Il caso Di Bella: la bontà non cura? - In Psicoterapiaseguendo il ragionamento di Angela, se...

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Il caso Di Bella: la bontà non "cura"? Giampiero Morelli (pubblicato in: "Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria" n. 38 - 39, Roma settembre dicembre 1999 gennaio aprile 2000, pp. 48 - 63) "Come giustamente consideriamo pazzi quegli individui che si sentono automi, macchine o parti di meccanismi (...) perché non considerare ugualmente pazzesca una teoria, come quella medica, che considera le persone come automi o come macchine, dove il loro corpo è visualizzato come un semplice meccanismo in grado di rispondere solo ad uno sguardo fisico o chimico". (Ronald Laing, L’io diviso) Introduzione "Di Bella è sicuramente una brava persona. Ma la bontà non guarisce. L’attenzione e l’ascolto non curano. Se ho bisogno di un medico mi rivolgo ad un medico bravo e competente piuttosto che ad un medico buono". Con queste parole, o con parole molto simili, il noto divulgatore scientifico Piero Angela ha concluso il suo intervento nell’ambito del convegno "mass-media e scelte terapeutiche in oncologia: informazione o condizionamento?" organizzato a Roma il 15 giugno 1999 dalla Sipo (Società Italiana di Psiconcologia) e dalla fondazione Maruzza-Lefebre-D’Ovidio. In questa circostanza, al pari di altri relatori, Piero Angela ha cercato di disinnescare il "dispositivo" Di Bella con le argomentazioni che buona parte della medicina ufficiale ha usato in questi mesi. Crediamo che il lettore sia sufficientemente informato circa le ragioni della medicina istituzionale e le critiche che quest’ultima, attraverso i suoi massimi rappresentanti, ha rivolto a Di Bella, per doverle riassumerle in questa sede. Piuttosto intendiamo invitare il lettore a porre la sua attenzione alle parole con cui Angela conclude la sua relazione, in quanto pur nella loro apparente banalità e superficialità appaiono, almeno a noi, dense di significato. Secondo Angela, il prendersi "cura", che peraltro nell’etimologia antica deriva da cor=cuore, nella sua accezione di "accudimento", "attenzione", "vigilanza, "ascolto", "assistenza" non è in grado di "curare" un corpo o una psiche malati. Che epifania! E che sollievo, che liberazione, ad esempio, per intere generazioni di genitori schiacciati da sensi di colpa e da angosce del tutto irrazionali o quantomeno inutili. Infatti, come si deve intendere seguendo il ragionamento di Angela, se l’amore non cura e non guarisce anche l’odio, la noncuranza, il disinteresse, la distruttività sono sostanzialmente innocui. Un uomo può infatti uccidere materialmente un altro uomo ma non può "ucciderlo" emotivamente, psichicamente. Non può farlo ammalare, non è in grado di nuocere e di recare danno alla sua tranquilla esistenza fisiologica. Noi non siamo unanoxa ambientale. Così come non lo sono, con buona pace di sociologi ed antropologi, i prodotti culturali, e dunque idee, ideologie, sistemi di credenza. Anche le idee non fanno né bene né male. Naturalmente neanche io, con i miei sentimenti e pensieri, con le mie fantasie e credenze, con le mie relazioni, posso recarmi danno o beneficio,ammalare o guarire me stesso. Insomma, il mio corpo e la mia psiche sono al riparo da ogni interferenza intrapersonale ed interpersonale. Che sciocchi quei cuccioli di scimmie Rhesus (nel famoso esperimento di Harlow, 1959), nella loro "irrazionale" insistenza di restare abbracciati tutto il giorno ad un surrogato di madre fatta di morbida

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Il caso Di Bella: la bontà non "cura"?

Giampiero Morelli

(pubblicato in: "Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria" n. 38 - 39, Roma settembre – dicembre

1999 gennaio aprile 2000, pp. 48 - 63)

"Come giustamente consideriamo pazzi quegli individui che si sentono automi, macchine o parti di

meccanismi (...) perché non considerare ugualmente pazzesca una teoria, come quella medica, che

considera le persone come automi o come macchine, dove il loro corpo è visualizzato come un semplice

meccanismo in grado di rispondere solo ad uno sguardo fisico o chimico".

(Ronald Laing, L’io diviso)

Introduzione

"Di Bella è sicuramente una brava persona. Ma la bontà non guarisce. L’attenzione e l’ascolto non curano.

Se ho bisogno di un medico mi rivolgo ad un medico bravo e competente piuttosto che ad un medico

buono". Con queste parole, o con parole molto simili, il noto divulgatore scientifico Piero Angela ha

concluso il suo intervento nell’ambito del convegno "mass-media e scelte terapeutiche in oncologia:

informazione o condizionamento?" organizzato a Roma il 15 giugno 1999 dalla Sipo (Società Italiana di

Psiconcologia) e dalla fondazione Maruzza-Lefebre-D’Ovidio.

In questa circostanza, al pari di altri relatori, Piero Angela ha cercato di disinnescare il "dispositivo" Di Bella

con le argomentazioni che buona parte della medicina ufficiale ha usato in questi mesi. Crediamo che il

lettore sia sufficientemente informato circa le ragioni della medicina istituzionale e le critiche che

quest’ultima, attraverso i suoi massimi rappresentanti, ha rivolto a Di Bella, per doverle riassumerle in

questa sede. Piuttosto intendiamo invitare il lettore a porre la sua attenzione alle parole con cui Angela

conclude la sua relazione, in quanto pur nella loro apparente banalità e superficialità appaiono, almeno a

noi, dense di significato.

Secondo Angela, il prendersi "cura", che peraltro nell’etimologia antica deriva da cor=cuore, nella sua

accezione di "accudimento", "attenzione", "vigilanza, "ascolto", "assistenza" non è in grado di "curare" un

corpo o una psiche malati.

Che epifania! E che sollievo, che liberazione, ad esempio, per intere generazioni di genitori schiacciati da

sensi di colpa e da angosce del tutto irrazionali o quantomeno inutili. Infatti, come si deve intendere

seguendo il ragionamento di Angela, se l’amore non cura e non guarisce anche l’odio, la noncuranza, il

disinteresse, la distruttività sono sostanzialmente innocui. Un uomo può infatti uccidere materialmente un

altro uomo ma non può "ucciderlo" emotivamente, psichicamente. Non può farlo ammalare, non è in grado

di nuocere e di recare danno alla sua tranquilla esistenza fisiologica. Noi non siamo unanoxa ambientale.

Così come non lo sono, con buona pace di sociologi ed antropologi, i prodotti culturali, e dunque idee,

ideologie, sistemi di credenza. Anche le idee non fanno né bene né male. Naturalmente neanche io, con i

miei sentimenti e pensieri, con le mie fantasie e credenze, con le mie relazioni, posso recarmi danno o

beneficio,ammalare o guarire me stesso. Insomma, il mio corpo e la mia psiche sono al riparo da ogni

interferenza intrapersonale ed interpersonale.

Che sciocchi quei cuccioli di scimmie Rhesus (nel famoso esperimento di Harlow, 1959), nella loro

"irrazionale" insistenza di restare abbracciati tutto il giorno ad un surrogato di madre fatta di morbida

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gommapiuma e rivestita di un tessuto spugnoso, dopo essersi nutrite da un biberon posizionato su un altro

surrogato di madre fatta di fil di ferro. Beata ingenuità, anche da parte dei ricercatori, nel credere che il

morbido contatto fisico, il calore materno possa essere un fondamentale nutrimento psicofisico, al pari del

latte, per lo sviluppo di cuccioli e bambini. Per non parlare di Spitz e delle sue ricerche (1945-1946) sui

bambini istituzionalizzati e deprivati di "cure" materne. L’alta mortalità, il mancato sviluppo di facoltà

mentali, la depressione anaclitica erano certo dovute a virus, batteri, cattive condizioni igieniche, fattori

ereditari e genetici sbadatamente sfuggiti ai ricercatori!

"L’attenzione e l’ascolto, non curano". C’è da chiedersi, a questo punto, a che cosa ci riferiamo quando, non

solo come psicologi ma anche come medici, ci interroghiamo intorno alla relazione medico-paziente.

Probabilmente, per Angela e per la cultura di cui è portatore insieme ai vari Cassano, Levi Montalcini e via

dicendo, di un aspetto del tutto accessorio e marginale. Di un aspetto della medicina che dopotutto è già

realizzato da svariati anni nelle linde cliniche private e a pagamento. Basta entrare in questi veri e propri

alberghi per vedere realizzata la tanto mitizzata relazione medico-paziente, uno dei tanti comfort a

disposizione del cliente-paziente.

In quale abbaglio deve essere caduta la psicologia e con essa l’antropologia, la sociologia e in generale le

scienze umane: credere che le "relazioni" possano influenzare non solo il mondo psichico ma anche i

processi biologici o che le nostre credenze, aspettative e fantasie, possano essere alla base della nostra

"costruzione" della realtà compresa la realtà corporea e biologica.

Chissà dov’è il trucco o l’inganno che si nasconde, ad esempio, dietro la "relazione" ipnotica. Come è

possibile, infatti, che in una relazione tra due o più persone, fatta di parole e gesti, sia possibile effettuare

una operazione senza anestesia o si possano produrre ed eliminare sintomi fisici? O vogliamo forse credere

alle storielle degli antropologi (Cannon, 1942; Ellenberger, 1970) su giovani e sani appartenenti a tribù

indigene che avendo infranto un tabù e nella convinzione di dover morire per punizione, "curiosamente"

morivano nel giro di poche ore?

Ma anche alle nostre "razionali" e positive latitudini, dove la medicina e la scienza hanno finalmente messo

al bando superstizioni, magie e fantasie popolari, non mancano racconti che dovrebbero far rabbrividire un

medico dotato di un minimo di buon senso. Innumerevoli sono, infatti, i resoconti, tra l’altro di famosi

psicoterapeuti sopravvissuti al campo di concentramento come Victor Frankl (1966) o Bruno Bettelheim

(1967), circa la morte, anche in modo molto repentino, di uomini che, dopo essersi lasciati andare

internamente, sperimentavano una veloce decadenza sia fisica che psicologica non essendo più in grado di

credere in un futuro. O, al contrario, come nel caso riportato dallo psicologo americano Gordon Allport, ci

vorrebbero far credere all’effettivo potere risanatore delle "profezie che si autodeterminano". Un uomo

gravemente malato è in punto di morte: "i medici curanti l’hanno informato (..) che non sono in grado di

diagnosticare la sua malattia, ma che probabilmente potrebbero aiutarlo se conoscessero la diagnosi.

Inoltre gli hanno comunicato che uno specialista famoso avrebbe fatto visita all’ospedale nei giorni

successivi e che forse sarebbe stato in grado di riconoscere la malattia. Pochi giorni dopo arriva

effettivamente lo specialista (..) arrivato al letto del malato getta su di lui un rapido sguardo mormorando

‘moribundus’ e prosegue. Alcuni anni dopo l’uomo fa visita allo specialista e gli dice: è da molto che volevo

ringraziarla per la sua diagnosi. I medici mi avevano detto che avrei potuto farcela se lei fosse stato in grado

di diagnosticare la mia malattia: nel momento in cui Lei ha detto ‘moribundus’ ha saputo che ce l’avrei

fatta" (Allport, 1964 in Watzawick, 1988 p. 113).

E che dire del famoso effetto placebo, un vero incubo per una medicina positiva e razionale visto che "gli

effetti curativi della fiducia, delle attese e di un buon rapporto medico-paziente sono stati utilizzati da

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guaritori di ogni genere, in tutte le culture, in qualsiasi parte del mondo e lungo tutta la storia umana"

(Helman, 1990 p, 175). Il dinamismo, l’azione di un placebo non riguarda, tra l’altro, il solo paziente ma,

come azzardano ricercatori con una vera vocazione all’eresia, dipenderebbe, in misura variabile, anche dal

setting terapeutico, dalle aspettative e dal comportamento del medico (Cagliano, 1993; Skrabanek, Mc

Cormick, 1989). Spesso la fiducia del medico nella propria cura e quella del paziente nel suo medico e nella

sua terapia si rafforzano a vicenda. Ne deriva una sorta di folie à deux. Alcuni ricercatori, certamente

irresponsabili, sono arrivati ad affermare che il medico in quanto tale può condizionare il decorso della

malattia più delle medicine tenendo conto che "il 35%-45% delle prescrizioni mediche odierne non ha alcun

effetto specifico sulle malattie per le quali è stato prescritto" (Maimom, Morelli, cit. in Skrabanek, Mc

Cormick op. cit. p. 8) e che solo il 10% delle malattie possono essere modificate in modo significativo dalle

terapie attuali (Black, 1984). O addirittura, che nel 90% dei pazienti visitati da un medico gli effetti della

cura sono sconosciuti non essendoci un rimedio specifico per influenzare il decorso della malattia

(Pickering, 1979). A meno che non si voglia credere, tanto per fare un esempio, che il decorso di una

malattia possa essere influenzato da una sorta di vis medicatrix naturae, per cui il miglioramento o la

guarigione si possano verificare anche in assenza di cure. O che,incredibile dictu, non si voglia credere

che anche una ferita possa o meno produrre dolore a secondo di come venga interpretata all’interno della

relazione medico-paziente: "all’inizio del novecento Mitchel fece amputazioni, tiroidectomie, mastectomie

(...) senza anestesia generale. A Berna, fra il 1890 e il 1900, Kocher fece 1600 operazioni di gozzo senza

praticare l’anestesia generale. Harvey Cuscing rimase esterrefatto quando, nel 1900, vide Cesar Roux che

operava al gozzo i contadini del Valois, senza praticare alcuna anestesia" (Skrabanek, 1985 p. 182).

Tralasciamo, infine, di far riferimento all’infinita casistica di guarigioni miracolose e/o carismatiche

(Ellenberger, op. cit.; Hirshberg, Barasch, 1995). Non vorremmo per caso credere che anche la "fede" o la

"fiducia", nei confronti di persone o di entità soprannaturali possa guarire? Sarebbe troppo. Già dobbiamo

sorbirci la credenza da parte degli psicoterapeuti che sia possibile curare malattie fisiche e psicologiche

attraverso le parole (talking cure), o che ci si possa ammalare o guarire attraverso rappresentazioni

mentali. Chissà perché, ma sarà sicuramente una associazione casuale, i pazienti oncologici con un tumore

in fase avanzata che ricevono un sostegno psicologico o effettuano una psicoterapia sopravvivono per un

periodo doppio rispetto ai pazienti che non ricevono alcun sostegno (Spiegel, 1989)?

Il caso Di Bella

"Di Bella è sicuramente una brava persona". Ma la bontà non cura". Va detto che questa conclusione voleva

essere per Angela una sorta di indulgenza, una attenuante nei confronti di Di Bella. Dopotutto almeno lui,

anche se la sua "cura" è del tutto inefficace, è in buona fede. La "buona fede", che in questo caso viene

ridotta al rango di una attenuante nella sostanziale inadeguatezza del metodo Di Bella, assume ai nostri

occhi una assoluta centralità. Infatti, è proprio nel punto dove termina il ragionamento di Angela, nel suo

tentativo di liquidarel’affaire Di Bella, che si apre uno spazio per ulteriori riflessioni ed approfondimenti. E’

lo stesso Angela, in realtà, che introduce il tema. Non si potrebbe infatti considerare questo caso come uno

dei tanti fraintendimenti, una delle tante illusioni che hanno costellato la storia della medicina? Da dove

nasce l’esigenza di argomentare intorno a delle qualità personali mentre si discute della validità o meno di

una metodica medica e farmacologica? E che necessità aveva Angela di far riferimento alla bontà, alla

disponibilità o alla buona fede di Di Bella? Così come di avvertirci e ricordarci che queste qualità non sono

terapeutiche?

Ma altre domande si fanno avanti, si impongono. Infatti, nel momento in cui ci interroghiamo sul peso da

attribuire alle caratteristiche di personalità del medico rispetto alla loro capacità o meno di essere

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"curative", dobbiamo considerare l’esistenza di un’altro polo, il paziente, a sua volta con delle qualità

personali.

Che succede nell’interazione, nell’incontro di queste due polarità, di queste due soggettività? Qual’è il

"chimismo" della relazione medico-paziente? E in che modo questa relazione diventa "triangolare", quando

si va a costruire a partire dall’esistenza di un’altro polo: la malattia? In che modo la malattia e quindi la cura

si interfacciano con il malato, con il loro "terreno di coltura"? Come si relazionano l’"illness" (l’esperienza

personale e soggettiva del paziente circa le sue preoccupazioni, dolori, malesseri, paure che è difficile

verificare in modo diretto) e il "desease" (l’aspetto, diciamo così, oggettivo di un processo morboso)? In che

modo la malattia è anche una "costruzione" all’interno della relazione medico-paziente? Il medico e il

paziente, così come la relazione che si instaura, sono elementi centrali oppure variabili ininfluenti ed

accessorie rispetto alle dinamiche del processo morboso?

Potremmo continuare a lungo a porci o a porre al lettore domande di questo tipo. Domande, tra l’altro, che

sono state al centro della riflessione medica nel corso dei secoli ma che sono state progressivamente

spazzate via da una pratica sempre più deanimata e depersonalizzata. No, non c’è nessun dibattito di tal

genere, né da un punto di vista scientifico, né da un punto di vista culturale, all’interno della positiva

medicina "medica" (lasciamo che di questi quesiti se ne occupino la psicologia, l’antropologia, la

cibernetica, l’epistemologia, le scienze della comunicazione), salvo poi vederla arroccata sulle sue

"certezze" scientifiche di fronte a fenomeni sociali e collettivi che, come vedremo, la mettono di fronte al

suo fallimento come medicina di relazione.

Tuttavia la medicina, come sembra intuire Angela evocando le qualità "personali" del medico, sia pure per

squalificarle come fattori terapeutici, non può sottrarsi alla necessità di fare i conti con la dimensione

relazionale.

Così come è impossibile non comunicare in quanto anche il rifiuto di comunicare è a tutti gli effetti un atto

comunicativo, allo stesso modo è impossibile per il medico esimersi dal rapporto con il paziente.

L’eventuale disinteresse del medico verso la persona del malato non è la negazione della relazione: è a tutti

gli effetti un’atto relazionale.

Non vorremmo, tuttavia, essere equivocati su questo punto. Le questioni che la relazione medico-paziente

pone sul tappeto introducono un livello di complessità che va ben oltre l’"umanizzazione" della medicina.

Molti autori, in modo peraltro lodevole, hanno messo in risalto questo aspetto. In questo modo, tuttavia, i

dinamismi della relazione medico-paziente, sottratti alla possibilità di una più ampia riflessione che

coinvolga questioni di natura biologica, sociale e psicologica, si banalizzano e, nella molteplicità delle

tematiche mediche, diventano un problema tra i tanti. Non è queste la sede per inoltrarci in un

approfondimento di queste tematiche, tuttavia, non possiamo non accennare al fatto che la nostra

esistenza è una esistenza relazionale in cui biologia e genetica si interfacciano continuamente con i

dinamismi psichici e socio-ambientali.

Siamo immersi, fin dal concepimento, in un universo sistemico. Le vicissitudini organismiche, corporee non

si possono comprendere se non all’interno di un funzionamento sistemico che non è riconducibile alle sue

diverse componenti. Il tutto è qualcosa di più e di diverso dalla somma delle sue parti. Idrogeno ed

ossigeno non hanno, di per sé, nulla a che vedere con l’acqua: è necessario l’incontro di due atomi di

idrogeno ed uno di ossigeno. La stessa fisiologia è intrisa di meccanismi relazionali: feedback, omeostasi,

circolarità, equifinalità, entropia negativa. L’organismo umano, in altre parole, può essere considerato un

sistema aperto che a differenza dei sistemi chiusi è in costante interazione con l’ambiente e scambia con

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esso "energia, materia e informazioni per mantenere la propria organizzazione e vincere la degradazione

prodotta dal tempo" (Rossi Monti, Vitale, 1980 p. 117). E l’ambiente, non include a sua volta l’"altro",

inteso qui come individuo, collettività, cultura? Cosa ci fa credere, ad esempio, che medico e paziente,

malattia e salute non siano anche dei prodotti sociali e culturali? Non sono pochi gli autori che interpretano

le malattie e il rapporto medico-paziente come costruzioni dell’uomo condizionate da fattori sociali: "sia i

sintomi delle malattie sia il rapporto dei pazienti con i loro medici sono influenzati dagli stimoli sociali in

mezzo ai quali si sviluppano" (Ovadia, 1997 p. 25).

Il punto, per tornare al nostro tema, è che la medicina, così come viene immaginata da Angela, per quanto

si sforzi di rendere asettica, impersonale la relazione medico-paziente, per quanto cerchi di trasformare

quel gioco di reciproche influenze in una operazione fatta di statistiche, casistiche, protocolli standard, non

riesce e non può riuscire a rimuovere o a svuotare di contenuti quel reciproco sistema complesso, fatto di

gesti, emozioni, fantasie, immagini, che vede coinvolto un medico e un paziente. E come per una nemesi,

quanto più cerca di marginalizzare la configurazione relazionale, così come di affrancarsi "dall’irrazionale",

dallo "psichismo", tanto più se ne trova invischiata. E limitandosi a combattere il dinamismo relazionale,

vivendolo come una sorta di disturbo dello sguardo oggettivo ed oggettivante del medico, continuando a

credere che la relazione medico-paziente, al pari di molti altri tipi di relazione, non ha un suo "chimismo",

non è in grado di interferire o di modificare le dinamiche biochimiche, non si accorge del profondo impatto

che queste variabili hanno sul processo morboso o sul funzionamento organismico. Neanche Di Bella, del

resto, sembra consapevole di quali siano i "principi attivi" del suo metodo, i principali "farmaci" che

sembrano avere un impatto sulla malattia oncologica o meglio sul malato oncologico1 .

Lo confessiamo, non crediamo che l’efficacia del metodo Di Bella vada ricercata, se non in modo marginale,

nei diversi presidi farmacologici (somatostatina, melatonina, vitamine etc.). Tuttavia, crediamo che il

metodo Di Bella abbia una sua reale efficacia. Anzi, crediamo che Di Bella sia il principale fattore

terapeutico, il "principio attivo". Chissà perché la terapia sembra produrre effetti terapeutici soprattutto

quando è somministrata direttamente da Di Bella? E chissà perché perde progressivamente efficacia

quando a somministrarla sono altri medici o, come nel caso della sperimentazione, medici affatto convinti

dell’efficacia di questo metodo? Per noi abituati a riconoscere l’effetto terapeutico della relazione,

compresa la relazione medico-paziente, questo dato non sembra affatto incomprensibile.

Certo, anche buona parte della psicologia e della psicoterapia crede che l’effetto terapeutico risieda nelle

tecniche, nella metodologia, in quello che un terapeuta "crede" di fare (guardate con quale insistenza ed

inesorabilità ritorna, coinvolgendoci tutti, il termine "credere". Di Bella "crede" nella somatostatina, Angela,

"crede" nei medici "competenti", gli psicologi "credono" nelle loro tecniche, noi "crediamo" nel potere della

relazione). Quando poi si cerca di ripetere ed applicare le "tecniche" di straordinari psicoterapeuti come

Erickson, Perls, Whitaker, Reich, i risultato sono a dir poco deludenti. Perché quelle non sono delle tecniche

che tutti possono utilizzare, "sono" Erickson, Perls, Whitaker, Reich. Allo stesso modo il metodo Di Bella "è"

Di Bella. E’ in quel modo di accogliere il malato, di visitarlo, di toccarlo. E’ in quel modo di porgergli parole.

E’ in quel modo di incontrare gli occhi dell’altro. E’ nella sua "fede" rigida, incrollabile, ossessiva nei

confronti dei suoi presidi terapeutici. E’ nel suo modo di "personalizzare", modellare la terapia,

adeguandola a quel singolo paziente. E’ in quell’impressione, avvertita dal paziente, di sentirsi importante,

riconosciuto nel proprio valore, ascoltato. E’ in quel sentire la "fiducia", la "buona fede" del medico. E come

si sa la fede è contagiosa, ha una sua natura "virale". Il malato, a quel punto "trasfigurato" (transfiguratus=

modificato nell’aspetto), contagia altri malati che cercano di avere un appuntamento con quel medico così

bravo.....

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E cosa fa la medicina, o meglio la medicina a cui fa riferimento Angela, di fronte a questo "fenomeno" o ad

altri casi del genere? Lo studia per capire, che so, l’effetto della relazione sui neurotrasmettitori o sui

recettori cellulari? Cerca di capire in che modo aspettative, pensieri, immagini mentali, sentimenti possano

influenzare i complessi processi biologici dell’organismo? Studia l’effetto che "guaritori", "sciamani",

"maestri" riescono ad avere sulla psiche o sul corpo dei loro pazienti? Cerca di comprendere i dinamismi

degli innumerevoli casi clinici di malati "miracolosamente" guariti attraverso personali autoterapie

(immaginando, ad esempio, di distruggere le cellule cancerose bombardandole, avvelenandole o

assumendo alte dosi di films comici)? Si interroga circa il valore e la funzione culturale e sociale

dell’irragionevole, dell’irrazionale? Mostra interesse alla possibilità che la malattia possa essere un

linguaggio, un dialogo, la realizzazione di un equilibrio? Un prodotto che possa essere "fabbricato" a partire

dalla propria storia personale, dai propri bisogni? Si mostra curiosa circa l’impatto del simbolico,

dell’immaginario, del metaforico, del "come se" sulle strutture biologiche? O nei confronti del ruolo che le

nostre collettive ed individuali attribuzioni di "significato" possono avere sui dinamismi del nostro corpo?

Oppure cerca di riflettere sui suoi stessi "limiti" scientifici? Sui rapporti che a sua volta intrattiene con

l’"irrazionale", con il religioso, con il pensiero magico? O sulle inevitabili modalità affatto scientifiche ma

piuttosto suggestive, ipnotiche, propagandistiche che utilizza nel veicolare la sua immagine, nel vendere il

suo prodotto?

Anche queste domande sostanzialmente non trovano risposta. La cortina di silenzio si solleva, al limite, per

mostrare un’atteggiamento difensivo, in cui, come vedremo, verità provvisorie, operative ed ipotetiche si

trasformano in verità assolute e realtà certe, si "letteralizzano", vengono ipostatizzate. Di fronte alla

ricchezza caleidoscopica delle rappresentazioni e costruzioni della realtà, compresa la realtà scientifica, al

loro carattere eminentemente "inventorio", "finzionale", "immaginativo", "come se", la medicina si pone

come baluardo, come bastione difensivo della "ragionevole" ragione, della "realtà" reale, della "vera" e

reale realtà medico-scientifica.

E’ sorprendente, se ci è permesso fare un’altra digressione, questa posizione rigidamente scientista da

parte della medicina. Il suo essere immersa in una "fantasia" della scienza che non esiste più da molto

tempo. Il suo attaccamento ad un riduzionismo pragmatico, ad una visione "letterale" dell’organismo letto

in termini di molecolare, semplice, lineare, stimolo-risposta, causa-effetto, quando, dopotutto, è ancora in

discussione il suo status come scienza: "la medicina non è una scienza ma una professione, è un fatto

pratico (...) che alla scienza si rivolge per sfruttare tutti quei risultati che le sembrano utili, ma lascia cadere

tutto il resto. E lascia cadere in particolare ciò che è più caratteristico della scienza, l’esercizio del dubbio e

l’approccio problematico" (Ortega y Gasset, in Skrabanek, Mc Cormick, 1989 p. 172). Il tutto, mentre la

scienza, nelle sue diverse espressioni, ha già da tempo rivisitato il suo stesso statuto: nessuna teoria o

spiegazione scientifica è una rappresentazione speculare della realtà, quanto piuttosto una determinata

immagine o interpretazione del mondo. Una utile mappa per orientarsi nel caos delle percezioni. Ma la

mappa non è il territorio: "l’intero mondo delle rappresentazioni (...) non è affatto destinato ad essere

un’immagine della realtà (...) ma è piuttosto uno strumento per meglio orientarsi nella realtà stessa (...) le

sensazioni elementari stesse non sono affatto copia della realtà, ma semplici criteri per misurare la

trasformazione della realtà" (Vaininger, 1911 p. 29). Il punto, se vogliamo, è che anche il "territorio" non è

dato, non è conoscibile, infatti l’approccio scientifico "sostituisce alle forme ignote (...) forme provvisorie,

che ad esse non corrisponde immediatamente nessuna realtà. Con queste classi finzionali essa agisce come

sefossero vere (...) cose che abbiano proprietà, cause che producano effetti, sono solo dei miti. Si può

soltanto dire che i fenomeni obbiettivi, possono essere consideraticome se si comportassero così" (op. cit.

p. 31- 42). In altre parole la scienza non ci dice nulla della realtà ma, come in fondo ha sempre saputo a

partire dall’"invenzione" del metodo scientifico (che non stava certo in attesa di qualcuno che fosse in

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grado di "scoprirlo"), la realtà che noi esperiamo, l’oggetto della nostra osservazione, gli stessi fatti concreti

non esistono indipendentemente da noi: "si può ritenere una perdonabile debolezza della scienza il

credere, come essa fa, di avere a che fare, nei suoi concetti con la realtà stessa (...) al contrario, i concetti

da lei stessa implicati ed usati sono di natura finzionale, sono meri espedienti dell’uomo, che si limitano a

costruire l’astuccio nel quale l’uomo racchiude la gemma della realtà allo scopo di poterla meglio possedere

(op. cit. p. 75). I costrutti scientifici sono, dunque, delle finzioni, pragmaticamente necessarie, errori

consapevoli, pratici, utili così come la verità "è semplicemente il più vantaggioso degli errori" (op. cit. p.

113). Queste considerazioni di Vaihinger che risalgano al 1911 (e si inseriscono all’interno di una riflessione

che ha visto impegnati molti precursori come Senofane, Pirrone, Sesto Empirico, Vico, Hume, Kant,

Nietzsche), mostrano una straordinaria attualità come dimostrano i contributi di studiosi e ricercatori di

punta di discipline assai diverse tra loro. Dalla matematica alla psicologia, dalla cibernetica alla biologia,

dalla filosofia alla fisica (Adler, 1920; Kelly, 1955; Schrodinger, 1958; Wittgenstein, 1961; Piaget, 1967;

Maturana, 1970; Bateson, 1972; Von Foster, 1973; Hillman, 1975, 1983; Belardinelli, 1978; Varela, 1979-

1981; Glasersfeld, 1981; Stolzenberg, 1981; Watzlawick, 1981-1988). Il mondo, la realtà, così come la

percepiamo, è, in definitiva, un atto creativo dell’uomo che, mediante l’attività dei propri processi cognitivi,

riesce a plasmare la "confusione brulicante e germogliante dei dati sensoriali" (W. James cit. in Rossi Monti,

Vitale, 1980 p. 125). Per dirla alla Vaihinger, il mondo percepito, allo stesso modo del pensiero, compreso il

pensiero scientifico, è una funzione della psiche: "die seele ist erfinderisch" (l’anima è inventoria). Il

soggetto, lungi dall’essere un passivo ricettore di stimoli, conferisce ordine e significato al mondo e a se

stesso: "la percezione non è un passivo rispecchiamento del mondo esterno come una fotografia a colori;

piuttosto le informazioni vengono, mediante un atto creativo, organizzate in un universo" (Bertalanffy,

1967 p. 117). All’interno di questa concezione, le stesse malattie si possono leggere come delle invenzioni o

quantomeno delle convenzioni: "le malattie sono concetti che non discendono, come tali, immediatamente

alla nostra esperienza; sono modelli esplicativi della realtà più che elementi costitutivi di essa. In breve le

malattie esistono davvero solo nel mondo delle idee; esse interpretano una realtà empirica complessa e

presuppongono una certa qual filosofia medica, un sistema di riferimenti patologici" (Grmek, 1985 p. 8-9).

Medicina di relazione o medicina d’organo

Il caso Di Bella nel mettere in evidenza i limiti della medicina ufficiale comemedicina di relazione offre

ulteriori chiavi di lettura, ulteriori spunti di riflessione, a partire dal definitivo abbandono di compiti e

prerogative che, nonostante il continuo modificarsi "dell’ambiente naturale e sociale (...) delle concezioni

del mondo e delle relative concezioni dell’uomo" (Toscani, 1997 p. 94), hanno sempre contraddistinto la

medicina. L’intervento medico, nel corso della storia, si è costantemente organizzato intorno a due principi

deontologici fondamentali: sanare infirmos(guarire gli ammalati) esedare dolorem (alleviare il dolore).

L’atto medico di alleviare il dolore non si limitava al dolore fisico, corporeo ma si organizzava intorno alla

persona del malato riconoscendo nel dolore, nella malattia di quest’ultimo una sofferenza esistenziale,

personale, ontologica. La medicina, consapevole della difficoltà di essere "curativa" ha costruito la sua

identità proponendosi come medicina palliativa. Quest’ultima, nel corso della storia, non solo non è stata

letta in termini di inutilità, marginalità, inefficacia, ma, nel prendersi "cura", nel farsi carico della sofferenza

degli ammalati, si riconosceva ed era riconosciuta adeguata nel rispondere ai fondamentali bisogni che il

malato presentava insieme alla sua malattia. In pratica l’attività di cura "coincideva spesso con l’anamnesi:

la narrazione del disturbo agiva come una forza catartica, come il migliore dei placebo. E ciò perché il

medico godeva di grande stima e considerazione sociale" (Shorter, 1997 p. 27).

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Tuttavia, con il progressivo prevalere della medicina curativa sulla medicina palliativa insieme con l’acqua

sporca si è buttato via anche il bambino. L’aumentata capacità di curare le malattie, di rispondere alla

domanda di salute per cui "un malato a caso, con una malattia a caso, consultando un medico scelto a caso,

ebbe per la prima volta nella storia del genere umano un pò più del 50 per cento di probabilità di trarre

qualche beneficio da questo incontro" (Medawar, 1989 p. 52), ha gettato sullo sfondo tutti gli aspetti della

malattia che non sono apparentemente riconducibili all’interno di quel modello interpretativo con cui viene

spiegata la fisiologia e la patologia dell’organismo umano. L’atto con il quale la medicina si distacca

definitivamente dal suo compito tradizionale di offrire assistenza, ascolto, accoglienza al "mondo" dolente

del malato, di rispondere, anche in modo metaforico e simbolico, ad una sofferenza densa di significati

psicologici, spirituali ed esistenziali, ha aperto scenari in parte imprevedibili ed in parte paradossali.

Nel momento in cui si è affrancata dal compito disedare dolorem, di prendersi "cura" del paziente ha: 1)

abbandonato la persona del malato "reale", squalificato nel suo vissuto soggettivo di malattia ("illness"),

letto come inattendibile e fuorviante se non irrazionale e superstizioso (oggi diremmo nevrotico) e in ogni

caso come non significativo nell'ambito dell'accertamento diagnostico e nella prassi terapeutica; 2) rivolto

la sua attenzione ad un organismo - tabula rasa - privo di storia e di significato, che non ha più bisogno di

un interprete, un portavoce, il paziente, ma che si offre in modo reificato allo sguardo neutro ed oggettivo

del medico. La malattia non è più la malattia del paziente ma ha una sua esistenza autonoma; 3)

"letteralizzato", reso concreto l'antico bisogno, l'antica fantasia onnipotente di sconfiggere la morte,

partecipando alla formazione di una irrealistica domanda di salute e ad una aspettativa, altrettanto

irrealistica, circa i suoi poteri taumaturgici non più letti all'interno di una dialettica tra limiti e possibilità; 4)

allargato il suo campo di intervento attribuendosi funzioni e ruoli che non le appartenevano e occupando

ogni ambito del sociale.

La medicina, insomma, perdendo di vista i suoi presupposti storici e la "persona" del malato si è

progressivamente trasformata in una moderna cosmogonia. Nel tentativo di costituirsi come scienza

razionale e pragmatica e di combattere tutto ciò che ritiene esserle nemico, estraneo, tutto ciò che non si

dispone docilmente all’interno della sua "fantasia" di realtà, ha iniziato a rassomigliare alle tanto

disprezzate medicine alternative e parallele: "un pensiero immutabile, chiuso nelle sue certezze (...) il gusto

dei sistemi chiusi, definitivi, che spiegano tutto, una volta per tutte" (Bensaïd, 1981 p. 197). In questo

modo, la medicina, nel tentativo di rispondere al bisogno di una rappresentazione globale e totalizzante del

corpo, delle sue funzioni e delle sue malattie si rivela "necessariamente perdente di fronte alle

rappresentazioni metaforiche delle paramedicine. Rassomigliando a queste ultime, essa voleva negare i

suoi limiti. Ma così non fa che sottolinearli" (op cit, ibidem). In altri termini, ha contribuito a creare essa

stessa, in modo paradossale, le condizioni per la sua attuale "crisi" di credibilità: "il progressivo distacco

della medicina tecnologica dai bisogni di salute come vengono percepiti dai malati si sta traducendo in una

crescente sfiducia, che arriva al risentimento e sfiora talvolta l’ostilità, e che si manifesta con quello che è

stato definito il "fallimento del successo"" (Satolli, 1997 p. 16). La medicina, ed in particolare la medicina a

cui si ispira Angela, si è trasformata in un involontario sponsor non solo del fenomeno di Di Bella - che

peraltro non è un profeta "new age" ma un medico-medico inserito nella tradizione medica che

considerava centrale, nella sua pratica clinica, la persona del malato - ma di tutte le medicine alternative,

certamente più attrezzate circa la capacità di rispondere alla molteplicità e complessità dei bisogni del

malato restituendogli la dimensione soggettiva del disturbo ed eliminando "quanto più possibile la distanza

legata all’uso della moderna tecnologia, favorendo il contatto fisico, la palpazione e l’uso delle mani

(Shorter op. cit. p. 27).

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E’ forse un caso che il fenomeno Di Bella, nelle sue diverse manifestazioni, sia sorto nel luogo dove è più

evidente il fallimento delle promesse della medicina curativa? Dove maggiore appare l’inconsapevolezza e

la falsa coscienza circa la sua responsabilità nell’aver contribuito a costruire ed alimentare "cieche

speranze" (cfr Morelli, 1999)? Dove ilbluff si rivela in tutta la sua evidente tragicità2? Dove si perpetua la

negazione, attraverso il rifiuto e l’abbandono del malato oncologico inguaribile e/o terminale, di tutto ciò

che rappresenta il fallimento concreto e tangibile del potere medico? Nel luogo che rappresenta uno

"degliomissis più inquietanti della medicina tradizionale" (Cagliano, op. cit. p. 157)?

La medicina ufficiale, insomma, a partire dal disconoscimento del suo "valore" come medicina di relazione,

nell’esigenza di negare, come il peggiore dei ciarlatani, la sua limitatezza, la sua fallibilità si è indebolita

perdendo carisma e valore sociale nei confronti di terapie alternative che sembrano, quantomeno, in grado

di fornire un maggior conforto ai malati3.

Certo, la medicina attuale si sviluppa ed opera all’interno di una più generale fantasia culturale

antropocentrica del superamento del limite, una fantasia di progresso illimitato, di libertà assoluta in cui

sarà possibile sconfiggere una volta per tutte i nostri limiti biologici e sociali. Una società pacificata, priva di

conflitti, contraddizioni, una "terra" senza il male, il dolore, la morte. Una fantasia culturale, all’interno

della quale la "disperazione", venuti meno i millenari contenitori religiosi ed ideologici, fluttua liberamente,

erompe dalle coscienze in modo lacerante. Una cultura della "salvezza" nel qui ed ora, nell’aldiquà, che

vede nella malattia e nella morte "demoni" da sconfiggere definitivamente: non ci ammaliamo perchè

dobbiamo morire ma moriamo perché ci ammaliamo (Galimberti, 1996). Nessuno muore di vecchiaia

"nemmeno coloro che superano i cento anni sfuggona alla metodica classificazione. Ognuno deve morire a

causa di un’entità morbosa precisa. (...) In qualsiasi paese del mondo morire di vecchiaia è illegale" (Nuland,

1993 p.55).

Una fantasia, in definitiva, che ha investito di aspettative salvifiche la medicina. Salute e salvezza sono

diventati sinonimi4. Un intervento medico non è una cura transitoria, né differisce o rinvia il momento della

morte5. No, quell’intervento chirurgico, quel farmaco ha "salvato" la vita del paziente. E si insorge quando

ci accorgiamo sgomenti che nel 2000 c’è chi muore "ancora" di parto o per l’estrazione di un dente. Questi

incidenti di percorso semmai alimentano le nostre speranze che la medicina troverà una soluzione, con

nuove tecnologie, nuovi farmaci....

E cosa ha fatto la medicina di fronte al carico di speranze ed aspettative "religiose" che si sono riversate su

di lei dopo la crisi delle religioni e delle ideologie? Ha cercato forse di respingere l’investimento salvifico?

Ha cercato di assumere un’atteggiamento diunderstatement cercando di contenere le emozioni? Ha evitato

di farsi carico di compiti e poteri che non le competono? Ha evitato di rispondere, consapevole dei propri

limiti, alla domanda di salvezza in modo "letterale"? No, ha cavalcato e cavalca la tigre. Si è presa sul serio

senza un minimo di autocritica. Ha alimentato e rinforzato aspettative irrealistiche, fantasie di onnipotenza

senza alcuna prudenza. Ha smesso di aspettare i suoi "fedeli" nella sua "chiesa", preferendo, nel suo

integralismo, nella sua vocazione al proselitismo, invadere ogni ambito della società andando a scovare la

malattia, il "male" in ogni piega nascosta della nostra vita: la medicina si occupa di noi dalla culla alla bara

(certo, quando si potrà eliminare quella bara!)6. Si è fatta religione "laica", preoccupata di espandere il suo

ordine medico, di dettare le sue regole di comportamento morale attraverso nuove parole d’ordine:

informazione, prevenzione, educazione sanitaria e sessuale, diagnosi precoce, condotte igieniche7. Una

medicina che coltiva l’illusione di risolvere problemi che non le appartengono: "la medicina non ha nulla da

rispondere alla paura della morte, né alle sofferenze che sono dovute alla violenza della vita sociale e, in

breve, alla difficolté di vivere. Rispondere in termini medici a queste problematiche non soltanto significa

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dare una falsa risposta ma anche impedirne una reale formulazione che possa eventualmente consentire di

risolverle" (Bensaïd, op. cit. p. 272). Una medicina che "per impedirci di morire non prevede altro che

impedirci di vivere, e (...) non potendo prevenire le malattie, si diletta a prevenirci e a colpevolizzarci" (op.

cit. p. 273)8. Attenzione la vita "è" pericolosa, è una malattia mortale a trasmissione

sessuale."Preveniamola" nelle sue diverse manifestazioni, nei suoi disordini, nei suoi appetiti, nelle sue

passioni.

Ma in questo gioco di farsi legge morale, paladina del "bene", di aspirare ad una investitura divina bisogna

essere all’altezza del personaggio, del ruolo. Non a caso tutte le religioni, molto prudentemente, collocano

le loro promesse - immortalità, pace, felicità, liberazione dal male - in un aldilà che nella sua inverificabilità

non rischia alcuna delusione. La medicina diversamente, lascia intendere che il magnifico e progressivo

viaggio verso la salvezza è ormai prossimo alla sua conclusione. E’ una marcia trionfale verso la "conquista

della morte" (Silverstein, 1975). Il fatto che questa "marcia" sia costellata da continue smentite9, da

continui fallimenti in ogni ambito dell’agire medico e che la medicina possa essere anche un fattore di

rischio per la salute, un nocebo10 - tanto per citare un caso, negli anni ‘80 nei soli Stati Uniti, seimila

persone morivano o subivano danni cerebrali a causa di 359 errori diversi commessi durante l’anestesia

(Gawarde, 1999) - produce, in una sorta di bizzarra "escalation" un paradossale rilancio circa i miracolosi

progressi della medicina. Quanto più si allarga il divario tra mezzi e fini11, quanto più serpeggia tra i "fedeli"

la fin troppo evidente inadeguatezza della medicina a rispondere alle loro speranze12, tanto più veniamo

sommersi da quotidiane esibizioni falliche iperconpensative di una medicina che sembra sempre meno in

grado di tollerare la sua intrinseca debolezza.

Appare sorprendente, a questo punto, l’ingenuità della classe medica nel credere di non dover pagare il

prezzo per aver cercato di cavalcare troppo a lungo cavalli imbizzarriti o di aver flirtato o rivaleggiato con gli

dei. Ma gli dei, che sono realmente onnipotenti ed onniscienti, che non si mostrano, che sono

imperscrutabili a noi mortali, che non devono giustificare e non giustificano il loro operato, sono al riparo

dalle inevitabili e cocenti delusioni che la medicina ha inflitto ai suoi "fedeli".

Diciamolo, quella che ci mostra Angela è una medicina che appare poco intelligente, affatto scaltra,

subdolamente autolesionista, quando evita di cooptare ciò che sembra sfuggire al suo dominio ma di cui è

inevitabilmente intrisa: il soggettivo, l’irrazionale, lo spirituale; quando evita di muoversi verso

l’integrazione con altri saperi, altre opzioni, altri modi di guardare alla complessità del reale13; quando si

squalifica, convincendo i propri rappresentanti a immaginarsi come farmacisti o idraulici (con tutto il

rispetto per farmacisti ed idraulici) piuttosto che rimettere la figura del medico al centro dell’intervento

sanitario restituendogli il suo valore, il suo potere, la sua "reale" capacità di essere di aiuto al paziente;

quando insiste nel voler aggiungere "anni" alla vita piuttosto che contribuire a restituire "vita" agli anni;

quando sfugge alla straordinaria possibilità, anche sociale, di valorizzare e pubblicizzare la cultura del

"limite", di farsi portavoce del valore di ciò che è problematico, incerto, imperfetto; quando rifiuta i suoi

stessi limiti, il suo potere parziale e temporale, la sua stessa "sana" impotenza; quando, al pari di ogni altra

istituzione ossessionata dalla sicurezza, alimenta e rinforza, all’interno della società, una opzione culturale

intrisa di morte14, invece di farsi disciplina educativa affinché sia possibile accettare la nostra "esistenza

mortale"15.

La medicina è una disciplina bellissima. Si trova al centro di alcune delle esperienze "limite" più importanti e

misteriose della vita, dal suo esordio alla sua conclusione, ed offre al medico una speciale possibilità di

stabilire un contatto profondo ed intimo con se stesso attraverso "l’altro", il paziente, nel quale può

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rispecchiarsi nella sua stessa vulnerabilità e fragilità affidandosi alla possibilità di "condividere" e di

partecipare con quest’ultimo l’attraente e terribile mistero della vita.

Per questo è decisamente insopportabile, assistere a questa abdicazione culturale - almeno così come ci

viene rappresentata dal Piero Angela di turno - da parte di una medicina, di un’"arte" medica che sotto il

dominio della techne e all’interno di una visione ferocemente positivista ed organicista, appare del tutto

dimentica dei suoi intrinseci presupposti umanistici e della sua filiazione con altre discipline (ancora nei

primi anni del novecento a Vienna, culla della medicina europea del tempo, la facoltà di medicina licenziava

dottori in medicina e filosofia). E’ decisamente insopportabile assistere al definitivo affermarsi di una

medicina d’organo che vede in un "corpo" vivo un "organismo", che ha della vita "un concetto molto basso

perché non va oltre la pura e semplice funzionalità di un organismo" (Galimberti, 1997 p. 6). E’ decisamente

insopportabile che la formazione e l’addestramento delle nuove generazioni di medici, non solo non tenga

conto del malato, come "persona" che soffre, ma svilisca le qualità intellettuali, emotive, creative, e

psicologiche degli studenti che una volta laureati e specializzati sono del tutto depersonalizzati dal

bombardamento di nozioni iperspecialistiche, all’insegna di sempre più tecnologia, informatizzazione,

realtà virtuali. Al massimo possiamo aspettarci una grottesca capacità di relazionarsi, di empatizzare con un

ecografo, un computer, uno strumento che fa delle "tomografie assiali computerizzate". I guai cominciano

quando si solleva lo sguardo dal proprio referente, la sofisticata tecnologia, e si incontra lo sguardo

dell’altro. Di che stupirsi quando fuori dal proprio contesto protetto di conoscenze molti giovani medici

sembrano francamente ipodotati da un punto di vista emotivo e culturale. Dove e quando hanno potuto

approfondire lo studio - non dico delle scienze umane (sarebbe chiedere troppo) - di materie fondamentali

per un medico quali filosofia delle scienze o storia della medicina? E dove hanno potuto accorgersi della

profondità, vitalità, ricchezza di cui sono dotati i termini "tecnici" della medicina? L’emopatia è una

"sofferenza" del sangue, l’epilessia è un "assalto", il farmaco ha una doppia accezione di "medicamento" e

di "veleno", l’angina significa "soffocare", ma anche "laccio", "angoscia". E che dire del termine "medico"

che se in latino si riferisce a colui che cura le malattie in altre lingue, a partire dalla radice mar-madh,

significa "conoscere", "sapere", "mente", "sapienza", "maestro", "intelligente".

Se Sparta piange Atene non ride

C’è un ultimo aspetto che vale la pena di evidenziare. Sebbene Angela fosse ospitato all’interno di un

convegno organizzato dalla Società Italiana di Psiconcologia, non c’è stata alcuna risposta, nessun appunto

da parte degli altri relatori, tra cui diversi esponenti della S.I.P.O. Questo appare solo in parte giustificato

dalla mancata discussione, per motivi di tempo, alla conclusione degli interventi preventivati. L’impressione

è che non ci fosse nulla da puntualizzare, nulla da discutere.

Forse un intrinseco senso di inferiorità ci blocca, come sembra bloccare la psicologia da poco entrata

nell’esclusivo e ristretto santuario delle "vere" scienze. Forse un senso di vergogna ci attanaglia per il

ritardo con il quale la psicologia si sta affrancando dai suoi trascorsi umanistici e filosofici. Questa

"parvenue", subordinata e vassalla al cospetto di discipline così "salde" nelle proprie certezze scientifiche,

non ha la forza di reggere un confronto dialettico con la medicina e con i suoi rappresentanti. Del resto la

psicologia è oggi impegnata altrove. Preferisce evitare un fecondo confronto con altre discipline facendosi

portatrice dell’inestimabile valore racchiuso nella sua stessa ragion d’essere: psyché-logos,"discorso",

"racconto" intorno alla "vita", "anima", "spirito", "respiro". Discorso sull’anima, racconto dell’anima. Ma

come abbiamo detto la psicologia è impegnata altrove, la si può infatti incontrare nei solipsistici dibattiti

teorici all’interno delle diverse "sette", scuole, circoli più o meno ristretti, vederla impegnata in autentiche

amenità quali la psicologia "viaria" o la psicologia del "turismo" (a quando, e stiamo aspettando con ansia,

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una psicologia del "bricolage", una psicologia dei "fine settimana", una psicologia delle "multiproprietà":

meglio al mare o in montagna?), o ancor meglio, presentandosi al pubblico dei mass-media, la si può

vedere nel suo aspetto nazional-popolare mentre presiede giurie nelle trasmissioni sportive, sottopone

aspiranti miss Italia a suggestivi test psicologici, partecipa con impegno a rissosi e comici "talk-show", non si

sottrae, ma interviene con preoccupazione e gravità, alla quotidiana intervista da parte del settimanale di

moda a proposito dell’ennesimo scandalo "sessuale" d’oltreoceano: bambini di 8 anni denunciati per aver

baciato o toccato una coetanea, impiegati licenziati per aver molestato con mazzi di fiori colleghe di

lavoro15. La si scopre impegnata nel promuovere nuove regole di condotta, nuovi conformismi sociali,

nuovi imperativi morali, frutto, per carità, di regolari osservazioni "scientifiche" o nel costruire, all’unisono

con la psichiatria, la "cultura" della malattia, identificando nuove psicopatologie in ogni campo della nostra

esistenza a carico di bambini, adolescenti, genitori, coppie, insegnanti, anziani.

C’è poco da sorprendersi se lapsiché così avvilita dai suoi stessi rappresentanti appaia sempre più

sofferente ed irritata, silenziosa e mortificata. C’è poco da sorprendersi se la psicologia, con una immagine

(imàginem: "rappresentazione", "ritratto", "sembianza", "ombra", "idea") di questo tipo, venga facilmente

squalificata nella, per di più, totale inconsapevolezza dei suoi rappresentanti che devono aver creduto che

Angela, nel suo intervento, si riferisse esclusivamente a Di Bella e non piuttosto a noi e alla nostra

disciplina.

Note

1 Chi è infatti il committente e il referente della terapia? Non è certo un "polmonare" o un "cerebrale".

Quella malattia non è un cancro della mammella ma un cancro della mammella di quella donna, è un

cancro della "sua" mammella. Un malato di cancro non è un "portatore" di cancro (è raggelante questo

linguaggio "politicamente corretto" nel suo impatto spersonalizzante) perchè quello è il suo cancro, gli

appartiene.

2 Le cifre che l’oncologia continua a dare in pasto ai mass-media, circa le probabilità di guarigione, sono

veramente incredibili. E’ imbarazzante vedere i massimi rappresentanti dell’oncologia lanciare proclami

trionfalistici circa gli straordinari progressi nella lotta contro il cancro: "più del 50-55% dei malati guarisce

definitivamente". In qualche telegiornale viene addirittura riportato che la guarigione è ormai assicurata ai

2/3 dei pazienti. I dati, come è noto alla stessa oncologia, sono purtroppo ben diversi. Il 70% degli uomini e

il 52% delle donne colpiti dal cancro muoiono entro 5 anni (Zanetti et al, 1998). Inoltre, una buona parte dei

pazienti, dopo i fatidici 5 anni, andrà comunque incontro ad una recidiva, alla formazione di metastasi e,

molto spesso, alla morte. Per non parlare, poi, della validità delle cure tradizionali. Secondo statistiche

internazionali l’efficienza delle chemioterapie, nei casi in cui è utilizzata come forma principale di

trattamento (40%), si è stabilizzata intorno al 2%. In altre parole il 40% dei pazienti sottoposti a

chemioterapia ha il 2% di possibiltà che la terapia farmacologica sia curativa nella direzione di una

guarigione o quantomeno di una sopravvivenza oltre i 5 anni (Tubiana, 1992).

3 negli Stati Uniti, secondo recenti statistiche, la maggioranza dei pazienti si rivolge alle medicine

alternative e/o a medici che utilizzano metodiche alternative alla medicina ufficiale (Angell, Kassirer, 1998).

4 in realtà salutem, accusativo di salus, condivide con salvus la stessa radice etimologica

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5 Se anche il cancro scomparisse per le persone tra i 15 e i 65 anni, la vita media aumenterebbe di appena

sette mesi (Tzai, Lee, Hardy, 1978). In Svezia, ad esempio, l’età media degli uomini che muoiono di cancro è

di 74 anni mentre quella di coloro che muoiono per tutte le altre cause è di 76 (Jannerfeldt, Horte, 1989)

6 "un mondo in cui la salute è ottimale e diffusa è quello dove l’intervento medico è minimo e soltanto

occasionale (...) la gente non ha bisogno se non di d’una minima interferenza per unirsi in matrimonio, far

figli, vivere la comune condizione umana e morire. La fragilità, l’individualità e le connessioni dell’uomo

fanno dell’esperienza del dolore, della malattia e della morte una parte integrante della sua vita" (I. Illich,

1976 p. 275).

7 a parte ogni altra considerazione di natura etica, abbiamo l'impressione che nell'uso che facciamo oggi

dei concetti di informazione, educazione e prevenzione sia stata del tutto smarrita la problematicità e la

complessità di queste tematiche. Una visione ingenua e sostanzialmente irrazionale nella sua pretesa di

razionalità, vuole ammantare l'informazione e la prevenzione, in quanto tali, di contenuti che si

imparentano con un'ideale assoluto di benessere e liberazione da ogni rischio, non tenendo conto, ad

esempio, che: 1) l'informazione e la prevenzione non sono mai neutrali in quanto veicolano valori,

ideologie, specifiche opzioni culturali spesso occultate dal cappello protettivo della medicina e della

scienza; 2) l'informazione così come la prevenzione vengono spesso proposte in termini semplicistici,

banalizzanti, assoluti, fino ad arrivare a delle vere e proprie falsificazioni; 3) non sappiamo, se non in

minima parte, quale sia l'impatto, in termini di comportamenti, vissuti, riverberazioni psicologiche, di un

insieme di nuovi dati informativi o educativi.

8 tra l’altro, i nuovi dogmi sanitari, alfieri di ogni crociata di "promozione" della salute, fanno acqua da tutte

le parti. Basti pensare alla confusione, anche tra gli addetti ai lavori, tra cause ed effetti, cause e fattori di

rischio, rischio assoluto e relativo o al sostanziale fallimento degli studi lungitudinali per verificare l’effettivo

ruolo dei fattori di rischio sulle malattie coronariche e tumorali (Mc Cormick Skrabanek, 1988; Hibberd,

1986; Mc Taggart, 1996). Tanto per fare un esempio, il Mrfit (Multiple Risk Factor Intervention Trial) ha

effettuato una ricerca longitudinale (Maseri, 1991) su 360.000 soggetti tra i 37 e i 57 aa. di cui il 3% (12.500)

presentava i tre principali fattori di rischio (fumo, obesità, pressione alta). Dopo 7 anni la mortalità per

infarto dei soggetti a basso rischio. era pari allo 0.4% (1390) mentre la mortalità dei soggetti ad alto rischio.

era pari all'1.6% (200). E' quindi corretto sostenere che in quest'ultimi la possibilità di morire per infarto è 4

volte superiore dei soggetti a basso rischio ma al massimo si arriva a spiegare 1.6% dei decessi. E l'altro

98.4% perché sopravvive? E soprattutto quello 0.4% di decessi da parte di soggetti a basso rischio appare

molto rilevante da un punto di vista numerico. Per non parlare, poi, della reale validità delle campagne di

prevenzione attraverso la diagnosi precoce: malattie per le quali non è disponibile una terapia efficace,

scarso valore predittivo di molti esami (è impressionante la frequenza di falsi positivi e falsi negativi

responsabili, tra l’altro, di incalcolabili disagi psicologici da parte dei pazienti oggetto di questi errori

diagnostici), inadeguato rapporto benefici-costi (secondo i risultati di tre diversi trial sui vantaggi della

mammografia, il numero di donne che dovrebbero sottoporsi allo screening affinché una donna ne tragga

qualche vantaggio varia tra le 12.000 e le 67.000), rischi per la salute, anche in termini di mortalità,

dell’eccesso diagnostico.

9 "non solo il cancro e tanti altri mali non sono stati sconfitti, ma gli stessi epidemiologi dibattono ancora su

quanto in termini di anni di vita in più, i progressi della medicina hanno fatto guadagnare (..) non pochi

studiosi nutrono forti dubbi sul fatto che il guadagno sia effettivamente da ascrivere alla medicina"

(Cosmacini in Cagliano, 1993 p. VII). Secondo aa. più critici, all’aumento della vita media sembrano aver

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concorso soprattutto "fattori economici, sociali e culturali che non sono miminamente riconducibili alla

cosiddetta "medicalizzazione della vita"" (Contu, 1997 p. 2).

10 Secondo un recente documento di 223 pagine dell’Istituto di Medicina dell’Accademia Nazionale delle

Scienze dal titolo paradigmatico "errare è umano", negli USA ogni anno muoiono (le cifre sono ampiamente

arrotondate per difetto) dai 50mila ai 100mila pazienti (un numero superiore a quelli provocati da incidenti

di auto, tumori al seno e AIDS) a causa di un’incredibile varietà di errori da parte di medici, farmacisti,

strutture ospedaliere.

11 "i successi, spesso amplificati ed esagerati, dalla medicina scientifica e tecnologica creano

inevitabilmente l’aspettativa irrealistica di un rimedio per ogni fastidio, con il risultato di rendere ancora più

intollerabili i disturbi che risultano ineliminabili" (Satolli, op. cit. p. 16).

12 rispetto agli anni trenta la percezione di malattia si è triplicata (Shorter, op. cit.), con un paradossale

peggioramento della "percezione soggettiva di benessere che i singoli individui riportano: aumentano i

disturbi, gli acciacchi, le visite dal medico" (Satolli, ibidem).

13 In molti ospedali messicani, accanto alla medicina ufficiale, è prevista e tollerata la presenza della

medicina etnica tradizionale. Molto spesso, un paziente prima o dopo una visita o un’accertamento

diagnostico si rivolge ad un guaritore, ad "un’uomo di medicina" che non di rado si trova nella stanza

adiacente a quella del medico.

14 "una società, priva di questo vincolo (la morte) diviene mortale e morta (...) la morte nel senso antico

della parola morte, la troviamo appunto nelle stesse istituzioni che cercano di proteggercene" (Hillman,

1999 p. 37-39).

15 "Qualsiasi atto che tenga a distanza la morte ostacola la vita" (Hillman, 1964 p. 47), in quanto "una vita

non in contatto con la morte è mortale, moribunda" (Hillman, 1999 p. 27).

15 il neo-puritanesimo, per cui nel solo stato del Colorado ben 292 bambini sotto gli 11 anni sono stati

processati e sono attualmente in carcere per crimini sessuali, sta trovando, anche in Italia, diversi

interlocutori tra le fila della psicologia.

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