IL CAMPO DI FRAGOLE - Cultura e cronaca dall'AgroCaleno · e dovevo farlo anche in fretta per...
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IL CAMPO DI FRAGOLE
Un racconto di fantasia Ambientato nella cittadina di
Pignataro Maggiore Nel meridione d’Italia
Edito da Pietro Ricciardi
Via Gramsci, Pignataro Maggiore (CE)
www.comunedipignataro.it
Rilasciato sotto licenza Creative Commons by-nc-nd/2.5
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/
INDICE
Nota dell’autore………….…………………………..………………………pag. I
Capitolo 1 …………………………………………………………..………..pag. 1
Capitolo 2 …………………………………………………………..………..pag. 10
Capitolo 3 …………………………………………………………..………..pag. 18
Capitolo 4 …………………………………………………………..………..pag. 25
Capitolo 5 …………………………………………………………..………..pag. 33
Capitolo 6 …………………………………………………………..………..pag. 39
Capitolo 7 …………………………………………………………..………..pag. 44
Nota dell’autore
Quando nel marzo del '97 fuggii da Pignataro in cerca di un'alternativa di vita, portai con
me uno scatolone pieno di appunti,quaderni e diari. Con il trascorrere del tempo, a mente
lucida e tra lavoro e studio ho rimesso un po' d'ordine a questi appunti.
E' il racconto della mia giovinezza, del mio percorso tortuoso e doloroso, ma a tratti anche
goliardico e spensierato verso quello che sono oggi. Forse e' un modo di rielaborare con il
beneficio del tempo, di cercare di capire e, a tratti, forse anche di giustificare le mie
esperienze.
Avendo vissuto questa giovinezza a Pignataro inevitabilmente racconterò anche del
Paesello e delle persone che allora mi circondarono.
Voglio chiarire che racconto la mia storia. E' la mia verità di allora esclusivamente dal mio
soggettivo punto di vista. Io non sono tra quelli che pensano di avere la verità assoluta.
Quindi, frase d'obbligo, ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti o esistite, e'
puramente casuale.
Per critiche, commenti o semplicemente un saluto [email protected]
Pag I
Capitolo 1
“…andai alla ricerca della tua fiaba. La solita fiaba dell’eroe che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La solita storia dell’uomo che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle mode, agli schemi ideologici, ai principi assoluti da qualsiasi parte essi vengano, di qualsiasi colore si vestano, e predica la libertà. La solita tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti…”
Un Uomo - Oriana Fallaci
Il tempo e´ un compagno lento ma inesorabile che cuce, scuce e ricuce brandelli di Il
tempo e´ un compagno lento ma inesorabile che cuce, scuce e ricuce brandelli di memoria
che affiorano dall’inconscio come un iceberg. Ma come un iceberg questi brandelli ti
mostrano solo la punta emergente, il momento clou, lasciando i retroscena, i contesti, i
collegamenti, immersi sotto una superficie di un denso velo nebuloso di non ricordi o di
ricordi rimossi. Andare a scavare in un passato relativamente recente e doloroso,
costringe a fare i conti coi propri fantasmi che si celano in questi enormi iceberg della
nostra memoria, costringe ad immergerci in quel pantano da cui non siamo certi di
riemergere e, anche se riemergessimo, non saremmo mai certi di tornare con la risposta a
quell’eterno perché che ci assilla…
Allora dovevo essere un’adolescente come tanti altri: avevo i miei problemi, le mie ansie,
le mie insicurezze, l’incapacità di adattarmi al mondo dei grandi, l’insofferenza verso gli
altri. Ero ancora avvolto dal grembo caldo e sicuro della famiglia, ma era un grembo
possessivo e gerarchico che richiedeva una cieca ubbidienza che io non ero più in grado
di concedere. I valori e le certezze del mio nucleo familiare non mi bastavano più, cercavo
me stesso, la mia identità, quello che infine avrebbe fatto la differenza tra me e il resto del
mondo. Cercavo il mio ruolo andando incontro al nuovo, all’incerto, volevo che la mia
presenza venisse notata e accettata, ero desideroso di confrontarmi con gli altri, ma
stavolta alla pari. Insomma mi muovevo nel nulla più assoluto. Dovevo trovare il mio ruolo
e dovevo farlo anche in fretta per riempire quel nulla e sottrarmi cosi alla sensazione di
essere inutile. E da dove potevo iniziare? Cercando il nuovo si inizia ovviamente facendo
prima i conti con il vecchio. E il vecchio era la sicurezza del nucleo familiare e i valori che
rappresentava, quindi quale miglior inizio per affermare il mio ruolo poteva essere rifiutarli
quei valori. E` l’eterna storia dei conflitti generazionali, l’eterno conflitto tra Padre e Figlio
ma anche un segno della crescita, dell’evoluzione dell’Uomo. Ogni generazione e` un
piccolo passo verso il nuovo, verso il meglio: nuove idee, nuovi valori. Quindi guai se
venisse a mancare una sana ribellione adolescenziale. E inevitabilmente quella sana
ribellione adolescenziale scatto` anche in me.
Quand’è che finirà di piovere? Da dietro i vetri della mia stanza osservavo una coppietta
che litigava sotto all’ombrello. Valentina, mia coetanea e vicina di casa, aveva uno strano
modo di gestire questo suo primo esperimento sentimentale. Lui aveva forse due tre anni
più di lei ma questo non lo metteva al riparo dai modi bruschi e duri di Valentina. Era
aggressiva e mostrava indifferenza ma dentro di se` era insicura ed infondo aveva paura
di quel maschio che la abbracciava e baciava, che la toccava e che non si accontentava
più del superficiale petting che lei poteva offrirgli. Con quei modi perdeva quel po’ di grazia
femminile che incominciava ad insinuarsi in lei e che in seguito ne avrebbero fatto una
donna attraente, ma allora quello doveva essere il suo modo per tenere a bada il maschio
prima che si mettesse strane idee in testa o che la cosa incominciasse a piacere anche a
lei. Ogni tanto, quasi con cattiveria, tirando a s è l’ombrello lasciava che il ragazzo si
bagnasse. Il tira e molla durò ancora alcuni minuti ma Valentina continuava a respingerlo e
alla fine lo pianto´ li, sotto quell’acquazzone.
Tornai a sedermi al tavolo dove c’erano dei libri aperti e un quaderno con degli esercizi di
matematica da finire. Ma non è che avessi una gran voglia di studiare ultimamente. Senza
bussare mia madre entrò nella mia stanza, invase i miei pensieri e mi comunicò che la
cena era pronta. Provai ad immaginare la solita atmosfera serale di famiglia perbene a
cena. Mio padre, seduto a capotavola e perennemente stanco dal lavoro anche stasera mi
avrebbe chiesto della scuola. “Ti stai impegnando?” “ Lo sai che potresti fare molto meglio,
anche i tuoi professori lo dicono.” “Non voglio che tu faccia l’operaio come me. Devi avere
una vita migliore.” “Lo so che hai appena iniziato il Ragioneria ma non ti pensare, il tempo
passa e l’Università sarà presto alle porte.” Dentro di me pensavo che forse sarebbe stato
molto meglio riservare tutte quelle attenzioni serali a mia madre. Io ne avrei fatto volentieri
a meno e mia madre le avrebbe sicuramente apprezzate. Lui si era creato la sua isola
felice, un mondo in miniatura con cui conviveva abbastanza pacificamente, senza grossi
problemi: il lavoro in fabbrica, qualche film in TV la sera nel salotto buono, i suoi sacrifici
per farsi la casa, la macchina nuova firmando 36 cambiali e il suo arbitrario concetto di
giusto e ingiusto, di bene e male. Aveva gli amici del bar, i colleghi di lavoro. Mia madre
invece aveva solo lui. Gli serviva la cena poi, una volta seduta, gli avrebbe chiesto della
giornata lavorativa. Lo ascoltava con attenzione, quando riusciva a cavargli qualcosa di
bocca. Mio padre invece, quando aveva la bontà di interpellarla o lei gli raccontava
qualcosa, doveva fingere la sua curiosità. Poi, inevitabilmente, sarebbero caduti nel
silenzio più assoluto. Di fronte alla TV ancora mia madre, in un timido tentativo di
approccio gli avrebbe chiesto cosa avrebbero visto stasera. Si manifestava allora con una
sconcertante prevedibilità matematica l’unica bizzarria che io ricordi di mio padre: non le
rispondeva sempre, le rispondeva a giorni alterni, un giorno si e un giorno no. Molti anni
dopo gli avrei chiesto conto di questa sua piccola deviazione: a suo dire non la ricordava e
sosterà di aver comunque sempre risposto a domande di sua moglie. Un giorno si e un
giorno no…
Fuori intanto aveva smesso di piovere. Ne approfittai per fare un giro in bici. Vagai un po’
per le strade evitando consapevolmente quelle più affollate. L’odore acre dell’asfalto
impregnato dalla pioggia risvegliava la mia riflessiva malinconia, un po’ alla Quanno
chiove di Pino Daniele. Perché ero divenuto così critico, malinconico, intollerante? Forse
iniziavo a crescere ed iniziavo finalmente a vedere il mondo circostante con i miei occhi.
Ed evidentemente non mi piaceva affatto quello che vedevo: l’oziosa atmosfera di
provincia, quel dolce far niente che sembrava un vecchio film in bianco e nero alla
moviola…
Piazza Umberto 1°.Era uno strano posto quella piazza anche se non aveva niente di
particolare: una striscia d’asfalto la percorreva lungo tutto il suo perimetro e al centro c’era
un grande spiazzo vuoto, c’era qualche panchina e la classica vecchia chiesa con il solito
orologio. A me ricordava tanto una piazza d’arme di qualche lontano lager nazista con
l’orologio che scandiva le nostre ore d’aria. L’Architetto responsabile, in un delirio di
onnipotenza giovanile ai tempi dell’università, deve aver omesso accuratamente la lettura
di “Individuo e spazi urbani”. E perdipiù alcuni anni dopo lo avrebbero persino eletto
Sindaco. Bé, pazienza. Nessuno è perfetto!
Comunque qui noi ragazzi vivevamo la nostra quotidianità, ma nemmeno i nostri abiti
colorati e la nostra naturale esuberanza giovanile sembravano ravvivare questo posto in
bianco e nero. Sembrava che anche noi incominciassimo a far parte staticamente della
scenografia, come delle comparse ci confondevano con i muri del caseggiato che ci
circondava. Quei muri erano un po’ il simbolo della nostra oppressione, del soffocamento
del nostro Essere. Il muro che simboleggiava il nostro limite culturale, quella cultura di
provincia un po’ bigotta e un po’ perversa a cui eravamo legati e a cui dovevamo rispetto,
perché ogni inosservanza delle regole non scritte di questa cultura veniva punita
all'istante con emarginazione dalla vita sociale.
Qua e là per la piazza erano sparse le tristi sezioni dei partiti e alcuni circoli culturali, che
poi avevano ben poco di culturale: erano solo il ritrovo di accaniti giocatori di carte. Alcuni
avevano in bella mostra sulla porta il manifesto “NO ALLA DROGA” ma il loro impegno
finiva lì. Le sezioni dei partiti invece avevano già da tempo smesso di essere luoghi
d’incontro di gente desiderosa di confrontarsi in sane discussioni democratiche. Eravamo
a metà degli anni ’80 e l’ecletticità culturale, la capacità di confronto e di mediare punti di
vista diversi non era richiesta. Le qualità richieste erano conformità, plasticità, omertà. Più
si possedevano queste qualità più si era vicini al segretario di sezione. Quindi alla fine
queste sezioni di partito non erano altro che il fulcro di quella piccola borghesia di
provincia che aspirava ai posti di potere della polis, non per il tanto decantato bene
comune ma solo per il proprio tornaconto personale, che fosse questo economico o
semplice smania di potere dipendeva dall’inetto di turno. A guardarli bene veniva fuori un
lato tragicamente comico di questi nuovi mostri, degni figli di quegli anni fatti di esteriorità
ed effimero, in cui ci si affannava ad esibire il proprio benessere economico e ad ostentare
i simboli del proprio potere. L’unità di misura del successo e della propria felicità era la
consistenza del conto in banca. Si preoccupavano di lodare le qualità della loro macchina,
l’ultimo modello dell’ammiraglia supertecnologica e superveloce; si preoccupavano
dell’estetica della moglie che doveva presentarsi sempre gradevole ed avvenente per
poterla scarrozzare ed esporre come un trofeo; si preoccupavano di scegliere gli studi
adatti ai loro figlioli per poi inserirli in qualche ufficio pubblico, truccando concorsi e
scavalcando chi magari era più qualificato di loro, rubando quindi benessere economico
ad altri cittadini, statura morale ed efficienza allo Stato. La sera seguivano interessati il
loro bel telegiornale di partito con le sue verità per poi abbassare lo sguardo e far finta di
niente di fronte alle brutture del mondo: il degrado urbano ed ambientale, la droga e la
violenza per le strade, l’emarginazione delle minoranze, l’occidente che continua ad
ingrassare mentre altrove si muore ancora di fame. Così abbassavano gli occhi sulla loro
consapevole complicità, sulla loro coscienza. Ma infondo loro stavano bene così: vivevano
nel loro piccolo nido ad orizzonte limitato e da cui non potevano certo partire e cambiare il
mondo, loro si limitavano ai piccoli intrallazzi, alle tangenti, alla corruzione. Niente di
grave, ma per sicurezza apparivano alla rituale messa della domenica uscendone puliti ed
appagati, con facciata linda e dignitosa.
Comunque anche questi politicanti piccoli piccoli erano solo dei comuni mortali, anche loro
erano deboli e vulnerabili. Quindi avevano bisogno, più degli altri, del consenso del proprio
gruppo di appartenenza che li rendeva sicuri di sé ed arroganti. Ma guai se
improvvisamente questo consenso veniva a mancare: si trasformavano in bestie feroci
pronti a sbranare il nuovo leader del gruppo. Altri, grazie alla caduta, diventavano più
sciolti, ironici e canzonatori, anche più simpatici.
Ma la maggior parte di loro restavano uomini bramosi di potere. Al turno elettorale
successivo avrebbero trascinato al loro fianco nei comizi di piazza qualche esponente
nazionale del partito per dimostrare il loro potere e le proprie conoscenze; sarebbero stati
più accondiscendenti quando sarebbero andati a mendicare voti porta a porta,
promettendo posti di lavoro e interessamenti, tramutando i nostri diritti in favori concessi
da loro. Poi sarebbero spariti e non li avremmo visti più per un pezzo.
Ma statene certi che sarebbero di nuovo tornati alla carica al prossimo valzer elettorale e
noi avremmo continuato a farli accomodare in casa, lusingati da una visita così importante.
E noi avremmo anche continuato a votarli questi individui che hanno tutto l’interesse a
perpetuare la pubblica inefficienza praticando il voto di scambio, perché meno funzionano i
servizi dello Stato più il cittadino ha bisogno di questo politico intermediario disponibile e
pronto ad aiutarlo.
E mentre una minoranza intrallazzava sui destini della maggioranza, la maggioranza
viveva apatica la quiete serale di un giorno feriale qualsiasi…
Ed anch’io ero lì in mezzo, al centro di quell’universo. Scrutavo, osservavo ed
interiorizzavo le mille vicende che erano in corso. Me ne appropriavo, cercavo di
comprendere ed infine giudicavo. A quell’età ero molto intollerante e drastico verso quello
che non capivo o ritenevo opposto a me. C’erano solo buoni e cattivi, bianco e nero: era il
solito manicheismo adolescenziale, ennesimo e disperato tentativo di affermare la mia
identità rispetto agli altri…
In piazza si respirava e si viveva di meschine gelosie, di rigidi conformismi, di arcaici
pregiudizi e soprattutto di quelle guerre occulte tra piccoli uomini che ormai si consumano
nelle strade del mondo dai tempi più remoti. Ma qui dove ci conoscevamo un po’ tutti e
non esisteva l’anonimato della città, le guerre occulte tra uomini erano più cattive, più
viscerali. La sopraffazione è il verbo. È una sopraffazione sottile che si insinua in un
piccolo lembo di terra, quello che divide la stolta maleducazione dalla presuntuosa
arroganza. È una sopraffazione fatta di piccoli gesti, di una parola detta e non detta, di un
saluto non ricambiato, di uno sguardo. È l’individuo allo stato brado che dichiara guerra
per la difesa del suo spazio e per la conquista di quello degli altri. Se la sopraffazione è il
verbo lo scopo, anche qui, è il potere. Per quanto possa essere insignificante e transitorio
e consumato all’interno di una ristretta cerchia d’amici, è potere. Piccolo si, ma
proporzionato agli uomini che se lo contendono.
Intanto noi ragazzi ci accalcavamo in piccoli bar pieni di fumo dove anche noi ci sfinivamo
in chiassose partite a carte con il gioco antico del padrone e sottopadrone o davanti ai
primi ipnotici videogiochi che ormai stavano sostituendo il buon vecchio flipper. Erano un
po’ la nostra zona franca queste arene in cui venivamo iniziati a tollerare l’uso dell’alcool
che assopiva il nostro intelletto e quella genuina vivacità che andavamo già perdendo.
L’alcool a quell’età ti dava quella sicurezza che ti mancava, la sfrontatezza di cui avevi
bisogno con le ragazzine, eri più in gamba con gli amici e ti aiutava a metterti in mostra di
fronte agli altri, ma alcuni purtroppo elevavano quella momentanea euforia indotta a
modello di se stessi. Venivamo educati ad essere indulgenti: l’alcool era anche per noi
minori alla portata di mano, ci veniva venduto del tutto legalmente dai Monopoli dello Stato
e veniva considerato sicuramente molto meno dannoso di qualsiasi altra droga. E così ne
ho visti parecchi di questi miei coetanei etilici sempre più ebbri che solo in compagnia
dell’alcool riuscivano a sentirsi vitali, socievoli e liberi. Davanti al bar un ragazzino
continuava a vantarsi di una sua presunta scopata, omettendo invece di parlare dei suoi
indubbi movimenti con una mano sola nel bagno. Ovviamente anche in campo sessuale
volevamo essere già grandi anche se lo eravamo solo con l’aiuto della menzogna.
Il resto della gioventù si radunava in piazza in piccoli gruppetti a se stanti, a circuito
chiuso: ognuno cercava il suo gruppo senza mai sentire l’esigenza di interagire con gli
altri. E se per gli adulti esisteva ancora la suddivisione in classi (chiamate
eufemisticamente fasce di reddito), per i ragazzi esisteva questa suddivisione in gruppi di
appartenenza in cui ci si riconosceva e ci si mimetizzava, ognuno coi suoi riti e luoghi
sacri…
Davanti al Bar dello Sport (sic!), della serie voglio sempre di più eccoli questi figurini lindi e
carini sempre alla moda e per la maggior parte figli di quelli delle sezioni di partito.
Massimo, degno figlio del nostro primo cittadino, nonostante l’età aveva già messo da
parte i jeans e si era travestito da grande: così il borghese piccolo scimmiottava suo padre
in una sorta di conformismo di classe. Aveva imparato presto e bene l’insegnamento dei
grandi: dalla Cultura allo Swatch lui in realtà non desiderava avere per un proprio
arricchimento culturale o per una vera necessità, ma solo per il gusto di mostrare, di
sfoggiare. Anche il suo brillante chiacchiericcio da cicisbeo pseudo intellettuale veniva
usato solo per azzittire gli altri, per mostrarsi superiore a loro e vincente nelle sue piccole
guerre occulte. Alla fine il tutto si riduceva a reciproci affondi pungenti, a volte ironici e
gradevoli, altre tragici e avvilenti. Era più furbo che intelligente, vanitoso ed egocentrico,
fasullamente allineato, già pieno delle sue tracotanti certezze e senza alcuna lacuna
dubbiosa. Indubbiamente Massimo si prendeva troppo sul serio per la sua età, e non
avvertiva minimamente l’orrore insito in chi ha la presunzione di essere sempre il più
intelligente tra i presenti. Ma era anche un personaggio che riusciva indubbiamente ad
affascinare all’interno della sua cerchia anche se, col passare degli anni, avrebbe rivelato
il suo egoismo assoluto alla frenetica ricerca del successo economico. Avevo dunque
trovato in Massimo il promo vivente di tutti quei valori che stavo iniziando a rifiutare, anche
violentemente.
Dall’altra parte della piazza invece bivaccava un altro gruppo di ragazzi che non aveva
molto in comune con Massimo & Compagni, anzi ne erano i naturali antagonisti: non
sembravano molto interessati agli ultimi trend della moda, si mostravano molto informali
tra di loro e poco inclini al mondano. Traspariva anche un’accentuata goliardia verso la
vita e un’appartenenza al gruppo più mistica. Non erano particolarmente attaccati ai riti
della cultura giovanile del paese: disertavano del tutto le feste alla buona dell’Azione
Cattolica e i Bar, poco presenzialisti in piazza e al Campo Sportivo. Si notava in loro una
certa irrequietezza, un perenne voler andar via, un quasi voler fuggire per non divenire
anche loro schiavi di riti che sembravano non approvare. Erano sfuggenti, inafferrabili,
perennemente altrove…
Prima di divenire degli adulti, e quindi omologarsi e intrupparsi nella massa, i giovani sono
composti da un universo di sottogruppi molto diversi fra di loro e questo li rende, a dispetto
dei sondaggi e delle ricerche, una moltitudine sfuggente, poco catalogabile e indefinibile.
Questa prerogativa ha aspetti sia positivi che negativi. Da un lato l’enorme frammentarietà
permette un continuo e libero confronto con gli altri giovani, sperimentando se stessi in un
contesto multiculturale. C’è chi va all’Azione Cattolica e chi nei centri sociali; c’è chi va a
scuola in punta di piedi e chi invece contesta; c’è chi va ai concerti rock e chi allo stadio
per vedere la partita; ci sono quelli che al termine della scuola dell’obbligo vanno già a
lavorare, altri invece vanno perdendo tempo; alcuni finiscono per strada in compagnia di
polverine mortali, altri in discoteca, chi con pasticche altrettanto mortali e chi no; ci sono
quelli che s’impegnano nel sociale e quelli che invece se ne fregano altamente. Ma questa
molteplicità di aspetti fa si che si disperdano molte energie per coordinare esigenze
diverse, rende difficoltoso arrivare a una comunità d’intenti, avanzare delle richieste o
attuare delle lotte nel rispetto di tutti. Ma il mondo dei giovani deve anche fare i conti con
continue variazioni di rotta, quasi impercettibili, dovute al fatto di essere rilegati in una
fascia d’età anagrafica molto ristretta rispetto a quella degli adulti, quindi molto più legata a
un continuo ricambio dei suoi soggetti e di conseguenza anche a un continuo apporto di
nuovi valori e scopi da raggiungere. E infine, ma non meno rilevante, non va dimenticato
che i giovani non sono ancora inseriti nel sistema produttivo e quindi non hanno ancora, o
meglio, non avevano, uno specifico e diretto potere d’acquisto, anche se gli strateghi del
marketing sapranno togliergli pure questa prerogativa. Alla fine i giovani si trovano a non
avere una concreta forza contrattuale con le istituzioni, sia esse locali che nazionali, che li
esclude non solo da qualsiasi decisione che riguarda la crescita della società in cui vivono
ma, paradossalmente anche da quelle che riguardano loro stessi. Tutto questo non fa altro
che fomentare una generale sfiducia verso le istituzioni, quindi verso gli adulti, accresce il
disagio, l’incomprensione e spesso sfocia in quelle che i soliti esperti definiscono, con un
oscuro senso dell’umorismo, problematiche giovanili.
Ma tutte queste considerazioni avevano poco a che fare con la mia realtà da adolescente
in un paesino di ottomila abitanti. La nostra frammentarietà non diveniva occasione e
curiosità di conoscenza dell’Altro: da noi prevaleva l’ignorarsi a vicenda e l’ostinarsi a non
voler capire chi pensava in modo diverso da se stessi. A volte capitava che un gruppo
studiava l’altro ma spesso era solo un’occasione per sputare sentenze: si ringhiava, si
mostravano gli artigli e poi ognuno tornava nella sua tana. Mai uno scontro, mai un
dialogo. In una sorta di razzismo culturale si ponevano le fondamenta del tu non accetti il
mio modo di essere ed io non accetto il tuo. Certo era un’intolleranza spiccia e
spocchiosa, ma quante di queste piccole intolleranze quotidiane, opportunamente coltivate
e incanalate, hanno generato violenza sia verbale, sia fisica, sia d’intelletto. E la violenza e
l’incomprensione tra giovani sono sempre uno spettacolo doloroso.
E cosi, nella mia mente di ragazzino che non voleva stare alle regole, finii per parteggiare
inconsapevolmente per la minoranza che sembrava opporsi a queste regole.
Sentivo nascere in me un’opposizione ma non mi schierai ancora: restai a guardare,
barcamenandomi tra sentimenti ambigui e in attesa della prossima presa di coscienza…
Tornai a casa: i miei già dormivano. Mentre passai davanti alla loro stanza da letto mi
chiesi se facessero ancora all’amore. Dà una strana sensazione la consapevolezza che
anche tua madre fa del sesso. Chissà se le piaceva ancora o era solo un altro modo per
compiacere mio padre. Infondo la mia presenza stava ad indicare un loro amplesso, ma
chissà perché avevo la sensazione di essere il frutto di un amplesso fugace, di uno
sbattere egoistico di mio padre. Affiorarono così quella sera anche per me i sintomi di
quell’ambiguo triangolo edipico. Sintomi che col tempo sarebbero divenuti sempre più
tangibili e che mi avrebbero accompagnato per il resto della mia vita. Sintomi che
sicuramente ancora non capivo e che volevo scacciare a tutti i costi. Solo a posteriori mi
sarei reso conto che vincere questi conflitti edipici può essere altrettanto pericoloso che
perderli. E lentamente, col tempo, mi sarei convinto che è molto meglio lasciarli irrisolti.
Sgattaiolai tra le mie quattro mura e mi buttai sul letto per ritrovarmi di nuovo di fronte
quell’eroica immagine del Che: quel drappo rosso, che ormai aveva già fatto compagnia
ad alcune generazioni di giovani arrabbiati, sembrava che stesse lì a rimproverarmi le mie
debolezze consumistiche e a ricordarmi di quanto lui lo fosse stato sul serio un
Oppositore, un Rivoluzionario. Sbirciai il poster lì vicino: la bionda primadonna del sabato
sera televisivo. Calda, rassicurante e soprattutto nazionalpopolare. Spensi le luci e mi
chiesi cosa avrei sognato stanotte. Sesso o Rivoluzione?
Capitolo 2
Stava immobile nel letto con le gambe inesistenti e una piaga sulla bocca che seccava il suo sorriso mi parlava rassegnato con la lingua di chi spera di chi sa che è prenotato sulla Sedia di Lillà Ogni volta che rideva si stracciavano le labbra e il sapore che ne usciva era di stagione amara le sue rughe di cemento lo solcavano di rosso prontamente diluito da una goccia molto chiara “Penso troppo al mio Futuro” mi diceva delirando “penso troppo al mio Futuro, penso troppo e vivo male, penso che tra più di un anno cambieranno i miei progetti penso che tra più di un anno avrò nuove Verità tu non farmi questo errore Vivi sempre del Momento cogli il Giorno e tanto Amore, cogli i Fiori ed i Lillà” “Quanti amici hanno tradito” continuava innervosito “quanti amici hanno tradito per la causa dell’Amore” sono andato a casa sua, sono andato con i Fiori mi hanno detto che era uscito che era andato a passeggiare ma io vedevo un’Ombra appesa, la vedevo dondolare l’Ombra non voleva stare sulla Sedia di Lillà…
La Sedia di Lillà – Alberto Fortis
Chiunque si sia seduto di fronte ad un foglio vuoto con l'intenzione di riempirlo di propri
pensieri o ricordi, sa quanto sia doloroso, un dolore quasi fisico, continuarlo a vederlo
bianco e vuoto. È difficile collocare e ricostruire determinate ascese ormai confuse ma,
appellandomi a Marquez, alla fine mi è chiaro che "…la vita non è quella che si è vissuta,
ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla…".
Il mio ricordo è il ricordo di un periodo trascorso ad inseguire miti che già generazioni
precedenti avevano trovato fallaci, e di disperate letture che dovevano servire da appiglio
per giustificare la mia opposizione. Letteratura era fuga, esplorazione, conoscenza. Fuga
dal bigottismo di provincia e dai suoi riti definiti, dalle gabbie delle vanità nazionalistiche e
dalle violenze che può generare. Esplorazione di un universo, fuori e dentro di me, che mi
era ancora sconosciuto. Conoscenza non sola di fatti, ma soprattutto conoscenza
dell'Uomo, e quindi anche di me stesso, con le sue qualità, le sue paure, le sue follie.
Compito della letteratura è di mettere sempre in dubbio le certezze raggiunte, di mostrarne
i limiti, di evidenziare contraddizioni e di conseguenza aprire nuove strade. Letteratura è
aprirsi incondizionatamente all'altro. È dialogo. È contraddizione e confronto. Letteratura è
libertà.
Amai Kerouac e Moravia, mi avvicinai a Bertrand Russell, Aldous Huxley e fui rapito da
Hermann Hesse. Furono letture fulminee e avide di un ragazzo che assorbiva come una
spugna. Quando anni dopo mi sarei preso la briga di rileggere alcuni di questi libri, capii
che forse allora mancava ancora una coscienza critica che bisogna avere di fronte a
letture che vanno oltre ad un semplice racconto e prospettano modi di vita. Cercavo delle
fondamenta su cui costruire, mi ritrovai invece con un guazzabuglio di "ideali", su un
terreno frollo e paludoso che in futuro avrebbe ceduto. E come in un magnifico gioco
virtuale divenni la clonazione degli stereotipi del mio immaginario di "outsider". Mi elevai a
giudice e mi arrogai il diritto di giudicare: e così puntai il mio dito accusatore contro il
mondo dei grandi e la società che si apprestavano a consegnarci. Purtroppo quel dito
puntato si sarebbe rivelato l’unica arma di cui disponessi. Penso che quello fu uno dei
momenti in cui deve essersi inceppato qualcosa. Non erano ancora i tempi del locale
centro sociale "Tempo Rosso", mancavano quelli, che qualche professorone definirebbe
"punti d'aggregazione per socializzare ed interagire con gli altri". Insomma, vivevamo in un
deserto. E quell’impotenza dell’azione, alla fine, non fece altro che favorire la ricerca di un
surrogato del caldo rifugio familiare che avevo appena abbandonato con tanta rabbia.
Finii così anch’io per rintanarmi nel mio gruppo d'amici sentendomi finalmente parte di un
qualcosa, di un valore. Mi ero aggregato ai ragazzi che a pelle sentivo più affini e che in
questo nido di provincia emergevano come dei vecchi e superati "figli dei fiori" appena
usciti da Woodstock. Avevano tutti un paio d’anni più di me, qualcuno aveva già la
macchina e tutti erano membri del club degli sballati del paese, anzi alcuni ne erano stati i
padri fondatori. Ovviamente tutto questo era balsamo per il mio ego d'adolescente pseudo
ribelle: ero compiaciuto di farmi vedere in giro con loro e di quell’appartenenza. Così
anch’io fui iniziato al segreto di quell’appartenenza mistica al gruppo. Ero un pivellino da
iniziare, un apprendista stregone che aspirava a giocare con le alchimie del proprio corpo.
Quella dell’hascisc è una scalata molto lenta. I primi spinelli non sono mai un granché e
raramente si ricordano: all’inizio è facile perdere la bussola. Solo col tempo s'impara a
fluttuare in quello stato di percezione alterata, cercando di annullare le aggressività e far
emergere solo le buone vibrazioni che ti consentono di avvicinarti all’Altro, in una sorta di
empatia spirituale. Una volta acquisita la padronanza del "fluttuare", l’hascisc rivela i suoi
segreti e diventa come una lente agli infrarossi che ti permette di svelare le cose che
solitamente sono al buio, nascoste alla maggior parte degli altri…
Tonio continuava a sbattersi da una parte all’altra di questa città in miniatura: così
s’immaginò come una pallina in un surreale flipper popolato da uomini in miniatura e
altrettanto surreali. Era in cerca dell’evento della sera, della scintilla che avrebbe reso
particolare quella sera rispetto alle altre. Ma sapeva che spesso era una ricerca inutile. Dal
cruscotto la spia della benzina lampeggiava con insistenza da un pezzo, cosi finì per
parcheggiare la sua Delta rossa in una stradina laterale del corso su per la salita al Monte.
Dal fondo vedeva già le luci della domenica ed immaginò la gente addobbata a "lustrini e
paillettes". SHOWTIME! Sorrise. Poi stropicciò i suoi occhi arrossati nel vano tentativo di
renderli presentabili e penetrò in quel fiume umano mescolandosi agli altri. Si mimetizzò
tra la folla in cerca del suo gruppo. Noi, da lontano, lo vedemmo arrivare. Tonio era un po'
il nostro genio della lampada: oggi diremmo "Responsabile Logistico e
Approvvigionamento". Era lui che curava i contatti coi fornitori, prendeva accordi su
quantità e prezzo, si occupava dei mezzi di locomozione. Certo, anche noi altri saremmo
stati capaci di occuparcene, ma col tempo ognuno, in base alle sue capacità ed attitudini
fu consegnato ad un ruolo, come, penso almeno, in qualsiasi altro gruppo. Non
emergevano dei leader o dei comprimari tra noi, certo l’esperienza dei più grandi aveva il
suo peso nelle decisioni del quotidiano, ma per il resto eravamo un nucleo democratico e
comunitario, o almeno così mi piace ricordarci. Tonio intanto si era unito a noi mostrandoci
sottomano l’acquisto serale di tre grammi di libanese. Una volta che tutti avevano avuto
modo di periziare ed approvare l’investimento, non ci furono altre discussioni sul da farsi e
sul chi. Nuccio si era alzato per scomparire in una stradina laterale. Anche in questo caso
avevamo il nostro super-rollatore di canne, il nostro "Responsabile Assemblaggio e
Manifattura". Nuccio era capace di prepararti una canna ovunque e con tutto: nel chilom,
in un collo di bottiglia, in un narghilè, nella carta argentata o in un semplice tappo di
bottiglia. Con le cartine poi: canne, cannoni, le corna di bue, il pentolino, il carciofo. E se
da una parte aveva queste indubbie capacità manuali con il fumo, per tutto il resto invece
aveva due mani mancine: era maldestro, smemorato e creatore inconsapevole di
situazioni esilaranti. Era un po’ il nostro "Fantozzi" cui era impossibile non voler bene.
E così adesso, eravamo seduti su quegli scalini con vista panoramica sul corso, felici di
rinnovare l’ennesimo gesto di convivialità, d'appartenenza al gruppo. Quello spinello che
passava tra noi ci aiutava si a sfuggire temporaneamente da quella realtà, ma
contemporaneamente, insieme a quelle prime sperimentazioni, prese anche corpo
l’equivoco che purtroppo avremmo condiviso quasi tutti e che avrebbe segnato molti dei
nostri anni a venire. Quello spinello non era solo un esperimento giovanile che prima o poi
sarebbe finito come un qualsiasi momento d'evasione, di relax. No. Per noi divenne il
nostro modo di dire agli altri che disapprovavamo, che ci mettevamo contro, che eravamo
all’opposizione. Così sognammo di cambiare il mondo e di poterlo fare dall’esterno
contestando con la nostra pubblica dissociazione. Ma quel coniugare parallelamente la
droga con il nostro dissenso era solo il primo sintomo di un sicuro deragliamento futuro
che peraltro non sarebbe tardato a venire. Intanto, tra di noi parlavamo e scherzavamo,
ascoltavamo in silenzio il monologo dello schizzato di turno e lasciavamo in pace chi era
completamente fatto, perso in un viaggio solitario. Il fumo porta tutto a galla: tutto è
amplificato e sembra di percepire l’impercettibile. Eravamo un po' come degli spettatori al
cinema che osservavano, si guardavano attorno e cercavano di capire quel rito serale del
giorno di festa. Fluttuavamo tra la gente ed era come guardarsi allo specchio. Ci
cercavamo negli altri, guardavamo loro e vedevamo noi stessi. Osservavamo le debolezze
degli altri e condannavamo le nostre, scorgevamo le nefandezze degli altri e
inesorabilmente le riconoscevamo in noi…
Avevamo appena importato la solita americanata che già c’eravamo creati l’habitat
circostante ad immagine e somiglianza degli adolescenti italiani. Così in quello scorcio
degli anni ’80, assieme ai fast-food, vennero i "Moncler", le "Timberland" e le enduro
sbuffanti. Si ostentava il simbolo della pace su sdruciti jeans firmati e un’aria da finti ribelli.
Gli adulti non potevano che essere contenti di noi. Eravamo sorridenti e superficiali, certo
un po' dispendiosi, ma almeno la nostra "sana ribellione giovanile" era educata e,
soprattutto, non toccava i vertici utopistici delle generazioni precedenti. "Cos’altro ci si
poteva aspettare da una generazione che aveva come valore un piumino e un paio di
stivali!"
Intanto il nostro piccolo centro di provincia arrancava e sbuffava come una vecchia
locomotiva a vapore cercando di rincorrere il resto del Bel Paese, non rendendosi conto di
essere divenuta poco più di una caricatura fumettistica estrapolata dalla Tv…
Così noi ragazzi venivamo per il corso per mostrarci e per offrirci all’altro. In una sorta di
comunicazione erotica si offriva il proprio gioco: a volte si seduceva, a volte si veniva
sedotti e fin troppo spesso si andava in bianco. Mentre i più temerari tra noi tastavano
timidamente il terreno per far parte del gioco, ragazzine precoci avviavano un’intensa
campagna promozionale a base di gonne aderenti e dalla lunghezza molto limitata,
sguardi ammalianti, e una palese e invitante voglia di carezze. Eravamo come delle
rombanti vetture di Formula Uno alla partenza in attesa della luce verde, ansiosi di
dimostrarci esperti e non solo dei foruncolosi sbarbatelli. Ovviamente quelle prime
sperimentazioni sessuali finivano regolarmente con un gran punto interrogativo, senza
aver capito molto l’uno dell’altro e tanto meno di quello che per noi sarebbe ancora restato
l’Enigma Sesso!
Il rituale raduno della domenica sera era anche la vetrina per gli adulti già produttivi
all’interno del sistema. Ragazze divenute donne in fretta con il viso e il vestitino festoso,
grate per quella sortita settimanale, passeggiavano sottobraccio al marito silenzioso che
rimuginava ancora sui risultati della domenica calcistica. S’incrociavano vecchi compagni
di scuola o amici della fase prematrimoniale e il chiacchiericcio si limitava a qualche
pettegolezzo e alle nuove conquiste che ognuno aveva fatto nel campo dell’Avere, ma
dell’Essere non chiedeva nessuno. Strano. "Perché signor Fromm?"
Ed ecco sbucare con aria compiaciuta il nostro avvocato di provincia con moglie e figli al
seguito. L’avvocato Negri da giovane si era laureato senza infamia e senza lode alla
prestigiosa Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli. Un professore,
che vedeva in lui ciò che era stato da giovane, lo volle a tutti i costi con sé nel suo studio
di consulenze aziendali a Napoli. Fu un passo notevole per un neolaureato che veniva dal
paese. In quell’affollato studio legale però visse solo alcuni anni d'eterno apprendistato:
troppa gavetta da fare, troppi colleghi da sbaragliare. Lui invece aveva fretta di ripagarsi gli
anni anonimi passati sui libri. Depose le armi e ripiegò sul suo paese natale dove col
tempo poté sentirsi come un dio conoscendo le magagne più o meno segrete di tutti noi.
Ma divenne anche un avvocatuccio mediocre capace solo di giudicare secondo le sue
fredde formulette giuridiche. Era divenuto un uomo che non conosceva l’arte di slacciarsi
la cravatta al momento giusto e che alla fine si limitava, come tutti gli altri, a mostrare la
sua rossa sportiva per raccogliere un facile consenso.
I ragazzi continuavano a salire e scendere per il corso, quasi all’infinito. I ragazzi più ambiti
dalle ragazze, e dai loro genitori, erano sicuramente quelli che avevano già le loro
inossidabili certezze e che rincorrevano per anni il posto fisso e lo stipendio sicuro. Va
premesso che qui in Terra di Lavoro, dove di lavoro ce n'era ben poco, un posto di lavoro
era come uno status symbol da sfoggiare, una garanzia di serietà e futura prosperità. Con
questa garanzia in tasca, il nostro giovane dalle inossidabili certezze, poteva finalmente
assolvere quel rito da Forche Caudine che era la presentazione presso i genitori della
verginea ragazzina che si era cresciuto (sic!) dalle scuole medie e che aveva intenzione di
prendere in moglie. Sopravvissuto alle Forche Caudine aveva adesso la legittimazione a
tenersi la ragazza stretta al suo fianco ed ad andarla a prendere a casa. Poi li rivedevi qui
per il corso per un veloce giro taciturno, perché già non avevano più molto da dirsi, per poi
incamminarsi verso il solito posticino isolato su al Monte. Il ragazzo scaricava i suoi ormoni
e poi riaccompagnava la ragazza a casa, garantendo ai futuri suoceri di essersi
comportato da perfetto gentiluomo e di non aver attentato alla virtù della loro bambina. La
bambina, più tardi, sotto le coperte si sarebbe chiesta dov’era il piacere in tutta quella
fretta. Era tutto lì il sesso, in quel liquido seminale caldo e appiccicoso che fuoriusciva dal
suo ragazzo? Era tutto lì il gioco? Rassegnata come tutte le domeniche, lasciò che la
mano scivolasse tra le proprie gambe, abbandonandosi così alle sue fantasie e al suo
piacere solitario…
Dall’altro lato del corso c’era Gianni che ci teneva compagnia con la sua chitarra.
Strimpellava qualcosa di malinconico: la mente richiamava scenari ormai lontani mentre il
cuore si doleva di quell’antica disfatta…
E anche quell’amplesso era finito. Per l’ennesima volta avevano commesso l’errore che si
perpetua da sempre all’interno della coppia: quello di voler salvare l’amore con dosi
massicce di sesso. Si erano momentaneamente riconciliati assecondando le rispettive
fantasie. Ma per l’ennesima volta si ritrovarono di nuovo vuoti e soli con se stessi. Ormai
quella storia d’amore era finita da un pezzo, si riaccendeva a intervalli solo in quegli
incontri sessuali nei caldi pomeriggi estivi. Poi inesorabilmente ritornavano alla loro tana,
ai loro interessi così diversi e ai rispettivi amici così distanti. Oltre a quel fugace rapporto e
al bambino che dormiva nella stanza accanto non gli era rimasto molto in comune.
Gianni si guardava allo specchio e sapeva che la colpa era tutta sua. Voleva smetterla di
trascinare quel rapporto, ma era difficile staccarsi da quella situazione che lui, solo poco
tempo prima, credeva di poter sostenere. Voleva vivere senza troppe responsabilità,
libero. E poi pensava che non avesse molto da offrirle, voleva che anche lei avesse una
vita migliore. Lui se la sarebbe costruita lentamente, senza fretta. Ma inconsciamente
c’era qualcos’altro che per lui, eterno uomo sicuro di se stesso, doveva essere tremendo:
aveva una paura vana e smisurata di fallire davanti agli occhi della sua donna.
Mirella intanto si rivestiva, silenziosa e con gli occhi umidi. Cos’era che non andava più in
lei? Cos’era finito? Lei non gli chiedeva niente, né denaro né successo, voleva solo amarlo
così per quello che era. Ma ormai lo sentiva lontano, forse non lo capiva abbastanza.
Aveva tutto da rimproverare a se stessa. Era colpa sua. Dov’era la verità? Gianni e Mirella
si conobbero durante l’adolescenza. Si amarono con l’incoscienza e la spontaneità tipici
della loro età, ma non conformi e tipici del nostro paesino. Si amarono senza nascondersi,
fuggivano lontani per qualche concerto e riuscivano anche a passare qualche notte
assieme. Ma i genitori di Mirella non vedevano l’amore, coi loro occhi miopi vedevano solo
una figlia che deragliava e che andava recuperata. Così turbarono quel sereno rapporto
con grida, divieti, sberle. Loro volevano solo amarsi adesso, con l’età che avevano, senza
tante preoccupazioni per il futuro. Invece furono spinti a vivere allo spasimo, senza
equilibrio, perdendo di vista le loro aspirazioni, i loro sogni e consumando quel loro amore
troppo in fretta. Intanto era venuto il bambino e furono costretti ad assumersi le loro
responsabilità di fronte alla bigotta comunità che li circondava. Ma se l’amore aveva
generato un bambino, quel matrimonio non partorì una famiglia, anzi, consumò
quell’amore iniziale che ne doveva essere il naturale presupposto. Avevano messo loro
troppa fretta e adesso si ritrovavano con troppe responsabilità per la loro troppo giovane
età. Così, lentamente, aggiunsero mattoni a quel muro che si era innalzato fra di loro e le
cui fondamenta peraltro erano state gettate dai loro stessi genitori. Il muro crebbe e presto
divenne insormontabile.
Poi una mattina si guardarono negli occhi e si chiesero “che senso ha tutto questo?” Si
parlarono, forse per la prima volta dopo molto tempo e finalmente capirono che tutto era
finito e che non c’era più modo di superare quel muro. Con coraggio si lasciarono e
ognuno s’incamminò per la sua strada. Ma quella storia lasciò cicatrici che sarebbero state
sì alleviate col tempo, ma mai completamente guarite. Adesso, ognuno solo nel suo letto,
ripensava spesso a quel loro recente passato. Ripensavano a quella loro storia giovanile,
passionale ed ingenua; a quell’affrettato matrimonio con tanto di bambino; e poi al lento
sgretolarsi dei sentimenti di fronte al tragico vivere quotidiano che generò solo terrorismo
domestico fatto dalla volontà di ferirsi con cattiveria e di violentarsi a vicenda. Erano
passati solo pochi anni ma per loro erano il concentrato di tutta una vita. Così si ritirarono
in silenzio e con dignità da quel campo di battaglia domestico per non esporsi mai più ai
sentimenti, per non sporgersi mai più in là di se stessi. Di tanto in tanto s'incrociavano per
il bambino per il quale non avevano scatenato nessuna guerra: tra di loro c’era solo un
assordante silenzio, fatto di formalismi imposti dalla presenza del bambino e da quegli
sguardi che si sarebbero evitati per il resto della loro vita. Mirella fu coraggiosa. Tornò a
scuola per diplomarsi, trovò un lavoro e un appartamento tutto per sé. Finalmente
tranquilla riversò tutto l’amore possibile su quel bambino cercando di dargli anche quello
del padre assente tra le mura domestiche. Ma, così facendo, esaurì tutto l’amore, non
trovandone più né per se stessa e né per un altro uomo. Gianni invece si lasciava vivere,
con più disillusione e con meno rispetto per se. Aveva abbandonato l’Università cui tanto
teneva e si era messo a fare l’operaio. A lui stava bene così, adesso non aveva bisogno di
rincorrere il successo economico a tutti i costi.
Era lì, solo su quegli scalini e continuava a suonare la sua chitarra. Sapeva di aver fallito
una prova decisiva della vita ma era fiducioso per il futuro: le prossime prove le avrebbe
sicuramente vinte. Almeno sperava…
Capitolo 3
Io, ostinato archeologo dei miei simboli totemici, continuo ad essere avvolto da una
nebbia, una nebbia ovattata che sembra volermi quasi proteggere dalle brutture di questo
viaggio a ritroso nel tempo ed in cerca del tempo che fu…ma la nebbia lentamente si
dirada, ed eccolo apparire il monumento più rimpianto della mia giovinezza, ultimo
baluardo posto sul mio cammino a difesa della mia innocenza, inseguito persa e mai più
ritrovata.
Una volta che la scuola non diventa altro che un pallido ricordo e le nozioni apprese un
vago sussulto della nostra mente, non restano altro che delle figure di compagni di classe
e di professori che continuano ad accompagnarci per il resto della nostra vita. Col tempo si
finisce per idealizzarli e dimenticare i loro limiti e le loro umane contraddizioni. Ma
nonostante questa consapevolezza sopravvivono intatti come dei simulacri del passato,
accompagnatori fedeli del nostro percorso. Sono come delle voci fuori campo che ci
ammoniscono e c'illuminano, a volte invece siamo noi stessi a risvegliare queste voci,
cercando un improbabile confronto…
Mi ero iscritto ad un piccolo Istituto Tecnico per Ragionieri in un paesino distante alcuni
chilometri dal mio. L’istituto era ospitato in un vecchio edificio che negli anni ’30 era stato
usato dai fascisti come prigione per dissidenti. Strani scherzi del destino per un’istituzione
che dovrebbe sfornare menti pensanti e libere, essere collocata all’interno di un ex
istituzione che soffocava proprio queste caratteristiche. Nonostante gli innumerevoli
ammodernamenti, l'istituto non poteva nascondere il suo passato da reclusorio d'idee
L'esterno dell'istituto era caratterizzato dai due cancelli d'accesso in sbarre di ferro che gli
davano l’aria di un austero fortino e l’interno era scolorito ed umido. Nelle aule si
svolgevano lezioni come decenni addietro: stessi argomenti, stessi autori, stessi metodi. E
spesso s’incontravano anche gli stessi insegnanti. Solo i ragazzi cambiavano
continuamente e insieme al loro chiassoso andirivieni portavano con se anche gioia,
vitalità e curiosità, quindi quella linfa vitale senza la quale, e questo veniva spesso
dimenticato dai professori, l’istituzione scuola non avrebbe motivo di esistere. Non erano
ancora i tempi d'elucubrazioni autonomistiche: al Ministero della Pubblica Istruzione
imperversava un certo ministro in gonnella, tale Franca Falcucci, d'area democristiana,
che era in sella da tempo, nonostante i governi che si avvicendavano, nonostante i cortei
degli studenti…
Anche qui avevo lottato per un mio ruolo e, dopo avermi lasciato alle spalle le ingenuità
tipiche dei primi anni, ero assurto a piccolo "maître à penser" grazie alle mie prese di
posizione nelle assemblee studentesche e ai miei temi che facevano il giro dell’istituto.
Compiaciuto del mio ruolo, e pateticamente bisognoso di riconoscimenti, scrutavo e
penetravo in quella moltitudine babelica così varia che si formava la mattina davanti alla
scuola. Amori allo stato nascente avvinghiati sui motorini, con lo zainetto sulle spalle e in
cerca dei posti dell’amore; amicizie che forse non sarebbero andate oltre l’esame di
maturità ma che avrebbero sicuramente sfidato la qualità d'amicizie future ben più
durature; filoni progettati per un'interrogazione da rinviare e filoni improvvisati per primi test
sessuali non rinviabili; la concitazione attorno ad un compito in classe che avrebbe deciso
il voto del quadrimestre con ripassi frenetici ed ultime consultazioni con il timido ed
insicuro "primo della classe", che acquistava improvvisa e fatua popolarità dopo mesi
d'oblio; le esercitazioni pratiche di facile conquista e seduzione - vedi anche
circonvenzione d’incapace - dei ragazzi della maturità a danno delle ragazzine dei primi
anni.
Ovviamente anche qui avevo cercato e trovato i miei affini: eravamo una ristretta cerchia
di ragazzi variamente assortiti e tutti in avanzato conflitto adolescenziale con il resto del
mondo. Riuscivamo a mescolare spensierata allegria ed impegno intellettuale con qualche
spinello. Le nostre discussioni "cosmiche" erano pregne di quell’ingenuità ideale che
cercava sempre un punto d’approdo, la soluzione universale: non solo cercavamo la
quadratura del cerchio, eravamo anche convinti di poterla trovare! Com’era naturale che
fosse a quell’età, eravamo un po' di tutto e il contrario di tutto…
Maurizio era il nostro guardiano posto alle porte dei limiti che c'eravamo tacitamente dati:
s’incaricava di frenarci e di riportarci coi piedi per terra quando spiccavamo voli troppo
arditi. Era l’unico che si armava di pazienza e mi seguiva fino alla fine, inerpicandosi con
me in discussioni sterrate e contorte, ribattendo sempre con le ragioni della mente. Fu per
un paio d'anni il mio primo ed unico amico-fratello, il mio naturale interlocutore opposto, il
mio "alter-ego" raziocinante. Mimmo invece dichiarava candidamente di venire a scuola
per perdere tempo nell'attesa di arruolarsi in Aeronautica. Vestiva senza pretese ed era
l’anima goliardica del gruppo a conferma che le persone un po' in sovrappeso sono
sempre quelle che riescono a trasmettere allegria. Era un iperattivo che non riusciva a star
fermo in nessun posto, diventava ansioso anche stando in casa pensando che si stesse
perdendo chissà cosa. Poi c’era Alessandra, la nostra ragazza da sogno di cui un po' tutti
a turno c’eravamo innamorati, anche se restò sempre e solo un dolce gioco platonico ed
amichevole. Alessandra non aveva la spensieratezza della sua età e dai suoi occhi scuri
traspirava una sofferenza malinconica…
Alessandra era seduta distrattamente davanti alla TV. C’era Marzullo che continuava ad
analizzarsi e cercarsi nei suoi intervistati ponendo il suo amletico interrogativo: “la vita è un
sogno o i sogni aiutano a vivere meglio”. Alessandra invece volava lontana. Osservava se
stessa e non capiva. Guardava il suo corpo: sedici anni e già sembrava una donna. Era
cresciuta in fretta Alessandra. Era bella e corteggiata dai ventenni, ma dentro restava una
bambina incerta che cercava solo il consenso dei grandi. Non visse la sua età per quello
che era, bruciò le tappe senza accorgersene. A quindici anni già in giro in macchine grandi
ed in discoteca con giovani che si sentivano sicuri solo con il loro portafogli rigonfio.
Nessun'amica della sua età, soltanto uomini e sempre troppo grandi. Uomini che le
chiedevano sempre lo stesso gioco, un gioco che Alessandra imparò presto: era un gioco
antico giocato fuori al freddo, in macchina al buio, tra le lenzuola di un letto che non era il
suo. Quel gioco che lei confondeva con l’amore, quel gioco cui lei si concedeva con facilità
pur di conquistare quell’attimo d’attenzione. Ripensò a quell’ennesima porta che si
chiudeva alle sue spalle e lei era già lì che alzava la sua gonna. Aveva imparato cosa
eccitava questi uomini tanto più grandi di lei, ma in quel momento così piccoli e in suo
potere. Si spogliava in fretta: sapeva che non ci sarebbero stati preliminari sdolcinati,
diventavano tutti bestiali e spicci con lei. Volevano il suo corpo e vi entravano senza
riguardo: volevano godere della sua lingua vagante sul loro corpo, volevano sentire le sue
labbra attorno al loro membro.
Così Alessandra perse il contatto con la sua età e visse illudendosi d'essere più grande.
Era diventata altera ed eccessivamente raffinata. Ma per quanto la vita che viveva al di
fuori della scuola potesse sembrare affascinante e magica, al mattino lo specchio non era
magico come nella favola che solo pochi anni prima le raccontava la mamma: si guardava
e già sembrava una donna sfatta.
Un giorno si svegliò dall’incanto e si chiese se voleva essere quello che era divenuta: un
pezzo di carne da esibire, una scopata di cui vantarsi. Adesso riconobbe quegli uomini che
aveva pensato d'amare, per quello che erano.Nonostante il loro bel membro eretto e
turgido erano dei castrati dell'anima, in grado solo di perpetuare un atto vandalico su un
corpo estraneo: sesso, copula e semenza infame all'infinito. Si chiuse in se stessa, non
uscì più e tanto meno qualcuno la andò a cercare o si chiese che fine avesse fatto.
Adesso era spaventata più di prima dal mondo là fuori. Aveva cercato di vivere ma il
mondo l’aveva solo scippata della sua innocenza. Il Buon Dio l’aveva dotata di quel corpo
avvenente ma si era dimenticato di spiegarle avvertenze e controindicazioni. Iniziò ad
odiarlo quel corpo che considerava la colpa di tutto. Cercò di mortificarlo in tutti i modi
mettendo da parte le minigonne, i tacchi a spillo e i vestiti scollati. Riscoprì i suoi vecchi
jeans, gonne lunghissime e larghi maglioni. Riscoprì anche il suo viso da bambina
mettendo da parte la trousse del trucco. Voleva passare inosservata ma si sentiva anche
abbandonata e vuota. Adesso aveva bisogno dei suoi coetanei: solo loro avrebbero potuto
farle riconquistare l’equilibrio perduto. Capimmo subito che avremmo dovuto avere molta
pazienza: sarebbe stata un’impresa lenta, quasi titanica, cercare di riallacciare quel
cordone ombelicale. Lentamente e un po' impacciata riscoprì i riti della sua età: in giro con
il motorino, le uscite domenicali per il corso e senza pretese, in pizzeria con pochi soldi in
tasca. Con calma tornarono anche l’allegria e la spensieratezza. Ma restava ancora una
sorta di sfiducia verso noi ragazzi, era ancora impacciata e quasi spaventata dai nostri
abbracci. Quello di coccolarci era un gesto fisico frequente tra noi: a volte era una sorta di
manifestazione di disponibilità ad accogliere l’altro con le sue problematiche e le sue
paure, a volte semplice gesto d’affetto. Dovette passare un po' di tempo e, solo quando si
convinse che tra noi nessuno voleva portarsela a letto, riuscì spensieratamente a venirci
incontro e ad abbracciarci forte. Sembrava finalmente riconsegnata alla sua età…
Una volta a settimana ci ritrovavamo a casa di qualcuno di noi. Mentre il mondo là fuori
andava sempre più di fretta noi ci prendevamo la libertà di rilassarci e di distrarci con un
po' di fumo con il quale diventavamo di nuovo dei bambini che credevano solo alla parte
buona dell’uomo, senza vederne la sua naturale bestialità. Cosi veniva fuori la goliardia e
l’autoironia come coi ragazzi del mio gruppo al di fuori della scuola, ma anche l’affinità
culturale e l’ecletticità intellettuale. Poi mettevamo su qualche film e ci mettevamo in
viaggio. Il cinema era il nostro modo di muoverci stando fermi: apprendevamo altri modi di
vita muovendoci nel tempo e nello spazio. Percorrevamo la cultura, la cronaca, la storia,
ma era anche un modo per vergognarci dei nostri misfatti e ridere delle nostre certezze…
Così ci chiedemmo se gli extraterrestri saranno più simili a "Incontri ravvicinati del terzo
tipo" o ad "Alien", se l’America era quella dei film collettivi di Altman o delle dissezioni
minimali del quotidiano di Woody Allen. Scoprimmo un allora per noi sconosciuto Gilbert
Becaud nell’irrepetibile affresco "Tutta una vita" di Claude Lelouche. Ci chiedemmo anche
quanto fosse cresciuto il Belpaese dal dopoguerra in poi, ripercorrendo la nostra storia in
immagini cinematografiche. Vedemmo un’Italia sconfitta e umiliata da ex alleati inviperiti in
"Roma città aperta" e la difficile e dolorosa riconquista del quotidiano in "Ladri di biciclette"
e "Una vita difficile". Poi venne l’Italia de "I Vitelloni", ma anche de "I soliti ignoti".
Vedemmo anche l'Italia dal punto di vista del principe de Curtis. Un occhio superficiale può
considerare quel suo teatrino perenne e i suoi personaggi come delle caricature scontate,
ma le sue dissertazioni sull’italiano che doveva farsi largo a bracciate per sopravvivere ci
lasciavano l’amaro in bocca. Il decennio che seguì ci fu descritto, al di là di capolavori
indiscussi come "La dolce vita", "Rocco e i suoi fratelli" e "Le mani sulla città", dalla satira
che dissacrò l’italiano medio travolto dal boom economico. Il consumismo rivelò già allora
il suo lato caduco con le maschere di un Alberto Sordi spaccone e menefreghista e di un
Vittorio Gassmann vuoto, cinico ed ineguagliabile in "Il sorpasso". Gli anni ’70 ci
consegnarono dolci "come eravamo" come "Il giardino dei Finzi Contini" e "Amarcord".
Stentammo a capire l’equazione cristiano-marxista di Pasolini ne "Il vangelo secondo
Matteo" e seguimmo l’"Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto".
Riflettemmo sulla grettezza della vita operaia anni ’70 tra "La classe operaia va in
paradiso" e "Mimì Metallurgico". Poi ci chiedemmo se gli impiegati erano ancora le vittime
ridicolizzate da Paolo Villaggio o se erano diventati più simili agli "Impiegati" di Pupi Avati.
E alla fine, purtroppo, dovemmo tutti convenire che forse eravamo più simili ai primati della
scena iniziale di "2001: Odissea nello spazio", che all’Uomo che percepisce la
Conoscenza della scena finale.
Dopo l’escursione filmica ne discutevamo confrontando le verità che ognuno di noi aveva
percepito: saremmo divenuti degli ottimi critici cinematografici. Ma a che serve un critico
cinematografico! Alla fine eravamo dei ragazzini che giocavano con il loro intelletto
godendo di quella masturbazione delle meningi, anche se a noi piaceva considerarci un
po' come il "gruppo del mercoledì" che si riuniva e autoanalizzava ad inizio secolo in casa
di un attempato signore viennese dalla barba bianca, le cui intuizioni avrebbero sfidato il
tempo e permesso a future generazioni di analisti di legittimare la loro infausta opera. Noi
invece avevamo ancora enormi difficoltà a sfidare il quotidiano: riuscivamo a disperare per
la nostra timidezza, per l’amore che si cercava e non si trovava, per il sesso di cui tutti
facevano un gran parlare e basta, per la nostra transitorietà in bilico tra adolescenza e
maturità, tra le diecimila chieste alla mamma e le chiavi di casa che avevamo da poco
conquistate. E come se non bastasse, ci dovevamo anche beccare il solito adulto
cacasenno che ci ripeteva: "Beati voi che siete giovani e non avete problemi. Ah, se avessi
la vostra età!" Non l’aveva la nostra età ed evidentemente aveva anche dimenticato la sua
di giovinezza. A noi comunque restavamo i nostri punti interrogativi e alla fine non
sapevamo cosa farcene della nostra età e della nostra precarietà…
Così accendemmo il tubo catodico, che aveva da poco iniziato a violentarci
tranquillamente tra le nostre mura domestiche, e ci concedemmo allo zapping televisivo…
Adesso anche noi seguivamo il TG di Stato che diffondeva verità a noi care: erano gli anni
di Telekabul diretto da un Kojak giornalista con la tessera del PCI, anni in cui ci bastava
entrare in classe con "Il Manifesto" e "Cuore", e seguire appassionati Michele Santoro per
sentirci giovani cittadini critici e pensanti. E nella giungla televisiva privata, grazie a
un'assoluta mancanza di regole e all’amicizia di un socialista dall’aspetto marziale, tutto
d’un pezzo e con lento intercalare che aveva appena lasciato Palazzo Chigi, si era invece
fatto largo il Grande Seduttore. Un tal Silvio da Arcore aveva monopolizzato il settore
privato e, dalle sue TV, non si limitava più a pubblicizzare prodotti ma aveva iniziato a
propinarci interi modi di vita. Era solo un test d'idiozia applicata di chi in futuro ci avrebbe
propinato ben altro. Nel frattempo avevamo importato l’ennesima variazione genetica
dell’Uomo da oltreoceano. Erano anni di yuppies rampanti: una tribù di tecnocrati neo
onnipotenti con un’indubbia componente comica (o tragica, a secondo dei punti di vista).
In giro con il fuoristrada, che non avrebbe mai visto nemmeno l’ombra di uno sterrato,
erano impegnati in una convulsa caccia al tesoro. Ma non era la solita tribù che si sarebbe
estinta da sola: questi edonisti, che non erano altro che l’aggiornamento riveduto e
corretto dell’Alberto Sordi meschino ed arrivista anni ’60, presto si sarebbero attestati
come una parte sicura ed integrale della nostra società.
Era la stagione di attori mediocri alla Casa Bianca, di Presidenti al Quirinale che di lì a
poco sarebbero divenuti Picconatori ed Esternatori, di pornostar in Parlamento e di
un’Unione Sovietica tra Perestrojka e Chernobyl. Una semplice tazzina di caffè invece
risparmiò alla politica italiana imbarazzanti verità e a noi inconcludenti inchieste
parlamentari: il finanziere, che all’inizio degli anni ’70 fu considerato il salvatore della lira,
bevve quella tazzina di caffè nel sicurissimo super carcere di Voghera e improvvisamente
trapassò a miglior vita. Avvelenato. "Casi della vita!"
E ci scoprimmo increduli di fronte al suicidio dello scrittore che era riuscito a sopravvivere
ad Auschwitz ma non al vivere quotidiano in questi anni di terribile vuoto.
E alla fine non ci restò che gioire, anche se solo in parte, dei nove Oscar di Bertolucci…
Capitolo 4
Mentre la mattina cercavo l’impegno e il confronto dell'intelletto a scuola, nella seconda
parte della giornata tutto quello che cercavo era qualche canna mentre portavo avanti la
mia solinga esplorazione dell’Altro.
Poiché nel paesino in cui vivevamo eravamo in pratica gli unici consumatori e quindi non
c’era offerta, dovevamo procurarci le nostre sostanze alteranti altrove. La nostra
combriccola si ritrovava in piazza: eravamo gli irrequieti del pomeriggio, presi a risolvere le
problematiche della "partenza". Con "partenza" definivamo allora tutta la parte
organizzativa che precedeva l’accensione di una canna. Avevamo bisogno di denaro, della
macchina, ed era buona norma avere sempre a portata di mano delle cartine. Erano
ancora tempi insospettabili a casa, quindi avevo gioco facile con mia madre mentre le
illustravo quanto era cara la vita da studente, cercando di persuaderla ad una
sponsorizzazione straordinaria di un deca al di fuori dello stipendio studentesco che
percepivo settimanalmente. Del mezzo di locomozione erano incaricati Tonio e Nuccio. Ed
alla fine eravamo sempre gli stessi, noi quattro o cinque che ci ritrovavamo presi da quel
rito: una volta accertato il budget che avevamo a disposizione si poteva finalmente partire.
PARTIRE… Quante volte ho desiderato di partire per quel viaggio per non tornare mai più.
Invece tornavamo. Tornavamo sempre.
Il viaggio d'andata era veloce, in corsia di sorpasso e al suono di "Smoke on the water",
dei Doors, di Vasco, dei Supertramp. E dopo una mezz’oretta eccoci arrivare a quel luogo
tragico che era alla periferia nord di Napoli…
La 167 di Secondigliano, che prendeva il nome proprio dalla legge che aveva creato questi
mostri, era il tipico quartiere ghetto costruito alla periferia di una grande città con il solo
scopo di ammucchiare il maggior numero di persone possibili in modo poco dispendioso.
Quello che doveva essere il satellite a dimensione d’uomo di Napoli era divenuto solo il
cuore ferito dell’immediato hinterland partenopeo con immensi lager dominati dalla
camorra, con servizi e strutture promessi ma mai realizzati. Questi ghetti non avevano più
nulla in comune con le periferie popolari di una volta raccontateci da Pasolini: la cintura
rossa fatta d'operai, suoni e colori è scomparsa. Certo, quelle periferie erano anch’esse
emarginate ma c’era vita, adesso c’era solo il deserto. Il tasso di disoccupazione era
altissimo ed il tasso d'evasione scolastica il più alto d’Europa. Le Vele erano una serie di
palazzi che prendevano il nome dalla loro forma architettonica che ricorda appunto la vela
di un’imbarcazione nautica. Qui la violenza dello Stato nei confronti dei suoi stessi cittadini
aveva la sua massima espressione: strutture portanti in ferro arrugginito, muri cadenti,
impianti fognari ed elettrici perennemente guasti, mini appartamenti iperaffollati, storie di
droga, camorra e prostituzione.
Il ridurre le persone alla disperazione, senza denaro, senza lavoro e farle perdere ogni
briciola di dignità è violenza.
Costringere questi adolescenti nel migliore dei casi a lavorare, nel peggiore a spacciare e
prostituirsi è violenza.
Non dargli un’educazione che li porti a migliorarsi e di conseguenza non dargli
un’occasione e metterli alla merce della malavita è violenza.
In questi luoghi si respirava e si viveva di violenza.
Ma nonostante queste considerazioni quel girone dell’inferno non tardò a divenire il centro
di gravità della nostra vita da sballati. In questo luogo potevamo concederci a qualsiasi
tipo di droga, a qualsiasi tipo di viaggio, ma bisognava anche conoscere i luoghi e le
piazze dello spaccio. Ovviamente allora le uniche piazze che c’interessavano erano quelle
dello spaccio del fumo. Lo spaccio essendo un’attività illegale non conosce alcuna regola,
non sai mai chi hai di fronte e quindi devi valutare il tuo prossimo molto più in fretta. Anche
se il circuito del fumo era relativamente tranquillo imparammo presto a stare sul chi vive e
a fare il muso duro. La peculiarità principale della 167 era che un pincopallino qualsiasi
non si poteva svegliare una mattina e decidere di aprire una nuova piazza per vendere
fumo o altro: il ragazzino che ci allungava sottomano le stecche di fumo era un semplice
dipendente, dietro di lui c’era la camorra. Questo aveva il vantaggio per noi consumatori
che non esistevano fregature, a parte ovviamente quella intrinseca della droga stessa: le
piazze erano assegnate, alle strade d’accesso c’erano altri ragazzini che tenevano
d’occhio il movimento ed eventuali apparizioni della polizia e, cosa più importante, quantità
e qualità erano costanti. Per la serie: "un cliente soddisfatto è un cliente che torna!"
L’altro ostacolo da superare prima di uscire dalla 167 erano le forze dell’ordine. Le piazze
dello spaccio, nonostante che fossero conosciute a tutti e anche alla polizia, non erano
soggette a particolari controlli o razzie. La polizia sembrava interessata solo a colpire il
consumatore finale: l’anello più debole della catena doveva fungere da capro espiatorio.
Eravamo l’erba cattiva da sradicare, vittime finali di un’assurda politica proibizionista.
Certo è vero, l’uso delle droghe, ed intendo soprattutto quelle pesanti, può essere un
esercizio tragico, doloroso e a volte mortale. Ma pura proibizione non ha mai inibito la
disubbidienza dell'Uomo. L’Uomo ha sempre usato droghe e le userà sempre: l’arte di
manipolare la percezione attraverso l’uso di droghe è tramandata da millenni. Il perché
dell’uso è un perché senza risposta: l’uso della droga è ricerca, esplorazione ma anche
metafora, malessere e autodistruzione. Il pericolo non è la sostanza in se, il pericolo è il
personale perché e il modo di quell’uso. Ma paradossalmente per conoscere questi
pericoli dobbiamo prima sperimentare: solo se sperimenti arrivi al nucleo del perché, solo
se sperimenti sei in grado di affinare il modo d’uso. Solo sperimentando allargheremo la
conoscenza dell’uso delle droghe, ottuso proibizionismo non fa che distorcere, bloccare e
ritardare questa conoscenza…
Poi una volta fuori da quella bolgia della 167 ci mettevamo all’opera e alle canne veniva
dato fuoco. L’abitacolo si riempiva dell’odore dell’hascisc mentre le canne passavano di
mano. Adesso sulla via del ritorno il viaggio era lento, eravamo "on the road" senza fretta,
anche perché il nostro stato d'alterazione non è che ci permettesse di essere dei campioni
di reazioni al volante. Eravamo comunque attenti ad affidare il volante a quello che si
sentiva più sicuro: chi non aveva voglia, non guidava e se nessuno aveva voglia ci
fermavamo. Questo consentiva anche all’autista di turno di scegliere il percorso, di
cimentarsi come regista della sera, in un film tutto suo ma da condividere con gli altri. Non
avevamo fretta di tornare al paesino, per fare cosa poi: per stravaccarci davanti ad un bar
o sugli scalini della chiesa aspettando il nulla mentre scendeva la notte? No grazie.
Cercavamo l’avventura, il viaggio notturno, la città da vivere. E Napoli era lì a portata di
mano, subito sulla destra in uscita dalla via Bakù di Secondigliano. Non eravamo
personaggi da discoteca: la nostra era un'alterazione mentale, quindi avevamo bisogno
del viaggio, del confronto dialettico, della goliardia del gruppo. La discoteca invece era
divenuta una sorta di palestra esibizionistica: era appena iniziata l’epoca di pasticche
chimiche colorate che procuravano un'alterazione fisica, si dopava il corpo cercando di
mantenere il ritmo della tecno fino al mattino dopo. Noi cercavamo altro. Le mete preferite
erano locali con musica dal vivo, dove c’incontravamo con i nostri simili in cerca delle
"buone vibrazioni" della sera, della favola da raccontarci, della discussione fiume ed
ovviamente del rito del chilom da comitiva. Presto trovammo anche qui a Napoli il nostro
gruppo di riferimento con il quale ci s'incontrava di tanto in tanto, seduti ad un tavolo in
compagnia di un po’ di vino e di una pizza. Poi si usciva in giro per la città. Ci fermavamo
in qualche piazzetta, seduti su una panchina, alzavamo il volume della musica in
macchina e accendevamo enormi chilom. Il feeling tra sconvolti di fumo è immediato: ci si
conosce in fretta e si comunica facilmente. Il fumo ti denuda, il tuo nucleo si spoglia degli
involucri che gli hai dato e che nel corso degli anni creano una corazza inaccessibile di
falsi valori: come quelli propinatici dagli uffici pubblicitari delle multinazionali, dalle leggi e
consuetudini, da paure e conseguenti meccanismi di difesa che ci rendono aggressivi,
dalla voglia di protagonismo, dalle mode.
Tornavamo al paesino a notte fonda ed immediatamente assolvevamo il nostro rituale: a
qualsiasi ora tornavamo, facevamo sempre un ultimo giro di ricognizione in piazza. Era
una sorta di verifica: ci accertavamo che non era scoppiata nessuna rivolta, che non era
successo niente di nuovo e che non c'eravamo persi proprio niente. "Purtroppo!"
L’autista di turno ci accompagnava poi tutti alle rispettive casa. Spesso però ci ritrovavamo
davanti al portone di casa di uno di noi, insonni, ancora ebbri ed incapaci di distaccarci da
quella convivialità, a chiacchierare fino all’alba.
San Giorgio Martire. Il santo che liquidò coraggiosamente con la sua lancia l’enorme
drago, era il santo protettore del paesino, ma al paesino mancava il coraggio di
sopprimere il proprio drago delle consuetudini fasulle.
A fine maggio, si faceva onore a questo santo protettore riducendo il tutto a tre giorni di
festa che erano come delle domeniche elevate all’ennesima potenza, con tutto quello che
ne poteva derivare: la processione con la banda del paese; pranzi con i parenti che a
tavola si studiavano e s'invidiavano il benessere raggiunto negli ultimi dodici mesi; ragazzi
foderati con abitini firmati acquistati per la festa; visi festosi e falsa allegria. "Insomma, un
film dell’orrore! (e con tanto di drago)"
La festa patronale si annunciava una settimana prima, quanto il paesino veniva invaso
dagli operai che montavano per le strade le tipiche arcate luminose della festa. L’addobbo
veniva posto lungo le strade principali e partiva giù dal corso, riempiva la piazza e saliva
su fino al Monte. Poi c’erano le nostre tranquille anormalità di paese. Questi archi
apparivano anche in luoghi del tutto estranei alla festa, in strade isolate e senza una
continuità con le vie principali. A parte lo spreco energetico senza alcun'utilità, c’era poi il
lavoro molto più complicato di collocare una sola arcata al di fuori di una struttura continua
che reggeva il tutto. Visto che le solenni celebrazioni di San Giorgio Martire erano
finanziate dai cittadini, già all’atto di fare l’offerta alla Commissione della festa c’erano i
primi tentativi di trattativa: "vi do 20, ma se provvedete ad un'arcata di fronte casa mia
avrete 50." Questa era la classica richiesta, ingenua, da semplice cittadino, che peraltro
non veniva mai esaudita. Ma le vere situazioni esilaranti si venivano a creare il giorno
prima delle festività o durante. Improvvisamente ci rendevamo conto che mancavano delle
arcate come se fossero state rubate di notte. Ma non erano state rubate. Facendo un giro
per il paesino ci accorgevamo che le arcate erano state semplicemente "ricollocate". Ma
dove? Le arcate di San Giorgio Martire diventavano motivo di trattative ai più alti livelli.
Anche San Giorgio Martire diveniva uno status symbol da esibire. E così queste arcate
finivano per la strada di fronte alla casa del sindaco, di qualche assessore e presunto VIP
di paese. Era una tal sicura manifestazione di potere che dalla dislocazione di queste
arcate si poteva dedurre la mappa del potere locale. Ma si poteva anche dedurre il
prossimo assessore che "sarebbe stato dimissionato": ovviamente quello senza le lucine
della festa davanti casa.
La fine di maggio era anche la fine della scuola. Ero stato "ligio al dovere" e di nuovo
promosso. Mio padre n'approfittò per tentare l’ennesimo avvicinamento. Ovviamente tentò
l’impossibile, allora eravamo distanti ed io volevo quella distanza fatta di mutismo
assordante. Questo però non m'impedì di accettare il lusso di una Vespa 125 che mio
padre col suo stipendio da operaio mi concesse. Solo molti anni dopo avrei apprezzato
quel gesto, ma allora fu per me come un qualcosa che innegabilmente mi spettasse.
Mi ero motorizzato, finalmente avevo un mezzo di locomozione tutto mio che mi
permetteva di correre verso l’estate e di coglierne tutti i frutti…
La sera aveva rinfrescato un po' l’aria ed aveva smorzato quell’afa pomeridiana. I miei
ragazzi all’imbrunire sparivano per un paio d’ore: dopo la canna della sera correvano dalle
loro promesse spose e mi lasciavano solo. Questo mi dava modo di conoscere e
sperimentare anche conoscenze fuori del solito gruppo. Col tempo avevo imparato a non
coltivare solo amicizie integraliste, super fedeli. Amavo i miei ragazzi ma ero anche
convinto che ogni persona, una volta esaurito il contenuto interessante, ha il suo fondo su
cui alla fine si urta: dopodiché non resta che la replica di ciò che già si conosce. E per
rimandare il più possibile nel tempo la constatazione che i miei ragazzi non potevano
darmi più niente e che non erano più in grado di apportare nulla alla mia evoluzione – ed io
alla loro -, cercavo di diluire questo tempo con conoscenze più o meno frivole. Da questa
situazione nacque anche il mio ruolo nel gruppo: ero l’intelletto della combriccola, quello
che provvedeva ai rapporti verbali con l’esterno, quindi n'ero divenuto il "Responsabile
Pubbliche Relazioni".
Quella fu per me anche l’estate dell’avvenimento che tutti ricordano della propria
giovinezza. Stavo crescendo in una società che ci propinava immagini precostituite in tutti i
campi, anche in campo sessuale. La nostra immaginazione veniva bloccata e
monopolizzata da morbose copertine patinate che inneggiavano a rapporti meccanicistici,
da palestra: così divulgavano anche in campo sessuale la frenetica rincorsa del possesso
di quegli anni, in questo caso a danno di un corpo e spirito estraneo. Io mi ero interessato
più al fumo e ai sussulti della mente ed avevo trascurato la mia sessualità: o meglio, avevo
trascurato quella sessualità che prevedeva anche la presenza di una donna in carne ed
ossa. A differenza degli altri ragazzi del gruppo io ero ancora, come sarcasticamente mi
definivano loro, un "intoccato". Avevo però l’attenuante che loro erano tutti più grandi di
me. "Beh lo so, magra consolazione!"
In compenso fui però più fortunato di alcuni di loro. Il mio primo sesso vero non fu
squallido, non fu fallimentare e non fu mai dimenticato o peggio, rimosso. Giusy dall’alto
dei suoi vent’anni e con tutti i ragazzi che le giravano attorno, mi appariva già come una
donna adulta e quindi irraggiungibile. In precedenza, in un gioco di sguardi e sorrisi
avevamo flirtato un po’, ma poi, quando iniziò a suscitare l’interesse dei ragazzi più grandi,
c'eravamo persi di vista.
Era la seconda serata di "San Giorgio Martire on tour". I miei ragazzi vivevano l’altra faccia
della loro realtà da bravi fidanzati con ragazza stretta al fianco. Io invece ero in giro di
perlustrazione solinga per il paesino: le lucine delle arcate brillavano come i miei occhietti
arrossati dal fumo, il popolino s'inchinava al rituale del passeggio, l’odore della porchetta si
confondeva con quello delle mandorle tostate, ed il borbottio della mia Vespa si
confondeva con la banda che suonava il liscio in piazza…
Scorsi Giusy da sola su all’incrocio del corso: sembrava aspettare qualcuno. Dopo ai soliti
convenevoli, "come stai? a scuola com’è andata? che fai questa estate?", mi feci coraggio
e la invitai a salire e a fare un giro. Da quel momento niente fu come prima: entrambi
sapevamo che era giunta l'occasione per consumare quella relazione erotica che era in
agguato da un pezzo. Ricordo l’odore dell’erba su cui ci sdraiammo, l’ulivo gigantesco
sotto al quale avevo parcheggiato la Vespa, la musica della festa in lontananza. Allora non
sapevo molto del corpo di una donna e di come andava esplorato. Dall’alto della sua
esperienza Giusy mi trattò con comprensione e dolcezza. Mi diresse tra le sue gambe e mi
disse come lo voleva. M'insegnò il ritmo: m'insegnò a rallentare, a variare, a non essere
frettoloso e superficiale. Spinse la mia testa giù, giù verso il meridione del suo corpo,
insegnandomi che il clitoride e il punto-g non sono la stessa cosa e tanto meno, a
differenza di certe credenze maschili, che siano solo dei miti. M'insegnò che un po' di
buona tecnica si può insegnare e che è indispensabile nella sessualità che prevede la
soddisfazione di entrambi. M'insegnò a non dare per scontato che ciò che piaceva a me
piacesse all’altro, e che ciò che piaceva a lei piacesse anche alle altre. M'insegnò ad
apprezzare il piacere del sesso mentre era ancora mezza vestita, perché a volte è molto
più eccitante intuire che vedere. M'insegnò che non esistono perversioni o deviazioni:
finché si è maggiorenni, consenzienti ed entrambi si divertono tutto è permesso, si tratta
solo di accettare le nostre umane bestialità.
Ma ci scoprimmo anche più amici che amanti: lei subiva le mie logorroiche dissertazioni, io
il suo bigotto e testardo desiderio di educarsi ad inseguire valori in cui non credeva. Le tre
settimane di sessualità intensa con lei m'insegnarono più dei successivi tre anni di pratica
con le ragazzine che vennero dopo. Era stata paziente e aveva sopportato la mia infantile
impazienza: ero come un bambino che aveva scoperto un nuovo giocattolo e che
desiderava giocarci quotidianamente. Ma alla fine il giocattolo si ruppe, ormai c'eravamo
sperimentati: io nel ruolo d'alunno, denudato della corazza e costretto a mostrarmi con le
mie insicurezze ed incapacità; lei nel ruolo lusinghiero di donna che insegna e che sicura
di sé traghetta con mano ferma il ragazzino dall’altra parte della riva. Altre sperimentazioni
non erano previste.
Continuai ad osservarla da lontano, con discrezione. Tornò alle sue frequentazioni:
ragazzi con la macchina e le loro certezze, superficiali si, ma che sembravano avviati
verso sicuro successo. Ma Giusy crebbe, maturò e cercò di andare oltre. Divenne una
donna dall’apparizione rara e preziosa di una gemma. E restò sola. Agli uomini del
paesino faceva paura una donna colta, che sapeva quello che voleva e per di più era
anche dotata di una bellezza elegante, fine, quasi aristocratica. E così negli anni
successivi acciuffai spesso i miei concittadini riempirsi la bocca di chiacchiere ed
insinuazioni sulla donna che tutti avrebbero voluto ma che nessuno voleva amare, perché
sapevano di fallire miseramente il confronto nel quotidiano. A volte la bellezza e l’intelletto
possono essere una condanna. Per me Giusy restò sempre l’unica e vera regale presenza
del paesello. Il suo portamento delicato fatto di leggiadra grazia, quell’incedere senza
fretta con quel suo vezzo di incrociare le braccia, lo sguardo lontano…
Capitolo 5
Venite signori della guerra voi che costruite i cannoni voi che costruite gli aeroplani di morte voi che costruite le bombe voi che vi nascondete dietro i muri voi che vi nascondete dietro le scrivanie voglio solo che sappiate che posso vedere attraverso le vostre maschere
Voi che non avete fatto altro se non costruire per distruggere giocate con il mio mondo come fosse il vostro giocattolo mettete un fucile nella mia mano e vi nascondete al mio sguardo vi voltate e scappate lontano quando volano i proiettili
Come Giuda dei tempi antichi voi mentite e ingannate Una guerra mondiale può essere vinta volete che io creda Ma io vedo attraverso i vostri occhi e vedo attraverso il vostro cervello così come vedo attraverso l'acqua del mio scarico Voi armate i grilletti perchè altri sparino poi vi sedete a guardare il conto dei morti farsi più alto Vi nascondete nei vostri palazzi mentre il sangue di giovani fluisce fuori dai loro corpi ed è sepolto nel fango Voi avete sparso la paura peggiore che mai si possa avere la paura di mettere figli al mondo Per minacciare il mio bambino non nato e senza nome
non valete il sangue che scorre nelle vostre vene Cosa ne sò io per parlare quando non è il mio turno? Potreste dire che sono giovane potreste dire che non sono istruito ma c'è una cosa che sò sebbene sia più giovane di voi che nemmeno Gesù perdonerebbe mai quello che fate Lasciate che vi faccia una domanda il vostro denaro è così buono che pensate che potrà comprarvi il perdono? Io penso che scoprirete quando la Morte chiederà il suo pedaggio che tutto il denaro che avete fatto non riscatterà la vostra anima E spero che moriate e che la vostra morte verrà presto Seguirò la vostra bara nel pomeriggio opaco Veglierò mentre siete sepolti nel vostro letto di morte e resterò sulla vostra tomba finchè sarò sicuro che siete morti
Masters of War – Bob Dylan
L’estate era un periodo di viaggio continuo. Se eravamo tutti presenti organizzavamo già
in mattinata la partenza per la 167 per poi correre al mare. Spesso invece scattava il piano
“sostegno ai lavoratori”: i ragazzi lavoravano, quindi ci eravamo organizzati in modo che la
mattina ero io a provvedere alle nostre necessità allucinogene e poi c’incontravamo
direttamente in spiaggia sul litorale domizio. Io non avevo un cazzo da fare e poi mi
piacevo nel ruolo estivo del deus ex machina. Infilavo il mio walkman, avviavo la mia
vespa e mi mettevo in viaggio: l’aria calda estiva, lo spino prima di partire, le ragazze che
ti sorridevano ancora. Quando poi i ragazzi si presentavano uno ad uno sulla spiaggia tra
le due e le tre del pomeriggio loro non dovevano fare più un bel niente: ognuno di loro
trovava già la sua personale canna rollata e a volte avevo anche abbordato un gruppetto
di ragazze con cui potevamo passare la giornata. “Furono i miei primi vagiti da futuro
dirigente nel terziario!”
Ma il nostro re del flirt era Nuccio. Lui era incapace di stare semplicemente sdraiato per
più di dieci minuti di fila: così si poggiava sugli avambracci, alzava il capo, sfoggiava
un’aria da latin lover fasullo e si metteva in “torretta” squadrandosi le ragazzine del
circondario. I suoi approcci impacciati e con ovvia conclusione comica erano pietre miliari
della storia della nostra comitiva, erano episodi che avremmo continuato a raccontarci e di
cui avremmo riso anche anni dopo.
Quello che tra noi invece poteva contare i maggiori successi concreti con le ragazzine era
Salvo. Avrebbe potuto farsi un bel po' di storie, ma Salvo era legato da anni ad una
ragazzina tutta perbenino del paesello. Certo flirtava, si dava da fare, mostrava i muscoli,
ma alla fine bloccava. Era un puro esercizio del suo ego maschile. Voleva solo la
conferma che se voleva, poteva… Sosteneva di essere un tipo fedele, ma lo era
sicuramente più per paura di perdere la sicurezza conquistata che per convinzione. La
natura oltre ad averlo dotato di un corpo da Bronzo di Riace lo aveva anche munito di una
buona dose di ironia il che gli permetteva di non prendere il nostro cazzeggiare troppo sul
serio. Viveva il fumo, i nostri sballi e la nostra amicizia per quello che erano, senza dargli
altri contenuti o prerogative eterne. Sapeva che prima o poi saremmo divenuti adulti e
responsabili e che il nostro lungo cazzeggiare avrebbe avuto fine. Grazie alla sua mole era
anche delegato a nostra difesa nei rapporti duri con gli altri: non è che n'avessimo
bisogno, ma lui era il primo a ringhiare, a contrattaccare ad eventuali aggressioni violente
dall’esterno, sia esse verbali che fisiche. Era il nostro “Responsabile Sicurezza”.
Una volta che i ragazzi poi avevano le loro quattro settimane di vacanze si partiva. Ma si
PARTIVA davvero. Non organizzavamo mai un bel niente, si fissavano solo dei punti
cardini e il resto veniva come veniva. Punti cardini erano allora data e luogo di alcuni
concerti in giro per la penisola a cui avevamo intenzione di assistere. Come al solito
avevamo cassa comune e prima di partire non poteva mancare il passaggio per la 167.
Furono estati felici. Estati in campeggio a Tropea, Rimini, Viareggio, Cefalù…insomma
tutti quei posti che si riempivano di ragazzi in cerca della ricreazione estiva. Ovviamente di
ogni luogo conoscemmo il giro e i posti della droga. Questo ci insegnò a muoverci anche
in circuiti diversi dal nostro. Erano giri nuovi, con consuetudini diverse e pericoli diversi.
Ma come già nella 167, potemmo constatare che nel giro del fumo prevalevano ancora le
buone vibrazioni. Certo il personaggio che voleva fare il furbo lo incontravi sempre, anche
se poi molto dipende anche da come ti porgi all’altro: stava anche a noi comportarci in
modo tale da non permettere a un tizio nemmeno minimamente di pensare di fare il furbo.
Ma la maggioranza era costituita da persone veramente corrette con le quali si faceva
girare con piacere un chilom da comitiva. Ma noi non riuscivamo a restare in un posto per
più di una settimana, anche in vacanza eravamo irrequieti. Eravamo dei nomadi del rock
estivo che si spostavano da un happening all’altro.
Erano le estati in cui poteva ancora succedere che un questore qualsiasi aveva il potere di
vietare un concerto accusando quello spontaneo e pacifico ritrovarsi di ragazzi di
fomentare violenza, accusando la pittoresca popolazione rock di invadere e accampare
nella SUA città creando problemi di igiene pubblica. Purtroppo la cultura rock è ancora
considerata una cultura di serie B, un piano inferiore alla letteratura, al cinema, alla lirica,
alla musica classica. Ogni società, e particolarmente la nostra, visto il sistema che ci
siamo dati, ha le sue problematiche, le sue contraddizioni. Compito della cultura è
raccontare anche di queste contraddizioni: il rock non fa che raccontare di queste
tematiche, cambia solo il linguaggio rispetto alle cosiddette culture di serie A. E poi, c’è
forse minor violenza la domenica allo stadio per il rito nazionale del calcio? Non ci sono là
due squadre, due tifoserie, quindi competizione e contrapposizione? Forse c’è più cultura
e comunicazione nel vedere ventidue uomini adulti in pantaloncini correre affannati dietro
ad una sfera di cuoio?
"Knocking on Heavens Door."
E finalmente il menestrello del rock, che con le sue ballate aveva fatto da sottofondo alla
storia degli ultimi trent’anni, venne. Col tempo e grazie all’avanzare delle mie conoscenze
linguistiche inglesi, Bob Dylan era divenuto il mio poeta amato: quello che mi faceva
sognare un mondo migliore, ma nel contempo mi insegnava anche a preservare sempre
uno sguardo critico di fronte al potere o a cose che a prima vista sembrano innocue. Dylan
ha vissuto tutti i sogni americani ed ovviamente anche le contraddizioni che ne seguono:
dal sogno borghese a quello alternativo, dalla conversione religiosa all'ateismo, dalla
rivolta esistenziale al riflusso, dall'idillio piccolo borghese del matrimonio fino al divorzio.
Dylan è sempre stato fedele testimone ed osservatore dei suoi tempi, cosciente della sua
(e nostra) incoerenza e dell'impossibilità di stabilire norme di comportamento
standardizzato. L'unica regola del mondo è il caos…
La città di Modena era divenuta già dal mattino un gigantesco bivacco per vecchi hippies
che erano venuti da mezza Europa. Personaggi strani, motociclisti dai capelli bianchi sulle
loro Harley, padri di famiglia che si erano momentaneamente dimessi dal loro ruolo,
olandesi che cercavano di vendere del fumo, dirigenti che si erano tolti in fretta il
doppiopetto per infilarsi in vecchi jeans ormai stretti, cinquantenni in cerca di reminiscenze
giovanili. Una volta tanto i ragazzi della nostra età erano in minoranza, quasi assenti: era
un enorme e pacifico assembramento di dinosauri che erano venuti a chiedersi il perché
della loro estinzione, o meglio, il perché del loro presunto fallimento. Era una babele
assordante di interrogativi.
"Siamo divenuti anche noi come quei borghesi bacchettoni che contestavamo nei cortei
dove gridavamo alla rivoluzione totale? Siamo adesso noi quelli da contestare? Perché la
fantasia non è arrivata al potere? Dov’è la saggezza tra un vecchio asceta indiano dalla
lunga barba bianca e un top manager capace di slacciarsi la cravatta al momento giusto.
Non è forse vero che la saggezza varia anch’essa nello spazio e nel tempo? Non è forse
stata una fortuna che la fantasia non sia arrivata al potere? Il potere della fantasia avrebbe
rispecchiato solo una piccola parte della realtà ed avrebbe perseguitato la maggioranza.
Sarebbe divenuta anch’essa una dittatura crudele da contestare. La mia libertà di pensiero
e di individuo la esprimevo indossando un eskimo. Ma oggi sono ancora un individuo
libero in giacca e cravatta? Si può conservare una mente libera in un involucro schiavo
delle convenzioni?"
I cancelli si aprirono e prendemmo posto in quell’arena naturale: noi 15.000 sparsi su per
un’altura del terreno e seduti sull’erba, il palco giù in fondo. Restai frastornato, ma anche
attratto da quel popolo. Non solo perché avevano fatto il mitico ’68, ma per quello che
erano adesso, con le loro umane contraddizioni e i loro interrogativi senza risposta. Anche
loro, come noi, bussavano alle porte del cielo nell’attesa della Conoscenza, della
Percezione, di una semplice risposta. Erano nostri compagni, compagni nella ricerca di
una risposta che ci si rivelerà solo quando quelle porte si sarebbero spalancate e noi
avremmo varcato la soglia. Ma una volta varcata quella soglia, se esiste, a cosa ci servirà
allora la Conoscenza? La Conoscenza ci resterà preclusa e questo certamente rende la
nostra esistenza limitata, ma il solo fatto che siamo qui, a picchiare a queste porte,
bramosi di Conoscenza, quasi petulanti, non ci rende forse degli Esseri migliori ed, in
questo caso, più vicini all’Uomo della Conoscenza e lontani mille miglia dai primati di
2001: Odissea nello Spazio? Oppure: non è forse il cammino verso la Conoscenza, la sua
ricerca e le esperienze che si accumulano lungo il percorso, la vera Conoscenza?...
Capitolo 6
Dopo l’estate dei concerti tornavo alla mia amata-odiata scuola. Continuavo a crescere nel
contesto scuola con la mia indole incerta e volatile: alternavo momenti di euforia e
riconoscimento verso l’istituzione scuola e la sua funzione, a momenti di sconforto di
fronte alla burocrazia, alla sua dispersione di energie e alla sterilità ed inefficacia di certi
programmi ministeriali. Come il solito cercavo spesso la solitudine per rifugiarmi nelle mie
letture che mi caricavano ed avvallavano quel mio impegno da studente rivoluzionario dal
sapere un po’ libresco e stereotipato. M’infilai i miei occhialini alla Lennon e, in una sorta
d’autoidolatria pagana, mi crogiolai nella mia immagine di ribelle mentre mi esercitavo nel
confronto con gli altri. E poi potevo considerarmi fortunato rispetto ai miei compagni di
classe: non avevo grossi problemi con lo studio, riuscivo a conseguire un profitto più che
accettabile nelle varie materie senza peraltro faticare molto. I miei problemi, casomai,
erano tutti inerenti alla condotta e alla disciplina a cui non volevo piegarmi. Insomma, ero
divenuto un rompiscatole. Ma questo mi permetteva anche di avere una duplice merce di
scambio col professore di turno all’interno della classe: visto che avevo una discreta
preparazione ma anche che le mie spigolosità e continue provocazioni disturbavano il
normale andamento delle lezioni, i professori non si sentivano in obbligo di trattenermi
quando uscivo dalla classe per non rientrare più. Anzi, erano felici di essersi liberati di me.
Loro non cercavano di capire il mio disagio e la mia aggressività ed io li lasciavo al loro
quieto vivere: era un tacito accordo che comunque resse solo dopo molte prove di forza. A
volte scomparivo dalla prima ora per rientrare all’ultima avendo pero' in ogni caso sempre
l’accortezza di rientrare all’inizio d’ogni ora, almeno per farmi vedere dal prof di turno: si lo
so, avevo strani ritorni di buone maniere. Questa posizione di potere e il mio conseguente
comportamento da furbo bulletto erano ovviamente una chiara mancanza di rispetto sia
verso i professori sia verso i miei compagni di classe. Ma io non sapevo che farmene di
rigide lezioni a norma di programma ministeriale, di materie tecniche che non avevano
nessun contatto con il nostro futuro lavorativo, di materie letterarie che ci venivano
insegnate in maniera nozionistica come per rispondere ad un quiz del giovedì sera
televisivo, della materia ITALIANO che non stimolava il ragionare con la propria testa e
trascurava autori contemporanei, della materia STORIA che veniva insegnata come una
serie di fatterelli trascurando anche qui il confronto critico con la storia ufficiale (ancora nel
1990, secondo il mio libro di testo della maturità, veniva avvalorata la tesi ufficiale secondo
cui JFK fu senza ombra di dubbio assassinato da un pazzo solitario e comunista di nome
Lee Harwey Oswald!!!)
Ovviamente giocavo anche con la mia vanità adolescenziale a fare l’indifferente, il duro, il
ribelle della classe. Quelle continue latitanze dalla classe pero’ non erano solo fine a se
stesse, avevo iniziato a cercare altri luoghi ed espressioni della scuola che mi
permettevano nuove sperimentazioni: le contrapposizioni della Presidenza, la bagarre
delle riunioni dei rappresentanti di classe, i flirt con le ragazze per i corridoi.
Così, una volta avuta la meglio all’interno della classe, mi misi in cerca della mia nuova
terra di conquista. Era come una scalata al potere in un continuo gioco al rialzo. Spostai il
confronto nella cerchia più ristretta dei Rappresentanti di classe, dove si giocava con la
capacità d’imporsi agli altri e si misurava il proprio ascendente in cerca della leadership.
La conquista del consenso allora, a differenza della politica dei grandi, era un gioco pulito
basato su un reale confronto dialettico e nel rispetto delle regole. Quel gioco non poteva
che piacermi e presto n’assimilai i fondamenti: parlavo in pubblico sciorinando belle parole
e cercando di affascinare. Ma una volta conscio dell’ascendente che potevo avere sugli
altri fui anche accorto a dichiararmi sempre per ultimo e a scegliere con discrezione.
E di nuovo mi ritrovai ad osservare e a cercare di capire…
Scoprii che non tutti erano lì presenti perché volevano partecipare attivamente a un
miglioramento, a un cambiamento. Erano i soliti furbi che si erano infiltrati tra noi solo per
avere più tempo libero dalle lezioni: li notavi subito questi fighetti seduti in disparte che
leggevano il giornale, ignorando le nostre discussioni e facendosi quasi beffa del nostro
impegno. Ma a quanti di questi fighetti disinteressati ci saremmo ricordati in futuro?
Fighetti superficiali godono di momentanea popolarità giovanile, ma poi scompaiono nei
meandri delle difficoltà della vita.
Invece quanti di noi pseudo tribuni idealisti, capipopolo intransigenti e ribelli invece si
sarebbero trasformati, una volta adulti, in docili impiegatucci disposti ad ingoiare il rospo
davanti al dispotico capoufficio? Oppure quanti di noi sarebbero divenuti quel capoufficio,
servile col padrone e sferzante con i sottoposti? Quanti di noi avrebbero tradito la loro
giovinezza classificandola solo come un’epoca in cui si è sognato l’irrealizzabile? Quanti
sarebbero cambiati senza evolversi? Quanti invece sarebbero stati capaci di maturare,
accrescersi ed arricchirsi culturalmente coltivando e conservando quello spirito giovane ed
il rispetto per esso?
Noi, in ogni caso, in quel consesso sognavamo e progettavamo la nostra scuola ideale,
così come la volevamo noi.
Vogliamo una scuola e un’istruzione in funzione e a dimensione dello studente.
Vogliamo una scuola che ci fornisca solo gli strumenti d’analisi: coscienza e cultura critica
non si possono insegnare ad una classe intera, è un percorso individuale.
Vogliamo una scuola che ci sostenga ed affianchi nel formarci come cittadini liberi e
sovrani.
Vogliamo una scuola che tenga conto delle nostre individualità, che c’insegni a guardare
oltre i pregiudizi e le apparenze.
Vogliamo una scuola che ci fornisca attrezzature tecniche e libri di testo all’altezza dei
tempi.
Vogliamo una scuola che tenga contatto ed interagisca con aziende e realtà locali.
Vogliamo una scuola che c’insegni il metodo, l’approccio e la disciplina alle singole
materie, perché una volta imparati resistono al logorio del tempo e si applicano facilmente
in tutti i campi della vita, formulette imparate a memoria invece si dimenticano in fretta.
Invece la scuola continuava a sfornare appiattiti diplomati educati alla sufficienza e allo
studio nozionistico. È vero anche che già allora (ed ancora) l’istituzione scuola doveva
combattere con i problemi del quotidiano: bilanci in rosso, programmi da rispettare,
strutture che necessitavano di continue manutenzioni. Queste continue distrazioni
amministrative ovviamente affievoliscono il potenziale della scuola, non la mettono in
grado di operare serenamente e finiscono per mettere in secondo piano le sue più
profonde ed elevate finalità educative. Maggiore sarà l’investimento che lo Stato farà
nell’istruzione e quindi nei giovani, maggiore sarà la possibilità di elevare il benessere
generale della nazione. Benessere non è solo ricchezza economica ma anche ricchezza
culturale. E maggiore cultura vuol dire anche maggiori capacità di creare: creare quindi
ricchezza economica, ma creare anche basi per una società meno sbilanciata e meno
cannibale. Quindi alla fine avremo anche un ritorno economico dell’investimento iniziale. È
un cerchio che si chiude da solo che non aspetta altro che una consistente spinta iniziale.
E così, armato di quell’ingenuità ideale che solo a quell’età si può avere, pensai di aver
trovato i mali della scuola (o del mondo?) e quindi, ero di nuovo punto e daccapo: ancora
una volta infilai l’armatura e mi tramutai in un Don Chisciotte qualsiasi che combatteva i
suoi mulini a vento. In un mondo in cui noi giovani non avevamo grossi ideali da
perseguire io avevo trovato la mia causa ma non ancora un avversario con cui lottare. Ma
alla fine trovai anche quello.
Il preside Carmine Cellase era un fregno buffo prossimo al pensionamento che non voleva
altro che quieto vivere fino al giorno del suo collocamento a riposo. Dalla sua età dedussi
che il movimento del ’68 lo aveva sorpreso già nel ruolo d’insegnante e sono sicuro che
aveva assistito a quel sogno con indifferente sufficienza. Era della vecchia scuola fatta di
disciplina e studio, di ruoli ben definiti e regole da rispettare. Nascondeva i suoi occhietti
da pazzo furioso dietro a lenti spesse un dito e, lui stesso, si nascondeva dietro a forbite
citazioni in latino che pretendeva fossero capite al volo, dimentico del fatto di essere in un
Istituto Tecnico e non in un Liceo classico.
Tastai il terreno molto discretamente per conoscere l’avversario e la sua forza, poi,
appena ci odorammo capimmo di non piacerci. Purtroppo le potenzialità del confronto che
si andava delineando furono già dimezzate in partenza: c’era sospetto e circospezione ma
soprattutto un rapporto di potere sbilanciato che veniva costantemente sottolineato. Io mi
cinsi dell’alloro imperiale e divenni contemporaneamente l’ideologo, lo stratega e il
generale che doveva abbattere il vecchio modo di fare scuola; lui si sentì attaccato nelle
sue certezze, nell’opera di una vita intera, e vi si pose ad estrema difesa. Vide in me la
solita testa calda (cosi mi definiva), forse un po' più motivato, ma che era pur sempre uno
studente che doveva fare i conti con il profitto e le sanzioni disciplinari e che quindi, alla
fine, sarebbe rientrato nei ranghi. Quel confronto divenne quindi l’ennesima replica della
mia prima impresa eroica: la ribellione a mio padre. E, purtroppo, divenne altrettanto aspro
e disperato. Fu un tragico susseguirsi d’impuntature, minacce, sospensioni ed avvilenti
incomprensioni: non sarebbe uscito nulla di buono da quello scontro. Avevo chiesto degli
incontri mensili tra alunni e professori all’interno d’ogni classe in modo da poter discutere
nuovi approcci alle singole materie, difficoltà dei vari argomenti e sistemi gerarchici più
funzionali. Volevo solo far scendere l’istituzione scuola dal suo piedistallo e farla sedere
con noi tra i banchi. Ma quei colloqui potevano diventare un gioco pericoloso per la scuola:
si sarebbero messi in discussione molti aspetti dell’insegnamento e questo non poteva
essere tollerato da persone che avevano la presunzione di aver creato un sistema
pedagogico che ormai funzionava da anni. Senza calcolare che per molti professori non
sarebbe stato piacevole mettere a nudo i loro metodi e debolezze di fronte ai colleghi.
Chiesi collaborazione ed ebbi contrapposizione. Inutilmente avevo cercato di arrampicarmi
sugli specchi e, alla fine, ormai deluso, logoro, spossato e a pochi mesi dalla Maturità,
deposi le armi, mi dimisi dal mio ruolo d’ammutinato e passai il testimone alla prossima
generazione, speranzoso che loro avrebbero saputo fare di meglio. Quel primo grande
scontro con un’istituzione dello Stato comunque lasciò il segno: in futuro avrei sempre
diffidato di burocrati che arroccati nei loro posti di potere si prendono troppo sul serio e
che si negano ad un confronto paritario e civile. Certo, non ero un tipo facile da
maneggiare: ero stato irruente, polemico e poco diplomatico, ma credo che la giovane età,
l’inesperienza e soprattutto la buona fede possano giustificare il mio comportamento. Da
non giustificare invece fu il comportamento del mio contraente: il pedagogo, l’educatore
era lui, quindi stava a lui capire il mio dissenso ed aiutarmi ad incanalarlo in argini e forme
più consone. Questo avrebbe richiesto una mente flessibile, aperta ed autocritica che
avrebbe rinunciato alla sua posizione di potere per divenire traghettatore e mediatore in un
confronto tra Istituzione ed Utenti che alla fine avrebbe potuto essere proficuo per
entrambi.
Capitolo 7
Valentina, la mia vicina di casa, intanto continuava ostinatamente a rifiutare le attenzioni
dei ragazzi. Aveva cambiato qualche ragazzo, niente di particolare, niente di travolgente.
In una sorta di gioco voyeuristico, mentre entrambi crescevamo, continuavo ad osservarla,
appagando la mia egoistica bramosia di conoscenza dell’Uomo, qui in versione con
gonnella. La osservavo sempre lì al solito posto, sotto la mia finestra all’angolo della
strada. Si vedeva con questo suo nuovo flirt già da un pezzo. C’era qualcosa di nuovo nel
suo comportamento: a tratti sembrava più accondiscendente, ma era ancora dibattuta tra il
cedere alla propria voglia di carezze e al restare ancora in trincea, a lottare. Usava ancora
la sua cattiveria, anche se era divenuta più sottile. A tratti voleva smetterla di ferirlo, di
trattarlo male, ma era più forte di lei: lo sapeva indifeso ed innamorato, e una volta che
aveva iniziato ad impuntarsi su una qualsiasi stronzata non poteva smettere. Glielo
imponeva il suo orgoglio e poi sarebbe sembrato una debolezza, uno scendere a patti con
lui, un esporsi anche suo ai sentimenti. Valentina aveva la mano sul suo petto e poteva
sentire i battiti del suo cuore. Batteva forte. Era compiaciuta, eccitata nel sentire il suo
battito accelerato, mentre faceva la cattiva. Le procurava uno strano piacere farlo
arrabbiare: era in suo potere! Valentina scoprì allora per la prima volta il sapore di quel
potere: ne godé e ne fu compiaciuta, ma quel attimo fu anche il fondamento di chi in futuro
avrebbe imparato ad abusare di quel potere per scopi diversi dall’amore... ma questa è
un’altra storia.
Poi all’improvviso si strinse forte a lui. Era stufa di quel continuo gioco che lei stessa aveva
creato. Voleva dirgli quanto era importante per lei, che aveva una gran paura di rovinare
con il suo maledetto orgoglio quel loro rapporto allo stato nascente.
Ormai lo aveva umiliato già una volta di troppo e non aveva più il coraggio di parlare. Si
strinse ancora più forte. Guardò le sue mani immobili: adesso avrebbe voluto che quelle
mani la stringessero e magari salissero su per il suo corpo.
Ma Valentina era incapace di chiedere, ed ormai era tardi. Lo aveva già perso. Lui già
pensava a dimenticarla…
Era l'estate dell'ottantanove. Per me ed i miei ragazzi fu l'ultima estate felice, spensierata
ed innocente. Per il resto del mondo invece, l'ottantanove fu un anno sconvolgente, pieno
d'emozioni e cambiamenti radicali. L'anno dei cambiamenti per antonomasia. Il
comunismo come modello sociale stava disgregandosi. I metodi del socialismo reale, la
dittatura del proletariato e del partito unico sembravano ormai inconciliabili con il libero
mercato sempre più in espansione, la diffusione in tempo reale delle informazioni e quindi
della democrazia. I popoli dei paesi dell'Est avevano fame e volevano anche loro una fetta
del benessere occidentale. Gli apparati di stato erano alla bancarotta da un pezzo,
glasnost e perestrojka fecero il resto. I Paesi del Patto di Varsavia in quell’anno, alcuni
pacificamente altri meno, transitarono verso la democrazia. In Novembre il Muro di Berlino
fu preso d'assalto e buttato giù a picconate. La Cortina di Ferro non esisteva più.
Così la Storia si era presa la sua rivincita sull'Utopia. Una rivincita tragica ma necessaria
ed inevitabile. Nonostante il divario evidente tra realtà ed utopia, restai con il dubbio: la
fine dei sistemi comunisti fu causata dalle degenerazioni e dal culto della violenza di
personaggi come Mao e Stalin? Dalla loro incapacità di applicare il "metodo" al continuo
sviluppo economico e alle esigenze di libertà individuale? Oppure da un vizio d'origine
intrinseco alla dottrina stessa? Oggi diremmo che i signori sopra citati non si sono
preoccupati di scaricare sempre l'ultimo update. Hanno installato alla lettera solo il
programma originario (l'ideologia), poi si sono scollegati dal resto del mondo e s’illusero di
farla franca. Non essendo in rete pensavano d’essere immuni da virus, spyware, troiani e
via dicendo. Ma anche un sistema chiuso e scollegato dal mondo può crollare. I signori
avevano dimenticato che esistono gli UTENTI! Un qualsiasi pirla ed utente Windows
d’oggi, quindi doppiamente pirla, non avrebbe fatto certo lo stesso errore.
In ogni caso non riuscivo a credere che dopo 5000 anni di Storia l'Uomo non avesse
partorito altro che due topolini. Due massimi sistemi sociali, uno contrapposto all'altro,
entrambi ai due estremi. Sono sicuro che anche il nostro tanto amato sistema
democratico-capitalistico-consumistico in futuro sparirà. È solo una questione di tempo
finché tutti i nodi vengano al pettine, finché la maggioranza della popolazione mondiale si
renda conto e si stufi d'essere la fonte della ricchezza di una minoranza. La democrazia è
un bene caro e sacro e va difeso a tutti i costi, ma è democrazia vera solo se le nostre
libertà non vanno ad intaccare quelle altrui e se il nostro benessere non va a scapito di
persone o popoli terzi. Il benessere di pochi sarà la fine del nostro sistema. E poi,
proviamo ad essere onesti: cosa abbiamo fatto della nostra civiltà?
Esseri indaffarati a rincorrere un presunto benessere misurato in beni di consumo e
denaro. Un’orda di barbari incapaci di controllare la propria bramosia di potere, e pronti a
bombardare il nostro vicino solo perché crediamo che il nostro sistema sia migliore o,
meglio ancora, perché abbiamo disperato bisogno di un combustibile fossile che rende il
nostro benessere ancora più benessere ed il nostro pianeta ancora più sudicio. Certo,
siamo passati dalle palafitte ai grattacieli: ci siamo dati abitazioni calde ed accoglienti,
regole di convivenza, ma nell’animo restiamo dei barbari che dopo tanto correre si
ritrovano in un vicolo chiuso e non si rendono ancora conto che le opzioni, le vie d’uscita
sono finite da un pezzo…
Ma torniamo a quell’ottantanove: mentre in Polonia si celebravano le prime elezioni
democratiche, in Cina l'apparato di partito non aveva nessuna voglia di passare il
testimone. Gli eccidi di piazza Tienanmen e quelli che seguirono sono ancora oggi una
ferita aperta della nostra storia recente. Chi non ricorda l’immagine dello studente che si
confronta con il carro armato nella notte di Pechino...
L'Italietta di provincia invece non poté offrire altrettanta vitalità. Tra l'indifferenza generale,
13.000 operai degli impianti siderurgici di Bagnoli furono messi sulla strada. Mentre il
popoletto si nutrì dei gialli attorno all'uccisione di un ex Presidente delle Ferrovie e alle
lettere anonime di un corvo in procura a Palermo, la politica si limitò alle solite beghe
interne del "pentapartito": cambio ai vertici DC ed il nostro buon vecchio Giulio instaurò il
suo Governo numero sei…
Liberi, Liberi... Santo era il figlio di un esponente politico locale dell’opposizione. Santo era
la croce di suo padre e la delizia dei cronisti del pettegolezzo locale. Il padre era un
signore sobrio, gentile e silenzioso, fiero delle sue origini proletarie, di quello che aveva
raggiunto, del suo studio pieno di libri e abbellito solo da una mediocre riproduzione ad
olio del Quarto Stato di Volpeda. Non aveva nulla in comune con la politica d’arrembaggio
e scostumata di quegli anni. Santo invece era sempre all’arrembaggio, mai sulla difensiva.
Vestiva in maniera incurante, un po' da punkettaro di provincia, esibiva capelli lunghi,
trasandati, e modi da duro inattaccabile. Dietro quell’involucro si celava un ragazzo
dall’intelligenza viva, curiosa, ma anche cinica e realista. Si rapportava agli altri in un
modo tutto suo. Era un rapporto basato sul sarcasmo: nel suo discorrere c’era un’aria
canzonatoria, di beffa amara che spesso indispettiva l’interlocutore. Be’, così era fatto in
nostro Santo...ma quando avevo bisogno di tirarmi un po’ su, sapeva essere un’ottima
medicina e quando avevo bisogno di evasione dal gruppo era lui la mia preferita.
Insomma, era uno dei personaggi del paesello che emergeva dalla folla piatta e liscia che
mi circondava. C’incrociavamo e, se non si presentava già con qualche estrosa idea per
vivacizzare la serata, organizzavamo qualcosa. Poi ci perdevamo tranquillamente di vista
per un po’, sapendo in ogni caso di poter contare sull’altro, anche se non si condivideva il
quotidiano.
E anche quella sera di luglio si presentò con una delle sue: Vasco, profeta rockeggiante
della nostra inquietudine già dai tempi di Albachiara e Siamo solo noi, dava un concerto
all’ippodromo di Agnano, Napoli. Bene, anzi benissimo, me lo sarei fatto volentieri un
concerto di Vasco, ma erano le sette ed il concerto iniziava alle otto. In un'ora dovevamo
giungere a Napoli, da lì spostarci ad Agnano e poi procurarci il biglietto. Tutto questo
senza nessun mezzo di locomozione dato che avevamo a malapena la somma per i
biglietti d’entrata. Per nostra fortuna avevamo almeno qualcosa da fumare. Gli pronosticai
un misero fallimento dell’operazione, ma qualsiasi avventura a quell’ora della sera era
benvenuta e sicuramente molto più allettante di fronte al nulla del paesello.
Dieci minuti dopo eravamo al casello dell’autostrada alzando il nostro pollice destro. Dopo
un po’ accostò una grossa berlina. Un tipo tutto schizzato in giacca e cravatta c’esortò a
salire in fretta e ripartì come un razzo. Ci raccontò di essere un impiegato di una fabbrica
del circondario e che il capo gli aveva affidato dei documenti che dovevano essere
consegnati a tutti i costi al Centro Direzionale di Napoli per le otto. E per fare più in fretta
gli aveva dato le chiavi della sua vettura. Bingo! Adesso sì che eravamo a cavallo:
eravamo nelle mani di un pazzo furioso in vena di compiacere il capo e alla guida di una
potente berlina che non aveva mai guidato. Non ci restò che allacciarci la cintura di
sicurezza. Venti minuti dopo, un po' frastornati ma in perfetta salute, ci fece scendere
all’uscita per Agnano dove non fu difficile proseguire con altri ritardatari di passaggio. I
bagarini evidentemente aspettavano molti più clienti: a dieci minuti dall’inizio del concerto
trovammo ancora un paio di biglietti a prezzi abbordabili. Rollammo le nostre canne in
fretta e n’accendemmo una mentre superavamo il controllo biglietti. Era l’anno del tour
Liberi, Liberi e Vasco era lì, sul palco, a portata di mano…
Il signor Michele era cresciuto in campagna dove aveva imparato il valore dei frutti della
terra, del denaro e del sacrificio che lo produce. Aveva lavorato sui campi per finanziarsi lo
studio, ed ogni mattina inforcava la bicicletta per raggiungere la scuola che distava una
ventina di chilometri da casa sua.
Quando agli inizi degli anni '70 nacque sua figlia Tina, il signor Michele era uno stimato
tecnico industriale all'interno dell'universo Alfasud. Da un po' di tempo però stava
coltivando l'idea di lasciare il pane sicuro per mettere su una di quelle piccole aziende
dell'indotto automobilistico che in quegli anni spuntavano come funghi. Sapeva che poteva
contare suoi contatti che aveva all'interno dell'azienda, ma non s'illuse, sapeva bene che
sarebbe stata una lotta al ribasso dei prezzi e che si sarebbe messo da una dipendenza
all'altra, da dipendente a fornitore esterno, alla merce di quella Grossa Casa Madre che
dava e toglieva lavoro e commesse a piacimento: "Dopo di te c'è sempre un altro disposto
a produrre al prezzo imposto“. C'era il rischio di divenire una di quelle piccole ed
insignificanti rotelle del grosso Meccanismo che, sfruttate, dovevano a loro volta sfruttare e
sottopagare i propri dipendenti.
Tina non era stata prevista dai suoi genitori e non rientrava nel progetto di quegli anni
confusi. La famiglia fu colta di sorpresa. Avevano un maschietto ed il tempo e le attenzioni
erano già insufficienti per lui. Erano in piena fase d'avvio delle loro nuove vite lavorative da
piccoli imprenditori, non c'era posto per un altro bambino. E poi, tra i genitori, era appena
iniziato quel lento scricchiolio che si sarebbe protratto per anni. Cosi Tina si ritrovò in una
famiglia piena di tensioni che spesso litigava. E come ogni bambino pensava d’essere lei
la causa di tutto. Ogni litigio era l'occasione per sentirsi colpevole. Aveva paura Tina: era
piccolina e non capiva cosa succedeva, ma pensava "…gridano perché ci sono io…",
quindi "…non dovrei essere qui…", quindi "…io sono colpevole". Crescendo imparò che
doveva essere sempre gentile e disponibile e, soprattutto, imparò a non attirare
l'attenzione. Imparò ad essere sempre attenta alle esigenze dei suoi genitori e del fratello
e a non deluderne mai le attese. In seguito fu anche investita di un ruolo di responsabilità
che non aveva niente a che fare con la sua età. Si occupava del fratello maggiore, della
casa e, quando venne, anche della sorella minore. Sarebbe andato qualcosa storto
sapeva che i genitori si sarebbero rivolti in prima istanza a lei. Imparò presto a sapersi
destreggiare in situazioni difficili e conflittuali che iniziò a considerare una sfida. Sentiva
l'obbligo di risolvere ogni problema che la circondava. Non sapeva dire di no. Tutto questo
ovviamente avrebbe anche influenzato la sua futura vita sentimentale. Avrebbe sempre
attirato uomini problematici, presi più da se stessi ed incapaci di mostrarle attenzioni
emozionali. Tina avrebbe sempre cercato di giustificare il partner, adattandosi alle sue
esigenze e non manifestando le proprie, sperando di venir amata un giorno, così come lo
sperava da bambina…
Tina, la sua famiglia e la loro piccola azienda si trasferirono al paesello alla fine degli anni
'80. Tina era allora una sedicenne con un viso ancora da ragazzina pulita, un sorriso
solare, capelli nerissimi, lineamenti fini ed un corpo esile ed asciutto in transizione tra
innocenza e peccato. Insomma, il paesello aveva una nuova ragazzina di cui innamorarsi.
Nuove ragazzine non passavano inosservate al paesello. Provincialotti gioiscono sempre
in modo eccessivo e pittoresco per delle novità, ancor più se si tratta di novità in carne ed
ossa. Tina fu subito circondata dai soliti ragazzi perbene e splendidi in vena di facili
conquiste: ragazzi che spruzzavano di salute, gioia di vivere, voglia di divertimento,
superficialità, piattezza. Ma Tina si muoveva leggiadra, volava come una farfallina e
sembrava distaccata e anche un po' imbarazzata da tutto quell’interesse.
Ovviamente anch'io la notai. Mi tenni in disparte: non volevo essere un dei tanti nella folla,
ma ero anche un po’ da tutti quei tipi sorridenti che la circondavano. Allora io ero tutto
preso dal mio periodo esistenzialista (sic!!). Ero malinconico, riflessivo, lunatico, amante
degli eccessi e perennemente sballato. Questo però non m’impedì d’iniziare a corteggiarla
a distanza, solo con lo sguardo. Fu un gioco innocente, solo tra di noi. Per quanto fossimo
circondati da amici, gente o folla qualsiasi, i nostri occhi si corteggiavano. All'inizio con
discrezione, inseguito in modo sempre più evidente. Non ci conoscevamo, non avevamo
mai scambiato una parola, ma sapevamo, o almeno credevamo, di appartenerci. Era quasi
un appuntamento fisso che ci davamo la sera in piazza: ricordo che a volte costringevo i
miei ragazzi a passare un paio d’ore al paesello solo perché io potessi vederla. Lascio
all'immaginazione del lettore i commenti sarcastici dei miei ragazzi: per un convinto single
misogino mi stavo rivelando maledettamente ed esageratamente romantico!
Poi finalmente, nel giugno di quell’anno, distribuendo un volantino con le mie riflessioni su
Tienanmen e sul futuro del comunismo, me la trovai di fronte. Non ricordo, ma
conoscendomi, sono sicuro d’averla assillata con i problemi di transizione tra il vecchio
comunismo e un nuovo mondo social-comunista(!!). Ascoltò attentamente. Rifletté un po’,
capì e decise di assumere il comando: "Baciami imbecille! Il tuo mondo adesso sono io." E
così fu.
Tina mi avrebbe accompagnato in modo discreto e paziente per quattordici anni. Oggi
spero che, nonostante la catastrofe in cui la coinvolsi, non abbia mai maledetto quella sera
d’estate dell’ottantanove…