Il cinema biopolitico di Pablo Larrain

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LA DITTATURA DI PINOCHET FUGA TONY MANERO POST MORTEM ALFREDO CASTRO INTERVISTA A PABLO LARRAìN ALEJANDRO JODOROWSKY E RAùL RUìZ il CINEMA BIOPOLITICO di PABLO LARRAìN n ° 1 DOSSIER

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n attesa di vedere il suo nuovo film (“No”), Taxi Drivers Magazine dedica il suo primo dossier al cinema di Pablo Larraìn, giovane e significativo autore cileno, i cui film (“Fuga”, “Tony Manero” e “Post Mortem”) costituiscono una preziosa rappresentazione del profondo disagio prodotto dalla dittatura di Pinochet.

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LA DITTATURA DI PINOCHET FUGA TONY MANERO POST MORTEM ALFREDO CASTROINTERVISTA A PABLO LARRAìN ALEJANDRO JODOROWSKY E RAùL RUìZ

il CINEMA BIOPOLITICO di PABLO LARRAìN

n° 1DOSSIER

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Con il ciclo dei dossier,TAXIDRIVERS, ogni trimestre,dedicherà un approfondimentoad un differente autore.Considerando i drammatici sviluppidell’attuale crisi economica, i cui effettisono avvertibili su scala planetaria,abbiamo pensato di impostareuna linea editoriale incentrata sututto quel cinema di contestazione che,negli ultimi anni, è tornato alla ribalta.Analizzeremo, dunque, quei registi(rappresentativi di varie aree delmondo) che si sono particolarmentedistinti nel trattare questa tematica(anche e soprattutto sul piano politico),a partire dalla specificità dei paesidi provenienza.Per il primo numero, la scelta,maturata anche in virtù di una recenteretrospettiva che il nostro magazine hapromosso e realizzato, è caduta sulcinema di Pablo Larraìn, giovane esignificativo autore cileno, i cui film(Fuga, Tony Manero, Post Mortem)costituiscono una preziosarappresentazione del profondo disagioprodotto dalla dittatura di Pinochet.L’inattualità delle questioni trattate daLarraìn è, evidentemente,solo apparente: il suo cinemaci segnala come forme di oppressione,omologhe a quelle da lui descritte,siano operative, seppur in formeedulcorate, anche nei paesi“democratici”.

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Pablo Larraìn nasce a Santiago del Cile nel 1976. Si iscrive al-l'Università UNIACC, dove studia Comunicazione audiovisiva. Nel2005, assieme a Juan de Dios Larraìn, fonda Fabula, la casa diproduzione che sosterrà i suoi film e quelli dei suoi conterranei,arrivando a superare i confini nazionali. Larraìn è figlio di Hernán, senatore del partito di destra cileno, laUnion Democrata Independiente, e di Magdalena Matte, ex mini-stro dello stesso partito del marito. Da questo dato biografico nonsi può prescindere, visti i contenuti dei tre film del regista. Fuga,Tony Manero e Post Mortem possono essere letti anche comeribellione privata e politica alla famiglia, oltre che come visioni ta-glienti, intrise di fugace lirismo, in grado di ferire l'anima, gli occhie lo stomaco. Nel 2006 Fabula produce il primo film: Fuga. Nellastoria del musicista folle alle prese con la sua Sonata Macabra,maledetta e incompiuta, non si può non notare la voglia del gio-vane Larraìn di muovere i passi nel mondo dell'arte in modo au-tonomo, senza aiuti o appoggi paterni. Come Larraìn, ancheEliseo Montalbán, il protagonista, ha un padre ministro molto in-fluente, in grado di spianare e occludere la strada al figlio. Il film èil primo colpo che Larraìn assesta allo spettatore: l'anima ne esceindubbiamente turbata.Rispettivamente nel 2008 e nel 2009, Larraìn produce due film dialtissimo livello: Tony Manero e Post Mortem. Tony Manero, terzofilm di Fabula, gode di attenzione internazionale: nel 2008 è statopresentato al Quinzaine des Realisateurs a Cannes, ha vinto laventiseiesima edizione del Torino Film Festival e ha ottenuto lacandidatura agli Oscar come Miglior Film Straniero. Tony Manero

e Post Mortem sono compatti sia per contenuti che per stile: d'orain poi Larraìn narrerà quel periodo tanto controverso della storiadel Cile, che unisce in un turbine oscuro la presidenza di Allende,il golpe di Pinochet, l'infiltrazione (politica e culturale) statunitense.Larraìn non opta per il “classico” cinema verità, né per la macchinaa mano, ma, come lo stesso regista afferma a proposito di PostMortem: “quando ho iniziato le riprese, ho deciso di non muoverepiù la macchina da presa, ma di collocarla in uno spazio morto,quasi inerte, dove osservasse i fatti con cautela, in modo orizzon-tale, come se il mondo si estendesse verso i lati, senza cielo,senza Dio né terra. Lo sguardo oblungo, di lenti anamorfiche, èuno sguardo panoramico, che nasconde molto e quello che è na-scosto custodisce il vero mistero”.Una messa in quadro semanticamente complessa: Larraìn ci ponedi fronte al terribile mostrarsi della realtà e alla ricerca del partico-lare significante che si apre a un significato indicibile.Con questo meccanismo, il regista racconta il disfacimento e lacosificazione dell'uomo che vive di riflesso il disagio politico e civiledel suo Paese. La violenza legalizzata dello Stato, quella di uncolpo di pistola trattato alla stregua di una veloce pratica burocra-tica, è immanente al personaggio impassibile di Raúl Peralta inTony Manero. La violenza di Pinochet diviene normale nella vivi-sezione di Mario e del Cile dell'11 settembre 1973, quello delgolpe, dell'autopsia di Allende, dei corpi ammassati degli opposi-tori politici. Tra pennellate divisioniste grigie e ocra, Larraìn mostrala complessità dell'evidenza, un vero colpo all'occhio, e un mondoindigeribile, un vero colpo allo stomaco. Il tutto trattato quasi a li-vello antropologico: Larraìn, troppo giovane per aver vissuto di-rettamente la dittatura, l'ha recepita come narrazione e disagiointeriore (i racconti sono probabilmente provenuti dal nonno ma-terno, socialista e sostenitore di Allende). Quella del golpe, dice ilregista, “è la narrazione di una scena immaginata, non vissuta,sfocata […] di un'immagine nebbiosa, indefinita e mal partorita.Come un sogno che si ricorda a pezzi”.In qualità di produttore, Larraìn fa un capillare lavoro di scoperta dinuovi talenti cileni, sostenendo lo sviluppo del cinema d'autore e digenere; inoltre, mira alla creazione di una “squadra” produttiva coesae salda – basti pensare alla costante presenza non solo come attore,ma anche come sceneggiatore, del “mentore” Alfredo Castro.Dopo Fuga, Larraìn produce l'opera prima di Sebastian Silva,La vita mi ammazza. Nel 2009 Fabula dà vita a ben tre film,Grado 3 di Roberto Artiagoitia, Ulysses di Oscar Godoy ePost Mortem. Fabula si muove tra cinema intimista, civile e di ge-nere, mostrando interesse tanto per la commedia quanto per laStoria. Un punto di svolta giunge con la produzione della serie te-levisiva per la HBO, Profugos: un action movie al cardiopalma,dalla solida regia curata da Larraìn stesso. È poi la volta di4:44 Last day on Earth, di Abel Ferrara. Attualmente Fabula èimpegnata nella produzione del quarto lungometraggio di Larraìn,previsto per il 2014: No.

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Pablo Larraìn regista e produttore Veronica Mondelli

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Contestualizzazione politica del cinema di Pablo LarraìnLa mattina dell’11 settembre 1973 la Junta militar guidata da Au-gusto Pinochet proclama lo stato d’assedio, chiude il parlamentoe proibisce ogni attività politica. Assume tutti i poteri e si dedicheràper anni a dare la caccia agli oppositori, con un tipo di interventoche la dottrina della sicurezza nazionale USA avrebbe successi-vamente definito “guerra a bassa intensità”. Non vi fu alcuna“guerra civile” – a differenza di quanto preteso dalla giunta militareper giustificare la repressione prolungata – ma solo una guerraunilaterale delle forze armate, sostenute dalla borghesia e dall’im-perialismo, contro il movimento operaio e la sinistra, che eranostati quasi completamente disarmati da una legge che consentivaall'esercito perquisizioni senza mandato in cerca di armi approvatadal governo subito prima del golpe.In realtà l’obiettivo del colpo di stato non era tanto rimuovere Al-lende quanto stroncare la rivoluzione in corso. Il governo Allendenon era rivoluzionario: il modello politico cui si ispirava era il “frontepopolare”, una forma di alleanza tra la classe operaia e settorisupposti “avanzati” della borghesia allo scopo di realizzare un pro-gramma di riforme democratiche: modernizzare le strutture eco-nomiche e sociali del paese e migliorare le condizioni di vita dellemasse popolari, ancora tipiche di un paese arretrato. Esso agivanel pieno rispetto della costituzione: non si proponeva di costruireil socialismo espropriando la borghesia e togliendole il potere sta-tale. La verità era che il Cile alla fine degli anni '60 stava affron-tando un processo rivoluzionario e una crescente radicalizzazionedelle masse.La vittoria elettorale del fronte popolare di Allende nel 1970 erastata solo un sintomo – una sua canalizzazione, se si vuole – diquesto fenomeno. Dopo un anno e mezzo di governo di UnidadPopular (la coalizione che sosteneva Allende), quando la “desta-bilizzazione” messa in atto da Washington – dove Kissinger eNixon non potevano accettare un governo “marxista” che va al po-tere tramite elezioni per la paura che ciò provocasse un “contagio”in tutta l'America latina - iniziò a dare i suoi frutti, i lavoratori cileni

reagirono e iniziarono a prendere nelle proprie mani non solo il fu-turo del governo ma anche il proprio. Di fronte al sabotaggio eco-nomico della borghesia ispirata e sostenuta dai dollari della Ciaessi occuparono e riaprirono le fabbriche chiuse, riorganizzaronola produzione e i rifornimenti: in piena emergenza costruironoun’alternativa operaia all’economia dei padroni. In poco più di unanno di governo “popolare” la loro coscienza aveva fatto ungrande balzo in avanti: erano sorti nel paese organismi di tipo “so-vietico” come assemblee di delegati eletti dai lavoratori.La sorte di Allende si compì in poche ore, ma annientare l’avan-guardia di quella classe operaia, che aveva osato troppo, richiesemolto di più.Al riparo di uno stato d’assedio durato quasi cinque anni, in Cilefurono uccisi, imprigionati, torturati, fatti scomparire, licenziati, esi-liati (e perseguitati anche all’estero dalla famigerata polizia segretadel regime) migliaia e migliaia di quadri e attivisti della sinistra edelle organizzazioni popolari. Si aprirono in Cile 160 campi di con-centramento e i primi furono gli stadi. La repressione venne pia-nificata con cura distinguendo tre gruppi da colpire: 1) “i motoridel marxismo”, cioè gli attivisti locali, coloro che realmente “muo-vono il popolo”; 2) “i dirigenti del marxismo”, cioè i quadri politicidi UP, intellettuali e dirigenti studenteschi; 3) “i dirigenti e i funzio-nari del governo e i gerarchi dell’UP”. I primi dovevano essere ar-restati e fucilati immediatamente; quelli del secondo gruppo“arrestati, torturati e condannati a pene di lunga durata”; quelli delterzo “detenuti per un certo tempo e poi espulsi dal paese”. In pra-tica, un programma di decapitazione della classe operaia volto adistruggere la forza organizzata e la coscienza militante dei lavo-ratori cileni per decenni.La dittatura militare durerà fino alla fine degli anni ottanta e riuscirànon solo a sradicare il movimento operaio ma anche a cambiarein profondità il paese, al punto che a più di quarant’anni di distanzal’eredità del golpe e della dittatura pesa ancora sulla vita politicae sociale del Cile.

edoardo necchio

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Inquadramento politico del Cile odiernoNel 2010, per la prima volta dalla fine della dittatura fascista di Pinochet (1990),la destra è tornata al potere in Cile. è accaduto con la vittoria del sessanta-duenne candidato Sebastián Piñera, sostenuto da una coalizione di partiti dicentro-destra, che ha sconfitto l’ex presidente democristiano Eduardo FreiRuiz-Tagle. In sé, non sarebbe una cosa sorprendente, se non fosse che gliattuali esponenti della destra sono strettamente legati al passato regime gol-pista. Solo a titolo d’esempio, basterà ricordare che l’attuale presidente è statoun sostenitore del colpo di stato, salvo prenderne le distanze alla fine del re-gime, e che suo fratello è stato ministro del lavoro di Pinochet. Per compren-dere meglio lo spessore di Piñera, occorre aggiungere che è anche uno degliuomini più ricchi del Cile, possessore di uno dei maggiori canali televisivi delpaese, CHV (una sorta di Canale 5 molto dedita a fiction, gossip e intratteni-mento), e azionista della compagnia aerea LAN (anche se ha annunciato chevenderà la sua quota di azioni).Le analogie con il nostro ex premier non finiscono qui, avendo anche egli pro-messo in campagna elettorale un milione di nuovi posti di lavoro (ma su unapopolazione di meno di 17 milioni) Prima di Piñera, il Cile post-golpista si era sempre affidato alla guida dellacoalizione di centro-sinistra, che aveva visto alternarsi nella carica di presidenteesponenti socialisti e democristiani. La vittoria del candidato di centro-destrasegnala una forma di normalizzazione delle relazioni politiche, sebbene i rigur-giti culturali pinochettisti non manchino, come ha evidenziato la recente pole-mica sui libri scolastici per i bambini delle scuole elementari che dal prossimoanno non indicheranno più il governo di Pinochet come una dittatura ma lo ele-veranno al rango di mero “regime militare”. Gli analisti della politica cilena in-terpretano questi cedimenti ideologici come una debolezza del presidente incarica, che sente la pressione delle forze più reazionarie che lo sostengono,alimentate da spirito revanchista verso i soggetti democratici. Tale sentimentopotrà sembrare paradossale ma i diciassette anni di dittatura non sono passatiinvano, modificando profondamente l’assetto del paese, sia da un punto divista economico in senso liberista, sia politico in direzione reazionaria (l’attualecostituzione del Cile, sebbene riformata in diversi punti, è ancora quella ap-provata durante il regime fascista di Pinochet). E alcuni umori sociali, e la rap-presentazione che i partiti ne danno, stanno lì a ricordarlo.

Pasquale D’aiello

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Veronica MondelliFugaFuga, primo film di Pablo Larraìn, è un'auten-tica dichiarazione d'amore per la musica e perquel mistero, ancestrale e inesplicabile, chel'arte racchiude.Ricardo, musicista invidioso, cerca di recupe-rare la perduta Rapsodia Macabra di EliseoMontalbán. Eliseo è un musicista “maledetto”:ha composto la sua meravigliosa Rapsodiaseguendo magnetiche macchie di sangue suuno spartito vuoto, conseguenza di un atrocedelitto consumatosi di fronte al suo pianoforte.Così, l'opera di Eliseo porta in sé la morte: lasua musica uccide chi la ascolta. Il musicistaè devastato dalla sua maledizione e impazzi-sce. Si aprono le porte del manicomio: qui Eli-seo deve fare i conti con la solitudine, conl'elettroshock, con il doppio significato di“fuga”. La fuga dalla musica e la fuga dal ma-nicomio, intesa anche come fuga da ogni con-venzione – fisica, sociale, morale e culturale.L'esplicazione, poetica e commovente, di taleconcetto è affidata ad Alfredo Castro. L'attoreinterpreta mirabilmente Claudio, un internatocon evidenti tendenze omosessuali. Claudio,ascoltando una “fuga” di Bach suonata da Eli-seo, decide di voler fuggire. E la fuga avrà ri-svolti tragici, intensi, poetici. Il film alterna duepiani: il presente, in cui Ricardo cerca di recu-perare la Sonata Macabra per renderla sua, eil passato, quello in cui ha preso vita la male-dizione di Eliseo. I due piani hanno diverse so-luzioni fotografiche. Il presente ha la pretesa

visiva del documentario, con luminescenzecariche di realismo non sempre convincenti,mentre il passato è giocato su colori più ragio-nati, grigio e azzurro in tutte le loro sfumature,e su una macchina da presa immobile.Il film presenta alcune piccole ingenuità, so-prattutto a livello di cause ed effetti. Ma Larraìnha la chiara intenzione di narrare il classico eoscuro nodo dell'arte – quello che uniscesesso, morte e follia – in modo romantico e,quindi, carico di irrazionalità.Poi figura l'invidia, intesa anche nel senso la-tino di vedere ciò che manca, processo cheper Larraìn sembra essere fondamentale: l'im-magine è lì, evidente, ma il mistero del visibilepuò essere (forse) compreso solo con una svi-scerante e ossessiva contemplazione. Di altaqualità il montaggio del sonoro, composto disoli silenzi e orchestra; molto vicino al con-cetto di attrazioni ejzenstejniane, Larraìn co-struisce il film per sovrapposizioni di pianisonori e visivi non legati cronologicamente masolo a livello logico, relegando il significatofuori dall'immagine: di estrema poesia lascena dell'elettroshock, il cui suono è sostituitodai violini. Con Fuga Larraìn sembra inseguiredisperatamente la sua poetica, i suoi maestrie le novità. Dopodiché, Larraìn si cimenteràcon un cinema apparentemente slegato dalsuo primo film che, però, appare come il ne-cessario ingresso verso un radicale lavoro dirinnovamento culturale del Cile.

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Parlare di dittatura in un film è, come molti altritemi, rischioso e delicato, non solo per le im-plicazioni politiche ma, soprattutto, per quellefilmiche che, assai spesso, sono state messein scena in modi così vari e variamente con-venzionali da diventare un’arma a doppia ta-glio. Arma ancora più affilata se si prendono inesame un contesto storico e regimi contrad-dittori ancora vivi e attuali, in un certo senso,come quelli sudamericani, in cui la tendenzafascista non è mai morta.Pablo Larraìn prova a guardare alla storia delsuo paese, il Cile, e alla tremenda dittatura delgenerale Pinochet, usando lo spostamento disignificato, la metafora e varie altre figure re-toriche cinematograficamente interpretate perprovare a riflettere sul significato sociale. Neesce un film duro e sgradevole, ma a suomodo illuminante.Raùl è un aspirante ballerino, che vuole vin-cere un concorso di sosia di Tony Manero in tv,e per tale ragione allestisce con alcune per-sone uno spettacolo ispirato a La febbre delsabato sera, ma questa sua passione si tra-sforma ben presto in un’incurante e micidialeossessione.Il film, che ha vinto il Festival di Torino, è uncupissimo e disturbante dramma umano e po-litico, vicino al McNaughton di Henry – Piog-gia di sangue, ma dalle più evidenti ambizioniconcettuali.Per scelte narrative, ideologiche e cinemato-grafiche, tutto il film ruota claustrofobicamenteattorno alla figura del protagonista, usatocome metafora e simbolo: metafora della dit-tatura, non solo quella cilena, e della sua vio-lenza, che procede impassibile a conquistareo difendere le posizioni acquisite o, ancorapeggio, a raggiungere un obiettivo prefissatoe il più delle volte irrealizzabile (fosse la ric-chezza per tutti o un concorso televisivo, ogniregime ha la sua tremenda utopia); e soprat-tutto simbolo e sintomo di una società già mar-

cia e malata, a pochi anni dall’ascesa del ge-nerale (come affermano i sostenitori del ditta-tore, la sua violenza deriva da quella dellasocietà cilena), che preferisce isolarsi, disinte-ressarsi della politica e di ogni risvolto non pri-vato, utilitaristico, primitivo, preferendo farsiirretire dallo spettacolo, dai lustrini di cinema,sport e spettacolo.Larraìn non usa solo le figure di stile e rac-conto per il tratto globale della sua pellicola,ma vi lavora all’interno, riempiendo il film disottintesi, di rimandi, di sfumature più o menoevidenti, come l’uso della sessualità ine-spressa, dell’impotenza e della voglia di sod-disfarsi (esemplare il tentato amplesso con lagiovane figlia dell’amante), oppure il rapportocon i giovani (e le loro idee politiche), chePablo spia con disinteresse e codardia, comenell’interrogatorio da cui fugge, fino al finaleesemplare nella sua mestizia ed essenzialità,controcanto ancora più allucinato all’orroremostrato.Il regista dimostra grande precisione, corag-gio, lucidità stilistica nell’uso secco, disturbatoe calibrato della violenza, nel fuori fuoco delleriprese per indicare il distacco dalla realtà maanche dallo spettatore, nell’ossessione per lafigura del protagonista, esasperata dalla foto-grafia mimetica, ma non solo, di Sergio Ar-mstrong; e anche una straordinaria forzadrammaturgica e concettuale, avendo scrittola sceneggiatura con Mateo Iribarren e Al-fredo Castro, con la quale riesce a mettere inpiedi un’architettura di storie, eventi e signifi-cati apparentemente casuali, ma che, invece,non lasciano scampo alla mente e ai sensidello spettatore, reso ancora più partecipe diun incubo (a ben guardare non siamo lontanidal Salò pasolinano) dalla prova impeccabilee trasparente dell’«osceno» Alfredo Castro.Che ha vinto anche lui il premio a Torino,segno di un festival che ha trovato – nel beneo nel male – una sua impervia strada.

emanuele raucoTony Manero

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Ci sono alcuni film impossibili da analizzareprescindendo dall'aspetto autoriale. E ci sonoregisti che non fanno nulla per evitare che ilcritico parli del loro film imbastendo paralleli-smi con le opere precedenti. Pablo Larraìn,che è solamente al terzo film (ma il primo nonha avuto visibilità internazionale), sembra rin-correre temi ricorrenti con la stessa osses-sione che caratterizza i comportamenti deisuoi protagonisti. Chi insomma ha già vistoTony Manero sa esattamente cosa aspet-tarsi. E le sue aspettative vengono completa-mente soddisfatte, anche perché Post Mortemcostituisce un passo in avanti nella carriera diun cineasta già tra i più interessanti del pano-rama mondiale.Ritroviamo dunque innanzi tutto l'ottimo pro-tagonista dell'opera seconda di Larraìn, un Al-fredo Castro con lunghi capelli lisci ebrizzolati, che in questo caso sembrerebbenon avere pulsioni criminali, pur essendo unpersonaggio ancora una volta atipico e pienodi fissazioni. Nella vita batte a macchina gliesiti delle autopsie, vive da solo cucinandosiuova al tegamino, insegue l'amore della suadirimpettaia che fa la ballerina di cabaret (An-tonia Zegers, straordinaria), adempie rigoro-samente ai suoi principi (niente relazioni condonne che vanno con altri uomini). Soprat-tutto, vive nel Cile del 1973, a cavallo delgolpe di Pinochet. Se è vero che i film di Lar-raìn sarebbero tutt'altro con una diversa am-bientazione (anzi non avrebbero ragioned'esistere), il modo in cui riflettono sulla ditta-

tura è del tutto originale, tanto che frotte di re-censori - e i loro schemi mentali - erano rima-sti spaesati al cospetto di Tony Manero.In questo caso i cadaveri prodotti dal colpo distato vengono letteralmente sviscerati, disse-zionati, esibiti. In testa Salvador Allende, alsuo seguito centinaia di persone, compresequelle che avevano manifestato ben poco in-teresse per la politica. Non solo in questo casoil regista denuncia tali orrori senza ambiguità:ne ha anche per i piccoli borghesi dissidenti aparole (anzi a slogan cretini) e pronti a piegarsiquando si tratta di opporsi realmente.Tuttavia, il cuore e la forza del cinema di Lar-raìn risiedono altrove. Quanto il regime incidesui comportamenti privati delle persone, chedi fronte alla tragedia reagiscono ripiegandosui loro problemucoli di cuore e di carne, pro-babilmente in maniera irrazionale? C'è corri-spondenza univoca, biunivoca o non ve n'éaffatto tra questi due aspetti? In questo casol'ambiguità è voluta e chiaramente perseguita.Si aggiunga che la tensione raggiunge in PostMortem densità rare e che il regista sa esat-tamente quando provocare lo spettatore esi-bendo sgradevolezze, o quando costringerloa soffermarsi su sequenze (il finale) prevedibilisenza la possibilità di distogliere lo sguardo.Siamo insomma di fronte a un autore che la-vora sul linguaggio e che ha le idee del tuttochiare. Che forse parla solo ai cinefili,difettando in comunicativa verso il grandepubblico. Ma non certo in personalità e intelli-genza.

emanuele rauco

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Post MortemRIVISTA INDIPENDENTE D I C INEMA

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A vestire di nervi e pelle le ossessioni del cinema di Larraìn èl'attore più amato in Cile, quell'Alfredo Castro dal volto scavato edallo sguardo imperturbabile che ha interpretato tutti i film del re-gista, accettando con coraggio ruoli da protagonista disturbantiper lo spettatore ed estremamente difficili nella loro anaffettività,istintualità, violenza, disumanità. Il sodalizio tra i due comincia con Fuga, dove l'attore impersonail compagno di manicomio Claudio: "è un film molto ambizioso edi scarso successo, in cui compaio con un piccolo ruolo solo peruna ventina di minuti" dice Castro durante un'intervista condottada Radio Cooperativa, l'emittente nota in Cile per la sua opposi-zione alla dittatura di Pinochet. Anni dopo, il regista mostra a Castro la fotografia di un libro suiserial killer americani, da cui insieme trarranno ispirazione dap-prima per una sceneggiatura di 60-70 pagine e poi per il sorpren-dente Tony Manero. “Furono sei settimane difficili, in cui lamacchina da presa mi era costantemente addosso” ricorda l'in-terprete, “ho sofferto molto per girare questa storia così dura, maè il mio lavoro, il mio mondo, e dunque l'ho fatto volentieri”. Losforzo è apprezzato dal Torino Film Festival, dove viene premiatala sua interpretazione dello “psicopatico aspirante ballerino didisco-music, che un uso spietato della camera a mano disse-ziona”, come attesta la motivazione scritta della giuria, a propo-sito di questo personaggio divorato dal folle sogno di fotocopiarecol proprio corpo un'icona dell'industria di celluloide statunitense.“Pablo non voleva che recitassi, dovevo essere Raùl. Mentre sigirava, tenevo sempre in mente una frase del copione, quella sulCrocifisso, perchè per me Raùl viene crocifisso come in una tra-gedia greca: fin dall'inizio è chiaro che finirà male”. Forgiato da una simile demolizione dell'io personale, l'attore rag-giunge la perfezione e approda alla Mostra del Cinema di Vene-zia con l'autoptico Post Mortem, dedicato a una violentaossessione amorosa, consumata in una cantina angusta e buiacome la mente limitata e cieca che l'ha partorita: la mente diMario, impiegato all'obitorio in cui ogni giorno vengono ammas-sati i morti ammazzati dal regime. “Pablo è giovane e non ha vis-suto la dittatura di Pinochet” dice Castro, “penso sia meravigliosoche i giovani registi tornino ancora a quel periodo con il loro di-verso punto di vista, la trovo una precisa scelta politica”. Al contrario dei personaggi fallimentari che ha incarnato per il ci-nema di Pablo Larraìn, la sua carriera ha seguito un percorso dicrescita: laurea artistica, formazione come attore presso diversecompagnie teatrali, esordio alla regia, fondazione della propriacompagnia, borsa di studio del British Council.Ma quest'estate, durante le riprese in Puglia, Castro è statoospite nella tenuta di Albano Carrisi con tutto il cast del primo filmche Daniele Ciprì ha girato senza Maresco, è stato il figlio, incui interpreta il ruolo del narratore Busu. Presto ne vedremo il ri-sultato nelle nostre sale cinematografiche.

lucilla colonnaL'attore feticcio: Alfredo Castro

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Post Mortem, terzo film del cileno Pablo Larraìn, già apprezzatoper Fuga (2006) e Tony Manero (2008), si cala a cavallo tra lamorte di Salvador Allende e l'insediamento di Pinochet, raccon-tando la tragica storia d'amore tra Mario Cornejo, funzionario del-l'obitorio statale stracolmo delle vittime della dittatura, e larivoluzionaria Nancy. Mentre tutto il Cile sta cambiando radical-mente volto. Ecco la voce del regista e dei due attori protagonistiAlfredo Castro e Antonia Zegers, ospiti della 67a Mostra del Ci-nema di Venezia.

Come mai hai ambientato Post mortem durante il periodo in cuiAllende fu ucciso e si insediava la dittatura di Pinochet?

Pablo Larraìn: Credo di aver fatto questa scelta perché si trattadi un periodo in cui è avvenuto qualcosa che non riesco a capirecompletamente. Quindi, in qualche modo mi intrigava cercare disondare questo mistero. Lavorare con un soggetto del genere èstato strano, poiché tentavo da sempre di comprendere gli avve-nimenti nel loro insieme, e ciò non mi permetteva di capire nien-t'altro. Questo mistero mi ha ispirato fino alla volontà di realizzarePost mortem.

Quanto di ciò che è avvenuto allora ha avuto effetto sulla societàcilena di oggi?

PL: Penso che proprio per la ragione che non abbiamo mai capitociò che è successo veramente, molte persone non sono andatein prigione e altre non sono più vive; è qualcosa che negli anni hadiviso l'opinione pubblica. Oggi che il Cile è un bel paese dove vi-vere, con una democrazia in cui i diritti umani vengono rispettati eun’economia funzionante, è impossibile dire come stanno le cose.Ora siamo da vent'anni in democrazia e tutto è più stabile. Il filmnon pretende di risolvere nulla, dire cosa è giusto o sbagliato oemettere giudizi, ma solo far riflettere su cosa è accaduto, attra-verso la storia della nostra cultura.

Nel film c'è una frase in cui viene detto che “i gatti mangiano congli occhi chiusi per non vedere chi li nutre”. Può essereconsiderata la frase chiave di Post mortem?

PL: Non so se sia vera questa cosa dei gatti, ad essere sinceri.Condensa una situazione in cui nessuno si fida di nessuno, peròla gente vuole creare delle relazioni. Nel momento in cui qualcunoè ossessionato da qualcun altro, non vuole credere di essere ma-nipolato. Perciò, l'intera situazione è in tensione. Quello che ci pia-ceva, è che entrambe le storie dei protagonisti diventano una solacosa. Non so dire se sia la frase principale del film, però è sicura-mente molto importante perché in certe circostanze non ci si fidadi nessuno e non si riesce a creare un rapporto con qualcuno, nonpuoi guardarlo negli occhi. È il senso del film.

Possiamo dire che una nuova generazione di cineasti staemergendo in Cile?

PL: Sì, è molto bello, perché siamo tutti molto amici. Alcuni fannofilm d'arti marziali, altri horror, action o storie d'amore. Storie moltodifferenti, ma credo che sarà una generazione di cui si sentiràmolto parlare.

Mario Cornejo è un personaggio esistito veramente. Come seientrato in contatto con la sua storia?

PL: Leggevo un giornale che parlava dell'autopsia di Allende e poiho scoperto su internet che c'era la trascrizione originale. Mi hasconvolto, perché è l'autopsia del mio Paese. Venivano descrittetre persone, tra le quali Mario Cornejo, e mi sono chiesto: “Chi ècostui?”. Abbiamo scoperto che era una persona molto tranquilla.Lui è morto, ma ho incontrato il figlio, Mario Cornejo junior, chenel film è l'assistente del dottore. Ci ha dato tutte le informazionie le autorizzazioni per utilizzare il nome del padre. È stato inte-ressante sin dall'inizio: Mario Cornejo era una persona così calma

e anonima, nessuno chiedeva di lui e non era impressionato dallamorte. Per cui, molte cose del film sono vere, anche se la vita diMario Cornejo è un mistero.

Nel film, Mario dice di essere un funzionario statale, e sembra unsimbolo della responsabilità in quello che è successo...

PL: Si tratta di un problema di percezione della traduzione. Al-l'epoca, l'impiegato pubblico in Cile era una figura poco rispettata.Ora è diverso. Non volevo mostrarlo come un mostro. Cerco dinon giudicare i miei personaggi, altrimenti rischi di moralizzare lastoria. Voglio che le cose vengano viste per quello che sono. Ingenere, nella logica dei film si verifica un meccanismo per cui c'èla redenzione, alla fine tutto va bene: i cattivi sono cattivi e i buoni,buoni. Questo non mi interessa.

In effetti i tuoi personaggi sono, più che cattivi o pazzi, emotivi...

PL: Hai ragione, Gianluigi. Mario ha una sua morale, decisamentebigotta. Dice che non dorme con donne che sono state con altri.Si trova in una situazione emotiva particolare, il che è umano.Molta gente mi dice che i miei personaggi sono strani. Io gli ri-spondo: “Se ti seguo con una telecamera riuscirò a catturare moltecose strane”, perché la realtà contiene elementi assurdi. Tutti fac-ciamo cose strane. Un'altra logica del cinema è che ogni cosa fun-ziona. Trovi subito un taxi, le porte si chiudono bene, le case sonotutte pulite.È falso. Nei film tutto va ‘a posto’, ma quando me nerendo conto trovo sia ingiusto. Mi piace di più come nei film di JimJarmush rispetto ad alcuni film giapponesi in cui i protagonisti ap-paiono molto più regolari di quello che sono, il che rende tuttomeno reale.

Ma ai cileni piacciono i film del proprio Paese?

PL: Non tanto. Abbiamo un problema con il pubblico. Per qualcheragione ogni anno c'è meno gente interessata al cinema cileno. Ilproblema è diffuso anche in Argentina, Italia, un po' ovunque. InFrancia è leggermente diverso, ma comunque non si può farenulla contro Hollywood, Avatar e roba del genere.

Post Mortem è molto simile a Tony Manero, anche se il linguaggiodella camera è diverso. Meno camera a mano e più camera fissa.

PL: Ho iniziato a girare come in Tony Manero. Poi ho usato lentianamorfiche superlarghe. Mi sono reso conto che non funzionava,e così ho cambiato regia. Però la troupe è la stessa. Per l'imma-ginario del film, ho usato delle foto di un gruppo di fotografi del-l'epoca: l'Association of independent photographers esistita dal'72 al '94. Hanno fatto un sacco di lavoro ottimo che siamo riuscitia recuperare. C'è un bellissimo documentario su di loro che sichiama La ciudad de los fotògrafos (2006).

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Intervista a Pablo Larraìn, Alfredo Castro e Antonia Zegers(67 Mostra del Cinema di Venezia)

Gianluigi Perrone

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Hai realizzato un lavoro incredibile con il suono, tutto industriale...

PL: Esatto! Abbiamo fatto un lavoro lungo con il sound. Siamo an-dati nelle industrie registrando frigoriferi e macchine mixate con ilresto. È stato importante perché non volevo usare la musica, inquanto suggerisce le emozioni. Ne abbiamo provate molte, e il si-gnificato delle scene cambiava sempre. Allora le ho tolte. Mi hannochiesto se ero sicuro di volerlo fare, ma così è più vicino a ciò chesente realmente la gente. L'atmosfera fredda del film è ciò cheviene fuori da questo sound. Sono contento tu l'abbia percepito.

Il film è essenzialmente una storia d'amore, ma nella suagrammatica è anche un horror, con alcuni sprazzi di film postapocalittico...

PL: Quando la gente vede i film, si materializzano opinioni sempredifferenti. Se mi chiedevano come volevo vendere il film, rispon-devo che è una storia d'amore. Mi guardavano come se fossipazzo. Chiaro che ci sono momenti orribili, perché è una storia or-ribile.

I personaggi di Mario e Nancy sono agli antipodi: l'uno glaciale,l'altra disperatamente emotiva. In qualche modo, si completano...

Antonia Zegers: È una lettura bellissima. Purtroppo il film iniziacon la mia autopsia, e prima di amarci, prima di piangere insieme,prima di litigare sai già che tutto andrà male. Anche se c'è del ro-manticismo, il film ti dice in maniera poetica che tutto ciò non avràsuccesso. È la tragedia di due outsiders.

Alfredo Castro: Prima lei piange da sola, poi Mario piange perlei e poi piange per se stesso. Infine piangono insieme.

Alfredo, Mario sembra privo di emozioni, inizialmente.Poi Nancy lo porta ad esistere.

AC: Mario non sa mostrarle. Lui lavora con i morti, e quindi vedein Nancy il suo corpo che muore disperatamente. Sono stati vicinidi casa per anni, ma solo dopo tanto tempo lui si accorge di lei, ein quel momento diventa vivo. È un'attrazione molto oscura.

AZ: È il suo vicino da anni, ma Nancy non l'ha mai visto. Mario èinvisibile. Si trovano connessi alla fine, ma da situazioni sordide,perché lui vede una donna che sta decadendo, che fa un lavorosporco, vede i momenti ‘moribondi’ di una persona... Lui è attrattoda questa tragedia. Riconosce la morte, in lei.

Voi li vedete come personaggi irregolari ed emotivi, come Pablo?

AZ: Nancy non ha costruito nulla negli anni. Vive con il padre, at-traverso ideali comunisti. Ma è una ribelle. Come essere ribelle inuna famiglia comunista se non facendo la ballerina notturna? Sitrova lì perché combatte qualcosa, per dire in giro che lei è là edesiste. Può essere considerata la sua personale rivoluzione. Leinteressa di più il colore dei capelli che il movimento politico. Loodia. Perché, per quel motivo, lei non può essere vista e non puòesistere. Quella è la sua vendetta. Si nota dai suoi tratti psicoso-matici. L'ho costruita così.

Tanto è vero che Mario non può prendersi cura di lei, allora lo fadel cane.

AC: Invece Mario non riesce a scrivere a macchina: è un po' dimeno, ma è la stessa cosa che avviene nel rapporto con Nancy.Non sa gestire le cose.

Alfredo, quindi, che pensi di Mario? È un codardo, senza emozionio soltanto un uomo incompleto?

AC: Non mi piace dare giudizi su Mario. Ho realizzato un'intervistacon la televisione cinese. Loro non hanno la nostra mentalità cat-tolica, e l'intervistatrice lo trovava gentile e carino. Incredibile!

Secondo te ci sono connessioni tra il personaggio di Raùl in TonyManero e Mario in Post Mortem?

AC: Sono entrambi profondamente soli. In Tony Manero, Raùl ècostretto a socializzare con altre persone e lo fa. Infatti, ha tredonne intorno a sé. Deve organizzarsi per ballare e organizzaregli spettacoli. Mario, invece, non ne ha l'urgenza materiale.

Molto bella la scena in cui attraversano il corteo dei manifestantiin auto...

AZ: Mostra la differenza tra la dittatura e la democrazia. Quandosi è instaurata la dittatura, vediamo le strade vuote con le auto di-strutte. Tutto fermo. Quando arriva la democrazia la gente sentedi poter scendere per le strade e dire quello che pensa.

AC: All'epoca dei fatti io ero sedicenne ed ero solito guardare dacasa mia le manifestazioni. Ricordo dal balcone un milione di per-sone nelle strade che gridavano, protestavano e ballavano. Ab-biamo avuto almeno due anni di libertà prima del buio totale. Quellicome Mario in realtà erano una minoranza silenziosa.

È un film con un plot che potrebbe essere applicato a qualsiasidittatura...

AZ: Parla agli esseri umani. Tu devi prendere la tua posizione efarti il tuo giudizio. Guardiamo il mondo e quello che l'uomo fa adaltri uomini per soldi, religione, potere, territorio. Allora siamo mac-chine impazzite? Non c'è Paese che non abbia conosciuto omicidi,torture, uomini che vogliono sopraffare altri uomini. Come ti ponidavanti a tutto ciò? Te ne vai dal tuo Paese e trovi le stesse cosein un altro. Almeno in Sud America.

AC: Questo aspetto deve aver colpito Pablo. Il lato universaledelle vite minimali di questi personaggi. I peggiori torturatori, cri-minali e assassini sono parte di questa minoranza silenziosa. Nonsono da giudicare come psicopatici ma, semplicemente, in quantouomini...

Come ha lavorato Pablo con voi?

AZ: Non c'è stata una grossa preparazione, se non alcune letture.Nemmeno per le scene più forti. È Pablo che ti fa ripetere tante voltee poi costruisce tutto sul set. Quello che si vede ha molto l'intensitàche si sentiva sulla scena. Bisognerebbe essere lì per capirlo.

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Cercare di delineare il cinema di Raùl Ruiz(Puerto Montt 1941 – Parigi 2011) è davveroun’impresa impossibile. Lo è innanzitutto per unacontraddizione in termini. Per Ruiz parole quali“linea” o “confine” hanno un significato assoluta-mente relativo. Ogni storia ne contiene mille altre,così come ogni immagine, ogni sequenza. La re-

altà si presenta come un infinito gioco di specchi pronto a mutareriflesso a seconda di chi guarda, di chi interpreta.Come registaRuiz mette continuamente in discussione il significato stesso dellarappresentazione filmica, stimolando una continua riflessione sullinguaggio e sulle possibili modalità narrative del cinema. Nomi-nato Commissario Cinematografico di Unidad Popular durante il

governo di Allende, Ruiz è costretto a lasciare il Cile in seguito alcolpo di Stato di Pinochet del ‘73. Va in esilio a Parigi, dove pro-segue la sua intensa attività cinematografica che conta già diciottopellicole prodotte. Da allora, sostenuto e finanziato anche dal Be-aubourg, realizza quasi cento film. Uno dei pochissimi titoli repe-ribili oggi in Italia è Tre vite e una sola morte (1996), una delleultime interpretazioni di Marcello Mastroianni che qui veste i pannidi un maggiordomo, un uomo d’affari, un professore e un barbone,che si riveleranno poi come un’unica identità. In questo lungome-traggio riscontriamo delle componenti surrealiste, oniriche, sim-boliche e freudiane che ricorrono spesso nella poetica di Ruiz. Tra gli altri titoli anche: Le tre corone del marinaio e La città deipirati (1983), Genealogia di un crimine (1997) vincitore dell’Orsod’Argento al Festival di Berlino, Autopsia di un sogno (1998), Iltempo ritrovato (1999) con John Malkovich e Emmanuelle Béart,Il figlio di due madri (2000) con Isabelle Huppert.

Raùl Ruiz

Avvicinarsi al cinema di Alejandro Jodorowsky (To-copilla, 1929) significa entrare nell’immaginarioevocativo di uno sciamano che crede fermamentenel potenziale terapeutico della messa in scena.In ognuno dei suoi film i protagonisti intrapren-dono un viaggio di iniziazione che li conduce al

raggiungimento di una maggiore consapevolezza di sé comeparte di un universo unico, armonico ed immortale. Un percorsodello spirito e della carne, impervio e rivelatore, che affronta concoraggio ed ironia i lati più oscuri dell’essere umano. Nel suo linguaggio visivo, violento e poetico, ricco di simboli, ma-schere, allegorie, bellezza e deformità, troviamo l’impronta dellasua intensa e mai interrotta attività di studio in materia di alchimia,oltre che la sua grande passione per il teatro.Jodorowsky proviene dal teatro. A Santiago lavora in un circo eallestisce spettacoli di marionette. A Parigi entra nella Compagniadel mimo Marcel Marceau e fonda con il drammaturgo FernandoArrabal e l’illustratore Roland Topor il Movimento Panico, di ispi-razione surrealista. In Messico mette in scena decine e decine dirappresentazioni, tra testi di Strindberg, Tardieu, Jarry, Arrabal,Beckett, Ionesco, Leonora Carrington e sue proprie creazioni. Inizia a sperimentare la macchina da presa nel ‘57 con un corto-metraggio muto tratto da una novella di Thomas Mann, Le testescambiate. Nel ’67 inaugura la sua casa di produzione, realiz-

zando il primo lungometraggio, Il paese incantato, trasposizionedi un testo di Arrabal. Ma è soltanto con El Topo, girato in Messico nel ’71 con un bud-get piuttosto ridotto, che Jodorowsky rivela al vasto pubblico lesue grandi doti autoriali. Questo film, di cui non è solo sceneggia-tore e regista ma anche interprete principale, approda a New Yorkdiventando un vero e proprio cult, grazie anche al sostegno distri-butivo di artisti come John Lennon e Yoko Ono che ne apprezza-rono subito l’originalità e la forza espressiva. Accolto, in seconda battuta, anche dalla critica come uno straor-dinario “western spirituale”, El topo, ovvero “La talpa”, è la storiadi un pistolero che, lasciato il figlioletto in una congrega di frati,accetta, per amore di una ragazza, di sfidare quattro Maestri in-vincibili. Dopo averli combattuti e vinti, il pistolero viene però tra-dito dall’amante che gli spara al petto e fugge a cavallo conun’altra donna. Da quel momento ha inizio per lui una nuova vita.Risvegliandosi all’interno di una montagna, circondato da una co-munità di reietti deformi, il pistolero abbandona le sue vesti e im-piega tutte le sue energie per riemergere dalla terra e liberare isuoi nuovi compagni. Compiuta l’impresa, il protagonista si con-fronta nuovamente con suo figlio, diventato ormai uomo, e si lasciaquindi bruciare tra le fiamme, in un rituale passaggio di testimone.Grazie al trionfo di El topo, Jodorowsky ottiene enormi finanzia-menti per il successivo The Holy Mountain, un’opera davverograndiosa e forse la più rappresentativa del suo sapere esoterico.Ad esso seguiranno Tusk, Santa Sangre (prodotto da Claudio Ar-gento, fratello di Dario) e Il ladro dell’arcobaleno.

Alejandro Jodorowsky

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Altri autori di spicco del cinema cileno Ginevra Natale

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BRILLANTE MENDOZAun film di

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