Il cavaliere della profezia di Dante - David Blixt - Primo capitolo

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BASATO SULLE OPERE DI SHAKESPEARE, SULLA POESIA DI DANTE E SULLA STORIA ITALIANA, “IL CAVALIERE DELLA PROFEZIA DI DANTE” È UN ROMANZO CHE PARLA DI BRUTALI GUERRE, AMICIZIE PERDUTE, AMORI EPICI, COSPIRAZIONI TERRIBILI E PROFEZIE CHE CAMBIERANNO L’ITALIA INTERA. UN VIAGGIO AL CARDIOPALMA NEL CUORE DEL RINASCIMENTO.

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DAVID BLIXT

il Cavalieredella profezia

di danteTRADUZIONE DI

DANIELA DI FALCO

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Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

Copyright © 2007 by David BlixtTitolo originale: THE MASTER OF VERONAwww.davidblixt.com I edizione: maggio 2014Le illustrazioni interne sono state realizzate da Jill Blixt @Jill Blixt

TRADUZIONE di Daniela Di Falco

LA CORTE EDITORIA E COMUNICAZIONECorso Galileo Ferraris 77 - 10128 TorinoTutti i diritti riservatiLA CORTE EDITORE è un marchio La Corte Editoria e Comunicazione Progetto grafico: La Corte Editore

ISBN 9788896325452Finito di stampare nel mese di Maggio 2014 presso lo stabilimento grafico Elcograf di Verona per conto di La Corte Editoria e Comunicazione

www.lacorteditore.it

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A Jan

“Vivrò nel tuo cuore, morirò nel tuo grembo

e sarò seppellito nei tuoi occhi...”

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“A te convien tenere altro viaggio,’rispuose, poi che lagrimar mi vide,

‘se vuo’ campar d’esto loco selvaggio:

ché questa bestia, per la qual tu gride,non lascia altrui passar per la sua via,

ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide;

e ha natura sì malvagia e ria,che mai non empie la bramosia voglia,

e dopo ‘l pasto ha pi à liu fame che pria.

Molti son li animali a cui s’ammogliae più saranno ancora, infin che l’veltroverrà, che la farà morir con doglia.”

Dante, L’Inferno, Canto I, 91-102

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PROLOGO

PADOVA,16 SETTEMBRE 1314

I nervi di Ciolo tintinnavano all’unisono con gli speroni. Per tutto il viaggio non avevano visto anima viva. Né lungo la strada, né sui campi. Nessuno.

«Che significa?», chiese Girolamo.«Non lo so», disse Ciolo.«Padova è sotto assedio?»«Non lo so. Proseguiamo».«Come entreremo?»«Pensa a cavalcare».«Ma…»«Pensa ai fiorini d’oro».«Non sono mai stato a Firenze!».«Sta’ zitto», sibilò Ciolo.Campi deserti lasciarono il posto a sobborghi deserti. Alcune casupole e ca-

panne erano bruciate, ma per la maggior parte erano intatte, persino nuove – Ciolo notò puntoni di legno tagliati da poco e mattoni nuovi. Segni di un vec-chio assedio, non di uno recente. Se ci fosse stato un assedio in corso, sarebbe già arrivato alle loro orecchie il suono di centinaia di voci di protesta, di incita-mento, di esaltazione, lo scalpitio di cavalli impazienti, il cigolio e lo schiocco di macchine d’assedio, un odore di fuoco e di sudiciume.

Ma gli unici odori erano i profumi della notte. Gli unici suoni, il frinire dei grilli o lo sporadico richiamo di un’oca o di un cane. Non c’erano tende né fuochi, né lance acuminate. La città non era sotto assedio. Allora dove diavolo erano tutti?

Ciolo raggelò sentendo affiorare un’ipotesi raccapricciante: una pestilenza. Un’epidemia che ancora adesso confinava i padovani nelle loro case a grattarsi

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via le croste e a vomitare sangue. Gettò uno sguardo a Girolamo ma non disse niente. Pensando al denaro, si coprì la bocca con la mano sporca per proteggersi dall’aria malata e continuò a cavalcare adagio.

Si avvicinarono alla porta nord della città, al di là del Ponte Molino, un anti-co ponte romano lungo quattordici cavalli le cui triple arcate congiungevano le sponde del fiume Bacchiglione. L’arcata centrale era sostenuta da due massicce colonne di pietra che emergevano dalle acque increspate. Le ruote dei mulini vicini gemevano e stridevano nel loro incessante lavorio. Padova dipendeva in tutto e per tutto dal Bacchiglione.

Il ponte terminava ai piedi della porta fortificata. Ciolo la sbirciò attentamente. Niente corpi ammucchiati all’esterno. Un buon segno. Ma ancora nessuno in vi-sta. Spronò il cavallo con un leggero colpo di talloni e cominciò ad attraversare il ponte, imitato da Girolamo.

A metà percorso, Ciolo si accorse che la porta della città era aperta, ma buia.«Ho un brutto presentimento», disse Girolamo.All’improvviso si accese una fiamma, alta sulla torre davanti a loro. Una tor-

cia, alla quale si aggiunsero subito altre due. Nello stesso istante, Ciolo udì ru-mori umani. Migliaia di voci acclamanti. Uomini, donne, bambini. Campane che suonavano a distesa e note di strumenti musicali. Tutti gli abitanti erano dentro la cinta delle mura, ad aspettare il tramonto e la luce delle prime torce.

Ciolo allentò la tensione e si asciugò il sudore dalla fronte. «Vedi, non è niente. Una fest…»

Le sue parole si persero in un rombo di tuono appena uno stuolo di uomini a cavallo si riversò fuori dalla porta. Elmi piumati e corazze lucenti rifletterono uno scintillio di tizzoni levati in aria, mentre innumerevoli cavalieri padovani emergevano dalla città in un galoppo sfrenato e si lanciavano lungo il Ponte Molino.

Dritti verso Ciolo e Girolamo. Abbandonando il suo cavallo al proprio destino, Ciolo balzò giù di sella e si

precipitò verso il parapetto dove, senza alcuna esitazione, si lanciò nel vuoto. Per un momento si sentì sospeso in aria agitando inutilmente le braccia. Poi i piedi bucarono l’acqua e affondarono sotto la superficie.

Il rumore di zoccoli si spense appena il fiume lo ingoiò. Non sapeva nuotare. Si allungò nell’acqua, articolò braccia e gambe come se dovesse correre e an-naspò in direzione del ponte. La spalla impattò con violenza contro qualcosa a cui Ciolo cercò di appigliarsi come meglio poté. Non riusciva a vedere cosa fosse, ma le sue dita riconobbero le fattezze della pietra. Era viscida e viscosa ed era difficile mantenere la presa. Vi affondò le unghie. I polmoni cominciavano a bruciare. Poi la mano emerse dall’acqua, la testa affiorò subito dopo e Ciolo inspirò avidamente l’aria fresca.

Era aggrappato a una delle arcate dell’antico ponte romano. Sopra di lui, il

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passaggio incessante di soldati a cavallo. Idioti. Ovunque fosse il nemico, di certo non era lì. Perché partire alla carica, allora, e nell’oscurità, dove un ca-vallo avrebbe potuto inciampare e cadere? Una volta Ciolo era quasi rimasto ucciso durante una carica notturna. Il cavallo in testa si era spezzato una zampa, causando la morte non solo del suo cavaliere ma anche dei due soldati alle sue spalle.

Sentì ancora grida di acclamazione levarsi dalle mura cittadine e seppe con certezza che aveva rischiato la vita per una semplice parata. Per un’ostentazione di gloria e di destrezza. Buffoni. Scosso da brividi e colpi di tosse, Ciolo impre-cò sotto voce contro chiunque avesse inventato la nozione di cavalleria.

Una mano dopo l’altra, raggiunse il bordo della colonna. Era una fortuna che il Bacchiglione non scorresse impetuoso in quel punto; ancora di più, che il flus-so della corrente fosse rallentato dalla presenza dei mulini. Altrimenti sarebbe stato spazzato via in un istante. Per la prima volta si chiese cosa fosse accaduto a Girolamo. Inutile chiamarlo. Se era sopravvissuto, lo avrebbe incontrato alla casa.

Impiegò una decina di minuti per guadagnare la sponda del fiume. Sebbe-ne l’argine fosse solido, non c’era modo di raggiungere la porta. L’unica via d’accesso era dal ponte. Ciolo inspirò a fondo e cominciò ad arrampicarsi con prudenza su per il muro di pietra. Le dita bagnate non gli facilitarono il compito. Borbottando e imprecando, si issò dentro la nicchia di qualche antica divinità scolpita proprio sotto il bordo del ponte. Rimase lì, battendo i denti per il freddo in attesa che terminasse la corsa dei cavalieri. Si districò nello spazio angusto finché riuscì a liberare le braccia e a stringersele intorno al petto. Al diavolo i padovani e la loro stupida patavinitas.

Passò l’ultimo cavaliere, rincorso da una folla di cittadini che inneggiava a pieni polmoni. Torcendo il corpo, Ciolo si issò sul ponte. Nessuno si fermò ad aiutarlo. Anzi, fu quasi scaraventato di nuovo in acqua dalla pressione della calca. Dio, se odiava la gente di Padova!

Con i piedi ormai sulla terraferma, rischiò di essere spazzato via da un al-tro genere di corrente trasudante gioia e orgoglio. Mimetizzandosi tra la folla, stirò le labbra livide di freddo in un sorriso. La ressa cominciava a scaldarlo e gli avrebbe reso ancor più facile l’ingresso nella città. Immaginando che il suo cavallo fosse scappato, non si diede pena di cercarlo. Si limitò a recitare la parte del cittadino felice che guarda i propri soldati partire verso la gloria.

«Ci sei caduto dentro, eh?», gli domandò un volto sorridente.«S-s-sì», rispose Ciolo con finta noncuranza. «Come un fesso». Era già sta-

to tre o quattro volte in quella città. In un’occasione, era stato persino difeso dall’accusa di taccheggio dal famoso Bellario. Di conseguenza, era in grado di imitare l’accento locale.

L’eccitazione generale alla fine si placò e i padovani si avviarono lentamente

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verso le loro case. Riattraversando il ponte insieme a loro, Ciolo dispensò battute scherzose e pacche sulle spalle, unendosi alle risate suscitate dal suo sventurato incidente.

A metà tragitto trovò il corpo di Girolamo. Lo riconobbe dalla casacca, visto che il volto era stato calpestato dagli zoccoli. Si chinò in fretta, ma inutilmente: il cadavere era già stato depredato.

Ciolo entrò a Padova aggregandosi a un gruppo di uomini diretti verso una taverna. Si limitò a una bottiglia di vino, ma cantò con piacere battendo il ritmo sul tavolo finché i suo vestiti non furono asciutti. Poi si congedò dai suoi nuovi amici dicendo che c’era una fanciulla ad attenderlo.

Aveva un lavoro da sbrigare.Una vita a cui porre fine.

* * *

Trovò la casa proprio dove avrebbe dovuta essere. C’era il giardino pensile. C’era il cespuglio di ginepro. C’era l’affresco di un dio pagano con un bastone e due serpenti avvolti attorno a esso. La divinità era tra due finestre munite di inferriata e sopra due massicci anelli di piombo per legare i cavalli. Proprio come descritto.

La facciata era illuminata da torce. Ciolo attraversò la luce tremolante cam-minando come un ubriaco, nel caso ci fosse qualcuno a osservarlo. Gli avevano detto che non c’era possibilità di accesso dalla strada, così non perse tempo a cercarne uno. Invece, girò intorno all’edificio e si trovò davanti a un muro alto tre piani, esterno a un cortile per la tintura dei tessuti. L’intonaco si era sgreto-lato nella parte inferiore del muro, rivelando un misto di pietre tonde e mattoni veri e propri. Era buio nella strada, l’unica fonte di illuminazione la luce delle stelle. Continuando a fingersi ubriaco, Ciolo si fermò sul posto, allentò i lacci delle brache e svuotò la vescica. Usò la mano libera per appoggiarsi al muro, saggiandone la superficie con le dita finché non trovò gli appigli promessi. Non passò nessuno, nemmeno un gatto. Stretti di nuovo i lacci, Ciolo si fregò le mani e cominciò l’arrampicata.

La sommità del muro era bordata da spuntoni ricurvi per tenere alla larga gli intrusi. Ma Ciolo non voleva calarsi dentro il cortile. Cercava solo un pas-saggio. Allungò una mano e chiuse cautamente le dita intorno alla base di uno spuntone. All’inizio non esercitò molta pressione: il ferro avrebbe potuto essere affilato per l’intera lunghezza e non solo sulla punta. Ma anche in questo caso le istruzioni ricevute si rivelarono precise e accurate. I bordi piatti dello spuntone erano smussati. Ciolo serrò la presa sul ferro, pregando che avrebbe sostenuto

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il suo peso. Lo fece. Con i piedi penzoloni, si afferrò allo spuntone successivo. Poi a quel-

lo dopo. Spostando una mano alla volta, percorse la fila di spuntoni che delimi-tava un angolo appartato fra due case.

Aveva già il respiro affannoso, le mani e le braccia doloranti. Ma gli mancava solo una metà del tragitto. Fece per ripartire, quando un rumore proveniente dall’abitazione alle sue spalle lo paralizzò sul posto. Avevano dei cani? Peggio ancora, delle oche? Si appiattì contro il muro e si mise in ascolto, sentendo le dita sudate scivolare sul ferro e desiderando che un nuvola coprisse le stelle facendolo piombare nell’ombra.

Era un bambino. Il pianto di un bambino nella notte. Solo, sconsolato.In condizioni ideali avrebbe potuto aspettare che il piccolo si riaddormentas-

se. Ma le sue mani stavano perdendo la presa. Proseguì rapidamente lungo il tratto finale, recitando ignobili preghiere per non cadere. La mossa successiva era complicata: doveva ruotare il corpo fino a trovarsi appeso con la schiena contro il muro e balzare sulla finestra dall’altra parte del passaggio, a poco più di un metro. Raddoppiò la stretta con una mano, poi ruotò su se stesso e al-lungò in alto la mano libera. Le dita mancarono di poco uno spuntone, ma si afferrarono saldamente al successivo. Appeso con la schiena contro il muro del tintore, adesso era rivolto verso l’obiettivo. La finestra ad arco era aperta, l’anta di legno spalancata. Consapevole che ogni minuto di attesa sarebbe servito solo a logorargli i nervi, Ciolo piegò le ginocchia al petto e scalciò con forza in avanti lanciandosi nel vuoto.

Le costole impattarono violentemente contro il davanzale, così come fece il mento appena Ciolo cominciò a scivolare. Armeggiò con le braccia finché riuscì a puntare i gomiti contro la cornice della finestra. Strusciando i piedi contro il muro in un cerca di un appiglio, si issò goffamente sul davanzale e dentro la casa. Uno stile carente di eleganza ma, alla fine, funzionale.

Atterrò in posizione accovacciata. Era in un corridoio lungo e stretto, con un paio di porte su ogni lato. Le scrutò finché non fu certo che fossero chiuse. Il suo respiro gli sembrò più rumoroso di un mantice. Se qualcuno l’avesse sorpreso in quel momento, con le braccia scosse da un tremito irrefrenabile, sarebbe stato spacciato.

Nessun allarme. Niente grida, se non il pianto del bambino, che si stava cal-mando. Ciolo fletté e allungò gli arti. Ad ogni secondo recuperava un po’ di respiro, a ogni respiro placava il battito impazzito del cuore. Gli occhi comin-ciarono a fargli brutti scherzi, complice l’oscurità. Immaginò che le porte fosse-ro tutte aperte, e per due volte fu convinto di aver notato un movimento. Ogni volta, però, si era sbagliato. O almeno era quello che sperava.

Dopo due o tre minuti di silenziosa osservazione dall’angolo buio vicino alla finestra, Ciolo si sentì finalmente pronto. La mano destra scivolò verso il fianco

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sinistro, si strinse intorno all’impugnatura di pelle ed estrasse una lama di ven-tidue centimetri.

Tenendosi alla larga dal fioco chiarore che entrava dalla finestra, si avviò lun-go il corridoio. La piantina della casa che Ciolo aveva memorizzato indicava che non era molto lontano. In fondo al corridoio, a destra dentro una grande sala e su per una sola rampa di scale fino a una porta a due battenti. Semplice.

Il corridoio era spoglio e rivestito di piastrelle. Ciolo posò prima un piede, poi l’altro, talmente in bilico sulle punte che i suoi stivali sfiorarono appena il pavi-mento. Raggiunse due porte che si fronteggiavano. Entrambe chiuse. Trattenen-do il respiro, accelerò il passo per superarle. Niente lo afferrò al suo passaggio. Si abbandonò a un sospiro di sollievo, maledicendosi all’istante per aver fatto rumore.

Anche la seconda coppia di porte era chiusa. Tutto secondo i piani. Si obbligò a fermarsi e si mise in ascolto. In cima alla rampa di scale il bambino continuava a piangere, ma nel resto della casa regnava il silenzio.

La fortuna aiuta gli audaci, pensò Ciolo. Girò furtivamente l’angolo e tastò la parete cercando il corrimano delle scale. Non poteva permettersi di inciampare. Quasi tutti i gradini scricchiolavano al centro, così pensò bene di spostare il peso alle estremità di ogni pianale, dove il legno non si sarebbe curvato.

In cima alla rampa c’era un’altra finestra che affacciava a nord. Vide una sca-glia di luna, e la luna vide lui. Si acquattò a terra, la schiena contro la parete, e cercò la porta doppia.

Eccola. La luce di quella luna incompleta ne accarezzava i bordi inferiori. Attraverso i battenti, sentì il bambino. Il suo non era un pianto, né una risatina allegra; era, più che altro, una serie di rumori gorgoglianti. Immaginò che la stanza fosse piccola, perché sentiva una sorta di eco, come se la voce del piccolo rispondesse a se stessa.

Aspettò, cercando di cogliere ogni altro rumore al di là della porta. C’era una bambinaia a occuparsi del neonato? No di certo, altrimenti si sarebbe già calma-to. Oppure la donna era immersa in un sonno profondo. Be’, presto lo sarebbe stata. Sorridendo, Ciolo abituò gli occhi al chiarore lunare, pregando un Dio misericordioso di inviare una nuvola; poi ci ripensò e indirizzò la richiesta al Signore delle Tenebre.

Chiunque avesse ascoltato la sua supplica, lo accontentò quasi subito. La luce si dileguò. Appena fu scomparsa, Ciolo si mosse in fretta. Sollevò il pugnale, afferrò la maniglia e spalancò la porta della stanza.

All’interno, il buio. Ciolo indugiò nel corridoio, in attesa che gli occhi si adat-tassero all’oscurità. Ancora il gorgoglio del neonato. Ciolo sbirciò in direzione dell’angolo da cui era arrivato il suono e scorse una sagoma. Impugnò il coltello con la punta rivolta in basso, pronto a colpire, poi varcò la soglia, una mano sulla cornice della porta per mantenere un punto di riferimento. Era un professionista.

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Che importava che la sua vittima fosse un neonato? Sapeva già che sarebbe finito all’inferno. Un passo. Due…

Uno schiocco secco e improvviso lo fece sussultare. Un istante dopo l’aria esplose dai suoi polmoni. Confuso, si ritrovò lungo disteso sul pavimento del corridoio. Qualcosa l’aveva colpito in pieno petto, con forza sufficiente a stor-dirlo e a scaraventarlo indietro. La mano libera salì verso il petto e incontrò una sottile asta di legno che sporgeva dallo sterno. Le dita ne sfiorarono distratta-mente l’estremità piumata. Piagnucolò, senza avere il coraggio di estrarre la freccia.

Il secondo battente si aprì con un cigolio di cardini. Apparve una lanterna e la luce avanzò verso di lui, sempre più intensa. Agli occhi abbagliati di Ciolo sembrò che fosse un angelo a portarla. Un angelo vestito di bianco. Il colore del lutto.

«Dunque non sei morto?», chiese l’angelo osservandolo dall’alto. «Bene».«Madonna Santa…», farfugliò Ciolo, sentendo il gusto metallico del sangue

sulla lingua.«Ssh». L’angelo posò da una parte la lanterna e lo strumento che aveva segna-

to la fine di Ciolo, una piccola balestra. Doveva avere il braccio destro ancora colorante per lo sforzo, perché usò l’altro per sfilargli il pugnale dalla stretta ormai allentata.

Dietro di lei, un’altra figura, una giovane che stringeva un bambino al petto. Il neonato che Ciolo era venuto a uccidere. Non sapeva se fosse un maschio o una femmina, era troppo piccolo per dirlo e Ciolo non si era premurato di chiederlo. Avrebbe voluto farlo adesso, ma il semplice respirare era già fin troppo laborio-so. Nondimeno, le labbra si mossero a formare le parole.

La donna scosse la testa. Con un accento melodioso che Ciolo trovò splendi-do, disse: «Non dite niente, soltanto il nome dell’uomo che vi ha pagato».

«I-io non…».«Non è una buona risposta, caro».«Era... – perdonatemi, Madonna – era una donna».L’angelo annuì ma senza sorridere. Ciolo voleva che sorridesse. Stava moren-

do. Voleva l’assoluzione – qualcosa. «Angelo, perdonatemi».«Chiedete perdono a Dio, amico, non a me».Vide scintillare il pugnale nella mano diafana della donna. Si sforzò di chiu-

dere gli occhi per non vedere il proprio sangue spandersi sul pavimento.Con un gemito soffocato, Ciolo rimase immobile. La nuvola passò oltre nel

cielo e scoprì ancora una volta le stelle.

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