Il cielo di Capri

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il cielo di Capri i narratori ENZO CARBONE

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Torna la penna di Enzo Carbone.

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... Pierre Clement, un giovane medico francese, si trova a Capri per riprendersi dalle peripezie procurategli da un processo pendente a suo carico a Parigi. Più che un riposo, è un volontario distacco dalla vita, quello che si propone quando dal promontorio del Monte Solaro si tuffa con lo sguardo nell onde schiumose del mare. Un caso fortunato lo trattiene dal suo proposito, o non si tratta affatto di un evento casuale?...

ENZO CARBONE

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Da quasi un’ora stavo meditando di buttarmi giù nel vuoto! Erano cinquecentottananove metri che mi separavano da quel-

l’abisso profondo dove le onde del mare con la schiuma bianca carez-zavano gli scogli formando quel decoro che mi trattenevano senza neanche saperlo. Stralunato com’ero, non vedevo nulla, oppure così mi sembrava! Soltanto la mia fine volevo seppellire sopra quegli scogli di mare che mi attendevano giù.

Quanti pensieri, quanti ricordi, tutto era ormai deciso, all’abbando-no del destino. Questo mio amaro destino, non so, con quale maestria o magia umana, mi aveva condotto fin qui sopra ed alla mia ultima de-terminazione. Quante volte avevo detto a coloro che avevano perse le speranze che la vita è un dono della stessa vita.

Che finché il nostro respiro regge il corpo in piedi, la nostra ani-ma deve lottare. Non ha diritto di infrangere il dono più prezioso del mondo.

Quante volte... quante volte, era il mio mestiere, la mia professio-ne, lottare per la vita, schiacciare tutte le disperazioni che mi venivano confidate durante il mio lavoro. Ne avevo sentito, constatato e visto di tutte le specie, persone ridotte agli estremi della loro propria vita sen-za più un centesimo di speranza.

Ora ero io che fissavo con occhi profondi nel vuoto l’abisso senza ri-torno. Ero io uno di loro, ed attraverso la loro immagine riflettevo la mia.

La ragazza socchiuse gli occhi poggiando la testa sulla mia spalla, inaspettato e sorpreso, con movimento meccanico m’affrettai a sor-reggerla per non trascinarla con me in quel precipizio senza vita, e sen-za fine.

Sbalordito e scosso dalla sorpresa, la luce del mio animo mi rese quasi responsabile verso un’altra vita da soccorrere.

I suoi lunghi capelli sembravano fili di seta intrecciati con uno smal-to d’oro! I riflessi del tramonto le donavano un ornamento che tra lo

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stordimento della sorpresa e la realtà sembravano brillanti e diademi poggiatisi sulla sua testa.

Com’era bella!... Bellissima...! Un angelo caduto dal cielo, venuto pro-prio nel momento in cui non si aspetta più nulla all’infuori della morte.

Lei. La morte, non l’avevo mai corteggiata, mai mi aveva ispirato al-cuna simpatia, al contrario, ero stato finora un buon condottiero con-tro di lei.

Dunque... la vita non voleva darmi il suo addio? Aveva inviato un angelo dal cielo, un’ anima gemella che andava in cerca della stessa fine! Dovevo essere proprio io a sorreggerla, a salvarla da quell’inevi-tabile agguato?

Una pausa di tempo bastò per riprendermi, per scuoterla quasi con rabbia e vedere sulle sue labbra appena fiorire un sorriso ombroso, senza luce, su quel viso che invece era ridente di vita.

Come mai? Cosa sta accadendo? Era impossibile dare una spiega-zione. Non mi interessava, ero confuso.

Oltre al cameriere, nessuno aveva visto la scena. Corse subito ver-so di noi. L’avevo messa a sedere sulla panchina che si trovava a pochi passi da noi. Aprì i suoi grandi occhi neri, sorrise portandosi le mani verso il cuore, mentre il cameriere guardava imbarazzato, aveva intui-to, soltanto per lei. Poi le porse un bicchiere di cognac con la mano tre-mante.

- Beva... beva! Le farà bene, si sentirà subito meglio. Un capogiro -aggiunse.

- Grazie... molte grazie - rispose in inglese.Il cameriere preoccupato voleva telefonare a Capri per avverti-

re un’autoambulanza. Capiva molto bene l’italiano, fece cenno con la mano che non era necessario. I suoi occhi smisero di guardarmi. Mi guardava come se sapesse tutto di me.

- Dottor Clement!- Mi conoscete?Non rispose, sorrise semplicemente, contenta scoprendomi sor-

preso. Diventai rosso come quando uno scolaretto non risponde alla sua maestra.

- Allora...! Allora avrà intuito il mio gesto ed ha cercato in un certo qual modo, di evitare una tale follia?

- Chi può sapere chi sono? Soltanto la polizia... gli agenti del-l’interpol possono sapere che mi trovo a Capri da due giorni!

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Volevo lasciarla, per un momento balzò di nuovo alla mia mente la folle idea di farla finita con la vita. Ci voleva poco, la panchina si trova-va soltanto a pochi passi dal precipizio. Bastava un salto ed era fatta, tutto sarebbe finito. Al diavolo tutti!

- Che sorpresa dottore! Incontrarla in queste circostanze. Ho visto mancarmi il respiro, se non ci fosse stato lei a sorreggermi sarei cadu-ta nel vuoto!

- Magari! - stritolai fermo tra i miei pensieri.- Grazie dottore. Mi chiamo Brytt Webert.Aveva appena finito di pronunziare il suo nome, quando una voce

ci fece girare tutti verso la sua direzione.- Brytt... Brytt...! Sei partita, ti avevo detto di non allontanarti e in-

vece?...” chiese una donna affannata, “all’uscita dalla toilette non ti ho più vista!

- Questo è il Dottor Clement - rispose Brytt Webert, come se non fosse accaduto nulla.

- Aah...! Come state dottore?- Bene... grazie... molto bene - mi affrettai a rispondere - Scusate io

non...- Certo, noi si preoccupi Dottor Clement.Ancora un’altra sorpresa, ero sicuro di non averle mai viste prima.- Si chiama Claudia - intervenne Brytt Webert, “è la mia dama di

compagnia, non posso viaggiare sola. Ha visto cosa mi è successo? Gra-zie a lei sono ancora viva! Noi siamo al Tiberio.

- Aah...! - esclamò Claudia guardando l’orologio - sono già le otto di sera... Presto... Presto, dobbiamo andare al porto, saranno già arrivati! Sentirai che sgridate...! Quante brontolate - ripeteva mentre Brytt We-bert acconsentiva con la testa dandole ragione.

Si era fatto tardi.Quella signora di mezza età che si chiamava Claudia portò la ra-

gazza via, senza darmi il tempo di chiederle chi fosse e come mi co-nosceva, dove le avevo incontrate o conosciute visto che anche l’al-tra mi aveva riconosciuto. Erano apparse come un lampo, e così era-no sparite.

Il cameriere insistè perché bevessi qualcosa anch’io dopo lo spa-vento. Aveva ragione, un buon bicchiere non mi avrebbe fatto male, al contrario. Uno stuolo di pensieri corse come un fulmine alla mia mente.

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Parigi! Il mio passato che da un po’ di tempo cercavo di seppellire. Farla finita con la vita, una volta per sempre.

Quale reato avevo commesso? È un reato aiutare una povera sven-turata? No... Non è un reato” ripetevano altri miei pensieri “non hai fatto niente. Hai salvato due vite in pericolo di morte. Ti hanno de-nunziato di cose che non hai mai fatto? Questa è stata la ricompensa! Non ho nessuna prova, tutti sono contro di me, perfino la mia segreta-ria. Quel bambino è morto, ma non per colpa mia.

Ero venuto fin sul monte Solaro dalla lontana Parigi. Ora per la pri-ma volta guardai il cielo di Capri, l’aspetto cha aveva, sereno e limpido carezzava l’isola resa rossa dal tramonto del sole, donandole l’aspetto di un oro grezzo che galleggiava sul mare.

I colori si confondevano sui bordi delle strade, come tappeti.Capri grandiosa, immortale ai miei occhi malgrado quello che avrei

voluto attuare in quella infinita immensità.Ahimé! Destino amaro, di cui ero in balìa. Chissà! Forse la vita mi

avrebbe dato ancora una volta ragione, come quando verso chi non aveva più speranze dicevo: “Nulla vale al di sopra della vita, al di so-pra di te stesso”.

Rividi l’abisso che pochi minuti prima sarebbe potuto diventare la mia tomba. Ora il mare color amaranto dava gli ultimi saluti ai ba-gnanti, mentre una barca a motore si allontanava verso il sole inghiot-tito dal mare che pareva un dolce pregiato.

Voglio sapere...! Nessuno sa che sono a Capri. Quelle donne mi co-noscono, sono sicuro di non averle mai incontrate.

Il bicchiere di cognac aveva fatto il suo effetto, qualcosa m’invase, il segno della morte scomparve immenso a tanta bellezza. Avevo quasi voglia di prendermi a schiaffi, nell’insieme mi sentivo ridicolo ma con-tento di non essere andato oltre, ringraziavo una volta il mio destino.

La realtà della vita pian piano riprendeva i suoi passi, vedevo una luce che non avevo mai notato. Era la luce del cielo di Capri a darmi tanto bagliore, e la sua gente che spendeva gagliardi sorrisi ai turi-sti.

La sera stava arrivando, non certo con gli incubi delle altre sere, di tutte le altre notti, quando costretto dalla disperazione precipitosa-mente lasciai Parigi per Napoli. Era stata la fuga dalla disperazione, cercavo un rifugio dove nascondermi per non sentire più niente. An-darmene lontano da quella baraonda che si era formata tutt’intorno,

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coi loro raffinati pregiudizi stilati in modo da ossessionare la loro vit-tima prescelta.

Fuggire... fuggire... Non mi era rimasto altro, correre. Correre il più lontano possibile: presi il primo aereo in partenza per l’Italia.

Tutto era caduto intorno, nulla e niente mi legava, non mi stimo-lava niente. Tutte le glorie del passato, forgiate nel tempo, fin dalla mia infanzia erano state cancellate in una pausa di tempo, spazzate via senza esitazione.

Ora che avevo trovato un pezzo di me stesso, farla finita non era una soluzione degna del nome che portavo. Dottor Clement, come avevano detto le due donne sconosciute.

Ero sicuro di non averle mai viste, tuttavia sapevano chi ero.Questo aveva suscitato in me ancor di più la curiosità del sapere,

forse anche la paura, mentre nell’insieme volevo sapere di più, ed an-che conoscere.

Ritornai a Capri. Scesi dall’autobus proprio davanti alla polizia. Qualcosa mi diceva di entrare e dire: “Sono io il Dottor Clement che stanno processando a Parigi! Si... si...” ripetevo ancora tra me “Pier Clement sono io!”.

Feci il primo passo per avviarmi quando un bambino mi passò da-vanti in bicicletta cadde qualche metro più lontano. Gridava, si era fatto male. Mentre mi affrettavo per soccorrerlo una macchina frenò bruscamente, mi trovai seduto sul cofano della piccola Fiat senza an-cora capire come fosse stato possibile.

Una gruppo di gente si era formata intorno, attirata dalla brusca frenata. Mi sembrava di essere quasi stordito, la folla aumentò, distin-guevo appena la voce del bambino che si lamentava.

Alcuni gridavano che era colpa sua, altri guardavano stupiti: non era successo nulla di grave, e forse una sciagura era stata evitata.

Il bambino fu accompagnato dai suoi genitori, io cercavo di farmi capire con l’italiano che avevo studiato nel nord Africa.

“È straniero”, dissero.La ragazza scese in fretta dall’auto, mi tempestava di domande, mi

chiedeva se mi ero fatto male toccandomi un po’ ovunque.A prima vista ero un po’ a disagio, non capivo cosa intendeva col

suo palpare. Mi misi a gridare: “Il bambino... il bambino...!”.- Il bambino non ha niente, è stata di più la paura che altro. È sta-

to lei che ha ricevuto il colpo della macchina, almeno così ci è sembra-

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to - dissero un paio di persone. Difatti era di me che volevano sapere, soprattutto la ragazza.

- Dove sente male? Se vuole la porto da un dottore! Dove vuole lei! - aggiunse ancora la ragazza.

Era giovane sui vent’anni, degli occhi vivi brillavano sul viso spa-ventato. La rassicurai, non avevo niente, quelle persone avevano ra-gione, si era trattato più di spavento che di altro: “Poi una Fiat così pic-cola cosa può fare!?” dissi quasi scherzoso.

- Non si sa mai - rispose la ragazza, - oggi niente mentre domani...?- Non si preoccupi signorina, lo sa che non è stata colpa sua. Anzi…!- Sono assicurata, un buon controllo metterebbe tutti tranquilli!. - Per evitare il ragazzo le sono venuto sopra.- Per questo mi sento in colpa, non sapendo quello che ne potreb-

be uscire domani! Sarei più tranquilla se l’accompagnassi da un dotto-re per accertare che effettivamente non abbia niente.

- Un dottore - incalzai in tutta risposta, - per che cosa? Le ho detto, mi sento bene, non ho niente è stato soltanto uno spavento.

- È proprio sicuro?- Sicurissimo, lei non mi ha toccato affatto. Ho perso l’equilibrio,

poi lei ha frenato bruscamente, mi sono trovato seduto sul cofano del-la sua macchina.

Dal modo in cui pronunziavo le frasi in italiano si misero tutti a ri-dere, mentre una brava donna mi porse un bicchiere d’acqua.

- Beva... beva... le farà bene dopo uno spavento del genere, meglio così” disse quella donna.

Dalla sua espressione sembrava modesta e pia.La ragazza non si rassicurava con quello che le dicevo, continuava

con le sue domande, cercando di sapere. Lei stessa era spaventata.Guardai ancora i suoi occhi vivi che brillavano sul suo viso irradiato

di vita e di luce. Era cordiale, ed insistente. Aveva uno sguardo since-ro e gentile anche se non riuscivo a distinguere di che colore fossero le sue pupille. Avrei potuto in breve tempo scivolare nell’aldilà.

Restavo ancora in piedi tra quella gente e di fronte ad una graziosa e premurosa ragazza.

Questo mi rallegrava, sentivo di valere ancora qualcosa, e sentivo che qualcuno aveva premura nei miei confronti.

- Scusate, questo è il mio indirizzo se domani sentirà qualcosa, mi potrà sempre venire a trovare.

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- Grazie... lei non soltanto è molto carina, ma anche persuasiva! Le ripeto, non è necessario il suo indirizzo. Va benissimo così, sono cose che succedono! È successo anche a me una volta.

- Mi dispiace molto - rispose - ho frenato tutto. Purtroppo...- Non si rammarichi signorina, non ne vale la pena di prenderse-

la tanto.- Lei è molto gentile. È straniero? Si nota dall’accento.- Si, sono francese.- Francese?!- Si, ecco, la ringrazio, adesso debbo andare. Lei ha bisogno di bere

qualcosa, tenga questo bicchiere “ le dissi dandole il bicchiere d’acqua che non avevo bevuto.

- È più spaventata di me - aggiunsi guardandola con simpatia. Ero quasi contento. - Arrivederci!

Rimasero a guardarmi stupiti fino in fondo alla strada.Che strano incidente! Volevo entrare dalla polizia. Paft! L’inciden-

te mi ferma. Volevo buttarmi giù dal monte Solaro per finire nel ton-fo dell’abisso marino. Paft! Una sconosciuta viene a svenire sulla mia spalla. Lei mi conosce mentre io non l’ho mai vista.

Feci il giro delle vetrine guardando il via vai di gente dall’accento di-verso. Mi sentivo lontano, sperduto e nell’insieme anche ritrovato.

La sera scendeva piano, con la sua aria marina: questo profumo di sereno, solo a Capri l’avevo odorato. In un’edicola comprai gli ultimi giornali arrivati da Parigi.

In albergo feci subito un bagno per cancellare delle brutte imma-gini, scesi nella sala per cenare. Il cameriere venne subito a servirmi. La sala era affollata di clienti, quasi tutti in compagnia, soltanto io ero solo. Difficile ma sicuro, dovevo dimenticare ed andare avanti.

Il cameriere mi guardava con occhi sospetti, come se qualcosa non andasse. Aveva forse letto i giornali?

Cercai di capire quello che intendeva con lo sguardo. Il risultato fu quasi magro, meno che niente.

Consumai il pasto in fretta pensando all’indomani. Ora esistevano ancora i giorni, cosa avrei fatto?

Per prima cosa avrei fatto un telegramma all’avvocato Marcel Stan-ler, informandolo che mi trovavo a Capri. Poi avrei preso qualche de-cisione importante, avrei definito la mia situazione. Quale difesa avrei preso contro tutte quelle menzogne?

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L’avvocato Stanler poteva fare molto, soprattutto conosceva tutti. Sapeva tutto, e specialmente nel mondo “POLITICO” aveva ottime co-noscenze. D’altra parte, non potevo confidarmi, avrei aggravato anco-ra di più il rapporto tra me e mio padre.

Capri era il posto ideale, per rifarsi le ossa e rinforzare il morale, vi-sto che il mio era all’ultimo scalino.

Dopo cena andai a sedermi sulla terrazza della Funicolare, avevo comprato i giornali poco prima. Un vecchio signore, senza dubbio un industriale, stava scherzando con tre belle ragazze: due bionde ed una bruna bellissima, provocante, dall’aspetto molto giovane, con un pet-to al di sopra della media e un paio di gambe mozzafiato, come diceva-no qui in Italia. Le bionde erano longilinee, molto slanciate, sembrava-no delle gatte innamorate.

Ahimé! Quanta fortuna... e quanti soldi per arrivare sul piedistal-lo. Quante lingue parlava Capri nelle sue strade. Capri rideva scherzo-sa coi silenzi della sera, coi discorsi della gente seduta sulle terrazze al fresco. Capri si cullava con le note della musica melodiosa del ristoran-te “PIGNA” - QUI CANTA TONY -.

Il golfo di Napoli si disegnava con le sue luci, l’aria di begonia s’espandeva profumata, le tenebre scendevano a picco sul mare dal monte Tiberio e dal monte Solaro.

Capri romantica di sera, sorrideva agli innamorati nei discorsi delle loro promesse, quanti baci dati con tanto amore.

Il mare si confondeva col buio della notte. Sentirsi felice, vivo e con-tento del soggiorno a Capri, niente doveva mancare. I ricordi confezio-nati durante l’inverno, le cartoline illustrate. Quanta pace, quanta al-legria faceva da ornamento in ogni discorso che si faceva.

Qui la vita si chiama vita, senza preamboli e deformazioni, negli al-berghi di prima classe non si trova posto senza prenotazione.

L’isola porta bene il suo nome. Non per niente molti nella storia avevano fatto nell’isola una seconda dimora.

Alla terza pagina del giornale fui attirato da un testo di grande for-mato: “L’EX FIDANZATA DEL DOTTOR CLEMENT È STATA ARRE-STATA A MARABELLA IN SPAGNA ASSIEME AL SUO NUOVO AMAN-TE. GOMEZ CONTE DI BARCELLONA. LA POLIZIA RITIENE SIANO ALLA TESTA DI UNA GRANDE ORGANIZZAZIONE DI DROGA.

L’articolo spiegava tutto della loro vita, parlava anche di me, potevo considerare di non avere più relazione con Nora Oridan.

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Nora era descritta come una donna pericolosa, tanto bella quanto spregiudicata e furba, più del diavolo. Sensuale e stravagante special-mente nello spendere. Per questo, scrivevano, aveva tanto bisogno di soldi, per lei nulla e niente era impossibile.

L’articolo mi definiva pressappoco com’ero e non potevo dargli tor-to. Mi veniva in mente: lei aveva qualcosa che altre donne non aveva-no. La conoscevo bene, sapevo dei suoi sotterfugi, delle smanie quan-do si preparava ad attaccare la preda. Le sue prede erano tante, spe-cialmente gli uomini, io compreso, per questo non me la presi tanto, sia del suo abbandono che di tutto quello che faceva.

Molti mi invidiavano, guardandomi con stupore accanto alla sua bel-lezza. Con quel suo stile di donna fatale, sicura. Con uno sguardo fred-do, quando si trattava di interesse, sapeva essere dolce ed agnellina.

Nora Oridan! Ora dovrei ridere di te. Ridere di tutto il male che mi hai fatto. Ma non sono un meschino, non rido mai di nessuno special-mente quando uno cade. Tu frequentavi quella strada, sapevo tutto. Pensavi che non sapevo dei tuoi tradimenti! Povera fanciulla illusa con il cervello di gallina. Sapevo che non mi amavi. Perché, per te l’amore non vuol dire niente, significa solo sesso.

Farti possedere da un buon maschio quando ti faceva comodo, op-pure per calmare le tue furie di tigre selvaggia.

L’amore è qualcosa di nobile, di sublime, dare se stessi per l’essere amato. Affrontare la vita, saper decidere, specialmente quando si trat-ta della vita altrui, non cercare di lacerarla senza alcuno scrupolo come facevi tu.

Eravamo due esseri diversi. Quante volte me l’ ero chiesto? Perché non ero uno come tanti! Perché avevano fatto di me un dottore? Sono sempre stato incapace di amare quello che non amo.

Incapace di recitare la commedia, mentire! Inventare per dire, tra-dire la gente per riuscire nell’intento prestabilito. Quando la comme-dia incalza nel quotidiano, trasforma ogni discorso in una scemenza umana. Questo non era il mio stile, non era il mio carattere. Ero por-tato alla semplicità, amavo la musica, la trovavo regina dell’infinito e creatrice del senza fine.

Il vento che la sussurra ed il tempo che la compone, nella sua ricer-ca di sobbalzi immortali. La pace dei silenzi infiniti, per questo mol-te volte preferivo le passeggiate solitarie ai falsi amici, attirati verso un’altra persona soltanto per interesse.

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Sarei stato un pessimo “POETA”. Lo avrei amato. Uno scrittore di strada, un vagabondo pittore, lo avei fatto. Mi era impossibile falsifi-care il vero della vita, storpiare un’arte che pian piano si era creata in me senza accorgermene.

I discorsi dei miei pensieri presero la strada in tutte le direzioni. Fermandosi di qua e di là, sul tempo passato assieme a Nora, facen-do sfiorire alla luce l’immagine che avevo da tanto tempo seppellito. Quella forza che portava con lei, i suoi modi di grande eloquenza, i sob-balzi di un discorso all’altro con tanta disinvoltura. Poi bruscamente si fermavano pensando ad altre cose ed altri luoghi. La villa sulle rive della Senna, il mio giardino, le aiuole che lo ornavano con i mie cari tu-lipani, le margherite bagnate di rugiada, le rose giganti che separava-no le due siepi. Gli uccellini quando mi insegnavano i loro canti prima-verili. Erano contenti, come se capissero che avevo bisogno di loro, del loro canto. Li contemplavo mentre cinguettavano volando fra i rami e i cespugli delle rose.

Dovevo essere un dottore perseguitato. Un uomo,che nella realtà della vita era incapace di passare all’attacco per difendersi. Poveri pen-sieri miei, quante cose, e problemi avevano risolto per conto degli al-tri. Mentre per me!

Ora si arrestavano ogni tanto, si mischiavano con l’aria serena del-la sera, facendomi dimenticare quello che era certo. Uno sconosciuto fra i miei simili, qualcuno che era stato buttato giù su questa terra da un altro pianeta!

Malgrado tutto mi fai pena Nora. Se mia madre non fosse morta in Marocco lasciandomi ancora in tenera età, avrei avuto un’infanzia diversa, sarei stato un altro uomo. Forse non ci saremmo neanche co-nosciuti, mio padre non si sarebbe risposato con la tua avvenente gio-vanissima zia. Madaimoselle Sophie De La tour non sarebbe mai diven-tata Madame Clement la moglie del grande Boss che tutti ammiravano ed anche temevano.

Non sarei mai diventato dottore, avrei seguito il mio istinto acco-standomi sempre di più alla “NATURA” per capirla. La natura che l’uo-mo “civile” ignora calpestandola, che schermeggia sfigurandola, spo-gliandola del suo aspetto di maestosa creatrice, rendendola sempre più povera e delusa dai tempi che furono solo suoi, dove respirava al-legra coi venti dei poli e il cielo disteso coi riflessi della luce del sole. La malvagità mi aveva tanto colpito, malgrado tutto ignoravo la diffi-

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denza, dovuta al mio carattere, causa dei miei problemi. Artefice della mia fuga, complice e autrice di tutto quel baccano che stavano facen-do sui giornali.

Nora i guai se li era cercati correndo dietro ad un’assurda gigante-sca lussuria, dietro chimere di sogni, anche se sapeva che cadono pri-ma o poi apportando trascinando dietro soltanto catastrofi e disillu-sioni amare.

Il conte Gomez me lo aveva presentato come un suo vecchio cono-scente, e naturalmente per me era stato normale crederle. Le menzo-gne hanno lo stesso sapore di chi le racconta, non per la persona che in buona fede crede. Questo personaggio si dava una certa importan-za, mentre al primo sguardo, si poteva leggere sulla sua fronte che era molto lontano da quello che diceva di essere. Aveva uno sguardo torvo, la spalla taurina con una capigliatura zigana, braccia da manovale con grosse mani e dita polpose. In quanto al fatto di farsi chiamare Mon-sieur Le Conte era senz’altro pura fantasia.

Con Nora si trovava bene: lei amava la grandezza, la notorietà, e a forza di andare a caccia di successo ora era riuscita ad ottenerla, e di certo non erano arrivati ad essere né sazi né contenti!

La mia storia è molto diversa, non mi pento di niente. Se lo dovessi rifare, lo rifarei, pur sapendo di essere ancora una volta tradito.

Monsieur Le Conte vantava un antico casato in Spagna, diceva che discendeva da una famiglia nobile, e che la sua bisnonna e sua nonna avevano frequentato la corte di Spagna ai loro tempi.

Gli piaceva parlare e farsi apprezzare, era scaltro, sapeva, astuto e sveglio, conosceva con chi poteva agire.

Parlava di guerre e di battaglie come se vi avesse partecipato. Quan-to al suo jet sulla Costa Azzurra non lo avevo mai visto, ma Nora lo ave-va descritto tanto bene da convincermi della sua esistenza.

Era stata in Spagna assieme ad altri amici, ma ora si sapeva, era ve-nuto fuori, uscito a galla: il frutto di quelle crociere, non era altro che contrabbando di droga.

Una ragazza seduta sola ad un tavolo sembrava che leggesse i miei pensieri. Disinteressato quasi assente , avvolto com’ero in quel mu-linello del passato non avevo fatto caso alla sua presenza. Sorrise un paio di volte, piantandomi uno sguardo interessato. Senza accorgermi stavo ridendo leggendo l’articolo di Nora Oridan e del suo amato con-te di fantasia. Lei pensava che stavo ridendo per lei.

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Fece cenno con la mano, poi venne a sedersi al mio tavolo.- Turista anche lei?- Non proprio turista... turista diciamo un turista forzato!- Ah! Forzato...- Pertanto è così - risposi guardandola bene.- Sono olandese, mi chiamo Ingrid.- Pier Clement.- Piacere - rispose, - la settimana scorsa mi trovavo a Roma, è sol-

tanto una settimana che sono a Capri con la famiglia Baldini. Faccio la baby sitter d’estate, nel tempo delle vacanze. Faccio questo sia per stu-diare che per conoscere l’Italia che mi piace molto, e soprattutto cerco d’imparare l’italiano.

- Interessante - risposi guardando i suoi occhi e il suo sguardo in-teressato.

- Crede davvero?- Sono sicuro, una bella ragazza come lei trovarsi a Capri in piena

estate!.Alle mie parole chinò la testa e a bassa voce rispose: “Qui si dimen-

tica tutto!”.- Eh sì... ha ragione, il fascino dell’isola è un buon rimedio. Come

mai sola una bella ragazza come lei?- Molto meglio da sola quando non si conosce nessuno, a parte la

famiglia Baldini. Adesso sono uscita per prendere un po’ d’aria e ap-profittare per visitare Capri. Anche lei è solo senza la sua signora.

Sorrisi sentendo il nome signora.- Sono solo, non ho signora né madame.- Non le piacciono le donne?”.- Tutt’altro! - risposi fissando il suo sguardo con tanta voglia di vi-

vere.Ingrid mi raccontò di lei, della sua famiglia in Olanda, dei suoi stu-

di. Io mi limitai alla discrezione, con mezzi discorsi senza andare oltre. Davanti a un buon gelato alla panna la salutai pensando all’indomani mattina, avevo deciso di alzarmi presto.

La notte mi sorprese profonda dormì in un combattimento sen-za fine con un mostro sconosciuto, che nascondeva la sua testa dietro un’orribile maschera per non mostrare il suo volto.

Costui voleva a tutti i costi strangolarmi, messosi su di me a caval-cioni mi teneva prigioniero delle sue forze.