettaspianata del colle del Cjastelàt, male sue dimensioni sono molto picco-le e poco adatte per poterci ricono-scere questa particolare forma di in-sediamento. Il castelliere è un

villaggio arginato con la presenzastabile di una comunità, ma questosolitamente comporta una certa fa-cilità di accesso, e uno spazio agri-colo limitrofo ben modellato dalleattività agricole. Invece a Dardago lependici del colle non sono mai stateinteressate da quelle opere di at-trezzatura di una primordiale so-cietà agricola e viene difficile crede-re ad una località di arrocco in etàpreromana. Coltivare i terreni a Dar -

dago e abitare sulla vetta del colleera senza dubbio poco funzionaledurante il periodo del ferro o delbronzo.

Mi sembra sia invece più facilecredere che la struttura sul colle sia

stata realizzata in età altomedieva-le, cioè in quel periodo che fu ca-ratterizzato dalla perdita delle co-noscenze di un’edilizia in muraturae calce. Dal VI all’XI secolo, inFriuli, le costruzioni con tecnichemurarie sono rarissime e per lo piùlegate alle sedi della committenzapiù prestigiosa (Aquileia, Cividale).Nel resto del territorio si costruiva-no case ed edifici civili in legno, un

materiale facilmente reperibile eutilizzabile da qualsiasi contadino.Un materiale che non aveva la ne-cessità di speciali conoscenze tec-niche, ma che poteva essere usatoda chiunque.

Le funzioni di questo luogo dife-so potevano essere di due tipi: unasorta di presidio militare con unaguarnigione alle dipendenze statalie posta in quel punto per controlla-re la strada pedemontana, oppureun ricetto per la popolazione che

viveva a Dardago e a Budoia e chein caso di pericolo avrebbe dovutoabbandonare le proprie case e ri-pararsi con i beni più preziosi e glianimali nel recinto.

 Tra le due ipotesi, però, la primami sembra la più probabile e giustifi-cherebbe meglio l’abbandono delcolle e il degrado del castello in «ca-

stelat». Va detto che il ruolo del re-cinto di Dardago nel panoramageostorico del Friuli in età altome-

dievale ha un carattere particolarese pensiamo che nel X secolo, conle prime attestazioni documentariedel territorio, quel piccolo colle sitrovava sul limite orientale di un im-portante confine. Almeno a partire

dal 923 ai piedi del colle, lungo illetto dell’ Artu gna, passava il confi-ne tra i territori sottoposti alla giuri-sdizione friulana e quelli tributari al Vescovo di Belluno. In questo sen-

so la fortificazione poteva essereun elemento del controllo territoria-le precedente al castello di Pol-cenigo e avere quelle funzioni dipresidio che di li a poco assumerà,per la parte patriarcale, il castelloavianese a sua volta posto a ridossodel confine giurisdizionale.

La costruzione del nuovo ca-stello polcenighese, su un colle giàutilizzato in epoca protostorica, de-terminò l’abbandono del vecchio

presidio militare e il suo progressivodegrado. Resta da chiedersi sequesti resti corrispondono alla Clu-

sas de Abincione, que pertinent de

 marcha Foro Julii che Berengariodonò nel 923 al Vescovo di Bel-luno. Infatti, le chiuse erano deipresidi militari posti lungo le stradeprincipali dell’impero, e quella chetransitava ai piedi del colle era, ap-punto, la «strada regia», uno degliassi più importanti del collegamen-to tra la sede imperiale e la peniso-la italica.

Nuovi progetti

di valorizzazione

Oggi cosa bisogna fare per conti-nuare la ricerca e venire a capo delmisterioso manufatto? Per prima co-sa siamo convinti che si debba con-tinuare un’opera di presidio e puli-zia della vetta del colle in modo darendere più evidente il perimetro

della cinta esterna. Dall’altro lato cre-diamo che il Cjastelàt e l’insedia-mento di Lon giarezze debbano di-ventare due punti focali del recuperoecomuseale della scarpata cansi-gliese. La costruzione di un itinerariodi archeologia medievale e postme-dievale è un obiettivo che si puòraggiungere anche in tempi moltobrevi.

Contemporaneamente si potràorganizzare uno scavo archeologi-

co (anche solo un sondaggio) inmodo da poter arrivare a compren-dere origini e fini del manufatto.Solo dopo quest’ultima fase si po-trà confermare o meno una delleprecedenti ipotesi inerpretative.

Cjastelàt. Caratteristiche morfologiche del rilievo che evidenziano parte del fossato.