Il Carmelo nel mondo e per il mondo. Formazione

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1 Il Carmelo nel mondo e per il mondo. Formazione Introduzione Buona sera a tutti, ieri abbiamo focalizzato l'attenzione sulla prima parte del titolo di questo convegno: il Carmelo e la comunicazione. Abbiamo cercato di dire che la natura stessa del Carmelo è strutturata in termini di comunicazione, perché la parola stessa Karm-El dice una relazione che mette insieme Dio e l'uomo attraverso quello che noi dicevamo "giardino di Dio". Abbiamo anche sottolineato come in questa relazione, che si fa comunicazione, c'è un'eccedenza mistica: è Dio che cerca questa comunicazione e la desidera ardentemente, è Dio che tenta tutte le condizioni possibili perché si dia questa comunicazione, questa relazione. A questo "sì" di Dio, deve corrispondere il "sì" dell'uomo, perché davvero Dio non viola la libertà di nessuno, e se tu non vuoi rispondere a questo invito nessuno ti obbliga, nemmeno Dio. Abbiamo visto due esperienze di risposta che sono significative per la nostra tradizione carmelitana: quella di Elia e quella di Maria di Nazaret. Due risposte diverse, sottolineavamo, una è l'esperienza di Elia sull'Horeb, quando deve venire fuori dalla caverna per recuperare il senso di sé e della sua missione, l'altro è quell'"Ecco me" di Maria, dove nella sua libertà consegna la trasparenza del suo essere a Dio che l'aveva sfiorata con la sua presenza. Il primato di Dio Una tradizione, la nostra, che ci pone direttamente nel solco della comunicazione, e ci fa comprendere che la nostra vocazione-missione, oggi, nella Chiesa e nel mondo, è una vocazione di mettere in risalto il primato di Dio. In questo tempo in cui sembra che Dio sia stato messo fuori, fuori la porta della vita, del tempo in cui viviamo, delle preoccupazioni quotidiane, dell'economia, della morale, dell'etica. Diventa quasi che Lui non ci fosse in questo tempo di grave relativismo, nichilismo, di soggettivismo esasperato. In questo tempo dove l'immoralità è abbastanza diffusa a tutti i livelli nella vita pubblica, non dobbiamo essere ipocriti, perché se c'è un'immoralità pubblica, questa è frutto di un'immoralità privata. Noi siamo chiamati a testimoniare proprio nella nostra esperienza come carmelitani, questo primato di Dio che desidera incontrare l'uomo, che vuole comunicare qualcosa. Egli fa di questa comunicazione il riversamento di sé nella nostra vita e l'innalzamento di ognuno di noi, ad una qualità alta della nostra vita, come diceva Giovanni Paolo II. È proprio questa comunicazione, è proprio questo incontro che ci umanizza, e che ci divinizza nello stesso tempo. Dio non ci incontra per farci schiavi, «non vi chiamo più servi, ma amici» (Cfr. Gv 15,15) dice Gesù nel vangelo di Giovanni. Ci incontra per rivestirci dello splendore di tutta la sua bellezza, ricordandoci qual è la destinazione ultima dell'uomo. La formazione educa all'amore Vedete, noi siamo chiamati a comunicare questo, a "Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia", sapendo vivere la nostra vocazione-missione in questo mondo, per questo mondo. Quindi abbiamo una grande missione da compiere, e questo esige, passando al tema di oggi, un intenso cammino di formazione, perché se manca la formazione non c'è conoscenza, e se manca la conoscenza noi non sappiamo di chi parliamo, e il non sapere è ignorare. Allora la formazione aiuta ad amare, la formazione educa all'amore; la formazione non è apprendere nozioni, non è leggere molti libri, la formazione non è passare da una catechesi all'altra, la formazione non è appartenere a dieci gruppi così sono più formato, la formazione non è pretendere di avere molte vocazioni. La formazione è anzitutto imparare a conoscere se stessi, è comprendere che conoscere sé stessi non è scartare la conoscenza dell'altro, perché la conoscenza di sé non quella che ti isola o ti pone al di sopra. La conoscenza di sé è innanzitutto toccare con mano la condizione del tuo essere, è capire quello che tu sei, ed è comprendere che questo tuo essere non è un'isola, ma è come un costruire ponti. L'essere di ognuno di noi è un essere che costruisce continuamente ponti, cioè che mette nella possibilità di incontrare altri, e una persona è una

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relazione del p. L. Gaetani OCD

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Il Carmelo nel mondo e per il mondo. Formazione

Introduzione Buona sera a tutti, ieri abbiamo focalizzato l'attenzione sulla prima parte del titolo di questo convegno: il Carmelo e la comunicazione. Abbiamo cercato di dire che la natura stessa del Carmelo è strutturata in termini di comunicazione, perché la parola stessa Karm-El dice una relazione che mette insieme Dio e l'uomo attraverso quello che noi dicevamo "giardino di Dio". Abbiamo anche sottolineato come in questa relazione, che si fa comunicazione, c'è un'eccedenza mistica: è Dio che cerca questa comunicazione e la desidera ardentemente, è Dio che tenta tutte le condizioni possibili perché si dia questa comunicazione, questa relazione. A questo "sì" di Dio, deve corrispondere il "sì" dell'uomo, perché davvero Dio non viola la libertà di nessuno, e se tu non vuoi rispondere a questo invito nessuno ti obbliga, nemmeno Dio. Abbiamo visto due esperienze di risposta che sono significative per la nostra tradizione carmelitana: quella di Elia e quella di Maria di Nazaret. Due risposte diverse, sottolineavamo, una è l'esperienza di Elia sull'Horeb, quando deve venire fuori dalla caverna per recuperare il senso di sé e della sua missione, l'altro è quell'"Ecco me" di Maria, dove nella sua libertà consegna la trasparenza del suo essere a Dio che l'aveva sfiorata con la sua presenza. Il primato di Dio Una tradizione, la nostra, che ci pone direttamente nel solco della comunicazione, e ci fa comprendere che la nostra vocazione-missione, oggi, nella Chiesa e nel mondo, è una vocazione di mettere in risalto il primato di Dio. In questo tempo in cui sembra che Dio sia stato messo fuori, fuori la porta della vita, del tempo in cui viviamo, delle preoccupazioni quotidiane, dell'economia, della morale, dell'etica. Diventa quasi che Lui non ci fosse in questo tempo di grave relativismo, nichilismo, di soggettivismo esasperato. In questo tempo dove l'immoralità è abbastanza diffusa a tutti i livelli nella vita pubblica, non dobbiamo essere ipocriti, perché se c'è un'immoralità pubblica, questa è frutto di un'immoralità privata. Noi siamo chiamati a testimoniare proprio nella nostra esperienza come carmelitani, questo primato di Dio che desidera incontrare l'uomo, che vuole comunicare qualcosa. Egli fa di questa comunicazione il riversamento di sé nella nostra vita e l'innalzamento di ognuno di noi, ad una qualità alta della nostra vita, come diceva Giovanni Paolo II. È proprio questa comunicazione, è proprio questo incontro che ci umanizza, e che ci divinizza nello stesso tempo. Dio non ci incontra per farci schiavi, «non vi chiamo più servi, ma amici» (Cfr. Gv 15,15) dice Gesù nel vangelo di Giovanni. Ci incontra per rivestirci dello splendore di tutta la sua bellezza, ricordandoci qual è la destinazione ultima dell'uomo. La formazione educa all'amore Vedete, noi siamo chiamati a comunicare questo, a "Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia", sapendo vivere la nostra vocazione-missione in questo mondo, per questo mondo. Quindi abbiamo una grande missione da compiere, e questo esige, passando al tema di oggi, un intenso cammino di formazione, perché se manca la formazione non c'è conoscenza, e se manca la conoscenza noi non sappiamo di chi parliamo, e il non sapere è ignorare. Allora la formazione aiuta ad amare, la formazione educa all'amore; la formazione non è apprendere nozioni, non è leggere molti libri, la formazione non è passare da una catechesi all'altra, la formazione non è appartenere a dieci gruppi così sono più formato, la formazione non è pretendere di avere molte vocazioni. La formazione è anzitutto imparare a conoscere se stessi, è comprendere che conoscere sé stessi non è scartare la conoscenza dell'altro, perché la conoscenza di sé non quella che ti isola o ti pone al di sopra. La conoscenza di sé è innanzitutto toccare con mano la condizione del tuo essere, è capire quello che tu sei, ed è comprendere che questo tuo essere non è un'isola, ma è come un costruire ponti. L'essere di ognuno di noi è un essere che costruisce continuamente ponti, cioè che mette nella possibilità di incontrare altri, e una persona è una

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persona equilibrata, tenera e sana nella misura in cui è in grado di costruire ponti, di tessere relazioni, perché l'altro consente a me di conoscere me stesso. La conoscenza di sé non si dà in un'autosufficienza, cioè per conoscere me non ho bisogno di te e che tu mi dica qualcosa. La conoscenza di sé esige la presenza dell'altro, perché l'altro mi consente di conoscere quella parte di me che non potrei mai arrivare a conoscere. Porto un esempio: ognuno di noi ha un volto, e il volto è in fin dei conti un aspetto della nostra identità, di quello che noi siamo, eppure nessuno di noi vede il suo volto in diretta lungo tutta la vita, cioè il tuo volto non lo vedi, eppure è costitutivo di quello che tu sei. Chi vede il tuo volto? L'altro. Se tu vuoi vedere il tuo volto, la massimo devi metterti davanti ad uno specchio, altrimenti non lo vedi, eppure, possiamo dire, è la parte più intima di te: diciamo che il volto è lo specchio dell'anima. A noi frati ci hanno vestito dalla testa ai piedi, eppure ci hanno lasciato scoperto il volto, il burqa non ce l'hanno messo. Il volto, l'altro. Don Tonino Bello diceva che dobbiamo imparare a vivere per conoscere noi stessi e per accettare l'altro nell'esperienza di essere "volti rivolti". Solo se c'è un incontro di volti, se c'è un faccia a faccia, noi possiamo effettivamente conoscerci. Da questo capite che è difficile sostenere lo sguardo dell'altro se noi non abbiamo questa sufficiente umiltà interiore di conoscere l'altro. Si può violare con lo sguardo, ma conoscere l'altro attraverso lo sguardo è altra cosa. Ci sono molti volti, ma pochi sguardi. Formazione come respiro della vita Stiamo cercando di tessere i significati del volto del Carmelo in formazione. La formazione come conoscenza, conoscenza di te ma non da solo, in relazione: la formazione è questa. Non stiamo parlando di una formazione intellettuale, stiamo parlando di una formazione relazionale, di soggetti che s'incontrano, di persone che si frequentano. La formazione è fatta di vita, è impastata di vita, per cui tu continui a formarti lungo tutta la vita, lungo tutte le stagioni della vita. Parliamo di formazione iniziale, parliamo di formazione permanente, ma dovremmo imparare la formazione come il respiro della vita, quello che ti accompagna dal primo momento della tua vita fino all'ultimo. La formazione deve essere il respiro ulteriore della nostra vita, perché non basta il respiro per vivere, c'è bisogno di un ulteriore respiro per poter dare senso al nostro vivere. Questo ulteriore respiro è la formazione: impastata di vita, fatta di vita, fatta lungo tutta la vita, che mette insieme le componenti della vita. Mette insieme quello che la tua famiglia ti ha trasmesso, quello che hai appreso a scuola, quello che hai imparato frequentando i tuoi amici, quando eri ragazzo, quando eri adolescente, quando eri giovanissimo, quando eri giovane, lungo la tua esistenza. Mette insieme le esperienze gioiose della vita, ma anche i dolori della vita, la sofferenza della vita. Vedete come la vita diventa una cattedra della formazione. La vita diventa la vera scuola della formazione: non c'è scuola migliore, non c'è altra scuola qualificata. Ma questo non esclude i luoghi dove noi impariamo, anzi ho detto che li include, ma non li assolutizza. Se tu credi che la formazione sia soltanto il fatto che hai frequentato questa o quella scuola, che sul tuo libretto universitario ci siano stati questi o altri voti, che i tuoi titoli siano questi o altri – è una cosa odiosa, per esempio, quando incontri persone che ti fanno un necrologio che non finisce mai di titoli, o per l'aver frequentato tali master o tali scuole – poi magari nella tua comunicazione sei una frana. È una cosa terrificante che questi titoli non dicano nulla di tuo padre, di tua madre, che non dicano nulla dei tuoi amici, che non dicano nulla dei luoghi che tu hai frequentato e che hanno formato la tua vita. Perché non ci vogliono vivi, ci vogliono morti, perché questa è la prima forma di pensare la formazione: la formazione da morti, cioè senza gli altri, tagliando e ritagliando tanti aspetti della nostra vita, dove alcuni solo perché hanno titoli pretendono di salire in cattedra. San Giovanni Bosco, che era un uomo sapiente, sottoponeva le sue omelie a sua madre che non aveva fatto nessuna scuola. Lui, il grande educatore, aveva capito che bisognava impastare tanti elementi per poter fare formazione.

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Vedete, abbiamo aggiunto un tassello, cioè stiamo cercando di definire il rapporto tra la nostra vita, la nostra appartenenza al Carmelo, e la conoscenza come formazione. La formazione include l'altro, la formazione mette insieme la vita, la formazione dura tutta la vita, perché la formazione è un ulteriore respiro della vita. La pedagogia del Risorto con i discepoli diretti ad Emmaus Prendiamo una icona per lasciarci accompagnare in questa riflessione sulla formazione, ed è quella del capitolo 24 del vangelo di Luca, un brano molto noto è quello dei discepoli di Emmaus. Cos'è la formazione? La formazione è, possiamo dire leggendo questo testo, un'esperienza di cammino. Come si fa la formazione? Camminando. In questo testo tutto è in movimento. Vedete la formazione non è statica, è dinamica, non è avere una solo questa prospettiva, perché quando cammini continuamente cambia la prospettiva. E i due di Emmaus avevano una prospettiva che purtroppo poggiava su una zona d'ombra, su un cono d'ombra come dicevamo ieri. E che cosa vedevano? Vedevano l'impossibilità di continuare a relazionarsi, "non vale la pena di coltivare amicizie": «speravamo che fosse lui [...] son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute» (v. 21). Hanno lasciato la loro comunità, l'hanno abbandonata, forse hanno litigato tra di loro e questi due se ne stanno tornando a casa, come se gli anni trascorsi con Gesù sia stato tempo perduto, esperienza nulla. Cosa fa Gesù? Luca, con una finezza pedagogica, dice che Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Guardate che cos'è il processo formativo. Non c'è invadenza, non considera l'altro come un contenitore da riempire – un'antica idea di formazione: il docente ha un secchio d'acqua e tu sei un secchio vuoto, lui ti riempie –. No, assolutamente, dice che si accosta e camminava con loro, cioè sta assumendo la loro condizione. Certo, c'è asimmetria tra Gesù e quelle due persone, l'asimmetria è data dalle condizioni diverse, da sogni diversi, ma è vero anche che c'è simmetria perché hanno vissuto insieme, li conosce, sa i drammi che si stanno portando dentro. Allora, vedete, la formazione è sapere che c'è un'asimmetria, una diversità, un'alterità, accoglienza dell'altro che è diverso; ma che ci sono anche delle simmetrie, cioè che ci sono dei rapporti, ci sono delle situazioni, che ci sono delle condizioni, che ci sono tanti tasselli nella vita che ci accomunano. La nostra stessa condizione umana è un elemento simmetrico. Allora comprendiamo che la formazione, sta dicendo il testo di Luca, accade quasi in una forma di incontro tra aspetti asimmetrici e aspetti simmetrici. Allora per la formazione, non è che dobbiamo essere piatti, per fare formazione non è che ci devono piallare, nel processo formativo non è che dobbiamo tutti pensare la stessa cosa. Formare significa capire che in questo processo formativo dobbiamo imparare a organizzarci a camminare insieme, e l'altro non la pensa come me, è altro da me, proviene da un'esperienza umana, famigliare, di formazione culturale distinta dalla mia. Molte volte non si dà formazione tra di noi, perché ci sono troppi pregiudizi che non consentono la costruzione dei volti, ma diventano un bombardamento sistematico a tutti i volti. Vedete di che tipo di formazione stiamo parlando, no? Di rispetto, di tenerezza, di accoglienza per la diversità. Questo camminare con loro significa entrare in punta di piedi nella vita dell'altro, ma a partire dal sentimento, dove non c'è un giudizio, dove non s'è un pregiudizio. Dice ancora il testo: «Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo» (v. 16). Sì, lungo questa esperienza noi non sempre siamo capaci di vedere. Un percorso di formazione non può essere un percorso da cechi, nel senso che prendiamo quello che vogliamo. Quante volte ci capita che vediamo solo quello che vogliamo. Questo stanno sperimentando i due discepoli: loro hanno deciso che lui non è risorto, loro hanno deciso che le donne che sono andate a dirgli che è risorto hanno raccontato frottole, cioè loro non sono disponibili a fare un percorso conoscitivo di formazione, loro hanno deciso che questa notizia buona del vangelo (la risurrezione di Gesù) non deve incontrare la loro vita, non voglio soprattutto che la loro vita sia sconvolta, così dicono nel testo: «alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti» (v. 22). Loro hanno rifiutato questo, hanno rifiutato la relazione, la comunicazione, hanno rifiutato di restare in un percorso di formazione, e per questo i loro occhi erano «incapaci di riconoscerlo» (v. 16). Guardate che questo

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riferimento lo troveremo alla fine del testo, perché se prendiamo il testo alla fine dice: «quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (vv. 30-31). Questo termine rappresenta la cornice narrativa, cioè tutto quello che viene raccontato è, come dire, il quadro. Questi occhi chiusi che non vedono, e questi occhi che si aprono e lo riconoscono fanno da cornice. Tutto il racconto è legato fondamentalmente a questo passaggio: dalla cecità alla luce, dalla non conoscenza alla conoscenza, in una forma di conversione della propria vita che è il vero itinerario formativo. Allora, torniamo al testo dove eravamo rimasto, questi occhi incapaci di riconoscerlo. Qui comincia il dialogo: «Ed egli disse loro: che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?» (v. 17). È una domanda aperta, è la domanda di chi pur sapendo dice di non sapere: «so di non sapere», è fondamentale per la formazione perché non sapere significa che tu hai fame di sapere. «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?», domanda aperta di chi ha visto questi uomini chiusi in sé stessi, questi uomini che adesso devono aprirsi, nel senso che devono rispondere quanto meno rispondere all'altro, perché loro due si assomigliano, i due che scendono da Gerusalemme, ma l'altro è diverso da loro e lo rivela la risposta: «si fermarono, col volto triste. Uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?»» (vv. 17-18). Allora, vedete, questa domanda di Gesù, è una domanda che sta facendo breccia, e questi hanno abboccato anche se la loro risposta, è una risposta forte, indignata, che in fin dei conti dice a Gesù: "Ma tu che cosa vuoi? Lasciaci in pace". Questo significa il fermarsi con l'avere il volto triste ad una persona sconosciuta che non vedono, ad una persona che ha osato rivolgere loro una domanda accostandosi e camminando con loro. Gesù a questa provocazione ne aggiunge un'altra: «Domandò: «Che cosa?»» (v. 19a); cioè "che cosa è accaduto?". Sapere di non sapere. Sì, è importante questo atteggiamento, non un atteggiamento di superiorità: la formazione esige questo. La formazione esige che ci sia un clima di ascolto, un clima di accoglienza reciproca: si impara molto di più. Se manca questo clima, non c'è attenzione. «Gli risposero: «Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno»» (v. 19b). Guardate un po' questi uomini che avevano detto agli amici di Gerusalemme "Lasciamo perdere" che stavano tornando a casa loro, delusi amaramente perché avevano perso tempo con questo Gesù, adesso dicono: «Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno». Sentite che cosa dicono di lui: «che fu – fu, quindi lo collochiamo come una cosa passata – profeta potente in opere e in parole» (v. 19c). «Profeta», cioè significa uomo di Dio, uomo che ha annunciato la parola. «Potente», cioè loro dimostrano di aver appreso molto da lui. Loro dimostrano, rispondendo a Gesù, che c'è stata una formazione, e che questa formazione è entrata nel loro DNA, nei loro pensieri, loro pensano i pensieri di Gesù, e per questa ragione stanno dicendo queste cose che rivelano. Sì fisicamente stanno scendendo da Gerusalemme e fisicamente hanno deciso di chiudere con quella storia, ma quella storia, quella vita, quell'amicizia, sta camminando con loro. Quello che loro hanno sperimentato con Gesù, sta scendendo con loro. Vedete chi è l'educatore? È colui che non ci abbandona, è colui che non ci lascia, che non ci ha riempito la testa di idee e poi se ne è dimenticato. Gesù sta scendendo con questi uomini, sta liberando dalle paure questi uomini. «Come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso» (v. 20). Stanno scavando nello spazio più intimo della conoscenza di Gesù, stanno raccontando l'opera della salvezza, la storia della salvezza: la consegna di Gesù. Come?! Erano scesi, non ne volevano sapere di lui, non hanno creduto a quello che le donne hanno detto, sono tristi, addirittura si fermano, si bloccano, per dire queste cose, e poi le parole li tradiscono. Sì, le parole tradiscono i loro atteggiamenti, un po' quando una mamma si arrabbia col suo bambino, che fa la faccia truce e poi ha un sorriso sulla faccia. Le parole tradiscono i loro sentimenti. I discepoli, in fin dei conti, stanno raccontando questa storia, e stanno dicendo che questa storia è stata troppo bella, che è già parte di loro. Vedete la formazione non è imparare una formula che poi magari dimentichi, ma invece è qualche cosa che fa parte di te, cioè che la formazione è la vita, è apprendere che questa vita la si può vivere con valori. Si può vivere restando al lato di Gesù, stanno rendendo testimonianza di Gesù.

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«Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto» (vv. 21-24). Cosa stanno dicendo? Stanno dicendo che davvero Gesù è entrato nella loro vita, però c'è un limite a tutto. E questo limite, che diventa limite esistenziale, formativo, dice che alcune cose, proprio, non si possono ammettere. Spesso l'altro miraggio dei nostri giorni, perché non siamo interessati a capitalizzare la nostra vita, ma siamo interessati a spalmare la vita, come una persona che va al mare e si accontenta della superficie senza comprendere che si potrebbe anche tuffare nel mare e scoprire un altro mondo. E noi non siamo fatti semplicemente per osservare la superficie dell'acqua, per vocazione siamo "subacquei". Chi vive una vita spalmata, non accetta di essere "subacqueo", vuole sempre stare in superficie. È per questa ragione che non gli bastano cent'anni, ne vorrebbe centodieci. Gli esteti ormai non sanno che cosa inventarsi per tirarci la pelle, per renderci tonici. E se imparassimo a vivere la vita spremendo al massimo il tempo che abbiamo? Allora forse così impareremmo molto dalla vita. Ecco, questi discepoli non vogliono più imparare, vogliono vivere una vita spalmata. Non vogliono confrontarsi con questo fatto della risurrezione di Gesù, hanno deciso di non apprendere più, e vogliono riportare indietro la vita, per questo vogliono tornare ad Emmaus da dove erano partiti. «Ed egli disse loro: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti!» (v. 25), e poi egli ridice la sua storia: «E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (v. 27). Guardate il testo non dice che i due abbiano detto "Beh basta con questa storia", anzi il testo dice che camminarono tutta la giornata. Per un cammino di 7 km, che si può fare tranquillamente in 3 ore, loro se la prendono comoda tanto che arrivano al calar del sole, cioè una giornata intera di cammino. E che cosa è accaduto in questo arco di tempo? Vedete, si può perdere la fede, si possono avere mille dubbi sulla fede, ma non pensate che questo momento sia tutta l'esistenza. Allora lungo tutto questo tragitto, Gesù ha continuato a parlare. Questo suppone che lui abbia continuato a narrare se stesso. Cosa accade dopo questo? Quanto più vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Se non si fossero preoccupati di lui, non ci sarebbe stata formazione, non ci sarebbe stata relazione. Ci sarebbe stata indifferenza, noncuranza. Vedete che cosa non è la formazione? Invece si dice che i discepoli «insistettero»: non è un invito formale.

«Insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino»» (v. 29a). Come, loro prima volevano scappare da lui, adesso sono loro che lo tengono, che non se lo vogliono lasciar scappare? Vedete cos'è la formazione? È bellissimo questo. «Egli entrò per rimanere con loro» (v. 29b). Non è un entrare in questa casa come un ospite, ma entrò per rimanere. Potremmo utilizzare il linguaggio giovanneo: dimorare, fare casa. Entrò per "fare casa" con loro, direbbe San Giovanni. San Luca dice «rimanere».

Allora, vedete, la formazione è «rimanere», rimanere in relazione, è dimorare gli uni gli altri. Comprendiamo che è al contempo permanere, questo frequentarsi continuamente, consegnarsi continuamente, cioè è la formazione permanente che deve permettere che ogni persona si consegni all'altro. «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (vv. 30-31). Che cosa aveva fatto Gesù? C'è una convivialità nel sedersi a tavola. Aveva preso il pane e l'aveva dato loro, cioè l'Eucarestia; perché da dove avevano cominciato? Dal Giovedì santo. Perché quello che loro non avevano accettato il Giovedì Santo, il Venerdì Santo, il Sabato Santo, la Domenica di Risurrezione: quello loro l'avevano scartato. Dove li riporta Gesù? Li riporta dove avevano interrotto il percorso di formazione, dove avevano reciso la vita, al Giovedì Santo. «Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (v. 31). Sì, adesso possono conoscere, perché adesso di nuovo vivono questo faccia a faccia con lui.

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Dunque, allora, la formazione sta assumendo i connotati personali. Nel senso che la formazione non spersonalizza, ma umanizza: sta assumendo i caratteri dell'umanesimo di una convivialità che è possibilità di iterazione tra le differenze, dove i diversi possono sedere e condividere lo stesso pane. Guardate che formazione, che scuola è questa. Vedete allora come la formazione apre gli orizzonti, la formazione ci aiuta ad essere nuovi. «Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l'un l'altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme» (vv. 31b-33a). Partono senza alcun tentennamento, eppure adesso Gesù non è fisicamente con loro, ma non ce n'è bisogno perché adesso si sono riconciliati con sé stessi, hanno avuto veramente modo di conoscere sé stessi, con questo incontro, con questa esperienza. Adesso si rimettono in cammino, e la strada continua, anche se adesso devono fare tutto in salita, ed è sera, è notte, è pericolosa è la stessa strada dei briganti, è la stessa strada che scendeva quell'uomo da Gerusalemme a Gerico (Cfr. Lc 10,25-37), adesso camminano di notte e in salita. Però, si sono messi le ali ai piedi, al cuore. Questo deve appassionarci. Se la formazione è in relazione al Signore risorto, se la catechesi la teniamo in questa prospettiva, allora comprenderemo perfettamente che questa formazione, ci riscalderà il cuore. Questo tipo di formazione ci metterà dentro tanto desiderio di Dio, questa formazione ci umanizzerà, perché la formazione non è per l'anima, ma per l'uomo, la donna, per l'interezza, l'integralità della persona. Questa formazione non ti fa essere un disgraziato, questa formazione non ti fa essere un ladro, questa formazione non ti fa essere un disonesto, non ti fa essere una persona che abusa della qualità dell'altro. Questa formazione ti porta al culmine formativo, cioè la pienezza dell'uomo. Cristo, dice la Gaudium et Spes, svela pienamente l'uomo a sé stesso e ne ridà la sua altissima dignità. Perché noi siamo chiamati a diventare, dice Giovanni della Croce, Dio per partecipazione. Nell'incarnazione Dio prende la nostra condizione, e in cambio ci ha rivestiti di tutto il suo splendore. La formazione migliora la qualità della vita Non dobbiamo avere paura di dire che il cammino formativo ha questa qualità della vita. Perché se la formazione non migliora la qualità della vita e la relazione con gli altri, e della rispettabilità come essere cristiano ed essere sociale, mette in dubbio la formazione: forse si è fatta solo della curiosità intellettuale. La formazione all'interno della comunità, deve tendere a farci conoscere, per poter vivere conformati a Cristo. Lo dice il documento "Educare alla vita buona del Vangelo": l'obiettivo della formazione cristiana è la conformazione a Cristo. San Paolo lo dice in un modo stupendo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20), o se vogliamo in una forma più semplice «Abbiate gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù» (Cfr. Rm 15,5). Di quali sentimenti si parla? Di dolcezza, delicatezza, bontà. E se questo non accade, noi abbiamo il diritto di indignarci, perché la formazione non spegne la vita, ma accende la vita, e dà attenzione pubblica e sociale alla vita. Non si può vivere una formazione come questa, che è veramente un supplemento di bellezza, e accontentarsi del degrado delle strade. È una componente sociale, perché non c'è soltanto una componente ecclesiale o spirituale, perché altrimenti diventa spiritualismo. Se tu voti un assessore disonesto, diventi disonesto come lui. Se tu voti un componente della 'ndrangheta, della mafia, della camorra, tu sei come lui. La qualità della vita e il tuo impegno di cristiano lo impongono alla coscienza, altrimenti non sei conformato a Cristo.